Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

317

description

romanzo

Transcript of Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Page 1: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei
Page 2: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei
Page 3: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Verona, 1328. Corrado da Romano, erede di Ezzelino e consigliere di Cangrande della Scala, ha organizzato con cura l’incontro segreto. Allo scoccare della mezzanotte, nove uomini avvolti in mantelli scuri, il volto nascosto da cappucci, si incontrano nei pressi della porta di San Zeno, controllata dalle guardie più esperte e fidate della città. La segretezza è necessaria, perché durante quella notte i presenti dovranno organizzare una pericolosa congiura: porre fine al dominio dei Bonacolsi a Mantova.Così, pochi giorni dopo la riunione notturna, con l’aiuto di Corrado, cresciuto fin dall’infanzia per essere la lunga mano di uomini tanto potenti da essere considerati degli dei, i Gonzaga cercheranno di impadronirsi della città di Mantova all’alba di un torrido 16 agosto.Per Corrado questa è solo una delle molte operazioni che lo hanno portato ad avere la fiducia e l’amicizia di personaggi come Matteo Visconti, Luigi Gonzaga, Jacopo da Carrara ed Enrico, conte di Gorizia e del Tirolo. Ma essere un cavaliere aurato, avere fama, ricchezza e successo, non vuol dire essere felici e Corrado non lo è pienamente. Desidera conservare l’onore della sua stirpe, vivere in pace e trovare l’amore. Per ottenere tutto ciò dovrà lottare a lungo, affrontando indomito guerre, prigionie, pestilenze e duelli all’ultimo sangue.

Page 4: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Marco Salvador

È nato a San Lorenzo, in provincia di Pordenone, nella casa in cui vive tutt’oggi. Ricercatore storico, per professione e per passione, con un interesse particolare per il Medioevo, è autore di numerosi saggi. Per Piemme ha pubblicato: Il Longobardo, La vendetta del Longobardo, L’ultimo Longobardo e La palude degli eroi.

Page 5: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

L’EREDEDEGLI DEI

Page 6: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

MARCO SALVADOR

L’EREDEDEGLI DEI

PIEMME

Page 7: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl - Cormano (MI)

Scan e Rielaborazionedi Purroso

I Edizione 2010

© 2010 - EDIZIONI PIEMME Spa 20145 Milano - Via Tiziano, 32 [email protected] - www.edizpiemme.it

Page 8: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Si colpiranno i fratelli

e si daranno la morte l’un l’altro.

I cugini spezzeranno

i legami di parentela.

Feroce è il mondo,

grande l’adulterio.

Tempo di asce, tempo di spade,

gli scudi si fenderanno.

Tempo di venti, tempo di lupi,

prima che il mondo crolli.

E non un uomo

un altro ne risparmierà.»

Völuspà, La guerra degli dei, 45

Page 9: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

FRAGMENTA EPHEMERIDIS

A.D. 1328

Ossia brani tratti dai diari di chi scriveposti qui a modo di sua presentazione

quando egli era un giovane uomoe aveva a che fare con gli dei.

Page 10: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Povegliano, XXVI giorno di luglio

[…]L’appuntamento era nei pressi delle sorgenti del fiume Tartaro, dove la

strada lascia i pascoli assolati per ridursi a sentiero e la vegetazione infittisce fino a diventare un bosco paludoso e oscuro. Dove un antico olmo, tempio d’un dio dimenticato, affonda le radici nell’acqua sorgiva e incombe su un’edicola dedicata a san Cristoforo.

Il baio di fra Tebaldo brucava libero lungo il ciglio di un ruscello, la bianca croce dei Cavalieri Ospitalieri dipinta sulla groppiera scarlatta. Legai il mio palafreno a un acero e cercai con lo sguardo il precettore di Valeggio. Vidi i suoi piedi sporgere dall’edicola e mi avvicinai cauto, pronto a mettere mano alla spada temendo fosse stato vittima di un qualche tradimento. Invece stava pregando, in ginocchio, e dovetti attendere il tempo di una Salve Regina prima che si alzasse. Uscì ripulendosi le brache dalla polvere e subito chiese: «Come sta Cangrande, messer Corrado?».

Sono abituato ai modi bruschi di fra Tebaldo e alla sua apparente rozzezza, e anch’io omisi i convenevoli: «La salute è ottima, monsignore. Però, fra le tante preoccupazioni, ora ha pure il motivo di questa vostra urgente e segreta convocazione…»

Era circa il mezzodì. Una lama di sole s’incuneava tra le fronde più alte dell’olmo colpendo fra Tebaldo in viso e obbligandolo a strizzare gli occhi. M’indicò un tronco abbandonato all’ombra di un alto sambuco: «Andiamo là e capirete sia l’urgenza sia la segretezza». Una volta seduti l’uno accanto all’altro sulla corteccia umida e muscosa, aggiunse: «Quali sono le ultime informazioni giuntevi da Mantova?».

«Passerino Bonacolsi governa con mano pesante e il popolo mugugna per le troppe gabelle. Nulla di nuovo.»

«E di Francesco, uno dei figli di Passerino?»«Dispotico e arrogante. Al solito.»«Allora dovreste cambiare informatori.»

Page 11: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Perché dite questo, monsignore?»«Una settimana fa è accaduto un fatto molto grave, eppure non vi è

stato riferito. Evidentemente le vostre spie non conoscono la parabola del grano di senape. “Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo si annidano fra i suoi rami.” A Mantova, un seme altrettanto piccolo è appena stato gettato su terra fertile. Ed è seme maligno.»

«E secondo voi germoglierà in fretta?» domandai.«Rapido come il luppolo a primavera.»«Un seme gettato da Francesco?»«Da lui, da chi spreca la vita in cacce, balli, canti e soprattutto

insidiando donne senza badare a età, condizione e ceto. Ultimamente si è invaghito di una certa Martina, la figlia quindicenne di un mercante di spezie. Il fatto è che sulla stessa fanciulla aveva posato gli occhi pure Filippino, il secondogenito di Luigi Gonzaga. Così, martedì scorso, uscendo da casa con suo fratello Giovanni, indegno abate di Sant’Andrea, Francesco Bonacolsi ha scorto Filippino Gonzaga attraversare la piazza per recarsi al palazzo del Capitano assieme ad Alberto di Saviola. Indispettito per la faccenda della fanciulla, gli è andato incontro tracotante e lo ha apostrofato con queste parole: “Filippino, ti conviene lasciar perdere Martina. Se continui a molestarla, dovrai pentirtene amaramente”. L’altro ha chiesto stupito: “Perché, amico mio?”. E Francesco: “M’infilerò nel letto di tua moglie, visto che lei non aspetta altro”. Dopo un attimo di smarrimento, incredulo e pallido come un morto per l’oltraggio, Filippino ha ribadito: “Francesco, non ti fanno onore parole tanto offensive e volgari. Le riferirò a tuo padre, e mio signore”. Francesco gli ha riso in faccia, dicendo: “Fai quello che ti pare, ma non scordartelo: la tua Anna mi attende a gambe larghe! A quel punto Alberto di Saviola, amico fraterno del Gonzaga, ha sguainato la spada e se Filippino non l’avesse trattenuto si sarebbe gettato su Francesco. Appena i due Bonacolsi si sono allontanati ridendo sarcastici, Alberto ha insistito furioso. “Amico mio, uccidi quella canaglia! Devi lavare l’onta con il sangue!”. Nonostante fosse talmente sconvolto da tremare, Filippino ha ribadito: “No, non ora. Verrà il giorno della vendetta. Presto, stanne certo”. Ma Alberto di Saviola non gli ha dato ascolto e verso sera si è presentato a palazzo Bonacolsi per sfidare Francesco a duello, È stato cacciato dai servi in

Page 12: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

modo indegno, senza neppure essere ricevuto come impongono non solo le regole della cavalleria ma anche quelle della buona creanza.»Fra Tebaldo s’interruppe e abbassò lo sguardo su due calabroni posatisi a neppure un palmo dal suo alluce. Dovevano avere il nido poco lontano, in qualche albero cavo. Il precettore sollevò piano il piede e li schiacciò entrambi in un sol colpo.La canizie della barba e dei capelli, la rugosità della pelle chiazzata

dalla vecchiaia di macchie marroni, la modestia della tunica e i sandali consumati che è solito indossare quando vuole apparire solo un monaco anziché un cavaliere, possono trarre in inganno. Dietro l’aspetto senile e la sciatteria di fra Tebaldo, in realtà, si nasconde un uomo ancora forte nel corpo, fermo nell’animo e vivacissimo nella mente. Soprattutto quando ci sono di mezzo le situazioni politiche nei luoghi dove l’Ordine ha interessi. Perciò nessuno prende alla leggera le sue parole, tantomeno chi lo conosce bene come me. Ma in quell’occasione ero perplesso, e asserii: «Filippino non conta nulla. Sono suo padre Luigi e suo fratello Guido a decidere ogni cosa e, per quanto mi risulta, la loro fedeltà a Passerino è assoluta. Anche perché gli devono gran parte delle ricchezze e del potere accumulati a Mantova».

«Lasciatemi finire, Corrado. Saputa la cosa, proprio Luigi e Guido si sono recati da Passerino per riferire l’accaduto e reclamare un gesto riparatore, fosse pure una semplice ammonizione pubblica di Francesco. Purtroppo hanno ottenuto solo una nuova e più grave offesa. Passerino ha risposto: “Non scocciatemi con faccende di puttane. Saranno anche il pane quotidiano di mio figlio, ma consigliate a Filippino di badare di più a sua moglie. Ho udito pure io certe chiacchiere su di lei”. Guido e Luigi, esterrefatti, non hanno insistito oltre. Se ne sono tornati a casa folli di rabbia, e questa è mutata di giorno in giorno in un odio mortale. Ormai hanno un unico scopo: vendicare l’onore della famiglia così ferocemente offeso.»

Ero ancora dubbioso. Ovunque ci sono liti a causa di donne. Alle volte gli insulti sono pesanti e provocano qualche duello, ma solitamente l’inimicizia dura il tempo bastante ai contendenti a rendersi conto che è meglio far prevalere gli interessi all’orgoglio. Perciò domandai: «La moglie di Filippino è senza colpe, oppure queste chiacchiere hanno un fondamento?».

Fra Tebaldo mi guardò come se avessi detto un’enormità: «Se Anna da Dovara ha un peccato, questo è solo la sua innocente e straripante

Page 13: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

gaiezza!».«Era solo per chiarire» mi affrettai a replicare. «Comunque, siete certo

delle intenzioni dei Gonzaga?»«Persone molto fidate li hanno uditi con le proprie orecchie asserire di

avere ormai un unico scopo: la rovina dei Bonacolsi. Con qualsiasi mezzo e a qualsiasi prezzo.»

«Ci potrebbero riuscire, secondo voi? Ne hanno realmente la forza?»«Possiedono tanto di quel denaro da potersi comprare l’appoggio di

buona parte dei mantovani. Inoltre, alcune corporazioni e famiglie sono pronte ad aiutarli. Non ne possono più dell’ingordigia di Passerino e delle prepotenze dei suoi figli. Volete qualche nome? Le corporazioni dei mercanti e dei pellicciai, quelle degli speziali e degli orafi. E i nobili Riva, Arlotti, Zanicalli, Casaloldi e Gafarri. Tanto per citarne solo una parte. Persino fra il popolo qualcuno inizia ad avere il coraggio di lamentarsi a voce alta dei Bonacolsi. Sia in piazza sia in Consiglio.»

Cominciavo a essere turbato. A Verona si sapeva di un certo malcontento dei mantovani. Le nostre spie lo attribuivano in parte alle eccessive gabelle e in parte a un’amministrazione della giustizia delegata a funzionari piuttosto corrotti. Nulla, però, sembrava veramente minare il potere di Passerino. Anzi s’invocava una sua maggior presenza nei giudizi e nei Consigli, ritenendo ciò sufficiente a rimettere le cose al loro posto. Insinuai: «Passerino può contare sulla presenza in città di almeno trecento uomini, ottimamente armati e addestrati. Inoltre è vicario imperiale, con molti amici… ultimamente non solo nel partito ghibellino».

Fra Tebaldo mi fissò torcendo la bocca in uno strano sorriso e chiese: «Fra questi c’è ancora Cangrande della Scala, il più potente di tutti?».

Faticai a rimanere impassibile, a non lasciar trapelare la sorpresa per il tono ironico della domanda. Negli ultimi anni i Cavalieri Ospitalieri erano diventati molto potenti, soprattutto dopo aver assorbito parte dei beni confiscati ai Templari. Avevano affiliati, sostenitori, spie e informatori ovunque. Perciò nulla di strano che fra Tebaldo fosse a conoscenza delle perplessità di Cangrande sul comportamento dei Bonacolsi nella guerra con Bologna e nella perdita di Modena. Erano parecchi a chiedersi come mai Passerino, da vittorioso, avesse siglato una pace quasi da sconfitto. Il precettore poteva persino essere stato informato dei sospetti di Cangrande su certe truppe arrivate dal mantovano in aiuto di Padova mentre lui l’assediava. Ma nessuno poteva

Page 14: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

sapere del plico arrivato d’oltralpe solo tre giorni prima e contenente due lettere, una di Enrico, duca di Carinzia, e l’altra proprio di Passerino.

Quest’ultima era in copia, autenticata da tre notai. Leggendola, Cangrande era rimasto prima interdetto poi incredulo e alla fine l’aveva ripiegata con sul volto un’espressione spaventosa. Aveva riconosciuto sempre a se stesso e ai suoi alleati il diritto a un minimo d’infedeltà. Troppo grandi gli interessi, troppo alte le poste in gioco per non permettersi di tanto in tanto un lancio di dadi truccati. Era concesso barare, ma con una regola ferrea: non si doveva mai entrare nel personale, cercare di infangare l’avversario. Invece la lettera di Passerino al duca era colma di livore. Descriveva l’amico e l’alleato di tanti anni a tinte fosche, lo definiva un pericolo per l’impero e il ducato, così ambizioso da sognare di farsi re d’Italia. Sottolineava come Verona fosse divenuta a tal punto ricca e potente da considerare ormai una necessità allargare la propria area d’influenza fino a Trento, persino nella parte meridionale della contea del Tirolo.

Dopo alcuni attimi di silenzio, forse troppi per un così scaltro e attento uditore, risposi evasivo: «Sono alleati».

Fra Tebaldo annuì e sorrise come se avesse avuto conferma di un sospetto. Smise ogni titubanza e disse senza giri di parole: «Allora riferite questo a Cangrande. In nome del Sacro Ordine dei Cavalieri Ospitalieri, io lo supplico di prodigarsi in ogni modo per evitare un bagno di sangue a Mantova. Se un uomo deve sostituire un altro uomo nel governo della città, se così vuole Dio, ciò avvenga con il minor tumulto e il minor spargimento di sangue possibili. In cambio, oltre alle nostre preghiere, avrà il nostro appoggio incondizionato e la nostra protezione. Anche nelle faccende di Padova e Treviso».

Si alzò come se io non ci fossi e tornò all’edicola camminando lento e curvo, la testa incassata nelle spalle e le mani serrate a pugno dietro la schiena. Stette un po’ a fissare lo stinto san Cristoforo dipinto nella minuscola abside e, quindi, tornò da me passandosi stancamente le mani sul volto. Mi alzai anch’io ed egli mi pose la domanda che ormai attendevo: «Corrado, date un consiglio a questo povero vecchio. Se Luigi Gonzaga volesse parlare a Cangrande tramite una terza persona e senza destare sospetti nei Bonacolsi, quale nome dovrei fargli?».

Risposi senza esitazione: «Sua figlia Tommasina è moglie di Guglielmo di Castelbarco, amico e alleato del signore di Verona. Chi vedrebbe

Page 15: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

qualcosa di male in un incontro fra suocero e genero?».Annuì, mi strinse le braccia quasi affettuosamente, e tornando di

nuovo all’edicola borbottò: «Allora dite a Guglielmo di Castelbarco che forse è giunta l’ora di far visita a suo suocero».

Il colloquio era finito. Montammo a cavallo e percorremmo assieme il breve tratto di strada fino a un bivio. Là fra Tebaldo mi benedisse, concedendomi un sorriso aperto e un augurio di buona salute. Io volsi a sinistra per raggiungere la scorta rimasta ad attendermi a Villafranca. Lui a destra, per tornare a Dossobuono dove l’Ordine ha parecchi possedimenti.

[…]

Page 16: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Verona, XXVII giorno di luglio

Ieri sera, mentre gli riferivo dell’incontro di Povegliano, Cangrande non aveva mostrato sorpresa o disappunto per le parole di fra Tebaldo. Era rimasto seduto allo scrittoio, impassibile, lo sguardo fisso sul grande lume a tre becchi che tutte le notti rimane acceso nel suo studio. Gli unici segni di tensione erano uno stringere più forte i braccioli dello scranno, alcuni ripetuti e secchi colpetti di tosse e un tenere la testa leonina leggermente tesa in avanti. Finito il mio rapporto, non aveva chiesto cosa ne pensassi, si era limitato a ordinarmi di tornare il mattino seguente.

Ormai conosco bene Cangrande. Impugna la penna come fosse un aratro, stringendola con tutte e cinque le dita quasi temesse di vederla scrivere da sola cose non volute. Non ama per niente scrittoi e studioli. Perciò, il suo desiderio di stare in quella stanza vicina alla cancelleria per ben due giorni consecutivi svelava una grande inquietudine. Ne ho avuto conferma oggi, cogliendo quel suo certo sguardo capace di trafiggerti come un chiodo. Ed era puntato sui suoi nipoti Alberto e Mastino, eleganti come sempre nelle loro tuniche di seta cerulea, i preziosi pugnali appesi alle cinture d’argento.

Se ne stavano immobili tra il forziere e uno scaffale ricolmo di mappe arrotolate. Appena mi videro sulla porta, ebbero un moto d’imbarazzo e poi mi rivolsero uno sguardo come per richiedere il mio aiuto. Cercai di uscire e attendere fuori la fine della sfuriata, ma Cangrande mi fermò: «Entra, Corrado!».

«Non voglio immischiarmi in questioni di famiglia.»«Non sono questioni di famiglia. Gli informatori dovrebbero essere

faccenda loro e io devo sapere le cose da un vecchio intrigante?»Si alzò dallo scranno e senza smettere di fissarli prese ad andare su e

giù dallo scrittorio alla finestra. Ripeteva irato la parola «incapaci», mentre i nipoti si dondolavano sulle gambe e cercavano inutilmente di dire qualcosa a loro discolpa.

Page 17: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Fra Tebaldo e i suoi possono entrare in stanze dove i nostri informatori non riescono neppure a mettere piede. Inoltre, Alberto e Mastino hanno questo incarico da neppure tre mesi. Lasciagli tempo» dissi.

Cangrande rovesciò con una manata il barattolo delle penne e la ciotola della cenere usata per asciugare le scritture, quindi sbuffò: «Sempre a difenderli, tu».

«Non è facile essere i prediletti del signore di Verona» replicai con un tono e un sorriso che volevano essere un invito a chiudere la questione.

Non gradì e mi guardò storto. Era sul punto di ribattere rabbiosamente qualcosa, quando entrò Benzo di Alessandria. Benedissi la decisione di Cangrande di non volere nessuno di guardia alle sue stanze, di permettere a chiunque ne avesse l’autorizzazione di entrare e uscire con l’unico dovere della discrezione.

Il cancelliere annunciò: «Signore, i membri del consiglio di palazzo attendono nella sala degli astori. Quando volete…».

Come spesso accade, l’ira di Cangrande si dissolse in un brontolio di imprecazioni. È fatto così: le sue sfuriate sono come temporali estivi, violenti ma brevi. Lo stesso vale per la gioia di una vittoria o per la rabbia di una sconfitta. Nulla viene dimenticato, però, neppure uno sgarbo involontario. È capace di rinfacciartelo dopo anni, come fosse avvenuto solo il giorno prima.

«Andate, io arrivo tra poco» disse rimettendosi a sedere e senza guardare in faccia nessuno in particolare. Mi accodai ai nipoti e a Benzo, ma lui tornò a fermarmi indicandomi la sedia davanti allo scrittoio: «Aspetta, ti devo parlare». Raccolse i rapporti sparsi sullo scrittoio, ne fece una pila ordinata e continuò: «Questa volta ti vorrei in Consiglio».

Rimasi in piedi, limitandomi ad appoggiarmi con gli avambracci allo schienale della sedia. Senza neppure pensarci un attimo, risposi: «No».

«Perché?»«Ne abbiamo discusso già altre volte. Il perché lo sai.»«Non ti chiederò di votare.»«Mi dispiace, rimane un no. Tu l’architetto, io il mastro muratore.

Questo si è stabilito quando mi hai voluto accanto a te. Se accetto di costruirti una casa sarà come la vuoi tu, ma deciderò io come mettere le impalcature e se una finestra deve essere spostata o una scala modificata. Dovessi intervenire nel progetto, metterci anche solo un tratto di carboncino, sarebbe come approvarlo preventivamente. Perderei la

Page 18: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

libertà di agire e il mio ruolo decadrebbe a quello di semplice esecutore dei tuoi ordini.»

Avevo parlato con calma, con il tono di chi discorre di inezie, però tenendo d’occhio l’espressione di Cangrande. Ci fu un momento nel quale, dopo un sordo brontolio, mi parve in procinto d’interrompermi. Faticò a trattenersi ancora una volta. Non è abituato a ricevere rifiuti, ma quando accade, e accade raramente, è in grado di capire subito se chi glielo oppone lo fa nel suo o nel proprio interesse. E io gli ho fornito ormai molte prove di fedeltà e, perché no, anche di capacità. Perciò non insistette e cercò un’altra via per ottenere quanto cercava: «Sei contorto, presuntuoso e arrogante, ma finché non commetterai un errore ti devo prendere come sei. Per Mantova ho deciso. Se questa è l’occasione buona per punire Passerino del suo tradimento, ne approfitterò. Solo che Passerino non è stupido e neppure sprovveduto. Fatico a immaginarlo incapace d’intuire cosa stiano tramando i Gonzaga. Anche se fosse improvvisamente rimbecillito, la stessa cosa dovrebbe essere accaduta ai figli, al resto della famiglia, ai suoi sostenitori e alle sue spie. Non ha alcun senso».

Io invece lo credevo possibile, e lo dissi: «Salvo non siano tutti talmente ubriachi di potere da sottovalutare i segnali di pericolo. Come direbbe Benzo, accade più frequentemente di quanto si creda. Poi ti elencherebbe una sfilza di imperatori e condottieri uccisi proprio da chi sedeva alla loro destra a tavola».

«Vero anche questo. Allora ammettiamo che Luigi Gonzaga riesca a sollevare il popolo contro i Bonacolsi, ammettiamo che ci chieda aiuto, secondo te dove potrebbe celarsi il pericolo se lo soccorriamo? Intendo dire oltre a tutti quelli insiti nell’impresa.»

Ci avevo pensato durante il viaggio di ritorno da Povegliano e non ebbi indecisioni: «Nelle donne».

«Le donne?» domandò stupito.«Saranno in pochi a piangere e a stracciarsi le vesti per la rovina dei

Bonacolsi, si sono fatti troppi nemici. Salvo non ci vada di mezzo una delle loro donne. Elisa, la moglie di Passerino, è una Este e quella di Francesco, Vannina, una da Correggio. Quest’ultima, oltre a essere tua cognata e zia di Alberto e Mastino, è pure cugina della moglie di Feltrino Gonzaga. Comunque vadano le cose, queste donne devono essere protette. Sarebbe un vero guaio inimicarsi le loro famiglie. Ed è meglio che nessuno tocchi neppure i figli di Saraceno Bonacolsi. Bianca, la loro

Page 19: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

madre, era figlia di Guido Novello e perciò sono sotto la tutela dei conti Guidi di Toscana.»

Cangrande annuì e se ne stette per un po’ a sfregarsi pensieroso il lobo dell’orecchio destro. Infine disse, alzandosi: «Hai ragione. Quando giunge l’ora delle vendette, l’odio travolge tutto e tutti. Gli Este e i Guidi non perdonerebbero, stanne sicuro. E io non potrei negare loro il mio appoggio in una ritorsione nei confronti dei Gonzaga appena aiutati contro i Bonacolsi. Non fosse tragica, sarebbe una faccenda comica. Dove ti trovo quando ho finito con il Consiglio?».

«Vado a rendere omaggio a donna Giovanna. Tua moglie starà certamente pensando a me come a una persona molto scortese. Non le faccio visita da una settimana.»

«Sarà felice di vederti, se le è passato il mal di capo. Neppure Canzio riesce a darle sollievo ed è un gran medico.»

Uscimmo dallo studio e l’accompagnai fino alla porta della sala degli astori, così chiamata perché sulle pareti sono raffigurate scene di caccia e sul soffitto molti di quei rapaci in procinto di lanciarsi sulle prede. Oltre ad Alberto, Mastino e il cancelliere Benzo, c’erano i capitani Ottone di Burgundia e Bernardino da Nogarola, il tesoriere Giovanni e il consigliere Marzio d’Anticoli. Rivolsi loro un cenno di saluto e poi mi avviai alle stanze di Giovanna. Al mio bussare discreto, venne ad aprire una delle damigelle e, con aria afflitta, mi annunciò che la signora era a letto indisposta.

Ultimamente accade troppo spesso, e il mal di capo la rende sempre più malinconica. La principessa di Antiochia, l’ultima discendente degli Hohenstaufen, a trentacinque anni ormai vede assottigliarsi la possibilità di dare un erede a Cangrande. Questo è il suo cruccio, il motivo di tutti i suoi malesseri. Ne è convinto anche l’archiatra Canzio. Infatti ripete spesso a Cangrande di saper curare i corpi ma di essere impotente davanti ai mali dell’animo. Questi, però, lo zittisce, non vuole neppure udir parlare di mali dell’animo. Probabilmente si sente in colpa nei confronti della moglie a causa dei troppi bastardi generati con altre donne.

Scesi dunque in giardino, un rifugio fiorito e racchiuso da un portico colonnato sotto il quale vigilavano dei pretoriani armati di lancia e spada e con la scala d’argento cucita sulla livrea rossa. Sedetti su una panca di pietra posta sotto un fico, incurante dei cortigiani e di chi mi rivolgeva da lontano inchini e sperava in un mio cenno per un abboccamento. Ero

Page 20: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

contrario all’intervento nelle questioni mantovane, ma con i potenti è meglio limitarsi a rispondere alle domande. E Cangrande non aveva chiesto il mio parere. Anzi, ero sicuro che aspettava solo un pretesto per gettarsi nell’impresa.

Passata circa un’ora, Cangrande mi raggiunse, annunciando: «Si è deciso di agire con cautela. Guglielmo di Castelbarco andrà a Mantova per capire cosa hanno in testa i Gonzaga e vedere su quali appoggi possono contare. Se convincono lui, allora li incontrerò e vedremo cosa offrono. Per ora devono accontentarsi della mia neutralità. Hai qualcosa da dire in proposito?».

Mi strinsi nelle spalle alzando gli occhi al cielo, come affidandomi all’Altissimo. Evitai così di dare la risposta già pronta sulle labbra: “Perché discuterne quando hai già deciso e stai contando i fiorini che potresti ricavarne?”. Perché Cangrande prega con il medesimo fervore a due altari: quello della Santa Vergine e quello del potere. E l’oro gli serve per dare magnificenza a entrambi.

[…]

Page 21: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Verona, IV giorno di agosto

Guglielmo di Castelbarco è tornato da Mantova ieri sera e mi ha voluto a cena nel suo palazzo veronese. Secondo lui le nostre solitudini dovevano assolutamente essere rallegrate da del buon cibo e del vino garaganega. Non credo di avere mai descritto Guglielmo, e ne approfitto ora. Servirà a far passare il tempo in questo pomeriggio colmo di pioggia e prologo di una notte sicuramente lunga e insonne.

Questo amico fraterno di Cangrande, ricco di feudi, castelli e beni, ottimo stratega e prode cavaliere, è decisamente l’uomo più brutto che io conosca. Piccolo e tozzo, con bozze frontali talmente pronunciate da sembrare deformazioni del cranio, ha occhi bovini sormontati da sopracciglia cespugliose, un naso simile al becco di una poiana e le labbra grosse, sporgenti e carnose come due salcicce. Né bastano ad abbellirlo le sete, i broccati, gli ermellini e i gioielli dei quali fa un uso quasi smodato. E se è pio e generoso, la borsa sempre aperta per aiutare i poveri, i monasteri, le chiese e le confraternite della misericordia, è pure un gaudente innamorato di ogni piacere della carne. Ma basta essere suoi ospiti una volta sola, godere (della sua intelligenza e dei suoi modi raffinati, per dimenticarne l’aspetto e i vizi.

Quella sera cenammo da soli, con pochi servi a girarci attorno poiché la famiglia e la piccola corte si trovavano nel castello di Lizzana. Poi sedemmo sotto il pergolato della corte a godere della frescura della sera e della boccia di vino bianco appena tolta dall’acqua del pozzo. Al terzo calice Guglielmo divenne ancora più loquace di quanto lo fosse normalmente e mi narrò con dovizia di particolari ciò che a Cangrande aveva solo riassunto.

Arrivato a Mantova, prima di recarsi a palazzo Gonzaga, si era presentato da Passerino con la scusa di volergli rendere omaggio. In realtà, sperava di riuscire a capire se sospettava qualcosa sulle trame del suocero e dei cognati. Passerino l’aveva ricevuto nella sala d’arme, apostrofandolo cupo e nervoso: «Sarete mica venuto fin qui per quella stupida faccenda di vostro cognato?».

Page 22: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Guglielmo sapeva delle offese di Francesco a Filippino, ma finse meraviglia e disappunto: «Quale faccenda? Io vengo a porgervi i saluti miei e quelli di Cangrande e voi mi aggredite con frasi incomprensibili?».

Passerino lo scrutò, insistendo torvo: «Intendo la faccenda della lite fra vostro cognato e mio figlio, per questioni di puttane».

«Ah, ora capisco. Luigi mi ha scritto qualcosa, ma per lui la faccenda è chiusa. Suvvia, la riconoscenza e l’amore che prova nei vostri confronti non possono essere intaccati da simili fesserie. Anche se, perdonatemi l’ardire, al vostro posto un rimbrotto a Francesco l’avrei messo in conto.»

Un po’ per il parlare quieto di Guglielmo, un po’ perché su quel fatto ci aveva rimuginato per giorni e un po’ per essersi reso conto della riprovazione dell’intera città, Passerino si era convinto quantomeno della malacreanza del figlio. Perciò, borbottando qualcosa di incomprensibile, probabilmente delle imprecazioni, cambiò tono e modi e tese la mano all’ospite: «Scusatemi, messer Guglielmo, ma mi fa imbufalire il dovermi dannare per simili questioni. Siete il benvenuto e, siccome ho rispetto per chi mi parla chiaro, vi ringrazio di cuore per il consiglio. Avete ragione, alla prima occasione darò una strigliata a mio figlio. In pubblico. Ora lasciamo perdere questi fastidi e raccontatemi di Cangrande».

Dicendo questo finse di sistemare nella rastrelliera alcune spade da allenamento. Senza però smettere di spiare di sottecchi l’ospite e pronto a cogliere il minimo segnale di menzogna. Guglielmo, scaltro quanto lui e conscio di essere sotto osservazione, esibì un sorriso disarmante. Rispose, azzardando perfino della malizia: «Vi manda i suoi saluti fraterni. Per altro cosa normale d’aspettarsi da chi è amico e alleato sincero da oltre vent’anni».

E Passerino, scrutandolo con ancora maggior attenzione: «Alle volte certi malintesi nascono da pettegolezzi di gentaglia. È proprio l’amore fraterno che ci lega a farmi sempre temere una qualche incomprensione, magari a causa di un modo maligno di riportare azioni e parole».

Guglielmo, dandogli mentalmente del bugiardo, si finse imbarazzato. Poi, come se la cosa gli costasse grande fatica, buttò là tutto d’un fiato: «Non capisco esattamente a cosa vi riferite. Comunque vi ho parlato chiaro prima e voglio farlo di nuovo, a costo di apparire insolente. Be’, un’ombra ci sarebbe…».

Page 23: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Non abbiate timore, dite chiaramente e senza scrupoli» lo sollecitò Passerino irrigidendosi.

«Di tanto in tanto… non fraintendetemi, sono chiacchiere che si fanno tra noi… lui dice di non trovare una ragione plausibile per la magnanimità con la quale avete trattato i bolognesi, e si stupisce per come vi siete rassegnato alla perdita di Modena.»

I lineamenti del volto di Passerino si distesero leggermente, attenuando l’espressione aggrottata. Probabilmente aveva temuto per un attimo di sentir parlare di lettere o di aiuti ai padovani. Disse: «Solo politica, amico mio, solo politica. Ne ho già parlato con Cangrande ma, a quanto sento, forse non abbastanza chiaramente. Dobbiamo proprio incontrarci. Potrei essere a Verona alla fine di questo mese e allora spiegherei e capirebbe, statene certo». Detto questo, si fece persino premuroso: «Ora mi accorgo di essere un ospite scortese. Vi tengo qui a parlare, in piedi e senza farvi servire qualcosa di fresco. Il viaggio deve essere stato sicuramente faticoso con questo caldo improvviso».

«Vi ringrazio, mi basta l’onore di avervi incontrato. Sono sporco, sudato e non vedo l’ora di approfittare dei servi di mio suocero per un bagno. Probabilmente una tinozza mi sta già aspettando.»

«Ci sarà un’altra occasione, allora.» Poi, di nuovo guardingo: «Quanto vi tratterrete in città?».

«Solamente questa notte. Sono qui perché mi è stata promessa una bella festa della mietitura. Domani andremo a Marmirolo e da là me ne tornerò direttamente a casa.»

«Bene, bene. Di questa stagione il fresco della campagna è sicuramente meglio dell’afa della città. Servirà anche a raffreddare la tensione per quel maledetto bisticcio. Non avessi da governare, fuggirei anch’io da Mantova. A proposito, riferite pure a vostro suocero della mia intenzione di rimproverare pubblicamente Francesco.»

Fugati, almeno così sperava, ogni timore e sospetto di Passerino sul motivo della sua presenza a Mantova, Guglielmo era andato a palazzo Gonzaga. I cognati Guido, Filippino e Feltrino lo stavano attendendo nell’androne dell’ingresso. Si salutarono con Guglielmo a fare l’allegrone, a dire di aver fatto visita a Passerino e di averlo trovato, grazie a Dio, in ottima forma. Frasi simili, con la stessa allegria e con i cognati a fargli il controcanto, ripeté lungo le scale di pietra, le sale e i corridoi affrescati. Ciò a uso di chiunque, fra servi o funzionari di palazzo, avesse motivo di tendere l’orecchio per poi riferire ai Bonacolsi.

Page 24: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Solo quando entrarono in una stanzetta d’angolo, serrata fra le camere di Luigi e Guido, la recita finì.

Luigi Gonzaga aveva seguito dalla finestra e con ansia l’arrivo del genero. Appena la spessa porta di quercia venne chiusa, domandò teso: «Ti è parso sospettare qualcosa?».

«No. La sua unica preoccupazione pare essere Cangrande. Posso sbagliarmi, ma credo proprio che veda nemici solo fuori Mantova. Probabilmente lui e i suoi sono talmente certi del loro potere da non riuscire neppure a immaginare una rivolta a casa loro.»

«Cangrande cosa vi ha detto?»«È ben disposto nei vostri confronti e non interverrà in favore di

Passerino. Però, prima di darvi anche il suo appoggio, vuole sapere come intendete agire e chi avete dalla vostra parte. Se riuscirete a convincerlo di avere anche una sola possibilità di spodestare i Bonacolsi, penso sia pronto ad aiutarvi.»

A quel punto Guglielmo raccontò della lettera di Passerino al duca di Carinzia, di come Cangrande si stesse sempre più convincendo che i Bonacolsi fossero in procinto di vendersi ai papisti, e quando ebbe finito Luigi e i suoi figli erano talmente soddisfatti che Feltrino asserì euforico: «Allora, con lui al nostro fianco, la vittoria è certa».

«Non mettere il carro davanti ai buoi, cognato. Convincere Cangrande non sarà facile. Il momento non è dei più felici, impegnato come a mettere a punto le strategie per Padova e Treviso» replicò Guglielmo.

«Ti mostreremo quanta parte della città è disposta ad allearsi con noi e porterai a Cangrande un’offerta difficile da rifiutare. Potremo persino proporgli il capitanato di Mantova» intervenne Filippino. Ma, colti un gesto di stizza e un’occhiataccia del padre, si affrettò ad aggiungere: «Provvisoriamente, il tempo di rifarsi delle spese sostenute per aiutarci».

Guglielmo lo guardò con severità e gli puntò contro l’indice: «Non giocate con Cangrande e non fate offerte impossibili da mantenere. Per voi, ora, l’importante è riuscire a parlare faccia a faccia con lui. Sono qui per questo, per vedere di fissare un incontro. Oltreché, ovviamente, per garantirvi fin d’adesso il mio appoggio personale».

«Dove e quando potremmo incontrarlo?» chiese Luigi andando a sedere su una delle panche ricavate nel muro dell’incavo della finestra.

«Da Marmirolo a Verona ci sono circa venti miglia. Con un buon cavallo si va e si torna comodamente in una notte, non è questo il problema. Prima devo sapere tutto sui vostri piani, su chi potete contare,

Page 25: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

quali Secondo voi sono le certezze e quali i pericoli, poi fisseremo l’appuntamento.»

Parlarono per oltre due ore e alla fine Guglielmo si mostrò soddisfatto: «Se la situazione è questa, l’appuntamento è cosa fatta. Portate con voi a Marmirolo solo servi e amici fidati. Appena arrivati al villaggio, il mio valletto andrà a Verona e tornerà con la data e le modalità dell’incontro. Io vi anticiperò di uno o due giorni. Sarò ad attendervi con Cangrande».

Una volta usciti dalla saletta, per non destare sospetti, nessuno accennò più alla congiura né ci furono altri incontri riservati. A maggior dimostrazione di normalità avevano organizzato un banchetto in onore di Guglielmo, cui parteciparono anche due dei più accesi sostenitori di Passerino. Fu una buona mossa. Andando a una finestra del salone a prendere una boccata d’aria fresca, Guglielmo aveva scorto degli uomini appostati in angoli bui al di là della strada. Non così lontani dalle fiaccole da evitare che dall’una o dall’altra parte la fiamma illuminasse i bordi dei cappucci e mostrasse uno dei detti ospiti parlottare fitto con loro dopo essersi allontanato dal salone con la scusa di un bisogno impellente.

Le tre mogli di Luigi gli avevano donato uno stormo di figli e a essi si erano aggiunte le spose di Guido, Filippino e Feltrino già all’opera per accrescere ancora di più la progenie gonzaghese. Furono queste ultime, Agnese Pico della Mirandola, Anna di Dovara e Antonia da Correggio, a rallegrare durante il dopocena gli ospiti con musiche e canzoni, guidate da Caterina Malaspina, ultima moglie del padrone di casa. Tutta quella messe di figli, nuore e nipoti a Guglielmo parve un inequivocabile segno del destino su come sarebbero andate le cose. Soprattutto pensando all’aridità dei ventri regnante a palazzo Bonacolsi.

L’indomani partirono per la campagna di primo mattino. Gli uomini a cavallo, le donne e i figli piccoli su due carri coperti, i servi, le cibarie e le masserie su altri tre scoperti. La numerosa comitiva uscì da Mantova all’ora seconda del giorno e prima del mezzodì giunse a Marmirolo.

Un tempo le feste della mietitura si tenevano nella prima settimana di luglio. Oggi, a causa del mutamento del clima dovuto a un temporaneo allontanamento del sole e a maligne triangolazioni dei pianeti, come asseriscono i sapienti e gli astrologi, si miete sul finire di luglio. Ed è così anche per le vendemmie, fattesi ormai ottobrine, appena in tempo per evitare le nebbie e le gelide piogge di novembre. Comunque le feste non sono cambiate in nulla. I signori migrano in allegre comitive dalle città ai

Page 26: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

loro villaggi, dove trovano le case e i cigli delle strade ornati con ghirlande di tralci, fronde e fiori, e un prato falciato di fresco dove erigono una grande tenda e stendono a terra tovaglie sulle quali vengono servite pietanze di ogni tipo. Il vino scorre abbondante, anche nella gola dei più miseri dei loro contadini. Né mancano i musici per il ballo, i cantastorie, i buffoni, i saltimbanchi, i giocolieri, i funamboli e gli ammaestratori che accorrono numerosi a riempirsi la pancia e guadagnare una moneta. Il tutto dura dai tre ai sei giorni, a seconda della clemenza del tempo.

[…]

Page 27: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Verona, V giorno di agosto

[…]Sono uscito di casa subito dopo la campana del coprifuoco, diretto a

porta San Zeno. Aveva smesso di piovere, il cielo si era aperto e il plenilunio rifletteva livido sul lastricato bagnato. Dalle case appiccicate una all’altra in due file ininterrotte ai lati della via non uscivano rumori e solo da qualche fessura delle imposte filtrava il bagliore di una lucerna. Lasciato il mio valletto a un crocicchio, con l’ordine di controllare che la ronda notturna cambiasse percorso com’era stato ordinato, mi fermai davanti alla casa del borsario Fermo, circa a metà del tragitto. Picchiai alla porta con il battente e dopo poco lo spioncino protetto da una griglia di ferro si aprì. La luce di una lanterna mi colpì gli occhi e l’uomo che la reggeva chiese: «Chi siete? Cosa cercate? Non è ora da cristiani questa».

Sollevai il cappuccio e avvicinai il viso alla griglia; «Mi riconoscete, Giacomo?».

«Oh, siete voi, signore! Vi apro subito.» Mentre il paletto veniva tolto e la chiave girava rumorosamente nella toppa, il servo ordinò a qualcuno alle sue spalle: «Agnese, andate a dire al padrone che messer Corrado vuole parlargli».

Entrai rapido nella piccola anticamera dal pavimento di pietra e mi venne da sorridere. Giacomo era piegato in due in un inchino e continuava a tenere sollevata in alto la lanterna. Lo sollecitai: «Lasciate perdere gli inchini e ditemi invece se ci sono forestieri in casa».

«No, signore, non c’è nessuno. Solo il padrone e la famiglia.»Una seconda porta si aprì alla mia destra e comparve Fermo reggendo

una lucerna e con la preoccupazione sul viso: «C’è qualche problema, messer Corrado?».

«Nessuno, state tranquillo. Devo solo chiedervi una grazia, da uomo fidato quale vi ritengo.»

«Avete urgenza di denaro? Di un cambio? Sono vostro servo come sempre.»

Page 28: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Non mi serve denaro, ma la vostra casa.»Fermo spalancò gli occhi per la meraviglia e bofonchiò confuso:

«Come? La casa?».Non mentii o inventai scuse, di Fermo potevo fidarmi: «Persone

importanti devono incontrarsi nella massima segretezza, per questo mi serve la casa. Solo un paio d’ore. Nel frattempo dovreste trasferirvi qui accanto, nella vostra stalla. Vi sarei anche grato se voleste lasciare sul tavolo una brocca d’acqua e una di vino con dei bicchieri».

La mente del borsario, svelta nell’individuare ogni situazione in grado di portargli prima o poi un qualche utile, non dovette lavorare molto.

«Il tempo di avvisare gli altri e preparare la sala e la mia casa sarà vostra per tutto il tempo che vi serve» disse con aria complice.

«Sarà per poche ore e, state certo, troverò il modo per dimostrarvi la mia riconoscenza.»

«Non serve, signore, non serve. La vostra fiducia mi ripaga a sufficienza del piccolo disturbo.»

A porta San Zeno erano di guardia quattro uomini comandati da Pietro detto Guercio, un veterano cui Cangrande aveva concesso una generosa pensione per ripagarlo della perdita di un occhio e di tre dita della mano destra mentre gli faceva da scudo in battaglia. Lo presi da parte e gli chiesi di spegnere le torce sulla strada fin oltre la casa di Fermo, di riaprire la porta piccola, di calare la passerella pedonale sulla fossa e di non allarmarsi qualsiasi cosa accadesse. Non chiese spiegazioni, parlottò con i suoi uomini e quelli eseguirono senza discutere.

Sedetti sulla panca davanti alla gabella tenendo d’occhio la casa di Fermo. Vidi il borsario uscire con i suoi e passare nella stalla senza neppure guardarsi attorno e dopo poco un rumore di cavalli al passo preannuncio l’arrivo di uomini. Lontani cinquanta passi e senza le torce accese, si potevano a malapena contare. Erano sette, tutti resi uguali dai cappucci e dai mantelli. Smontarono davanti alla casa e subito uno di loro andò con gli animali in un vicino vicolo. Due entrarono, mentre gli altri si posero in coppia davanti alle porte della stalla e della casa. Suonò infine la campana della mezzanotte e, appena finito di echeggiare lungo le mura il grido del «tutto va bene», l’uomo di guardia sullo spalto si sporse annunciando a mezza voce: «Uomo a cavallo in arrivo!».

Andai alla porta piccola e l’aprii. Il nuovo venuto era una sagoma nera ingrigita qua e là dalla luna e avanzava rapidamente. Giunto a tiro di

Page 29: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

voce, arrestò il cavallo e smontò.«Chi siete?» domandai.«Un mietitore» rispose.Anche il cavaliere aveva il cappuccio e il mantello era tirato fin sopra il

naso. Gli feci segno con la mano di avanzare: «Venite, siete atteso».Entrò tenendo per le briglie il cavallo. Dissi a Pietro di prendersi cura

dell’animale e feci strada al nuovo venuto senza proferire parola. Solo dopo aver chiuso la porta della casa di Fermo alle nostre spalle, chiesi: «Avete fatto buon viaggio, messer Guido?».

Si tolse con un sospiro di sollievo il mantello, il cappuccio e i guanti zuppi di pioggia e sporchi di fango. Era madido di sudore e rispose un po’ affannato: «senza problemi. Non ho incontrato anima viva».

In un angolo dell’ingresso c’era un tavolo con bacile, brocca e asciugatoio. Si lavò le mani e rinfrescò il viso, cercò in qualche modo di rassettarsi i capelli e si guardò le brache e gli stivali impantanati: «Non è certo il modo migliore di presentarsi».

«In queste occasioni gli abiti contano poco» lo rassicurai.La sala, uno stanzone dal basso soffitto di travi dipinte di un pallido

verde, era illuminata da due grossi candelieri. Sulla tavola avevano steso una tovaglia immacolata e, oltre alle brocche e ai bicchieri, c’era una focaccia. Cangrande e Guglielmo attendevano in piedi vicino al camino, e i convenevoli furono sbrigativi. Appena si furono seduti, Cangrande chiese: «Nessuno vi ha seguito?».

«Nessuno.»«Come fate a esserne così certo?»«Mio padre vigila sulle strade attorno a Marmirolo e i miei fratelli sono

partiti con me. Feltrino si è fermato a cinque miglia da Marmirolo e Filippino a dieci. Se qualcuno credeva di seguirmi, ha dovuto fare i conti con loro.»

«Bene, allora andiamo dritti al punto. Voi avete convinto Guglielmo e lui ha convinto me. La mia offerta sono cinquecento fanti e trecento cavalieri. Quale la vostra?»

«Mantova, almeno per un anno.»Cangrande ribatté sarcastico: «Se mi date l’intera cantina, quale vino

berrete?».«Non è una questione di denaro o di potere, ma d’onore» rispose

pronto Guido.Cangrande poggiò le mani sul tavolo, si protese verso di lui e sbottò:

Page 30: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Suvvia, non prendiamoci in giro! Da tempo volevate Mantova e ora vi è stato dato il pretesto per prenderla. L’onore della famiglia giustifica il tradimento nei confronti di Passerino. Non vi giudico. Anzi, fate bene ad approfittare dell’occasione offertavi da quello sciocco di Francesco».

«Lo ripeto: non è il potere a spingerci. Io amavo Passerino come un padre, credetemi!» replicò Guido, arrossendo.

«Vi credo. Mantova, però, non m’interessa. Vostro padre è un uomo di mondo, non metterebbe mai nel piatto di un ospite una sola pietanza. Qual è l’altra?»

Guido gettò un’occhiata a un impenetrabile Guglielmo, si strinse più volte e nervosamente le dita di una mano con l’altra e poi rispose: «Venticinquemila fiorini vi paiono una pietanza abbastanza succulenta?».

«Cinquantamila è una pietanza più degna per il desco dei nuovi signori di Mantova.»

«Mi sembra un’enormità…»«Sembra. Le casse di Passerino ne contengono almeno il doppio, lo

sapete bene.»L’altro tentennò. Probabilmente la somma era superiore a quanto i

Gonzaga avevano sperato di dover sborsare. Si grattò il mento e poi, con un sospiro, concesse: «E sia, pur di avervi come alleato».

«Quando agirete?» domandò Cangrande.«All’alba del sedici agosto, se va bene anche a voi.»«Perché quella data?»«È il giorno successivo all’Assunta. Il quindici di agosto sarà festa

grande, con fiera e mercato. Passerino organizzerà come al solito un banchetto in piazza e offrirà cibo e vino a chiunque si presenti. Ci saranno anche una luminaria, divertimenti e giochi. Anche i suoi soldati mangeranno e berranno fino a notte tarda. Molti si ubriacheranno e al mattino non saranno certo in grande forma. Perciò…»

«Ottima scelta. Il tempo non è molto, ma ce lo faremo bastare. Rimangono poche altre condizioni, non discutibili. Guglielmo comanderà su tutti, anche su di voi, i vostri alleati e le vostre truppe. Dal suo arrivo finché non sarete pronti a sostituire Passerino. Per quanto riguarda il destino dei Bonacolsi, le decisioni di Corrado saranno legge. Lui farà in modo che nessuno versi il loro sangue, almeno fino a quando ci sarà uno solo dei nostri uomini in città. Se non per legittima difesa, ovviamente. Verrà a Mantova tre giorni prima dell’evento e vi resterà fino

Page 31: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

all’arrivo di mio nipote Alberto cui consegnerete il denaro. Quando avrete la città in pugno, il denaro sarà versato e le nostre truppe saranno uscite dalle mura, potrete fare ciò che vi aggrada anche dei Bonacolsi. Ma ricordate, continuerò a esservi amico solo se Mantova rimarrà fedele all’imperatore.»

Guido aveva ascoltato attentamente, senza mostrare emozioni. Non ci pensò sopra neppure un attimo: «Accetto tutte le vostre condizioni a nome della mia famiglia».

Cangrande si alzò e gli tese la mano. Se la strinsero e Guido asserì con tono deciso: «Potrete contare sempre sulla nostra gratitudine, in ogni occasione».

«Una volta pagato non mi dovrete nulla, ma vi ringrazio.»Mentre Guglielmo si accordava con il cognato su modalità, luogo e ora

dell’intervento delle nostre truppe, Cangrande mi fece cenno di seguirlo nell’anticamera e sussurrò serio in volto: «Se Passerino avrà sentore della rivolta, tu sarai la prima vittima. Ti torturerà per spremerti anche la più banale delle informazioni sulla congiura e poi ti sgozzerà con le sue mani. Dopo di che impiccherà uno dei suoi preso a caso e mi manderà un’addolorata lettera per dire che è stato quel poveraccio a ucciderti scambiandoti per un sicario dei Gonzaga. Lo sai, vero?».

Ero stupito dalle sue parole, soprattutto dal fatto che le avesse pronunciate in quel momento e in quel luogo.

«Non ti preoccupare, starò in guardia e prenderò tutte le precauzioni dovute. In caso di pericolo posso sempre contare su fra Tebaldo e l’Ordine degli Ospitalieri» risposi un po’ imbarazzato.

«Va bene. Però non ci pensare due volte a fuggire da Mantova se le cose dovessero mettersi male. Con Passerino risolverò la faccenda sbattendogli in faccia la lettera inviata al duca Enrico. Non potrà certo accusare me di tradimento!»

Quando Cangrande mi aveva chiesto di entrare nella sua corte, avevo accettato quasi esclusivamente per la generosità dell’appannaggio. Al principio c’era stata della freddezza fra di noi, un voler mantenere le distanze e i ruoli ben chiari. Poi, con il passare del tempo, la mia ammirazione nei suoi confronti e uno stesso modo di pensare su molte questioni avevano reso l’amicizia inevitabile. Cercai di rassicurarlo: «Vedrai, andrà tutto bene. In ogni caso, se avrò anche solo il sentore che i Gonzaga non abbiano gli appoggi sufficienti a vincere, correrò io stesso a fermare Guglielmo sulla strada per Mantova».

Page 32: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Mi batté affettuosamente una mano sulla spalla: «Così deve essere. Se ci hanno mentito sulle reali possibilità di vittoria, meglio abbandonarli al loro destino. È un traditore pure chi volutamente mette a rischio la vita degli altri».

Uscimmo di casa tutti assieme e, una volta che Cangrande e Guglielmo furono partiti con i loro uomini, riaccompagnai Guido a porta San Zeno. Attesi di vederlo scomparire nel buio, poi dissi a Pietro di chiudere la porta piccola, alzare la passerella e riaccendere le torce lungo la strada, e andai alla stalla del borsario.

Il servo Giacomo sonnecchiava vicino alla porta, le spalle poggiate al muro. Altrettanto faceva Fermo, rannicchiato su un improvvisato giaciglio di fieno. Solo le due donne vegliavano, sedute su un panchetto con ognuna un bambino addormentato in braccio. Al mio ingresso trasalirono. La moglie di Fermo allungò una mano verso il marito e lo scosse. Il borsario si tirò su barcollando e rischiò di finire fra le zampe del cavallo legato alla greppia.

«Andava tutto bene, messer Corrado?» chiese con voce impastata.«Non potevate fare di meglio. Ora rientrate in casa, e grazie mastro

Fermo.»Mi girai e feci alcuni passi come per andarmene, finsi di ricordare improvvisamente qualcosa e mi voltai chiedendo: «Ah, mastro Fermo, non avevate presentato una petizione per costruire un nuovo portico davanti alla bottega?».«L’ho fatto, ma pare sia difficile… In cancelleria parlano solo di livelli e censi piuttosto costosi…»«Tornateci dopodomani, troverete l’autorizzazione pronta e senza alcuna spesa.»[…]

Page 33: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Mantova, XIV giorno di agosto

Dopo essermi fatto preannunciare dal mio valletto, all’ora nona mi sono recato a palazzo Bonacolsi. Ad accogliermi c’era Rolando dei Carbonesi, consigliere di Passerino e l’uomo più odiato dai mantovani per le molte gabelle da lui imposte. Si finse dispiaciuto, farfugliò su un qualche malinteso inerente l’ora del mio arrivo e con sussiego concluse: «Il mio signore non vuole mancarvi di riguardo facendovi attendere. Perciò, se non vi appare una scortesia peggiore di questo disguido, sarebbe lieto di ricevervi subito nella sua camera».

Se Passerino vuole mettere qualcuno a disagio per meglio indagare sulle sue reali intenzioni, lo riceve facendo il bagno. Un espediente a me noto, ma del quale speravo di non essere vittima. Infatti, se ne serve solo quando ha gravissimi sospetti. Per me fu dunque inevitabile allarmarmi. O aveva subodorato qualcosa o, addirittura, era a conoscenza di tutto e si apprestava a giocare con me come il gatto con il topo.

Mi preparai mentalmente a subire l’inquisizione cercando i pochi lati positivi della situazione in cui mi trovavo. Il primo era una speranza: forse Passerino non si sentiva ancora al sicuro per la faccenda della lettera, nonostante la visita di Guglielmo. Il secondo, indiretto, era un utile richiamo alla prudenza e alla vigilanza. Dovevo tenere la guardia più alta di quanto avessi preventivato e controllare ogni parola ed espressione del volto. Comprese le involontarie. Non è facile trattare con un uomo sul cui destino si conosce più di quanto lui stesso non sappia. È un po’ come guardare negli occhi un morente ancora aggrappato alla vita e speranzoso di guarire. Bisogna sforzarsi di credere possibile un miracolo, altrimenti egli vedrà la sua agonia nel tuo sguardo. Perciò mi finsi indifferente e rassicurai Rolando: «Lo considererò un onore, l’intimità riservata a un amico».

Il signore di Mantova era immerso in una grande tinozza colma d’acqua fumante e rivestita di teli bianchi. Aveva gli occhi serrati, per evitare il bruciare della lisciva che un servo gli rovesciava sul capo mentre un altro gli sfregava la schiena con della saggina. Ebbi giusto il

Page 34: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

tempo di considerare come il suo torace, asciutto e muscoloso, non avrebbe stonato in un ventenne. Udendoci entrare, Passerino alzò subito un braccio e i due servi gli misero un asciugatoio tra le mani e se ne andarono. Si ripulì il viso, aprì gli occhi e mi fissò con un sorriso torto: «Un altro veronese in pochi giorni. Ed entrambi fra i più vicini a Cangrande. Oh, nulla di male. Ma è curioso, dovete ammetterlo. Sempre graditi, comunque. Accomodatevi su quella sedia e scusatemi se vi ricevo così». Volse lo sguardo al consigliere e questi annuì allargando le braccia come sconsolato. «Bene, Rolando vi ha spiegato il disguido e mi considero perdonato. Siamo abituati a situazioni peggiori sul campo di battaglia, vero?»

La sedia era malfatta, scomoda a causa dello schienale leggermente piegato in avanti; doveva essere voluto, per accrescere il disagio nel visitatore.

«Come dicevo al consigliere, questa vostra confidenza per me è un onore» replicai.

Passerino si sistemò meglio, poggiò gli avambracci sul bordo della tinozza facendo gocciolare sul pavimento l’acqua ingrigita dalla lisciva e chiese: «Vi hanno spinto qui ordini di Cangrande o siete a Mantova per altri motivi?».

«Nessun ordine, vi porto solo i suoi saluti. In quanto a me, sono qui per una faccenda…» Tacqui come a cercare le parole giuste e fingendo imbarazzo, e poi: «Una faccenda personale, molto personale».

«Posso esservi di aiuto?»«Vi ringrazio, ma come vi dicevo… Be’, perché non confessare? Non è

vergogna, solo imbarazzo. Ho compiuto i ventisei anni e credo sia ora di dare un contributo alla discendenza della mia umile stirpe…»

«Suvvia, umile. Discendete dal grande Ezzelino. La vostra stirpe è tutt’altro che umile.»

«Mi onorate doppiamente. Allora mi faccio coraggio, mi rivolgo a voi come un figlio a un padre. Mi hanno parlato molto bene della nipote di fra Tebaldo, il precettore dell’Ordine degli Ospitalieri a Valeggio… Lo conoscete, vero?»

A sentir nominare fra Tebaldo, Passerino si irrigidì. Scambiò un’occhiata con Rolando ed entrambi presero a scrutarmi con ancora maggior attenzione.

«Certo, conosco quel vecchio maneggione. Ma continuate, vi prego.»«Pare si tratti di una fanciulla di buon animo e di bell’aspetto. Sta

Page 35: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

finendo di ricevere la giusta educazione proprio qui, nel monastero di San Giovanni. Sono venuto per incontrarla.»

Continuavo a simulare imbarazzo e mentalmente ringraziai Dio per la perfezione dello stratagemma messo in piedi da fra Tebaldo. La badessa del monastero e la ragazza erano state preavvisate del mio arrivo e si aspettavano realmente un uomo in cerca di moglie. Ogni mia affermazione poteva essere controllata senza tema di smentite.

«Non dovete essere imbarazzato per una cosa tanto naturale. Ed è vero, alla vostra età bisogna cominciare a guardarsi in giro. Senza fretta, però. La badessa mi onora della sua fiducia, mi considera protettore e generoso amico del monastero. Se volete, posso ottenere da lei qualche informazione confidenziale sul carattere della fanciulla. Ditemi il suo nome e provvedere».»

Mostrai gratitudine: «Non avrei mai osato chiedervelo, ma a questo punto la vostra offerta è un sollievo per me. Mi evitate di metter in mezzo altra gente, sicuramente meno riservata di voi. Si chiama Viola ed è l’unica figlia di Jacopo Camposampiero. A parte lo zio, da un anno la fanciulla è sola al mondo».

Rolando s’intromise, ironico: «Pochi parenti, pochi problemi».«Già» dissi annuendo. «Inoltre la dote sembra cospicua.»Fu allora che Passerino fece la mossa cui mi ero preparato fin

dall’ingresso nella camera. Si tirò su e rimase davanti a me in piedi, tutto un rivolo d’acqua e completamente nudo. La natura, dandogli un corpo forte ma piccolo e minuto, l’aveva compensato con tale generosità nei genitali da provocare in ogni uomo un senso d’inferiorità. E, appunto come è solito fare in queste occasioni, mi pose in quel momento le domande cruciali: «Avete notizie dell’amato Enrico duca di Carinzia?».

Fissandolo ostinatamente in viso e non dove avrebbe voluto lui, risposi con aria dispiaciuta: «Purtroppo Cangrande non mi lascia molto tempo libero. Non scrivo alla contessa Beatrice di Gorizia e al duca Enrico suo cognato da molto, troppo tempo. Anzi, temo siano piuttosto irritati dalla mia apparente malacreanza. Appena tornato a Verona cercherò di riparare e, se vi fa piacere, invierò i vostri saluti al duca».

«Fatelo, vi prego… A proposito di donne, anche nel palazzo scaligero si spettegola sulla lite fra mio figlio e Filippino Gonzaga?»

«Di cosa state parlando? Non vi capisco» risposi con un brivido freddo alla schiena.

«Non ha importanza. Una stupida lite, questioni di donne. Certe

Page 36: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

vicende, magari mal riportate, potrebbero fuorviare Cangrande.»Faticavo a non distogliere il mio sguardo dal suo, fermo e duro, e

cercai di spostare il discorso su un piano meno pericoloso: «Non credo sia possibile un malinteso fra voi. Inoltre, se mai ciò accadesse, vi basterebbe un incontro a quattrocchi per risolvere ogni questione».

Passerino sembrò rilassarsi un poco. Poi, credo indispettito dal mio apparente disinteresse per l’esibizione della sua virilità, fece una battuta piuttosto volgare: «Già, è così. Ma, sempre per parlare di donne, si sussurra di una certa predilezione della contessa nei vostri confronti. Non temete che durante la vostra assenza la giovane e bellissima Beatrice trovi qualcuno armato di una tale daga da farle scordare il vostro pugnale?».

«Non sono daga o pugnale a far vincere i duelli. È la bravura di chi li impugna. Ho visto uomini con la spada soccombere per mano di altri armati di un misero stiletto» risposi secco.

I suoi occhi fiammeggiarono, un leggero rossore gli colorò il viso e si coprì con un telo. Poi iniziò a ridere, sempre più forte. Uscì dalla tinozza sogghignando: «Giusto, amico mio. Se mai troverò qualcuno con una spada più grande della mia, me lo ricorderò. Ora andate pure, domani vi farò avere le informazioni su questa Viola. Dove alloggiate?».«Nel convento di San Francesco. Fra Tebaldo ha convinto il priore a

darmi ospitalità nelle stanze riservate all’Ordine. Non ho mai amato le foresterie, troppa gente e troppe chiacchiere.»

Non ero riuscito a fugare del tutto i sospetti di Passerino, ne avevo la certezza. Infatti, lasciando palazzo Bonacolsi, mi accorsi subito di essere seguito. Ma ero più tranquillo di quando ero entrato nella sua camera. Se aveva intuito il pericolo, sospettato reazioni, l’aveva fatto con una sfasatura dei tempi. Lui stava ancora all’inizio del dramma, mentre questo era ormai prossimo all’epilogo.

Sono tornato subito qui, in convento, dove sto scrivendo in lingua friulana. Chiuderò a chiave questi fogli nel mio baule e uscirò di nuovo dopo il canto dei vespri. Oggi devo fare ancora una cosa.

Stesso giorno, a compieta

Page 37: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

[…]Appena messo piede in strada, con il tramonto già a incupire gli

androni delle case dei palazzi, ho scorto subito la spia travestita da carbonaio. Mi ha tallonato con un sacco in spalla, mantenendosi a una ventina di passi da me fino al luogo chiamato Insula cornu dove sorge il monastero di San Giovanni. Prima di lasciare la strada gli ho dato un’ultima sbirciata. Si era fermato davanti a una casa e fingeva di legare meglio l’imboccatura del sacco.

Dentro la chiesa del monastero c’era solamente una dama velata, circondata da quattro ancelle. Stavano pregando a mezza voce e non parvero neppure accorgersi di me. Per sicurezza, e per quanto permetteva la fioca luce dei lumi, passandole accanto osservai la donna. Il mantello di lino fine, la tunica e il lungo velo di ottima fattura, il Libro delle ore stretto con fermagli d’argento fra le mani e le dita luccicanti di anelli la facevano nobile e ricca. Non sembrava una spia e, in ogni caso, non contava granché per ciò che dovevo fare.

Mi avvicinai alla grata dietro la quale sedeva la madre guardiana, una figura indistinta velata di nero.

«Sorella, avrei una preghiera da farvi.»Rimase immobile e rispose rude: «Chiedete, ma tra poco dovrete

uscire. Dobbiamo chiudere per addobbare la chiesa».«Il mio nome è Corrado di Alberico. Riferite alla reverendissima

badessa che a mezzodì verrò a far visita a Viola di Camposampiero. Secondo gli accordi con suo zio, fra Tebaldo.»

Si mosse appena, vidi il biancore di una mano e il tono si fece più gentile: «Il vostro arrivo è stato preannunciato. Riferirò».

«Grazie, sorella. Posso pregare per qualche minuto?»«Le preghiere non si negano a nessuno.»Mi avviai al presbiterio e m’inginocchiai sul gradone sotto l’arco

trionfale. Pregai per la mia famiglia lontana ed ebbi l’impulso di chiedere perdono per il mio agire. Lo ricacciai indietro. Ero un esecutore, non ero mosso né da interesse né da odio personali. S’incolpa forse il messaggero del suo buon operare e del contenuto del plico recato? Poi ci ripensai, e recitai il Confiteor. Davanti a me avevo l’altare con ai lati le due grate da dietro le quali le monache assistono alle funzioni e nell’attesa stetti a fissare una di quelle inferriate, cercando di fare il vuoto nella mente. Udii le donne uscire con uno scalpiccio lieve e un frusciare di vesti, poi ci

Page 38: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

furono i rintocchi della dodicesima ora. Quando la campana tacque, alle mie spalle risuonarono passi pesanti accompagnati da un tintinnare di speroni. Mi girai il poco bastante a controllare se si trattava di chi stavo attendendo. Un uomo barbuto e tonsurato, alto e magro, il mantello rosso con ricamata sul lato sinistro la croce bianca dei Cavalieri Ospitalieri, avanzò fino a metà della navata e s’inginocchiò. Sganciò la spada dalla cintura, la depose sul pavimento e vi si prostrò sopra a braccia aperte. Pregò per breve tempo, si rialzò, andò a poggiare l’arma sullo stipite della porta d’ingresso e, senza mai guardarmi, si avvicinò alla grata della guardiana. Disse, con voce forte: «Sorella, non ho tempo di andare in portineria. Consegno a voi questo denaro per la luminaria dell’Assunta. Ci è stato affidato da alcune nobili famiglie della città». Alzò ancora più il tono della voce, precisando: «Sono trentasei fiorini».

Infilò la mano tra i ferri della grata e poggiò il borsello sul davanzale interno. Poi tornò a inginocchiarsi, ma solo per farsi il segno di croce. Quindi riprese la spada e uscì lento e impettito. Era un buon inizio: trentasei delle famiglie più importanti di Mantova avevano giurato, davanti a quel rappresentante dell’Ordine e sui Vangeli, di partecipare alla congiura a fianco dei Gonzaga.Trascorso il tempo di un Pater, mi alzai e uscii anch’io. Il carbonaio era sparito ma, seduto per terra a lato della porta, un mendicante mi tese la mano. Una mano pulita dalle unghie tagliate. Tolsi dal borsello due monete di rame e le tesi senza farle cadere. Qualsiasi vero mendicante le avrebbe afferrate, invece l’uomo le prese stringendole fra il pollice e l’indice. Tornando a San Francesco, con ormai il crepuscolo vicino a farsi oscurità, non mi curai neppure di controllare se mi seguiva.Nel convento trovai il priore ad attendermi, nervoso e aggrottato.«Qualcosa non va, fra Michele?» chiesi stupito.«Volevo pregarvi di rispettare gli orari di preghiera. Ora dovrete accontentarvi di una zuppa fredda.»«Perdonatemi. La zuppa fredda andrà benissimo.»«Ci sarebbe un’altra cosa.»Mi allarmai: «Cos’altro, fra Michele?».«L’abate di Sant’Andrea, il figlio del signor Passerino, è venuto a farmi visita. Ha chiacchierato molto, si è detto dispiaciuto che il consigliere di Cangrande abbia scelto questo convento invece del suo monastero. In realtà, voleva sapere perché eravate qui e se avevate ricevuto visite.»«Allora non vi è stato difficile rispondere. Il perché lo sapete e non ho

Page 39: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

incontrato nessuno.»«Infatti, e in nome di san Francesco vi pregherei di continuare a non farlo.»«Non preoccupatevi, non ho nessuna intenzione di creare problemi a questo santo luogo… O di obbligarvi a mentire.»Finalmente smise d’essere aggrottato e disse: «Vi mando uno degli scolari. Forse quella zuppa può essere riscaldata. Pace e bene, messer Corrado. Passate una notte serena».[…]

Page 40: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Mantova, xv giorno di agosto

Mentre svolgo le mie mansioni solitamente dormo sonni profondi e tranquilli, anche se la mia vita è in pericolo. Gli incubi e i sudori freddi vengono quando tutto è finito e i pericoli corsi mi sfilano davanti a uno a uno. Stanotte è stato diverso. Ho avuto un sonno agitato, con risvegli frequenti. Credo anche di sapere il perché: tutto sembra troppo facile. Nonostante le apparenze e le mie convinzioni, è mai possibile che un uomo come Passerino stia commettendo un simile errore? O forse la questione bolognese accantonata come un fastidio, la perdita di Modena accettata quasi con indifferenza, la stupidità d’inviare aiuti a Padova a danno di Cangrande e di scrivere quella lettera al duca sono i sintomi di una malattia? Già, perché anche il potere si ammala e muore, e il primo segnale del morbo è la perdita del senso della realtà. Chi ne detiene troppo e troppo a lungo, a un certo punto inizia a percepire in modo distorto se stesso e coloro che lo circondano. Tutto viene falsato da un senso di onnipotenza. L’ho visto accadere altre volte, purtroppo. Se così non è, rimane un’unica alternativa: Passerino, per qualche oscuro motivo, ha iniziato improvvisamente a essere ossessionato da Cangrande, forse a odiarlo, e ciò gli ottenebra la mente. Ne ha paura a causa di una qualche sua fantasia o semplicemente lo invidia? Comunque sia, si sta comportando come l’uomo che, scrutando di continuo una lontanissima nube annunciatrice di tempesta, non si rende conto di avere messo i piedi in un nido di vipere. Ma posso anche sbagliarmi. Forse Passerino semplicemente si beffa di noi e ci sta preparando una brutta sorpresa. Per questo non devo smettere di esser cauto. Anche uscendo da San Francesco ho continuato a controllare se qualcuno mi stava seguendo. Ne ho individuati due, e non mi hanno mollato per un sol attimo mentre mi recavo a San Pietro.

Mantova non teme assedi. Oltre alle mura possenti, alle numerose torri e altre robuste difese, ha le acque del Mincio a proteggerla. Il fiume non mantiene solo le acque delle fosse sempre alte, forma tutt’attorno acquitrini e paludi dov’è impossibile piazzare macchine da guerra. E a

Page 41: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

chi gode di tanta sicurezza non importa se qui le zanzare la fanno da padrone e il clima è afoso. Rimane una città dove non si teme per i propri beni. Perciò i palazzi e le botteghe non si contano, e la ricchezza è grande. Il fitto viavai di gente e carri è la norma. Così la presenza di mercanti forestieri e schiere di uomini e donne venuti dalle campagne circostanti a vendere i prodotti degli orti e delle aie. Né manca un buon numero di sfaccendati e mendicanti, sempre pronti a inseguirti, accerchiarti tendendo le mani. Ma oggi in piazza la confusione era doppia del solito: una specie di enorme, colorato, olezzante e rumoroso formicaio. Inoltre, dozzine di uomini stavano approntando con corde, panche, pertiche e scale il banchetto e la luminaria in onore dell’Assunta; i custodi della festa e i giurati incaricati di controllare la qualità delle merci vendute e delle misure usate nel mercato erano già al lavoro, e una schiera di gabellieri, ognuno scortato da due sgherri, si aggirava pronta a riscuotere il dazio pure su una sola cipolla venduta; infine, in vari punti della città, vigilavano drappelli di armati.

Facendomi largo fra la folla diretto al duomo, guardai palazzo Bonacolsi. Era bello e possente nell’alta torre che l’affiancava, elegante nelle bifore di pietra simili a merlettature bianche posate sull’ocra scuro della facciata. Però io vi colsi qualcosa di tetro, come se dagli angoli strisciasse un’ombra oscura a velare i mattoni. Perfino i militi e i valletti di guardia alla porta principale mi parvero avere facce da briganti e sguardi truci. Mi rimproverai, perché non era così. “Mantieniti freddo,” mi dissi “non permettere alla mente di falsare ciò che vedono gli occhi.”

Anche nel duomo cera folla; la messa sarebbe stata pontificale, con musiche, assolo, cori, e tutti volevano ringraziare Nostro Signore e la sua Santa Madre per un’annata che si prospettava fra le più prospere degli ultimi anni. Riuscii a fatica a mettermi vicino a una certa colonna dove è dipinto sant’Anselmo nell’atto di donare un libro alla contessa Matilde, a pochi passi dal sepolcro del vescovo Aleardino e al seggio dell’elemosiniere.

L’uomo dalla vistosa cicatrice sulla fronte arrivò in ritardo, a passetti rapidi, facendosi largo con i gomiti. Mi limitai a seguirlo con la coda dell’occhio e lui mi sfiorò tenendo lo sguardo dritto davanti a sé. Giunto dall’elemosiniere, disse: «Arcidiacono, qui ci sono centocinquanta pezzi d’argento raccolti fra i membri del Consiglio della città. Li offriamo per l’olio, la cera e l’incenso usati in questa santa ricorrenza».

Speravo fossero di più. Probabilmente gli altri cittadini aspettavano di

Page 42: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

vedere come si mettevano le cose, per accodarsi al vincitore. Senza neppure ascoltare la risposta dell’arcidiacono, andai a inginocchiarmi vicino all’altare con i resti mortali di sant’Anselmo. Ci stetti il tempo di tre Pater e poi me ne tornai a San Francesco.

Non andai nelle mie stanze. Entrai in chiesa e sedetti su un panchetto addossato al muro, vicino alla porta della sacrestia. L’uomo era già là, con il collare di priore della corporazione degli speziali ben visibile sul petto. Appena si accorse del mio arrivo, andò dal frate sacrestano intento a versare l’olio in una lampada davanti a un’icona della Vergine rilucente d’oro, e gli tese un borsello dicendo: «Fratello, vi consegno otto fiorini a nome di tutte le corporazioni della città. Pregate il priore di usarle per questo giorno di festa. Oggi nessun povero o ammalato che busserà alla vostra porta dovrà andarsene via senza una fetta di pane e una scodella di zuppa».

Ecco, i conti erano fatti. Sapevo esattamente quanti stavano apertamente e fisicamente dalla parte dei Gonzaga. Riflettei, feci qualche calcolo, e decisi che bastavano a dare loro una buona possibilità di successo. Perciò, tornato nelle mie stanze, anziché fare i bagagli e correre a fermare Guglielmo sulla strada per Verona, ordinai al valletto di prepararmi la tunica e le calze di seta nera, la cintura d’argento e la berretta con le perle, e quando ebbe disposto tutto sul letto lo mandai a sellarmi il cavallo. Mi rinfrescai e vestii, e, per la prima volta da quando ero a Mantova, appesi alla cintura spada e pugnale.

Giunsi al monastero di San Giovanni poco dopo l’ora quarta del mattino e subito mi aprirono la porta del parlatorio. Viola aveva da poco compiuto i quindici anni. Se ne stava in piedi dietro la grata, lontana cinque passi da questa, illuminata dalla poca luce che entrava dall’unica e alta finestrella. La badessa sedeva in un angolo, nella penombra; non riuscivo a vederla in volto, ma sentivo il suo sguardo pesare su di me. Resi prima omaggio a lei con un inchino e poi mi rivolsi alla nipote di fra Tebaldo.

«Sapete perché sono qui, madamigella Viola?»Rispose sottovoce, gli occhi bassi: «Il mio signor zio ha scritto alla

reverendissima madre».«Quanto manca alla fine della vostra educazione?»Guardò la badessa di sguincio, senza alzare il capo. Quella rispose, con

una voce incredibilmente giovane e flautata: «Fra otto mesi sarà pronta».Si riferiva a quanto tempo mancava allo scadere dell’anno dal primo

Page 43: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

mestruo, e la ragazza avvampò.«Reverendissima, posso guardarla più da vicino?»La badessa fece un gesto con la mano, ordinando a Viola: «Andate a un

passo dalla grata. Potete poggiare la mano destra su una sbarra».Viola vestiva come una conversa e dalla cuffia le uscivano alcuni ricci

castani. Aveva un viso dai lineamenti piacevoli, anche se era piuttosto tarchiata nel fisico e le dita tremanti posate sulla sbarra della grata erano corte e tozze. Le sorrisi e tentai di rincuorarla: «Non temete, nessuno v’imporrà uno sposo sgradito».

«Seguirò la volontà del mio signor zio» rispose sbirciandomi di sottecchi e arrossendo di nuovo.

Le toccai delicatamente la mano e le feci un inchino, sussurrandole: «Neppure vostro zio vi obbligherà».

«Se lo desiderate, signore, potete tornare domani. Vi permetterò di scambiare qualche parola e fare due passi nel chiostro» concesse la badessa alzandosi. «Ora dobbiamo andare a prepararci per la santa messa in onore della Vergine.»

La proposta mi dava la scusa per giustificare la mia permanenza a Mantova per almeno altri due giorni, senza bisogno di inventarmi un mal di capo o qualche altro malanno. Accettai l’offerta e uscii evitando di volgere le spalle alle due donne.

Fuori ero atteso. Francesco e Giovanni Bonacolsi, i loro cugini Guido e Pinamonte, con quattro cortigiani vestiti elegantemente e armati, chiacchieravano sottovoce fra di loro all’ombra del grande tiglio antistante l’ingresso del parlatorio. Un po’ discosti, due valletti con la livrea rossa e gialla tenevano per le briglie otto stalloni e due puledri. Francesco, poggiato con una spalla al tronco dell’albero, un piede accavallato sull’altro, la mano sinistra sull’elsa della spada, appena mi vide si drizzò e mi venne incontro seguito dal codazzo dei suoi. Si portò una mano al petto e accennò un inchino.

«Allora, messer Corrado, come questa Violetta? Profuma a tal punto da meritare di essere colta?» chiese.

Il cuore accelerò i battiti, ma risposi fingendomi divertito: «Graziosa, per quello che la poca luce mi ha permesso di vedere».

Non sembravano aver cattive intenzioni, però non erano rilassati e allegri quanto cercavano di apparire. Mi preparai a sguainare la spada e a vendere cara la pelle, o almeno a tentare la fuga.

«Meglio controllare bene, messer Corrado. Per evitare sorprese a

Page 44: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

parola data» disse ironico Giovanni giocherellando con la croce d’oro di abate.

Erano tutti davanti a me, a neppure tre passi, senza dare l’impressione di volermi circondare. Annuii e risposi: «Proprio per questo, reverendissimo, ho accettato d’incontrarla nuovamente domani. Nel chiostro e alla luce del sole».

«Solo diciassette anni fa avreste dovuto controllare anche sotto la tunica, amico mio» ribatté l’abate.

Risero tutti e li guardai perplesso. Non capivo cosa avesse inteso dire Giovanni. Notando il mio sconcerto, Francesco spiegò: «Prima del loro scioglimento, erano i Templari a farla da padroni in questo monastero. E non testavano solo la fede e l’istruzione di monache e fanciulle, ne tastavano anche le capacità amatorie. Altro che sodomiti come si va dicendo oggi!».

Risero di nuovo e ritenni utile imitarli. Subito dopo chiesi a Francesco: «Avete qualche affare nel monastero o state aspettando qualcuno?».

«Aspettavamo proprio voi e, a dire il vero, vi stiamo cercando da un bel po’. Non vi facevo così pio da entrare e uscire da quasi tutte le chiese di Mantova.»

«Purtroppo sono un grande peccatore e approfitto di questo giorno di festa per ripulire l’anima. Ma di grazia, a cosa devo tutta questa vostra attenzione?»

«Mio padre ha mandato Rolando a parlare con la badessa e io sono venuto a riferire.»

«Allora, qual è il verdetto?» cercai di scherzare.L’abate Giovanni allungò una mano, mi diede due colpetti su una

spalla e disse con accondiscendenza: «Ottime notizie. La fanciulla è ubbidiente, docile e non troppo intelligente. L’ideale per una moglie, no?».

«Mi rendete felice, signori. Anche se prima di parlare di moglie, oltre a guardarla bene, devo pensarci su con calma. Non ho più l’età per i colpi di testa. Ho aspettato i ventisei anni e posso far passare anche i ventisette.»

«Ben detto» s’intromise Pinamonte ridacchiando. «Io l’ho fatto, il colpo di testa. A diciassette anni. E ancora ne pago le conseguenze.»

Lo stalliere del convento uscì dalla foresteria con il mio cavallo e Francesco mi pregò di fare con lui un tratto di strada. Ci dirigemmo verso il duomo parlando di sciocchezze, ma facendo volutamente un giro

Page 45: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

vizioso che ci portò davanti a palazzo Gonzaga. Spiai l’espressione dei miei compagni e li vidi incupirsi, stringere più forte le briglie. Uno, addirittura, sputò a terra con disprezzo. Anche i servi di guardia all’ingresso del palazzo esibirono un’aria poco amichevole. Vedendoci arrivare avevano ostentatamente posato le mani sui pomoli delle spade, e uno di loro era rientrato di corsa nell’androne.

Francesco arrestò il cavallo e ricominciai a temere l’agguato. Il tempo di pochi respiri e comparve Guido Gonzaga, disarmato e sorridente. Salutò Francesco e gli altri come fossero degli amici, chiese se volevano entrare e infine posò lo sguardo su di me. La tensione era palpabile e i miei indesiderati compagni presero a fissarmi, improvvisamente corrucciati. Alzai una mano in segno di saluto: «Messer Guido, non ci si vede da tempo. Come state? E il vostro signor padre gode di buona salute?».

«Stiamo tutti bene, vi ringrazio. E il signore di Verona?»«Qualche preoccupazione, ma niente di così grave da togliergli il

sonno.»«È da parecchio che non vi si vede a Mantova. Cosa vi ha portato in

città con questa afa, se mi è lecito chiederlo» insistette Guido.«Temo non sia più un segreto. Non deridetemi, ma sono qui in cerca di

moglie.»«Be’, se non avete fretta io ho una schiera di sorelle. Per noi sarebbe un

onore se ci concedeste la vostra attenzione» disse. Poi si rivolse di nuovo a Francesco: «Forse tuo padre ha bisogno di noi?».

«No, si passava di qua per caso. Stammi bene, Guido.» E ciò detto spronò il cavallo senza salutare e borbottando qualcosa d’incomprensibile, probabilmente un insulto.

Appena superato l’ultimo fabbricato dei Gonzaga, chiesi fingendomi stupito: «Scusatemi, ser Francesco. C’è forse qualche screzio con i Gonzaga? Me parso di percepire della tensione fra voi e Guido».

Il suo tono fu sprezzante: «Ultimamente sono diventati troppo arroganti. Quelli li abbiamo fatti ricchi noi e prima o poi dovremo ricordarglielo obbligandoli ad abbassare la cresta». Poi, cercando di apparire gentile: «Mio padre v’invita alla nostra tavola per il banchetto dell’Assunta. Ci farete l’onore di esserci?».

Mi mostrai addolorato: «Oh, mi dispiace! Eccome se ci verrei. Purtroppo questa sera devo assolvere un voto preso con il priore. Devo confessarmi, cenare poveramente con lui e i suoi confratelli e partecipare

Page 46: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

alle preghiere di compieta. Potrebbe andar bene domani sera, visto che mi devo fermare per rivedere Viola?».

«Certo, andrà bene anche domani sera» concesse.Non so se fu una mia impressione, se interpretai male lo scambio di

sguardi, ma ebbi la sensazione che Francesco, Giovanni e gli altri si fossero come liberati di una forte tensione. E ciò rinforzò in me la certezza che non sospettassero nulla di quanto stava per accadere. Per loro il problema, in quel momento, era soprattutto Cangrande. E se invece sospettavano che fossi a Mantova per tramare qualcosa con i Gonzaga a nome suo, non lo consideravano un problema immediato. Si poteva festeggiare in pace, ci sarebbe stato tempo sufficiente per fare altre indagini e studiare altre mosse: questa doveva essere la loro convinzione. Infatti, dopo che ci siamo separati nei pressi del vescovado, nessuno mi ha più seguito.

[…]

Page 47: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Mantova, XVI giorno di agosto

La scorsa notte ho vegliato analizzando e ricontrollando i tempi e le modalità dell’azione, cercando di prevedere dove ci sarebbe potuto essere un problema. Il piano non era complicato. Prima di tutto occupare una delle porte di Mantova, la meno vigilata, per far entrare i fanti incaricati di aggredire da dentro le altre guardie e presidiare gli acquartieramenti delle truppe di Passerino. Fatto ciò, Luigi Gonzaga avrebbe chiamato il popolo alla sollevazione mentre i suoi occupavano il palazzo del Capitano e il palazzo comunale. Infine, la nostra cavalleria si sarebbe dislocata nelle strade prossime alla piazza, pronta a intervenire in difesa degli insorti. A me spettava di prendere possesso di palazzo Bonacolsi. Poi tutto sarebbe dipeso dai mantovani. Non dovevamo essere degli occupanti. Anzi, in caso di fallimento, ci saremmo ritirati immediatamente fuori dalle mura, in attesa degli eventi. In caso di riuscita, si dovevano evitare il più possibile vendette e violenze fra le opposte fazioni, contro Passerino e la sua famiglia.

Il priore di San Francesco, se qualcosa sapeva, si era ben guardato dal farmelo capire o di prendere una posizione. Perciò non volli implicarlo nella congiura chiedendogli di farmi uscire nascostamente prima della campana di mattutino. Seguendo le indicazioni fornitemi da fra Tebaldo, lasciai di soppiatto la mia stanza e attraversai in punta di piedi il corridoio che conduce alla farmacia, l’unico locale dove c’è una finestra priva di inferriata. Quindi attraversai l’orto fino a un certo angolo della recinzione dove c’è una porta chiusa dall’interno da un semplice catenaccio.

Le strade erano deserte e m’imbattei solo in un paio di ubriachi che russavano rannicchiati contro il muro di un porticato, poco prima di imboccare il vicolo coperto dove ci sono le botteghe e le case degli speziali e dei pellicciai. Sopra la testa sentivo lo scricchiolare delle assi calcate da chi già si stava alzando, e borbottii indistinti frammezzati da un tossicchiare e un raschiare di gola. Giunsi così alla casa di uno degli alleati di Luigi Gonzaga. Il portone era socchiuso e dallo spiraglio

Page 48: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

filtravano luce di lanterne, un parlottare rapido, uno scalpiccio e un battere di zoccoli sull’acciottolato. Poco oltre, davanti alle stalle dei Zanicalli, cercai il segnale convenuto. Due nastri, uno giallo e l’altro nero, pendevano dalla grata di una delle finestre del pianterreno: Luigi e i suoi erano all’interno, pronti all’azione.

Percorsi un’altra cinquantina di passi e mi rincantucciai nell’oscurità di un piccolo e basso loggiato, continuando a tenere d’occhio le stalle. Una delle porte si aprì e una dozzina di giovani vestiti da popolani uscì in strada. Gesticolarono brevemente fra loro indicando chi da una parte chi dall’altra e presero a correre in diverse direzioni. Stavano andando a mettersi negli slarghi e nei crocicchi dove si sarebbe radunata la gente dei borghi, per incitarla alla rivolta. Abbandonai allora il loggiato e mi avviai alla “Porta dei mulini”. Avanzavo radente i muri e mi fermai solo quando la ebbi ben visibile davanti a me. Maledissi la rapidità con la quale il tempo passava. A oriente il cielo iniziava a ingrigire.

Le fiaccole della porta erano ormai consumate, le fiamme basse e tremolanti. Gli uomini di guardia, quattro vicino agli argani e alla grata e due sulla torre, sembravano stanchi e assonnati. Stavano o seduti sulle panche o poggiati alle aste delle lance. Sbadigliavano, guardavano di continuo nella direzione da cui sarebbe arrivato il cambio. Udivo abbastanza distintamente le loro voci. Parlavano della festa, maledicevano il turno di servizio che li aveva privati del vino e delle cibarie obbligandoli ad accontentarsi di quel poco che erano riusciti a portare via. A un tratto uno degli uomini sulla torre si sporse giù, annunciando ai compagni dabbasso: «Arriva gente!».

«Chi sono?» chiese il capoposto scuotendo vicino all’orecchio un otre inesorabilmente vuoto.

«Sembrano contadini, con un carro trainato da buoi.»«Quanti sono?»L’altro scomparve dietro il parapetto di assi e dopo un po’ tornò a

sporgersi: «Una quindicina».Il capoposto ebbe un moto di stizza. Gettò in un angolo l’otre e gridò a

quello sopra: «Lasciali arrivare alla porta. Dovranno aspettare il cambio e i gabellieri per entrare».

M’irrigidii. Era il momento più pericoloso, decisivo. Se tutto era andato secondo i piani, le nostre truppe erano già nascoste a un quarto di miglio fra le case e gli ovili dei pastori al limitare del bosco di querce che fa da barriera alle piene del Mincio. Dovevano aver lasciato Verona

Page 49: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

la sera precedente e coperto le ventotto miglia di strada senza una sosta. Guardai alle mie spalle mentre fra gli uomini di guardia alla porta e quelli fuori si stava accendendo una discussione. Neppure il tempo d’imprecare e comparvero a cavallo Luigi e i suoi figli. Passandomi davanti si limitarono a uno sguardo e un cenno. La loro comparsa suscitò stupore nei guardiani.

«Ser Luigi, cosa fate in giro a quest’ora? Dovete uscire? Non è ancora il momento dell’apertura, sta appena sorgendo il sole» disse il capoposto.

«Aspetto i miei contadini di Marmirolo, con un carico di grano. Devo assolutamente arrivare al mercato per primo se voglio realizzare il prezzo migliore.»

«Sono qui fuori. Ma come dicevo non è ancora l’ora. Padron Francesco ha parlato chiaro: nessuno deve entrare o uscire prima del cambio, per alcun motivo.»

Luigi insistette: «Francesco non intendeva sicuramente riferirsi anche a me. Suvvia, aprite le porte e fate entrare la mia gente. Poi le chiuderete di nuovo e sarà come se nulla fosse accaduto».

«Voi mi volete vedere nella torre con i ceppi ai piedi, signore. No, non posso, non posso proprio.»

«Non preoccupatevi della torre e dei ceppi. Vi assolverò io.»L’uomo era titubante, brontolava tra sé e sé scambiando occhiate con i

suoi. Appoggiai la mano sull’elsa della spada. Le cose si stavano trascinando troppo per le lunghe. Eravamo in cinque contro sei e potevamo tentare qualcosa. Il problema erano gli uomini sulla torre e la maledetta campanella messa lassù. Se iniziava a suonare, l’allarme avrebbe percorso l’intera cinta muraria e tutto sarebbe precipitato. Per fortuna Guido risolse la questione: «Sarete ricompensati generosamente. Aprite, e ce ne sarà per tutti».

«Cosa più facile a dirsi che a farsi» replicò il capoposto. «In quattro non ce la facciamo a girare gli argani della grata e del ponte, per questo aspettiamo il cambio. Fosse solo per…»

«Su, amici, fateci questo favore. I due sulla torre possono scendere un attimo e darvi una mano.»

«Una faccenda contro le regole… Come dicevo, se si venisse a sapere…»

Guido si tolse dalla cintura un borsello ben gonfio, lo scosse facendo tintinnare le monete e lo tese al capoposto. L’uomo non pareva ancora

Page 50: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

convinto, ma gli altri iniziarono a dirgli: «Ser Luigi e i suoi figli non sono gente qualunque. La torre del loro palazzo è alta quasi come quella di Passerino. Facciamogli questa grazia. In sei apriamo e chiudiamo in un battibaleno».

Anche i due sulla torre sopra la porta, ormai più interessati al borsello che alle proprie incombenze, insistevano: «Suvvia, Bartolo! Questo strappo alle regole un domani ti potrà far comodo. I Gonzaga non scordano i favori, lo sappiamo tutti».

«E va bene» cedette l’uomo. «Però ogni responsabilità ve la prendete voi, messer Luigi. In fin dei conti chi sono io per oppormi a uno che a Mantova è secondo solo a padron Passerino!»

Tirai un sospiro di sollievo. Il chiarore dell’aurora era già sopra la linea ondulata degli alberi del bosco. Soffiando e ansimando i guardiani abbassarono il ponte, sollevarono la grata e tolsero le grosse sbarre alle porte. Non ci volle molto, eppure mi sembrò un’eternità.

I mietitori entrarono zoccolando sull’assito del ponte levatoio, e quando anche il carro fu dentro e i portinai armeggiavano per richiudere la porta, impugnarono le falci e gliele misero al collo. Corsi verso di loro e vidi il capoposto cercare di divincolarsi per dare l’allarme. Non riuscì neppure a completare la parola “tradimento”: cadde a terra con un rantolo e un fiotto di sangue dalla gola recisa. Intanto chi conduceva il carro era salito sulla torre e, agitando una torcia tenuta bassa e radente al muro, stava dando il via alle nostre truppe.

I mietitori erano in realtà dei pretoriani di Cangrande, i migliori. Raggiunsi il loro capitano, Marzio, ma non ci fu il tempo per parlare con lui. Si stavano togliendo rapidamente gli zoccoli e le corte tuniche contadine e, una volta rimasti in brache e camicia, presero a rovistare nel grano, tirando fuori dei sacchi. Ognuno conteneva una sottocotta, una cotta di ferro, una barbuta e, oltre a cintura e stivali di feltro, una copricotta con le insegne scaligere. Invece, spade e daghe erano nascoste sotto il pianale del carro.L’arrivo degli Zanicalli anticipò di poco un calpestio pesante e

cadenzato proveniente dall’esterno. I nostri balestrieri e pavesari iniziarono a entrare di corsa, divisi in squadre di dodici. Subito alla testa di ognuna si mise uno degli uomini dei Gonzaga incaricati di guidarli fino alle altre porte e agli acquartieramenti dei soldati di Passerino. Fu poi la volta dei fanti, che si dislocarono lungo le mura. Infine, entrò la cavalleria leggera, preceduta da Guglielmo di Castelbarco abbigliato

Page 51: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

come se andasse a una festa anziché in battaglia. Mi fece un gesto di saluto, sorrise allegramente, e chiese a Luigi: «Tutto bene, suocero?».

«Per ora sì, ma siamo solo al principio.»«Dove sono gli altri vostri uomini?»«Eccoli» rispose Luigi indicando una squadra di cavalieri sbucare da

dietro una casa.Il sole stava ormai tingendo di un pallido rosa i bordi inferiori di

alcune nubi immobili e basse. Osservai le case vicine. La gente spiava dalle imposte socchiuse; alcuni, richiamati in strada dal fracasso, rientrarono frettolosamente e sbarrarono le porte; invece altri, armati di spada o spiedo, andavano a mettersi alle spalle di Guido e Feltrino Gonzaga. Portarono i cavalli per me e i pretoriani e lasciammo la porta dei mulini prima che gli insorti iniziassero a muoversi. Procedendo al passo fino all’imbocco della piazza, andammo ad appostarci in modo da avere sotto controllo palazzo Bonacolsi. Ero preoccupato. Chi avevamo incrociato non mi era parso per nulla pronto o disposto alla rivolta: solo reazioni di sorpresa e di paura. Inoltre la piazza, con ancora i resti della luminaria e dei bagordi della sera prima, era quasi deserta. Poi udimmo galoppare e irruppe Luigi con al seguito i figli e Alberto di Saviola, gridando: «Alle armi! Alle armi, per Mantova!».

Si stavano dirigendo verso palazzo Bonacolsi, come se avessero intenzione di allertare Passerino. Finalmente alcune finestre del palazzo si aprirono, i servi cominciarono a sporgersi per guardare giù parlando e gesticolando animatamente fra loro. Si aprì anche l’ingresso principale e uscirono degli armigeri. Si guardarono attorno e rientrarono rapidi. “Mio Dio,” pensai “la città non risponde.” Nello stesso momento la campana del comune iniziò a suonare a martello e da tutte le vie sbucò gente.

«Viva Mantova! Abbasso Passerino e le sue gabelle! Viva i Gonzaga!» urlavano.

Non erano moltissimi, ma facevano un tal baccano da innervosire perfino i nostri cavalli. Intanto Luigi e i suoi arretravano ponendosi davanti al palazzo del Capitano, e i suoi sostenitori aumentavano di attimo in attimo. Fecero la loro comparsa anche i primi fedeli di Passerino e iniziarono ad aggredire e spintonare. In breve la zuffa s’infiammò, si udirono i primi cozzare di lame, le prime grida di dolore. Poi le porte di palazzo Bonacolsi si spalancarono e Passerino uscì in groppa a un palafreno roano. Era da solo e in quel momento ne ebbi la

Page 52: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

certezza: lui, una rivolta, non l’aveva neppure immaginata.Dovevano averlo appena svegliato. Era vestito sommariamente con

brache e camicia, senza spada al fianco. Cominciai ad avanzare lentamente. Ero troppo lontano per cogliere la sua espressione, ma udii la sua voce, tanto forte da sovrastare il chiasso: «Cosa diavolo sta accadendo? Dov’è il pericolo?».

Era arrivato nel mezzo della piazza e continuava a guardarsi in giro come se non sapesse da quale parte dirigersi. La gente vicina a lui, anche la più scalmanata, zittiva e si immobilizzava, gli faceva largo impaurita. Dalla parte del palazzo comunale arrivò di corsa un plotone di fanti, le lance puntate ad altezza di cuore. Passerino vide Luigi e i suoi, scorse me e finalmente iniziò a capire ciò che stava accadendo. Lanciò un ruggito portandosi la destra al fianco, si accorse di essere disarmato e volse il cavallo in direzione del duomo. Avanzò solo di pochi passi. Da quella parte si erano posizionati gli uomini delle corporazioni, armati di picche. Allora drizzò il busto e puntò dritto su Luigi. La piazza zittì del tutto e lui, senza timore e ignorando chi sfiorava, sul volto la durezza e l’impenetrabilità di chi si accinge a giustiziare un criminale, giunto a neppure tre passi dai Gonzaga scandì: «Come osate sollevare il popolo contro di me?».

«Voi non siete più il signore che abbiamo amato, siete diventato un tiranno» rispose Luigi con voce non proprio ferma.

«E voi un traditore, un cane rabbioso che cerca di mordere la mano che l’ha nutrito.»

«Vi prego, evitate spargimenti di sangue e arrendetevi» implorò Luigi con voce ancora più malferma. «Nessuno vi toccherà e sarete trattato con il dovuto rispetto. Ve lo giuro sul mio onore.»

«Quale onore? Voi non siete un uomo d’onore. Voi siete un uomo morto!»

E dicendo questo, Passerino girò il cavallo fino a metterlo di fianco a quello dell’avversario. Avanzai ancora insieme ai miei uomini, le spade sguainate, e ci fermammo a non più di dieci passi da Passerino. Lui alzò lentamente la mano destra, afferrò al collo Luigi e iniziò a stringere. Ero ammirato dal coraggio del vecchio condottiero e nello stesso tempo allarmato dal comportamento di chi pretendeva di diventare il nuovo signore di Mantova. Passerino stringeva e Luigi, paonazzo e paralizzato dalla paura, continuava a non mettere mano alla spada.

Marzio si piegò verso me, preoccupato: «Dobbiamo intervenire?».

Page 53: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Scossi la testa, senza staccare gli occhi dai due nemici. Era una scena assurda. Ancora qualche attimo e Passerino avrebbe strozzato Luigi con una mano sola, senza che neppure i figli intervenissero. Se questo fosse avvenuto, chi avrebbe avuto più l’ardire di ribellarsi?

Nelle ore successive ho udito molti chiedersi quale fosse stato il motivo di un tale comportamento, e i più lo attribuivano a vigliaccheria. Non è così. I Gonzaga avevano sinceramente amato Passerino per un’intera vita, l’avevano ammirato, rispettato e temuto. Non è facile spogliare qualcuno della sacralità della quale noi stessi lo abbiamo rivestito. Certo, Passerino era pur sempre solo un uomo; ma anche il crocefisso è solo un pezzo di legno, eppure chi oserebbe piantare il suo pugnale fra le costole scolpite?

A provocare la svolta negli eventi fu Alberto da Saviola. Udendo Luigi emettere un gemito roco, smontò da cavallo con la spada in pugno, si avvicinò di corsa a Passerino e lo colpì al fianco destro. Non emise un gemito, ebbe solo una smorfia e per un attimo si piegò in avanti serrando gli occhi. Quindi guardò prima Alberto e poi la camicia che andava inzuppandosi di sangue. La mano lasciò il collo di Luigi, scivolando lenta sul petto del Gonzaga come accarezzandolo, e ricadde aperta e priva di forze. Afferrò le briglie con la sinistra e terreo in volto girò il cavallo. Lo spronò al galoppo verso il suo palazzo, travolgendo chiunque non riusciva a scostarsi in tempo. Nessuno ebbe l’ardire di alzare la mano su di lui per tirarlo giù né tantomeno per colpirlo. Ma traballava sempre di più e a un certo punto sembrò cadere. Riuscì a reggersi mollando le briglie e afferrandosi con entrambe le mani all’arcione. Giunto quasi all’ingresso del palazzo, iniziò a vacillare di nuovo. Il cavallo proseguiva la sua corsa e proprio nel momento in cui stava per varcare la soglia, Passerino sbandò e picchiò violentemente la testa contro lo stipite di pietra. Venne sbalzato all’indietro e un attimo dopo ruzzolò a terra.I militi e i servi di guardia all’ingresso fuggirono, senza neppure tentare di trascinarlo dentro l’androne.

Luigi e Feltrino non si mossero. Furono Guido e Filippino a balzare da cavallo e correre verso Passerino tallonati da Alberto. Feci un cenno a Marzio e, ancor prima che si formasse ressa attorno al ferito, ci disponemmo in modo da poter bloccare l’ingresso a palazzo Bonacolsi. Poi smontai anch’io e mi inginocchiai accanto a Passerino, spintonando via Alberto di Saviola. Giaceva prono, il viso di profilo, la fronte spaccata. Dalla bocca gli usciva una schiuma rossastra, gli occhi erano

Page 54: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

vitrei, la pelle giallognola e la pozzanghera di sangue sotto di lui si stava rapidamente allargando. Misi due dita sulla giugulare: Passerino era morto. Morto stupidamente e disarmato per mano di chi neppure considerava degno di essere salutato per primo quando lo incrociava. Uno degli dei, uno degli uomini più potenti d’Italia, giaceva fra il lerciume della strada.

Non c’è spazio per le riflessioni in queste pagine, a costo di apparire un uomo gelido e privo di sentimenti. Non per nulla qui, parlando di fatti accaduti da poco; scrivo io “vidi” anziché “ho visto” oppure “vedo”. È per interporre più tempo del reale fra me e gli eventi, per giudicare con maggior freddezza ed evitare l’impulsività. Mi feci dunque il segno della croce e, senza curarmi di cosa stesse accadendo attorno a me, mi apprestai a guidare i pretoriani dentro il palazzo. I rintocchi furiosi delle campane, le grida, gli insulti, il clangore delle armi e le urla ripresi con maggior forza di prima non erano faccenda mia. Ci avrebbero pensato Guglielmo e Luigi. Io dovevo solo occupare quelle stanze prima di chiunque altro. Non fui abbastanza veloce. Alberto di Saviola e cinque dei suoi ci precedettero e dovemmo rincorrerli su per la scala, fino al piano nobile.

Francesco e Andrea Bonacolsi avevano le camere volte alla corte e al giardino. Per questo, fuggiti o nascostisi chissà dove i servi e le guardie, non si erano accorti di nulla finché non aveva fatto irruzione Alberto di Saviola. Giovanni era steso a letto, le coltri tirate fin sul naso, e fissava attonito i due uomini davanti a lui. Accovacciata in un angolo, nuda e scarmigliata, la sua concubina gridava tendendo le mani chiuse a pugno davanti alla bocca. Feci un cenno, e tre dei miei occuparono la camera disarmando i rivoltosi. Due porte dopo c’era la camera di Francesco. Erano in quattro a circondare il letto e Alberto di Saviola stava graffiando con la punta della spada il petto del nemico. Francesco, la testa protesa in avanti, il busto in parte sollevato facendo forza sui gomiti, un piede a terra e l’altro imprigionato dal lenzuolo attorcigliato, lo fissava rabbioso. Sua moglie Vannina era solo una sagoma tremante sotto le coltri. Stavamo ancora sulla soglia quando due insorti afferrarono Francesco per le braccia e per i piedi e un terzo sollevò in alto un roncone. Puntai la mia lama fra le scapole di Alberto esattamente nel momento in cui ordinava: «Castralo».

«Nessuno osi toccarlo!» gridai, mentre i miei si precipitavano nella stanza.

Page 55: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Castralo!» ripeté Alberto, con voce stridula e rabbiosa.L’uomo, nonostante il mio ordine, allungò la mano sinistra verso i

genitali di Francesco pronto a colpire con la destra. Marzio gli tranciò di netto due dita e solo a quel punto nessuno osò più muoversi. Li cacciammo fuori e immediatamente dopo i cavalieri di Guglielmo si posero a guardia di tutti gli ingressi di palazzo Bonacolsi.

Non fu impresa facile rinchiudere Francesco e Giovanni in un’unica camera. Se l’abate piagnucolava invocando l’immunità e la protezione della chiesa, Francesco tentava di colpirci in ogni modo, di sottrarci un’arma, e scaricava su di me gragnuolate di bestemmie e insulti promettendo di scannare con le sue mani i Gonzaga e lo stesso Cangrande. Andai nella camera di Passerino. Elisa d’Este era vestita e in attesa, lo sguardo fiero e una smorfia di disprezzo sul volto. La pregai con la massima cortesia di trasferirsi con le sue due ancelle, le uniche rimaste a farle da scudo, nella sala della musica e in quella feci condurre anche le altre donne della famiglia. Alla fine andai a una delle finestre sulla piazza e vidi Luigi Gonzaga arringare la folla. Aveva accanto i figli e Guglielmo di Castelbarco, e alle spalle due dozzine di nostri cavalieri.

Cos’altro scrivere di questa giornata? Elencare i morti dell’una e dell’altra parte? Grazie a Dio non furono molti. Tanti, invece, furono i fedeli di Passerino catturati, malmenati e imprigionati, altrettanti i palazzi razziati dal popolo. Se non si versò molto sangue il merito fu sì della nostra presenza e dell’oratoria di Luigi, ma soprattutto del vescovo Giacomo Benfatti. Dalla porta del duomo invitò i mantovani alla pacificazione, minacciando di privare della confessione e di una sepoltura cristiana chi non avesse deposto subito le armi affidandosi alle decisioni del Consiglio generale appena convocato. Inoltre, se ridusse Giovanni allo stato laicale, prese sotto la protezione della Chiesa le donne dell’intera famiglia Bonacolsi e i figli di Saraceno. Pretese inoltre che il corpo di Passerino venisse deposto su un catafalco in duomo e non appeso per i piedi a uno dei pennoni della piazza come reclamava la folla.

Tornata un po’ di calma, Francesco, Giovanni e i loro cugini Guido e Pinamonte furono condotti nelle prigioni del comune. Un solo uomo non trovò un cane disposto a parlare in sua difesa: Rolando dei Carbonesi, colui che riscuoteva le gabelle. Lo catturarono mentre cercava di fuggire da Mantova travestito da mendicante e ogni errore di Passerino lo si attribuì a lui, malagiustizia e corruzione comprese. Fu

Page 56: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

facile renderlo il capro espiatorio, l’uomo da sacrificare. E di quel sacrificio la plebe fortunatamente si accontentò. Dopo averlo legato alla colonna della piazza dove si pongono i rei alla berlina, riempito di percosse, insulti e sputi, lo chiusero dentro un sacco e lo finirono a randellate. Furono moltissimi a impugnare il bastone, e le sue urla durarono poco. In breve il sacco grondò sangue e parve non contenere più forma di uomo. Poi venne fatto rotolare fino al Mincio e gettato nel fiume. Le acque si arrossarono appena, perché non era rimasto molto sangue in quell’ammasso di carne e ossa maciullate.

Tutto questo accadde tra l’alba e il mezzodì. Nel pomeriggio, a ora nona, fu convocato il Consiglio generale. Luigi lodò e decantò Cangrande. Lo disse disposto a reggere Mantova se il popolo lo chiedeva, ma nello stesso tempo fece capire di essere pronto a prendere la città nelle sue mani. Fu accorto e diplomatico, e fece molte promesse. Alla fine la stragrande maggioranza dei consiglieri lo acclamò suo signore. Prima del tramonto ogni soldato e sostenitore di Passerino ancora libero cambiò bandiera; al calare delle tenebre quasi tutti quelli incarcerati giurarono fedeltà ai Gonzaga e furono liberati.

Gli alleati di Luigi organizzarono in tutta fretta un nuovo banchetto pubblico e una seconda luminaria. Io, dopo aver declinato l’invito e prima di rientrare a San Francesco, decisi di rassicurarmi sullo stato delle donne. Seppure abbattute, umiliate e stremate, avevano rifiutato sdegnosamente il letto e si erano raccolte in preghiera nella cappella, decise a vegliare fino all’alba quando dei carri coperti le avrebbero condotte a Ferrara.

[…]

Page 57: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Mantova, XVII giorno di agosto

Oggi è stato un giorno bizzarro. All’alba ho inviato a Verona il mio valletto, con i rapporti per Cangrande, e mi sono diretto a palazzo Bonacolsi. In piazza c’era già confusione e molta gente entrava e usciva dal duomo. Soprattutto popolani, accomunati da medesime espressioni del volto. Un misto di imbarazzo e timore entrando e mesta incredulità uscendo. Ho chiesto a un uomo dal viso butterato il motivo di una simile processione e mi ha risposto che andavano a vedere Passerino. La plebe è strana. Ieri avrebbe voluto fare a pezzi il suo corpo, oggi lo vuole vedere. Domani sicuramente lo rimpiangerà: per i miseri nulla cambia se a mutare sono solo i padroni.

Tre carri erano in attesa nella corte di palazzo Bonacolsi. Contai gli uomini della scorta e li considerai insufficienti. I carri avrebbero trasportato assieme alle donne anche i corredi, i gioielli e il denaro personale, un bottino capace di attrarre molti malintenzionati. allora pregai Marzio di aggregarsi alla carovana con alcuni pretoriani e gli affidai il comando. Non assistetti alla partenza dei carri. Ero di cattivo umore, non volevo assistere a scene capaci di peggiorarlo, così mi avviai verso palazzo Gonzaga per incontrare Guglielmo. Percorsi poca strada, perché lui stava venendo da me con Guido. Ed era scuro in volto.

«C’è un problema da risolvere, Corrado» disse appena l’ebbi davanti.«Ossia?»«Mio padre desidera un Te Deum in duomo. Per ringraziare il Signore

d’essere riusciti a evitare un massacro» intervenne Guido.«Non capisco come un Te deum possa essere un problema» replicai

passando lo sguardo dall’uno all’altro.«Il problema è il corpo di Passerino» precisò Guglielmo.«Lo si può lavare, rivestire e mettere nell’arca della sua famiglia. Il

tempo non manca» dissi.«L’arca non accoglierà Passerino. Anzi, mio suocero vuol far rivoltare

Page 58: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

tutte le loro lastre in modo da occultare per sempre lo stemma dei Bonacolsi» sbottò Guglielmo rabbuiandosi ancor più.

Capivo il suo stato d’animo. Era un uomo d’onore e non gli piaceva veder infierire persino sugli antenati di un avversario caduto. Soprattutto se questi era stato per gran parte della vita un amico, per di più leale. Fissai Guido e dissi un po’ sarcastico: «Vostro padre avrà parecchio da fare. A Mantova lo stemma dei Bonacolsi è ovunque».

Guido abbassò lo sguardo. Era evidente il suo imbarazzo, perfino una silenziosa disapprovazione per la decisione del padre. Cercò di giustificarlo: «Non giudicatelo male, non ha tutti i torti. Alla prima difficoltà quegli stemmi potrebbero trasformarsi in veri e propri nemici, anche se sono solo di pietra o dipinti. Passerino non è stato sempre un tiranno come negli ultimi tempi».

«E dove intendereste seppellirlo?» chiesi.«Nel monastero di Sant’Andrea. Il chiostro è un posto nascosto, ma

dignitoso e santo. I monaci si occuperanno di tutto e con la massima discrezione. Intanto il corpo verrà messo in una bara e portato nella sacrestia.» Alzò lo sguardo verso l’ingresso del duomo e indicò con il mento la gente che ancora entrava e usciva: «Vedete? Se l’ho amato io, se perfino ora non riesco a odiarlo come meriterebbe, quanti di quegli uomini e di quelle donne lo conserveranno nel cuore? Passerino è ingombrante pure da morto».

Guglielmo fece una smorfia, allargando le braccia come a dire “non si può fare nulla”.

«Non ho ordini per i morti. Se questo ha deciso vostro padre, sia fatta la sua volontà. Quali intenzioni avete riguardo ai figli e ai nipoti di Passerino?»

«Hanno avuto salva la vita come Cangrande desiderava. Domani saranno trasferiti a Castellaro e rinchiusi nella torre. Una cosa ve la posso garantire: neppure domani si verserà il loro sangue.»

Avevo continuato a scrutare Guido e non mi sfuggì un improvviso arrossarsi delle orecchie e un guardare altrove. Nonostante i suoi sentimenti e le sue parole, i Gonzaga stavano tramando qualcosa e mi venne spontaneo dire: «Se non vi dispiace, vorrei accompagnarli a Castellaro».

Trasalì leggermente, serrò le labbra e rispose seccamente, drizzando il busto e piantandomi gli occhi addosso: «Non saremo certo noi a impedirvi di farlo, anche se non ne vedo il motivo».

Page 59: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Cercai di addolcire il tono: «Lo sapete bene, finché stiamo qui devo rispondere a Cangrande di ogni cosa. Voglio potergli riferire anche del destino dei figli e nipoti di Passerino. Purtroppo è un mio obbligo».

Guglielmo mi venne in aiuto: «Cognato, Corrado è un esecutore. Ormai rimane solo questa ultima formalità. Appena Alberto avrà riscosso il denaro ce ne andremo via».

«Non volevo essere scortese, sono solo stanco. Il palazzo è già pieno di postulanti e di consiglieri non richiesti, e ognuno dice o vuole qualcosa di solito diversa e contraria da chi lo ha preceduto.»

«Il potere è miele mescolato a sterco. Non c’è sorta d’insetto capace di resistere al suo olezzo» sentenziò Guglielmo.

Trascorsi il resto della mattinata a palazzo Bonacolsi. Cinque notai stavano redigendo l’inventario degli arredi e di tutto ciò che c’era nelle dipendenze, nelle stalle e nelle canove. Stetti là fino a mezzodì, quando uscii per andare al Te Deum. Le campane suonavano a stormo e la gente si accalcava alle porte presidiate da valletti dei Gonzaga affiancati da alcuni diaconi in dalmatica bianca. Due di questi mi vennero incontro e, fendendo a spintoni la folla che assiepava la navata di destra, mi accompagnarono accanto ai nuovi padroni, a lato del presbiterio.

Mi guardai attorno. C’era tutta la nobiltà mantovana, i rappresentanti delle corporazioni e confraternite, i cittadini più influenti. L’abside traboccava di preti dai piviali dorati e il vescovo in mitra e con il pastorale sedeva sullo scranno davanti all’altare, avvolto in una nube d’incenso che lo costringeva di tanto in tanto a porre la mano guantata davanti alla bocca e a tossicchiare. Non ho mai amato i luoghi affollati e mi è costato fatica Rimanere fino al termine della cerimonia. Avevo un po’ d’affanno, mi sentivo sudato e non riuscivo a smettere di pensare al cadavere di Passerino gettato nella sacrestia al pari di una lampada o un candeliere rotti. Alla fine non riuscii a sgusciare fuori. Luigi mi trattenne, dicendomi: «Statemi vicino, devo parlarvi».

Subito fuori la porta di San Pietro, sul sagrato, gli armigeri del Comune avevano creato uno spazio vuoto per separare la folla da noi. Ma non del tutto. Una vecchia mendicante sedeva all’estremità sinistra del gradone d’ingresso.

«Cosa ci fa quella donna?» chiesi sottovoce a Feltrino, alle mie spalle.Mi sussurrò all’orecchio: «Nessuno sa il suo nome, né da dove venga.

La chiamano Gazza e, da quando ne ho memoria, l’ho sempre vista vecchia e brutta com’è ora. È stato Passerino ad assegnarle quel posto

Page 60: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

per chiedere la carità, con una specie d’investitura. Le ha anche donato una catapecchia nel suburbio. Ogni domenica, dopo la messa, Passerino le dava un denaro e le chiedeva di profetizzare per lui. Lei alle volte rispondeva, altre no. Una cosa è certa, perché l’ho udita con le mie orecchie. Un mese fa gli ha detto: “Vedo nubi tempestose su di te e una, quella capace di scatenare la bufera, ha la forma di un grande cane”. Cangrande, capite? Passerino era rimasto molto colpito da quelle parole. Comunque non saremo certo noi a toglierle casa e posto. Ha fama di strega vendicativa».

Mentre ascoltavo, osservavo la donna. Indossava una tunica di rozza canapa tinta di nero, lisa e unta sul collo, sui polsi e sull’orlo. Teneva le mani nodose giunte serrate fra le ginocchia, spingendo la tunica in giù per creare fra le cosce secche un incavo dove raccogliere le monete. Un tal modo di stare l’obbligava a tenere le gambe divaricate, scoperte fin quasi al ginocchio, con qualcosa di disgustosamente lascivo nel mostrare le calze sporche, cadenti e torte. La pelle del viso, piccolo, con guance scavate e la bocca infossata, ricordava argilla screpolata dal sole tanto era rugosa. Ciuffi disordinati, di un bianco striato di giallo, le uscivano ribelli da sotto un pezzo di tela rossastra usato come velo, tirato in avanti fino a coprirle la fronte.

Stava dunque immobile sul suo scalino guardando davanti a sé e ignorandoci. Fu Luigi ad avvicinarsi a lei. Le gettò in grembo una moneta, chiedendole: «vecchia, hai qualcosa da profetizzarmi o la tua fantasia lavorava solo per Passerino?».

Lei girò lentamente la testa, sollevandola per fissarlo dritto in viso. I suoi occhi, brillanti e mobili, di un inquietante castano che sfumava nel giallo, erano maligni. Tenne lo sguardo fermo su di lui per un tempo così lungo da cominciare a creargli imbarazzo, e alla fine disse: «Tu uccidi e cacci i Bonacolsi, ma la tua fortuna durerà solo finché un Bonacolsi abiterà nella tua casa. Quando se ne andrà o lo caccerai, pure le tue fortune e la tua discendenza spariranno».

Luigi rise, ma in modo forzato: «Quali sciocchezze vai dicendo, vecchia? Parli di spettri?».

«Tu hai fatto una domanda e io ti ho dato una risposta. Cos’altro vuoi da me?»

Detto questo la donna distolse lo sguardo e serrò la bocca. Luigi scosse la testa e ribatté: «Forse Passerino è morto proprio perché dava troppa importanza ai tuoi sproloqui. Sei solo una pazza della quale avere pietà.

Page 61: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Sempre che il diavolo non ti sieda accanto, e allora anche la pietà potrebbe scomparire».

A quelle parole, la donna si volse di scatto e puntò l’indice contro di me.

«Io avevo avvisato Passerino. Eccolo, ti sta accanto il vento che ha spinto qui la nube a forma di grande cane. Se quella nube non si univa alla tua ci sarebbe stata solo pioggia, non certo tempesta.»

Luigi mi guardò e impallidì, ebbe un moto di dispetto e frettolosamente passò oltre. Però, fatti pochi passi, tornò a fissare la mendicante, bisbigliò qualcosa all’orecchio di Guido e questi annuì. Poi rivolto a me: «Forse non è il caso di parlare ora. Lo faremo questa sera, prima del banchetto a casa mia».

Lasciai il corteo dei Gonzaga all’altezza del palazzo del Capitano. Anche se era stata solo inconsapevole vittima di un espediente, non volevo mancare di rispetto alla nipote di fra Tebaldo. Perciò mi recai al monastero di San Giovanni e chiesi di parlare alla badessa. Questa volta si avvicinò alla grata e io potei vedere la bellezza sciupata e triste del suo volto. Aveva gli occhi arrossati, come chi ha pianto molto.

«Reverendissima madre, purtroppo gli ultimi eventi mi obbligano ad accantonare i propositi di matrimonio. Rassicurate Viola, troverà sicuramente qualcuno migliore di me» dissi.

La badessa rispose con una smorfia di disprezzo, fissandomi quasi con odio: «Non sarà certo difficile trovare qualcuno migliore di voi, signore!».

Non replicai e lasciai il monastero chiedendomi quale tipo d’amore avesse legato quella donna a Passerino. Ero stanco. L’unico mio desiderio sarebbe stato quello di rientrare a San Francesco e uscire dal mondo lasciandomi cullare dal lento salmodiare dei frati. Ma ero atteso a palazzo Gonzaga. Vi giunsi mentre dei palafrenieri stavano conducendo alle stalle tre cavalli con gualdrappe a scacchi rossi e bianchi. Chiesi a uno dei militi di guardia a chi appartenessero e lui fece il nome di Nicolò Pico della Mirandola. Lo conoscevo come nemico mortale di Passerino e cugino di Guido. Probabilmente, pensai, era venuto a godersi la rovina di chi aveva tanto odiato. Poi la mia attenzione fu attratta da alcuni muratori. Uscivano ed entravano indaffarati da una stanza sul lato sinistro dell’ingresso. Salii la scala continuando a osservarli e la mia curiosità aumentò vedendo uno di quelli uscire con una carriola piena di terra. Non era certo il giorno più adatto per dei lavori, salvo non fossero

Page 62: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

così importanti da essere improcrastinabili.Arrivato al piano nobile, trovai ad attendermi Filippino. Anziché al

salone delle feste, mi condusse in una stanza dove Luigi, Guglielmo, Guido, Feltrino e tre sconosciuti sedevano attorno a una tavola. Al mio ingresso si alzarono e Luigi mi presentò Nicolò Pico della Mirandola, dall’aspetto nobile e dall’espressione dura, e i suoi cugini Capino e Giovanni. Sedendo notai subito il nervosismo del padrone di casa e l’eccessiva impassibilità di Guglielmo.

«Come forse sapete, Corrado,» iniziò a dire Guido «questi miei cugini hanno un conto da saldare con i Bonacolsi. Di questo voleva parlarvi mio padre all’uscita della chiesa.»

«So della morte di Francesco Pico e dei suoi figli Prendiparte e Tommasino voluta da Passerino, morte crudele, credo.»

«Allora sapete abbastanza per capirci e per non opporvi alla decisione di messer Luigi. Soprattutto se aggiungo che Francesco Bonacolsi ha inflitto umiliazioni e torture orribili a mio padre e ai miei fratelli prima della loro morte» intervenne Nicolò Pico.

«Di quale decisione parlate?» chiesi.Luigi mi rispose con un’altra domanda: «Secondo voi, a Cangrande

interessa quale fine faranno Francesco e i suoi cugini?».«L’accordo era di non versare il loro sangue se non fosse stato

strettamente necessario. E così si è fatto» precisai.«Allora, avendo mantenuto la promessa, ora posso liberamente

emettere una sentenza contro di loro?»«Signore, da ieri siete voi il padrone. Solo, se mi permettete un

consiglio, eviterei di giustiziarli pubblicamente e in città. Meglio usare discrezione, fare le cose lontano dagli occhi dei mantovani.»

Luigi si poggiò allo schienale e tamburellò con le dita sul tavolo.«È raro trovare un consigliere che la pensi esattamente come il

consigliato» disse enigmatico.«Avete intenzione di giustiziarli presto?» insistetti.«Non c’è fretta. E non deciderò io il tipo di morte, ma Nicolò Pico. Di

questo volevo informarvi.»«Come direbbe Cangrande, chi comanda, quando può, delega» dissi

stancamente. E rivolto a Guglielmo: «Vero?».Lui annuì con una certa solennità e Luigi concluse: «Allora domani

Nicolò deciderà la sorte dei prigionieri, a Castellaro. In quanto a voi, Corrado, scoprirete che si andrà oltre la promessa fatta. Il sangue dei

Page 63: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Bonacolsi non sarà versato».Lo fissai perplesso per l’evidente contraddizione. Poi mi parve

d’intuire la sottigliezza: «Saranno impiccati o strozzati?».«Domani vedrete, abbiate solo un po’ di pazienza» disse Nicolò Pico

con un ghigno.Considerai più conveniente non insistere sull’argomento e cambiai

discorso: «Non sono affari miei, ma ho visto dei muratori al lavoro. Posso chiedervi quale urgenza vi ha spinto a chiamarli proprio in un giorno di grande festa?».

L’imbarazzo dei Gonzaga fu quasi palpabile e Luigi non mancò di una certa scortesia: «In effetti non sarebbero affari vostri, ma tanto vale dirvelo. Prima o poi la voce si spargerà. Quella vecchia strega pronuncia frasi insensate, ma devo riconoscerlo: se Passerino le avesse tenute in maggior conto forse oggi le cose sarebbero andate in modo diverso. Datemi pure del credulone, del cattivo cristiano, del superstizioso, ma preferisco non rischiare. Questa notte Passerino sarà sepolto qui, in casa, nel vecchio magazzino delle armi. Ecco, consideratela come una burla: in questo modo un Bonacolsi abiterà qui in eterno. Se poi sono solo panzane, tanto meglio».

Vedendomi turbato, Guglielmo cercò di sdrammatizzare faticando a trattenere un risolino: «Non preoccupatevi, Corrado. Un arcidiacono benedirà la tomba e reciterà le dovute preghiere».

«Se volete, potete assistere» concesse Guido.Trovavo la cosa ridicola, lugubre, e anche sacrilega. Però non rifiutai

l’invito e dopo il banchetto, quando tutti se ne furono andati, scesi nell’ingresso con Guglielmo, Luigi e i suoi figli. La porta del magazzino delle armi era aperta; dentro c’era in attesa un arcidiacono vestito di paramenti neri e con il salterio in mano. Vicino ai suoi piedi, il rettangolo della fossa con agli angoli quattro candelieri accesi. Appoggiata a una parete, una nuda lastra sepolcrale. Quattro operai, con il necessario per calare la cassa e coprire e sigillare il sepolcro, stavano immobili e discreti in un angolo dell’ingresso appena rischiarato dalle torce.

Il cadavere di Passerino attendeva su un carro, nella corte, steso in una bara di legno grezzo troppo grande per lui. L’avevano lavato e rivestito con una tunica di broccato rosso e calzari ricamati. Aveva pure una cintura d’argento ai fianchi e stringeva fra le mani un crocefisso. Sembrava in pace. Guido gli stese sul volto un sudario di lino e poi lo

Page 64: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

ricoprì tutto con un drappo di seta nera. L’arcidiacono recitò i salmi, benedisse il cadavere e infine gli operai inchiodarono il coperchio. Fino alla fossa lo portammo in spalla io, Guglielmo, Guido e Luigi, poi gli rendemmo onore e, mentre lo calavano con le corde, recitammo tutti assieme il Dies irae e l’antifona In paradisum deducant te angeli. Dio abbia pietà di lui.

[…]

Page 65: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Mantova, XVIII giorno di agosto

Dormo troppo poco e da troppo tempo. Questa notte fatico perfino a scrivere, tanto sono stanco. E sono turbato. Alla morte ci si abitua, all’odio capace di oscurare la ragione no. E oggi, a Castellaro, sono stato circondato dall’una e dall’altro.

Fin dal primo mattino ho avuto la certezza di stare per assistere a qualcosa di tragico, fin da quando ho visto trascinare fuori dalle prigioni i figli e i nipoti di Passerino sporchi in modo indicibile. Sarebbe bastata una corda invece avevano tutti il ceppo che serra assieme collo e mani. Faticavano a camminare a causa delle catene ai piedi troppo corte, e sul viso cerano evidenti segni di percosse.

Per primo uscì Francesco, terreo, gli occhi cerchiati di nero, eppure baldanzoso e con lo sguardo furioso. Poi Giovanni, paonazzo e barcollante; biascicava preghiere e implorava pietà a quel Dio di cui si era sempre curato poco. Infine Guido e Pinamonte, smarriti e ancora increduli di quanto gli stava accadendo, i meno colpevoli perché senza alcun potere fin dal tempo della morte del padre. Filippino Gonzaga non toglieva lo sguardo da chi lo aveva mortalmente offeso e Nicolò Pico aveva l’espressione soddisfatta del macellaio che valuta felice le bestie da scannare.

I prigionieri salirono incespicando sul carro e sedettero sul pianale, due per parte. Uno degli aguzzini legò le catene l’una all’altra con una correggia di cuoio, ne saggiò la tenuta, saltò giù e togliendo la scaletta lanciò un grido al conducente. La frusta schioccò, i cavalli presero a tirare. Il carro si mosse con uno strappo violento e Francesco ricoprì di insulti il fratello; a causa dello scossone l’aveva colpito con lo spigolo del proprio ceppo alla mano sinistra. Davanti a tutti cavalcavano affiancati Nicolò Pico e Filippino Gonzaga, seguiti dagli altri due della Mirandola; gli armigeri della scorta si erano disposti ai lati del carro, una mano alle briglie e l’altra a tenere le lance pronte a colpire. Io e due dei miei chiudevamo il corteo. Dal nostro ingresso in piazza e sino

Page 66: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

fuori le mura di Mantova fu un accalcarsi di gente, un gridare insulti, un agitare pugni. Se i prigionieri evitarono sputi e sassate, fu solo perché la folla temeva di colpire noi. Riconobbi a Francesco il coraggio di non aver mai abbassato lo sguardo, ed ero pieno di disgusto per chi fino a tre giorni prima si era prostrato ai suoi piedi e ora inveiva furente. Come era solito ripetere mio nonno Guido, nulla dà più piacere al popolo del vedere i potenti nella polvere e i ricchi costretti a elemosinare.Tra Mantova e Castellare vi sono appena dieci miglia. Un tragitto breve

che percorremmo in tre ore. La strada però non è buona, è piena di buche e con un palmo di polvere. I prigionieri avevano spesso smorfie di dolore per i sobbalzi del carro e lo sbatacchiare dei ceppi e tossivano di continuo a causa della nube di polvere sollevata dagli zoccoli dei cavalli. A un certo punto preferii distanziarmi dal convoglio, il sufficiente a respirare liberamente e, non lo nego, per liberarmi dalle occhiate feroci di Francesco. Tornai ad avvicinarmi solo quando ebbi davanti a me il fortilizio.

Ha altissime mura e quattro torri, oltre a quella d’ingresso e al mastio. Dicono sia inespugnabile, eppure più che ammirazione ho provato sgomento. Non tanto per l’aspetto minaccioso quanto per l’assoluta mancanza di ogni ornamento in grado di distogliere la mente dalla sua fama di luogo di tortura e morte. Il comandante della guarnigione e i suoi uomini, desiderosi di ingraziarsi i nuovi padroni, avevano issato su ogni torre dei drappi con i colori dei Gonzaga e steso sul ponte levatoio le bandiere dei Bonacolsi, perché venissero calpestate. Neppure questo mi piacque, e smontando da cavallo davanti al pretorio ero di umore nero.

Fecero scendere i prigionieri dal carro strattonandoli e spingendoli. Pinamonte incespicò, cadde a terra con un grido di dolore perché il ceppo storcendosi gli aveva spezzato un polso. Mentre lui cercava faticosamente di mettersi in ginocchio, uno lo colpì alle costole con l’asta della lancia. Non riuscii a trattenermi: andai dallo sgherro e lo schiaffeggiai, gridandogli: «Fino a ieri gli leccavi i piedi e oggi lo colpisci? Fallo un’altra volta e ti stacco la mano!».

L’uomo mi fissò stupefatto e Nicolò Pico si avvicinò furioso: «Questi porci non meritano pietà perché pietà non hanno avuto mai!».

«Signore, qui non si tratta di pietà, ma di dignità. Anche il peggior nemico merita rispetto quando va verso la morte.»

Page 67: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Sciocchezze da menestrelli!» disse alle mie spalle Capino, con disprezzo.

Mi girai verso di lui: «Attento, un giorno potrebbe toccare anche a voi e non sarete certo felice di essere trattato con crudeltà».

«Cosa ne sapete voi della vera crudeltà? Noi ne abbiamo il cuore martoriato» tornò ad aggredirmi Nicolò.

Fino a quel punto Filippino si era tenuto in disparte, osservandoci silenzioso. Alle ultime parole di Nicolò, si affrettò ad avvicinarsi dicendogli: «Corrado è il pronipote di Ezzelino. A parte suo nonno, tutta la sua famiglia è stata massacrata. Sa bene cosa sia la crudeltà».

«Forse sì, però l’ha sentita solo raccontare. Noi, invece…» insistette Capino.

Lo fulminai con lo sguardo, interrompendolo: «Amico mio, vi conviene piantarla qui. Godetevi la vendetta e non provocatemi».

Nicolò arrossì e mise la mano sull’elsa della spada. Sguainai la mia ancor prima che la sua fosse per metà fuori dal fodero. Filippino si frappose rapido, bloccando il braccio di Nicolò: «Non fare il pazzo, Nicolò! Corrado rappresenta Cangrande ed è sotto la nostra protezione». E rivolto a me: «Vi prego, siate comprensivo. Nessuno picchierà più i prigionieri, me ne faccio garante».

«Allora fate ciò che dovete in fretta. Alberto della Scala sarà a Mantova prima del tramonto e voglio poterlo accogliere» sbottai rinfoderando la spada.

Francesco Bonacolsi aveva seguito il battibecco con un’espressione divertita, la testa piegata dal peso del ceppo come un bove al giogo. Sogghignò: «Bella compagnia vi siete scelto. Questi farabutti vi tradiranno alla prima occasione, e per meno di trenta denari. Riferite le mie parole a Cangrande, così se le ricorderà al momento giusto».

Il maestro di giustizia, un uomo piccolo e segaligno dallo sguardo curiosamente mite, ci attendeva davanti alla porta del mastio, assieme a due nerboruti aiutanti. Teneva le mani incrociate sul petto e c’era mestizia nella sua voce: «Bisogna togliere i ceppi, non passano per la scala. Anche le catene, i gradini sono alti». E rivolto ai prigionieri: «Mi dispiace, signori, non avrei voluto essere io a farlo. Ma, come mi ripetevate sempre voi, gli ordini devono essere eseguiti. Nel migliore dei modi e senza discutere».

Incredibilmente Francesco lo confortò: «Non crucciatevi, mastro Mattia. Voi fate solo il vostro lavoro».

Page 68: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Il maestro li allineò uno dietro l’altro e lui stesso sfilò i fermi dei ceppi e delle catene, con gli aiutanti a toglierli e deporli ordinatamente a terra. Una volta liberati fece loro un inchino e indicò la porta del mastio tendendo la mano aperta e con il palmo all’insù: «Prego, signori, se avete la grazia di seguirmi».

Il pianterreno ha il pavimento di mattoni e ci sono uno scrittoio, una sedia, un lavabo e due cassapanche nere; sotto la scala di legno che porta al piano superiore s’intravedono una branda e una panca. Dalla parte opposta all’ingresso, una porta con sull’arcata il riverberarsi delle fiaccole accese lungo la scala a chiocciola che conduce al sotterraneo. Per primi scesero il maestro e i suoi aiutanti, poi i Bonacolsi e infine noi. A una prima occhiata mi parve un unico stanzone illuminato da quattro torce fumose poste agli angoli. Nient’altro che una sala di tortura con la carrucola pendente al centro del soffitto a volta, un tavolaccio da una parte e il braciere e il bancone con gli attrezzi da tormento dall’altra. Solo in un secondo tempo mi accorsi della porta tanto bassa da obbligare un uomo a piegarsi in due per passarla.

Il maestro di giustizia si rivolse a Filippino: «Signore, tutto è stato eseguito secondo gli ordini dell’illustrissimo vostro padre,» e indicò in un angolo dei mattoni disposti a pile «ma la porta non è stata aperta». Con la medesima compostezza di un maestro di cerimonie si rivolse a Nicolò Pico: «Sono passati sette anni da quando io stesso ho chiuso quella porta. È giusto siate voi a riaprirla. È una porta maledetta e sacra allo stesso tempo, però se non ve la sentite, se non volete…».

Nicolò lo interruppe con un brusco gesto della mano. Era teso come una corda d’arco, il viso contratto in una smorfia. Le mani gli tremavano visibilmente. Rimase per un poco immobile quindi fece un paio di respiri profondi e si avviò deciso alla porta. Tolse dal suo supporto una delle torce e iniziò ad armeggiare con il grosso chiavaccio. Dovette smuoverlo più volte per sboccarlo dalla ruggine e quando l’ebbe tirato tornò ad arrestarsi esitando. Poi, con gesto deciso, poggiò la mano libera sulla porta e spinse. La porta resistette come se dall’altra parte ci fosse un ostacolo, e allora spinse aiutandosi con il fianco finché si aprì di un palmo e infine stridendo cedette. Lo stanzone fu subito invaso da un forte odore di muffa e come di legno marcio. Nicolò si curvò. Ebbe ancora un attimo di esitazione e infine entrò tendendo la fiaccola davanti a sé. I bagliori della fiamma mostrarono solo una nuda parete di pietra e subito dopo ci fu un grido strozzato. Nicolò sembrò voler uscire

Page 69: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

rinculando, invece infilò la torcia in un qualche sostegno interno. Poi cadde in ginocchio, si coprì il volto con le mani e iniziò a singhiozzare.

Guardai i miei compagni, cercando una risposta. Ma tutti fissavano la schiena di Nicolò e furono i loro volti impietriti a farmi sospettare la verità. Passò molto tempo prima che si rialzasse. Lasciò la torcia dov’era e uscì a passi lenti e a capo chino come colto da una terribile stanchezza. La voce di Francesco risuonò forte e chiara: «Bello spettacolo, eh?».

Nicolò ebbe un grido strozzato e si avventò su di lui, il pugnale già alzato per colpirlo. Lo fermarono i suoi cugini e gli tolsero l’arma appena in tempo. Allora egli serrò entrambe le mani sul collo del nemico, mentre questi continuava a incitarlo: «Avanti, vigliacco! Vediamo se hai il coraggio di uccidermi con le tue mani!».

Ce ne volle a Filippino e agli altri per separarli, ripetendo a Nicolò: «No, fermati! Ti sta provocando solo per rubarti una morte rapida!».

Approfittai della confusione per andare nella cella. Dalla porta sembrava ampia, con il soffitto a crociera e una minuscola feritoia intasata da erbacce. Ci misi dentro solo un piede e mi arrestai: alla mia destra cerano i resti di tre uomini. Di uno si intravedeva appena lo scheletro allungato sul pavimento di terra battuta; una muffa verdastra lo copriva come un sudario e delle sue vesti erano rimasti solo brandelli neri. Gli altri due erano abbracciati fra loro. Dalle clavicole di quello con il tronco e la testa poggiati al muro penzolavano i resti di una tunica verde. Il capo, le braccia e le mani erano in parte mummificate. Aveva catene ai polsi e pareva stringersi al petto l’altro, il teschio del quale gli sprofondava nel torace mostrando solo la nuca con dei ciuffi di capelli rossi. Il resto dei corpi era un mescolarsi confuso di ossa. Notando che nella cella non vi era altro, mi sentii rabbrividire. Non una brocca, non una scodella, né i cocci di queste.

Uscii con un velo di sudore freddo a coprirmi il corpo e andai da Nicolò: «Sono vostro padre e i vostri fratelli?».

«Murati vivi e lasciati morire di fame e di sete. Mio padre stringe ancora a sé Tommasino.»

«Accettate le mie scuse per prima. Sapevo della loro morte, non in quale modo atroce fosse avvenuta.» Domandai quindi a Francesco: «Perché questo? Perché non una morte rapida degna di cavalieri quali erano?».

Non aveva perso per nulla la sua arroganza, e rispose: «Erano dei traditori, meritavano anche di peggio».

Page 70: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Turbato da un sospetto, e sperando di fugarlo, tornai a rivolgermi a Nicolò: «Li farete togliere da questo luogo, vero? Darete finalmente a vostro padre e ai vostri fratelli una sepoltura onorevole?».

Mi fissò come intontito e scosse la testa: «Non vedo luogo più santo e onorevole di questo. Lo hanno benedetto le loro sofferenze e l’ha consacrato la loro carne. Dove riposa un Pico, anche se questa torre sarà maledetta in eterno, è il suo corpo a rendere onorevole il luogo. Molti anni fa gli ho fatto un giuramento: vi porterò i vostri assassini affinché, oltre a subire la vostra stessa morte, voi stessi possiate aprir loro le porte dell’inferno».

«Vi prego, in nome di Dio, ripensateci!»«No. Dio ridarà vita a quei miseri resti il tempo bastante a riempire

quella cella di terrore. In confronto alla vendetta dei morti, la sete e la fame non sembreranno un nulla a questi assassini.»

Feci un ultimo tentativo: «Voi bestemmiate implorando il loro risveglio. Dategli la pace di una tomba in luogo consacrato. L’odio non deve impedirvi di rispettare i precetti divini, e seppellire i morti è fra i più importanti».

Il suo sguardo si stava riempiendo di furia e mi feci da parte inorridito per ciò che stava accadendo. Francesco entrò deciso e senza apparente timore; gettò un’occhiata ai resti e ci sputò sopra. Guido e Pinamonte dovettero spingerli a forza. Giovanni fu gettato di peso, perché aveva perso i sensi. Poi Nicolò Pico chiuse la porta e serrò il chiavaccio con le sue mani.

Scesero altri uomini del maestro di giustizia, con un corbello di malta, cazzuole e sparvieri. Rapidamente ricostruirono il muro davanti alla porta e in breve gli insulti e le implorazioni di pietà furono solo un brusio lontano.

Che l’Altissimo abbia misericordia di tutti loro.[…]

Page 71: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Verona, XXII giorno di agosto

[…]Dopo la vicenda di Castellaro, il mio unico desiderio era quello di

tornarmene a casa. Per fortuna Alberto non aveva alcuna intenzione di rimanere a Mantova oltre il necessario e gli ordini di Cangrande erano stati precisi: incassare il denaro e riportare al più presto le truppe a Verona. Anche Luigi, nonostante le insistenze e le offerte di ospitalità, dentro di sé si augurava la nostra partenza. Sapeva in quale pericolo potessero trasformarsi gli uomini armati e inoperosi, con sempre in testa razzie, vino e donne.

Vidi riempire due forzieri con una quantità d’oro pari al valore stabilito. Un’enormità capace di svuotare in parte le casse dei Gonzaga e comprendente quasi tutto il denaro ritrovato in quelle dei Bonacolsi. E tutto quell’oro accese la fantasia del popolo; infatti, come mi raccontò il valletto al mio arrivo a Verona, durante il viaggio, nelle chiacchiere era già raddoppiato se non di più.

Lasciammo Mantova al mattino del diciannove e, acquartierati i fanti a Villafranca, verso sera giungemmo con la cavalleria a Verona. Entrammo in città poco dopo il tramonto, ma non mi recai a palazzo con Alberto e Guglielmo. Andai direttamente a casa, mi lavai, ordinai ai servi di preparare una cena ricca e mandai il valletto a prendere una prostituta. Con lei ho gozzovigliato finché il vino e la stanchezza non mi hanno fatto crollare addormentato.

Domani me ne andrò nell’abbazia di San Zeno. Là cercherò di scacciare con la preghiera ciò che di maligno e peccaminoso si annida in me. Forse un giorno capirò cosa non va nella mia mente e nel mio animo, ma per ora non mi resta che subire. Come sempre accade alla fine delle mie missioni. Questa sera sarò colto dall’angoscia e avrò tremori, vomito e sudori freddi. Proverò tanti e tali sensi di colpa da passare la notte pregando. Alla fine, per trovare almeno un po’ di pace, punirò la mia

Page 72: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

carne con i nodi di un cilicio stretto fino a rendere faticoso il respiro. Poi, con l’aiuto dei santi monaci, svuotati il corpo e l’animo di tutti gli umori e flussi maligni entrati durante la permanenza a Mantova, inizierò a stare meglio e, purificato nella carne e nello spirito, potrò tornare e servire Cangrande.

[…]

Page 73: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

GLI ANNI DEL PERINDEO

(1302-1329)

Il perindeo è un albero dai frutti gradevoli e dolcissimi,originario dell’India.

Fra i suoi rami nidificano i colombi, e si nutrono dei suoi frutti.È cosa nota che il drago, feroce nemicodi questi uccelli, è atterrito dal perindeo

e dalla sua ombra, perciò non osa avvicinarsi,e ovunque cada l’ombra,

a oriente come a occidente, il drago si affretta a fuggirenella direzione opposta; ma, se coglie un colombofuori dalla protezione del perindeo, esso lo divora.

Page 74: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

PARTE PRIMA

(Genesi di un cavaliere)

I

Il sole non si vedeva da giorni. Da una tenebra all’altra era un ininterrotto crepuscolo, più o meno cupo a seconda del gravare delle nubi. Poi il vento del nord era sceso dai monti. Sibilando appena, al principio aveva filato con le sue gelide dita il fumo dei focolari avvoltolandolo ai rami nudi degli alberi. Ma a Natale, complice la notte, si era tramutato in demone. Aveva ghiacciato la terra e le acque preparando il talamo per la sua amante, la neve, e l’aveva invocata ululando e percuotendo rabbioso le case, i canneti della palude, le querce e gli olmi del bosco e ogni altra cosa capace di produrre un gemito sotto le sue sferzate. E lei era accorsa generando la peggior bufera che si ricordi a memoria d’uomo. Bufera che segnò la fine di un’epoca tiepida e il principio di una fredda che ancora perdura, con brevi estati e sole violento o tanto povere di calore da non poter smettere gli abiti invernali.

Il villaggio fu ricoperto da una coltre di neve spessa più di due braccia e gli uomini divennero talpe costrette a scavare di continuo nuovi passaggi da una casa all’altra, da queste al pozzo e al forno, dalle stalle ai fienili, dal borgo alla chiesa. Un fioccare lento e grosso si alternava a un turbinare secco e appiccicoso, e in breve l’unico punto di riferimento per chi si avventurava fuori dalle mura divenne la torre della casaforte dei da Romano. Ciò non riuscì comunque a impedire gli antichi riti, e la vigilia dell’Epifania dell’anno 1302 ogni uomo e donna, ogni vecchio e bambino in grado di camminare arrancò con una fascina in spalla fino alla chiesa di San Lorenzo per dare il proprio contributo al falò notturno.

Una volta che si fu fatto buio, mangiato solo un boccone perché Guido avrebbe offerto a tutti e in abbondanza pinza e vino, nelle case ci si

Page 75: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

preparò a uscire. Con una tormenta simile non bastavano i mantelli, bisogna va infilarsi una sull’altra il maggior numero di vesti possibile; e se queste erano insufficienti, toccava ricorrere a ogni pellaccia e lana disponibile o avvolgersi i piedi con il fieno. Nella casaforte dei da Romano non manca vano certo le pellicce di castrato, i berretti di lontra o volpe, i calzari di cuoio imbottiti di feltro, eppure quella sera nacque un bisticcio. Alberico voleva che Altaflor, prossima al parto, rimanesse accanto al focolare e lei ripeteva immusonita di sentirsi benissimo, che nel suo castello di Pinzano era buona regola abituare i figli alle intemperie fin da quando stavano nel ventre materno. Alberico conosceva bene la caparbietà della moglie e, non volendosi rovinare la festa né sopportare bronci, decise di cercare aiuto. Lasciò dunque la camera vicina alla torre e andò nella sala.

«Cosa c’è, figlio?» domandò Guido notando l’espressione irritata di Alberico.

«Vostra nuora è una testarda!» E rivolto alla madre intenta a preparare i sacchetti con le spezie per il vino: «Vi prego, cercate di farla ragionare voi. Mancano pochi giorni al parto e non vuole restare a casa».

Aurora annuì e disse, ormai sulla soglia: «A proposito di testardi, dà una mano a tuo padre a infilare gli stivali. Rifiuta l’aiuto dei servi, ma la sua schiena non ha più vent’anni».

Guido sbuffò e tese brontolando il piede: «Sembra che in questa casa noi uomini si conti meno di nulla. Ma va bene così, almeno finché ci amano».

Alberico si mise in ginocchio davanti a lui e sbottò, allentando i legacci degli stivali: «Alle volte preferirei meno amore e più assennatezza».

«Ne ha, ne ha. È come la buon’anima di suo padre, orgogliosa e irruenta.»

Dopo poco tornò Aurora con Altaflor, pronta e vestita per uscire. Alberico ebbe un moto di stizza e fu sul punto di pronunciare parole dure. Lo fermò un’occhiata della madre, e si rimpettì fissando accigliato la moglie. Questa avanzò di un passo imponendosi con evidente fatica un atteggiamento e un tono umili: «Vi chiedo ancora una volta il permesso di venire alla funzione, signor marito. Mi sono coperta bene e se dovessi sentire freddo o avvertire qualche disturbo mi farò riaccompagnare subito a casa, ve lo prometto». Gli occhi le fiammeggiarono d’orgoglio, deglutì, strinse le mani a pugno e concluse: «Se, però, mi ordinerete di stare a casa, ubbidirò».

Page 76: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Alberico ingoiò il compromesso e concesse: «Io non vi ordino niente, ma se vi vedo anche solo rabbrividire vi rimando subito a casa».

Uscirono dalla corte tutti assieme, con il fiato a creare aureole di vapore attorno ai cappucci calati sul viso, preceduti da un servo che reggeva una torcia la cui fiamma si piegava e torceva minacciando di spegnersi a ogni passo. Grazie a un lavoro di badile durato l’intera giornata, la strada era quasi sgombra e la neve non superava le caviglie. Però, sotto la nuova, la vecchia era ghiacciata e bisognava camminare lenti e cauti per non scivolare, piegati in avanti per proteggere gli occhi dalle sferzate taglienti del vento. Assistettero alla benedizione dell’acqua e del sale, e al battesimo della croce. Non erano riti particolarmente lunghi, ma per una volta tutti sperarono durassero il doppio. Con l’intero villaggio stipato là dentro e i bracieri roventi, nella chiesa c’era un tepore che rendeva penoso il rituffarsi nel gelo. Solo i bambini davano segni d’impazienza, desiderosi di assistere all’accensione del falò, di riempirsi la bocca di pinza e bere qualche sorso di vino dolce. E il momento tanto atteso venne.

Prete Giulio, in cotta e stola, benedisse la catasta di fascine eretta nel sagrato e il sagrestano gettò tizzoni nei quattro punti della pira dove erano stati ammucchiati gli inneschi di paglia. Nessuno dovette soffiarci sopra, ci pensò il vento. Le fiamme crepitarono scuotendosi e attorcigliandosi e, in breve, si fecero alte fino a sfiorare la croce piantata sulla cima. Nell’oscurità le faville si mescolarono ai fiocchi di neve, come piccoli diavoli a caccia di anime. Il podestà prese allora una terrina con dentro alcune salcicce tagliate a pezzetti e, girando attorno alla pira, iniziò a gettarli nel fuoco ripetendo l’antica formula propiziatoria: «Ca pan ca vin, la luània è tal cjadìn! Ca il ben ki gioldarìn! Signòur, a dùcju kei ki sin ki màndini pan e vin!».

Il più anziano del villaggio scrutava attento il fumo, per capire quale direzione stesse prendendo. Quell’anno il compito era arduo, ma a un tratto il vento calò, parve addirittura cessare, e il fumo bianco e denso piegò decisamente a levante. Il vecchio saggio sorrise soddisfatto e proclamò: «Il fumo va verso oriente, sarà un’annata prospera».

Al vaticinio i paesani raccolti attorno al falò, le mani tese verso le fiamme e i visi arrossati dal calore, trassero un sospiro di sollievo e subito dopo salutarono con grida l’arrivo dei servi di Guido, curvi sotto il peso degli archetti cui erano appesi pentoloni e cesti protetti da coperchi di legno. I camerari della chiesa avevano approntato un tavolo con sopra

Page 77: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

taglieri e bicchieri di coccio e, appena l’aroma pungente del vino speziato e quello mielato della pinza coprirono l’acre odore del fumo e della legna bruciata, iniziarono a servire. Con lo stomaco riscaldato e addolcito, tutti si fecero allegri. Anche Alberico e Altaflor, ormai dimentichi del litigio. Fu in quel momento che accadde.

All’improvviso un cavaliere simile a un demone emerse dalle tenebre, avvolto da una pelliccia nera incrostata di neve e brandendo una enorme spada. Era a capo scoperto e i lunghi capelli gli svolazzavano irti attorno al viso scheletrico di un pallore che al riverbero delle fiamme sembrava quello di un morto. Il suo cavallo schiumava sangue dalla bocca e dalle froge uscivano sbuffi di vapore densi come il fumo di un drago. Sembrava voler travolgere chiunque gli si parasse dinnanzi e la gente si ritrasse spaventata, tanto da creare un corridoio fra il cavaliere e il falò. Egli lo percorse gettando occhiatacce a destra e a manca e digrignando i denti, finché l’animale, spaventato dal fuoco, nitrì, tentò d’impennarsi e stramazzò a terra, gettando il cavaliere sulle braci. Tutti rimasero immobili e atterriti, finché Alberico corse e trascinò l’uomo lontano dalle fiamme che ormai gli bruciavano la pelliccia. Allora anche gli altri si avvicinarono cauti, gli si fecero attorno, ma subito si ritrassero. Nella caduta, allo sconosciuto si era aperta la pelliccia mostrando il collo stretto da un cerchio di ferro e il podestà aveva gridato: «Ha il collare infame!».

Accorse anche prete Giulio e, vedendo le facce incattivite dei suoi fedeli, prima li fulminò con lo sguardo e poi si chinò sull’uomo poggiandogli una mano sul petto. Si rivolse quindi ai camerari della chiesa: «Il cuore batte, portatelo a casa mia. E nessuno di voi osi toccarlo. Il collare lo accusa tanto quanto lo protegge!».

Alberico non ebbe il tempo d’intervenire. Udì un grido strozzato, si girò e vide sua moglie aggrapparsi al collo della suocera. La raggiunse in un balzo, ma Aurora lo tranquillizzò: «Non è nulla, sta solo per partorire. Deve essere a causa dello spavento».

«Portiamola a casa, madre!»«Non c’è tempo» disse Altaflor, il viso torto in una smorfia di dolore.«Allora portiamola da prete Giulio, è la casa più vicina» insistette

Alberico questa volta rivolgendosi al padre.«Non c’è tempo» ripeté Altaflor trattenendo un gemito. «Credo stia

già uscendo.»«Moglie, te l’avevo detto! Perché non mi…»

Page 78: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Alberico incrociò lo sguardo furioso della moglie e non terminò la frase. Rimase immobile e incerto sul da farsi finché Guido lo sollecitò: «Prendila in braccio e portala in chiesa. Non c’è posto migliore per far nascere tuo figlio».

Fu così che, mentre alcuni stendevano lo sconosciuto sul pavimento di prete Giulio, Altaflor mi partorì su quello della chiesa. Lo fece sotto lo sguardo di un san Giuseppe dipinto sulla parete e sulla pelliccia del marito, con le anziane del villaggio a fare da paravento. Un parto dall’inconsueta rapidità, durato neppure il tempo di un Pater. Riportarono a casa mia madre con me stretto al petto sulla portantina usata per i morti, ma Guido non lo considerò un gesto infausto. Anzi ordinò ai servi di andare a prendere altre cibarie e vino, perché l’annata non poteva iniziare in modo migliore. E dopo aver brindato con i vicini, si avviò tranquillo alla casa di prete Giulio. Lo sconosciuto si era ripreso. Seppure ancora terreo in volto, sedeva vicino al focolare stringendo fra le mani una tazza di brodo fumante. attorno a lui, oltre al curato, c’erano il podestà e i giurati del Comune che, con espressioni non proprio amichevoli, cercavano di farsi dire il nome, la provenienza e il perché di un viaggio così pericoloso e in una notte simile. L’uomo passava lo sguardo smarrito dall’uno all’altro, ripetendo: «Ich verstehe nichts. Io, Roma. Erbalten Vergebung».

Mio nonno parlò con lui in tedesco e poi spiegò agli altri: era un nobile d’oltralpe, diretto a Roma per ottenere il perdono di un certo suo enorme peccato; aveva lasciato l’ospizio di Sant’Odorico, oltre il fiume Tagliamento, convinto di poter raggiungere Cordenons prima di sera, ma si era perso a causa della neve e, quando si sentiva ormai prossimo alla morte, aveva scorto i bagliori del falò. L’uomo, inoltre, chiedeva del suo cavallo e diceva di voler pagare il cibo e un letto con il denaro nascosto nella sella.

Malfidante, uno dei giurati, uscì. Tornò assieme a due ragazzotti, uno con sulle spalle la sella e l’altro una bisaccia. Subito il cavaliere rovistò nella bisaccia, ne estrasse una pergamena e la porse a prete Giulio. Questi, dopo averla letta, la passò a Guido annunciando: «È un atto d’immunità del vescovo di Bressanone, con il suo sigillo e quello di tre canonici. Conferma le parole di quest’uomo. Il suo nome è Karl von Roesenburg».

Mentre Guido leggeva, il podestà chiese: «C’è scritto anche di quale orribile colpa si è macchiato?».

Page 79: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Prete Giulio non gli rispose, si limitò a fissarlo dritto negli occhi e l’altro non osò insistere. Guido rese la pergamena al cavaliere intento ad armeggiare con la sella e gli disse nella sua lingua: «Lasciate stare, non serve denaro. L’ospitalità cristiana si paga con le preghiere». E rivolto a prete Giulio: «Dategli da dormire per questa notte e domani portatelo da me. Avrà un cavallo».

Detto questo, se ne tornò a casa con i servi e, avvolto da un nuovo turbinare di neve, chiuse lui stesso la porta della corte con chiavaccio e paletto. Alberico lo stava attendendo nella sala e appena lo vide sull’uscio disse indicando con il mento il soffitto: «Padre, ho dovuto fare la voce grossa, obbligarla. Fosse stato per lei l’avreste trovata qui ad attendervi per mostrarvi il bambino».

«Come lo chiamerai?»«Aio e Corrado. Onorerò così mio nonno materno e mio zio.»«Bene, se lo meritano entrambi» approvò Guido.L’indomani, quando prete Giulio accompagnò Karl von Roesenburg

alla casaforte, il cavaliere tossiva forte ed era febbricitante; non sembrava in grado di riprendere il viaggio. Guido, dopo avergli confermato la promessa di fornirgli gratuitamente un cavallo, lo invitò a fermarsi qualche giorno per guarire e sperare in un tempo più clemente. Karl al principio rifiutò, insistendo che quel viaggio in un mese tanto gelido era parte dell’espiazione. Fosse morto per il freddo o per i briganti, avrebbe assolto la sua penitenza come se fosse arrivato a Roma. Accettò solo dopo aver avuto un mancamento e rimase da prete Giulio quasi una settimana. Con grande disappunto degli uomini del villaggio, sempre più impegnati a fantasticare sul suo orribile peccato. In quel periodo, le donne e i bambini rimasero chiusi in casa, e al solo vederlo entrare in chiesa tutti si facevano il segno della croce.

Il giorno della partenza, oltre al cavallo, mio nonno gli consegnò pure una bisaccia con degli azzimi, carne secca di castrato e lardo salato. Karl von Roesenburg si commosse e gli fece una promessa: «Signore, quel santo uomo di prete Giulio mi ha spiegato chi siete e io, se mi fosse permesso, m’inginocchierei davanti a voi. Ma ho giurato di non inginocchiarmi davanti a un uomo finché non mi sarò prostrato davanti alle reliquie dell’apostolo Pietro. Faccio, però, un secondo giuramento. Se sopravvivrò al viaggio, tornerò e vi servirò per un anno. Se non mi vedrete, recitate una preghiera per la mia anima, e sappiate che sarò morto con il cuore colmo di gratitudine nei vostri confronti».

Page 80: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Nonno non disse nulla, si limitò a stringergli la mano. Probabilmente con la certezza di non vedere mai più quell’uomo. Ma così non fu.

Page 81: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

II

Mio nonno ha scritto la sua vita in un libro. Invece quella di mio padre Alberico è incisa nelle nostre terre e case, nella buona memoria di chi l’ha conosciuto, nella gratitudine di ogni bisognoso presentatosi alla nostra porta. Non era un uomo di molte parole mio padre, di carattere burbero, più amante dell’aratro che della spada. Ma, a differenza degli altri padri, egli mi ha amato fin dalla notte della mia nascita. Non ha atteso come fanno tutti il compimento dei sei anni per considerarmi degno d’attenzione, pur sapendo che rischiava di amare inutilmente e di dover soffrire se io fossi morto come spesso accade quando la fragilità di corpi incompiuti viene aggredita anche solo dalla semplice puntura di una spina. E allo stesso modo si è comportato il resto della famiglia. Con qualche difficoltà da parte di mia madre, e non per colpa sua. Fin dall’adolescenza, si era sentita ripetere: i figli sono doni che il Signore dà in abbondanza, ma che il diavolo porta via a piene mani; meglio lasciarli a balie e serve finché non hanno una buona possibilità di sopravvivere. Neppure nonna Aurora è mai riuscita a convincerla che un figlio è come un fiore, una meraviglia del creato anche se dura un sol giorno.

Da parte sua, nonno Guido vigilava su noi nipoti con apparente distacco e severa bonarietà. Invece zio Rosso, il fratello di mio padre, si comportava in due diversi modi. Quando veniva a San Lorenzo era esattamente come noi, ma nella sua casa cambiava. Qui era tutto un mescolarsi, uno stare assieme, persino un mangiare alla medesima tavola. A Udine, seppure affettuoso e sorridente, ci relegava con i suoi figli in due apposite stanze e a noi badavano due servi facili al pizzicotto. E volendo elencarli proprio tutti, dagli zii del castello di Pinzano e dal fratello di mia madre si era trattati come puledri. Beni in grado di diventare destrieri o inutili brocchi, perciò da addestrare con pugno di ferro finché non si fosse capito se valevano quello che mangiavano.

Forse è per questo che da piccolo mi sentivo diverso dagli altri, alle volte talmente speciale da provare quasi pietà nei confronti dei miei

Page 82: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

coetanei. Soprattutto quando stavo a Valvasone o in altri castelli. Avevo la sensazione di trovarmi in covate smarrite, sempre timorose d’essere carpite da una feroce casualità. L’idea della loro morte era sempre presente, seppure celata dietro frasi come: «Se non gli accade qualcosa, ne farò un cavaliere». Oppure: «Se il Signore ce lo lascia, sono già in parola per uno scranno d’abate». Inoltre, almeno così si diceva nel villaggio, il buon Dio con me era stato prodigo di doni. Intendo nell’aspetto fisico e, non volendo scioccamente adulare me stesso, mi limito a dire che non mi mancavano forza e coraggio e le mie cugine sussurravano spesso della nobiltà dei miei lineamenti, del verde degli occhi e del corvino dei capelli.

Ma non indugiamo oltre e passiamo a quando di anni ne avevo ormai undici, ossia al 1313. Esattamente al diciottesimo giorno di aprile, mercoledì dopo Pasqua.Prima, però, devo almeno elencare i componenti della mia famiglia. C’erano dunque i miei nonni paterni Guido e Aurora, mio padre e mia madre, il primogenito Guido ormai quasi diciottenne, uguale a mio padre come due monete dello stesso conio; poi veniva Ecelo Pietro, di un anno più giovane e che ormai da tre vestiva il saio benedettino nell’abbazia di Sesto; quindi cero io e poi Federico, di otto anni, e Aurora, di sei; infine Ansoaldo, di quattro anni. Ve ne erano stati altri due, fra Ecelo e me, ma se li era portati via un’epidemia di risipola. A Udine, come ho detto, c’era zio Aio, un medico, detto Rosso per il colore dei capelli, con zia Francesca dei Cavalcanti di Firenze e i miei cugini Aurora, Guido ed Ecelo, tutti più giovani di me. I nonni materni, signori di Pinzano e altri luoghi, erano entrambi morti prima della mia nascita; cerano però gli zii Francesco, Artico e Adalgerio, le zie Geltrude e Marzutta, entrambe sposate con dei castellani di Ragogna, e una frotta di cugini e cugine che non è il caso qui di elencare. Infine, il fratello e la sorella di mia madre: vivevano assieme a San Daniele, essendo uno celibe e l’altra vedova con sei figli.

Dunque, quel diciotto aprile stavo capeggiando un manipolo di coetanei, figli di contadini del villaggio, sui prati lungo la strada che conduce all’Ungaresca. Eravamo appostati dietro una spinosa siepe di prugnoli, armati di fionde e bastoni, speranzosi di veder comparire una banda della vicina Arzene con cui azzuffarci. E proprio quando scorgemmo uno di loro spiarci da lontano, da dietro una curva sbucò uno sconosciuto. Uscimmo incuriositi dal riparo e ci mettemmo sul

Page 83: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

ciglio della strada a fissarlo con sfrontatezza. Era piuttosto male in arnese. In lui tutto era lungo e secco, il viso, il naso, i denti scoperti in un sorriso stanco, i capelli e le dita delle mani. Indossava un frusto mantello e aveva una coperta arrotolata sulla sella. I polsini della tunica erano sfilacciati, gli spacchi laterali scuciti, le brache così lise da mostrare le ginocchia appuntite e gli stivali scalcagnati. Però la mia attenzione fu attratta subito da due particolari: la camicia aperta sul collo mostrava una cicatrice rossastra e la spada, nonostante il fodero screpolato e rotto, aveva tracce di intarsi d’oro sul paramano. Pensai subito a un ladro scampato all’impiccagione e il mio sospetto accrebbe a causa dello strano accento: «Ragazzo, questa strada dove porta essa?».

Feci un passo indietro e ribattei: «Dove volete andare?».«Cerco dominus Wido.»Uno dei miei compagni mi bisbigliò all’orecchio: «Non mi piace.

Facciamogli sbagliare strada».Non volevo mostrarmi codardo e, con l’arroganza di chi ancora non ha

coscienza dei pericoli, poggiai ostentatamente la mano sull’impugnatura del pugnale appena regalatomi da mio fratello maggiore.

«Non vi capisco, e vi conviene cambiare strada altrimenti mio nonno Guido vi farà impiccare di nuovo!» l’apostrofai.

Mi guardò perplesso: «Impiccare di nuovo? Non capisco… Ecco, sì, Guido, signore Guido. Tu accompagni me da signore di San Lorenzo?».

Rimasi spiazzato: «Conoscete mio nonno?».«Tuo nonno? Tu quanti anni hai?»«Undici.»«Allora tu nato quando tuo padre mi ha salvato la vita vicino al grande

fuoco. Ho giuramento da mantenere con lui e tuo nonno.»A quelle parole mi tornarono in mente i racconti di nonna Aurora.

Intuii chi avevo davanti e, piuttosto imbarazzato, lo invitai a seguirmi. Nella casaforte rimasero tutti sorpresi nel ritrovarsi davanti Karl von Roesenburg. Egli raccontò di essere giunto a Roma e di aver impiegato tutti quegli anni per tornare verso casa perché era stato obbligato a servire in armi il cardinale che l’aveva assolto dal suo peccato.

Dopo essersi lavato e aver accettato dei vecchi abiti di mio padre, Karl cenò con noi e prete Giulio. Quindi, nella corte, al lume di una torcia e con tutti i capifamiglia del villaggio seduti attorno a lui, narrò tali e tante avventure da lasciarmi a bocca aperta. Gli anziani, prima di andare a dormire e dopo aver confabulato con mio nonno e mio padre, gli

Page 84: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

concessero di rimanere senza timore perché anche un grande peccatore merita rispetto se mantiene un giuramento dopo dieci anni. Su quel giuramento si discusse a lungo il giorno successivo. Mio nonno e mio padre gli ripetevano che il solo fatto di essersi presentato lo aveva liberato da ogni dovere, e Karl insisteva che si sarebbe sentito libero solo dopo aver mantenuto la promessa di servirli per un anno. Al principio Guido e Alberico non sapevano cosa farsene di lui. Poi Karl si trovò da sé il lavoro: «Io, nella mia patria, sono famoso per l’uso della spada. Posso insegnare ai vostri figli i miei segreti».

A quelle parole Guido si fece prima pensieroso e mormorò: «Come Ansoaldo con me». Poi: «Bene, ne avrete tre. Di età e preparazione diverse. Il più grande non sembra avere un grande interesse per le armi e il più piccolo ha appena iniziato a giocare con la spada di legno. Quello, invece,» e puntò l’indice verso di me seduto poco lontano con le orecchie ben tese «potrebbe darvi soddisfazione. Sempre che mio figlio sia d’accordo».

Mio padre era perplesso, ma pur di togliersi quell’impiccio acconsentì, dopo aver chiesto: «Il vostro peccato aveva a che fare con armi e morti ammazzati?».

Karl impallidì, si fissò a lungo le mani e alla fine disse: «Sarebbe stato peccato da poco, signore. Sul mio onore, no. Giuro su mia anima e Santissima Trinità. Vostri figli sono al sicuro con me».

Mio fratello Guido fece immediatamente capire a Karl di essere interessato a imparare soltanto qualche tecnica di difesa. Federico cercava continuamente scuse per evitare le lezioni, preferendo girovagare per i campi con i suoi coetanei. Rimanevo io e il giuramento si concentrò tutto su di me. Ho ripensato molte volte a Karl, con gratitudine. Oggi posso affermare di essere ancora vivo anche per merito suo. Egli non combatteva, danzava. Più della sua forza utilizzava quella dell’avversario e la spada sembrava essere un prolungamento del braccio. La sua tecnica forse serviva poco nel campo di battaglia, era un’arte da usare nelle ordalie o quando ci si imbatte in un nemico in agguato. Ma Allora l’odiai spesso. Non mi dava tregua, mi trattava come se avessi sedici anni anziché dodici e le braccia dovettero abituarsi a reggere una spada.

Inutile gettare sguardi imploranti a mio nonno. Se ne stava a fissarci muto, gli occhi socchiusi. Inutili anche le mezze parole di nonna Aurora e il suo guardare con rimprovero Karl. Era mia madre la più soddisfatta. Ciò che vedeva faceva parte dei ricordi di Pinzano, era la sua normalità.

Page 85: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Comunque Karl stette da noi solo per dieci mesi. Non perché mancò alla promessa o fu cacciato. Circa a metà marzo dell’anno 1314, sfinito e infuriato, provai per lui una rabbia sorda e, durante un assalto, lo toccai al petto. Anzi, come disse, se la spada non avesse avuto la punta smussata, l’avrei ucciso e concluse: «Non ho più niente da insegnargli. Se voi mi liberate, io torno a casa».

Ne fui felice, ma passati pochi giorni iniziai a sentire la sua mancanza. Mi annoiavo profondamente.

Non ho più rivisto Karl e spero sia tornato sano e salvo a casa. Sul suo enorme peccato ho fantasticato a lungo, almeno finché ne ho conosciuti altri di così orribili da far accapponare la pelle.

Page 86: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

III

Nonno Guido morì improvvisamente due mesi dopo. Il notaio Ottobono di Valvasone lesse il suo testamento davanti al catafalco dove giaceva. Oltre ai lasciti alla Chiesa e a chi l’aveva fedelmente servito, la sua prima preoccupazione era stata per Aurora: ordinava ai due figli di trattarla come signora e padrona finché fosse vissuta, pena la perdita di ogni loro diritto; aveva nominato erede universale mio padre, meno la cospicua quantità di fiorini affidata al banchiere Ulrico de Bombeni che andava a zio Rosso. Infine, vi erano donazioni in denaro per tutti i suoi nipoti, meno che per me. Io ereditavo unicamente i suoi speroni d’oro da cavaliere. Anziché sentirmi defraudato, provai un forte senso di colpa nei confronti di mio fratello Guido. Era il primogenito, gli speroni gli spettavano di diritto. Ma lui mi rassicurò stringendomi affettuosamente un braccio. Mi stupirono invece gli sguardi e le strette di mano che mi riservarono i molti nobili della Patria presenti al funerale. Solo più tardi mio padre, zio Rosso e mio fratello mi spiegarono il significato del gesto di Guido: ero stato destinato a succedergli nel mestiere delle armi. Inizialmente non compresi appieno come fosse mutato il mio destino, iniziai ad averne coscienza solo quando vennero a prendermi e le decisioni di mio nonno, da parole scritte sulla pergamena, iniziarono a farsi realtà.

Circa un paio di settimane dopo gironzolavo annoiato nella corte in attesa di veder comparire l’amico Odorico di Valvasone con il quale sarei dovuto andare a trovare mio fratello, nell’abbazia di Sesto. Il nostro balivo entrò tutto affannato dalla porta verso il villaggio, annunciando l’arrivo di un manipolo di cavalieri con tanto di bandiere. Andai alla porta sulla piazza pieno di curiosità. I cavalieri erano una mezza dozzina, contando pure i due con le bandiere della Patria e del conte di Gorizia; altrettanti gli scudieri e i valletti e pochi di più i servi. Un uomo grande e grosso, dai baffi spioventi, lo sguardo severo e la postura di chi è

Page 87: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

abituato a comandare, con delle mezze lune bianche dipinte sulla gualdrappa celestina del cavallo, lasciò il gruppo e venne da me ordinando: «Ragazzo, vai a chiamare messer Guido».

«Nonno Guido è morto, dovete aspettare mio padre Alberico» risposi mettendomi davanti a lui senza timore e a gambe larghe.

Domandò, squadrandomi: «Qual è il tuo nome, galletto?».«Sono Corrado, figlio di Alberico.»«Sei piuttosto alto e muscoloso per uno di dodici anni.»«Vado per i tredici» ribattei piccato.Iniziavo a sentirmi a disagio, stupito che conoscesse la mia età, e trassi

un sospiro di sollievo vedendo arrivare mio padre e mio fratello. L’uomo smontò da cavallo e si presentò: «Sono Ugone di Duino, ser Alberico. Qui a nome del conte di Gorizia».

«Vi conosco, signore. Ero con mio padre, all’ultimo placito della Patria. A cosa devo la vostra visita?»

«Sono addolorato per la morte di messer Guido, ma come voi certamente saprete ha preso degli accordi con il conte. Sono di ritorno dal Palatinato dove si è concordato il matrimonio fra Mainardo di Gorizia e la duchessa Matilde figlia di Rodolfo del Reno. Quell’uomo» e indicò un cavaliere dall’espressione piuttosto altezzosa, con delle losanghe azzurre e bianche sulla gualdrappa «è il rappresentante dei Wittelsbach e porta l’atto con i sigilli. Stiamo percorrendo l’Ungaresca e ho colto l’occasione.»

«Capisco. Datemi solo il tempo di preparare le sue cose e scegliere un buon cavallo. Volete ristorarvi?»

Ugone di Duino scosse la testa: «Abbiamo pernottato a Cordenons e siamo in viaggio da appena un’ora. Voi fate pure con calma, noi attendiamo qui».

Mio padre mi pose una mano sulla spalla e disse: «Corrado, vatti a lavare e cambiare».

«Perché padre?» domandai smarrito.«Tuo nonno ha chiesto al conte di accoglierti come suo valletto. È il

primo passo per riuscire a diventare cavaliere.»«Ma deve venire Odorico…» borbottai stupidamente, come se ciò

potesse cambiare le cose.«Figliolo, speravo di avere più tempo. Per spiegare, darti qualche

consiglio. Purtroppo di tempo non ce n’è. Vatti a preparare.»Ubbidii frastornato e con l’angoscia nel cuore. Fui pronto in meno di

Page 88: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

mezz’ora e, quando tornai nella corte, trovai il mio cavallo con due grosse bisacce appese alla sella. Nonna Aurora aveva gli occhi arrossati, mia madre mi guardava con malcelato orgoglio, i miei fratelli erano turbati. Non riuscivo a capire il mio stato d’animo, se dovevo considerarmi un ripudiato o un privilegiato. Quando la mia sorellina Aurora mi si aggrappò alle gambe singhiozzando e implorandomi di non andare via, faticai a trattenere le lacrime. Mentre montavo a cavallo mio padre consegnò a Ugone una borsa di denaro per il mio corredo, scusandosi per non aver avuto il tempo di provvedere lui stesso agli acquisti. Il cavaliere disse di non preoccuparsi e, mentre gli stringeva frettolosamente la mano, mi ordinò: «Mettiti in fila, fra l’ultimo valletto e i servi con i bagagli».

Compresi immediatamente quale sarebbe stata la mia posizione da quel momento ed ebbi l’impulso di fuggire. Mi fermarono lo sguardo e le parole di Alberico: «Fai onore a te stesso e alla tua famiglia».

Appena lasciato San Lorenzo sotto lo sguardo curioso dei paesani affollatisi sulla piazza, il valletto di Ugone cui mi affiancai cercò di consolarmi: «Vedrai, sarai contento. Il conte tratta bene i suoi valletti».

Durante il viaggio, e soprattutto nella notte passata a Gradisca, cercai di convincermi che mio nonno e mio padre avevano fatto la cosa giusta. La rassegnazione lenì la nostalgia di casa, ma questa scomparve del tutto solo all’arrivo a Gorizia, davanti al più maestoso castello della Patria. Un intero colle cinto da mura, torri, bastioni che, partendo dal piano, poco oltre la chiesa di Sant’Ilario, ravvolgevano fin sulla cima. Ovunque c’erano armati di guardia che salutavano l’ambasceria con una babele di lingue: latino, friulano, volgare, tedesco, e almeno tre diversi dialetti slavi. Cercavo di non mostrarmi sbigottito ma quando, attraversato il borgo fortificato, mi trovai davanti il maestoso ingresso del castello dovetti apparire esattamente il paesano che ero.A bocca aperta, gli occhi sgranati per la meraviglia, fissavo l’enorme stemma di pietra dipinta che sovrastava la porta, uno scudo trinciato con sopra un leone d’oro passante su sfondo azzurro e sotto sei sbarre rosse e argento, convinto che la fiera puntasse proprio su di me lo sguardo feroce.

I cavalieri della scorta, i valletti, gli scudieri e i servi si fermarono nel borgo, e solo Ugone, il cavaliere bavarese, e io attraversammo il ponte levatoio e iniziammo a salire verso il palazzo e il mastio. L’erta era acciottolata e i ferri dei cavalli risuonavano forte, mi rimbombavano

Page 89: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

nelle orecchie. Alla mia sinistra avevo l’ultima cerchia di mura, con sugli spalti un milite ogni venti passi, e a destra l’altissima parete esterna del palazzo. Guardai in su, verso il tetto, e provai un senso di vertigine. Quindi l’ultima porta e un androne dove le guardie mi parvero cavalieri pronti per un torneo, e da qui nella corte interna, con il pozzo e il mastio nel mezzo. Uno spazio angusto rispetto a quanto mi circondava, quasi soffocante se su due lati non ci fossero stati dei loggiati con eleganti colonne di pietra e pareti affrescate. Non c’erano più soldati e cavalieri, solo un viavai di servitori di ambo 1 sessi dalle livree bianche e rosse o gialle e azzurre a seconda dell’importanza. Smontammo da cavallo, ma quando feci per seguire i miei due compagni, Ugone mi puntò l’indice contro ordinando brusco: «Tu aspetta qui!».Durante il viaggio non mi aveva mai parlato e, a dire il vero, a parte il

suo valletto più giovane, nessuno degli altri lo aveva fatto. Anzi, a qualche mia domanda si erano limitati a fissarmi con indifferenza e boria perfino i valletti più giovani. E il servo venuto a prendere i cavalli non mi degnò neppure di un saluto, riservando solo un’occhiata ironica ai miei abiti. Di colpo ebbi la sensazione di non essere più nessuno, di non contare nulla. Così, durante l’attesa, mi feci una promessa: un giorno quella gente si sarebbe inchinata davanti a me, mi avrebbe temuto. Promesse di un ragazzino umiliato che subito vacillarono all’arrivo del conte Enrico e di suo figlio Mainardo, allora sedicenne.

Uscirono da una porta nel loggiato alla mia destra, seguiti da Ugone di Duino e da un uomo piuttosto anziano con una dalmatica rossa e un collare d’argento. padre e figlio non si assomigliavano in nulla. Il primo era piuttosto basso di statura, tondo di viso senza essere grasso, quasi del tutto calvo, scuro di occhi e dal colorito acceso; il secondo aveva capelli biondi, carnagione pallida, grandi occhi azzurri ed era alto, con un sentore di gracilità nonostante le spalle larghe. E mentre il conte camminava a passi pesanti, con espressione e sguardo bonari, Mainardo sembrava scivolare sul pavimento di mattoni, con sul viso un velo di malinconia.

«Dunque tu sei il nipote di Guido da Romano» disse il conte mettendosi davanti a me e guardandomi negli occhi.

Da tempo non sentivo chiamare così mio nonno. Noi tutti preferivamo chiamarci di San Lorenzo, per evitare commenti e domande.

«Sì, signore. Il mio nome è Corrado, figlio di Alberico» risposi.

Page 90: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Allora, Corrado di Alberico, ora andrai con mastro Mattia, il nostro maestro di casa» e indicò con la testa l’uomo dalla dalmatica rossa e il collare. «Ti mostrerà il tuo alloggio e ti spiegherà ogni cosa. Inizierai domani, come terzo valletto di mio figlio.»

Guardai Mainardo. Non sembrava essere interessato a me, fissava pensieroso qualcosa alle mie spalle.

«Seguirò i vostri ordini» dissi non trovando altre parole.E il conte: «Seguili con diligenza e se ti comporterai bene tra un paio

d’anni diverrai scudiero e poi… poi chissà. Dipenderà tutto da te. Ora vai».

Detto questo, rientrarono nel palazzo parlando fra loro. Quando fummo soli, Mattia mi si avvicinò serio e aggrottato. Stette un po’ a squadrarmi da capo a piedi e poi, all’improvviso, mi schiaffeggiò. Lo guardai stupefatto, incredulo per ciò che aveva osato fare.

«Quando incontri il conte Enrico devi baciargli la mano e ti devi inchinare. Non devi alzare la testa finché non ti rivolge la parola. Con il conte Mainardo basta l’inchino, però non fissarlo mai negli occhi. Questa è la prima lezione. Ora seguimi e ti spiegherò il resto, se quella testaccia contadina è capace di capire qualcosa» disse.

Mi riebbi dalla sorpresa per lo schiaffo, strinsi i pugni e lo fissai feroce pronto ad aggredirlo. Mi anticipò: «Non ti conviene, se non vuoi assaggiare il nerbo di bue.Il tuo orgoglio ti fa onore, ma se vuoi diventare un cavaliere ubbidisci in silenzio e con umiltà. Il primo passo per imparare a comandare è imparare a ubbidire».

Ribollivo dalla rabbia dei ragazzi, capace di spingere fuori le lacrime nonostante ogni sforzo per trattenerle. Allora Mattia addolcì la voce: «Avanti, ragazzo. Bisogna subire sofferenze e umiliazioni per non infliggerle inutilmente agli altri».

La mia stanza era al terzo piano del palazzo, un cubicolo di cinque passi per tre senza finestra e con un drappo al posto della porta, situato fra una scala e la camera del secondo valletto. L’arredo si riduceva a un letto di assi poggiate su due cavalletti, un tavolino con sopra un lume a olio, uno scanno e una cassapanca dove riporre le mie cose.

«Prima di sera porteranno pagliericcio, cuscino, lenzuola e coperta. Le tue bisacce sono già dentro la cassapanca» disse Mattia stando sull’arco della porta. «Per lavarti devi salire la scala. Alla fine della prima rampa c’è uno stanzino con il necessario. Ti faccio vedere.»

Page 91: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Mi mostrò una specie di cella con due feritoie prive di riparo, dove c’erano bacili, brocche, secchie di legno e una tinozza. Da alcuni ganci di ferro pendevano degli asciugatoi tutti stazzonati. Indicò l’unico gancio vuoto: «Quello è il tuo. Se non hai asciugatoio chiedilo al servo, quando ti porta la fornitura del letto».

Non vedevo una comoda, neppure un orinale, e Domandai dove fossero. Mi condusse su per una seconda rampa, fino a un piccolo ballatoio con una porta. L’aprì e si fece da parte. Mi trovai in uno strettissimo camminamento di ronda che curvava da una parte e dall’altra come se aggirasse l’intero palazzo. A sinistra, dove il camminamento piegava, una porticina. Mattia l’indicò. Immetteva in una bertesca merlata e coperta, con due caditoie. Mi bastò l’odore e il lordume ai bordi delle caditoie per capire. Trattenni a fatica un’imprecazione. Ero sistemato peggio di un qualsiasi servo in uno dei castelli che solitamente frequentavo. Come avevano potuto mio nonno e mio padre relegarmi in un posto simile? Era così che l’uomo più importante della Patria dopo il patriarca trattava i suoi valletti? Tornai indietro sconsolato e a testa bassa da Mattia, e lui borbottò una delle sue sentenze, grattandosi una guancia: «Questi sarebbero lussi da re durante una guerra. Devi abituarti alle scomodità, altrimenti non sopravviverai neppure una settimana durante un assedio. Meglio che ti rassegni subito, tu sei qui per diventare un cavaliere. Se pensi di non farcela, dillo ora. Ce ne sono a dozzine, e più nobili di te, in attesa del tuo posto».

Vinse l’orgoglio, e asserii deciso: «Non mi lamento. Cosa devo fare?».«Oggi nulla. Pensa a sistemarti e, se hai fame, scendi nelle cucine. Non

gironzolare e, soprattutto, vedi di non entrare per sbaglio nell’ala riservata alla contessa. Domani mattina ti mostrerò il castello. Attendimi nella tua stanza, vestito.»

«Come faccio a non sbagliare? È un castello enorme e…»«Basta non mettere un piede dietro l’altro a casaccio. A ogni passo,

prima di fare il successivo, guardati attorno, osserva, ascolta, e se non sei un asino capirai se è il caso di procedere, fermarti o tornare indietro.»

Con queste parole mi lasciò sulla scala, avvilito. Ma dodici anni sono un’età strana. A confortarmi mi bastò riuscire a tornare in camera da solo e poi scendere fino nella corte, e da questa raggiungere le cucine seguendo l’odore di cibo. E l’umore migliorò ancora di più davanti alla faccia allegra e rubiconda del capocuoco, uno slavo capace di accorgersi con una sola occhiata se qualcuno aveva rubato una sola oncia di lardo.

Page 92: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Mi accolse cordiale: «Voi siete il nuovo valletto del conte Mainardo, vero? Vi ho visto arrivare. Sedete, sedete a quella tavola. Vi faccio portare tre quaglie ripiene. Le sto preparando per il conte Enrico e così mi dite se le trovate saporite».

Di quaglie ne mangiai sei, più una scodella di zuppa d’uovo e tre fette di pane. Mastro Bogdan parve apprezzare sia la fame sia l’evidente piacere con il quale divoravo le sue pietanze e, quando gli confessai di non aver mangiato mai nulla di così buono, disse: «Oh, ne mangerete di migliori. Anche se molte pietanze perdono profumo e gusto quando sono fredde».

«Perché mangiarle fredde?» chiesi stupito.Ci saranno state almeno altre sette persone al lavoro nelle cucine e i più

mi guardarono ridacchiando.Bogdan sembrò volermi consolare: «Tranquillizzatevi, i signori

mangiano in fretta e, quando lasciano la sala, alle volte le pietanze sono ancora tiepide».

Non mi servì fare domande: avrei mangiato avanzi. Mi riprese la malinconia e un po’ mesto tornai nella mia stanza. Avevano preparato il letto e poggiato due asciugatoi sul tavolo. Tirai la tenda alla porta, mi tolsi gli stivali di feltro e, rovistando in una delle bisacce, trovai gli speroni di nonno Guido. Li aveva messi di sicuro nonna Aurora e stringendoli al cuore mi stesi sul letto in attesa della notte, pieno di nostalgia di casa.

Page 93: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

IV

Mi svegliai all’improvviso, con un forte dolore a una gamba. Ci volle del tempo prima di capirne la causa, realizzare di non essere a casa e di avere uno sconosciuto in piedi accanto a me. Mi misi seduto e allungai una mano verso la coscia dolorante. Al chiarore del lume posato sul pavimento appena fuori dalla porta, riconobbi la sagoma di mastro Mattia.«Ti avevo detto in piedi e vestito. Cosa fai ancora a letto?»«Con cosa mi avete colpito?»«Ti ho appena toccato, ragazzo.»Saltai giù dal letto e vidi che stringeva nella destra un nerbo.«Non fatelo mai più!»«Altrimenti?»Ricordai i propositi del giorno precedente e, frenando la rabbia, borbottai: «Bastava scuotermi».«L’ho fatto, hai il sonno pesante. Manca poco all’alba e tu, a quest’ora, devi essere in piedi. Ogni santo giorno dell’anno. Lavati, vestiti e vai nelle cucine. Ti aspetto nella mia stanza. Ah… e fai i tuoi bisogni, poi non ne avrai il tempo.»

Raccolsi i vestiti, il pettine, un asciugatoio e andai a lavarmi. C’erano due lucerne accese e poca acqua nei secchi. Tastai gli altri asciugatoi: erano umidi. Allora mi limitai a ripulirmi la faccia dal sonno e a pettinarmi davanti a un vecchio specchio d’ottone. In cucina c’erano due altri ragazzi, con davanti le scodelle già vuote. Esitai, e quello che sembrava il più avanti con gli anni mi accolse dicendo: «Sei in ritardo. Ti sei preso la nerbata?».

Era rosso di capelli e lentigginoso, gli occhi sporgenti e i lineamenti un po’ grossolani, ma con un sorriso amichevole ad abbellirgli il volto. Annuii, indeciso su dove sedermi. L’altro era poco più di un bambino, circa nove anni, e sembrava una femminuccia tanto era minuto di ossa e

Page 94: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

delicato nell’aspetto. Anche lui mi stava sorridendo, anche se timidamente.

«Siedi qua, davanti a me. Ti chiami Corrado, vero? Sei grande e grosso, ma quanti anni hai? Io sono Ugo, il figlio di Ugone di Duino. Il primo valletto del conte Mainardo. Lui,» e il rosso indicò con la testa l’altro «è Giovannino di Villalta, il secondo valletto.»

Sedetti ricambiando i sorrisi e soddisfeci ogni loro curiosità. Erano simpatici, solo stupiti che io iniziassi a fare il valletto a un’età nella quale di solito si è già scudieri. Infatti Ugo, pur avendo solo un paio di mesi meno di me, lo sarebbe diventato presto. E del conte Enrico, precisò con orgoglio, al posto di Guglielmo di Grumberg prossimo a essere fatto cavaliere. Una serva secca e arcigna mi aveva messo davanti una scodella di latte e un tagliere con del formaggio di pecora e della polenta di sorgo. Vedendomi cincischiare con il cibo e bere lentamente, Giovannino mi sollecitò: «Devi mangiare più svelto, sta per sorgere il sole. Tra un po’ dobbiamo essere pronti fuori dalla camera di Mainardo».

«Mi sta aspettando mastro Mattia» mi giustificai.«Allora fai ancora più svelto. Il maggiordomo non ama attendere. Ci

vediamo più tardi» aggiunse Ugo alzandosi.Finii di mangiare e andai da Mattia, contento di avere per compagni

due possibili amici. Trascorsi l’intera mattinata con il maestro di casa, seppure con diverse interruzioni perché in molti venivano a prendere ordini da lui e un paio di volte dovette andare di persona a risolvere dei problemi.

Iniziò illustrandomi la composizione della famiglia. Enrico era, e me lo fece ripetere più volte, conte di Gorizia e del Tirolo, avvocato delle Chiese di Aquileia e Bressanone, capitano generale della Patria e signore di un tal numero di città, castelli e luoghi in Friuli, in Tirolo e in Istria che neppure oggi li ricordo tutti. Per un tacito accordo, le avvocazie e i beni tirolesi li gestiva suo cugino, altro Enrico, duca di Carinzia e re di Polonia e Boemia. La contessa si chiamava Beatrice ed era figlia di Gherardo da Camino, in vita signore di Treviso. E qui fui io a stupirlo anticipandogli ciò che voleva dirmi su quella potente famiglia e informandolo dell’amicizia fra Gherardo e mio nonno Guido. Mi fissò in modo strano, poi buttò là solo un «già, tu sei un da Romano» e proseguì facendomi il nome di Alberto, fratello minore del conte, cui spettava il solo titolo di conte di Gorizia e che abitava nel palazzo grande del borgo con la moglie Elisabetta di Essen e il figlio, chiamato anch’egli Alberto.

Page 95: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Passò quindi a spiegarmi come dovevo rivolgermi a ciascuno di questi e, quando credevo avesse finito con l’elenco di tutti gli omaggi cui ero tenuto, si fece serio e aggiunse: «Almeno una volta l’anno il cugino del conte ci onora di una visita. A lui ti dovrai rivolgere chiamandolo sire perché, seppure spodestato, si ritiene ancora re. Inoltre, e non scordarlo mai, è zio dell’imperatore Federico d’Austria perché sua sorella Elisabetta ha sposato Alberto figlio dell’imperatore Rodolfo».

Una volta avevo sentito mio nonno parlare con Rizzardo di Valvasone della contesa fra Federico d’Austria e Ludovico di Baviera per il trono imperiale, due cugini cresciuti assieme come fratelli e poi divenuti nemici mortali. Mi sembrava di ricordare che, almeno in quel momento, Ludovico di Baviera la stesse spuntando. Per questo dissi, senza alcuna malizia: «Ma non è imperatore Ludovico il bavaro?».

Mattia divenne paonazzo, mosse la bocca senza riuscire a dire nulla e di botto afferrò il nerbo poggiato sul suo scrittoio e lo batté con forza sulle carte dove annotava le spese, gridando: «Cosa ne sai tu di queste cose? Vi è un solo imperatore e questi è Federico d’Austria!».

«Scusate, forse ho capito male» replicai spaventato.Tirò alcuni profondi sospiri, schiarì un poco in volto, rimise giù il

nerbo e sibilò leggermente ansante: «Ragazzo, fino a quando starai qui, e per il tuo bene, l’imperatore è uno solo: l’Asburgo». Poi, riprendendo contegno: «Visto che credi di saperla così lunga, sappi che sulla questione decideranno gli elettori di Germania il prossimo ottobre. E voteranno per il nostro Federico. Per questo si è combinato il matrimonio di Mainardo, e Ugone è dovuto andare fino in Palatinato. Per garantire voti a Federico. Perciò attento a cosa dici».

«Farò come consigliate, ve lo prometto» lo rassicurai. Poi azzardai: «Non mi avete ancora spiegato cosa devo fare esattamente».

«Te lo spiegherà il primo valletto. Devi ubbidire a lui e a lui rivolgerti per ogni problema. Da me vieni solo per cose veramente importanti o gravi. Ora vattene nel giardino finché Ugo non verrà a prenderti e, dopo cena, quando i conti si saranno ritirati nelle loro stanze, ti mostrerò dove puoi e dove non puoi andare.»

Chiamare giardino quello del castello di Gorizia è decisamente esagerato. Gli spazi lasciati liberi dalle fortificazioni sono pochi e, nonostante esso occupi quello più ampio, fra il palazzo e le mura orientali, non è più grande di cinquanta passi per dodici. Ma rimettere i piedi sull’erba, essere circondato da alberi e cespugli, per me fu un

Page 96: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

liberarmi dal senso di soffocamento che mi davano tutte quelle mura. Il mezzogiorno era passato da circa un’ora e pensavo non ci fosse nessuno, e comunque non mi curai di controllare. Sedetti per terra, in un angolo, fra un rosaio e un acero, con la testa all’ombra e il resto del corpo a cercare il tepore del sole. Mi stavo quasi appisolando, quando un colpo di vento mi fece storcere il naso. Scosse le fronde e, rimbalzando contro il bastione alle mie spalle, spazzò via il profumo di rose e mi avvolse in un fetore d’urina. Guardai alle mie spalle e scorsi dietro il roseto una piccola scala in mattoni che saliva al camminamento sulle mura. Probabilmente i militi di guardia scendevano in quel luogo a liberarsi la vescica. Mi alzai e salii la scala ritrovandomi a lato di un torrione sulla cui porta oziava il soldato di vedetta. Gli feci un cenno di saluto e lui borbottò: «Cosa ci fai quassù? Se ti vede il sergente te le suona!».

«Sono il nuovo valletto del conte Mainardo» mi presentai.Diede un’occhiata verso il torrione alla sua destra e insistette: «Te le

suona lo stesso. Torna giù».Mi sporsi fra due merli e vidi sul colle al di là di una stretta valle

percorsa da una strada un grande fabbricato con una chiesa accanto. Domandai, indicandolo: «Cos’è quello?».

«Il monastero di Castagnevizza. Ci stanno i francescani. Ma ora scendi, se quello ti vede se la prende Anche con me.»

Lo guardai feroce e ribattei: «Presto qui ci salirò quando mi parrà, e allora vedremo».

L’uomo mi squadrò e disse ironico: «Quel giorno ricordati di me, fammi almeno caposquadra. Ora torna giù».

Scesi stringendo le labbra e i pugni, a testa bassa, ma appena uscii dai cespugli di rose dovetti arrestarmi di colpo. A pochi passi da me c’erano cinque donne. Di una vedevo solo parte del profilo; era china a odorare una rosa, il resto del viso coperto da un velo azzurro fermato in capo da un cerchio d’oro. Indossava una tunica di seta dello stesso colore, senza strascico, con le maniche strette e ornate di perle. Capii subito di avere davanti la contessa Beatrice e m’irrigidii cercando di pensare in fretta a come dovevo comportarmi. Le altre erano a capo scoperto, i capelli sciolti o raccolti in una treccia ornata da nastri. Se la più anziana aveva l’età della contessa, la più giovane pareva una mia coetanea o poco più. Fu quest’ultima ad accorgersi di me e a sussurrare qualcosa alle altre.

Prima di abbassare il capo in un maldestro inchino, tutta la mia attenzione fu attratta dal viso della contessa. Mi stava guardando con

Page 97: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

grandi occhi azzurri, aveva la pelle candida e lineamenti da miniatura. Abbassai subito il capo e rimasi immobile, finché la damigella più anziana non mi chiamò: «Ragazzo, vieni qui».

Mi avvicinai imbarazzato, probabilmente rosso in viso per tutti quegli sguardi femminili posati su di me. La bocca si era improvvisamente fatta secca e il disagio aumentò ancor più quando la più giovane mise il suo viso a un palmo dal mio e annunciò allegramente: «Proprio carino, con quegli occhi verdi!».

«Cohice, non essere impudente» la rimproverò con bonarietà la contessa. Poi, tendendomi una mano dalle dita lunghe e sottili: «Chi sei?».

Le baciai goffamente la mano, suscitando risolini dalle altre. Allora m’imposi fierezza e, guardandola sfrontato, risposi: «Sono Corrado di San Lorenzo, signora, il nuovo valletto di vostro figlio».

«E dove sarebbe questo San Lorenzo? Ne conosco almeno tre, ma nessuno ha un castello» s’intromise con ironia la damigella più bassa e tracagnotta.

Beatrice aveva allora trentaquattro anni e già qualche piccola ruga ai lati della bocca e degli occhi. Quelle rughe si accentuarono ancor più mentre rimproverava severa chi aveva appena parlato: «Drumota, meglio tacere quando non si sa. La tua arroganza questa volta è davvero inopportuna. Io lo so dov’è».

«Mia signora, non intendevo offendere. Era solo per scherzare» cercò di giustificarsi l’altra arretrando di un passo.

«Tu sei il nipote di Guido da Romano, vero? Il capitano Ugone mi ha informato della sua morte. Una perdita per tutti noi. L’ho conosciuto, sai. Da piccola credo mi abbia anche tenuta in braccio. Tua nonna come sta? Se non ricordo male si chiamava Aurora, una donna molto bella e saggia.»

A tali parole mi sentii riempire d’orgoglio e ritrovai il coraggio.«Nonno Guido aveva una grande ammirazione per vostro padre,

signora. Lo considerava l’unico degno d’essere signore di Treviso. Quando è morto ha fatto celebrare tre messe e ancora se ne celebra una l’anno a San Lorenzo» dissi.

«È stato un bel gesto. Ma cosa fai qui, in giardino?»«Attendo Ugo, il primo valletto. Così mi ha ordinato mastro Mattia.»Beatrice guardò alle mie spalle e sorrise: «Allora è arrivato. Eccolo là».

Mi girai e vidi Ugo a dieci passi da noi, piegato in un elegante inchino.

Page 98: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Vai pure, Corrado, e cerca di amare mio figlio. Un giorno io e te dobbiamo chiacchierare» mi congedò la contessa.

Annuii, le volsi le spalle e raggiunsi Ugo. Appena passato l’androne d’ingresso, mi disse accigliato: «Corrado, non devi mai voltare le spalle alla contessa o al conte come hai appena fatto. Devi rinculare almeno di tre passi prima di girarti. Se ti vedeva Mattia, una nerbata non te la toglieva nessuno».

Nei mesi successivi qualche nerbata la presi, ma in realtà solo due mi lasciarono dei lividi. La prima la ricevetti due giorni dopo, quando mi rifiutai d’indossare la livrea; una camicia bianca con delle asole cui allacciare le calze dello stesso colore e suolate di feltro, e la tunicella rossa che arrivava appena a metà coscia. Bastava chinarsi un po’ troppo o accovacciarsi e si mostravano le chiappe e anche il resto. Inoltre, per non bagnare le suole attraversando la corte o altri spazi scoperti quando pioveva, ci si doveva infilare delle pianelle di legno con due rialzi e si era costretti a camminare a piccoli passi come damigelle. La seconda perché mi era scappato un risolino vedendo i conti mangiare alla dogaressa, cioè portandosi alla bocca il cibo con una forchetta anziché con le mani. Per il resto furono solo semplici colpetti di avvertimento.

Il trattamento bonario dipendeva probabilmente dal rapporto che la contessa instaurò con me. Beatrice mi mandava a chiamare almeno una volta alla settimana, per farsi raccontare nella stanza del ricamo le storie narratemi da mio nonno Guido su suo padre e Treviso. E poi perché rispettavo ferreamente le gerarchie, non andando mai da mastro Mattia a lamentarmi di qualcosa e non riferendo mai alla contessa fatti e particolari dei quali ero venuto a conoscenza durante il servizio. Un servizio davvero umiliante, almeno per i primi sei mesi. Iniziavo all’alba, con il pitale di Mainardo. Ugo lo prendeva da sotto il letto, metteva il coperchio di legno senza guardarci dentro e lo passava a Giovannino. Io, in piedi vicino alla porta, lo prendevo da Giovannino, uscivo e lo consegnavo al servo in attesa in fondo al corridoio. Stessa cosa con l’acqua per lavarsi. La ricevevo io dai servi, la davo a Giovannino che a sua volta la passava a Ugo dopo aver controllato che fosse calda a sufficienza. E così con i vestiti, i gioielli e le armi. Le uniche volte in cui avrei desiderato anche fare da schiavo, era quando Mainardo saliva nella sala d’armi o scendeva a Gorizia per allenarsi in un prato riservato ai tornei. Invece, lo accompagnavano solo Ugo e il maestro d’arme, mentre io e Giovannino restavamo ad attendere seduti su una delle panche

Page 99: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

sistemate sotto i portici della corte.La mia sorte iniziò a cambiare nel marzo del 1315. Ugo lasciò la

tunicella, indossò la tunica lunga e passò a fare da scudiero al conte Enrico. Negli stessi giorni, Giovannino cominciò ad avere una tosse continua, secca, stizzosa, insensibile a ogni medicamento, e preferirono rimandarlo a casa. Divenni così primo valletto da un giorno all’altro, con due ragazzini di dieci anni da comandare. Lasciai la mia stanza e mi trasferii in quella di Ugo, più grande, con una finestra e con una porta che dava direttamente nella camera di Mainardo.

Che il giovane conte fosse fisicamente più somigliante alla madre che al padre lo potevano vedere tutti. In quasi un anno non mi aveva mai rivolto la parola, limitandosi a osservarmi spesso e a darmi gli ordini con semplici cenni. Di lui ammiravo la calma, il non essere mai prepotente con nessuno, la naturale eleganza in ogni gesto, e m’incuriosiva lo scoprire spesso sul suo volto la stessa velatura di malinconia della madre. Ma del suo carattere avevo potuto saggiare ben poco. Eppure avevo la convinzione che la somiglianza con la madre valesse anche per l’animo, e ne ebbi la conferma una settimana dopo la mia promozione. Mainardo si era appena messo a letto e io, congedati gli altri due valletti, stavo per lasciare la camera quando mi ordinò: «Fermati qui e siedi sulla cassapanca ai piedi del letto».

Ubbidii e attesi ordini. Lui, dopo avermi studiato per un po’, disse senza giri di parole: «Tu hai faticato e fatichi a servirmi, Corrado. Sei orgoglioso e ribelle».

Scambiai tali parole per la premessa di un rifiuto nei miei confronti e cominciai a preoccuparmi, a chiedermi cosa sarebbe stato di me a quel punto. Dissi timoroso: «No, signore. Non fatico a servirvi».

«Fatichi. Ti ho osservato. Comunque è meglio avere accanto un ribelle anziché un ruffiano. Prendimi il libro. Sullo scrittoio, quello con la copertina in pergamena.»

Tirai un sospiro di sollievo e ubbidii rapido. Prendendo il libro gettai un’occhiata alle parole vergate con inchiostro rosso sulla copertina. C’era scritto Trattato d’amore di Guittone d’Arezzo. Senza neppure rendermene conto lo ripetei a mezza voce e voltandomi vidi Mainardo tirarsi su puntellandosi sui gomiti e fissarmi con stupore.

«Sai leggere, Corrado?»«Certo, signore. Mia nonna ha preteso che tutti imparassimo a leggere

e scrivere, anche mia sorella» risposi tendendogli il libro.

Page 100: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Non lo prese. Rimise la testa sul cuscino e, fissando il baldacchino sopra di lui, mi sfidò: «Vai vicino alla lucerna e leggimi una pagina, scegli tu quale».

Aprii a caso e iniziai a leggere, anche se lentamente e inceppandomi un paio di volte: «La forma d’essa morte dolorosa, che ‘n esser d’un garzon è figurata, desegna che ‘n lei già esser non osa firmela di ragion alcuna fiata…»

«Basta così. Capisci cosa vuol dire?»«Le parole sì, ma il senso non proprio» ammisi.«Corrado, sei una sorpresa. Anch’io so leggere soprattutto grazie a mia

madre. Fosse stato per mio padre…»Si tirò su di nuovo, spinse il cuscino contro il muro e si appoggiò con

la schiena mettendosi a braccia conserte: «Siedi qui, sul letto. Mia madre qualcosa mi ha raccontato, ma ora vorrei sentire direttamente da te cosa pensava tuo nonno del mio. È vero che si sono anche odiati e combattuti prima di diventare amici?».

Risposi a ogni domanda come meglio potevo. Non avevo ancora letto le memorie di mio nonno, allora non si sapeva neppure della loro esistenza. Ripetevo cose udite, alle volte carpite tendendo l’orecchio. Dopo un bel po’, con gli occhi che quasi mi si chiudevano per il sonno, mi pose l’ultima domanda: «Di mio zio Rizzardo, cosa diceva tuo nonno?».

Deglutii, incerto se sfuggire alla domanda con un “non ricordo” o un “non ne ho mai sentito parlare”.Poi colsi nel suo sguardo una luce particolare e, seppure ragazzino, percepii il pericolo: la risposta avrebbe segnato il mio destino.

«Preferirei non rispondere, signore.»«Invece ti ordino di rispondermi. Allora?»«Non era come vostro nonno Gherardo, nonno Guido non ne parlava

bene» risposi tutto d’un fiato.Mi sorrise e mi tese la mano. Gliela strinsi con timore, mentre diceva:

«Sei sincero e coraggioso, Corrado.Io e te ci capiremo. A proposito di mio zio, tuo nonno aveva ragione. Rizzardo non è stato un buon signore, una iattura per la famiglia, per Treviso e la Patria. Ora dammi il libro, appendi la lucerna a questa colonna del baldacchino e vai a dormire». Quando fui sul punto di varcare la porta fra le nostre due stanze, aggiunse: «Da ora in poi, quando siamo soli, chiamami Mainardo. E dammi del tu. Siamo quasi

Page 101: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

coetanei, no?».

Page 102: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

V

Nel servire Mainardo, dovetti sdoppiarmi. Di sera in sera le nostre brevi chiacchierate divennero sempre più confidenziali, come fossimo amici e di pari livello. Ma pari non eravamo, e al di fuori di quei momenti ognuno riprendeva il suo ruolo. E più si entrava nell’intimo la notte, più grande era il distacco di giorno. Fino a quando, una notte, infuriato per qualcosa, non sbottò contro il padre che lo usava come una merce di scambio imponendogli prima per moglie la figlia del conte di Croazia e Bosnia e poi Matilde di Wittelsbach. senza neppure chiedergli un parere, come se fosse ancora imberbe. Mainardo concluse, pieno d’ira: «Io rispetto e ammiro mio padre, però non sono disposto a patire le sofferenze di mia madre».

Dette queste parole mi aveva guardato smarrito, lui stesso stupito di averle potute pronunciare davanti a me. Stavo sistemando la lucerna e percepii quasi fisicamente il suo enorme imbarazzo. Così ebbi la furbizia di fingermi distratto e chiesi con indifferenza: «Scusami, ero distratto. Cosa dicevi di tua madre?».

Non so se credette alla mia distrazione. Comunque, anche fuori dalla stanza e pur salvando le apparenze, iniziò a trattarmi e parlarmi con evidente complicità. La cosa non sfuggì né a mastro Mattia né alla contessa Beatrice. Il primo si limitò a ricordarmi che l’amicizia dei potenti è più fragile del vetro, e la seconda mi sussurrò: «Aspettavo da tempo che mio figlio trovasse qualcuno del quale fidarsi».

Ormai sapevo molto del conte Enrico. Era un uomo spregiudicato in politica, con grandi ambizioni, sempre pronto a guidare il suo esercito contro chi era sospettato di voler sminuire il suo enorme potere. Non aveva importanza se si trattava di un castellano di antica stirpe, di una città, e perfino del patriarca di Aquileia di cui era suddito. Quando non guerreggiava, nonostante i suoi quarantatré anni, dava sfogo a ogni appetito mangiando e bevendo in maniera smodata, abbrancando ogni

Page 103: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

donna che desse segno di disponibilità. Anzi, in questo era proprio insaziabile, nonostante avesse moglie e un’amante fissa. Si chiamava Eufemia e gli aveva dato due figlie che trattava e curava come fossero legittime, facendo financo sposare la primogenita Alciberta al nobile Nicolò di Prampero. Ugo mi raccontò con malcelato orgoglio di averlo accompagnato in una stessa notte prima da una nobildonna del borgo, poi da Eufemia e, infine, di averlo visto entrare nella camera della moglie. Né il conte provava rimorsi per il suo agire, gli bastava l’assoluzione del pievano di Salcano o del curato di San Taziano per liberarsi allegramente di ogni senso di colpa e ricominciare da capo. Beatrice invece ne soffriva. Non per gelosia ma per la grande umiliazione. Non ho mai capito se un tempo ci fosse stato dell’amore fra loro. Ciò di cui sono certo è che quando io andai a Gorizia non ce n’era più, nonostante il sottostare di entrambi ai doveri coniugali. Ma sarei un malvagio se non dichiarassi anche i maggiori pregi di Enrico: raramente ho conosciuto un uomo tanto generoso, disposto al perdono e sinceramente interessato al benessere dei suoi sudditi.

Mainardo, dal canto suo, iniziò a prodigarsi affinché ricevessi al più presto le armi. Sul finire di settembre di quello stesso 1315, il suo scudiero Marzio di Orzano dovette lasciare temporaneamente il castello per la morte del padre, e toccò a me sostituirlo. Uno dei compiti dello scudiero, oltre a preparare le armi e ad aiutare nella vestizione, è di sottostare a qualche assalto per permettere al suo signore di riscaldare i muscoli. Perciò anch’io indossai il giaco di cuoio e impugnai una delle spade da allenamento. Non essendo pratico della cosa, anziché limitarmi a parare, tentai due affondi. Pertoldo, il maestro d’armi, mi strappò subito la spada di mano e iniziò a insultarmi inferocito. A quel punto Mainardo lo allontanò da me e volle duellare. Ero arrugginito, con la muscolatura indebolita da tutto quel tempo a far lavori da servo; inoltre Mainardo era bravo, talmente veloce da mandare a vuoto ogni mio colpo. Si spostava con agilità e dovevo faticare non poco per non trovarmelo di lato o alle spalle. Solo grazie agli insegnamenti di Karl, all’ultimo momento, riuscivo sempre a parare. Ma al quinto assalto ero senza fiato e, ansando, dovetti dichiararmi vinto.

Mentre con una manica cercavo di liberarmi gli occhi dal sudore, Mainardo prese a parlottare con Pertoldo a voce bassa. Il primo sembrava insistere su qualcosa e l’altro scuoteva la testa. Alla fine Pertoldo allargò le braccia in segno di resa, venne da me e domandò:

Page 104: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Chi ti ha insegnato a usare la spada?».«Prima mio nonno e poi un cavaliere tedesco» risposi.E Mainardo: «Sei bravo. Senza fiato, ma bravo. E in qualsiasi torneo ti

avrebbero squalificato. Si iniziano gli assalti a punta alta e non a punta a terra, si mostra il petto e non il fianco».

Non conoscevo le regole dei tornei, almeno non del tutto, e non seppi cosa rispondere. Pertoldo aggiunse, serio in volto: «Ti hanno insegnato come ci si difende, non come si duella. Manchi completamente di eleganza. Da domani, come vuole il nostro signore, verrai qui ogni giorno subito dopo il mezzodì».

Fui l’unico allievo per oltre un mese e, quando Marzio d’Orzano tornò, avevo imparato a duellare utilizzando il pugnale a elsa ricurva invece dello scudo. Con Marzio, però, nacquero dei problemi di ruolo e, per non fargli torto, Mainardo mi pregò di rinunciare temporaneamente alle lezioni. Ne rimasi addolorato, ma non lo diedi a vedere, perché compresi le sue ragioni. Fu Pertoldo a rimettermi involontariamente un’arma in mano, nonostante mi avesse chiaramente preso in antipatia. Accadde poco dopo l’Epifania del 1316 e avevo appena compiuto i quattordici anni.

Era un giorno gelido e senza neve, con un sole pallido e lontano che non riusciva a sciogliere la spessa crosta di brina. Mainardo mi aveva mandato nel borgo a ritirare un gioiello per la madre, un dono che le avrebbe dato il giorno del compleanno. Persi parecchio tempo con l’orafo, perché non la smetteva di lucidare l’oro e le pietre per renderli il più brillanti possibile. Tornando al castello il cuore mi balzò in petto. Fuori dalla porta del palazzo c’erano due cavalli legati agli appositi anelli e in un angolo della gualdrappa avevano dipinta l’arma della mia famiglia. A dire il vero, più del monte a tre cime con le tre stelle a contornarli d’oro sul fondo azzurro, notai soprattutto le screpolature del cuoio di una delle selle e mi chiesi stizzito perché mio padre si ostinava a usare un tal vecchiume. Corsi dentro con il batticuore e, una volta nelle stanze di Mainardo, trovai ad attendermi mastro Mattia. Si fece consegnare il gioiello e mi ordinò di andare subito nella sala degli arazzi, dove il conte Enrico riceveva d’inverno.

Un valletto del conte mi aprì la porta e io rimasi immobile sulla soglia, accanto a una panca con sopra delle pellicce che i due mastini del conte annusavano con interesse. Erano raccolti in fondo alla sala, vicino al camino dove ardeva un grosso ceppo. Enrico sedeva sullo scranno

Page 105: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

intarsiato, con Mainardo in piedi alle sue spalle; il capitano Ugone se ne stava a braccia conserte vicino a un braciere; mio padre e zio Rosso sedevano su due sedie davanti al conte. Tutti guardavano me.

«Vieni, ragazzo, hai visite» disse Enrico.Feci un inchino e avanzai lentamente. Mio zio Rosso, la tunica orlata di

vaio e il collare d’oro di medico patriarcale, non stonava. Mio padre sì. Con la dalmatica nera rivestita di pelle d’agnello, le brache di panno e gli stivali di feltro grosso, sembrava un mercante. Provai imbarazzo per lui, e me ne vergognai. Giunto a pochi passi, mio zio si alzò e mi strinse la mano dicendo: «Ti sei fatto grande e grosso, nipote».

Nel frattempo anche mio padre si era alzato. E, senza curarsi di volgere le spalle al conte, mi si mise davanti, le mani dietro la schiena, e chiese: «Come sei conciato? Cosa sono queste vesti da… da…». E indicò l’orlo della mia tunica mostrando una mano callosa e dalla pelle screpolata.

Mi sentii avvampare di vergogna e chinai il capo. Il conte iniziò a ridere battendo le mani sui braccioli dello scranno e continuò a ridere fino ad avere le lacrime. Io, invece, avrei voluto scappare. Alla fine esclamò: «Alberico, amico mio, avete ragione! Ma così vogliono le mode di oggi e tocca piegarsi. Vi immaginate noi, ai nostri tempi, con la gonnella?».

Mio padre scosse la testa e non rispose, non si girò neppure. Mi disse: «Stai bene, figliolo? A casa è tutto a posto. T’inviano i loro saluti».

Ero disorientato e non riuscivo a pronunciare una parola. Guardai Mainardo con la coda dell’occhio e quell’istante ingigantì nella mia mente l’“amico mio” rivolto a mio padre. Borbottai: «Sono felice di vedervi, padre. Anche voi, zio».

«Stai onorando la tua famiglia, figliolo?» chiese Alberico tornando a sedere.

Fu Enrico a rispondergli: «A sentire mio figlio pare proprio di sì». Poi, rivolto a me: «Lo sai, ragazzo, che io devo la vita a tuo padre?». E girandosi verso di lui: «È stato quando quel manigoldo di mio cognato Rizzardo ha tentato di occupare la Patria, vero? Se non mi aveste riparato con lo scudo mi sarei preso un verrettone in faccia! Un colpo capace di bucare il vostro scudo! Se non ricordo male vi si è piantato sul braccio, vero?».

Fissai sorpreso mio padre. Ecco cos’era quella strana cicatrice sull’avambraccio sinistro. Gli avevo chiesto un paio di volte come se l’era procurata, ottenendo per risposta un vago “da giovane, durante una

Page 106: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

scaramuccia”. Di colpo dimenticai le sue vesti fuori moda e un po’ consunte e mi sentii molto orgoglioso di lui. Avrei voluto dire qualcosa per farglielo capire, ma la porta si aprì ed entrarono mastro Mattia e il cavaliere Pertoldo. Il conte gli fece gesto d’avvicinarsi, dicendo: «Messer Alberico, preferisco siano loro a dare un giudizio su vostro figlio. Da parte mia posso assicurare che non gli è stato risparmiato niente e ha avuto lo stesso trattamento degli altri».

Il responso di Mattia fu: «Ha sempre fatto il suo dovere e, nonostante l’orgoglio e uno spirito un po’ ribelle, ha imparato a piegarsi, a rispettare le gerarchie, ed è fidato».

Pertoldo sembrò scegliere le parole: «Ha buona stoffa, soprattutto dopo aver imparato le regole del duellare cavalleresco. Solo di una cosa non sono contento. Combatte come fosse in gioco la sua vita, come se volesse uccidere e non solo vincere l’avversario».

Tenevo d’occhio sia mio padre sia il conte e se il primo non mostrava emozioni, il secondo, all’ultima frase di Pertoldo, smise l’aria indifferente e mi fissò con uno strano sguardo. Trascorsi con mio padre e mio zio solo un’ora, nella mia stanza. Poi ripartirono, per riuscire a essere a Udine prima di notte. Mi stavo ancora godendo quel “sono orgoglioso di te” di mio padre, quando il valletto del conte mi venne a chiamare. Tornai nella sala degli arazzi ed Enrico mi tese una lettera: «Scendi al borgo e vai da donna Eufemia. Consegnale questa e torna da me con la risposta. Subito, ovunque io sia».

Mi stupii dell’incarico, ma pensai che forse i suoi valletti avevano altro da fare. Andai a mettermi la pelliccia e corsi alla casa dell’amante del conte. Mi aprì una serva e mi condusse nella stanza del camino dove Eufemia e sua figlia Elisabetta stavano ricamando dei fazzoletti, accanto a una finestra. Non capivo cosa Enrico trovasse in quella donna. Era tracagnotta, con fianchi e petto enormi e talmente nera di pelo da avere della peluria anche sotto il naso. Inoltre, aveva un modo di fissare che mi metteva a disagio, come se ti volesse guardare attraverso le vesti. Le tesi la lettera e aspettai silenzioso la risposta.

Ruppe il sigillo, l’aprì e la guardò rigirandola sorpresa: «Non c’è scritto nulla».

«Il signor conte mi ha ordinato di portargli una risposta» insistetti.«Allora digli di scrivere la domanda. Come ti chiami?»«Corrado, signora.»«Sei il valletto di Mainardo, vero?»

Page 107: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Sì, signora.»Tornò a rigirare la lettera e guardò la figlia che inarcò le labbra come a

dire “boh”. Eufemia gettò il foglio nella cesta dei fili: «Be’, riferisci che senza domanda non vi è risposta».

Salutai e tornai al castello convinto che il conte avesse piegato il foglio sbagliato. Lo cercai, pronto a ridiscendere con quello giusto. Non era più nella sala degli arazzi e un servo intento a coprire le braci nel focolare mi disse che aveva lasciato detto di raggiungerlo nella sala della musica. Prima ancora di aprire la porta, capii di avere un problema. Una voce femminile, le parole rese incomprensibili dal sovrapporsi di un dulcimer suonato piano, si alternava a quella del conte. Era inequivocabilmente quella di Beatrice. Stetti immobile, incerto se entrare o meno, poi spinsi la porta. Il musico Filippo sedeva fra il conte e la contessa e percuoteva dolcemente le bacchette sulle corde del dulcimer mentre loro parlavano di una probabile visita di Rizzardo da Camino, un loro nipote. Beatrice mi guardò sorpresa: «Ti manda mio figlio?».

Scossi la testa guardando Enrico: mi fissava e taceva.«C’è qualche problema?» insistette la contessa.

«No, mia signora. Ho solo l’ordine di riferire al signor conte su un incarico che mi ha dato.»Lei guardò il marito, ostinatamente muto.«Come vedi è qui, perciò riferisci.»Mi rivolsi al conte: «Signore, l’armaiolo dice di non avere indicazioni precise sul cimiero da porre sull’elmo. Se me le scrivete, le porto subito» dissi senza mostrare alcun imbarazzo.Enrico sorrise compiaciuto e mi congedò: «Non ha importanza. Manderò uno dei miei valletti appena hanno finito di prepararmi il bagno».Tornai nella mia stanza a riporre la pelliccia e trovai Mainardo seduto sul mio letto: «Doveri finito?».Chiusi la porta fra le nostre camere perché gli altri due valletti non sentissero: «Tuo padre mi ha mandato nel borgo, a portare una lettera».«A chi?»«A Eufemia.» La sua espressione s’indurì e strinse le mani a pugno. «Però era una lettera bianca, con scritto niente» aggiunsi.Non ebbe il tempo di farmi domande. La porta sul corridoio si aprì e il conte Enrico entrò.«Ragazzo,» mi disse «domani vai dal sarto e fatti cucire degli abiti da

Page 108: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

uomo. Tra due giorni parti per Pisino. Ci vai come scudiero e starai là finché non sarai pronto a ricevere le armi. Cioè per almeno un anno. Informerò io tuo padre.»Rimasi interdetto. Mentre mi chiedevo perché venivo cacciato e relegato in luogo fuori dal mondo, nel mezzo dell’Istria, Mainardo balzò in piedi: «Perché questa decisione improvvisa, padre? Per cosa lo punite?».«Non lo punisco, lo premio. È sveglio, furbo e fedele. Inoltre, cosa che il tuo maestro d’armi non ha capito, il suo modo di combattere non è un difetto ma un pregio. Può diventare una formidabile macchina da guerra, e a me servono guerrieri, non rammolliti di corte buoni al massimo per i tornei. Giovanni di Pisino tirerà fuori da lui il meglio.»

«Quell’uomo ne farà un assassino! Poi, non sta a me decidere cosa fare del mio valletto?»

Enrico si fece ancora più rosso in volto di quanto normalmente fosse, fu sul punto di ribattere con durezza ma poi si addolcì. Poggiò le mani sulle spalle del figlio e disse: «Ti capisco. Per te è un amico e nella tua posizione gli amici non li trovi certo dietro gli angoli. Solo leccapiedi con secondi fini. Se gli vuoi bene, accetta la mia decisione. Quando tornerà avrai al tuo fianco qualcuno del quale anch’io potrò fidarmi. E Dio solo sa se ne avremo bisogno! Questo nuovo patriarca, anche se è cugino di tua madre, non vale nulla. Pensa più a Milano che ad Aquileia. Niente di nuovo, i della Torre sono sempre stati una iattura per noi. Intanto Cangrande della Scala diventa sempre più forte e ambizioso. Così Passerino Bonacolsi, Matteo Visconti e Jacopo da Carrara, mentre quell’incapace di tuo zio Guecello da Camino rischia di perdere definitivamente Treviso. figlio, io sto invecchiando e tu dovrai combattere. Non solo con le armi della politica, anche con il ferro e il fuoco. Non ti voglio solo e, se Corrado ti è veramente amico, avrai qualcuno di cui fidarti a proteggerti le spalle».

Mainardo aveva ascoltato immobile, fissando il padre dritto negli occhi. Non rispose subito, rifletté e, infine, mi domandò: «Tu sei d’accordo?».

Per una volta lo guardai storto. Cosa potevo decidere io? Come poteva un ragazzo di neppure quattordici anni opporsi alle decisioni di un potente? Ma davanti alla tristezza del suo sguardo risposi: «Se questo mi aiuterà a servirti meglio, lo voglio fare». Volsi lo sguardo al conte e con sfacciataggine aggiunsi: «Il sangue dei da Romano non ha mai tradito un vero amico, signore».

Page 109: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Bene, era quello che volevo sentire. Vai dal sarto» disse Enrico andandosene.

Rimasti soli, Mainardo borbottò: «Sarà dura per te, e mi mancherai».Gli strinsi un braccio, asserendo: «Tornerò e potrai contare su di me

come su un fratello».

Page 110: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

VI

Come doveva essere il mondo prima che l’uomo lo lordasse, così si può definire l’Istria. Un compendio della terra che dalle scogliere d’occidente a quelle d’oriente, fra colli, monti e dirupi, nel fitto dei boschi e nelle oscurità delle grotte, racchiude molti segreti. Conoscerla è come spiare nell’officina di Dio, uno sfiorare i misteri della vita e della morte, un tremare davanti a sublimi bellezze e indicibili orrori. Anche se ci arrivai d’inverno, anche se ero solo un ragazzo, l’amai subito. Forse per questo, giunto in vista di Pisino, temetti di essermi imbattuto in un’ingiuria del maligno.

Mi accompagnavano due soldati e un messaggero con lettere e ordinanze, e mi stupii nel vederli rasserenarsi guardando le lunghe mura merlate che racchiudono in un’ellisse il castello e i borghi, con cinque torri, allineate al poderoso mastio piantato sul ciglio di un precipizio. Il tutto nudo, privo di qualsiasi linea che non fosse orizzontale e verticale ad ammorbidirlo, non una bandiera o una finestra dai vetri colorati a rompere l’uniformità grigia della pietra. La mia mente andò subito ai racconti di Mainardo su Giovanni, il capitano del castello, e mi venne la pelle d’oca. Come se stessi per entrare nell’inferno e incontrare Satana.

Davanti alla prima delle cinque porte turrite vigilava un gruppetto di militi avvolti in pesanti mantelli di lana nera e armati di lancia. Ci guardavano torvi, senza smettere di battere i piedi sul duro strato di neve ghiacciata. La porta era aperta e si limitarono a scostarsi per permetterci di passare, senza un cenno o un saluto, interessati solo a controllare lo stemma goriziano dipinto sulle gualdrappe dei nostri cavalli. Dentro, raccolte attorno alla chiesa di San Nicola e al suo cimitero, casupole di legno con i tetti di strame; uomini, donne e bambini, infagottati in pellicce dove il lupo si mescolava al coniglio e il montone al ratto, ci fissavano immobili e muti. Quindi, la seconda porta, e poi la terza e la quarta. Fortunatamente, più mi avvicinavo al castello e più le case si

Page 111: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

facevano decorose, le persone ben vestite, le facce cordiali. Davanti alla quinta e ultima porta, l’unica con il ponte levatoio su di una fossa scavata nella roccia, un gruppo di anziani mescolati a militi dai mantelli rivestiti di candido agnello si accalcarono attorno a noi e, con sorrisi e inchini, iniziarono a fare al messo domande sul conte e sulla sua famiglia, su quali fossero le ultime novità nella contea e nel patriarcato. E il messo si schermiva ripetendo: «Dopo, dopo. Lasciateci passare. Appena avrò riferito al capitano verrò alla taverna e soddisferò la vostra curiosità. Suvvia, messer Antonio, e voi messer Boris, e anche voi messer Kozma, fate largo».

Dentro il castello, piantato nel mezzo della corte e a pochi passi dall’ingresso del mastio, ci attendeva un uomo dalla tunica scarlatta aperta sui fianchi, senza berretto in testa. Aveva un viso scarno, con mento e zigomi appuntiti, capelli cinerei e fini, naso dritto e sottile come una lama, gli occhi di un gelido celestino e la bocca un taglio quasi privo di labbra.

«Salute a voi, capitano. E non sapete quanto sono felice di vedervi. Temevo di non arrivare con questo freddo e con i lupi a ulularci alle spalle. Non vi dico poi le facce da tagliagole negli ospizi!» disse il messo.

«Siete così vecchio e coriaceo che neppure gli orsi vi mangerebbero, amico Nicolò. Quali nuove mi portate?»

Il capitano Giovanni aveva una voce curiosamente musicale, con un tal salire e scendere di toni da ricordare un canto da messa solenne. E il suo sorriso mi spiazzò. Aveva qualcosa di dolce e amaro insieme, un po’ forzato eppure sincero. Solo lo sguardo non mutava mai ed era fisso su di me.

«Vi porto lettere e ordinanze del conte. E un ospite» rispose Nicolò mentre smontavamo da cavallo e i due soldati prendevano i nostri animali e uscivano dalla corte.

Non ci scambiammo una parola. Gli rivolsi un inchino e lui si limitò a tendere il braccio verso la porta di un palazzetto invitandoci a entrare. Varcata la soglia rimasi incredulo. L’ingresso dava in una sala lunga e stretta con un grande camino sul fondo e tre porte per lato, e le pareti erano completamente affrescate. Neppure lo spazio di un pollice mancava di colore, dal pavimento fino al soffitto a botte, e c’era un delizioso tepore. Mi parve d’essere in balia di una stregoneria: era l’esatto contrario di quanto mi ero immaginato da fuori. La mia sorpresa dovette risultare palese e il capitano Giovanni disse: «Bello, vero? Tutte

Page 112: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

le stanze sono così. Meno sopra, nel solaio. Lo uso come sala d’arme. È la consolazione di chi è obbligato a vivere fuori dal mondo. Come vi chiamate?».

«Corrado, signore. Corrado di San Lorenzo.» Poi, nel tentativo di darmi importanza: «O da Romano, se preferite».

«Da Romano?»«Sì, signore. Sono pronipote di Ezzelino» risposi con aria di sfida.«Sangue speciale e un nome difficile da portare. Non credevo ci fosse

una sua discendenza in giro, almeno non dopo il massacro di San Zenone. Mi racconterete, se vi andrà, naturalmente. Ora scusate. Accomodatevi vicino al fuoco mentre io leggo queste lettere. Vi faccio portare del vino caldo.»

Entrò nella prima stanza alla mia sinistra e si chiuse la porta alle spalle. Io e il messo sedemmo uno davanti all’altro sulle panche ai lati del camino. Neppure il tempo di toglierci le pellicce e dalla porta alle mie spalle entrò un uomo canuto e curvo, con un vassoio sul quale c’erano due fumanti coppe d’argento. Un servo dallo sguardo curiosamente fiero e modi eleganti. Pensai che da quelle parti il silenzio doveva essere una virtù, perché si limitò a porgerci le coppe senza una parola. Ero perplesso. I racconti di Mainardo non combaciavano con le sensazioni che stavo provando. O meglio, combaciavano solo in parte. Ma lui mi aveva riferito solo chiacchiere. Non aveva mai incontrato Giovanni e a Pisino cera stato una volta sola, da bambino. Svuotai avido la coppa di vino dal profumo di spezie sconosciute e un benefico rilassamento s’impossessò di me. Per tutto il viaggio avevo evitato di parlare del capitano, ma a quel punto la curiosità mi spinse a dire sottovoce a Nicolò: «Il capitano non mi sembra quel diavolaccio di cui si parla».

Mi fissò stupito, rispondendo con una domanda: «Chi lo definisce tale?».

«Mainardo non ne ha una grande opinione» risposi vago.«Per il giovane conte è meglio non sapere cose che potrebbero recargli

danno. Non s’inventano forse mostri per tenere lontani i bambini dai pericoli?»

Allora non capii quella risposta, mi limitai a guardare il messo come se straparlasse e mi adeguai al silenzio imperante in quel luogo fino al ritorno del capitano Giovanni. Questi mi sorrise e disse in tono scherzoso: «Dunque, Corrado, a quanto pare devo farvi da padre per almeno un anno. Purtroppo padre non lo sono mai stato, e dovrete

Page 113: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

aiutarmi. Almeno al principio».Iniziò in questo modo il nostro rapporto che ora cercherò di

riassumere compiutamente. Mi sistemarono in una delle stanze adiacenti al camino, una camera con ogni conforto e dove all’inizio pure io parlavo sottovoce, come fossi in una cappella, perché dai muri mi fissavano santi e sante tutti noti per essere stati dei taumaturghi. Gli altri locali del pianterreno comprendevano lo studio e la camera di Giovanni, la sala dove si mangiava e un’anticamera, che collegava il palazzo alla cucina e alle stanze della servitù, composta da quattro uomini addetti solo al nostro servizio. Ogni altro lavoro, dal cucinare al lavare, dal pulire al rifornire i camini e i bracieri, era svolto da anziane donne del borgo prossimo al castello. Anche loro senza mai parlare, in silenzio o al massimo bisbigliando.

La mensa, lussuosa nelle stoviglie, era parca nel cibo e misera nella quantità del vino e io giustificai la cosa con la grande devozione del mio ospite. Oltre a partecipare a tutte le funzioni nella chiesa di San Nicola, ogni mattina, mezzodì e sera si ritirava con i quattro servi nella piccola cappella vicino al mastio e il loro salmodiare durava almeno un’ora. Comunque, che ci fosse del vero nei racconti di Mainardo lo compresi fin dal secondo giorno. Con una spada in mano, Giovanni diventava un’altra persona. Il volto non solo induriva, si faceva crudele. In quello che credetti solo un saggiare la mia preparazione, mi ritrovai a terra disarmato, con la sua spada a pungermi la gola già al secondo assalto. E con dolori lancinanti dove mi aveva colpito di piatto: alla spalla destra e alla coscia sinistra. Continuò così per oltre un mese, finché non ne potei più di soffrire ed essere umiliato.

Ero furioso con lui: continuava a sconfiggermi senza mai insegnarmi nulla. Anzi, quando gli chiedevo lumi su un passo o una mossa, mi rispondeva che non ero ancora pronto a imparare. E non capivo come potesse scatenare su di me tanta violenza senza una briciola di pietà e, fuori dalla sala d’arme, trattarmi come se fossi un vero figlio. Insomma, venne il giorno nel quale tutta la rabbia repressa mi annebbiò la mente e cancellò ogni rispetto. Al quarto assalto ero ancora in piedi e al quinto affondai con la ferma intenzione di colpirlo all’occhio sinistro. Schivò per un soffio, me lo ritrovai di fianco con la spalla a bloccarmi il braccio destro e subito dopo ruzzolai a terra per una violenta pedata alla caviglia. tendendomi la mano, disse: «Ora sei pronto per imparare. Hai cancellato quanto ti hanno insegnato nel castello di Gorizia ed è riemerso ciò che

Page 114: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

hai imparato dal tedesco di cui mi hai parlato. La prima regola di un vero cavaliere è impugnare un’arma per difendersi o difendere, non per mostrare eleganza. Quando si è costretti a usare le armi è perché si ha davanti un nemico deciso a prendersi la tua vita o quella di altri. Perciò nessuna regola e pietà, almeno finché il nemico non è vinto».

Da quel giorno smise di colpirmi e iniziò a duellare con gesti lenti permettendomi così di cogliere ogni mio errore e ogni sua mossa. Un duellare da cavallo al passo, che poi spinse al trotto e, infine, al galoppo. Durò tre mesi, con spada, scudo o pugnale, ma senza armatura. Quando me la fece indossare e iniziammo gli scontri nella corte, fu un ricominciare da capo. Con le imbottiture e il ferro a gravare sui muscoli e limitarne i movimenti, ogni gesto doveva essere calcolato per non sprecare neppure un’oncia di forza. Ancora peggio fu quando dovetti montare a cavallo. Si deve riuscire a essere tutt’uno con l’animale, a guidarlo solo con ginocchia e speroni, perché o si usano le briglie o si combatte. Entrarono in campo anche sette dei suoi uomini, i più bravi e fidati, e con loro l’uso di lance lunghe, mazze, scuri e mazzafrusti. Ce la misi tutta e sul finire di ottobre riuscivo a resistere anche all’assalto di tre cavalieri. Restava da battere solo Giovanni ed egli decise per un duello senza tregua. Iniziammo a cavallo e finimmo a piedi, con gli scudi e gli elmi gettati a terra. Non vinsi. Mi arresi quando non ce la feci più a reggermi sulle gambe e lui riconobbe di avere dalla sua ormai solo la forza dell’esperienza. Era l’inizio di ottobre e mi concesse una tregua di un mese. La trascorsi in parte girovagando per l’Istria, tenendomi lontano dai domini veneziani. Fui ospite dell’abate di San Pietro nelle Selve, di Nicolò di Prampero, marito di Alciberta figlia naturale di Enrico ed Eufemia, nel castello di Rachel vicino ad Albona. Godetti di una delle stagioni più dolci in questa terra e tornai a Pisino la vigilia di Ognissanti.

Giovanni avrebbe dovuto iniziare a introdurmi nell’arte della strategia, ma un evento scompigliò i piani. Non avendo pressoché nulla da fare, passavo gran parte del tempo a gironzolare qua e là, a parlare con gli anziani dei borghi, insomma a curiosare. E per la prima volta notai ciò che avevo sempre avuto sotto gli occhi. Il sabato, dopo il tramonto, Giovanni lasciava il palazzo e tornava dopo circa un paio d’ore. Avevo creduto si trattasse di una questione di donne, perché usciva dalle mura castellane e scompariva nel borgo. Perciò non avevo neppure mai pensato di seguirlo e fare domande. Ma la noia spinge alle cattive azioni,

Page 115: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

e una sera gli andai dietro. Volevo vedere la faccia della donna capace di far peccare un uomo tanto pio, parco in ogni cosa comprese le parole.

La prima sorpresa l’ebbi alla porta del castello. Vi era sempre qualcuno di guardia; anzi, sempre gli stessi sette uomini a darsi il cambio. Quelli con i quali avevo duellato. Facevano due turni di dodici ore, tre alla volta e con uno a riposo per l’arco di un giorno e una notte. invece quella sera li vidi abbandonare il loro posto e accodarsi tutti a Giovanni per entrare nel palazzo antistante il pozzo. La mia curiosità aumentò e nel tentativo di frenarla feci un giro per il borgo. Era completamente deserto, perché una delle regole del luogo pretendeva che dopo i rintocchi del coprifuoco nessuno uscisse, salvo che la campana non suonasse a martello. Andai fino alla seconda porta e la trovai sbarrata. Qualcuno, però, vigilava dall’altra parte. Udivo il chiacchiericcio e lo scherzare dei militi di guardia. Tornai sui miei passi e giunto alla porta del palazzo, prima di spingerla con un dito per vedere se era aperta, mi preparai una scusa. Decisi di dire che stavo cercando il capitano perché mi era venuto mal di ventre e in casa non c’era un solo servo cui chiedere un rimedio. Spinsi e la porta si aprì. Una voce dentro mi diceva di lasciar perdere, di tornare al castello. Invece, entrai in un vestibolo illuminato da tre lucerne; davanti a me una porta, un’altra alla mia destra e un’altra a sinistra.

Ebbi di nuovo l’impulso di andarmene. Stavo facendo una cosa stupida. Poi, da dietro la porta alla mia destra, venne un mormorio lontano come di preghiera. Spinsi anche quella e mi ritrovai in un secondo vestibolo buio con altre due porte più piccole e una scala di pietra che scendeva sottoterra da dove arrivavano un bagliore e un ovattato Salve Regina. Mi avvicinai al primo scalino, misi il piede sul secondo e udii chiara la voce del capitano intonare cantilenando qualcosa in una lingua sconosciuta. Scesi, convinto di potermi fermare in un ballatoio o in qualcosa di simile. Invece, dopo l’ultimo scalino e l’ultima curva, mi ritrovai all’improvviso accecato dalla luce di dozzine di ceri. Nello stesso momento una mano uscì da una nicchia oscura di fianco a me e della quale non mi ero neppure accorto. Non ebbi il tempo di arretrare: mi ritrovai con un pugnale alla gola e lo sguardo stupito del capitano puntato su di me.

Sedeva su uno scranno, in fondo a una sala dal soffitto a più volte sorretto da quattro colonne tonde. Teneva a due mani qualcosa di rettangolare coperto da un lino porpora, il bordo inferiore poggiato sulle

Page 116: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

ginocchia. Davanti a lui, in ginocchio, i quattro servi, i sette soldati della guardia e un uomo con cappuccio e mantello neri. Tutti gli altri, compreso il capitano, indossavano mantelli bianchi con la rossa croce dei cavalieri Templari. La conoscevo bene, un tempo c’erano una loro mansioneria nei pressi di Sacile e un ospizio a Cevraia, un villaggio a neppure tre miglia dal mio, poi passati ai Cavalieri Ospitalieri. Si erano alzati e mi fissavano con facce severe, in un silenzio mortale. Solo Giovanni era rimasto immobile. Non tentai di liberarmi, paralizzato dallo stupore e dalla vergogna, con la paura a farsi largo dentro me.

«Lascialo, fratello» ordinò Giovanni. E poi senza smettere di fissarmi: «Corrado, vieni qui di fronte a me».

L’uomo mi lasciò e, con stupore, vidi che era il solitamente allegro e cordiale Paolo, l’amministratore delle proprietà castellane. Sentivo le gambe molli e mi passavano rapidi per la testa i discorsi di mio nonno e di mio padre. Un sussurrare che i Templari erano innocenti, che le accuse di adorare il demonio e altri dei pagani erano tutte falsità, che papa Clemente e il re di Francia volevano semplicemente impossessarsi delle loro ricchezze. Ma anche certe chiacchiere inquietanti udite da valletti e scudieri nel castello di Gorizia. Mi feci coraggio e avanzai.

«Hai capito chi siamo?» domandò Giovanni.Annuii e lui mi sollecitò a dire liberamente cosa sapevo di loro. Ripetei

con voce tremante ciò che avevo udito, e allora mi chiese perché l’avessi seguito. Risposi il vero, di essere stato spinto solo da una stupida curiosità pensando a un’amante. Nel frattempo gli altri si erano disposti in modo da impedirmi ogni fuga. Il capitano continuava a reggere immobile l’oggetto nascosto dal lino. Stava riflettendo, probabilmente decidendo la mia sorte. Poi annunciò: «Mi fido di questo giovane. Se giurerà sui Vangeli di mantenere il segreto su di noi, lo farà. Ora inginocchiatevi e recitiamo la preghiera del Signore nella sua lingua per prepararci a adorare il suo vero volto. Anche tu, Corrado. E copriti il capo con il lembo del mantello».

Nessuno replicò. Semplicemente si inginocchiarono coprendosi il capo. Giovanni recitò il Padre nostro nella lingua di Cristo e poi scoprì ciò che era nascosto, un’icona con il volto di un uomo barbuto, un volto non ovale ma lungo, con occhi e capelli nerissimi, guance scavate e un naso prepotente e leggermente schiacciato. Non assomigliava a nessuno dei volti di Cristo che avevo visto, era totalmente privo della bellezza tanto cercata dai pittori, un uomo come tanti, dai lineamenti grossolani,

Page 117: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

se non addirittura brutti. Recitai altri sette Pater in latino e poi il volto venne ricoperto. Il capitano mi ordinò: «Torna al castello e attendimi nella tua stanza».

L’attesa fu piena di ansie e timori. Poi lui venne, ci sedemmo davanti al fuoco e mi raccontò di essere stato il precettore dell’Ordine per l’Istria, a Corgnale, non lontano da Trieste. Aggiunse che i servi erano stati i suoi sergenti, l’uomo con il mantello nero il fattore e i soldati gli scudieri. Se erano vivi e liberi lo dovevano al conte Enrico con la complicità del vescovo di Parenzo. Entrambi avevano rischiato molto per salvarli, e poi il conte li aveva inviati a Pisino con altri nomi e diffondendo su di lui molte falsità perché nessuno potesse immaginare chi erano in realtà. Mi pregò di fargli le domande che volevo e io ne feci molte. Ebbi tutte le risposte e alla fine ammise anche i peccati dei quali il suo ordine si era macchiato: la cupidigia e la sete di potere. Gli Domandai se avevano intenzione di far segretamente sopravvivere o ricostruire l’ordine. Negò in modo risoluto, concludendo con queste parole: «Un seme marcio non può germogliare, attendiamo solo la chiamata dell’Altissimo per rispondere a lui delle nostre colpe».

Andò quindi a prendere il Vangelo di Giovanni e mi fece giurare di mantenere il segreto. Fino a oggi non l’ho mai violato, ma nessuno di loro è più a Pisino. Da anni se ne sono andati a oriente, non so neppure io dove. comunque, dopo questo fatto, Giovanni mi annunciò di non essere più intenzionato a insegnarmi la strategia per guidare gli altri e di volermi trasmettere una scienza più alta: come si guida e si governa se stessi.

Ho già detto come all’estremo bastione del castello ci fosse uno spaventoso dirupo. Là il torrente Foiba s’inabissa nelle viscere della terra, in un luogo nascosto dalle ultime propaggini di un fitto bosco di querce e carpini. In quell’orrido non mi ero mai spinto, né avevo visto altri avventurarsi. La gente ne aveva paura, dicevano fosse infestato dai fantasmi dei molti gettati laggiù direttamente dalle mura del castello. Raccontavano pure di un angelo e di un demone che duellavano ogni notte per impossessarsi dell’una o dell’altra anima imprigionata in quel luogo non consacrato. Si spingevano a fare i nomi dell’arcangelo Michele e di Lucifero. Perciò non mostrai entusiasmo quando Giovanni mi disse: «Domani mattina ti accompagnerò a un sentiero. Vi si accede da un passaggio segreto. Parte sotto il mastio e conduce in fondo alla forra. Avrai una pelliccia per coprirti, una pelle su cui dormire, olio per una

Page 118: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

lucerna, e due bisacce con il cibo bastante a sopravvivere per una settimana. Di acqua ne troverai in abbondanza, poi dovrai guadagnarti ciò che ti serve. Se riuscirai a superare il mese io non avrò più nulla da insegnarti e potrai tornare a Gorizia. Con la mia benedizione e pronto a ricevere le armi».

«Perché m’imponete questa strana prova?» domandai.«Perché un cavaliere prima di imparare a vincere gli altri deve

imparare a vincere se stesso. Un corpo forte con un animo debole prima o poi diverrà carne per sciacalli e la giustizia divina dovrà corromperlo in fretta affinché la sua carcassa non si trasformi in uno strumento del Maligno. Invece, un animo forte in un corpo forte sarà una benedizione per tutti, se non inorgoglirà come abbiamo fatto noi. Per questo devi scendere, per imparare a essere forte e nello stesso tempo, vedendo la potenza di Dio e la tua fragilità, comprendere quanto poco valga il potere degli uomini.»

Non ero convinto, capivo a malapena cosa intendesse dirmi e, soprattutto, non mi garbava per nulla passare giorni e notti in un luogo selvaggio, scomodo e per di più infestato dai fantasmi. Insistetti: «Lo considerate veramente importante? Si dicono brutte cose di quel luogo».

Mi fissò dritto negli occhi e poggiò le mani sulle mie spalle.«Nessuno ti obbliga, ma se non lo accetti sarai come un dipinto o una

statua incompiuti. Si può vivere anche così, perfino diventare potenti, ma ricorderai la tua viltà. E quante altre volte fuggirai davanti a te stesso?»

Accettai per orgoglio e temerarietà, non certo per convinzione e il giorno seguente andammo nel sotterraneo del mastio e da questo, attraverso un lungo cunicolo, fino a una piccola grotta dove il capitano liberò senza sforzo una botola dal suo pesante coperchio di pietra. M’indicò il foro: «Scendi».

M’infilai nello stretto passaggio tenendomi aggrappato al bordo. Fra i miei piedi e una lastra di pietra illuminata da un raggio di sole non c’era più di un palmo. Mi lasciai cadere e subito mi pentii: davanti avevo il vuoto e alla mia destra un camminamento scavato nella parete, largo appena il sufficiente ad accogliere i piedi, impervio perfino per uno stambecco.

«Tieni» mi disse da sopra.Il suo viso era nella penombra, eppure mi parve sogghignare mentre mi

passava la pelliccia e le bisacce. Tenendomi con la schiena poggiata alla

Page 119: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

roccia, evitando di guardare giù, presi le mie cose con le ginocchia tremanti e il batticuore.

«Infilati la pelliccia e mettiti le bisacce sulla spalla sinistra. Sulla pietra accanto a te vi è una presa, sembra un nido di rondine. Ve n’è uno a ogni due passi. Aggrappati a quelli e avanza lento e cauto, arriverai in fondo senza correre rischi.»

Detto questo, il suo viso scomparve e la botola venne richiusa con un graffiare di pietra. Feci come aveva detto e mi afferrai al primo incavo. Iniziai a scendere lentamente, senza mai mollare un appiglio prima di avere individuato l’altro, le gambe ben piantate sul sentiero. Impiegai molto tempo a raggiungere la meta, trovando il coraggio di sveltire il passo solo quando fui a meno di venti braccia dal fondo. Una volta raggiunto, dovetti sedermi ansante e sudato nonostante fosse una giornata fredda. Ripresi fiato e continuai lungo un sentiero coperto da uno strato di foglie, un tortuoso salire e scendere fra alberi e cespugli, sempre con il pericolo di inciampare in qualche pietra muscosa. Finalmente, quando iniziavo a temere di essermi smarrito, mi ritrovai davanti l’imbocco della grotta.

Sembrava veramente l’ingresso dell’inferno e feci i primi passi con angoscia. Poi vidi una corda vecchia e muffita legata a un paletto; scivolava nelle tenebre come una serpe. Presi l’acciarino e accesi la lanterna, afferrai la corda, trassi un profondo respiro e affrontai l’oscurità, i massi a fare da ostacolo agli improvvisi vuoti. Ho giurato di non svelare altro su questo percorso. Perciò dirò solo che, ammaccato e sfinito, raggiunsi una caverna dove, sotto l’alta volta, vi è un piccolo lago. L’unica luce era quella della mia lanterna, l’unico suono un gorgogliare lontanissimo come di pioggia o di rigagnolo. Sedetti sulla riva e per la prima volta udii il mio corpo: il battere del cuore, il fluire del sangue, il sibilo del respiro ed ebbi paura di sentirli improvvisamente fermarsi. Poi fu peggio, perché le ombre e il silenzio si animarono dando forma ai miei incubi peggiori.

Nei primi sei giorni fu un continuo uscire ed entrare dalla caverna, un rassicurarmi che il mondo di fuori esisteva ancora. Passavo le giornate all’aperto e ci avrei trascorso pure le notti, ma il freddo mi respingeva dove la pelliccia bastava a riscaldarmi. Poi iniziò a piovere e dovetti accontentarmi di stare sull’imboccatura della grotta e, ben presto, iniziò la metamorfosi. Smisi di udire il mio corpo e iniziai a visualizzare i pensieri. Popolai la grotta con il mio breve passato e lo trovai

Page 120: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

incredibilmente ricco. Eventi e situazioni, che credevo dimenticati tanto erano insignificanti, iniziarono a legarsi gli uni alle altre formando una rete che conteneva tutto. Finché venne il giorno nel quale non uscii. Non mi sentivo più un prigioniero che spia il mondo da un buco nella roccia; divenni un privilegiato, protetto dal mondo. Ero nel ventre della madre, tiepido e sicuro. Chiunque avesse voluto farmi del male sarebbe stato costretto prima a commettere il peccato più infame: violare e uccidere la madre.

A spingermi nuovamente all’esterno ci pensarono due giorni di digiuno e l’olio per la lampada ormai alla fine. Non mi sorpresi nel vedere una nuova bisaccia in mezzo al sentiero, a dieci passi dalla grotta. Giovanni non mi avrebbe certo abbandonato digiuno e al buio. A lasciarmi interdetto fu la freccia che si piantò sibilando a un palmo dai miei piedi quando cercai di prendere la bisaccia. E, finché non arretrai nella grotta, le frecce continuarono a impedirmi ogni spostamento. Potei recuperarla solo strisciando fuori nella notte: conteneva unicamente cibo e olio per due giorni.

Fu solo il principio del gioco. La bisaccia veniva spostata sempre più lontana, fino a quando non venne addirittura nascosta. All’inizio mi lasciarono tracce per individuarla: un’orma, un ramoscello rotto, una pietra rovesciata. Poi queste diminuirono e le frecce aumentarono. Dovetti tramutarmi in un predatore, affinando la vista, l’udito e l’olfatto, muovendomi come un gatto. Trascorrevo gran parte del tempo a pianificare le uscite, eccitato, perfino divertito e smisi di contare i giorni, finché un mattino trovai la solita bisaccia all’interno della grotta. Conteneva solo una lettera del capitano Giovanni: Il mese è passato e tu sei destinato al mondo non all’eremo, anche se ora la solitudine ti è diventata amica. Domani mattina troverai un uomo ad attenderti, per riportarti al castello.

Lasciai la grotta con dispiacere e avvertii l’odore di uomo ancor prima di vederlo. Era Francesco, il più giovane fra gli addetti al palazzo, e mi riportò a Pisino per un sentiero comodo e sicuro. Quell’esperienza ha segnato l’intera mia vita e ora comprendo perché dopo una missione, un grande pericolo o un grande dolore dell’animo dovevo fare il cacciatore, non importa se di cibo o di donne, e poi fuggire in un qualche monastero. Cercavo la pace fra le braccia del Signore, il signore del ventre della terra.

Rimasi a Pisino per altri tre mesi e al principio di marzo tornai a

Page 121: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Gorizia con il solito messo che a ogni plenilunio veniva a portare e ritirare plichi. Il sedicesimo giorno di marzo del 1317. Non fu facile lasciare un luogo dove mi sentivo come a casa, e neppure le persone grazie alle quali ero diventato un uomo. Ognuno di loro mi abbracciò e, quando mi benedisse, sia io sia il capitano Giovanni avevamo gli occhi arrossati di pianto.

Page 122: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

VII

Il messo non portava buone nuove. Gastone della Torre continuava a starsene ad Avignone e il governo dell’intera Patria gravava sulle spalle del conte Enrico. Ma pur così lontano, il patriarca di Aquileia non mancava di pretendere in continuazione grosse somme di denaro e di litigare con questo o quel castello unicamente per questioni di decime. Inoltre, continuava la guerra fra guelfi e ghibellini, in modo tanto virulento da obbligare Cangrande della Scala, Matteo Visconti, Passerino Bonacolsi e i loro alleati a riunire un enorme esercito per cercare di strappare Brescia dalle mani guelfe. E neppure cessavano gli scontri fra Federico d’Austria e Ludovico di Baviera per la corona imperiale. Il conte Enrico era implicato in tutti questi eventi. Suo malgrado, e per il momento unicamente a livello politico, ma con un coinvolgimento militare sempre alle porte.

Dal mio ritorno a Gorizia fino allo spirare del mese di settembre non c’è molto da raccontare. Feci in pubblico lo scudiero e in privato il confidente. Vi era tensione fra Mainardo e il padre perché, essendo l’unico suo erede legittimo, il conte cercava di tenerlo il più possibile fuori dagli scontri armati. Colpa anche di Beatrice, credo, sempre ad assillare il marito con i suoi timori per l’incolumità del figlio. Così Mainardo si sentiva umiliato, perfino ridicolo nella sua armatura quando cavalcava accanto al padre. I suoi unici sfoghi erano i tornei e i duelli, ma anche questi gli causavano dispiaceri: li vinceva tutti, non essendoci nessuno disposto a umiliarlo e a correre il rischio di ferirlo. E accadde ciò che temevo. Di chi poteva fidarsi se non di me per saggiare la sua bravura? Ma io non ero più il Corrado di prima, e a neppure sedici anni avevo il fisico di un uomo fatto. Per tre mesi riuscii a ingannarlo, fino a un giorno di metà agosto. Stavamo duellando nella corte del castello sotto lo sguardo tranquillo di Beatrice e quello annoiato di Enrico. Oltre a damigelle, scudieri e valletti, al solito Ugone di Duino e altri nobili

Page 123: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

della contea, c’era anche Pregogna di Spilimbergo, il cui castello sorge a dodici miglia da casa mia. Mi conosceva da sempre, essendo stato mio nonno Guido a combinare il matrimonio fra lui e Gaia di Valvasone per cercare di portar pace tra due casate nemiche. Pertoldo era l’unico a osservarci con grande attenzione e senza malignità, almeno credo, al termine del duello vinto da Mainardo si rivolse a Ugone: «Bravi, peccato che il figlio di Alberico si trattenga».

Mainardo si stava asciugando il sudore un po’ discosto e non udì. Udì invece il conte Enrico. Si rabbuiò, mi guardò storto e disse a Ugo, figlio di Ugone: «Tra una settimana arriva mio cugino con suo nipote Leopoldo d’Austria. Se riesci a battere Corrado gli chiederò di farti cavaliere, altrimenti dovrai aspettare un altro anno».

Ugo e io lo guardammo stupiti e Mainardo, riavvicinatosi, mi mise involontariamente nei guai: «Padre, se però vince Corrado cosa ottiene?».

«Se vince lui sarà fatto cavaliere al posto di Ugo» rispose imperterrito Enrico.

La situazione non mi piaceva per nulla. Ugo era un amico, se ero riuscito a sopportare i primi mesi da valletto lo dovevo a lui. Non volevo recargli danno. Nello stesso tempo ero indispettito dalla prospettiva di dover perdere. Avevo visto come combatteva Ugo: bravo, ma tendeva a scoprirsi troppo spesso il fianco sinistro. Mi dissi che ci avrei pensato con calma, ma fui costretto a farlo in fretta. Tutti i presenti iniziarono a reclamare lo scontro e, anche se Mainardo ripeteva che non era giusto, avendo io appena combattuto, Enrico lo pretese. Mi fu concessa un’ora di riposo, il tempo necessario a Ugo per prepararsi a un duello con spada e rondaccio. Nei primi tre assalti non accadde nulla, però mi feci la convinzione di poterlo battere facilmente. Così si creò un malinteso. Io mi trattenevo negli affondi attendendo una sua mossa sufficientemente bella da giustificare la toccata; lui scambiò il mio atteggiamento per incapacità e, non volendo neppure lui umiliarmi, mancò volutamente alcune occasioni. questo gioco durò fino al settimo assalto, quando Ugo decise che era giunto il momento di prendersi la vittoria. Nonostante i propositi, mi venne d’istinto vanificare il suo intento. Capivo di sbagliare, ma non ce la facevo proprio a rassegnarmi alla sconfitta. Ripetendomi “al prossimo gliela do vinta”, arrivammo al decimo assalto e nei suoi occhi vidi affiorare prima preoccupazione poi rabbia.

Ansavamo e il sudore colava bruciando negli occhi, obbligandoci nelle

Page 124: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

pause ad asciugarlo con le maniche. Pertoldo, designato come arbitro, ci concesse il tempo di lavarci e asciugarci. Ricominciammo e io vidi nello sguardo di Ugo determinazione e cattiveria. Mi concessi ancora due assalti; la bella figura l’avevo fatta, potevo permettermi di perdere con onore. Al primo venni quasi atterrato da un colpo di rondaccio. Un attimo prima di scostarmi avvertii come un soffio sulla guancia e il puntale del piccolo scudo mi sfiorò l’occhio sinistro. Poi Ugo commise ancora un’inutile scorrettezza: schivammo entrambi, i nostri petti si toccarono e, mentre io mi mettevo di fianco, lui si girò su se stesso come per riprendere la guardia e nello stesso tempo cercò di sgambettarmi. Traballai, le ginocchia mi si piegarono e riuscii a rimettermi dritto solo allargando le braccia e arretrando di due passi. In quel momento cercò l’affondo con la spada. Non pensai e non ebbi esitazioni, reagii d’istinto. Schivai mettendo un ginocchio a terra, bloccai con il rondaccio la sua spada, ruotai su me stesso facendo perno sul ginocchio e la punta della mia spada si poggiò sul suo fianco destro.

«Ugo è morto!» gridò Pregogna scostandoci uno dall’altro.Mi guardai attorno. Applaudivano tutti, meno Enrico e Mainardo. Il

conte mi fissava con un sorriso ironico; il mio amico era pallido, il viso pieno d’ira. Ugo era smarrito e passava lo sguardo da me a suo padre. Cercavo di pensare velocemente, mi sentivo stupido per non aver ceduto e rabbioso con Ugo per la scorrettezza. Dovevo riparare, e subito. Consegnando le armi, dissi: «Un colpo di fortuna. Meritava di vincere Ugo».

«Ugo è morto» sentenziò il conte alzandosi dal suo scranno.«Signore, io non accetterò di essere fatto cavaliere se con me non ci

sarà anche Ugo» dissi tutto d’un fiato.«Tu farai quello…» iniziò a dire Enrico con la faccia truce. Poi la

contessa Beatrice gli andò vicino e gli sussurrò qualcosa. Lui la guardò, strinse le labbra e continuò: «Va bene, un duello non basta a cancellare gli ottimi servigi di Ugo come mio scudiero. Sarete fatti cavalieri entrambi».

Trassi un sospiro di sollievo, tesi la mano a Ugo e lui la strinse, evitando, però, di guardarmi negli occhi. Cercai con lo sguardo Mainardo. Se ne era andato e ne intuii subito il motivo. Lo seguii nella sua stanza e lo trovai ad attendermi. Mi aggredì subito: «Perché ti sei preso gioco di un amico? O Ugo è molto più forte e bravo di me oppure anche tu mi concedi le vittorie come un qualsiasi leccapiedi».

Page 125: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Era rosso in viso, gli occhi fiammeggianti d’ira. Non ebbi bisogno di inventarmi la scusa, mi limitai a una mezza verità: «No, non è più bravo di te. Io potevo batterlo al terzo assalto e tu pure. Hai visto come si scopre, no? Semplicemente ti amo come un fratello e non riesco a tirar fuori la rabbia che mi permetterebbe qualche volta di batterti. Ma lui ha tentato di sgambettarmi, è stato scorretto e io ho reagito. Fallo anche tu e poi vedi!».

Mi stava studiando, pesava ogni mia parola, ogni espressione. Ci volle il tempo di molti respiri, ma alla fine mi credette. Si rasserenò e disse: «Ti voglio credere, domani, però, duelleremo di nuovo e vedrò come ti comporti. Comunque sono contento per te. Presto sarai cavaliere».

Duellammo e siccome nessuno cedeva, decidemmo di limitare gli scontri a cinque assalti. Lo facemmo per molti giorni senza inganno, e se una volta vincevo io l’altra vinceva lui. Ma non potevamo continuare a misurare affetto e sincerità a suon di duelli, e dopo un po’ la smettemmo decidendo di avere pari bravura, anche se lui era più elegante e io più scaltro.

Il ventesimo giorno di settembre arrivarono gli attesi e illustri ospiti. Da giorni al castello era tutto un lavorio. Uno stuolo di servi e serve puliva, lavava, lucidava. Mastro Mattia trotterellava su e giù, dal solaio ai sotterranei, dalle cucine alle stalle controllando ogni cosa. Bastavano una macchiolina su una federa, un po’ di polvere su un drappo, una ditata d’unto sul bordo di un piatto, e le sue ire si scatenavano. Nella canova e in cantina tutto veniva annusato, assaggiato, tastato, e le nerbate piovevano sulle schiene di chiunque cercasse di nascondere il bacato fra il sano, lo stantio sotto il fresco, la spezia rinsecchita tra la fragrante. Nei borghi i decani passavano casa per casa a minacciare multe e berlina a chi avesse gettato in strada anche un torsolo di mela o indossato vesti sporche. Negli acquartieramenti dei soldati si strofinavano ferri e cuoi, si immergevano nella lisciva copricotte e mantelli, le stesse gualdrappe dei cavalli, ripetutamente strigliati e con la criniera e la coda intrecciate.

Lo stesso giorno nel quale un messo del duca di Carinzia venne ad annunciare che il suo signore e il principe d’Asburgo sarebbero arrivati l’indomani, mi consegnarono l’armatura. L’attendevo da giorni, sempre più ansioso e, quando la vidi tirare fuori dalla cassa, mi parve molto più bella di come mi era parsa provando e riprovando i singoli pezzi nella bottega dell’armaiolo. Mainardo volle assistere alla prova definitiva, l’ultima per qualche piccola modifica. Non ne avevo mai indossata una

Page 126: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

mia, fatta su misura, e a mano a mano che l’armaiolo e il suo aiutante me la mettevano addosso l’entusiasmo cresceva. Finché non passarono all’elmo intero e alla corazza, da usare solo nei tornei o in guerra nelle cariche con la lancia lunga. L’imbottita di lana per il busto e la cuffia, fittamente trapuntate, pesavano come due tuniche. Poi il giaco in maglia di ferro con cappuccio, maniche a tre quarti e lungo fino alle cosce, calzari pure in maglia di ferro sagomata e rivestita di feltro e la barbuta aderente alla testa con coprinaso alzabile, aggiungevano un’altra quarantina di libbre. Con la corazza a placche, gli avambracci e gli schinieri di cuoio bollito rafforzati da lamelle di ferro, mi sembrò di avere un uomo sulle spalle. E non era finita. Mi infilarono dalla testa la copricotta di tela cruda, aperta ai lati e con sul petto ricamato lo stemma della mia famiglia, con asole in corrispondenza dei ganci e della resta della corazza alle quali fissarono delle catenelle per appendere le armi; poi mi misero il grosso elmo da battaglia, con una fessura all’altezza degli occhi, dei forellini ai lati della bocca e una stella dorata come cimiero; infine, la cintura con spada e daga, doni della contessa Beatrice mia madrina alla cerimonia, e guanti rivestiti da listelli di ferro.

Non riuscivo più a muovermi e la mia visuale era ridotta a un piccolo tratto di stanza. Cercai di girare la testa verso Mainardo e riuscii a inquadrarne solo il volto. Guardava divertito, ben sapendo come mi sentivo.

«Provate a camminare e piegarvi sulle ginocchia, signore» mi sollecitò l’armaiolo.

Mi sentii ridicolo, perché dovetti fare quattro tentativi prima di riuscire a fare un passo. Ci misi tutto l’orgoglio e tutta la forza di volontà e finalmente mi avviai, giunsi alla porta e prima di girarmi per tornare indietro mi piegai leggermente sulle ginocchia. Per un attimo temetti di non farcela a drizzarmi di nuovo e mi venne da imprecare udendo l’armaiolo dire: «Ve la sentite comoda, signore? Libero nei movimenti? Provate a sguainare la spada».

Al primo tentativo non raggiunsi neppure l’impugnatura, al secondo la sfiorai e solo al terzo l’afferrai e la sguainai. Allora Mainardo cercò di consolarmi: «Non ti preoccupare, Corrado. Con il tempo ci si abitua. E poi dovrai usare tutto quel ferro solo a cavallo. Però, se cadi, ti sentirai come una tartaruga rovesciata e le possibilità di salvezza saranno pari alla velocità con la quale riuscirai a sciogliere lacci e ganci».

«Siete soddisfatto?» chiese preoccupato l’armaiolo.

Page 127: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Mi tolsi l’elmo e i guanti e annuii. Intanto l’uomo stava dicendo a Mainardo: «Signor conte, è un po’ pesante. Ma voi capite, quando si riduce il numero di anelli nella maglia tocca aumentarne lo spessore. Insomma, più anelli, meno peso; però il lavoro si allunga e pure il conto».

Mio padre mi aveva fatto avere il denaro per l’armatura e una sella da battaglia, di quelle con due alti arcioni, quasi una seggiola, tramite la banca del suocero di mio zio Rosso. Una cifra che all’inizio mi era sembrata enorme ed esagerata, l’equivalente di una mezza dozzina di buoi, e a udire quelle parole dell’armaiolo pensai di essere stato truffato. Poi, verso sera, vidi l’armatura di Ugo e capii. Oltre ad avere intarsi d’oro e argento sulla corazza e la copricotta in seta, la maglia era fitta come fosse tessuta e leggera come la mia imbottitura. Non mi sentii umiliato, me ne feci una ragione giurando a me stesso che prima o poi ne avrei avuta una ancora migliore.

Il pomeriggio seguente stavo in attesa degli ospiti sulle mura orientali, assieme a Mainardo. Erano scesi fino a Lubiana, per un placito in Carniola, e la notte precedente avevano pernottato a Vipacco, perciò dovevano arrivare da quella parte. Verso nona avvistammo l’avanguardia del corteo. Cinque uomini a cavallo trottavano affiancati, le bandiere degli Asburgo, di Gorizia, della Carinzia, del Tirolo e della Stiria spiegate al vento. Subito dietro a due dozzine di cavalieri armati alla leggera e con le insegne d’Austria sugli scudi, c’era un gruppetto di cavalieri senza armatura. Mainardo individuò subito il duca Enrico e il duca Leopoldo, oltre a una mezza dozzina di altri nobili tirolesi e carniolini.Il corteo si chiudeva con un folto gruppo di scudieri e valletti e con una carovana di sei carri coperti. Quando vedemmo il conte Enrico andargli incontro a cavallo assieme a suo fratello Alberto e a Ugone di Duino, lasciammo le mura e andammo a porci davanti alla porta del castello.

Per la prima volta nella mia vita mi trovavo davanti uno che era stato re e al fratello di un imperatore seppure dimezzato. Enrico di Carinzia era del tutto simile a suo cugino, perfino nel modo di muoversi e nel vestire. Leopoldo era principesco in ogni cosa, di una eleganza e una bellezza che suscitarono non pochi mormorii di ammirazione fra le dame presenti. Tutto ciò che indossava era prezioso eppure discreto; stupendo il tessuto della tunica, ma per ammirarne i disegni bisognava osservarlo da vicino; ricchissimi gli ornamenti della cintura e del fodero della spada,

Page 128: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

ma non per il peso quanto per la lavorazione finissima; guanti e stivali, in apparenza di semplice pelle, a sfiorarli sembravano di seta. Il viso aveva tratti gentili e delicati, ma delle minuscole imperfezioni lo rendevano straordinariamente virile. Infine, nonostante il suo modo aggraziato di porsi, ciò che si notava di più era la forza delle mani e il guizzare dei muscoli sotto le vesti.

Al loro arrivo al castello mi fu concesso solamente di avvicinarli per un inchino e a sera non partecipai al banchetto. L’indomani li si vide pochissimo, impegnati com’erano nei colloqui con il conte, suo fratello Alberto e Mainardo. Né, a differenza di Ugo, potei fare amicizia con i loro scudieri, gentili ma capaci di esprimersi solo in tedesco. Ci si limitò a sorrisi, inchini e strette di mano. Solo il terzo giorno venni presentato, assieme a Ugo e al pievano di Salcano, venuto apposta per celebrare la messa alla vigilia della vestizione. Enrico di Carinzia e Leopoldo furono entrambi affabili, si complimentarono e chiesero informazioni su di noi al conte. Egli prima spiegò chi fosse Ugo e bastarono pochissime parole. Suo padre stava proprio a fianco di Leopoldo, il quale invitò il mio compagno a seguire le orme di suo padre “nostro dilettissimo amico”. Su di me il discorso fu più lungo e, nonostante parlassero in tedesco, non mi sfuggirono i nomi di mio padre, di mio nonno e del mio bisnonno. Al nome di Ezzelino, il duca Enrico mi fissò con curiosità chiedendomi: «Quanti anni avete?».

«Sedici tra pochi mesi, signore.»«Spero tu sia conscio di quale responsabilità comporti avere un

antenato come il tuo. Tradendo l’impero tu tradiresti il tuo stesso sangue.»

Stavo con un ginocchio a terra e il capo chino e vidi solo i piedi di Leopoldo avvicinarsi a me. Poi una sua mano mi si posò sul capo, disse qualcosa nella sua lingua, e il conte Enrico tradusse: «Saresti disposto a servire l’imperatore Federico?».

Dovetti riflettere un momento, imbarazzato da quella mano posata su di me quasi a misurare i miei pensieri, e poi risposi: «Io servirò chiunque vorrà il mio signore».

«E chi è il tuo signore? Mio cugino, il patriarca o l’imperatore?» intervenne il duca.

Leopoldo tolse la mano e io risposi come mi dettava il cuore: «Il patriarca deve il suo potere all’imperatore e il conte Enrico al patriarca, così mi hanno insegnato. Perciò devo obbedienza a tutti e tre, ma di uno

Page 129: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

solo mi sento servo: il conte Mainardo».Alzai il capo quanto bastava per sbirciare i loro visi.

Il duca stava ripetendo le mie parole a Leopoldo che sorrise e disse qualcosa a Mainardo. Questi gli rispose piuttosto serio e, non comprendendo, temetti di aver dato la risposta sbagliata. Invece il conte mi batté una mano sulla spalla, ordinando: «Alzati in piedi, la tua fedeltà a mio figlio non sarà mai servitù».

Subito dopo fummo congedati e io andai con Ugo a chiacchierare nella corte. Di lì a poco comparve mastro Mattia, il maggiordomo.

«Domani parteciperete al banchetto di congedo» ci annunciò serio e compunto. «Mi raccomando, rispettate il cerimoniale e il galateo.»

Fece per andarsene, ma Ugo lo fermò: «Maestro, non dimenticate qualcosa? Domani saremo cavalieri e questa è l’ultima volta che potete darci del tu e trattarci da inferiori. Perché non ci fate la grazia della vostra investitura? Forse non la meritiamo?».

A quelle parole Mattia iniziò a gongolare schermendosi: «Oh, quell’antica usanza! Andava di moda ai tempi di vostro padre. Poi non sono sicuro. Tu, Ugo, ogni tanto ancora ti pulisci la bocca con la manica. E tu, Corrado, quando la smetterai di usare la forchetta come una fiocina? Ma se penso a come eravate… se volete… io ne sarei onorato».

«Allora, suvvia, facciamolo subito» insistette Ugo. «Usate quel bastone che stringete fra le mani con tanta forza.»

Non capivo e guardavo ora l’uno ora l’altro. Ugo ridacchiò e mi fece segno d’imitarlo. Ci mettemmo in ginocchio e congiungemmo le mani e abbassammo il capo come per l’investitura a cavalieri. Mastro Mattia si pose davanti a noi e con il bastone ci toccò la guancia sinistra dicendo, quasi commosso: «In nome della Santissima Vergine Maria e di san Leonardo, io vi proclamo gentiluomini degni di sedere alla tavola di un re. Rispettate e amate sempre chi vi serve con dedizione e fedeltà».

Quella sera non cenammo. Ci fu la messa e la benedizione delle armi. Ricevemmo l’eucarestia e passammo la notte vegliando nella chiesa di San Taziano, ai piedi del colle. All’ora seconda del giorno eravamo già pronti nella sala grande, dove si tenevano le assemblee. Fummo fatti cavalieri senza altre cerimonie, come si fosse sul campo di battaglia. Davanti a tutta la nobiltà goriziana, con uomini e donne a sfoggiare le vesti e gli ornamenti più belli, il duca recitò la solita formula poggiandoci la lama della spada sul capo: «In nome di Dio, dell’arcangelo Michele e di san Giorgio, noi Enrico re di Polonia e Boemia, duca di Carinzia,

Page 130: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

conte di Gorizia e del Tirolo, signore d’Istria, avvocato delle chiese di Aquileia e Bressanone, ti facciamo cavaliere».

Ci aiutò ad alzarci e ci abbracciò, e dopo il suo ricevemmo anche l’abbraccio di Leopoldo, del conte Enrico, di suo fratello Alberto e di Mainardo. Ugo venne festeggiato dalla famiglia e dagli amici, e ricevette molti doni. Io ero solo, e l’unico dono me lo fece ancora una volta la contessa Beatrice: una sciarpa di seta azzurra con ricami d’oro. Anzi, di doni me ne fece due. Infatti, al banchetto mi volle alla sua destra ed ebbi l’onore di servirla. Era il primo ottobre 1317, un sabato.

Durante questi giorni di festa avevo notato un progressivo incupirsi del conte Enrico. Ne avevo fatto cenno a Mainardo e lui si era limitato a pregarmi di aspettare perché forse si stavano preparando grandi eventi. La sua risposta mi lasciò perplesso, e anche il tono con il quale aveva parlato. Sembrava faticare a nascondere una frenesia, una contentezza, come se ci aspettasse una bella sorpresa. Insomma, il suo atteggiamento strideva con il volto del padre. Gli ospiti partirono di buon mattino, subito dopo la messa, diretti di nuovo a Lubiana. Con loro partì anche il conte Alberto, come ambasciatore del fratello presso l’imperatore. Circa un’ora dopo Enrico ci riunì tutti nella sala delle udienze e annunciò la convocazione dell’esercito per il decimo giorno di novembre, senza dare altre spiegazioni.

Mainardo mi confidò qualche altro dettaglio, facendomi giurare il segreto. Il duca di Carinzia e il duca d’Austria erano riusciti a convincere il conte Enrico a intervenire a favore di Cangrande della Scala nella guerra contro la guelfa Padova e i suoi territori; in cambio, il signore di Verona, avrebbe fornito denaro e truppe a Federico d’Asburgo nella sua lotta con Ludovico di Baviera. Era la guerra e noi dovevamo partire lasciando la contea affidata a Volrico di Dornberg che avrebbe governato al posto del conte con l’ausilio del cugino Leonardo e di Eberardo di Herberstein.

Verso sera Enrico mi mandò a chiamare e giurai fedeltà a lui e a Mainardo in presenza di un notaio. Dopodiché mi annunciò che potevo tornare a casa e starci fino al mattino del tredici novembre, quando avrei dovuto attenderlo in armi presso la chiesa di San Nicolò, sulla strada Ungaresca e distante da San Lorenzo circa quattro miglia. Non vedevo casa mia da più di tre anni e tutto ciò che sapevo dei miei familiari erano le scarne notizie inviatemi da mio padre ogni tre mesi, perciò feci in fretta e furia i bagagli e due giorni dopo partii tirandomi dietro un mulo

Page 131: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

con i bauli contenenti le armi e l’armatura.

Page 132: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

VIII

Quando lasciai l’Ungaresca per imboccare la strada che conduce al mio villaggio, mi colse una forte inquietudine. Bastò mezzo miglio a tranquillizzarmi. Ogni cosa era esattamente come l’avevo lasciata, perfino il cespuglio di sanguinella da me spesso torturato per fare gli archi con cui giocare. La grande buca nel mezzo del quadrivio, da dove si può andare ad Arzene o Castions, continuava a beffarsi di ogni tentativo per ricoprirla: pochi carri e uno scroscio di pioggia bastavano a ricrearla. Guardando verso le terre dette Pompee riconobbi i tre aceri sotto i quali noi ragazzini ci radunavamo a complottare contro i coetanei arzenesi, e le loro foglie sembravano d’oro al sole d’autunno. Tenevo le briglia lente: il cavallo aveva riconosciuto la strada e procedeva sicuro lungo il ciglio sinistro. Di tanto in tanto nitriva, come a preannunciare il nostro ritorno.

Non mi sentivo cambiato. Probabilmente qualche vecchio dalla vista indebolita e qualche ragazzino avrebbero faticato a riconoscermi, ma solo per un attimo. Nella mia mente sfilavano i visi dei miei amici e compagni di gioco. Sarebbero bastati un’occhiata e un sorriso a farci correre uno tra le braccia dell’altro. Il Corrado cavaliere era lo stesso Corrado che destate nuotava nudo con loro nella Rupa, nella Roja o nel Meduna, si nascondeva fra i cespugli delle rive per spiare le ragazzine che si bagnavano ridendo.

Invece non era così. Iniziai a rendermene conto appena la strada lasciò i prati e i campi ormai spogli dei raccolti e costeggiai le prime vigne. Da una di queste uscì un giovane, la schiena piegata sotto l’archetto con appese due grosse ceste colme d’uva nera. Riconobbi subito Michele. Seppure di un anno più giovane di me, era stato lui a insegnarmi come riconoscere dal nido e dalle uova le diverse covate di uccelli; lui il maestro nel fare nasse e nel porle nel modo e nel luogo giusti per catturare pesci; lui, proclamatosi da sé mio scudiero, a coprirmi le spalle

Page 133: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

nelle risse con quelli dei villaggi confinanti. Lo chiamai pieno di contentezza, pronto a stringergli le mani e a scambiare pacche sulle braccia, a ricordare le tante giornate trascorse insieme.

Non si era accorto di me e sentendo il suo nome s’arrestò di colpo, si volse a metà e mi fissò di sottecchi. Spinsi il cavallo al trotto e lo raggiunsi dicendo: «Ehi, amico mio, come te la passi?».

Stette un po’ a fissarmi, si aggiustò meglio l’archetto sulle spalle, e senza mostrare alcuna gioia borbottò: «Ah, sei tu. Sei tornato».

Rimasi spiazzato dalla sua freddezza. Forse aveva problemi in casa; ricordai il padre, un uomo non certo avaro di ceffoni. Chiesi, senza smontare da cavallo: «Tutto bene, Michele? Qualcosa non va?».

L’espressione del suo volto s’indurì, credetti di vedere nei suoi occhi persino del rancore, e rispose brusco: «Come vuoi che vada? Sempre a spaccarci la schiena.Non è stata una buona annata. Due soli cesti in un filare di trenta passi».

«Mi dispiace. Ma dai, andrà meglio il prossimo anno» cercai di consolarlo.

«Il prossimo anno? E intanto cosa si beve? Abbiamo mica le tue cantine, noi!» E datami un’occhiataccia mi volse le spalle e s’avvio ancora più curvo.

Amareggiato, riuscii solo a replicare: «Allora ci si vede».«Ci si vede, ci si vede. Il villaggio non è mica grande» bofonchiò

continuando per la sua strada.Lo superai, evitando di guardarlo in viso, salutandolo solo con un gesto

della mano. Dall’ultima curva vidi la torre della casaforte sporgere sopra le cime di alcuni roveri dalle foglie brunastre e accartocciate. Anziché entrare dalla parte del villaggio, presi il viottolo per la piazza e mi sorpresi nel vederla deserta. Poi ricordai: si era in piena vendemmia, quando nessuno può oziare. Girai il cavallo verso l’ingresso della casaforte e quasi mi scontrai con Domenico. Era uno dei nostri masnadieri, per me una specie di zio. Appena mi vide si fermò stupito e subito dopo fece un gesto che mi lasciò smarrito: si tolse il pileo di paglia e piegò il capo in un inchino.

«Oh, siete tornato, signore. Nessuno se l’aspettava per oggi. Vostro padre sarà contento. Parla sempre di voi» disse fuggendo il mio sguardo.

Lasciai le briglie del mulo, balzai giù da cavallo e quasi l’aggredii: «Domenico, perché ti togli il cappello? Perché mi dai del voi?».

«Siete cavaliere, l’abbiamo saputo. Ieri si è fermato un messo del conte

Page 134: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

di Gorizia, diretto a Sacile.»«E allora?»«Allora… allora io sono solo un servo, vi devo rispetto.»«Non dire idiozie, barba!» esclamai abbracciandolo.Mi lasciò fare, però non ricambiò. Chiedendomi se erano diventati tutti

pazzi, gli affidai cavallo e mulo ed entrai riproponendomi di aggiustare le cose nei giorni seguenti. Nella corte mi si parò davanti un ragazzino di circa nove anni, che mi apostrofò con la faccia seria: «Chi siete signore? Cosa cercate qui?».

Notai subito la piccola voglia color marrone sulla guancia destra. Ansoaldo, quando ero partito, non aveva neppure cinque anni, non poteva riconoscermi. Feci la faccia truce e replicai: «E tu chi sei, piccoletto? Come osi rivolgerti così a un cavaliere?».

Allargò le gambe, strinse a pugno le mani e disse: «Cavaliere o no siete a casa mia e le domande le faccio io».

Scoppiai a ridere e poi allargai le braccia dicendo: «Vieni ad abbracciarmi, fratellino. Sono Corrado».

Sgranò gli occhi e non si mosse. Sull’uscio di casa comparve nonna Aurora, sorpresa ed emozionata: «Corrado! Sia lode a Dio, finalmente sei tornato!».

Allora Ansoaldo mi venne vicino con un sorriso e potei stringerlo a me. Poi arrivarono tutti e ognuno a suo modo mi fece festa. Mio padre mi strinse forte la mano; mia madre mi baciò sulla fronte; la nonna, dopo avermi abbracciato, non smise di fissarmi con malcelato orgoglio; i miei fratelli Ecelo e Federico mi riempirono di pacche sulle braccia e sulla schiena; Aurora, ormai ragazzetta, fece la ritrosa. Mancava solo Guido e domandai dove fosse.

«Tuo fratello arriva subito, l’ho mandato a chiamare. Sta sorvegliando i vendemmiatori» rispose mio padre e io non colsi il tono della voce e l’improvvisa tristezza che gli passò sul volto.

Guido arrivò mentre i servi scaricavano la mula dei miei bagagli. Era a cavallo e mi fece un gesto di saluto quando era ancora nell’arco d’ingresso della corte. Gli andai incontro e lui smontò. Al principio non mi accorsi di nulla, ma appena fece due passi rimasi di pietra. Zoppicava vistosamente e aveva il piede sinistro torto all’interno.

«Cosa ti è accaduto, fratello?» chiesi abbracciandolo.Sorrise senza allegria, mentre attorno a noi si era fatto silenzio.«Sono finito sotto le ruote del carro grande, purtroppo era carico di

Page 135: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

grano. Se ho ancora la gamba lo devo a zio Rosso. Il cerusico di Valvasone me la voleva tagliare. Comunque me la cavo bene lo stesso.»

Guardai i miei, senza rivolgermi a nessuno in particolare: «Perché non me l’avete scritto? Sarei corso a casa».

«A fare cosa? Per te è stato meglio non saperlo» sentenziò mio padre, desideroso di chiudere l’argomento.

Il resto della giornata passò con me a fare domande su questo e quello, a ricevere la visita del podestà e degli anziani del villaggio. Continuavo a restare aggrappato alla convinzione di non essere cambiato. Eppure, osservando la casaforte, ritrovavo piccolo ciò che mi era parso grande. Le vesti dei miei familiari mi sembravano antiquate, i loro gesti troppo ampi. E i visitatori non avevano nei miei confronti la divertita confidenza di un tempo. Per ultimo, arrivò prete Giulio. Era ingobbito, ma il suo parlare e il modo di trattarmi erano esattamente gli stessi di quando l’avevo lasciato. Non mi negò neppure un severo rimbrotto quando gli raccontai di aver trascurato il leggere e lo scrivere. E quando gli mostrai la mia armatura, storse il naso definendola denaro sprecato.

Il giorno seguente andai a Valvasone, e al castello ritrovai un po’ di quello che cercavo. I miei amici erano cresciuti, cambiati fisicamente, però mi parevano più simili a me della mia stessa famiglia. Incontrando gli altri compagni di gioco, mi rassegnai definitivamente ad aver perso un mondo custodito nel cuore per tre lunghi anni. Erano tutti come Michele, messi ormai al giogo nei campi e senza più allegria nel cuore. Tentai una ribellione, un voler far capire a tutti di essere il Corrado di un tempo. Fu inutile e alla fine fui io a prendere le distanze. Venne anche zio Rosso con la famiglia, seguito il giorno dopo dai miei zii e cugini di Pinzano. Stettero da noi tre giorni e, se l’allegria non mancò, per la prima volta colsi una forzatura nei miei parenti udinesi nel lodare le pietanze e il vino. E, mentre i rudi castellani di Pinzano non si curarono neppure di controllare se nei letti ci fossero pidocchi, loro affrontarono lenzuola e guanciali con diffidenza. Questo mi fece male, insinuò in me un sospetto di una falsità antica. Una volta ripartiti tutti, decisi di confidare le mie angosce a prete Giulio. Mi ascoltò con pazienza, senza mai interrompermi, e alla fine non sprecò le parole: «L’innocenza non è una. Vi sono quella del cuore, della carne, della mente e dell’animo. Tu hai perso la prima, e ora vedi diversità sempre esistite ma delle quali non eri cosciente, Perderai anche la seconda, non sei destinato alla castità. Lo stesso vale per la terza, dovendo vivere fra i potenti. Prego solo Dio che

Page 136: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

tu possa conservare l’ultima, la più importante, perché in essa abita la pietà».

«Forse è come dite voi, ma io continuo ad amare tutti esattamente come prima. Molti, invece, paiono avere quasi dell’astio nei miei confronti.»

«Non è astio, Corrado. Semplicemente sanno che il loro destino è segnato e ti invidiano. Stanno invidiando perfino Andrea da quando hanno saputo che tuo padre te l’ha donato come servo. Perché lui ha ancora una possibilità, se ti servirà bene e avrai fortuna. Loro? Curvi come buoi sotto il giogo, fino alla morte. Ma dimmi, quando riparti?»

«Oh, c’è tempo, mancano più di due settimane.»Così risposi, come se avessi davanti l’eternità. Invece il tempo volò e lo

trascorsi per gran parte a tentare di trasformare un selvatico e rozzo ragazzino in un valletto in grado almeno di eseguire i compiti più elementari. Andrea, tredici anni, forte come un torello, lo sguardo vivace e curioso, capelli e occhi color della terra, imparava in fretta, ma mi ci vollero quasi dieci giorni per insegnargli a muoversi con gesti controllati e a usare un tono di voce che non fosse troppo vicino al gridare. Ricordo ancora la sua difficoltà nell’usare calzari invece degli zoccoli, nel tenersi pulito, nel fare un inchino.

All’alba del tredicesimo giorno di novembre indossai l’armatura, lasciando nel baule la corazza e l’elmo. Montai il miglior destriero allevato da mio padre, seguito da Andrea su un palafreno, impettito nella sua livrea appena cucita da un sarto di San Giovanni e con le briglie del mulo con i bagagli ben strette in una mano. Uscii di casa lasciando mia madre, mia nonna e mia sorella in lacrime. In piazza c’era l’intero villaggio, e i bambini sgranavano gli occhi davanti all’usbergo luccicante, alla copricotta e alla gualdrappa azzurre. Prete Giulio volle benedirmi e gli altri mi concessero un gesto di saluto.

Fino alla chiesa di San Nicolò mi accompagnarono mio padre e i miei fratelli e stettero con me finché non si videro in lontananza le bandiere goriziane. Allora mi strinsero la mano, mi augurarono buona fortuna e se ne tornarono a casa evitando di guardarmi negli occhi. Non volevano mostrarmi la loro commozione, il timore di non rivedermi più. Rimasi solo e triste, senza più accanto neppure il fantasma della mia adolescenza.

Page 137: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

PARTE SECONDA

(Al servizio degli dei)

I

La prima guerra è come il primo amore, una follia della mente e dei sensi che alcuni ricordano con struggente nostalgia e altri come il primo, doloroso, abbandono. Comunque è una meretrice della peggior specie, di quelle che prima di derubarti della vita e dell’innocenza ti ammaliano e catturano, facendoti credere di essere un grande uomo. E tale io mi sentivo mentre cavalcavo fra Ugo da Duino e Giovanni di Steyn.

L’esercito goriziano era composto da seicento cavalli, dei quali cento cavalieri con armatura pesante e duecento con barbuta e usbergo, e trecento scudieri. Avanzavamo allineati per tre, in una fila lunga un quarto di miglio. Davanti a tutti c’era il gonfaloniere con la bandiera del conte, poi i tre capitani Enrico di Salcano, Grifone di Reutenbach e Volchero Portis, quindi i trenta cavalieri aurati. Fra questi e noi stavano i conti Enrico e Mainardo assieme a Ugone di Duino. In fondo, dopo gli scudieri, nessun carro a nostra disposizione, nessun supporto di fanti.

Il primo tratto, fino a Sacile, fu una passeggiata durante la quale chiacchierai e scherzai con Ugo e Giovanni di Steyn. Da loro seppi che eravamo diretti a Vicenza per una strada lunga e difficile. Passato il fiume Livenza, confine orientale della Patria, avremmo percorso solo terre soggette a Guecellone da Camino per evitare problemi con Treviso. Giunti a Feltre, saremmo poi scesi a Vicenza aggirando Bassano, terra padovana e perciò nemica. Novanta miglia da compiere in una decina di giorni, avevano detto i capitani, un tempo che ci sembrò fin troppo lungo. E continuammo a scherzare pure durante la notte passata a Sacile, nel campo eretto fuori le mura della città. A sera ci raggiunse anche Mainardo, costretto a dormire con il padre e i capitani nel palazzo del podestà, e stette con noi fino a tardi. Andrea, il mio maldestro scudiero, non se la cavò male nel piantare la tenda, una di quelle piccole dove ci si

Page 138: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

poteva riparare solo in due stando carponi o stesi. Pure con i cavalli e i bagagli fu bravo e rapido. Dove si rivelò un disastro fu nel prepararmi la cena: appese sul fuoco la caldaietta e dopo aver a lungo rimestato con il cucchiaio di legno mi mise in mano una scodella colma di una zuppa scondita e con il lardo ancora crudo. Per fortuna Giovanni di Steyn e Ugo mi offrirono parte della loro, e i loro scudieri s’incaricarono d’insegnare a cucinare ad Andrea in maniera sopportabile.

L’indomani si aggregò a noi Guecellone da Camino con una trentina di cavalieri. Per giungere fino all’abbazia di Follina impiegammo cinque giorni, perché la sosta a Serravalle durò due notti e un’intera giornata. Con grande gioia di tutti, perché la temperatura si era improvvisamente abbassata e il cielo si era fatto nuvoloso. Inoltre, la stanchezza cominciava a farsi sentire, e se era un sollievo togliersi l’armatura molto meno lo era il dormire per terra tenendo addosso imbottite e brache. Sei giorni e sette notti passati fra cavallo e tenda, mangiando male e bevendo ancor peggio, iniziavano a pesare a dei pivelli come noi. E vedendo i nostri visi stanchi e tirati, i cavalieri anziani, soprattutto quelli aurati, ci prendevano in giro definendoci galletti senza cresta. Comunque a Follina i monaci ci fecero avere un’ottima zuppa di castrato con cicoria, delle mele e del vino finalmente non annacquato e acetoso. Tanto che, prima di andare a dormire, eravamo tutti nuovamente allegri. Poi Ugone di Duino ci convocò davanti alla chiesa e ci disse di prepararci al peggior tratto dell’intero viaggio. Quando fece il nome del passo di San Boldo non capimmo, ma certi sguardi ironici degli anziani, il loro ripetere “un anticipo dell’inferno, qualcuno di voi a Trichiana non ci arriva, marcirà in fondo a un baratro” ci mise in agitazione e non godemmo di un sonno tranquillo.

Partimmo da Follina appena iniziò a schiarire, sotto una pioggia fitta e gelida. Giunti a Tovena ci ritrovammo davanti una muraglia di monti, con le cime nascoste dalle nubi basse. Vedendoci preoccupati, i capitani fecero passare la voce che si trattava solo di una decina di miglia e che, giunti al passo di San Boldo, tutto sarebbe divenuto facile. Cercammo allora di darci coraggio l’un l’altro e, quando le nostre guide annunciarono la partenza, cercammo perfino di scherzare. Percorso un tratto di strada serrato ai lati da un bosco molto fitto e oscuro, si iniziò a salire. Al principio l’unico problema fu il pietrisco trascinato giù dalla pioggia, poi il sentiero iniziò a inerpicarsi ripido lungo un costone e dovemmo porci in fila per due. La via, a mano a mano che saliva, si

Page 139: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

stringeva e il baratro accanto a noi si faceva sempre più vicino agli zoccoli dei cavalli. A un tratto ci si dovette mettere uno dietro l’altro, tenendo gli animali rasenti alla parete rocciosa. Stavano innervosendosi e scuotendo le criniere alla vista del vuoto, un orrido del quale non si vedeva il fondo. Qualcuno alle nostre spalle fu preso dal panico, i cavalli nitrivano e tendevano a mettersi di traverso. Allora arrivò l’ordine di smontare e di tenerli per la cavezza.

I tornanti erano continui, la strada ormai ripidissima, e il peso dell’armatura rendeva il procedere quasi doloroso. Sentivo rivoli di sudore corrermi sul viso e sul collo e cominciavo a respirare a bocca aperta. Di tanto in tanto guardavo sotto di me e, sgranati come eravamo, non riuscivo a vedere la fine della colonna. Entrammo nelle nubi e fu come essere in una nebbia così fitta che vedevo solo chi mi precedeva e seguiva, ma almeno nascondeva burroni e crepacci. Di colpo le nubi si diradarono e comparve un raggio di sole. Guardai in alto, convinto d’essere prossimo al passo. Mi venne la pelle d’oca: davanti avevo oltre un miglio di strada stretta e a strapiombo sopra le nubi, senza un cespuglio a garantire un appiglio. Anche i miei compagni lo videro, e fui circondato da imprecazioni.Ci fermammo per poco a riprendere fiato, poi iniziò un vero calvario.

Avevo i piedi a due palmi dal baratro, sarebbe bastata una sculata dell’animale a gettarmi giù. Cominciai a pregare con la mente e salivo guardando unicamente avanti, il cuore che pompava furioso per la fatica e la paura. Nell’ultimissimo tratto, dove la strada si allarga di poco e si procede sulla nuda roccia, c’erano come dei gradoni. Una comodità, in apparenza. Invece i ferri dei cavalli scivolavano sulla pietra resa viscida dall’umidità e la marcia rallentò ancor di più. Quando fui quasi al passo di San Boldo e già vedevo la torre della muta dove ci attendevano le guide inviate da Cangrande, il sangue mi si ghiacciò nelle vene. Un nitrito altissimo e un urlo lacerante e continuo, seguito subito dopo da un altro, poi ancora un altro e infine solo il sibilare del vento. In fondo alla colonna, almeno tre scudieri erano precipitati nel vuoto. Pensai immediatamente ad Andrea e dovetti aspettare una sosta a metà discesa perché, di uomo in uomo, venissi a sapere che a sfracellarsi erano stati altri. Una giornata terribile, dunque, eppure nel campo sui prati di Trichiana l’allegria fu doppia di ogni altra sera, perché a chi la scampa poco o nulla importa dei morti.

Riprendemmo la marcia il ventiduesimo giorno di novembre e il

Page 140: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

ventisettesimo ci accampammo fuori Vicenza, sulla riva destra del fiume Bacchiglione. Sull’altra sponda vi era il campo delle truppe scaligere comandate da Uguccione della Faggiola e Bailardino di Nogarola, circa ottocento cavalieri e più di mille fanti. Rimanemmo a Vicenza per quasi un mese e potemmo riprenderci dal viaggio. Da quando era un dominio di Cangrande, la città era accresciuta di mura e torri, abbellita di nuovi palazzi. Uno di questi apparteneva a un tal Maurizio Grotto, e ospitava Mainardo che mi volle con lui. Perciò fu un soggiorno comodo e godetti di una tale squisita ospitalità che i sacrifici passati si ridussero rapidamente in ricordi. Ebbi modo di banchettare con Uguccione della Faggiola, uomo dalla statura imponente, naso rincagnato e grande mascella, terribile in battaglia e cortese a palazzo, e con Bailardino di Nogarola, faccia da volpe e movimenti da gatto, e con gli altri capitani fra i più famosi d’Italia. Quindi, la mattina del ventesimo giorno di dicembre, Enrico mi mandò a chiamare.

Stavo controllando se il mio scudiero teneva i cavalli nel dovuto modo, e corsi subito al palazzo dove alloggiava il conte. Mi disse solo: «Questa sera si parte, da ora in avanti ti voglio vedere sempre alle spalle di mio figlio. Non riferire a lui questo ordine».

Andai allora da Mainardo ed egli mi annunciò: «Partiamo questo pomeriggio, all’ora nona. Nello stesso istante Cangrande lascerà Verona con il suo esercito. Ci incontreremo al ponte sul Bacchiglione di Mossano, e da là avanzeremo assieme su Padova».

Inutile raccontare le guerre nei particolari, sono tanto terribili quanto noiose perché sempre uguali. Racconterò invece dell’incontro con Cangrande e poi andrò avanti lesto. Arrivammo a Mossano in piena notte, quando le truppe di Cangrande avevano appena passato il fiume. Lui con alcuni capitani ci attendeva a cavallo nel mezzo del ponte, illuminato dalle torce fissate alle spallette di legno. Nonostante il freddo e l’umidità della notte se ne stava a capo scoperto, la barbuta poggiata sull’arcione anteriore e il cappuccio della cotta gettato all’indietro. Era molto alto, con i capelli castano chiari e ricci, piacente di viso nonostante questo fosse un po’ lungo e terminasse con una mandibola inferiore leggermente prominente. Anche spogliandolo della copricotta scarlatta sulla quale campeggiava la scala argentea sormontata dall’aquila imperiale nera, dell’armatura e delle imbottiture, si intuiva un fisico poderoso. Ma ciò che più mi colpirono furono la cordialità e l’espressione allegra. La sua bocca, piuttosto larga e dai denti forti, era

Page 141: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

piegata all’insù in un sorriso così grande da fargli strizzare gli occhi. Allora, il vicario imperiale di Verona, il principe più famoso e temuto d’Italia, aveva ventisei anni.

Avanzò di qualche passo tendendo la mano a Enrico, e l’accolse con parole di gratitudine e amicizia; poi strinse quella di Mainardo affiancandosi a lui e lo stesso fece con me che gli stavo subito dietro. Feci appena in tempo a togliermi il guanto ed egli scherzò: «Giovane amico, quando si fa una guerra certe buone maniere si possono lasciare a casa».

Nonostante il sorriso e l’affabilità, i suoi occhi socchiusi mi stavano studiando. Ovviamente non mi conosceva, ma, vedendomi alle spalle dei conti e prima dello stesso Uguccione, probabilmente si stava chiedendo chi fossi. Fu Mainardo a presentarmi: «Signore, questi è Corrado da Romano. Nonostante la sua giovane età, mi sento più tranquillo se c’è lui a guardarmi le spalle».

«Quei da Romano?» domandò Cangrande, gli occhi ridotti a due fessure.

«Indegnamente sì» risposi.«Indegnamente o degnamente lo vedremo presto» disse smettendo di

sorridere e, volto il cavallo, si affiancò al conte Enrico.All’alba giungemmo a Monselice, dove trovammo le porte aperte

grazie al tradimento di un certo Macono, alla vigliaccheria del podestà, fuggito al primo sentore di un attacco, e all’immediata resa di chi doveva difendere il castello. Lo si prese perciò senza combattere e stemmo a Monselice fino all’indomani. Cangrande vi lasciò un capitano e truppe sufficienti a presidiarlo e diede l’ordine di puntare su Este, una città ben fortificata e con una grande rocca. Cangrande diede ordine di circondarla e di approntare tutte le macchine da guerra, quindi si avvicinò alle porte con a fianco suo nipote Cichino e Uguccione per chiedere la resa. Sulla torre sopra l’ingresso stava il capitano degli Este, Antonio Contarmi, noto per il suo eroismo quanto per la fedeltà alla repubblica di Padova. Egli ascoltò le minacce di Cangrande e, appena questi girò il cavallo per tornare al campo, ordinò agli arcieri di incoccare. La sua voce giunse sino a noi e questo salvò Cane. Dei pavesari corsero incontro al loro signore e lo coprirono con i grandi scudi proprio nell’istante in cui un nugolo di frecce gli piovve addosso.

Cangrande ordinò furioso di mettere in azione le macchine da guerra e a noi d’indossare elmi e corazze. Lo facemmo più in fretta possibile, mentre i guastatori e i pontieri si apprestavano ad aggredire le porte e le

Page 142: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

mura con arieti, ponti, scale e torri. Ma il continuo lancio di frecce rendeva arduo ogni tentativo. Non solo, a un tratto le porte si aprirono e Antonio Contarmi uscì alla testa dei suoi cavalieri e presero a far strage degli uomini. Allora Cangrande si mise alla nostra testa e comandò l’attacco. Con sopra il sibilare e il fischiare di frecce, pietre e palle infuocate, ci scontrammo a cento passi dalle mura. Ero convinto di trovarmi davanti a una battaglia breve, invece durò dal mezzodì fino al tramonto. L’eroismo degli estensi fu tale che, nonostante la loro inferiorità numerica, alla fine dovemmo ritirarci lasciando sul campo parecchi morti e feriti. E lo stesso Cangrande e suo nipote furono colpiti, l’uno da una freccia al polpaccio e l’altro alla spalla.

Mainardo era stato grandioso, un giovane Marte, ma appena toltasi la corazza stramazzò a terra per la stanchezza. Di me dico solo che tornai al campo con lo scudo irto di frecce, una ferita a una mano e un’enorme delusione per la sconfitta. Mi gettai anch’io a terra, madido di sudore e più ansante di quando avevo raggiunto il San Boldo. Sentivo male ovunque, non c’era muscolo che non dolesse per la fatica, e quando venne Enrico a controllare come stava il figlio non ebbi neppure la forza di alzarmi.

Nel campo ci furono avvilimento e preoccupazione per la ferita di Cangrande, finché lui stesso ci parlò. Usò una tale foga e tali parole, fece così generose promesse ai guastatori, che l’indomani mattina eravamo di nuovo tutti pronti alla battaglia e sicuri della vittoria. L’assalto dei pontieri e dei guastatori contro le fosse e le mura fu terribile, le scale vennero alzate e un formicaio di fanti le salì conquistando gli spalti. Dopo un’ora le porte si spalancarono, travolgemmo gli estensi usciti per difenderle ed entrammo nella città. A farci vincere, più della forza e del coraggio, fu la rabbia. Ne eravamo accecati. Quando anche gli ultimi resistenti si arresero, conobbi l’altra faccia di Cangrande.

Dopo che i guastatori e i carpentieri ebbero messo in salvo le travature, il legname migliore, le chiavarde e i ferri, diede ordine di incendiare tutto e di radere al suolo l’intera città. Né servirono i pianti e le suppliche dei poveri abitanti: la vigilia di Natale, Este non esisteva più. Ormai l’effetto sorpresa nell’attaccare Padova era svanito, e perciò ci apprestammo a tornare a Monselice per festeggiare il Natale e curare i feriti. L’odore acre degli incendi ci lasciò solo quando fummo a oltre due miglia dalle fiamme.

Il ventisette dicembre venne a ingrossare l’esercito Xicco da

Page 143: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Caldonazzo, signore della Valsugana, con cinquanta cavalieri pesanti, e lo stesso giorno le spie riferirono di duecento cavalieri e ottocento fanti inviati dal Comune di Treviso in aiuto a Padova, al comando di Rambaldo da Collalto. Mainardo mi raccontò di un Cangrande non ancora guarito dalla ferita e rabbioso per l’intervento trevigiano. Per questo, il giorno ventinove, si mise alla nostra testa e uscimmo da Monselice a bandiere spiegate. Ma la ferita doleva, gli provocava febbre, e dovemmo fermarci a Terradura, a nove miglia da Padova. La sosta avrebbe dovuto essere breve, invece durò oltre una settimana perché giunse un’ambasceria veneziana decisa a fermare l’attacco. La potente repubblica apparentemente riuscì nel suo intento, ma in realtà furono grandi piogge prima e forti nevicate poi a obbligare Cangrande a una tregua. Così tornammo a Monselice il dieci gennaio 1318, senza combattere.

Ho riassunto gli eventi e ora voglio spendere qualche parola per descrivere in quale condizione eravamo costretti a vivere in pieno inverno, mentre Cangrande tesseva le sue trame. Nonostante qualche ora passata a palazzo e qualche pasto decente ottenuto grazie a Mainardo, condividevo la vita di tutti gli altri cavalieri e fanti. Dormivo nella piccola tenda, che gocciolava all’interno sotto la pioggia battente o minacciava di crollare per il peso della neve, steso sulla mia pelle di daino che ormai sprofondava nella melma. Quasi sempre con le imbottiture e le vesti zuppe d’umidità, si battevano i denti, e a poco o nulla servivano i fuochi fumosi quando li si poteva accendere. Il cibo di giorno in giorno si faceva sempre più disgustoso, una brodaglia rancida incapace di dare forza a un uomo in una tale situazione di disagio. Infatti, molti fanti, in particolare quelli appena quattordicenni o vicini alla settantina, per lo più privi anche della tenda e costretti a ripararsi avvolgendosi all’aperto in pelli o coperte, si ammalavano e morivano. C’era ben poco di eroico nel vivere come cani randagi, con il moccio al naso e una continua tosse catarrosa. Non ci volle molto a capirlo. Ma anche se i sogni iniziavano a sgretolarsi, l’orgoglio continuava a essere forte e attendevo ostinatamente giorni migliori.

Attorno al venti di gennaio, Cangrande fece spargere ad arte la voce di volersene tornare a Verona e i padovani ci credettero. Invece, dopo alcuni giorni di sole e gelo che seccarono o indurirono i pantani, si rimontò a cavallo per attaccare Padova. Il primo assalto avvenne il venticinque, provocando il panico in città e la fuga di un mio

Page 144: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

conterraneo assoldato in difesa di Padova con cento cavalieri mercenari, altrettanti balestrieri e duecento fanti. Il nome di questo vile è Odorico di Cucagna, purtroppo consanguineo dei miei amici signori di Valvasone. I padovani, però, si ripresero in fretta grazie alla risolutezza e alle virtù di Jacopo da Carrara e, se riuscimmo a occupare borgo San Giovanni, oltre non andammo. Si pose dunque la città sotto assedio e Cangrande diede il via a ciò che nella guerra vi è di più ingrato: bruciare, saccheggiare e distruggere tutto quanto, fuori le mura, avrebbe potuto essere d’ausilio agli assediati. Questo durò fino al terzo giorno di febbraio con l’arrivo di aiuti milanesi inviati da Matteo Visconti, di Guglielmo da Castelbarco con cinquanta cavalieri e cinquecento fanti e, infine, di una ambasceria del duca di Carinzia con ulteriori duecentocinquanta cavalieri e seicento fanti tedeschi. A quel punto il nostro esercito contava tremila cavalieri e quindicimila fanti, e io pensai che per Padova fosse finita.

Invece, le trame della politica, la guerra fra guelfi e ghibellini sempre infuriante nel resto dell’Italia, quella fra Federico d’Austria e Ludovico di Baviera per il trono imperiale, tutto scompigliarono. L’ambasceria austriaca chiese a Enrico di Gorizia di portarsi immediatamente oltralpe per un concilio generale degli alleati di re Federico, e il conte dovette radunare parte delle sue truppe e partire lasciando a capo delle restanti Mainardo e Ugo di Duino. Poco dopo, giunsero una nuova ambasceria veneziana, una papale da Avignone, e pure Padova e Treviso inviarono messi. Le trattative durarono fino al decimo giorno di febbraio, quando Cangrande sottoscrisse un trattato di pace ottenendo da Padova le città e i castelli di Monselice, Este, Montagnana e Castelbaldo, e da Treviso la cacciata di tutti i fuoriusciti veronesi che avevano trovato riparo in quella città. Così, come se nulla fosse, l’enorme esercito fu sciolto e riprendemmo la strada di casa. In quei giorni, gli stessi nei quali compii i sedici anni, mi sentii tradito e la mia considerazione nei confronti di Cangrande si ridusse a nulla, e proprio allora iniziai a pensare che era più conveniente stare fra quelli che la guerra la dichiarano e la concludono anziché farla.

Page 145: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

II

Grazie agli accordi di pace tornammo in Friuli rapidamente attraverso la Marca, sotto una pioggia battente. Lasciai ciò che rimaneva dell’esercito goriziano alla chiesa di San Nicolò, dove mi ero aggregato tre mesi prima. Ero costipato di petto e febbricitante. Mainardo era scosso da continui colpi di tosse secca e neppure Ugo di Duino stava bene. Gli chiesi se volevano riposare un po’ a casa mia, ma preferirono continuare per raggiungere Gorizia nel minor tempo possibile.

Sapevo di non avere un bell’aspetto. Ero sporco, con la barba lunga, la copricotta e il mantello lacerati in più parti, la gualdrappa del cavallo sbrindellata. La notte precedente, a Sacile, Andrea aveva cercato di rammendare grossolanamente almeno gli strappi più vistosi, ma era riuscito solo a renderli ancora più evidenti. Mi ero tolto la barbuta e il cappuccio in maglia, e avevo tenuto solo la cuffia imbottita resa fradicia dalla pioggia. Mi presentai a casa così e la prima a vedermi fu mia madre. Sembrò voler corrermi incontro invece, fatti alcuni passi, si arrestò sgranando gli occhi e portandosi le mani alla bocca. Rimanemmo un poco a fissarci immobili, incuranti della pioggia. Poi lei esclamò: «Mio Dio, Corrado, come sei ridotto!».

Arrivarono i servi, i miei fratelli e la nonna, e tutti mi guardavano preoccupati. Cercai di scherzare, convinto che una tinozza d’acqua bollente e abiti asciutti mi avrebbero rimesso in sesto. Era un mese che non mi guardavo in uno specchio e, quando potei farlo, non mi riconobbi. Avevo capelli e barba lunghi, arruffati, ed ero smagrito, con le guance scavate, gli occhi cerchiati di nero e come ingranditi, la pelle e le labbra screpolate. Comunque, lavato e cambiato, mi parve di star già meglio. Un buon boccale di vino e un pasto finalmente sostanzioso, sapido e caldo, aumentarono la sensazione di benessere. Iniziai perciò a raccontare, seduto vicino al fuoco. Mio padre aveva preteso che sedessi sullo scranno del nonno; Aurora mi teneva la mano come faceva

Page 146: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

quand’ero bambino e a raccontare era lei. Però, a un tratto, iniziai a tremare per la febbre e dovetti mettermi a letto. La prima notte delirai e l’indomani fecero venire da Valvasone l’apotecario, poi chiamarono da Udine anche mio zio Rosso. Non so se furono le loro cure, l’affetto della famiglia e l’assidua assistenza di nonna Aurora, o semplicemente il riposo e il nutrimento, sta di fatto che dopo appena una settimana ero di nuovo in piedi e, ai primi di marzo, scorrazzavo a cavallo nelle grave del Tagliamento assieme a Odorico di Valvasone. Poi arrivarono due messi, uno a tre giorni di distanza dall’altro.

Il primo portò una lettera di Enrico che m’invitava a presentarmi con comodo a Gorizia per incassare quanto mi spettava per la partecipazione alla guerra. Il secondo giunse verso l’imbrunire e mi riferì a voce una richiesta di Mainardo: dovevo partire subito, correre da lui se volevo dargli l’ultimo abbraccio. Guardai stupefatto il messo e lui mi spiegò afflitto che il giovane conte dal giorno del suo ritorno non aveva avuto la forza di alzarsi dal letto.

«Cosa dicono i medici?» domandai preoccupato.«Non lo so, signore. Però sta molto male. Non aveva quasi voce

quando mi ha affidato il messaggio.»Ripartii con lui il mattino seguente, ancor prima del sorgere del sole, e

a sera arrivammo a Gorizia con i cavalli schiumanti e sfiniti dal galoppare. Come misi piede nell’androne d’ingresso del castello, percepii subito l’atmosfera di tragedia. Non rispettai nessuna regola del cerimoniale. Corsi alla camera di Mainardo spintonando chiunque si trovava sulla mia strada e tardava a scostarsi. Davanti alla porta c’era un gruppetto di medici dalla zimarra rossa orlata di vaio. Stavano confabulando sottovoce, allargando le braccia e scuotendo la testa. Non chiesi loro nulla, li scostai ed entrai ansando. La camera era illuminata da due candelabri, le cortine del letto aperte. Accanto alla porta, le spalle poggiate alla parete, stavano i valletti di Mainardo, lo smarrimento dipinto sul viso. Il conte Enrico sedeva su una seggiola davanti al piccolo camino acceso, i gomiti puntati sui braccioli e la testa fra le mani. In ginocchio, sul pavimento, un frate mormorava preghiere davanti all’icona della Vergine appesa fra il camino e la finestra, oscurata da un arazzo. A un lato del letto, seduta su un piccolo scanno, c’era la contessa Beatrice, lo sguardo fisso sul figlio. Dall’altro s’intravedeva nell’ombra la massiccia figura di Ugone di Duino, le braccia conserte e il capo chino.

Mi ero immobilizzato. Il conte mi guardò e mosse appena un mano.

Page 147: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Beatrice trattenne a fatica un singhiozzo e sussurrò: «Corrado, vieni. È da questa mattina che chiede di te».

Solo allora avvertii il respiro faticoso, un sibilare prossimo a mutare in rantolo. Mi avvicinai al letto, Beatrice si fece un po’ da parte e io m’inginocchiai accanto a lei cercando le mani di Mainardo. Erano raccolte sul petto, gelide. Per un attimo sembrò non accorgersi di me e, con un tuffo al cuore, guardai il viso scheletrico, pallidissimo e diafano, con le vene delle tempie fattesi bluastre e sporgenti. Poi aprì gli occhi, enormi, e mi fissò: «Mio signore, sono qui» mormorai.

Mosse le labbra, tossì e ogni colpo di tosse parve squassargli il corpo. Poi un fil di voce, tra un ansito e l’altro: «Corrado, amico mio… Che morte stupida… almeno fosse accaduto in battaglia…».

«Non parlare. Fammi solo un cenno con il capo. Vuoi che chiami mio zio Rosso? È l’archiatra patriarcale, di sicuro più bravo di quelli là fuori. Vuoi?»

Stirò le labbra esangui in un sorriso, cercò di fare un respiro profondo e mormorò: «Sempre precipitoso, tu… Sono bravi. Non ti ho chiamato per quello».

«Cosa devo fare, allora? Dimmelo, ti prego.»«Voglio che sia tu…» Gli mancò il fiato, aprì più volte la bocca e poi,

raccogliendo tutte le sue forze, quasi gridò: «Tu porterai la mia spada».Dette queste parole ebbe un colpo di tosse, vomitò sangue, s’inarcò e

ricadde, morto. Era circa l’ora seconda della notte, del dodicesimo giorno di marzo dell’anno 1318.

Lasciai le sue mani e mi ritrassi. Non ho un chiaro Ricordo di cosa accadde subito dopo. Ero sconvolto. Non si poteva morire così, a neppure vent’anni. Per me era inconcepibile. A quell’età morivano di malattia solo i poveri, nei tuguri; a quell’età un nobile poteva perdere la vita in battaglia, in un torneo, al massimo durante una battuta di caccia al cinghiale o all’orso. Mi ritrovai rincantucciato in un angolo, con le damigelle di Beatrice che la portavano fuori quasi a forza. Poi entrarono medici, preti, frati, e si assieparono attorno al letto. Infine, il ruggito del conte Enrico: «Fuori! Fuori tutti! Lasciatemi solo con mio figlio!».

Sciamarono rapidi, invece io non mi mossi finché mi guardò e con la voce rotta dal pianto disse: «Anche tu, Corrado».

Uscii dalla stanza inebetito e, non sapendo dove andare, mi diressi alle stanze di mastro Mattia, il maggiordomo. Se ne stava seduto allo scrittoio, immobile e pallido come una statua di pietra. Vedendomi sulla

Page 148: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

porta chiese solo: «Siamo alla fine?».«È già finita» risposi.Si alzò lentamente, si aggiustò la sopravveste di lana pesante e,

dirigendosi alla porta, disse come a se stesso: «Allora devo andare, devo rimettere ordine. Bisogna preparare, organizzare». E passandomi accanto, prima di uscire: «Restate qui, Corrado, vi farò preparare una stanza».

Rimasto solo, sedetti al posto di Mattia, poggiai le braccia sullo scrittoio, la testa sulle mani e piansi. A mezzanotte circa Mattia tornò annunciando che la mia stanza era pronta. Se la volevo, precisò. Sapeva già la risposta, perché subito aggiunse: «Se desiderate vegliarlo, ho dato ordine di prepararvi un piccolo pasto. Lo faccio portare qui, se lo desiderate».

Feci un cenno di diniego: «Non ho fame. Venite con me?».«Quello è il mio posto, almeno per questa notte.»«Prima ditemi perché è morto.»«È stata quella maledetta guerra. Gli ha distrutto i polmoni. I medici

hanno fatto di tutto, ma quando ha cominciato a sputare sangue già sapevamo come sarebbe finita.»

Cercava di trattenersi, nonostante gli occhi rossi di pianto e un tremolio nella voce. Ebbe un mancamento, dovette reggersi allo scrittoio e allora lo presi sottobraccio: «Su, mastro Mattia, andiamo a far compagnia a Mainardo».

Appena fuori incontrammo Ugo di Duino. Stava venendo a cercarmi, la stanchezza e lo sconforto sul viso.

«Messer Ugo, dovevate riposare ancora un po’. Sono due giorni e due notti che vegliate» disse Mattia. E rivolto a me: «Sapete, ha dormito solo qualche ora, sulla sedia. È stato il conte Enrico a obbligarlo ad andare a letto… Purtroppo nel momento in cui…». E scosse la testa avvilito.

Solo allora mi accorsi di come mi guardava Ugo. Con malanimo, se non con odio. Parlò in modo sferzante: «Proprio nel momento scelto da te per arrivare qui e togliermi ciò che mi spetta di diritto».

«Di cosa stai parlando, amico mio?» domandai stupito.«Lo sai bene.»«Te lo giuro, non ti capisco.»«Tocca a me portare la spada. Tu l’hai confuso, Mainardo credeva di

star parlando con me.»«No, Ugo. Sapeva di parlare con me, mi ha chiamato per nome.

Page 149: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Comunque non capisco il tuo livore. Se ti fa piacere portare la spada, la porterai.»

Pensai che avesse avuto quella reazione per la stanchezza e non feci l’offeso. Anzi, allungai una mano per stringergli un braccio. Si ritrasse con uno scatto rabbioso e sibilò: «È da quando sei arrivato qui che cerchi di accaparrarti le grazie di Enrico. Hai sempre giocato sporco. Ho perso quel duello con te solo perché non volevo infierire, ma ora sarà il caso di rifarlo. Così avrai la lezione che si merita un falso come te!».

Ero sbalordito, senza parole. Mattia si mise fra di noi: «Suvvia, signori. Siete entrambi stanchi, dite cose assurde delle quali vi pentirete. Certo che porterete voi la spada, Ugo. Voi e Mainardo siete cresciuti come fratelli».

Sentirlo accomunarmi a Ugo mentre io ero l’aggredito, trasformò il mio stupore in rabbia: «Quando e dove vuoi tu, Ugo. Ma ora fatti da parte e non scocciarmi con le tue fantasie e i tuoi assurdi rancori. Abbi solo il buon gusto di aspettare la sepoltura di Mainardo».

Mi puntò contro l’indice, ancora più rabbioso: «Questa è solo una tregua, per rispetto di Mainardo».

Mi volse le spalle e se ne andò a pugni chiusi e la testa incassata fra le spalle. Guardai sgomento Mattia: «Credevo fosse un amico».

«Oh, gli passerà. È sconvolto. Vedrete, sarà lui stesso a scusarsi.»Non lo avrebbe fatto, ne ero sicuro. E il poco desiderio di battermi con

lui divenne un’impellenza quella stessa notte. Ero uscito per un bisogno urgente dalla camera dove Mainardo giaceva rivestito di una tunica d’oro. Passando accanto a quella che era stata la mia prima camera, udii pronunciare sottovoce il mio nome. Mi arrestai, avvicinandomi alla tenda della porta dietro la quale confabulavano i valletti.

«…Pare proprio così. Corrado non l’ha protetto bene e la ferita alla spalla gli ha infettato i polmoni» disse una voce da ragazzino.

«Ma sei sicuro? Da chi l’hai sentito dire?» disse un secondo.«Lo scudiero del povero conte l’ha sentito dire da Ugo di Duino,

mentre qualche giorno fa parlava con Voldarico di Raffensteyn.»«Se a proteggerlo fosse stato messer Ugo, non sarebbe certo accaduto»

aggiunse un terzo.Fremevo di rabbia e dovetti trattenermi per non entrare e

schiaffeggiarli. Andai per la mia strada e rimasi un po’ a sbollire fra due merli vicini alla bertesca usata come comoda. Dandomi dello stupido per non essermi mai accorto di quanto rancore e invidia covassero in Ugo

Page 150: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

mentre si fingeva amico. Mi ripromisi di fargliela pagare e poi rientrai. Improvvisamente l’aria della camera mi parve afosa, irrespirabile. Troppi preti a pregare, troppa gente a vegliare. Guardai Beatrice, in ginocchio, anzi quasi accasciata accanto al letto del figlio, aggrappata a un lembo della sua veste, lo sguardo fisso sul volto color avorio. Non aveva più lacrime, non più singhiozzi. Andai a mettermi vicino alla finestra, sperando in uno spiffero d’aria. Ugo era a due passi da me e di tanto in tanto mi guardava in tralice, con cattiveria. Finalmente mastro Mattia entrò per bisbigliare che era l’alba e bisognava iniziare a preparare il corteo. Il conte Enrico si avvicinò alla moglie sussurrandole qualcosa, poi tese una mano come per aiutarla ad alzarsi. Lei si ritrasse, dicendo: «Lasciatemi. Dov’è Corrado?».

Mi feci avanti, sotto gli sguardi di tutti: «Sono qui, signora».«Dammi il braccio» disse con voce bassa e roca.Glielo porsi e lei vi si afferrò per alzarsi. L’accompagnai fuori, fino alle

sue damigelle in attesa in fondo al corridoio. Mentre lasciava il mio braccio, aggiunse: «Ti ho fatto preparare una delle vesti brune di Mainardo. Avete la stessa corporatura. Preparati per portare la spada».

«Signora, io…»Mi aveva già volto le spalle e allora andai ad attendere Enrico vicino

alla porta della camera. Uscì per ultimo e con voce stanca mi ordinò: «Vatti a preparare».

«Signore, la spada dovrebbe…»Il suo sguardo mi spaventò, tanto era duro.«Si fa come vuole mio figlio. Non voglio più sentir parlare di questa

indegna bega!»Dunque gliene avevano parlato. Ugo aveva messo di mezzo altri,

probabilmente suo padre. No, non avevo più nulla a spartire con un simile individuo e, senza neppure più un filo di senso di colpa nel cancellare quella che avevo creduto un’amicizia, andai nella mia stanza a vestirmi.

Da tempo immemorabile i conti di Gorizia si fanno seppellire nell’abbazia di Rosazzo, dove hanno anche il privilegio di eleggere l’abate. Questa dista da Gorizia circa dodici miglia e in corteo impiegammo fino a metà pomeriggio per arrivarci. Davanti a tutti, in piedi su un carro, c’erano la maggior parte dei pievani e dei presbiteri del goriziano con le croci astili. Li seguiva il conte a cavallo accompagnato dal fratello Alberto e dai nipoti. Subito dopo, il carro trainato da quattro

Page 151: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

cavalli neri con la bara aperta poggiata su un drappo violaceo. Quindi il cavallo di Mainardo con appesi alla sella l’armatura e lo scudo ribaltato; poi io con la sua spada sguainata, l’elsa nella destra e la punta poggiata sulla spalla sinistra. Dietro di me Ugo con l’elmo tra le mani. Subito dopo sei cavalieri, anche loro vestiti di bruno e con gli scudi, sui quali erano dipinti i loro stemmi, ribaltati. Infine, il carrozzone chiuso, dove stava Beatrice con altre dame, e a chiudere il corteo una lunga fila di goriziani di entrambi i sessi e di tutte le età.

Era una giornata di sole gentile e ai lati della strada e sui dolci pendii dei colli era tutto un germogliare, un richiamarsi di uccelli in amore. Lo pensai un omaggio all’amico morto, la promessa di una rinascita nella felicità e nella bellezza del paradiso. E avrei anche potuto lasciar scemare il dolore se non avessi avuto la brutta sensazione di avere l’odio di Ugo costantemente piantato sulla schiena. Giunti in vista dell’abbazia, e iniziata la salita per arrivarci, non sentivo quasi più la mano e il braccio destro. Anzi, l’intorpidimento stava mutando in dolore per le troppe ore a reggere la spada che si stava facendo pesantissima. Offrii la misera sofferenza al mio amico e, quando tesi l’arma a suo padre, affinché gliela mettesse fra le mani non riuscì a trattenere un tremito. Celebrate le funzioni Beatrice stese sul figlio un velo intessuto d’argento, con cura e dolcezza. Chiusero la bara e la deposero nell’arca che Enrico aveva preparato per sé.

L’abate fece servire un pasto, ma io preferii andare nel chiostro e attendere in solitudine l’ora della partenza. Dopo qualche tempo mi raggiunse uno dei monaci e m’invitò a seguirlo senza darmi spiegazioni. Tornammo nella chiesa ormai vuota, e da questa passammo in uno stanzino dove aspettava l’abate. Allontanò con un gesto il monaco e mi chiese: «Voi siete fratello di fra Pietro, il cellario di Sesto?».

«Lo sono, vostra paternità.»«Allora non penso servano giri di parole, in qualche modo fate parte

della famiglia di San Benedetto.»Stette come in attesa di una mia conferma e io, non capendo dove

volesse andare a parare, mi limitai ad annuire dicendo: «Noi ne siamo anche vassalli, per alcune terre».

«Un doppio legame, allora. Un terzo rafforzerà ancor più il vostro amore per il nostro santo Ordine. La contessa Beatrice e la sua famiglia trevigiana sono molto legati ai francescani e vorrebbe chiamarli a Gorizia per fondarvi un monastero. La contessa, almeno per le parole appena

Page 152: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

udite, vi tiene come un figlio. Se vi farà menzione della cosa, voi dovreste dissuaderla.»

«Signor abate, mi attribuite poteri che non ho. Io non sono nulla nella corte goriziana.»

«Nel suo cuore contate parecchio. Siete disposto a fare quanto vi chiedo?» insistette.

Mi sentivo in imbarazzo, ma quel chiedere segretamente e in confidenza stava facendo germogliare dell’orgoglio nel fondo del mio animo. Non mi costava nulla, se mai Beatrice me ne avesse parlato, perorare la causa benedettina. Risposi: «Per il poco che vale, lo farò».

«Bene, messer Corrado. In quell’ordine sta serpeggiando l’eresia, e il vostro aiuto serve anche alla Santa Madre Chiesa. Da parte nostra agiremo in modo da far comprendere a Enrico quale nobile cavaliere voi siete. Ora andate, il conte si sta per avviare» disse benedicendomi.

Il castello rimase per sette giorni con le bandiere abbassate e drappi neri sulle torri. Durante quei giorni io e Ugo evitammo il più possibile di incontrarci. Cosa non difficile, essendo io per gran parte del tempo nelle stanze di Beatrice. Enrico stesso mi aveva sollecitato a starle accanto, a servirla in ogni suo desiderio. Per sette giorni fu tutto un pregare per l’anima di Mainardo e, da parte mia, un ripetere ogni particolare della guerra. Anche a un ingenuo come me non sfuggì il mutamento della contessa nei confronti del marito. Sembrava non sopportarne la presenza e a ogni parola gli rivolgeva accuse, fino ad attribuirgli la morte del figlio. Quando tentai di mettere in risalto la gioia di Mainardo per l’impresa e il suo orgoglio nel parteciparvi, asserì: «Lo faceva solo per guadagnarsi la stima di suo padre. Non aveva altro modo, purtroppo».

A questa tensione se ne aggiunse un’altra, alla fine della decima messa in suffragio di Mainardo. Senza volerlo, io e Ugo ci trovammo sulla porta contemporaneamente e nessuno dei due cedette il passo all’altro. Non ci fosse stato Leonardo di Dornberg alle nostre spalle ci saremmo scontrati già quella sera. Lui trattenne me per una manica, spinse fuori Ugo e poi si frappose tra noi due con parole severe. Però al castello si erano ormai create due fazioni, una maggioritaria dalla parte di Ugo e l’altra, minuscola ad appoggiare me. Il minacciato duello divenne così inevitabile. Ma non iniziò neppure.Il conte, preavvisato da qualcuno, irruppe con i suoi nell’orto dove stavamo sguainando le spade e comandò a entrambi di tornare nelle nostre stanze e di restarci fino a nuovo ordine. Venne da me quando

Page 153: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

ormai faceva buio e dopo avermi rimproverato aspramente mi ricordò il giuramento di fedeltà fatto a lui e a Mainardo. Quindi mi disse di aver preso una decisione e mi dette tempo un mese per accettarla o meno. Suo cugino, il duca di Carinzia, voleva porre un argine a est contro Cangrande, e mirava a Treviso e alla Marca. Io avrei dovuto trasferirmi là come vassallo di Beatrice e di suo fratello Guecellone da Camino, avrei dovuto guardare e ascoltare inviandogli rapporti settimanali sulla situazione in città. O accettavo o potevo andarmene per la mia strada.

Appena uscito il conte, venne Margherita a dirmi che la sua signora desiderava parlarmi. Ci andai piuttosto amareggiato, punito per colpe non mie. Ma Beatrice mi svelò di essere stata lei a chiedere al marito di cedermi a lei per difendere i suoi diritti a Treviso e nella Marca, per mettermi in salvo dagli intrighi di palazzo e garantirmi un appannaggio. Enrico aveva unicamente approfittato della richiesta della moglie per avere la sua parte di utile. Ma a quel punto non m’interessava. Io volevo bene alla mia signora e accettai subito chiedendo solo di poter tornare a casa per qualche settimana.

Page 154: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

III

Arrivai a Treviso il mercoledì dopo Pasqua. Avevo portato con me Andrea, anche se Beatrice aveva provveduto a mettere a mia disposizione un valletto di casa e tre servi esterni. Gente fidata, scelta da suo fratello Guecellone. Portavo con me una lettera della contessa indirizzata al podestà di Treviso, Rolandino da Poliano. E un mucchio di raccomandazioni del conte. Mi aveva ripetuto fino alla noia di non impicciarmi in cose politiche o militari e limitarmi a eseguire con discrezione il compito affidatomi, presentandomi sempre come Corrado di San Lorenzo e non da Romano. Una raccomandazione me l’aveva fatta anche nonna Aurora: «Forse ti sembrerà di tornare a casa perché è la patria dei tuoi antenati. Ma non è così, la tua patria è ormai questa terra. E stai attento, Treviso è una città grande e bella, ma ha le viscere corrotte. Cerca di non perdere te stesso come stava per accadere a tuo nonno».

Solo ora, dopo aver letto le memorie di Guido, capisco esattamente cosa intendeva dire nonna, e posso confermarlo. A quel tempo Treviso era una città dove un giovane come me poteva realmente perdere se stesso. La grandiosità delle cinte murarie e delle porte, la bellezza dei palazzi e l’eleganza e la raffinatezza della nobiltà davano alla testa. Non aveva nulla da invidiare a Verona, Padova e, a suo modo, neppure a Venezia nonostante non possedesse neppure un terzo della sua potenza. Questa l’apparenza, ma sotto le vesti lussuose nascondeva le prime piaghe della lebbra che l’avrebbe uccisa. Naturalmente non me ne resi conto subito, felice com’ero di percorrere le strade dove i miei avi avevano signoreggiato. Il palazzo dei Caminesi, poi, era di straordinaria bellezza, una reggia, nonostante gli odori e le atmosfere di ogni casa da tempo disabitata.

Ad accogliermi trovai il valletto, che mi fece sentire un grande e potente signore. Si chiamava Sebastiano ed era più vicino ai sessant’anni

Page 155: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

che ai cinquanta, cosa che trovai ridicola. In realtà, era valletto solo di nome. Come tale aveva sì servito Gherardo ed era destinato a diventare scudiero, forse cavaliere, nonostante il padre fosse solo uno dei balivi dei Caminesi. Purtroppo per lui, a un certo punto, la schiena aveva iniziato a storcersi fino a obbligarlo a camminare come se avesse un pesante sacco sulla spalla sinistra e a non poter più reggere la spada e tantomeno lo scudo. Era stato però un uomo di fedeltà assoluta e nessuno aveva avuto il coraggio di rimandarlo a casa. Continuò a servire Gherardo e poi suo figlio Rizzardo, finché questi fu assassinato. Allora Guecellone l’aveva preso con sé utilizzandolo, al pari del fratello, per quel tipo di servizi che ogni uomo preferisce mantenere il più possibile riservati. Insomma, Sebastiano conosceva più di ogni altro le intimità dei suoi signori ed essendovi una specie di corporazione di questi segretari dell’amore con un continuo scambio di informazioni, poteva ancora indicare i frequentatori di molte alcove, i cornuti e gran parte dei bastardi di Treviso. Seppure ormai anziano, non aveva smesso il faticoso incarico neppure dopo l’arrivo di Verde della Scala nel castello di Serravalle e quindi gli era stata affidata anche la cura della mia persona.

A sera, poco prima della cena, vennero a presentarsi un certo Filippino e i suoi tre figli. Abitavano in una casa dei Caminesi poco lontana e, da buoni servitori della famiglia quali sempre erano stati pure loro, provvedevano con le mogli e le figlie a periodiche pulizie e, a turno, uno di loro stava in una stanzetta vicino all’androne d’ingresso a vigilare che nessun malintenzionato s’intrufolasse per razziare arredi o fare danno. Per il servizio godevano di una generosa pensione, che temevano di perdere con il mio arrivo. Li tranquillizzai, comunicandogli che per loro non cambiava nulla ed essi allora si prodigarono in inchini, baciamani e ringraziamenti come se il merito di tale continuità fosse mio.

A riportarmi alla realtà bastò l’incontro con il podestà, il giorno successivo. Il conte mi aveva fornito un degno corredo e mi presentai al palazzo del Comune con le vesti più belle. Rolandino da Poliano mi umiliò con un’anticamera di quasi un’ora, trascorsa a sopportare gli sguardi ben poco amichevoli dei cancellieri e di alcuni membri del Consiglio degli Anziani in procinto di radunarsi. E, quando mi ebbe davanti, non sprecò gentilezze: «Signore, inutile ricordarvi che qui siete solo un ospite. La vostra presenza è tollerata per affetto nei confronti di donna Beatrice. Siete a Treviso per vigilare sui suoi beni, limitatevi a questo».

Page 156: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Mi sentivo offeso, in grande imbarazzo, e senza dire una parola gli tesi la lettera della contessa. La lesse frettolosamente e la gettò con poca grazia sul tavolo accanto a noi. Parve cercare le parole: «La mia non è malacreanza. Meglio chiarirsi fin dal principio. Nessuno ce l’ha con voi, anche se…» fece un gesto con la mano Come a dire di lasciar perdere. «Voi siete giovane, molto giovane, e sicuramente non sapete quanto è costata la libertà a questo Comune.»

Non riuscii più a tacere: «Signor podestà, la contessa mi ha spiegato ogni cosa. Anche le colpe della sua famiglia. Non le nega e il suo unico desiderio è riportare pace fra la città e il suo sangue. Per quanto mi riguarda, sono solo un suo suddito e i miei compiti non vanno al di là del far sì che la casa sia sempre pronta ad accoglierla se volesse venire a rendere omaggio ai resti mortali del padre e dei fratelli. Sente molto la nostalgia della sua patria, soprattutto dopo il tremendo lutto che l’ha colpita».

«Sappiamo e ne siamo addolorati. Allora non ci saranno fraintendimenti tra di noi. Se mai avrete un problema, non cercate di risolvere da voi. Venite qui e troverete ascolto. Ora andate, il Consiglio degli Anziani sta aspettando.»

Mi tese la mano senza mutare l’espressione accigliata. Gliela strinsi e prima di lasciarmela lui aggiunse: «Avete combattuto con Cangrande e qui Cangrande è un nemico. Inoltre, se fossi in voi, non mi vanterei di essere un da Romano». Notando la mia sorpresa, continuò: «Non crederete mica che in tempi di guerra come questi concediamo a qualcuno di stabilirsi in città senza sapere tutto di lui?».

«Seguirò il vostro consiglio» risposi con un inchino e uscii furioso dalla stanza.

Non ero offeso per l’accoglienza e le parole in se stesse. A farmi ribollire era la convinzione di essere stato trattato in tal modo solo per la mia giovane età. Si fosse trovato davanti uno con un paio d’anni in più, non avrebbe esibito una tale tracotanza. Macinavo scioccamente propositi di rivalsa, cercavo una via per compiere qualcosa che avrebbe obbligato il podestà a chiedere scusa. Naturalmente, cercavo invano e rientrai a palazzo ancora rosso in viso e agitato.

Le mie stanze non erano quelle abitate un tempo da Gherardo o dal suo primogenito Rizzardo, affrescate e disseminate di ricchi arredi e preziosi arazzi. Spettavano a Guecellone e a suo figlio, altro Rizzardo, quando avrebbero potuto fare ritorno a Treviso. Anche quelle delle

Page 157: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

donne erano rimaste vuote, pronte per Beatrice o Verde della Scala, moglie di Rizzardo. Occupavo l’ala orientale, da sempre utilizzata come foresteria per gli ospiti ecclesiastici, con pochi dipinti e arredi austeri; uno studiolo, una saletta dove mangiare e ricevere, una camera da letto e una stanza con comoda e tinozza. Mi piazzai dunque nello studiolo e, rimuginando, presi a giocherellare nervosamente con un calamaio dove l’inchiostro si era seccato da tempo. Stavo per gettarlo contro il muro quando, dopo un leggero bussare, entrò Sebastiano.

«Signore, sono venuto a prendere ordini per il pranzo e la cena. Se avete la bontà di dirmi cosa gradite, provvederò… Oh, scusatemi, vi vedo rabbuiato? Avete qualche preoccupazione? Volete che torni più tardi?»

Sebastiano non poteva inchinarsi. Sostituiva l’atto di omaggio piegandosi a sinistra e abbassando solo di poco il mento. Perciò se ne stava sghembo in attesa di una risposta. Non mi era piaciuto vederlo scoprire il mio malumore, né il suo indiretto offrirsi per una confidenza. Stavo per allontanarlo in malo modo quando notai per la prima volta i suoi occhi. Mediamente alto, asciutto nel fisico deforme, grigio di capelli, non aveva alcun tratto del volto che non si potesse definire in altro modo che comune. Gli occhi, invece, avevano una stranezza: erano di colore diverso, uno azzurro e l’altro marrone. E in quel momento mi stavano fissando, almeno così mi parve, pieni di sincera preoccupazione. Sentii il bisogno di sfogarmi con qualcuno e così, invece di essere brusco, mi ritrovai a raccontargli dell’incontro con il podestà e del mio desiderio di rivalsa.

Lui ascoltò attento e serio, poi disse: «Signore, io servo i da Camino da quasi cinquant’anni. Ne avevo sette quando iniziai a portare l’acqua nelle camere. Li ho visti dominare, cadere e rialzarsi, ultimamente perfino provare l’umiliazione dell’esilio. Dalla morte del grande Gherardo, Dio l’abbia in gloria, le cose sono andate sempre peggiorando. Oh, non sta certo a me criticare e, credetemi, non è mia intenzione farlo. Ma ora so chi siete, e mi permetto di parlare chiaro con voi. Perché ho servito anche vostro nonno quand’è stato qui come ospite. Era un grande uomo, al pari di Gherardo. purtroppo per lui non aveva alleati fedeli come il mio signore. Scusatemi, la sto facendo lunga, mi perdo nei ricordi. Ciò che volevo dirvi è che potete contare sulla mia fedeltà e, se non vi sembra un’impertinenza, anche sui miei modesti suggerimenti».

Nel sentir nominare mio nonno Guido mi si aprì il cuore, mi parve di

Page 158: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

aver davanti un amico e lo invitai perfino a sedere. Lui rifiutò con grazia, giustificandosi con il fatto che la sua schiena soffriva meno quando stava in piedi.

«Allora, secondo voi, come dovrei comportarmi in questa città?» gli domandai.

«Non si costruisce una casa in un sol giorno, perciò dovete pazientare e subire. Siete un bel giovane, un cavaliere con importanti antenati e potete camminare per le strade di Treviso a testa alta. Anzi, se mi permettete di dirlo, dovrete farlo spesso. La curiosità dei giovani nobili vi procurerà incontri, legami, amicizie. E mentre si passeggia, banchetta e danza, si vengono a sapere molte cose. Così potrete riferire al signor conte senza esporvi troppo. Vi consiglio inoltre di continuare a presentarvi come Corrado di San Lorenzo, come vuole il podestà, Ci penserò io a spargere la voce che, in realtà, siete un da Romano, il pronipote di Ezzelino e il nipote di Guido. Mi confiderò con chi so io, e loro spieranno subito ai padroni. Quando sarete accettato dai figli, i padri vi apriranno le porte dei loro palazzi. A suo tempo vi svelerò qualche segreto, così avrete un’arma in più per difendervi dai nemici.»

«Segreto? A cosa vi riferite?»Sorrise con espressione furba e iniziò a narrarmi qualche particolare

della sua vita, e fatti sulle alcove delle famiglie più importanti in quel momento. Mi convinse e decisi di seguire i suoi consigli. Dopo aver passeggiato in solitudine per un paio di giorni, iniziai a essere oggetto della curiosità e delle chiacchiere della nobiltà trevigiana. Sapere, essendo ormai voce pubblica, che ero un cavaliere della contessa Beatrice non bastò più a chi aveva pressappoco la mia età e si ritrovava a oziare nella piazza del comune o davanti al duomo. Il primo a rivolgermi la parola fu Francesco da Collalto, uno dei figli di Rambaldo, la cui madre era proprio una da Camino, anche se del ramo cadetto. Dopo avermi seguito a lungo con lo sguardo, un pomeriggio si staccò dal gruppetto di amici e mi si parò davanti chiedendo se poteva presentarsi. Mi dissi onorato e allora m’invitò ad aggregarmi a lui e ai suoi per due chiacchiere, che si rivelarono un vero e proprio interrogatorio seppur cauto e rispettoso. Superai l’esame e m’invitarono a bere con loro in una certa taverna dietro il palazzo comunale. Prima di lasciarli avevo già due inviti per dei banchetti “gustosissimi e ideali per soddisfare certe voglie”. Ci andai e con Francesco da Collalto nacque subito una profonda amicizia, nonostante si fosse burlato di me per il mio schermirmi quando

Page 159: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

una delle giovani cortigiane si era fatta troppo sfrontata e io avevo mentito spudoratamente inventandomi un amore lontano.

A quel punto Sebastiano finse di confidarsi con un paio di maestri di casa suoi amici, implorando segretezza. Nel giro di un giorno e una notte tutte le famiglie che contavano seppero di avere in città il pronipote del tanto odiato o amato Ezzelino e il nipote di Guido. E, vedendomi in compagnia guelfa, o comunque gelosa della libertà comunale di Treviso e contraria a ogni compromesso con Cangrande, gli stessi padri della parte ghibellina invitarono i figli a farsi miei amici. Iniziò Antonio, secondogenito di Artico Tempesta, invitandomi a un banchetto a palazzo. La sua famiglia rivaleggiava in ricchezza con i Collalto e, da tempo, tramava per porre la città e la Marca sotto la protezione di Cangrande. Fra i Collalto e i Tempesta, anche se non c’era evidente inimicizia, i rapporti si limitavano alla pura cortesia e perciò mi trovai davanti al primo dilemma. Era il caso di far torto a Francesco per mantenere l’autonomia di cui avevo bisogno? Risolse lui stesso il problema, consigliandomi di accettare l’invito perché, essendo forestiero, non dovevo apparire legato a nessuna fazione. Banchettai in casa Tempesta e conobbi i da Rovero, i Monfumo, gli Onigo e i della Rocca, e iniziai a farmi un’idea di come era divisa la città. Feci una lista delle famiglie, suddivise per posizione politica e la inviai come primo rapporto a Enrico.

La mia non era una posizione facile, era come giocare a pallapugno in entrambi i campi. Inoltre, il podestà e il Consiglio degli Anziani mi tenevano d’occhio e in cancelleria si scrivevano note su di me. Dall’imbarazzo mi tolse il peccato della carne, il giorno in cui conobbi una sorella di Endrighetto della Rocca. A neppure vent’anni, Ludovisia era rimasta vedova di un nobile bellunese al secondo matrimonio e, non avendo figli, se n’era tornata alla casa paterna. Non saprei come descriverla perché, come si usa dire, se presa a pezzi non era granché. Però, nell’insieme, trasmetteva una tale sensualità che mi fece ribollire tutto, e quando le presi la mano per baciarla un’ondata di calore mi attraversò il corpo. Inutile farla lunga. A lei mancava grandemente ciò che un marito dà e di cui era particolarmente ghiotta, e dopo due settimane di sguardi e ammiccamenti trovai il coraggio di invitarla a fare una passeggiata con me lungo il fiume Sile. Lei, come fosse una cosa normale, mentre la sua damigella raccoglieva sul ciglio erboso dei nontiscordardime, sfiorandomi le labbra con un dito mi sussurrò:

Page 160: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Domani notte aspettami alla porta dell’orto, dopo la campana del coprifuoco e tra la prima e la seconda ronda».

Nel suo sguardo c’era una promessa cui non potei resistere. Non servono insegnamenti per certe cose, vengono da sé. Soprattutto se uno dei due conosce bene il ballo. L’appuntamento divenne quotidiano, perché la sua camera dava su un poggiolo del primo piano e aveva i rami grossi di un vecchio acero a far da scala fino a un palmo da terra. In quanto a me ero ben servito da un vicolo buio fra la mia casa e la sua, dove si incontravano solo gatti. La damigella e la serva di Ludovisia si accorsero presto dei maneggi della padrona, e se qualche moneta d’oro sigillò la loro bocca in casa, non fece altrettanto fuori. All’ennesima mia scusa per non partecipare a una delle feste organizzate da Francesco, egli mi sorrise e disse, prendendomi sotto braccio con aria complice: «Corrado, amico mio, almeno vieni dopo aver raccolto la lattuga nell’orto dei della Rocca».

Arrossii e, cercando una scappatoia, borbottai: «Di quale orto parli?».«Suvvia, amico mio. Ludovisia sarà figlia di ghibellini, ma fra le gambe

ha l’unica politica che mette tutti d’accordo.»Improvvisamente preoccupato e vergognoso, domandai: «Se lo sai tu

lo possono sapere pure suo padre e i suoi fratelli?».«Se lo sanno faranno finta di non sapere. Gli va bene così, almeno

finché non le trovano un nuovo marito. Possibilmente vecchio e ricco. Usata è usata e intanto tu la tieni buona, senza scandali.»

Trascorsi un’estate piacevole. La tregua con Cangrande reggeva e le speranze di una pace duratura parevano concrete. Io, grazie a banchetti e balli, tornei e pali, ero considerato ormai parte della nobile gioventù trevigiana. Con me parlavano liberamente di ogni cosa e ciò che venivo a sapere di rilevante lo scrivevo al conte di Gorizia. C’era una sola cosa a preoccuparmi: il denaro usciva troppo velocemente dalla mia borsa. Ma Enrico doveva essere soddisfatto del mio operare e sul finire di agosto la rimpinguò permettendomi di acquistare nuove calzature, tunica e guarnacca per l’autunno. Proprio in quei giorni, però, una grande preoccupazione iniziò a serpeggiare per Treviso. Le spie avevano riferito di un incontro fra Cangrande e Jacopo da Carrara a Montegalda, e quest’ultimo l’aveva tenuto segreto agli alleati trevigiani. Da qui il sospetto di accordi in favore di Padova e a danno di Treviso. Riferii subito al conte Enrico, e feci bene, anche se nelle due settimane successive non accadde nulla e il mio apparve un inutile allarmismo.

Page 161: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Almeno fino alla sera del venti di settembre, uno dei giorni delle Quattro Tempora.

Stavo attendendo Ludovisia nel solito angolo dell’orto, vicino al capanno usato dai giardinieri. L’ora dell’appuntamento era passata e, non vedendola arrivare, mi stavo chiedendo cosa potesse essere accaduto. Improvvisamente udii aprirsi la porta interna del palazzo e un bisbigliare lontano. Temetti di essere stato scoperto e, d’istinto, cercai una via di fuga. Purtroppo la porticina dalla quale entravo di solito era lontana e i passi si avvicinavano rapidamente. Allora mi nascosi dietro un cespuglio di alloro, fidando in una notte senza luna e nel fatto che chi stava arrivando non aveva lumi. Acquattato e con il batticuore, il pugnale già stretto in mano e il cappuccio tirato fin sopra gli occhi, cercavo di ricordare se vi era qualche parte del muro facile da scavalcare. Poi capii che non cercavano me.

Riconobbi subito la voce di Endrighetto della Rocca e individuai anche gli altri che stavano con lui, Erano Francesco da Morgano, Guecello da Monfumo e Benedetto da Rovero. Si fermarono a neppure cinque passi da me e io trattenni il respiro. Udii Endrighetto dire: «Allora d’accordo, ognuno per la sua strada fino a Fontaniva».

«Meglio partire in giorni diversi» aggiunse Guecello da Monfumo.«A Fontaniva, il prossimo martedì» confermò Francesco da Morgano.Endrighetto aprì la porticina dell’orto e gli altri scivolarono fuori,

quindi se ne tornò tranquillo a palazzo. Attesi un po’ prima di uscire dal nascondiglio, sicuro di aver appena scoperto una congiura. Altrimenti non avrebbero usato quella via, né si sarebbero incontrati in un’ora da ladri e amanti. Però non riuscivo a immaginare cosa stessero tramando, avendo come unica informazione il misterioso e segreto incontro a Fontaniva. Giunto a casa, presi una lucerna e andai nella camera di Sebastiano. Dovetti svegliarlo e lui si spaventò, temendo un qualche guaio. Gli lasciai il tempo di mettersi seduto e gli raccontai ciò che avevo visto e udito. Mentre parlavo cercava di rassettarsi i capelli e sistemarsi la camicia sulle ginocchia, sul viso una smorfia di sofferenza perché la sua schiena non sopportava i bruschi risvegli. Ma all’udire nominare Fontaniva si rizzò in piedi senza neppure un gemito.

«Dove questo posto?» domandai.«A otto miglia da Bassano, fuori dai confini della Marca. Se vanno là, e

di nascosto, la cosa ha sicuramente a che fare con Cangrande.»«Come fate a esserne sicuro? Devo avvisare Francesco da Collalto?»

Page 162: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Agitò le mani davanti al viso e disse, tornando a sedere sul letto: «Per l’amor di Dio, no. Prima di parlarne con qualcuno bisogna saperne di più, informarsi. E se fosse solo un falso allarme? Il vostro nome verrebbe fuori subito. Lasciatemi un paio di giorni, indagherò con discrezione».

In realtà, la sera dopo, indagai anch’io. Tornai all’orto in attesa di Ludovisia. Venne e si scusò dicendo di aver avuto ospiti in casa e di non essersi fidata a uscire dalla finestra. Concluse sospettosa: «Se eri qui, li avrai visti pure tu».

Giudicai più saggio mentire: «No, appena ho udito gente sono fuggito. Chi erano?».

«Meglio per te non saperlo. Si preparano eventi importanti e tu sei un forestiero… Entriamo nel capanno, fa freddo» disse stringendosi nella sottile camicia di lino.

Ci riprovai di nuovo, prima di lasciarla: «Forse è meglio non vederci più, almeno fino all’evento di cui parlavi. Se fossimo scoperti…».

Mi si appiccicò, bisbigliando: «Non ti preoccupare. Quando accadrà ci sarà parecchio rumore e capirai».

«Non vuoi proprio dirmi nulla? Per starmene chiuso in casa e non avere guai» insistetti.

«Ho sentito dire da mio fratello che hai combattuto accanto a Cangrande, perciò tu non hai nulla da temere.»

Passò ancora un giorno quando Sebastiano mi raggiunse nello studiolo ansante e rosso in volto: «Conosco i nomi. A quelli già noti dovete aggiungere Antonio e Nicolò da Rovero, Bonaccorsio della Rocca, Giovanni e Gherarduccio da Onigo. Sono partiti alla spicciolata prima dell’alba, e questa ha tutta l’aria di essere una vera e propria congiura contro la città».

Redassi subito un nuovo rapporto per Enrico, con la notizia della probabile cospirazione e i nomi dei congiurati. Solitamente inviavo i rapporti tramite il messo di un banchiere fiorentino il cui fratello operava a Gorizia. Quella volta, temendo controlli, l’affidai ad Andrea. Il mio rustico scudiero si annoiava e aveva nostalgia di casa, ridotto com’era a ruolo di stalliere. Partì il ventottesimo giorno di settembre e non lo rividi più per oltre due mesi. Da lì a pochi giorni, si scatenò su Treviso una bufera di ferro e fuoco e io vi rimasi intrappolato.

Page 163: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

IV

Come confessò sotto tortura lo scudiero di Artico Tempesta, a Fontaniva i congiurati vendettero Treviso a Cangrande in cambio di future cariche e signorie. Gli promisero di lasciare la porta dei Santi Quaranta aperta e indifesa, la notte del due ottobre. Ma spesso ciò che l’uomo tesse la natura disfa. Cangrande incaricò dell’operazione Uguccione della Faggiola e questi partì da Vicenza con cinquecento cavalieri e mille fanti la sera del primo ottobre. I congiurati attendevano il suo arrivo appostati nei pressi della porta, aperta e con la grata bloccata da due grosse travi poste a croce. Ma quando il nemico giunse a circa dieci miglia dalla città, si levò una nebbia fittissima e Uguccione perse la strada faticando persino a tenere unite le sue truppe. Intanto i traditori, non vedendolo arrivare, immaginarono un ripensamento di Cangrande e, appena iniziò a schiarire, se ne fuggirono nei loro palazzi. Poco dopo passò davanti alla porta il garzone di un calzolaio diretto alla bottega e vedendola aperta e con le travi messe di traverso subito iniziò a correre di casa in casa gridando: «Aiuto! Nemici!».

I primi ad accorrere furono gli abitanti del borgo a ridosso della porta che mandarono gente a far suonare le campane a martello. In breve, l’allarme si diffuse e accorsero soldati e cittadini in armi. Nello stesso momento Uguccione giunse finalmente alle mura e vedendo gli uomini faticare a togliere le travi dalla grata ordinò l’assalto. Anch’io ero arrivato alla porta e, più trascinato da Francesco da Collalto che per volontà, mi ritrovai tra quelli costretti ad affrontare il nemico per dar tempo agli uomini di calare la grata. Uguccione aveva mandato avanti i fanti e benché fossimo cento contro mille riuscimmo ad arrestarli. Avevo solo spada e daga e, combattendo, raccomandavo la mia anima al Signore. E il Signore diede ascolto alla mia supplica: all’improvviso si scatenò una bufera di vento, pioggia e grandine da far paura. Ci bastò l’attimo di smarrimento degli avversari per rientrare rinculando e

Page 164: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

trascinando almeno una dozzina di compagni fra morti e feriti. Subito dopo, Uguccione, convinto di essere stato tradito dai congiurati, abbandonò rabbioso l’impresa e andò ad accamparsi a Quinto, un villaggio distante circa cinque miglia.L’improvviso e inatteso attacco gettò la città nello sconforto. Impiegai

parecchie ore a decidere la mia linea di condotta e Sebastiano l’approvò mentre mi medicava una ferita alla schiena, fortunatamente superficiale. Andai dunque a palazzo Collalto in cerca di Francesco. Era a letto, le lenzuola macchiate di sangue. Con lui c’era suo padre e, mentre io entravo, uscì dalla camera il chirurgo che gli aveva ricucito il profondo taglio sopra la clavicola sinistra. Entrambi mi ringraziarono per aver partecipato alla difesa nonostante fossi forestiero e io mi schermii dicendo di non essere lì per ricevere ringraziamenti ma per confessare una colpa. Aggiustando un po’ i fatti, dissi di aver saputo da Ludovisia dell’incontro fra i Tempesta e altri a Fontaniva, concludendo: «Solo oggi ho capito che probabilmente hanno tramato con Cangrande. Mi dispiace di non avervi informato prima, sono stato uno stupido».

Parlando, avevo tenuto d’occhio Rambaldo, notando come era rapidamente passato dalla preoccupazione per il figlio alla rabbia.

«Voi confermate i miei sospetti, però siete un forestiero e le vostre parole potrebbero non essere credute. Tacete e lasciate fare a me» disse.

Stetti con Francesco fino a notte mentre suo padre s’incontrava con il podestà. Grazie alla confessione dello scudiero, del quale ho detto prima, all’alba del giorno dopo la milizia comunale si presentò nelle case dei congiurati per arrestarli. Trovarono solo i servi, perché la sera precedente, con la scusa di dover proteggere i loro castelli, erano fuggiti da Treviso. Allora venne convocato il Consiglio dei Trecento ed essi furono dichiarati traditori e, come tali, esiliati a vita e i loro beni confiscati. Quando la decisione fu comunicata al Consiglio generale, la plebe si sentì libera di razziare le loro case e abbatterle.

Mentre accadeva questo, i congiurati si erano rifugiati da Uguccione della Faggiola e con lui occuparono i loro castelli, ossia Noale, Asolo, Montebelluna, Brusaporco e altri più piccoli. Dal canto loro i trevigiani inviarono messi con richieste di aiuto a Venezia, Padova, Firenze, Siena e Bologna, rafforzarono le mura elevando bertesche e belfredi, e raddoppiarono le truppe di guardia raccogliendo nella Marca altri cinquecento balestrieri. Di tante richieste d’aiuto una sola ebbe un esito concreto, e altri balestrieri giunsero da Bologna il quindici di ottobre. Lo

Page 165: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

stesso giorno Cangrande e il suo esercito furono alle porte della città.L’assedio, con ripetuti scontri, durò fino al principiare di dicembre, ma

queste descrizioni le lascio agli storici. Anche perché io fui relegato come un prigioniero a palazzo da Camino, che non venne del tutto razziato e incendiato solo grazie a Francesco da Collalto e a suo padre. Infatti Rambaldo, eletto capitano generale della città, parlò in mia difesa in Consiglio e riuscì ad allontanare da me ogni sospetto di tradimento. E ce n’erano di motivi per diffidare di chi, in qualche modo, rappresentava il conte Enrico e Guecellone da Camino, anche se non si era sottratto alla battaglia. Il primo era considerato un alleato di Cangrande e il secondo, anziché correre in aiuto di Treviso, si era associato al nemico nell’assedio della città. Né potevo andarmene, per il timore dei consiglieri che potessi svelare particolari e fatti utili alla guerra.

La mia vita non era peggiore di quella degli altri, tantomeno dei poveri abitanti dei villaggi e dei castelli della Marca. Fuori dalle mura era tutto un razziare, un incendiare, un violentare, e fra i fiumi Sile e Piave la distruzione era immane. Trascorrevo le giornate osservando da una finestra il viavai affannato di chi doveva accorrere a rinforzare ciò che le catapulte avevano danneggiato, spegnere gli incendi causati dalle palle infuocate, rifornire i difensori. Dall’alba al tramonto le campane suonavano a morto perché non passava giorno senza che qualcuno cadesse durante una sortita o fosse ucciso sulle mura da una pietra, una freccia o un verrettone. E dal tramonto all’alba suonavano a martello per gli improvvisi e continui assalti del nemico con scale e torri da una parte o dall’altra. Al principio credetti di non farcela ad assistere a tutto questo senza poter partecipare alla difesa. Poi la casa divenne come la grotta di Pisino, un posto sicuro dove pianificare contromosse e ideare soluzioni.

Ora descrivo quei giorni così, come se fosse stato semplice. Non ero ancora un uomo, anche se i diciassette anni si stavano avvicinando, però imparavo in fretta. Un po’ per un istinto naturale un po’ perché non vi è maestro più grande della sofferenza nell’insegnare la tragica semplicità della natura umana. Mi permettevano di uscire solo per andare in duomo o nella vicina chiesa dei francescani e, dovendo partecipare quotidianamente a frettolosi funerali, la morte mi divenne compagna. Nell’assistere allo spreco di tante vite, iniziai a convincermi che Treviso aveva un’unica possibilità di salvezza: affidarsi a un potente protettore. E chi meglio del conte Enrico? Non aveva bisogno di Treviso per aumentare il proprio potere e la propria ricchezza: ne aveva già a iosa e

Page 166: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

non avrebbe rapinato la città né dell’uno né dell’altra. Inoltre, grazie a Beatrice, poteva riallacciare quella continuità ormai compromessa da Guecellone. Infine, non lo nego, avevo pure un’ambizione: se avessi agito esclusivamente nell’interesse di Treviso, dopo mio nonno Guido un altro da Romano avrebbe lasciato un’orma nella terra degli antenati.

Francesco e gli amici venivano a farmi visita quasi ogni sera, purtroppo sempre in minor numero poiché molti erano costretti dalle ferite all’immobilità. Dividevamo assieme il poco vino che Sebastiano riusciva ancora a comprare a caro prezzo e, dopo aver ascoltato il racconto della giornata, parlavo loro del conte Enrico definendolo un uomo saggio e di animo buono. Se fosse stato alleato di Treviso, dicevo, Cangrande si sarebbe guardato bene dall’attaccarla. Parlavo anche di suo cugino, duca di Carinzia e zio di re Federico, concludendo: «Chi avrebbe avuto l’ardire di aggredire un libero comune postosi sotto la protezione di tali signori? Ma, ahimè, questo non è possibile. Voi non vi fidate del conte Enrico, lo considerate alleato di Cangrande anche se tale è stato solo per un obbligo nei confronti dell’imperatore. Come valletto e scudiero di suo figlio, come suo cavaliere, lo posso ben dire: Enrico non ama Cangrande, e non lo amano neppure il duca e il re».

Il mio continuo insistere, il ripetere da parte di Sebastiano le medesime cose fra i servi a caccia di cibo, produsse dei frutti. Una sera di fine ottobre Francesco mi invitò a palazzo Collalto perché il padre mi voleva parlare. Rambaldo, studiando ogni mia espressione e soppesando ogni mia parola, fece molte domande sul conte, sul duca e sul re. Non faticai a dare le risposte giuste: mi uscivano dal cuore perché amavo Beatrice, ero riconoscente a Enrico e ammiravo il duca. Il colloquio durò fino a notte alta e, congedandomi, Rambaldo disse: «Cangrande non ci espugnerà. A costo di morire tutti di fame. Presto inizieranno piogge e neve e, se non vorrà rimanere impantanato qui, dovrà concederci una tregua. Allora io vi pregherò di tornare a Gorizia, di chiedere al conte Enrico se è disposto a farsi nostro paladino presso il re d’Austria. Mi farete questa grazia?».

Non aspettavo altro e risposi con foga: «Signore, so di dovervi la vita e la libertà. Lo farò con tutto il mio impegno e tornerò con buone notizie, ne sono certo. Ma perché perdere tempo? Non è meglio agire subito?».

Rambaldo non rispose e mi congedò. Pensai di essermi spinto troppo oltre, invece, alcuni giorni dopo, Francesco mi riferì che il padre aveva riflettuto e preso la decisione di inviare un’ambasciata a Graz, da re

Page 167: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Federico, per sondare la sua disponibilità a farsi protettore di Treviso. Gli ambasciatori tornarono dopo quasi un mese, quando era fallito ogni tentativo veneziano di imporre una tregua. Con essi c’era un delegato del re, il suo cappellano Mattia, e portava lettere nelle quali Federico si diceva pronto a correre in soccorso di Treviso se la città lo riconosceva come signore, e prometteva di conservare alla stessa le libertà e i privilegi vigenti.

Non sapevo se gioire o essere deluso. I miei suggerimenti erano stati ascoltati, ma scavalcando il conte Enrico. Ormai era tutto nelle mani del cappellano del re, a me non restava che fare lo spettatore. Prete Mattia, un uomo dall’aspetto mite ma energico, si mise subito all’opera. Organizzò ogni cosa per il passaggio di Treviso alla casa d’Austria, si spinse intrepido nel mezzo del campo nemico e fino alla tenda di Cangrande cui intimò senza esito una tregua. Inoltre, come aveva previsto Rambaldo, le piogge iniziarono e tutte le terre attorno a Treviso divennero pantani e le ambascerie papali e veneziane reclamarono con ancora più forza la pace. Con la guerra fra guelfi e ghibellini che divampava furiosa attorno a Genova e a molte città della Lombardia che o si erano date o pensavano di darsi a Roberto d’Angiò, a capo della lega guelfa, Cangrande considerò più saggio sospendere l’assedio accontentandosi di ciò che nel frattempo aveva occupato nella Marca e ai confini padovani. Tornò dunque con i suoi a Verona per dedicarsi a quelle questioni ritenute dai suoi alleati, in particolare da Matteo Visconti e Passerino Bonacolsi, più importanti di Treviso.

Il mattino del ventinove novembre lasciai la città con delle lettere di Rambaldo per il conte. Attraversai terre devastate, campi incolti, vigne tagliate, villaggi bruciati, con contadini macilenti e laceri che vagavano disperati in cerca di cibo. La situazione iniziò a migliorare una volta passato il Piave e si fece normale oltre Conegliano. Giunsi al ponte sul fiume Livenza all’ora quindicesima e, mentre pagavo il passo, mi sentii chiamare: «Padron Corrado! Padron Corrado!».

Mi guardai in giro sorpreso e vidi il mio scudiero corrermi incontro.«Cosa fai qui, Andrea?»Si gettò in ginocchio ai miei piedi e, baciandomi la mano, prese a dire:

«Grazie al Signore e alla santa Vergine siete vivo! Temevo di non rivedervi più!».

Lo sollevai e lui mi prese di mano la cavezza del cavallo.«Allora, perché sei qui?»

Page 168: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Gli ci volle del tempo per spiegarsi e molte cose dovetti fargliele ripetere per poterne capire appieno il senso. Aveva portato a Gorizia le mie lettere, fermandosi all’andata e al ritorno nel nostro villaggio. A sua volta il conte gli aveva dato lettere e denaro per me e altrettanto aveva fatto mio padre. Ma non era potuto rientrare a Treviso. Anzi, al terzo tentativo, aveva rischiato di perdere la vita inseguito dalla soldataglia di Cangrande. Allora, era tornato a Gorizia e il conte gli aveva detto di attendere a casa i suoi ordini, e questi erano arrivati solo la settimana prima quando nella mia famiglia ormai s’iniziava a temermi morto. Il messo gli aveva consegnato una lettera e altro denaro con l’ordine di Enrico di andare al passo di Sacile e attendermi per cinque giorni prima di cercare nuovamente di entrare a Treviso e vedere che fine avevo fatto. Inoltre, il messo gli aveva fatto imparare a memoria un messaggio segreto. Me lo ripeté, scandendo lento le parole: «Abbiamo saputo che Cane ha tolto l’assedio. Se ancora vivi e ci sei fedele, raggiungi a Serravalle mio cognato Guecellone e aggregati a suo figlio Rizzardo. Devi andare con lui a Soncino, ancora a guardare e ascoltare per poi riferire. Ogni altra cosa rimandala al tuo ritorno. Non parlare di questo con nessuno, neppure con mio cognato e mio nipote».

Rimasi perplesso. Perché non potevo parlarne a suo nipote? Come aggregarmi a lui senza fornire spiegazioni? Ed ero deluso. Non avrei potuto rivedere la mia famiglia, né riferire al conte del lavoro compiuto in suo favore. Avevamo intanto percorso un tratto di strada, fino a una taverna dove Andrea aveva lasciato in custodia il suo cavallo. Rimuginavo imbronciato e lui mi spiava gettandomi delle occhiate preoccupate. Gli chiesi: «Dove hai lasciato lettere e denaro?».

«All’ospizio degli Ospedalieri, a San Giovanni. Li ho affidati al precettore. Così mi ha ordinato il messo del conte.»

Leggendo le lettere, finalmente iniziai a capire. Il conte non aveva gradito l’agire di Guecellone e di suo figlio, soprattutto perché avevano offerto a Cangrande anche i feudi che gli aveva concesso come capitano della Patria. Non sapeva se poteva fidarsi ancora di loro. Da quale parte si sarebbero posti se avessero dovuto scegliere fra lui e Verona? Perciò, appena venuto a conoscenza di un placito a Soncino cui avrebbero partecipato i capi del partito ghibellino e gli alleati di Cangrande, mi aveva messo in bocca un desiderio: visitare la tomba di Ezzelino, perché proprio a Soncino riposava il mio bisnonno. E in questi termini aveva scritto a suo cognato e a suo nipote, pregando quest’ultimo di condurmi

Page 169: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

con sé. Improvvisamente un ordine sgradito mutò in desiderio. Il mio pregare sulla tomba di Ezzelino avrebbe reso felici mio padre e i miei fratelli. Non solo. Il nuovo incarico era anche una nuova e indiretta conferma dell’apprezzamento per come avevo agito a Treviso.

Prima di mettermi a letto, chiesi carta e penna a uno dei custodi dell’ospizio e scrissi a Enrico degli ultimi eventi e del mio agire, già immaginando quanto sarebbe aumentata la sua furia nei confronti dei Caminesi leggendo le lettere di Rambaldo. Scrissi anche a mio padre e il mattino seguente bruciai le lettere del conte e consegnai ad Andrea quelle di Rambaldo e le mie ordinandogli di tornare subito a Gorizia. Gli diedi anche del denaro e attesi di vederlo scomparire in direzione di Pordenone. Quindi montai a cavallo e mi avviai verso Serravalle. Stetti in quel castello per tre giorni, giusto il tempo di preparare un bagaglio sufficiente a un viaggio lungo in una stagione gelida. Fui trattato con amicizia e godetti della graziosa cortesia di Verde. Quindi, il cinque di dicembre, Rizzardo e io partimmo per Soncino con una scorta di dodici armati e otto fra scudieri, valletti e servi.

Page 170: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

V

Il quattordici del mese, quando fummo a una giornata dalla meta, iniziò a nevicare. Perciò il mio ricordo di Soncino è di una chiazza di sangue coagulata nella neve. Le sue mura e torri sono di mattoni rosso cupo e del medesimo colore sono gli ornamenti d’argilla sulle facciate delle case che affiancano la via principale, su quelle delle chiese e del palazzo comunale. Attraversammo il ponte levatoio e, sotto l’arco della porta, trovammo ad attenderci un infreddolito cancelliere circondato da militi. Aveva un rotolo di pergamena tra le mani arrossate e passava indeciso lo sguardo da questo alle nostre insegne. Finalmente prese una decisione e puntò dritto su Rizzardo. S’inchinò e chiese: «Ho davanti a me il signore da Camino?».

Rizzardo annuì togliendosi la berretta di pelliccia e, battendola contro la culatta del cavallo per far cadere la neve, rispose: «Lo sono».

«Allora vi do il benvenuto a nome del podestà e dell’intero Comune. Vi faccio strada fino a palazzo Crepella, dove sarete graditi ospiti per il tempo che vorrete fermarvi.»

«Gli altri sono arrivati?»«Quasi tutti, signore, e quando vi sarete rifocillati alcuni vi attendono

al castello, dove soggiorna il signore di Milano. Il signore di Verona è ospite a palazzo Andrachi, invece il signore di Mantova…»

«Lasciate perdere. Fateci strada, qui si gela» tagliò corto Rizzardo.Il nostro ospite, uomo dalla cortesia un po’ affettata, ci accolse

cerimonioso. Doveva aver sistemato la famiglia da qualche altra parte, perché ci mise a disposizione l’intera casa e tutti i suoi servi. Ci fermammo il tempo di riscaldarci e bere una coppa di vino, quindi, scortati da due militi del Comune, Rizzardo e io ci dirigemmo a piedi e sotto la neve al castello.

Era più che altro un mastio circondato da mura, con un palazzotto sul quale spiccavano le insegne dell’impero. Sul ponte levatoio e alla porta

Page 171: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

vigilavano alcuni soldati, e altri ancora presidiavano la corte. Invece, all’ingresso del palazzo c’erano i valletti del podestà i quali, chiestici con deferenza i nomi, ci annunciarono introducendoci in una grande sala che occupava gran parte del pianterreno. Al centro, una lunga tavola con addossati dodici scranni per lato e altri due all’estremità; sullo schienale di ognuno era dipinto lo stemma di chi l’avrebbe occupato durante il placito. Davanti alle finestre avevano steso degli arazzi per trattenere il calore; la luce era quella di tre grossi lampadari pendenti dal soffitto con delle catene e quella del fuoco di un nero camino, davanti al quale sedevano tre uomini con collari d’oro e preziose guarnacche rivestite e bordate di vaio. Poco discosti da loro, in piedi attorno a un grosso braciere, ce n’erano altri tre più giovani, senza collari ma con guarnacche altrettanto ricche e aperte sul davanti a mostrare preziose cinture con appese le spade. Dalla parte opposta del salone, un cerimoniere e altri valletti in silenziosa attesa di ordini.

Riconobbi subito Cangrande e chi fossero gli altri lo capii quando si alzarono per accogliere Rizzardo. Quello piccolo, con testa e guance rasate, occhi tanto mobili da sembrare spiritati, era Rinaldo Bonacolsi. Mi fu facile intuire perché lo chiamavano Passerino: si muoveva saltellando e a scatti rapidi come se anche un solo passo pretendesse fretta, proprio come un passero. Il terzo, massiccio di corpo, quasi del tutto calvo, barba e baffi grigi, un gran naso gobbuto e occhi quieti, era Matteo Visconti, il più anziano. Trattarono Rizzardo con confidenza, informandosi sulla salute del padre, e Cangrande chiese notizie di sua nipote Verde. Poi Rizzardo mi presentò, come Corrado di San Lorenzo, cavaliere del conte di Gorizia. Matteo e Passerino si limitarono a un cortese cenno del capo, invece Cangrande mi tese la mano dicendo: «Noi ci conosciamo, vero? Eravate con il povero conte Mainardo all’assedio di Padova».

Annuii inchinandomi e poi fui preso dall’imbarazzo perché Cangrande continuava a trattenere la mia mano fissandomi in modo curioso.

«Avete combattuto anche contro di me, se certe informazioni sono giuste» aggiunse.

Lo guardai: era sorridente, l’espressione leggermente ironica. Ancor più imbarazzato trovai il coraggio di dire: «Sì, signore, a Treviso. Contro il capitano Uguccione. Ho difeso la casa che mi ospitava».

«Così giovane e già capace di esserti amico e nemico.Io me lo farei alleato» intervenne Passerino ridacchiando.

Page 172: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Non mi lasciava ancora la mano, mi fissava come se stesse riflettendo. Poi gli si illuminarono gli occhi e si volse a Matteo Visconti: «Ecco qui la soluzione al vostro problema. Sapete chi è questo giovane? È un da Romano, il pronipote di Ezzelino».L’altro afferrò i braccioli della sedia e si protese in avanti, girandosi di scatto verso di me.«È vero?» mi domandò.Nel medesimo istante, Passerino s’intromise: «Ve lo ripeto, il corpo di Ezzelino è stato bruciato da Buoso da Dovara. È cosa nota».Finalmente Cangrande mi lasciò la mano. Anche i tre uomini vicini al braciere si avvicinarono mettendosi alle mie spalle. Mi sentivo circondato. Rizzardo mi posò amichevolmente una mano sulla spalla e mi sollecitò: «Vi prego, spiegate esattamente ai vicari imperiali la vostra discendenza da Ezzelino».«Mio nonno Guido era figlio naturale di Ezzelino e ha generato mio padre Alberico» risposi.«Ma non sono tutti morti a San Zenone?» tornò a intervenire Passerino.«No, lo posso confermare. Guido è scampato al massacro e, dopo essergli stato avversario, è divenuto grande amico di mio nonno Gherardo. Ho sentito ripetere questa storia dozzine di volte» confermò Rizzardo.Guardavo di sottecchi gli altri e notai in Matteo Visconti un’agitazione che andava via via aumentando.«Allora voi lo saprete di certo. Ezzelino è stato bruciato o sepolto?» mi domandò.«Signore, c’era mio nonno con lui, e l’ha accompagnato alla tomba. Sono venuto a Soncino proprio per pregare sul suo corpo» risposi.Batté con forza entrambe le mani sui braccioli e si alzò ripetendo: «Lo sapevo! Lo sapevo! Ne ero certo!».«Solo che la tomba non c’è. Siete qui da tre giorni e da tre giorni la state cercando. Ma non c’è» disse sarcastico Passerino.

Mi sentii in obbligo di spiegare: «Mio nonno raccontava che è stato sepolto di nascosto, per sottrarre il suo corpo alle vendette dei nemici. Nell’arca di una famiglia soncinese estinta».

«Conoscete il nome della famiglia?» mi sollecitò Cangrande.«Il nome no, signore. Ma il luogo sì.»«Suvvia, allora parlate!» insistette Matteo con un tremito nella voce.«Nella chiesa di Santa Maria, in una cappella laterale, a destra di chi

Page 173: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

entra e vicino a una porticina che conduce a in piccolo chiostro.» Passerino mi si mise davanti, con un’espressione incredula sul volto: «E come si fa a capire se vi sono le ossa di Ezzelino o quelle di uno sconosciuto? Sono trascorsi più di sessant’anni».

Mi diede coraggio il fatto di dover abbassare lo sguardo per guardarlo negli occhi e dissi con voce sicura: «Mio nonno ha preteso che venisse sepolto con la spada e quello».

«Questo?» chiese Passerino toccandosi il collare da vicario imperiale con appeso un medaglione dov’era incisa un’aquila bicipite.

Annuii e Matteo disse a uno dei giovani con il naso identico al suo: «Figlio, vai subito alla chiesa, tira fuori tutti i preti che trovi e fai chiamare il podestà. Ricordo quel sepolcro dalla scritta illeggibile. Deve essere aperto prima di sera e voglio essere presente quando lo scopriranno». E rivolto a Cangrande e Passerino: «Avete qualcosa in contrario?».

Nessuno si oppose. Passerino invitò suo figlio Francesco ad andare con Galeazzo Visconti e lo stesso fece Cangrande con il nipote Cichino. I tre si misero in attesa accanto a me perché, anche se nessuno me lo chiedeva, io dovevo guidarli. Mi trattarono come un loro pari, come un amico. E scherzarono mentre, sotto un nevicare fitto e un rapido imbrunire, ci dirigevamo alla chiesa di Santa Maria. Solo che io non avevo voglia di scherzare. All’emozione di poter vedere i resti del mio grande antenato si abbinava, anzi la sovrastava, la preoccupazione che mio nonno avesse confuso i ricordi e in quella tomba giacessero scheletri sconosciuti e consunti.

Anche se l’ordine proveniva da tali potenti, farlo eseguire non fu facile. Il pievano e i suoi cappellani asserivano di aver bisogno del permesso almeno del vicario vescovile e di dover prima indagare se la tomba avesse proprietari ancora in vita. Allora Galeazzo mandò uno dei sacrestani a chiamare il podestà nel vicino palazzo del Comune. Nel frattempo lasciammo la casa presbiterale e andammo nella chiesa di Santa Maria, molto grande, antica e con tre navate. Era deserta, appena rischiarata dal lume davanti al ciborio e dalle tre lucerne appese all’arco trionfale. Il piccolo corteo, aperto da Galeazzo e chiuso da un diacono piccolo e segaligno, pareva una processione. Nere figure avvolte in pellicce e mantelli facevano risuonare sulle pietre del pavimento il passo pesante del potere, mentre altre scivolavano quasi volessero mostrare un silenzioso disappunto. Mi guardai in giro e nonostante l’oscurità, senza

Page 174: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

chiedere nulla ai preti, individuai la tomba a pochi passi dalla nicchia dove si apriva una porta dai grossi catenacci. Mi fermai a un passo dalla lastra marmorea e la indicai: «Se non ricordo male, se mio nonno non si è confuso, dovrebbe essere questa».

Rimanemmo silenziosi in attesa del podestà, in una penombra tanto cupa da non poter distinguere i lineamenti del vicino. Giunse trafelato, seguito da un cancelliere e due consiglieri. Il sacrestano doveva avergli anticipato il motivo della chiamata perché, dopo aver ripetuto «se si può vi si verrà incontro», chiese una fiaccola per controllare l’iscrizione sulla pietra tombale. Era certo, diceva, che si trattava di una tomba inutilizzata da almeno cinquantanni avendone lui sessanta e non ricordando sepolture. Il cancelliere e i consiglieri annuivano e confermavano. Gli portarono una fiaccola ed egli illuminò l’iscrizione: sospirando, soffiando, facendo pause e borbottando, passò l’indice sulle lettere consumate da migliaia di passi e quindi si rivolse al cancelliere: «Controllate anche voi, ser Battista. Credo ci siano scritte le parole odoricus cremensis. Mai sentito nominare. Il secondo numero della data mi pare un due».

Il cancelliere ci mise più tempo e attenzione, quindi sentenziò: «Odoricus Cremonensis et, con la data 1231. Il resto non si legge».

«Reverendissimo, per me si può aprire» decise il podestà.Il pievano capitolò: «Non sarò io a oppormi se a voi va bene e se è per

rendere onore a un amico del signore di Milano. Domani chiamerò…».«Non domani. Deve essere fatto subito» lo interruppe Galeazzo.Ci fu un’ulteriore discussione, ma alla fine un cappellano andò a

chiamare i becchini e un altro i vicari imperiali. Arrivarono quasi contemporaneamente, e mentre i primi toglievano con lo scalpello la sporcizia accumulata fra la lastra e il pavimento e negli anelli in cui passare le corde, i secondi si disposero attorno alla tomba. Pregavo con la mente, agitato per il macabro spettacolo che avrei avuto presto davanti e per paura di apparire bugiardo. Mi stava nascendo dentro una frenesia, il desiderio di poter anche solo toccare un osso di chi, fino a quel momento, era stato nella mia casa e nella mia vita una presenza costante seppur invisibile. Il poter essere il primo, dopo mio nonno, a toccare Ezzelino stava diventando un’impellenza.

Finalmente i quattro becchini passarono le corde negli anelli, le legarono a due grosse pertiche e cominciarono a issare, due per parte. La lastra resistette, poi si mosse stridendo. Si alzò da un lato e dall’altro

Page 175: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

dondolando. I becchini piegarono le ginocchia, si misero le pertiche in spalla e sollevarono la lastra di due palmi. All’ordine di uno, fecero un passo in avanti e i preti si scostarono. Due passi, tre, e con un colpo sordo, quasi un boato, poggiarono la lapide sul pavimento. Per alcuni attimi si udì solo l’ansimare dei becchini. Gli sguardi di tutti erano piantati nel rettangolo nero del sepolcro aperto. Avanzai e guardai dentro. Non si vedeva nulla. Matteo Visconti strappò la fiaccola di mano al podestà, si inginocchiò sul bordo della tomba, allungò il braccio dentro e guardò.

«Mio Dio onnipotente e misericordioso!» esclamò.Non mi mossi. Gli altri mi passarono davanti e ci furono esclamazioni

di sorpresa, di timore. Il pievano si fece il segno della croce e si ritirò con un balzo. Uno dei cappellani si mise entrambe le mani aperte davanti alla bocca. Passerino disse: «Non può essere. Quest’uomo non può essere stato sepolto sessant’anni fa».

Cominciavo ad aver paura, ero frastornato e non avevo il coraggio di farmi avanti. Sentii una mano afferrarmi per un braccio e tirarmi. Era Matteo Visconti, e mentre lo faceva sussurrò: «Figliolo, guarda».

I bagliori della fiaccola facevano sembrare il sepolcro un forno fiammeggiante. In fondo, su un letto di ossa scomposte, giaceva un uomo come se dormisse. Il volto, circondato da una fitta barba rossastra, era legnoso, color del cuoio vecchio, con i lineamenti ben scolpiti. E così le mani incrociate sull’elsa della spada. Di una gamba, dove la tunica era marcita, si vedeva la rotula; l’altra pareva non esserci. Sul petto luccicava un collare con il medaglione d’oro e sul capo calvo c’era un cerchio anch’esso d’oro. Mi parve di avere davanti la mummia di mio zio Rosso, la stessa forma del volto, lo stesso naso. Dentro di me gioia, commozione e timore; tutti assieme mi davano dolore. Non riuscii a trattenere un singhiozzo e caddi in ginocchio. E s’inginocchiarono pure Cangrande e Passerino. Matteo quasi gridava: «Ecco, ecco la prova delle menzogne! Il suo corpo incorrotto ne è la prova. Non un tiranno, ma un santo. Sì, Ezzelino era un santo. Altrimenti l’Onnipotente non avrebbe preservato il suo corpo dalla dissoluzione e dai vermi!».A udire il nome di Ezzelino, i preti si ritrassero in gruppo nella navata

centrale e quando ebbi ripreso il controllo di me vidi Matteo raggiungerli e parlare animatamente con loro. A un tratto ci girammo tutti, perché lo sentimmo urlare: «Come osate chiamarlo tiranno e

Page 176: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

scomunicato?».Lo raggiunsi rapido, senza che nessuno me lo chiedesse, e guardando

negli occhi il pievano dissi: «Reverendo padre, mio nonno era qui e ripeto le sue parole. Sulla mia anima. Prima di morire Ezzelino si è confessato ed è stato assolto. Da un frate di Padova, da un custode della tomba del santo Antonio».

Il pievano agitò le mani davanti al viso, come a scacciare una bestemmia.

«Non basta la vostra parola, signore. Non basta!» ripeté.Intanto anche Cangrande si era avvicinato e, dopo aver ascoltato, mise

una mano sotto il mantello, ne estrasse una borsa piena di monete, l’agitò per far udire il tintinnare dell’oro e la tese al pievano dicendo con voce melliflua: «Per i poveri, pievano».

Arrivò pure Passerino e anche lui tese una borsa: «Per tutti i lumi, i ceri e le candele che riuscirete a portare qui. Subito».

Il pievano si fece altero, si rizzò sulle spalle e disse: «Però a porte chiuse. Credo a questo giovane cavaliere, ma a una parte del popolo di Soncino potrebbe sembrare un sacrilegio».

«Il sacrilegio lo fate voi… e se non ubbidite potrei farlo io» gli gridò Matteo Visconti mettendo il suo viso a un palmo da quello del povero pievano, il quale impallidì a tal punto che temetti di vederlo stramazzare a terra.

In breve attorno alla tomba ci fu ogni tipo di luminaria e la chiesa risplendeva tutta. Il pievano e i suoi cappellani, indossati i paramenti sacri, recitarono preghiere sul corpo del mio bisnonno, seguite da una messa solenne. Si era fatta notte alta e prima di richiudere il sepolcro ci misero una scaletta e uno alla volta scendemmo per recitare una preghiera toccandolo. Scesi per ultimo e rimasi a lungo. Volli imprimermi nella mente il volto di Ezzelino che ancora oggi è scolpito in me come nella pietra. Appena risalito, Matteo mi sussurrò: «Volete la spada del vostro avo? Vi spetterebbe di diritto».

Il desiderio di averla era forte. Ma ciò che è dei morti deve restare ai morti, così mi avevano insegnato, e con grande delusione del signore di Milano, pronto a prendersi anche lui una reliquia, dissi di no. Da quel momento tutti i presenti al placito mi trattarono da amico. Non importava se loro erano signori di città e castelli e io un giovane cavaliere nato in uno sperduto luogo del Friuli; ero carne e sangue di Ezzelino, l’erede di uno dei loro dei. La giovane età e l’incoscienza che sempre

Page 177: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

l’accompagna resero facile adeguarmi e non provai disagio per tanto onore.

Del placito dirò poco altro e anche oggi, ripensandoci, mi stupisco della capacità di un diciassettenne di cogliere ogni sentore di trame. Dagli sguardi, dai sussurri, dalle mezze parole percepii una sottile tensione fra Cangrande e gli altri, come se dubitassero della sua fede ghibellina. La conferma dei miei sospetti venne al momento di eleggere il loro capitano generale. Si dava per certa l’elezione di Matteo Visconti, essendo il più anziano e l’unico in grado di rivaleggiare con il veronese in potere e ricchezza. Invece, fu lo stesso Matteo a pretendere l’elezione di Cangrande e quando fu ratificata sorrise beato, come chi è riuscito a riportare nella stalla un destriero fuggito. A quel punto il dissociarsi di Cangrande dalla lega ghibellina, perché questo molti temevano, sarebbe stato un tradimento pari a quello di Giuda. Soprattutto dopo aver incassato i dodicimila fiorini l’anno che la nomina portava con sé.

Mentre stetti a Soncino andai ogni giorno a pregare sulla tomba di Ezzelino. Lo stesso fecero gli altri e Matteo, prima di ripartire per Milano, lasciò una grossa somma al podestà per far scolpire una nuova lastra con il nome di Ezzelino e parole capaci di onorarlo come uno dei grandi della Storia. Le cose purtroppo andarono diversamente. Matteo venne perfino inquisito dal papa a causa del suo agire e la lapide non fu mai scolpita.

Non tornai a Treviso. Andai a San Lorenzo per trascorrervi il Natale e raccontai di Ezzelino e degli onori voluti da Matteo Visconti creando in tutti una grande commozione. Da casa scrissi al conte ciò che mi era sembrato di percepire e, soprattutto, l’impressione di un Rizzardo da Camino completamente nelle mani di Cangrande. Poi, passata l’Epifania, tornai a Gorizia.

Page 178: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

VI

Riferii di Soncino mentre Enrico mi fissava con una strana espressione sul volto. Alla fine, come parlando più a se stesso che a me, chiese: «Come fa uno come te, così giovane intendo, ad avere queste furbizie politiche?».

Non sapendo cosa rispondere, buttai là: «Molto lo devo a Sebastiano, l’uomo messomi accanto da vostro cognato».

«Già, anche questo è un mistero. Probabilmente quell’uomo avrebbe dovuto usare te per controllare me e invece ti è diventato vassallo. Hai una strana capacità di farti amare, Corrado. Mio figlio, mia moglie, perfino il severo Giovanni di Pisino ti hanno preso sotto la loro protezione. Anche l’abate di Rosazzo mostra parecchio interesse nei tuoi confronti… dopo che mia moglie ha rinunciato a far costruire a Gorizia un convento francescano. Ma stai attento, i nemici sono altrettanto numerosi. C’è parecchia invidia attorno a te.»

Non capii come prendere quelle parole e la situazione si chiarì solo nei giorni successivi. Il conte mi volle a cena con lui per due sere. Durante la prima mi aggiornò sulla situazione a Treviso. Ormai era sotto la protezione di re Federico, rappresentato da Ermanno Guelfoni di Gubbio, mutato da podestà a vicario imperiale. Dopo un viavai di ambasciatori dalla Marca alla Stiria e viceversa, gli interventi di Venezia e del legato pontificio, Cangrande era stato obbligato ad accettare una tregua fino ai primi di marzo. Ma aveva lasciato sul posto il suo cane da guardia. Quando i trevigiani avevano cercato di recuperare i castelli occupati durante l’assedio, si erano trovati davanti Guecellone da Camino che ne aveva fatto strage nei pressi di Oderzo. Inoltre, il tanto promesso aiuto militare del re non era mai giunto e a Treviso regnava l’avvilimento. Durante la seconda cena mi aveva esposto il suo piano per far propria la città e la Marca. Dovevo tornare a Treviso e continuare la mia opera di persuasione, informare i miei amici che lui e le sue truppe

Page 179: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

erano pronte per aiutarli. Giocando però su due tavoli. Se al momento non era ancora ben accetto, bisognava preservare gli accordi con il re. Ci avrebbe pensato suo cugino a convincere quest’ultimo a nominarlo nuovo vicario. Non era forse l’unico del quale poteva veramente fidarsi? Mi volle anche spiegare perché tenesse così tanto alla signoria di Treviso. Dava sicurezza a un confine della Patria sempre turbolento, in grave pericolo a causa della posizione presa dai da Camino. Se Cangrande metteva le mani sulla Marca con il loro aiuto, avrebbe iniziato subito a guardare alla Patria del Friuli come nuova terra di conquista e il conte si sarebbe ritrovato il veronese alle porte di casa.

Stetti a Gorizia fino ai primi di febbraio patendo per una guerra senza armi con Ugo. Era ormai vicino a sostituire il padre e aveva un gran potere al castello. Rancori e odio nei miei confronti non si erano spenti e non perdeva occasione per stuzzicarmi con atteggiamenti molto vicini all’insulto. Lasciai cadere ogni provocazione cercando di mostrare indifferenza e ciò lo rese ancora più rabbioso. Per evitare di essere costretto prima o poi a reagire, dedicavo la maggior parte del mio tempo alla contessa. Era incinta, di una gravidanza senza gioia, e soffriva di continue nausee. Per questo lasciai il castello preoccupato e un po’ infelice, nonostante Enrico mi avesse raddoppiato l’appannaggio. Stetti a casa mia una settimana e il dieci febbraio 1319 tornai a Treviso con lettere segrete del conte per Rambaldo da Collalto.

Il sole, riflettendo sulla neve caduta fino a due giorni prima, accecava; e come le bende nascondono le ferite, la distesa bianca faceva apparire meno cruenta la distruzione. Solo quando giunsi nei pressi della città mi resi conto di ciò che aveva subito. Alcune delle porte erano state murate; dei borghi di San Zenone, San Bartolomeo e di Santa Maria Maggiore restavano solo ruderi e mozziconi di travi bruciate. Del borgo di San Tommaso sopravviveva il bastione circondato da trincee da poco scavate fra le macerie, e ogni altro fabbricato era stato abbattuto, tanto da renderlo un corpo separato dal resto della città. Una volta dentro le mura non trovai l’avvilimento riferitomi da Enrico, bensì la disperazione.

La vidi negli occhi di Antonio Cappello, uno dei miei amici, intento a presidiare con altri cavalieri la porta dei Santi Quaranta. Se ne stava là, armato di tutto punto nonostante la febbre causata da una piaga che faticava a guarire. Gli era venuta per un morso di topo, nelle segrete del castello di Serravalle, dove Guecellone da Camino lo aveva rinchiuso con altri in attesa di riscatto, dopo la sconfitta di Oderzo. Ci demmo

Page 180: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

appuntamento per la sera in ciò che era rimasto del palazzo Caminese.Aveva subito un secondo saccheggio e una parte del tetto era bruciata. Di integra rimaneva unicamente la foresteria e solo perché Sebastiano aveva giurato e spergiurato che io l’avevo riservata agli eventuali ambasciatori del re, del duca di Carinzia e del conte di Gorizia. Attraversando le vie e gli slarghi avevo notato quanto i trevigiani fossero provati dalla fame. Dalla campagna non arrivava più nulla perché nulla c’era; il poco ancora sul mercato lo si pagava a peso d’oro e ciò che il Comune era riuscito a comprare dai mercanti veneziani era razionato; le riserve per un eventuale assedio erano ridotte al minimo. Le restrizioni non riguardavano solo la gente comune. Anche i pochi nobili in cui m’imbattei erano ridotti male, magri e pallidi, gli abiti, anche quelli delle dame, privati degli ornamenti d’oro e d’argento, sacrificati per pagare le imposizioni straordinarie, le riparazioni delle difese, il sostentamento delle milizie. Ma quando ebbi davanti Sebastiano rimasi allibito. Era ridotto a nulla, con i piedi e le mani pieni di geloni, la pelle del viso spaccata dal gelo, gli occhi infossati in profonde orbite nere. Le vesti gli cascavano dalle spalle rinsecchite ed erano poco più di stracci, le scarpe tenute assieme da strisce di pelle.

Come mi vide, cercò di mostrare la sua gioia con un sorriso che subito mutò in una smorfia di dolore. Si portò le mani alla schiena torta e vacillò. Lo sorressi, esclamando: «Mio Dio, perché non siete tornato da Guecellone!».

«Io servo voi, non il traditore» rispose.Avevo nella bisaccia lardo salato, carne secca, un mezzo cacio e due

azzimi. Li tirai fuori e glieli misi davanti obbligandolo a sedere a tavola. Si schermì, non voleva assolutamente accettare, sosteneva che la mia sopravvivenza era più importante della sua. Raccontandomi di come gli avevano rubato il denaro affidatogli da me, i suoi occhi si riempirono di lacrime per la vergogna. Né si rincuorò mostrando la mia armatura messa in salvo sotto un tino vuoto. Alla fine dovetti imporglierlo e lui mangiò, ma solo un terzo di quanto aveva a disposizione. Lo convinsi a finire tutto dicendogli di aver bisogno di lui non solo perché era l’unico in grado di trovare altro cibo, ma anche perché mi servivano i suoi consigli. Gli misi accanto al tagliere un borsello di denaro e poi lo lasciai solo perché non volevo umiliarlo guardando l’animalesca bramosia con cui spezzava il pane e tagliava le fette di lardo.

Feci un giro attraverso la desolazione del palazzo, quindi andai a casa

Page 181: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

degli uomini che lo custodivano e pulivano. Al principio temettero che volessi punirli per quanto era accaduto, si prostrarono chiedendo perdono e asserendo di non avere colpe. Non c’era odore di cibo neppure nella loro casa, e le donne e i bambini sembravano mendicanti. Da mesi non ricevevano più denaro da Guecellone e allora, allungandogli alcune monete d’argento, dissi loro di considerarsi al mio servizio e di provvedere subito a trasformare in legna da ardere ciò che nel palazzo non era recuperabile.

Al calare delle tenebre, mentre mi preparavo ad andare a letto digiuno, udii picchiare con forza il battente alla porta. Temendo dei malintenzionati, ordinai a Sebastiano di restare seduto accanto al camino, finalmente abitato da robuste fiamme grazie a un tavolo e due sedie rotti e che il vecchio valletto non aveva osato utilizzare. Presi la spada e andai all’uscio.

«Chi è là?» domandai senza aprire.«Amici!»Riconobbi la voce di Francesco da Collalto e aprii. Neppure lui se la

passava bene, anche se non era patito come gli altri. Giacomo da Caseria, Alessio Calza e Alberto della Vazzola non dovevano riempirsi la pancia da parecchie settimane, e la ricchezza delle loro vesti era ridotta al semplice tessuto avendo strappato fino all’ultimo bottone o ricamo prezioso. Ci abbracciammo cercando di mostrare allegria, ma la recita durò poco. Chiesi di Antonio Cappello e loro, dopo essersi scambiati uno sguardo mesto, mi dissero che neppure un’ora prima era stato colto da un malore e l’avevano dovuto portare a casa a braccia.

Il cibo e un po’ di vero calore erano bastati a ridare forza e vivacità a Sebastiano. Si scusò con i miei ospiti di non avere nulla in casa da offrire e si ritirò nella sua cameretta. Così, seduti mestamente davanti al fuoco, cercammo di aggiornarci sulle ultime vicende. Non ci volle molto perché la loro rabbia usciva dall’animo e infiammava le parole. Erano delusi da un re prodigo di pergamene con privilegi di ogni tipo, sempre pronto a inviare solo illustri ambasciatori pieni di belle parole e buone intenzioni.

«Dove sono le truppe? Dove gli aiuti?» sbottò Alessio Calza.«Cosa ce ne facciamo di un’università se non abbiamo neppure da

mangiare a sufficienza?» rincarò Giacomo da Caseria.«Tra poco scade la tregua con Cangrande. Chi facciamo combattere? I

morti?» s’infuriò Alberto della Vazzola.Francesco si protese verso di me poggiando una mano sul mio

Page 182: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

ginocchio: «Amico mio, non ce l’abbiamo con te. I tuoi suggerimenti erano senz’altro giusti, all’inizio sono parsi la salvezza. Ma come fidarsi di chi non mantiene le promesse?».

Cercai di spiegare la situazione, raccontai ciò che sapevo della guerra fra Federico e Ludovico di Baviera per l’impero, li invitai a tener duro ancora per qualche settimana. E tornai a parlare di Enrico, dell’esercito che in pochi giorni avrebbe potuto inviare in città con rifornimenti sufficienti almeno a non patire la fame. Lo feci, e me ne vergognai, in modo subdolo. Ponendo i fatti come eventualità lontane, nel caso al re fosse stato realmente impossibile agire come aveva promesso. Avanzando e ritraendomi, lodando e criticando, mettendo davanti a tutto la mia ferrea volontà di rimanere a Treviso per condividerne il destino. E, se mi fosse stato permesso, di combattere fino a dare la vita per la città dei miei antenati.

Non li convinsi, erano troppo amareggiati. Però il nome di Enrico tornò a girare e di quel nome fece vanto Sebastiano con gli altri servitori il giorno successivo, comprando al quintuplo del loro prezzo un quartarolo di sorgo, un cacio duro come un sasso, cinque libbre di stopposa carne di castrato e una secchia di vino scadente. Mentre lui cercava di approvvigionare la dispensa, fui convocato da Ermanno Guelfoni, il podestà. Mi ricevette nel palazzo piccolo del Comune, nella sala del Consiglio degli Anziani, e dopo avermi sottoposto a una vera e propria inquisizione mi permise di partecipare alla difesa della città. Non dovetti attendere molto per indossare l’armatura. All’alba del ventisettesimo giorno di marzo giunse al galoppo una delle vedette mandata a vigilare sulle strade principali. Senza fiato e con il terrore in volto annunciò che cinquecento cavalieri e trecento fanti scaligeri erano usciti la sera precedente da Vicenza, al comando del capitano Cittadino da Rimini. Lungo la strada si erano associati almeno altri cento cavalieri e cinquanta fanti e stavano puntando a ranghi serrati su Treviso. Cangrande aveva rotto la tregua.

Ermanno Guelfoni chiamò il popolo alle armi facendo suonare a martello tutte le campane della città. Indossai in fretta l’armatura leggera, mi appesi alla cintura spada, daga e azza e, afferrato lo scudo, mi recai al palazzo del Comune per unirmi agli amici. In quell’ultimo mese, metà dei feriti erano morti e l’altra metà, seppure guarita, non aveva ancora riacquistato del tutto le forze. Gli uomini d’arme e di esperienza, in grado di affrontare il nemico in campo aperto, non superavano i

Page 183: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

trecento. Pochi di più, i cavalieri e i fanti con esperienza di battaglia, da usare come riserva. Solo i balestrieri e gli arcieri dislocati sulle mura e le torri erano in numero apprezzabile. Così, guardandomi attorno, capii subito che la situazione era grave. Mantenendo i presidi alle porte e organizzando le squadre da spostare da un lato all’altro per difendere le mura da assalti, rimaneva ben poco da utilizzare per una sortita e ricacciare indietro il nemico almeno per il tempo indispensabile a riparare ciò che aveva guastato. Senza dimenticare che le truppe scaligere erano pasciute, mentre le nostre erano appena nutrite e con cibo di pessima qualità.

Cittadino da Rimini piantò il suo campo a un miglio da Treviso. Sul mezzodì, a capo scoperto e con la bandiera spiegata, tenendosi a distanza di sicurezza dai tiri di balestra, fece con i suoi aiutanti un giro attorno a tutta la città per individuare le difese più deboli. Ermanno Guelfoni e Rambaldo da Collalto lo spiarono dalle mura e non gli fu difficile notare la particolare attenzione riservata alle mura presso borgo San Tommaso, ancora lesionate dai colpi di catapulta o fresche di malta. Avrebbe attaccato sicuramente da quella parte. Il consiglio di guerra discusse fino al vespro e, per quanto si contassero e ricontassero gli uomini a disposizione, non riuscì a trovare il modo di coprire il lato in pericolo senza sguarnirne un altro.

Come sempre, quando il pericolo è grande, grandi sono i sacrifici. Le famiglie nobili trevigiane presero una decisione dolorosa: mettere in campo i figli fino a quel momento tenuti al sicuro, non importa se erano ancora scudieri o cavalieri freschi di nomina. Così, a sera, si riunirono davanti al duomo ottanta giovani dalle armature nuove e io e i miei amici ci ritrovammo a essere i più anziani del gruppo. Avevano quindici o sedici anni, qualcuno di meno, e anziché essere impauriti apparivano entusiasti e pieni di frenesia. Le parole di Ermanno, che li invitò alla prudenza mettendo loro davanti la possibilità di perdere la vita, non li acquietarono. Si misero in ginocchio con aria grave e, dopo aver ricevuto dal vescovo la benedizione e un’assoluzione generale, si incolonnarono con la medesima gaiezza di chi va a una festa. Ai bordi della piazza cerano le loro famiglie, padri irrigiditi dal dolore, madri in lacrime, fratelli e sorelle impauriti. Ma passandogli accanto li salutarono scherzando, preoccupati solo di tenersi lontani dal fumo delle fiaccole per non annerire le loro sgargianti e colorate copricotte nuove.

Io, Francesco da Collalto e altri amici, dei quali uno solo superava i

Page 184: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

diciotto anni, stavamo a osservarli raggruppati in un angolo della piazza. Ermanno Guelfoni venne da noi e ci raccomandò di tenerli calmi, di obbligarli a rispettare i suoi ordini perché solo così avrebbero avuto una possibilità di scampare alla morte.

«In tutto siamo un centinaio» concluse. «Se gli scaligeri attaccheranno dove andremo ad appostarci, il nostro compito sarà di resistere finché non usciranno i rinforzi e arcieri e balestrieri si saranno concentrati da quella parte. Perciò, signori, nessun colpo di testa. Ognuno deve badare unicamente a preservare la propria vita e quella dei compagni facendo da barriera agli assalitori. Resistere, resistere, null’altro. Che Dio abbia misericordia di noi.»

Vi era poco più di mezza luna e alla sua fioca luce uscimmo dalla città due ore dopo la mezzanotte e ci appostammo nelle trincee attorno al bastione di San Tommaso, mentre i trenta balestrieri che ci avevano seguiti si andarono a porre in cima al bastione disponendosi in modo da garantire un lancio costante di verrettoni. A parte due file di pali aguzzi puntati contro gli assalitori, la nostra unica difesa erano i poveri resti del borgo. Una volta al riparo, imprecando di continuo per tener quieti e zitti i giovani compagni, attendemmo l’alba e, appena schiarì il tanto da poter vedere a duecento passi, il nemico attaccò. I primi a comparire furono tre dozzine di guastatori con scale in spalla, seguiti da un centinaio di fanti con lancia e scudi lunghi. Mi sporsi da uno spuntone di muro e vidi, distanziata di un centinaio di passi, una seconda ondata. Oltre, appena visibile nella foschia del mattino, una terza. Di Cittadino da Rimini e della cavalleria nessun segno. Ma sapevo che appena si fossero accorti di noi ci sarebbero piombati addosso. Nello stesso istante in cui mi ritraevo nella trincea e sguainavo la spada, udii Alberto della Vazzola gridare: «Attenti, pavesari a destra e a sinistra!».

Tornai a sporgermi e li vidi avvicinarsi di corsa, nascondendo dietro i grandi e spessi scudi i balestrieri e gli arcieri. Dalla cima del bastione e dalle mura più vicine iniziò una pioggia di frecce e verrettoni sulla prima linea ed Ermanno diede ordine all’araldo di suonare il corno per avvisare i rinforzi di accorrere da quella parte. I giovani dietro di me e ai lati erano al massimo della frenesia e continuavano a chiedere se era il momento di uscire. Non fu facile tenerli fermi. Ma a un tratto Ermanno ordinò: «Balestrieri, puntate sui pavesi! Fuori, a fermare la prima linea!».

Uscimmo dalle trincee urlando e ci scontrammo con i fanti in un

Page 185: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

assordante clangore di scudi che cozzavano l’uno contro l’altro. Li costringemmo alla ritirata in un tempo brevissimo e all’ordine di Ermanno tornammo di corsa nelle trincee, riuscendo incredibilmente a non lasciare morti sul campo.

«Qualcuno è ferito?» gridò il nostro comandante.«Solo graffi!» risposero alcuni.Guardai i più vicini a me. Erano rossi in volto e ansanti, un paio

avevano delle lacerazioni alla cotta e a uno avevano spezzato il coprinaso, ma non mostravano paura. Anzi, qualcuno ghignava ripetendo: «Dai! Dai! Torniamo fuori! Ammazziamoli tutti!».

Scossi la testa sconsolato e attesi la seconda ondata. Uscimmo di nuovo e rientrammo con due feriti. Alla terza lasciammo il primo morto, Giulio di Ecelo, sedici anni. Eppure, anziché perdere coraggio, quei giovani si fecero ancor più coraggiosi. Poi ci fu il silenzio. Nessun urlo, non i colpi sordi dei verrettoni che avevano fessurato anche il mio scudo. Un silenzio incomprensibile e mortale. Un balestriere gridò da sopra il bastione: «Si stanno ritirando! Si stanno aprendo come…».

Tacque all’improvviso e precipitò morto a pochi passi da me, con una freccia piantata nel collo. Tornai a sporgermi. I fanti erano arretrati a destra e a sinistra per liberare il campo. I pavesari avevano serrato i ranghi lasciando fra di loro solo lo spazio sufficiente ai lanci dei balestrieri che riparavano. Sul bastione iniziarono a cadere dardi, udimmo grida di dolore e poi la voce di Ermanno: «Cittadino sta per attaccare con la cavalleria! Nessuno esca! Tra un po’ arrivano i rinforzi! Tutti fermi!».

Prima si udì il rumore degli zoccoli, poi un frastuono, e Cittadino comparve alla testa di almeno duecento cavalieri armati chi di lancia corta, chi di spada, chi di scure. I giovani si sporsero e iniziarono a dire: «Perché stiamo qui? Quelli ci massacrano. Usciamo e moriamo con onore».

Ermanno tornò a gridare: «Fermi! Non uscite!».Fu tutto inutile. Quando Cittadino e i suoi furono a cinquanta passi e il

nemico smise di dardeggiarci per non colpirli, con un sol grido i giovani balzarono fuori dalle trincee, le spade alzate. Cercai di trattenerne un paio afferrandoli per la copricotta, poi non restò che seguirli. Erano furie scatenate, e la follia della giovinezza compensò l’inesperienza. Paravano di scudo e colpivano di spada, senza arretrare di un passo. Recidevano i tendini ai cavalli, gli affondavano le lame nei fianchi in uno schizzare di

Page 186: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

sangue e un nitrire disperato, e appena un animale cadeva o piegava le ginocchia si avventavano sul nemico in difficoltà e lo trafiggevano. Accadde l’incredibile e ancor oggi i menestrelli e i poeti cantano le loro gesta. I giovani eroi combatterono con tale audacia da impossessarsi della bandiera nemica e far ruzzolare a terra lo stesso Cittadino, travolto dal suo cavallo. Poi, nonostante le grida di Ermanno che li invitava ad arretrare, si presero la vita di almeno venti dei cavalieri che avevano circondato il loro comandante per difenderlo. Non ero lontano. Cittadino, cadendo, aveva perso la barbuta e stupore e paura gli deformavano il viso. Appena riuscì a sollevarsi e a montare un cavallo scosso, ordinò la ritirata e tale fu il suo spavento che subito tolse il campo e riparò a Montebelluna.

Sul campo rimasero più di cento nemici e, purtroppo, metà dei nostri fra i quali i miei amici Alberto della Vazzola e Giacomo da Caseria. Io persi la prima falange del mignolo destro e il medesimo colpo di spada mi lacerò il braccio dalla spalla al gomito. Francesco aveva elmo e cappuccio spaccati sulla guancia e dalla ferita si intravedevano i denti. Eppure il suo primo pensiero fu di prestare soccorso ai feriti. Non dimenticherò mai il tripudio dei ragazzi mentre, coperti di sangue, rientravano in città sventolando orgogliosamente la bandiera scaligera e quella di Cittadino, né le urla strazianti delle madri che non vedevano fra essi i loro figli.

Ripresi l’uso del braccio in meno di un mese, ma l’aver perso una seppur piccolissima parte di me, il pensarla abbandonata in qualche angolo di borgo San Tommaso, mi rivoltò l’animo. Ebbi incubi per molte notti. Vedevo la falange putrefatta strisciare in cerca di me come un immondo verme, tentare di riattaccarsi al moncherino per far marcire l’intero mio corpo. Mi svegliavo madido di sudore, senza fiato, come soffocando. Ebbi paura di dormire da solo e mi procurai una prostituta per avere compagnia. La tenni con me quattro notti finché, sentendomi lordo del peccato della carne, andai a espiare rinchiudendomi in San Francesco. Quella fu la prima volta, poi, come ho già detto, divenne per me un rito dopo ogni grande rischio.

Page 187: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

VII

La soddisfazione per la vittoria durò poco. Il giorno seguente, quando ormai la si dava per catturata o uccisa, l’ultima ambasceria trevigiana rientrò da Graz con pessime notizie. Re Federico non era in grado di mandare alcun aiuto. Non solo: aveva dichiarato Ermanno decaduto da vicario ed eletto al suo posto Enrico, duca di Carinzia. Ormai i trevigiani sentivano di non avere speranza. Cangrande e i suoi sarebbero arrivati, gli aiuti promessi mai. Scoppiò un grande dissidio nel Consiglio dei Trecento e la città si spaccò in due. Io continuavo con ancora più foga la mia azione a favore del conte Enrico. Ma egli era danneggiato dal comportamento del re e del duca e dovetti patire una sconfitta in apparenza definitiva. Chi voleva assolutamente trattare con Cangrande, offrirgli una resa purché onorevole, divenne maggioranza e a nulla servirono le perorazioni di Rambaldo da Collalto. Lui stesso fu obbligato ad andare a Verona a umiliarsi assieme a Tolberto de Berardo e Bonapasio di Ecelo.

Non giocò a mio favore neppure il fatto che, dopo uno scambio di lettere fra Rambaldo ed Enrico, quest’ultimo si fosse immediatamente mosso verso la Marca trevigiana con settecento cavalieri e trecento fanti, senza attendere una chiamata ufficiale. Un errore tattico peggiorato dalla risposta data a chi si era recato da lui a chiedere il perché dell’azione. L’ambasciatore tornò riferendo queste parole: «Vengo in vostro aiuto ma, se volete che vi difenda da Cangrande, prima dovete assoggettarvi a me».

Sembrò una minaccia, uno sfregio alle decisioni del re e un desiderio di scavalcare il cugino. Per fortuna nostra, a rimettere tutto in gioco, ci pensò lo stesso Cangrande. Ricevette con grazia e rispetto la prima ambasceria cui dettò le condizioni di resa, ma, quando la vide ricomparire dopo una settimana a chiedere migliorie a favore del Comune, la cacciò in malo modo, con minacce, e aggiungendo ulteriori

Page 188: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

aggravi. L’orgoglio umiliato dei trevigiani vinse sulla paura: meglio resistere fino alla morte piuttosto che diventare schiavi di Verona. Allora, grazie a Rambaldo, mi fu permesso di parlare davanti sia al Consiglio dei Trecento sia a quello degli Anziani.

Più delle mie parole valse una constatazione: davanti alla morte o alla schiavitù, Enrico di Gorizia rappresentava l’ultima, fragile speranza. Rischiosa, ma pur sempre una speranza. Preceduta da me, il giorno seguente, l’ambasceria umiliata a Verona raggiunse il campo del conte a Conegliano ed Enrico offrì tali condizioni da commuoverla. Dichiarò di voler essere solo il protettore di Treviso, di essere pronto a giurare che non avrebbe mutato nulla nel governo, ma conservato tutti gli statuti, i privilegi e i diritti del Comune. Il sei di giugno dell’anno 1319 il Consiglio Generale deliberò di darsi al conte, e subito Enrico lasciò Conegliano per accamparsi a due miglia da Treviso.

Fece il suo ingresso ufficiale in città indossando una sopravveste intessuta d’oro, dallo strascico lungo bastante a coprire il posteriore del cavallo, con in testa la berretta comitale e guanti in seta rossa. Cavalcava avanti a tutti, con alle spalle Ugone di Duino e Federico conte di Schiavonia; veniva poi il gonfaloniere con la bandiera goriziana e, di poco arretrato, io con quella della Patria. Dietro di noi, i sei capitani dell’esercito e i dodici cavalieri aurati in armatura da parata e lunghe lance dipinte. Ad accoglierci a porta Montoria c’erano il vicario del podestà, gli anziani e i consoli seguiti dal gonfalone e dalle bandiere comunali e la milizia. Enrico smontò da cavallo e abbracciò il vicario e gli anziani a uno a uno ed essi lo chiamarono “signore nostro”. Dentro le mura la folla lo acclamò, le campane suonarono a stormo e dal loggiato superiore del palazzo comunale squillarono le trombe. Davanti al duomo Enrico ricevette la benedizione e l’abbraccio del vescovo Salomone e s’insediò nel suo palazzo in attesa di poter restaurare quello caminese di borgo Sant’Agostino.

Non sto qui a raccontare delle feste, dei tornei e degli onori. Anticipo solo con poche parole quanto accadde nei mesi seguenti. Re Federico nominò Enrico suo vicario, Cangrande ricevette un’ambasceria del conte e fu costretto alla pace, e tanto erano contenti i trevigiani del loro nuovo signore che anche i padovani lo invocarono come protettore. Lui rifiutò e li spinse a mettersi sotto la protezione diretta del re. Essi accettarono e ricevettero come vicario il signore di Walsee, capitano della Stiria. Così Cangrande dovette accantonare le sue mire anche su quella città.

Page 189: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Ora, le mani libere dalle vicende degli altri, potevo dedicarmi alle mie. Il conte, dopo avermi espresso in privato il suo apprezzamento accompagnando le parole con ottocento fiorini, mi lodò e onorò anche in pubblico. Con il denaro comperai una casa in città, fra quelle possedute un tempo dai miei antenati e confiscate dal Comune dopo la morte di Alberico ed Ezzelino, e l’affidai a Sebastiano. Per oltre un mese vissi fra banchetti e tornei, omaggiato e corteggiato, godendo della spensierata felicità di chi sta per compiere diciotto anni. Un solo dolore turbò la mia vita: la contessa Beatrice partorì una bambina che morì nell’arco di cinque giorni. E venne l’inizio di settembre, quando il conte Enrico mi richiamò al dovere usandomi a suo beneplacito nelle trattative con Cangrande e i Carraresi. Per tutto l’anno 1320 potei tornare a casa una sola volta. Allo stesso modo passarono anche i primi mesi del 1321, e a ripensarci oggi quasi non mi raccapezzo. La mia esistenza sembrava non avere altro senso che quello di servire i potenti e accumulare denaro. La chiesa era una noiosa abitudine, gli affetti subordinati all’utile, le amicizie, a parte Francesco da Collalto, ridotte a mere conoscenze rivestite di una falsa confidenza, le donne semplici strumenti di piacere. Ero appagato, senza rendermi conto di essere diventato un grande fuori e un nulla dentro, e ogni giorno recidevo qualche filo con il passato, limitando a rare lettere i miei rapporti con la famiglia, facendo dei miei antenati solo icone delle quali vantarmi e considerando i princìpi e gli ideali fisime da sciocchi. Né mi vennero mai alla mente le parole di mia nonna, quelle usate per mettermi in guardia quand’ero partito per Treviso la prima volta. Abiti preziosi e gioielli erano la prova del mio minuscolo potere, mi serviva forse altro? Vivere vendendo l’animo all’incanto, vuotando il cuore di sentimenti, tenendo lontane le sofferenze degli altri, non mi aveva forse liberato dalle angosce e dagli incubi? Poi, con il consenso di Enrico, la contessa Beatrice decise di lasciare Gorizia per abitare a Treviso.

Le andai incontro un pomeriggio di maggio, sulla strada per Sacile, e a tre miglia circa dalla città raggiunsi i carri coperti scortati da un drappello di cavalieri comandato da Francesco di Ungrispach. Non la vedevo da oltre un anno e, quando la sua mano scostò una cortina e i suoi occhi si posarono su di me, il mio animo vacillò. Non per il diafano della pelle e lo smunto del viso, non per l’espressione malinconica e sofferente, non per il candore quasi scheletrico della mano stessa, ma per il rimprovero severo dei suoi occhi. Mi affiancai, e prima ancora di

Page 190: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

riuscire a salutarla disse: «Sento parlare molto di te, Corrado. Come di un uomo scaltro e spregiudicato. Questo sei diventato?».

Evitai di incrociare il suo sguardo, giustificandomi: «Mia signora, cerco solo di servire la vostra casa come meglio posso».

«Non dovresti dimenticare la tua, però. Fatico a viaggiare e l’altra notte sono stata ospite a San Lorenzo. Tua nonna è molto preoccupata e ha un grande desiderio di riabbracciarti.»

«Avete ragione. Andrò a trovarli appena gli impegni lo permetteranno. Stanno bene?»

«Sì, stanno tutti bene. Tua sorella andrà sposa il prossimo mese.»«La piccola Aurora sposa? E con chi?» domandai sorpreso e

indispettito perché nessuno mi aveva informato.«Non è piccola, è una bella fanciulla di quasi quindici anni. Lo sposo è

uno dei signori di Maniago, Galvano mi sembra.»A un sobbalzo del carro più forte degli altri Beatrice lasciò cadere la

cortina e non si mostrò più fino alla porta del palazzo dove, aiutandola a scendere, mi accorsi che ansimava. Prima di affidarla alla servitù le baciai la mano, dicendo: «Se me lo permettete, domani pomeriggio verrò a farvi visita».

Mi accarezzò una guancia come era solita fare Quando stavo a Gorizia: «Non te lo permetto, te lo ordino. Io e te dobbiamo parlare».

Non trascorsi una notte tranquilla. Un po’ perché non comprendevo l’atteggiamento di Beatrice e un po’ perché mi sentivo offeso dall’essere stato tagliato fuori da una decisione importante come il matrimonio della mia unica sorella. Al mattino, vedendomi corrucciato, Sebastiano chiese: «Avete dormito male? Qualcosa vi angustia?».

Gli raccontai dei rimproveri della contessa e del matrimonio di mia sorella e lui cercò di minimizzare: «Beatrice non ha avuto fortuna, né nella vecchia né nella nuova famiglia. Inoltre, vede in voi il figlio perso e vi vorrebbe come lei lo sognava. Ma chissà come sarebbe stato veramente Mainardo. In quanto a vostra sorella, avete un padre e un fratello maggiore. Decidere spetta a loro».

«Però, almeno una lettera…»Si era creata una grande confidenza fra me e Sebastiano, a lui erano

permessi atteggiamenti e parole che ad altri sarebbero costati un colpo di spada. Ma non mi piacquero comunque le sue parole: «Forse la contessa Beatrice ha ragione. Forse con vostro padre e i vostri fratelli non vi comportate come un tempo».

Page 191: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Lo fulminai con lo sguardo: «Non spingetevi oltre, Sebastiano!».«Perdonatemi. Io non ho più famiglia, forse non capisco. Intendevo

dire che i vostri tanti impegni vi obbligano a trascurare… Insomma, qualche settimana a casa vi farebbe bene. Per riposare, intendo.»

Quando andai a trovarla, i rimproveri di Beatrice furono ancora più duri del giorno precedente. Non condivideva il mio modo di vivere e il mio agire a fianco del marito. Non ebbi animo di replicare, neppure di giustificarmi. Anche se cercava di nasconderlo, stava molto male. Delle sue damigelle, aveva portato con sé solo Gualda e, mentre mi accompagnava fuori dalla stanza, le chiesi di cosa soffrisse la contessa. Le si arrossarono gli occhi: «Da quando è morta la bambina non sembra più avere interesse per la vita. Dorme poco e mangia ancor meno, pozioni e salassi non hanno effetto. In quanto a voi, continua a ripetere di volervi salvare. Da cosa non l’ho capito veramente, o meglio… ma non sta a me…».

«Vi prego, amica mia, parlate senza timori.»Era in grande imbarazzo e si rigirava di continuo l’anello che portava al

medio. Abbassò la voce fino a sussurrare: «Teme che diventiate come il conte Enrico».

«Ma è un buon signore, un buon marito!»Senza volerlo avevo alzato la voce e lei si guardò attorno, preoccupata.

Mise l’indice davanti alle labbra, implorandomi di parlare piano: «Per l’amor di Dio, tacete! Sarà anche il miglior signore del mondo, ma non si può trattare una farfalla come fosse un falco».

Pensai alle parole di Beatrice e Gualda per il resto della giornata. A sera ammisi a me stesso che forse era giunto veramente il momento di lasciarmi tutto alle spalle per qualche settimana e tornare a casa. L’indomani lo dissi alla contessa; si rasserenò pregandomi di cenare con lei. Con grande gioia di Gualda mangiò un po’ di pasticcio di carne e bevve un dito di vino. Dopo due giorni mi presentai dal podestà Febo della Torre, per annunciargli la mia partenza.

Invece di stare via fino ai primi di giugno come mi ero ripromesso, l’assenza si protrasse per tutto luglio e parte di agosto. A dire il vero, al principio fu difficile. A parte i miei familiari non avevo con chi parlare e mi annoiavo terribilmente. Sulla mia ricchezza e sulla mia importanza giravano voci esagerate, capaci solo di approfondire ancor più il solco fra me e gli amici di un tempo. E io, involontariamente, le rafforzavo mostrando noia anche per le poche e rustiche feste organizzate nei

Page 192: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

castelli vicini. Finché un giorno mio padre mi prese da parte e mi affrontò a muso duro: «Figlio, se ti vergogni della tua famiglia, se la tua casa non ti pare più degna di accoglierti, prendi il cavallo e tornatene a Treviso. Se così non è, smettila di pavoneggiarti con i tuoi abiti cittadini e abbi più rispetto per noi e questo villaggio».

Non mi ero reso conto di apparire tanto freddo e spocchioso e andai a sfogarmi con mia nonna. In fin dei conti, mi ripetevo, stavo solo tentando di conservare la memoria e l’onore dei miei avi. Mi ascoltò paziente finché nominai mio nonno. Allora, per la prima e unica volta, mi zittì bruscamente e, indurendo il viso, raccontò quello che poi avrei letto nelle memorie di Guido. Proprio a Treviso, inseguendo fama e potere, aveva rischiato di perdere tutto: se stesso, la famiglia, la vita. Solo poi aveva capito quale senso dovesse avere la vita, e la sua esistenza era stata tutta volta, al contrario della mia, a essere grande dentro e non fuori.

«Perché,» concluse «la felicità, quella vera, nasce dalla felicità di chi ti circonda. Tu ne hai avuto la prova fino a quando sei stato qui. Allora eri felice, invece adesso vedo spesso mestizia nei tuoi occhi.»

Un po’ alla volta, giorno dopo giorno, per amore della mia famiglia mutai atteggiamento e notai un avvicinamento sempre maggiore degli altri a me. Mi mancavano parecchie cose, però furono sostituite da altre forse più importanti e, alla fine, godetti dell’essere amato per quello che ero e non per ciò che apparivo o facevo. Dopo il matrimonio di Aurora, riaccompagnai mio fratello Pietro a Sesto e stetti in abbazia alcuni giorni ritrovando confidenza con il Signore. Ricevetti anche proposte da parte di alcuni castellani e nobili dei dintorni, speranzosi di accasare questa o quella figlia. Le rifiutai con cortesia, adducendo come scusa i miei obblighi nei confronti di Enrico. Ma proprio quando mi stavo riabituando alla leggerezza di una vita semplice arrivò un messo con l’ordine di presentarmi immediatamente a Treviso.

Vi giunsi il diciannove agosto e trovai il conte prostrato. Beatrice non si alzava più dal letto; i problemi con suo cognato Guecellone e con suo nipote Rizzardo da Camino, anziché scemare, aumentavano; Cangrande non smetteva di fomentare discordie sia a Padova sia, seppure con minor successo, a Treviso. Non lo dico per cattiveria, ma onestamente non capii quale dei problemi angustiasse maggiormente Enrico. Il soggiorno a casa mi aveva cambiato quel tanto da farmi mutare priorità e non ebbi un attimo d’indecisione: prima di raggiungere l’ennesima ambasceria presso

Page 193: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Cangrande, volevo stare un po’ con Beatrice. Enrico non si adombrò davanti al rifiuto, non mi richiamò ai doveri. Si passò stancamente le mani sul viso e concesse: «Forse è più importante che tu stia con lei. Forse riuscirai dove tutti hanno fallito: le restituirai la voglia di vivere».

Era la seconda ora dopo il mezzogiorno di una giornata limpida, ma nella camera avevano chiuso l’imposta e regnava una penombra intrisa di odori di morte. M’inginocchiai accanto al letto e baciai la mano gelida di Beatrice. Le giornate stavano rinfrescando eppure il viso e le mani erano imperlati di sudore.

«Corrado, sono contenta di averti qui. Sei venuto ad assistere alla mia agonia?» disse con un filo di voce.

«No, signora, la vostra agonia è lontana. Vi ci vuole solo luce e aria fresca e pulita.»

In camera, oltre a Gualda, c’era Gabriele, fratello naturale di Beatrice e domenicano in San Nicolò. Quando mi vide andare alla finestra e aprirla, balzò dalla sedia e cercò di fermarmi: «Signore, cosa fate? I suoi occhi non sopportano la luce».

«Lasciatelo fare, fratello. Mio figlio si comportava allo stesso modo le poche volte che avevo mal di capo o febbre» mormorò Beatrice.

Aprii l’imposta e socchiusi la finestra. Era scheletrica, con la pelle avorio, gli zigomi spigolosi e gli occhi affossati. Il suo aspetto mi serrò lo stomaco e la dolcezza del suo sorriso mi commosse. Cercai di mostrare allegria: «Mia signora, sapete cosa diceva nonno Guido? Spesso la morte viene solo perché la si chiama. Lasciate perdere le pozioni e non permettete più i salassi. Le vostre pozioni saranno il cibo e il vino, ricostruiranno il sangue tolto e tra pochi giorni sarete di nuovo in piedi».

«Voi non siete medico» sbottò fra Gabriele.«Non lo sono, avete ragione. Però davanti al nemico si combatte

sempre, anche se il suo nome è malattia.»Beatrice non mi toglieva lo sguardo di dosso e continuava a sorridere.

Probabilmente volle semplicemente farmi contento e finse una forza che non aveva. Chiamò Gualda: «Aiutami a mettermi seduta». Poi, con un sospiro: «C’è già odore d’autunno nell’aria, però è buono. Fatemi portare un po’ del vino di mastro Cecchetto».

«Non ce n’è più, mia signora. È finito» disse Gualda aggiustandole i capelli sul cuscino.

«Allora mandatelo a prendere» sbottai.«Bisognerebbe andare fino a Tezze, vicino a Oderzo.

Page 194: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

I vinai di Treviso non ne hanno» si giustificò Gualda.«Allora ci penso io. Ha un nome questo vino?»«Raboso. Quel vino le piaceva fin da ragazza. Cecchetto, scegliendo e

appassendo leggermente i grappoli migliori, fa un Ravoso, così lo chiamate in Friuli, che di tutto sa meno che di rapa. Un vero maestro a cavare da un’uva plebea un vino nobile» intervenne fra Gabriele, subito ammansito nel vedere la sorella esprimere finalmente un desiderio.

Inviai un servo a Tezze e, mentre attendevamo il vino, riempii Beatrice di attenzioni, chiacchiere e ricordi su Mainardo. Poi le chiesi di poter cenare nuovamente nella sua camera e riuscii a farle bere una tazza di brodo e piluccare della carne di quaglia. L’indomani la trovai ad attendermi a letto ma seduta, ben pettinata e con due fili d’oro nella treccia raccolta a crocchia. Oltre al fratello e a Gualda, c’erano anche il conte e il medico Ecellino. Quest’ultimo mi guardò storto e quando Enrico se ne andò, felice di vedere la moglie sorridente e con il sole a rendere meno niveo il volto, lo seguì fuori dalla stanza. Lo udii borbottare qualcosa e il conte rispose seccamente e a voce alta: «Lasciatelo fare!».

Beatrice si accigliò, allargò sconsolata le braccia. Ci scambiammo un’occhiata d’intesa, proprio come fra madre e figlio. A mezza mattina tornò il messo inviato a Tezze con una botticella contenente non più di tre caraffe del prezioso vino. Ne portarono subito mezza coppa a Beatrice che ne bevve due sorsi e me la passò: «Assaggialo, piaceva tanto anche a Mainardo».

Il suo spirito continuò a migliorare e non certo per merito mio. A darle forza era il riaccendersi della vita attorno a lei, la finestra aperta, le chiacchiere dei servi e l’ottimismo di Gualda e del fratellastro. Inoltre c’era un viavai di persone: si presentavano a palazzo a chiedere informazioni lasciando sempre una lettera o un omaggio, e lei si stupiva dell’amore che Treviso le dimostrava. Il rinnovato cicaleccio della servitù, i sorrisi al posto dei visi mesti, funzionavano meglio di qualsiasi pozione. E non le fecero più salassi e il cibo e il vino, seppure pochi, le ridonarono un po’ di vigoria.

Il ventiduesimo giorno di agosto si alzò dal letto e, sentendosi in grado di reggersi in piedi, chiamò il notaio di palazzo e lo pregò di prepararsi a redigere il suo testamento. Notando il mio disappunto, disse: «Corrado, non lo faccio per paura della morte, non essere corrucciato».

Il venticinque si alzò, indossò abiti belli e, a piccoli passi, sedette sul

Page 195: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

suo scranno nella sala delle udienze. Fuori della porta già attendevano il conte, il podestà e molti nobili e prelati, ma io non volli partecipare. La raggiunsi di nuovo verso sera, in camera, e la trovai serena. Stringendomi una mano, scherzò: «Non hai voluto essere presente e così non lo sei neppure nel mio testamento. Per te ho fatto redigere questo». Mi lasciò la mano, prese da sotto il lenzuolo una piccola pergamena e me la tese. «Leggila.»

Poche righe con le solite frasi di rito e una donazione di trecento libbre di denari piccoli. Protestai e lei mi zittì mettendomi una mano davanti alla bocca. L’ultimo gesto pieno d’affetto materno. E ultimo fu il sorriso che mi riservò congedandomi, perché il mattino successivo spirò improvvisamente fra le braccia di Gualda.

Page 196: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

VIII

Trascorso neppure un mese dalla morte di Beatrice, il conte Enrico iniziò a inviare messi in molte corti italiane e d’oltralpe. Non voglio pesare il suo dolore con questo, non lo diminuisce di un’oncia. Egli soffrì per la morte della moglie, ma ancora più per l’assenza di un erede. Il problema della discendenza era grave. Sul fratello non poteva contare. Alberto era un debole, neppure tanto sveglio, e i figli avuti da Elisabetta di Essen non promettevano di essere migliori. A suo cugino, il duca Enrico, Adelaide di Brunswick aveva partorito solo una figlia e Beatrice di Savoia, la seconda moglie, sembrava sterile. La stirpe rischiava l’estinzione e ciò doveva essere messo davanti a ogni cosa. Anche al lutto. Messi instancabili galoppavano ovunque, riportando offerte e richieste di doti e piccoli rettangoli d’avorio con dipinti visi di fanciulle. Il conte era stato chiaro: niente vedove, solo giovani in grado di procreare. Brutte o belle non aveva importanza: dovevano essere unicamente sane fattrici. La scelta cadde su un’altra Beatrice, la diciassettenne figlia del duca Stefano di Baviera.La miniatura con il suo volto non mi fu mostrata, però il cancelliere di palazzo disse che era bella. Non gli credetti, ben sapendo quanto i pittori mentissero in simili circostanze. Ero perciò curioso quando Enrico mi mandò con altri cavalieri ad accoglierla ai confini della Marca. Portavo un dono, una spilla da petto con una perla grande come un uovo di quaglia. Lei era in viaggio da tre settimane. Si era fermata qualche giorno a Bolzano dal duca Enrico, poi a Trento, e i cavalieri di quel vescovado scortarono nell’ultimo tratto il convoglio di carri. Mentre il loro comandante mi passava le consegne, domandai: «Come la nuova contessa di Gorizia?».

Scambiò uno sguardo con un altro cavaliere, ridacchiò, e scosse una mano su e giù come quando ci si scotta un dito. Mi preparai al peggio e attesi che il comandante si congedasse dalla dama. Scorsi la sua mano

Page 197: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

sporgere dalle cortine mosse da un frizzante venticello di fine aprile e mi avvicinai. Smontai da cavallo di fianco al carrozzone, m’inchinai e dissi in latino: «Sono qui ad accogliere la mia signora in nome del nobilissimo signor Enrico conte di Gorizia e del Tirolo, signore di…».

Da dietro le cortine venne una voce allegra, dolcissima nonostante i toni bassi e leggermente rauchi: «Lasciate perdere, cavaliere. I titoli li so e, come vedete, parlo la vostra lingua. Anche se non bene».

I teli bianchi che la nascondevano erano di fine lino e intravedevo la sua sagoma e quelle di almeno altre due donne. Sorpreso da tanta noncuranza per il cerimoniale, non mi restò altro da fare che prendere il gioiello dalla tasca della sella. Era protetto da un sacchetto di seta verde e lo tesi con un nuovo inchino: «Un piccolo omaggio di benvenuto da parte del mio signore».Me lo prese di mano, dicendo con un risolino: «Il colore dei vostri

occhi, cavaliere».Ricordo di aver pensato, mentre rideva e parlottava in tedesco con le

altre dame dentro il carro: “Sarà pure brutta, ma la spregiudicatezza non le manca di certo”. Poi lei scostò le cortine e sgranai gli occhi. Beatrice di Baviera non portava velo. Aveva i capelli ramati divisi in due trecce ornate da un nastro argenteo che le si incrociavano sulla fronte per poi ricadere sulla schiena; la sua pelle era seta bianca; gli occhi nocciola lampeggiavano di pagliuzze d’oro; le labbra, di un rosa carico, erano carnose e socchiuse a mostrare denti perfetti; l’ovale un po’ largo del viso pareva disegnato apposta per ammorbidire il naso leggermente aquilino. Volle scendere e fare due passi per dar tempo alle sue altrettanto giovani dame di scuotere la polvere dai cuscini, e non potei non notare la procacità delle forme sotto una tunica di seta porpora intessuta di fili d’argento. Guardai di sottecchi i miei compagni e l’ammirazione era su tutti i visi. Le diedi il braccio e lei, anziché poggiare la mano sul mio polso, vi si aggrappò senza curarsi di schiacciarci contro il seno e avvolgendomi di un forte profumo di rose. Lo sguardo e l’espressione erano quelli che gli uomini definiscono carichi di promesse e la mia carne reagì come la giovinezza pretendeva; e in quel momento giurai a me stesso di stare il più lontano possibile da quella ragazza destinata al cinquantenne Enrico.

Mantenni tanto fermamente la mia promessa che dopo alcuni giorni, alla fine di un banchetto, il conte mi chiamò a sé contrariato. Stavo lasciando frettolosamente la sala per raggiungere Francesco da Collalto e

Page 198: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

mi si parò davanti subito fuori dalla porta.«Aspetta» disse. «Comprendo l’affetto e il dolore, ma non la

malagrazia.» Lo guardai perplesso e lui continuò: «Anch’io ho ancora nel cuore la mia povera moglie, però ho dovuto farmene una ragione».

«Non vi capisco, signore.»«Ho notato il tuo distacco e la tua freddezza nei confronti di Beatrice.

Lei non ha colpa per la morte di chi ti amava come un figlio e non è certo questo il modo di conquistarti il suo affetto. Perciò ti prego, anzi, esigo da te un atteggiamento più cavalleresco nei suoi confronti.»

Aveva scambiato l’attrazione per antipatia, come se io non sopportassi di vedere una Beatrice sullo scranno e nel letto di un’altra, e glielo lasciai credere. Mi scusai promettendo un comportamento più amichevole e confidenziale. Sembrò soddisfatto e mi lasciò andare con un brontolare che voleva essere di affettuosa comprensione. Ne risi con Francesco e lui promise di starmi vicino per raffreddare i miei irrefrenabili bollori. Così andò, ma non era facile dare il braccio a Beatrice e ancora meno fare quei giochi cui le dame ti obbligano. Trasformava ogni tocco e sfioramento in un qualcosa di sensualmente ambiguo e non perdeva occasione per stuzzicarmi con parole e gesti. Mi confidai con Sebastiano e lui, lo sguardo furbo, suggerì che forse il conte, alla sua età, non aveva abbastanza acqua per raffreddare il nuovo giardino.

Sbagliava. Il conte Enrico sembrava ringiovanito e le chiacchiere dei servi lo volevano cavaliere assiduo e, almeno dai mugolii e gridolini che uscivano dalla camera, potente. Quando ad agosto annunciò la gravidanza della moglie, lo fece guardandola riconoscente come un mendicante cui si è data una moneta d’oro. Io, per contro, avevo iniziato a scorgere dietro la bella, allegra, ingenua e gentile Beatrice una donna di tutt’altra fatta.I suoi occhi controllavano e annotavano tutto e alle volte si facevano duri e cattivi. Si serviva del suo fascino per piegare le persone ai propri voleri e non vi era azione, neppure la più banale, che non facesse parte di un più ampio e meditato disegno. Spingeva subdolamente gli uomini ad andare con lei al di là del lecito e a quel punto li fermava con un gesto duro e brusco, per poi fingere subito perdono e comprensione. Li teneva in pugno, però, con un disarmante sorriso e gettando addosso ai malcapitati un ricattatorio “se lo venisse a sapere il conte!”. Per questo iniziai a comportarmi con lei ancora con più cautela e diffidenza.

La gravidanza fu per Beatrice una passeggiata e il diciannove febbraio

Page 199: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

dell’anno 1323, lo stesso giorno nel quale fui fatto cittadino di Treviso, partorì un maschio cui fu dato nome di Giovanni Enrico. Il conte era sovraeccitato e proclamò una settimana di festa con giochi e tornei. Volle parteciparvi anche lui e nel palio e nel gioco della pallapugno mostrò una forza e una bravura che neppure io avevo sospettato. Per far capire a quale livello di soddisfazione e felicità fosse giunto, basti dire che quasi non si curò della sconfitta di re Federico, della sua prigionia per essere poi ridotto a semplice duca d’Austria, e riconobbe subito Ludovico di Baviera come nuovo imperatore.

Finiti i festeggiamenti, volle tornare a Gorizia per battezzare il figlio. Se ne partì con Beatrice, il bambino e mezza corte trevigiana, dopo aver nominato Ugone di Duino suo vicario e fatto entrare me nel Consiglio dei Trecento. Fui contento di liberarmi della contessa e resi altrettanto felice Ugone annunciandogli di voler tornare a casa per un paio di settimane. Mi godetti il villaggio, la mia famiglia, alcuni banchetti e feste da mio cognato nel castello di Maniago e dai miei amici in quello di Valvasone. Soprattutto, partecipai a molte cacce nei magredi del Tagliamento e nelle praterie sopra Vivaro e tornai a Treviso solo perché dovevo fare da testimone ai matrimoni di Francesco da Collalto e di Guecellone Tempesta. Quindi mi rimisi al lavoro perché, dopo l’assassinio di Guecello da Camino da parte del suo omonimo nipote, Cangrande aveva messo le mani su Feltre e Belluno e stava tornando a minacciare Treviso.

Anche il conte dovette tornare in città, ma non condusse con sé Beatrice che rifiutava la balia e aveva deciso di allattare il figlio da sé. Portò invece con sé Elisabetta, la figlia naturale, per darla in moglie al trevigiano Oliviero Forzetta. Era questi di famiglia mercantile molto ricca e un grande appassionato di antichità. Nel suo palazzo c’erano un’enorme biblioteca, un gran numero di teste di Cesari e altri grandi romani, un’infinità di icone e di statue. Un tipo bizzarro, insomma, ben lieto d’incamerare una dote da vera contessa. Il matrimonio doveva avvenire il ventottesimo giorno di marzo, il lunedì di Pasqua, e nell’attesa Enrico trascorreva le giornate giocando a pallapugno e, fra una funzione religiosa e l’altra, festeggiando il figlio e in realtà poco curandosi di quaresima e settimana santa.

Quando tutto sembra andare nel migliore dei modi, quando la felicità ci circonda, forse il Signore si distrae; forse volge lo sguardo ai meno fortunati. Allora Satana, sempre in agguato, colpisce. Stavo assistendo

Page 200: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

con i miei amici e altri nobili a una partita a pallapugno nella corte del palazzo, con Enrico come spiritato per quanto correva e colpiva forte. Artico della Vazzola borbottava qualcosa sul potere taumaturgico delle giovani mogli e Antonio di Ecelo, uomo molto pio, torceva il naso essendo il giovedì santo. A un tratto il conte si arrestò, chiese tregua e venne verso di noi. Accanto avevamo un tavolo con delle coppe e una caraffa di vino. Ansava, grondava sudore e sorrideva felice come un bambino. Si tolse il grembiule in maglia di ferro usato per proteggersi il ventre dai colpi, si versò una coppa, se la portò alla bocca. Prima di fare un sol sorso questa gli cadde di mano infrangendosi al suolo. Il viso paonazzo sbiancò di colpo e boccheggiando farfugliò: «Corrado, aiutami!».

L’afferrai per un braccio, chiedendo: «Vi sentite male?».Mi guardava con il terrore negli occhi, come se io fossi la morte.

Mettendosi una mano sul petto, mormorò: «Qui, un dolore terribile qui… accompagnami in camera».

Si appoggiò a me passandomi un braccio sulle spalle e rientrammo a palazzo seguiti dagli altri. Riuscimmo a fare solo sei scalini. Si accasciò senza un gemito e per poco non mi scivolò dalle mani. Francesco e Guecello mi aiutarono a sostenerlo e con l’assistenza di un altro lo portammo in camera reggendolo per le ascelle e i piedi. Lo deponemmo sul letto, mentre uno dei servi correva a chiamare il medico. Ma Enrico era già morto.

La notizia si sparse per Treviso come un fulmine a ciel sereno e al dolore per la perdita di un signore generoso si aggiunse la paura per ciò che sarebbe potuto accadere. Quella stessa sera, mentre le anziane del palazzo si prendevano cura del cadavere di Enrico, venne convocato il Consiglio dei Trecento cui dovetti partecipare. Prima di entrare nella sala, mi si avvicinò il decano del Consiglio dei Quaranta: «Messer Corrado, cosa farà Cangrande appena saprà della morte del conte Enrico? Vorrei una risposta da cittadino e membro del Consiglio di questa città».

La domanda me l’ero già posta, e risposi: «Un conte è morto, però un altro conte vive. Nominate vostro signore il piccolo Giovanni Enrico. È sotto la protezione del duca di Carinzia, ci penserà lui a fermare Cangrande».

«Avrà anche la tutela del piccolo?»«Per ora la tutela ce l’ha la madre. Dovrà governare lei per conto del

Page 201: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

figlio.»«Una donna alla guida della città? Ma signore, è…»«Il male minore, decano. Almeno per ora.»Il Consiglio così decise e subito i messi partirono per Gorizia e

Merano. Un altro messo lo trovai ad attendermi a palazzo assieme a Ugone. Con ancora brutte notizie. L’abbazia di Rosazzo era andata completamente a fuoco e la chiesa crollata sulle tombe dei conti di Gorizia. Così si dovettero cambiare tutti i piani e, appena giunse Beatrice con il bambino e l’intera corte goriziana, Enrico fu sepolto in San Francesco, accanto alla prima moglie.

Vado di fretta e non lascio spazio ai sentimenti. Ognuno può capire quanto mi addolorò la morte dell’uomo cui dovevo le mie fortune. Nonostante la sua durezza, anche lui mi aveva voluto bene e protetto, e senza il conte il mio futuro si faceva caliginoso. Meditai di lasciare Treviso e tornare definitivamente in Friuli. Poi Beatrice mostrò di quale pasta era fatta. Prese in mano la situazione e iniziò a governare con sapienza e pugno di ferro. Non solo, poco dopo il Parlamento friulano la nominò Capitano Generale della Patria e il patriarca ratificò la decisione. Nel volgere di pochi mesi una donna di neppure vent’anni regnava su due stati e nessuno osò levare le armi contro di lei. Ma è inutile tergiversare. Devo raccontare ciò che accadde fra me e Beatrice. Il pudore non può impedirlo, perché altrimenti non si capirebbe come mai, tempo un anno, finii a servire proprio il nemico più temuto: Cangrande.

Per tutto l’inverno tra il 1323 e il 1324 rimasi a Treviso. Una delle prime decisioni prese da Beatrice fu di chiedermi di giurare fedeltà a suo figlio e appena l’ebbi fatto mi rinnovò l’appannaggio aumentandolo a cinquecento fiorini l’anno. Poi sembrò essersi scordata di me. Quando veniva in città non mancava certo d’invitarmi ai banchetti, ponendomi sì in un posto di prestigio, ma sufficientemente lontano da lei da non poter scambiare nemmeno una parola. Né io smisi di renderle omaggio a ogni suo arrivo e partenza. Per il resto m’ignorava e io cercavo inutilmente di capire quale trappola mi stesse preparando. Perché, come ho detto, Beatrice non faceva nulla per caso. Poi, in quella scacchiera che era la sua mente, il ventiquattro d’aprile fece la sua prima mossa. Esattamente un anno dopo la morte di Enrico. Richiamò a Gorizia Ugone di Duino e lo sostituì con suo figlio Ugo. Avevo un nemico a capo della città; anzi l’unico vero nemico, se s’intende non chi ti combatte ma chi ti odia.

Page 202: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Naturalmente Ugo iniziò subito a stuzzicarmi rendendomi oggetto di malagrazia. Non era uno stupido e, visti gli amici potenti, la posizione che mi ero guadagnato in città, la mia influenza su alcuni membri del Consiglio degli Anziani e del Consiglio dei Quaranta, non lo fece platealmente. Le punzecchiature erano nascoste dietro a un mancato invito a una festa ufficiale, al convocare il Consiglio fingendo di dimenticare il mio nome, al cercare di infilarsi in questa o quella famiglia in cerca di visibilità e perciò disposta a tutto, anche a sparlare di me. Lasciai sempre perdere, ma dopo un mese non ce la facevo più e iniziavo a covare vendetta. Proprio quando l’esasperazione raggiunse il suo massimo e la gente iniziava a spettegolare, Beatrice m’inviò un messo pregandomi di recarmi a Gorizia. E questa fu la sua seconda mossa.

Nelle rappresentazioni sacre, alla donna è permesso un solo ruolo: quello della Vergine. Alcune di queste attrici sono così brave da commuoverti vedendole piangere e disperarsi sotto la croce; si dimentica cosa sono realmente nella vita, ci si rivolge loro con rispetto e si fatica a crederle facili a prostituirsi. Se questo accade con esseri randagi e di nessun conto, immaginiamoci con chi possiede la medesima arte sedendo vestita di sete su scranni intagliati e dorati, e legge il libro delle ore più velocemente di un notaio. Forse queste parole non sono degne, forse cerco in altri colpe solo mie, forse Beatrice era semplicemente una grande donna costretta a usare ogni mezzo per sopravvivere in un mondo di uomini. Eppure, anche dopo tanti anni, in me rimane la convinzione di essere stato giocato.

Mi accolse come un amico tanto atteso, con gioia e affetto, lodandomi in piena corte per i meriti acquisiti a Treviso nel servire la casata goriziana. Mi prese per mano come si fa con un fratello e mi condusse nella stanza dove Giovanni Enrico era accudito da due serve, lo prese e me lo mise in braccio dicendo: «Ti ho voluto qui per lui. Con te a vigilare su di noi, ora sono più tranquilla».

Per un intero mese fu come rivivere ciò che era accaduto con Mainardo quando nacque la nostra amicizia.Senza mai violare una sola delle regole di corte, senza concedermi pubblicamente nulla più di ciò che mi spettava di diritto, m’impose un rituale. Ogni sera, dopo cena, mi voleva accanto a lei nella saletta dove l’allietavano un favolatore, un musico o un cantastorie. Al principio in presenza di qualcuno dei capitani e delle loro mogli e comunque sempre delle sue damigelle. Tra una risata forzata e un piccolo applauso, mi

Page 203: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

guardava mostrandosi stanca e pensierosa, esibendo preoccupazione e alle volte perfino sofferenza. Quindi rimasero solo le damigelle, e le espressioni del volto si accompagnarono a mezze parole, a un dire e non dire, a un far intendere senza spiegare nulla. Infine, le confidenze, tutte legate ai problemi e alle difficoltà del governare che presto sottintesero un unico grande problema: la fragilità di una donna sola e indifesa, obbligata a nascondersi dietro una durezza di facciata.

Cominciai a provare tenerezza per Beatrice e, avendo sempre controllato di persona o tramite il vecchio mastro Mattia la veridicità dei fatti narratimi, a credere alle sue parole. Né era per lei difficile darmi prove di essere circondata di falsi amici e cortigiani malevoli. Chi, sotto Enrico, aveva goduto di parecchia libertà e gran potere faticava a piegarsi agli ordini di una donna e, pur trattenuti e nascosti, i moti di stizza o le occhiate insolenti abbondavano in ogni pubblica occasione. Per non parlare di suo cognato Alberto, della nuova cognata Eufemia di Maetsch e dei nipoti, coetanei di Beatrice. Loro non si curavano neppure di celare l’enorme rabbia per essere stati scavalcati. Da qui a farmi suo paladino il passo fu breve e, alla fine di giugno, lo divenni di fatto. Mi nominò suo campione e durante l’estate del 1324 dovetti impugnare più volte la spada e combattere per l’onore della mia signora.

Quando divenni la sua ombra di giorno, le confidenze si fecero più personali di sera. Non mi parlava della mancanza di rispetto di Tizio o della aggressività di Caio; si protendeva verso di me sussurrandomi la sua enorme solitudine, l’insicurezza, la desolazione di un letto vuoto, i tormenti di una carne giovane. E io? Io l’amavo, ma non dell’amore di uno sposo o di un amante. Il mio era un amore tenero e pacato anche se intriso, quello sì, di fuoco, di desiderio. Insomma, ero pronto a essere carpito.

Lo fece un giorno della seconda settimana di luglio, durante una solitaria cavalcata fino al convento di Castagnevizza. Si congedò dalla corte dicendo di voler pregare in solitudine e di non preoccuparsi perché avrei vigilato io su di lei. Tra il castello e il convento ci sono pochissime miglia e nessuno ebbe da ridire. Una volta giunti nella valle che separa Gorizia dal convento, laddove alcuni vasti prati separano la strada dal bosco, Beatrice arrestò il cavallo, mi guardò con aria complice e disse: «Corrado, ho una gran voglia di fare una galoppata. Nessuno mi vede, e spero non siate proprio voi, amico mio, a considerarla sconveniente per la contessa di Gorizia».

Page 204: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Non c’era nessuno, gli sguardi di chi vigilava dalle torri del castello erano coperti da una macchia di querce. Non potei che acconsentire e lei spronò il cavallo e partì al galoppo con me dietro. Andava velocissima, lanciando gridolini di gioia. Fin quando svoltò fra due querce e scomparve. Le avevo lasciato una cinquantina di passi di vantaggio e mi maledii per la leggerezza. Nello stesso istante udii un nitrito, un grido e una voce che mi chiamava disperata.

La raggiunsi poco dentro la macchia, stesa a terra e gemente, il cavallo fermo poco oltre. Balzai giù dalla sella e corsi da lei preoccupato.

«Vi siete fatta male, mia signora?»«Temo di essermi storta un piede» rispose coprendosi il volto con le

mani.«Prima di provare ad alzarvi, permettetemi di controllare.»Annuì con un altro gemito e io presi il piede per sfilarle lo stivaletto di

panno. Ora, come tutti sanno, quando le dame devono cavalcare indossano una tunica larga e sotto questa delle brache di feltro lunghe fino al ginocchio. Lei non le aveva indossate e alzandole il piede intravidi ciò che doveva rimaner nascosto. Non solo. Allargò le gambe, piegò le ginocchia e con un terzo gemito implorò, la voce rotta dal pianto: «Corrado, ti desidero dalla prima volta che ti ho visto. Non giudicare male una donna sola e dammi pace».

Le diedi pace quel giorno e per tutta l’estate, in molti luoghi. Io, nei confronti del suo corpo, divenni come un ubriacone con il vino. Non ne potevo fare a meno e, se mi mancava, soffrivo fisicamente. E a questo punto lei fece l’ultima mossa.

Sul finire di settembre, mentre ascoltavamo dei musici nel giardino del castello, disse facendosi preoccupata: «Non volevo dirlo, ma fra poco tornerai a casa e lo verresti a sapere comunque».

«Di cosa parlate?»«A quanto pare qualcuno vi sta cercando. Lo ha fatto a Treviso con

molta discrezione, e lo ha fatto a San Lorenzo con altrettanta. Si è spinto a parlare perfino con vostro fratello, nell’abbazia di Sesto.»

La guardai perplesso: «Di chi parlate? Perché qualcuno vorrebbe incontrarmi? Perché non è venuto qui? Tutti sanno dove sono. E di chi si tratta?».

«La discrezione, Corrado, la discrezione qui non la poteva certo usare. Una cosa è certa, si tratta di un emissario segreto di Cangrande.»

La guardai sbalordito: «Cangrande ha dozzine di modi per parlare con

Page 205: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

me. Cosa vi fa credere che si tratti di un emissario segreto?».Mi guardò negli occhi prendendo un’espressione triste: «Non mancano

certo spie e delatori in questi nostri domini. Neppure nell’abbazia di Sesto. Vostro fratello si è confidato con altri confratelli e così…».

«Sapete anche perché mi cerca?»Strinse le labbra e fece con la mano un piccolo gesto di stizza:

«Quando mi è stato riferito mi sono molto arrabbiata e avrei voluto farlo catturare. Come si permette Cangrande di proporre proprio a voi di entrare al suo servizio!».

«Ah, di questo si tratta. Allora non dovete preoccuparvi. Se si ripresenta lo caccerò in malo modo, statene certa.»

Si protese verso di me e mi sussurrò: «Da donna ti caverei gli occhi se tu solo osassi pensare di abbandonarmi per Cangrande. Ma la contessa, la tutrice del futuro signore di terre che vanno d’oltralpe al mare, deve piegarsi ai suoi doveri e non al suo cuore. Anche se questo sanguina». Si ritrasse e, parlando a voce alta perché tutti udissero, aggiunse: «Ci ho pensato a lungo e alla fine ho preso una decisione. Quale maggior garanzia per noi dell’avere un amico fidato alla corte del nemico più infido?».

Trasecolavo, speravo di non aver inteso bene: «Vorreste che io accettassi la proposta di Cangrande?».

Doveva averne parlato con tutti, meno che con me. Infatti Eberardo di Herberstein rispose al posto suo: «Sarebbe veramente una garanzia, messer Corrado».

Non presi subito una decisione. Mi nascosi dietro la necessità di dover riflettere. In quell’ultimo scorcio di estate, poco più di una settimana, Beatrice fu con me più fuoco di sempre. Osò, e naturalmente me lo fece notare, raggiungermi in camera rischiando di essere vista dai servi. Alla fine capitolai e, senza ancora intuire nulla, tornai a casa e attesi che il messaggero venisse da me.

Page 206: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

IX

Il falso mercante si presentò a metà ottobre. Aveva un viso familiare e bastò il suo modo dinoccolato di camminare a farmelo tornare alla mente. Giovanni Cappelletto era uno dei venti membri del Consiglio Minore e Cangrande si serviva spesso di lui nei preliminari delle trattative. Fu vago e pronunciò molte parole senza dir nulla di concreto se non che il signore di Verona avrebbe avuto piacere d’incontrarmi per una certa proposta. Quando finsi una titubanza molto vicina alla diffidenza e al disinteresse, girò il discorso mutando la richiesta in un vero e proprio invito per la festa della vendemmia. Lo tenni sulle braci un giorno e una notte e poi accettai. Partii con lui e anche durante il viaggio non gli cavai più di quanto aveva detto.

Continuò a chiacchierare di feste e tornei, della stima del suo signore nei miei confronti e, in relazione alla proposta, giurò e spergiurò di non immaginare neppure di cosa potesse trattarsi. Nell’aggrovigliarsi di supposizioni e sospetti, nella mia mente entrò un tarlo che mi fece apparire alquanto strani sia l’ambasceria sia il modo con il quale Beatrice mi aveva spinto a Verona. Ed entrando in città ebbi quasi la certezza di stare per infilarmi in una trappola.

Quando parlai con Cangrande tutto mi fu improvvisamente chiaro. Bastarono una mia domanda e la sua risposta: «Vi sono stato nemico e lo sarei ancora se cercaste di recare danno alla contessa di Gorizia o alla città di Treviso. Né credo di essere tanto importante da meritare un invito personale per una festa. Allora, signore, perché mi avete voluto qui?».

«Odio veder sprecare i doni di Dio. Siete molto bravo nel trattare, con in più un pizzico di fantasia e d’improvvisazione capaci di spiazzare chi vi si oppone. Potete essere sincero con me e parlare chiaro. Anch’io ho le mie spie: persone vicine a quell’inetto di Ugo di Duino e alla contessa Beatrice hanno lasciato trapelare la vostra intenzione di ritirarvi dalla

Page 207: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

vita pubblica. Uno spreco di talento per me insopportabile, soprattutto se riguarda il pronipote di Ezzelino, uno con cui ho pregato sulla sua tomba, e che non fa mistero di provare una certa stima nei miei confronti.»

Ecco com’era andata. Tutti sapevano come Cangrande fosse sempre pronto a voler accanto a sé chiunque avesse una seppur modesta dote in grado di tornargli utile. Così Beatrice, tramite Ugo e altre persone, gli aveva fatto arrivare la falsità di un mio desiderio di ritirarmi, suggerendo una mia particolare ammirazione nei suoi confronti. Quest’ultima non era certo una falsità. Ma chi non poteva ammirare uno degli uomini più ricchi e potenti d’Italia?

Ebbi l’impulso di tornare immediatamente a casa, di dedicarmi realmente solo alla mia famiglia e alla Patria. Ribollivo di rabbia, ero offeso dalla scarsa considerazione che Beatrice aveva della mia intelligenza. Dovevo trovare il tempo per organizzare un qualcosa che la trasformasse da beffeggiatrice a beffata. Ma Cangrande, scambiando il mio tacere per semplice indecisione, aggiunse: «Vi stimo e so che voi mi stimate. Siete un cavaliere e dovete fedeltà alla vostra Patria. Perciò, fin da ora, vi giuro che mai, dico mai, vi chiederò di compiere un’azione che possa danneggiare il Patriarcato di Aquileia. E neppure direttamente la contessa e suo figlio. Inoltre, vi garantisco un appannaggio annuo di cinquemila fiorini, più una casa, un valletto e due servitori».

Per uno come me era una cifra enorme. In pochi anni avrei potuto mettere da parte una fortuna, e il denaro aiuta molto nelle vendette.

«Quale dovrebbe essere il mio incarico?»«Lo stesso che avevate a Treviso. Trattare ed eseguire, ma con la

massima libertà di agire secondo ciò che il vostro istinto e la vostra intelligenza vi dettano. Allora?»

«Lasciatemi almeno una notte per riflettere. Domani mattina vi darò la mia risposta.»

«Bene, le vostre stanze sono già pronte. Mi farete l’onore di cenare con me?»

«L’onore sarà mio, signore.»Mi arrovellai per gran parte della notte, soprattutto su come

giustificare a Treviso il mio comportamento. All’alba decisi: avrei servito Cangrande. Si mostrò felice e accettò di tenere segreto l’accordo finché io non avessi comunicato la mia decisione agli amici trevigiani. Lo feci due giorni dopo, provocando dispiacere in Francesco da Collalto e

Page 208: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

grande contrarietà negli altri. Presentai le mie dimissioni dal Consiglio dei Trecento e subito Ugo fece cancellare il mio nome dal rotolo dei cittadini. Se non mi intimarono di non mettere più piede in città fu solo perché riuscii a convincere alcuni degli anziani che avrei continuato a operare per la pace, anche se in campo avverso, e che la mia decisione nasceva unicamente da ragioni finanziarie. Meglio un amico fra i nemici che il contrario, dissi prima di lasciarli. Annuirono, ma non mi strinsero la mano.

Dopo tre giorni tornai a Verona, seguito da un carro che trasportava Sebastiano e tutte le mie cose. Prima del giuramento di fedeltà, diedi a Cangrande una versione edulcorata dell’intrigo di Beatrice e lui apprezzò la mia sincerità. Poi sorrise della furbizia della contessa e mi convinse a fingere di fare il doppio gioco. Confidai ogni cosa anche a Sebastiano, e fu lui a invitarmi a tenere un diario: «In una simile situazione e con questa gente, meglio comportarsi come fa il buon amministratore. Annotare giorno per giorno quello che entra e quello che esce».

Così feci e molte volte mi tornò utile per poter citare con precisione luoghi, tempi e persone quando si mettevano in dubbio le mie affermazioni.

Su Cangrande potrei scrivere non uno ma dieci tomi. Non lo farò, basteranno le pagine sulla vicenda di Mantova per far comprendere il mio lavoro. Aggiungo solo che operai tanto bene da far entrare Cangrande a Padova come amico anziché come conquistatore. Non fu facile, ma molto devo al pessimo comportamento dei tedeschi di re Federico e alle invidie e alle discordie dei più illustri cittadini padovani. Cangrande mi colmò di doni e mi fece un uomo ricco, e quando l’imperatore Ludovico di Baviera venne in Italia lo pregò di concedermi il cingolo e gli speroni d’oro. Venni fatto cavaliere aurato il primo agosto del 1327 e, appena tornato a casa, mi tolsi gli speroni donati dall’imperatore e misi quelli di nonno Guido. Con la piacevole sensazione e l’orgoglio di aver rispettato un auspicio e assolto un voto.

Prima di andare all’ultimo capitolo di quella che considero la prima parte della mia vita, voglio scrivere qualcosa in più sul signore di Verona. Nessuno potrebbe capire chi egli sia stato veramente senza sapere di cosa e di chi era stato capace di circondarsi. La sua grandezza, magnificenza e generosità erano impresse innanzitutto nel palazzo. Era immenso e dal corpo centrale si dipartivano due ali a chiudere in forma di quadrato una grande corte con giardino. Era diviso in tanti

Page 209: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

appartamenti, con le stanze ornate da affreschi e arredate lussuosamente, ognuno con propri servi e mensa imbandita. Un’intera ala era riservata agli ospiti, e se questi erano poeti avevano camere con dipinti i boschi delle ninfe e delle muse; se erano guerrieri si trovavano circondati dai trionfi; ai profughi spettavano scene dove regnava la Speranza; ai grandi della scienza toccava Mercurio; agli oratori il paradiso terrestre. E all’ingresso di ciascuno di questi appartamenti, sopra le porte, cerano motti scritti e ornati bellamente.

Tutta Verona era bella, perché Cangrande riversava su di essa parte della sua immensa ricchezza e raramente ho visto dei miseri aggirarsi per le sue vie. Una città pacifica grazie a statuti illuminati, prospera per le molte corporazioni di mercanti e artigiani di ogni tipo, generosa per le innumerevoli confraternite cui si poteva rivolgere chiunque si trovasse in difficoltà. Nulla perciò di strano che egli fosse amato e venerato. E se era spregiudicato nell’ampliare i domini, luciferino nel mutare sempre ogni azione in un guadagno, pure una sconfitta, era anche pio e devotissimo alla Santa Madre che pregava con ardore ogni giorno. Di difetti ne aveva molti, come ogni uomo, ma di due doveva spesso chiedere perdono: l’ira e l’avidità. Vizi compensati, però, dalla misericordia e dalla generosità. Non solo nei confronti dei sudditi, ma di chiunque esule bussasse alla sua porta per chiedere aiuto e ospitalità, dal grande poeta al grande guerriero.

Lo servii fino al 1329. Quando, nominato vicario imperiale di Mantova, stava per cacciarne i Gonzaga rei di aver tradito la fede ghibellina; quando ormai in gran parte dell’Italia gli si dava tempo un anno per passare dallo scranno di principe al trono; quando Guecello Tempesta, l’amico di un tempo, chiamato Guecellone più per la tracotanza che per la mole, uccise Francesco da Collalto ed esiliò altri amici facendosi padrone in Treviso.

Mi sentii libero da ogni vincolo e residua fedeltà e raccolsi attorno a me i fuoriusciti ed esiliati trevigiani e convinsi Cangrande a posticipare l’intervento contro Mantova per diventare a Treviso ciò che era stato il conte Enrico. Il penultimo giorno di luglio lui convocò l’esercito, e lo stesso ordinò di fare a Marsilio da Carrara suo vicario a Padova e nemico giurato di Guecellone Tempesta. Lasciammo Verona il due agosto e a Vicenza raccogliemmo altre truppe. Giunti poi a Padova, si aggregarono le milizie di Guglielmo di Castelbarco, di Rizzardo da Camino, delle città di Belluno e Bassano, per un totale di tremila cavalieri e altrettanti fanti

Page 210: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

divisi in due schiere al comando di Bernardino da Nogarola e Marsilio da Carrara.

Durante questi preparativi, Guecellone Tempesta inviò un messo a chiedere aiuto al duca di Carinzia e, per far credere di non temerci, spedì truppe a mettere a ferro e fuoco i confini padovani. Subito Cangrande gli scagliò contro Ottone di Burgundia che mise in rotta i trevigiani seguendoli fin sotto le mura dove, purtroppo, fu ucciso da una pietra lanciata da un fromboliere. Appena seppe della morte dell’amico, il principe, addolorato fino alle lacrime, diede immediatamente l’ordine di partire per Treviso e arrivammo in vista delle sue mura il nove di agosto.

Cangrande non attaccò la città, la mise sotto assedio circondandola da ogni lato e ponendo il comando generale in direzione della porta dei Santi Quaranta. Nessuno poteva entrare e uscire e questo sarebbe bastato, perché le spie ci avevano informato dell’esiguità delle riserve di cibo e delle milizie. Inoltre Marsilio da Carrara catturò il messo di ritorno dal Castel Tirolo, dove stava Enrico di Carinzia, e prima di lasciarlo andare questi confessò che nessun aiuto sarebbe arrivato da quella parte. Infine, la seconda notte di assedio, fuggirono da Treviso alcuni nobili ghibellini e riferirono di una grande scontentezza nei confronti di Guecellone e di Ugo di Duino, rimasto in città con poche truppe a difesa del palazzo e dei diritti goriziani.

A quel punto, a parte qualche scaramuccia, Cangrande si mise in attesa degli ambasciatori trevigiani pronti a offrire la resa. Dovemmo aspettare fino al giorno quindici, ma infine vennero come lui aveva previsto e io fui incaricato di guidare la trattativa. Mi ci volle del tempo per convincere Marsilio da Carrara e i fuoriusciti trevigiani, però c’era una sola via per evitare ancora una volta un bagno di sangue: accogliere le condizioni dettate da Guecellone per la resa. Costò pure a me, deciso a vendicare l’amico Francesco da Collalto, ma questo fece capitolare la città.

Sottoscritti i patti, subito Cangrande inviò messi ad annunciare a tutte le città a lui soggette e a quelle alleate la presa della Marca, e gli amici iniziarono a chiamarlo sire e i nemici a tremare. Come aveva profetizzato alla sua nascita l’astrologo Scotto, era l’erede di Ezzelino. Per questo mi volle al suo fianco quando entrò trionfalmente a Treviso: io legavo in lui il passato al presente, ero la testimonianza visibile che quanto era stato proditoriamente frantumato finalmente e giustamente si era riunito. Ma il Signore altissimo umilia i potenti e innalza gli umili, e scelse Cangrande per mostrare all’intero mondo questa verità.

Page 211: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Era una giornata afosa e quando giungemmo alla porta dei Santi Quaranta, per fare l’ingresso trionfale rivestiti delle armature lucenti, le spade nei foderi e gli elmi poggiati sull’arcione, Cangrande compì un’azione innocente. Mi tese l’elmo, balzò giù da cavallo e affondò il viso in una fresca fontana detta di Sant’Agata. Bevve a lungo, assetato, schioccando soddisfatto le labbra. Quindi rimontò a cavallo, riprese l’elmo e si godette l’omaggio della città e dei suoi rappresentanti.

Avevano preparato per lui, i suoi capitani e me delle belle stanze nel palazzo vescovile. Là ci spogliammo delle armi, e i valletti ci prepararono un bagno e le vesti per il banchetto organizzato dal vescovo Ubaldo. Quando fu l’ora, tutti scendemmo nel salone dove attendevano anche il prelato, il podestà Pietro dal Verme e i rappresentanti dei consigli della città. Eravamo allegri, affamati e scherzavamo sul ritardo di Cangrande. Poi venne il suo valletto e mi disse di seguirlo. Ricordo che Marsilio mi gridò dietro: «Digli di scendere anche in brache e camicia, purché si mangi!».

Sedeva semivestito sul letto e con lui c’era Canzio, il medico. Era un po’ pallido, ma per nulla sofferente. Anzi, solo rabbioso. Il motivo lo compresi subito perché, neppure il tempo di chiedere cosa avesse, dovette correre alla comoda per scaricare il ventre. E dal puzzo della stanza non si trattava certo della prima volta. Mi scappò di sorridere e lui mi guardò torvo, mentre Canzio diceva: «Accaldato com’era non era proprio il caso di bere tutta quell’acqua fredda».

Insomma, Cangrande non poté festeggiare a causa della dissenteria. Non riusciva proprio a lasciare la camera. A tutti parve solo una beffa e il banchetto si fece ugualmente, con solo la delusione di alcune dame desiderose di conoscere il grande conquistatore. Né ci si preoccupò, vista la forza dell’uomo e la sua giovane età. Infatti, l’indomani mi occupai unicamente di far sì che Ugo e gli altri goriziani potessero partire con i loro averi senza nessuno a porgli intralci, e solo al calar della sera tornai da Cangrande. Era febbricitante, ma pure lui scherzò con me dicendo di voler far scrivere un poema sulla merda, più forte ed eroica di qualsiasi esercito da lui affrontato. Dormii placidamente fino a due ore prima del sorgere del sole, quando Canzio venne a svegliarmi con sul viso una grande preoccupazione. Non voglio farla lunga perché ancora duole. Il malefico flusso del ventre, iniziato il diciotto di agosto, nonostante le pozioni di digitale somministrate da Canzio, il ventiduesimo giorno di agosto del 1329 gli fermò il cuore ed egli giacque

Page 212: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

morto. Così seccò anche il mio ultimo perindeo, e da quel giorno non ebbi più ombra dove trovare protezione.

Potrei chiudere qui questa parte della mia vita, iniziare subito a narrare delle traversie, degli amori e degli orrori che affollarono la seconda. Ma come non spendere un po’ d’inchiostro per narrare le esequie di Cangrande? Nell’ultimo giorno di vita aveva ordinato di essere trasportato a Verona. Perciò, dopo averlo lavato, lo rivestirono degli abiti da battaglia e, posto in una bara di nudo legno, lo misero su un carro trainato da quattro cavalli e partimmo per Verona. Giungemmo in vista della città al tramonto del giorno seguente e ad aspettarci sulla strada trovammo i suoi nipoti Alberto e Mastino con degli imbalsamatori, dei sarti e dei servi di palazzo. Portammo quindi la bara nella chiesa dell’ospedale di Sant’Apollinare, dove fu riaperta.

A causa del caldo Cangrande già puzzava di putrefazione e il suo ventre si stava gonfiando. Allora lo lasciammo nelle mani degli imbalsamatori ed essi per tutta la notte si occuparono del suo corpo, mentre i sarti rivestivano di seta nera una nuova bara di quercia. In questa lo trovammo a riposare il mattino seguente, profumato e con il bel volto disteso in un sorriso. I sarti gli avevano messo una tunica aperta sul davanti, rossa e argentea come i colori scaligeri, e un manto d’oro ricamato d’azzurro in omaggio a quelli veronesi, dei calzari di panno rosso e una berretta di seta bianca. Il capo poggiava su un cuscino anch’esso di seta rossa rigata d’argento.

Così tornò a casa il mio amico e ultimo protettore. Attraverso Porta Vescovo, su un carro ricoperto di teli neri, preceduto dal suo cavallo condotto alla briglia da uno scudiero, seguito da altri due cavalli, uno con la spada sguainata e l’altro con la barbuta e l’armatura, e da altri dieci con scudi rovesciati dov’era dipinto lo stemma di Cangrande. Tutti e dodici questi animali erano montati da nobili cavalieri in vesti nere. La cerimonia funebre, con tutta Verona a piangere il suo signore, si svolse nella chiesa da lui più amata, Santa Maria Antica. Infine, gli misero tra le mani la spada, lo coprirono con un finissimo velo funebre e preziosi teli d’oriente.Quindi lo deposero nell’arca dove riposava suo padre, in attesa che la sua fosse pronta.

Quando dissi di voler tornare a casa, Alberto e Mastino fecero il possibile per trattenermi. Ottennero solo la promessa che ci avrei riflettuto. Tantomeno accettai le profferte dei Visconti, degli Este e dei

Page 213: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Gonzaga. Donai a Sebastiano la mia casa di Treviso e denaro sufficiente per una vecchiaia serena e, ai primi di ottobre, partii con le mie cose su un carro coperto e con la scorta impostami da Alberto. Portavo con me cinquantamila fiorini e una grande angoscia, perché era troppo lunga la lista di coloro che mi avevano amato e protetto ed erano morti. Come se io portassi sventura a chi mi aveva a cuore.

Page 214: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

GLI ANNI DELLA MANTICORA

(1330-1349)

La manticora ha tre file di denti aguzzi,disposte in ordine alterno per meglio sbranare.

Ha volto d’uomo con occhi cerulei e pelle rossa, corpo da leonee coda da scorpione. La sua voce è acuta,

simile al suono di un flauto o a un sibilo di serpe.Si nutre solo di carne umana, e non c’è altezza o distanza

capace di dare scampo a chi viene attaccato.

Page 215: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

I

Al mio ritorno nonna Aurora non c’era più da quasi cinque anni e sentii la sua mancanza fin dalla prima notte trascorsa nella casaforte. Un vuoto fisico e un vuoto nell’anima che avevano colpito anche la mia famiglia. Mio padre era come indurito nel cuore e trascorreva gran parte della giornata a mugugnare seduto in un angolo della corte, sotto un fico; mia madre si era fatta arcigna, aveva spesso con lui dei litigi per delle sciocchezze e trattava la servitù come schiavi; mio fratello Guido, a causa del tormento per quella gamba zoppa, era un uomo di trentaquattro anni cupo e taciturno che non voleva neppure sentir parlare di mogli; Federico aveva raggiunto da tre anni Pietro, nel monastero di Sesto; Ansoaldo, vicino a compiere i vent’anni, abitava a Maniago dove nostra sorella Aurora lo aveva fatto nominare gastaldo del marito. I miei zii materni Pietro e Agnese se ne erano andati da questo mondo l’anno precedente, l’uno a tre mesi dall’altra, e con i cugini non c’erano pressoché rapporti. Zio Rosso, ma della sua famiglia era l’unico, veniva a trovare il fratello tre o quattro volte l’anno. Insomma, non ci fosse stata la numerosa parentela di mia madre a invadere rumorosamente di tanto in tanto la casaforte, la nostra famiglia sarebbe sembrata in via di disfacimento.

Ecco perché nel mio animo angoscia si sommò ad angoscia. Mi sentivo in colpa. Quasi dipendesse da me se nessun bambino scorrazzava per le stanze e la corte, se vi era un’atmosfera priva di gioia, se il viavai di gente della mia infanzia si era interrotto. Non mancava il denaro, le nostre terre sembravano benedette, la gente del villaggio continuava ad amarci, eppure sulla casaforte gravava una cappa di grigia malinconia. Perciò decisi che le cose dovevano cambiare, lo dovevo come indennizzo per la poca attenzione riservata alla mia famiglia. Naturalmente partii con il piede sbagliato, facendomi forte di un forziere colmo d’oro. Metà lo affidai alla banca del suocero di mio zio Rosso e metà restò in casa a disposizione di tutti. Sembrò non avessi fatto nulla e l’unico e infelice

Page 216: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

risultato fu un nuovo e insincero accorrere dei cugini udinesi. A causa di ciò, una sera chiesi piuttosto duramente a mio padre e a mio fratello: «Cosa volete che faccia per ridare vita a questa casa?».

Fu Alberico a rispondere: «Riporta la vita».«Cosa intendete dire, padre?»«Trovati una moglie e dammi dei nipoti.»La risposta mi parve un’offesa a Guido e lo guardai di sottecchi sicuro

di vederlo ancor più accigliato. Mio fratello, invece, stava sorridendo e l’espressione era di chi ha finalmente terminato un duro e sgradito lavoro. Smise la postura gobba, con i gomiti sulle ginocchia e il viso tra le mani chiuse a pugno, si appoggiò allo schienale della sedia, con una piccola smorfia di dolore allungò la gamba incurvata e disse: «In soli sei mesi sono venuti qui in tre a ventilare matrimoni. Perché non ne approfitti tu e mi liberi da questa persecuzione?».

«Un paio sono anche delle belle figliuole» aggiunse mio padre con un accenno di sorriso speranzoso.

Non mi erano mancate le occasioni di prendere moglie, alcune con doti notevoli e piuttosto piacenti, eppure avevo sempre rimandato. I motivi erano stati molti, soprattutto il non sapere esattamente dove mi avrebbe portato la vita. Forse anche il timore di scavalcare mio fratello. Ma questo non ha importanza perché, ciò che tanti pensieri e scrupoli avevano impedito, il sorriso di un padre e la supplica di un fratello lo resero impellente. Se lo sposarmi avrebbe riportato la felicità nella mia casa e nella mia famiglia, allora l’avrei fatto. Il solo annunciarlo produsse effetti immediati. Mia madre, cosa per lei rara, mi volle abbracciare e perdonò la serva che aveva lasciato cadere nella lisciva due pezzetti di carbone macchiando così un lenzuolo; mio padre lasciò la panca sotto il fico e canticchiando s’interessò ai mosti che ribollivano in cantina; e mio fratello volle mostrarmi orgoglioso, campo per campo, l’ottimo stato delle nostre terre.

Lasciai casa giusto il tempo per far visita ai miei fratelli monaci, a mia sorella e all’altro fratello che, come zio Pietro, era più interessato a contare denaro che a guardare le ragazze. Mi presentai anche al gastaldo Patriarcale di San Vito per comunicare il mio ritorno definitivo in Patria, e lui m’iscrisse nel ruolo dei cavalieri da convocare in caso di guerra, mostrando grande rispetto per i miei speroni d’oro. Infine, la visita più temuta, a Gorizia. Beatrice invece mi accolse come non fosse accaduto nulla in quegli anni, come se non avessi contribuito a sottrarre Treviso a

Page 217: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

suo figlio. Congedando bruscamente tutti i presenti, compreso Ugo, sempre più torvo nei miei confronti, mi prese le mani e, con la sua solita aria da donnina fragile e innocente, mi chiese: «Se avrò bisogno, potrò contare di nuovo su di te?».

«Ho giurato al conte Enrico di proteggere sempre suo figlio. Se Giovanni Enrico sarà in pericolo, io accorrerò.»

«Non faresti lo stesso per me?» insistette.A ventiquattro anni era ancora più affascinante di quando l’avevo vista

la prima volta, ma non provavo più nessuna attrazione per lei e non mi costò nulla rispondere: «Voi di difensori ne avete a schiere. Lasciatemi nella quiete dei miei campi».

Le lampeggiarono gli occhi, strinse le labbra solo un attimo, e mi congedò dicendo: «Se avrò bisogno, allora ti chiamerò in veste di Capitano della Patria. Chi è stato mio rimane mio, ricordalo».

Iniziai a quel punto a incontrare padri con figlie in età da marito. Appartenevano alla media e piccola nobiltà cittadina e castellana, a famiglie con feudi e ricchezze non così importanti da dover fare per forza matrimoni combinati e di puro interesse politico o finanziario. Comunque non erano poche e, soprattutto, si mostravano tutte speranzose di essere scelte, perché la temuta alternativa era il convento. Alla fine la mia attenzione cadde su Freja, figlia di Marcabruno di San Vito. aveva diciassette anni, una dote discreta, e sapeva leggere e scrivere. Fisicamente era forse leggermente mascolina, aveva, però, lineamenti piacevoli, una voce e un modo di porsi dolci e, soprattutto, era in grado di sostenere una conversazione in modo intelligente. Lo dico subito, a mia e sua discolpa: presi la decisione a mente fredda e lei accolse quella del padre solo per obbedienza avendo, lei sì e per anelito dell’animo, in mente il convento. Entrambi avevamo un’unica certezza: potevamo imparare ad amarci. Di questo ci convincemmo sempre più nel corso dei mesi successivi e alla vigilia del matrimonio potevamo definirci amici affettuosi. Ci sposammo il ventidue settembre 1330.

I problemi iniziarono fin dalla prima notte. La trovai con le coltri tirate fin sotto il naso, le lacrime agli occhi e un tremore tale da far vibrare il letto. Giacqui accanto a lei senza sfiorarla e per un po’ le strinsi solo una mano chiacchierando della festa appena conclusa. Quando mi parve essersi acquietata l’abbracciai e accarezzai, ma appena cercai di andare oltre si ritrasse. Ognuno ha la sua sensibilità in certe faccende, e il resto non deve essere scritto qui. Posso solo dire che le feci un’unica

Page 218: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

violenza, quella di saggiare con un dito la sua verginità. Quindi, fugato il dubbio, decisi di usare l’unica arte nella quale primeggiavo: la diplomazia. La rassicurai, dicendole che ero disposto a concederle tutto il tempo che le serviva, e salvai le apparenze procurandomi un piccolo taglio all’avambraccio e facendo colare le gocce di sangue sul lenzuolo.Lei era tanto vergognosa quanto dispiaciuta e per tre notti cercò in

ogni modo di compiere il suo dovere, purtroppo sempre fuggendo all’ultimo minuto e chiudendosi come un riccio. Allora persi la pazienza e minacciai di riportarla a casa e raccontare tutto a suo padre. A quel punto subì rigida e gelida la mia poca passione e così fu tutte le volte fino al giorno nel quale mi annunciò di esser gravida. Accolsi la notizia come una liberazione e non la toccai fin dopo il parto.

Qualcuno si chiederà perché io abbia sopportato una tale situazione e non vi è riposta più facile da dare. Se Freja nel talamo non era né donna né moglie, in ogni altra cosa era perfetta. Mia madre le cedette le redini della casa e lei riuscì a mutare una severa casaforte in un palazzo e non c’era ospite che non si rallegrasse con me per una moglie tanto affettuosa, devota e raffinata. In più possedeva la capacità di intuire ogni mio desiderio e di essere in grado di sostituire non solo il musico o il cantastorie, ma anche il giullare. Il buon prete Giulio, un novantenne ammasso di ossa deformate dall’artrite, la pelle talmente sottile da rompersi contro gli zigomi appuntiti, era morto poco dopo il mio matrimonio. Ma, avendo raccolto le confessioni di entrambi, non aveva smesso di consigliarmi pazienza e amorevolezza: «Sono vecchio abbastanza per considerare il piacere della carne un dono di Dio. Nel vostro caso, Corrado, è un dono da conquistare a poco a poco. Il Creatore ha messo nel corpo di tua moglie un animo che la spinge a considerare il corpo solo una prigione. Prima o poi lo romperà lei stessa, e da quel bozzolo uscirà una farfalla. Allora sarai abbondantemente ripagato. Ci vuole solo il tempo della naturale mutazione» mi disse prima della sua ultima messa, durante la quale l’Onnipotente lo chiamò a sé al momento dell’elevazione.

E io attesi. Nacque il mio primogenito Alberico, e poi Altaflor. In quei due anni accompagnai all’ultima dimora mio padre e mia madre, a pochi mesi l’uno dall’altra. Spirati con il sorriso sulle labbra, vedendo il loro sangue ormai al sicuro nei miei figli. Nel frattempo gli anziani del villaggio si erano radunati in una Vicinia straordinaria e mi avevano

Page 219: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

eletto loro protettore, e così avevano fatto subito dopo quelli di Orcenico e Cevraia. Da signore applicai le regole imparate da Enrico e Cangrande e nel mio seppur piccolo e campagnolo feudo regnarono la pace e il benessere. Si raffreddarono invece i rapporti con gli amici dei castelli di Valvasone e Zoppola, perché non ebbi mai alcun riguardo nel difendere i diritti di quei liberi comuni che si erano posti sotto la mia protezione. Mi limitai ad accettare la situazione come inevitabile e il patriarca Pagano della Torre, signore di tutti noi e stanco della protervia dei suoi vassalli, mi lodò e mi prese a sua volta sotto la sua protezione. Poi, al principiare dell’anno 1333, accadde l’impensabile.

Erano passati due anni dalla morte di prete Giulio e non avevamo ancora un nostro sacerdote. Ai miei vicini nessun candidato pareva alla sua altezza e ogni proposta del vescovo veniva rifiutata dopo una sola omelia. Così dovetti impormi e li obbligai ad accettare prete Giacomo. Era questi un uomo sulla trentina, cresciuto all’ombra dell’abbazia di Summaga, e se in apparenza aveva un difetto era quello di essere più un mistico che un pastore. Cosa per altro buona, poiché i miei vicini mal sopportavano chi metteva troppo il naso nelle faccende loro, del comune e dell’amministrazione della chiesa. Piuttosto allampanato, scavato in viso, facile a punire il suo orgoglio con cilicio e flagello, trascorreva gran parte del tempo in preghiera o a leggere dissertazioni sull’aldilà. Le sue omelie giravano quasi sempre attorno all’inferno e al paradiso, i suoi occhi s’infiammavano quando descriveva le gioie dell’uno e i tormenti dell’altro ed era un così bravo oratore da far venire la pelle d’oca pure a me. Appunto per questo, quando qualcuno si ammalava, non abbandonava il suo capezzale finché non gli aveva ripulito l’anima e poi lo assisteva con commovente dedizione finché il Signore non lo risanava o richiamava a sé.

Mio fratello Guido s’intese subito con lui. Per la prima volta aveva incontrato qualcuno che vedeva nella sua deformità, come ogni incolpevole sofferenza, un segno della benevolenza del Signore, un pregio e non un difetto. Perciò a prete Giacomo fu facile, avendo conosciuto in confessione il tormento di mia moglie, convincere anche lei di essere una beneficata. Passava ore a pregare con loro nella nostra cappella e ogniqualvolta aveva occasione d’incontrarmi alzava le mani come a benedire il cielo per la fortuna concessami nell’avere accanto due anime tanto benedette. Al principio non mi curai granché della situazione. Anzi, ero felice della gioiosa serenità di mio fratello e di Freja.

Page 220: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Non mi allarmai neppure vedendo mendicanti entrare sempre più numerosi nella corte. Da bambino, con nonna Aurora, accadeva la stessa cosa. A disturbarmi era invece il fatto che prima di dar loro il cibo, quando si trattava di giovani donne e ragazzine, mia moglie le conducesse nella stalla e le obbligasse a lavarsi. Tanto da giungere al punto da ordinare ai servi di tenere sempre pronti una tinozza e dei teli puliti e alle volte di essere lei stessa a strofinare con la saggina donne luride e malate chiamandole “sorelline mie”. La cosa andò avanti per mesi, finché un giorno venne da me la serva Battistina a pregarmi di rimandarla nei campi. Rimasi stupito dalla richiesta, perché il suo lavoro in casa si riduceva a badare ai figli. Cercai di farmi dire il motivo della scelta, ma le cavai solo un farfugliare imbarazzato e un dire che preferiva stare fuori casa.

Chiesi a mia moglie se era accaduto qualcosa di particolare e lei s’imbronciò dicendo che era sporca e si rifiutava di lavarsi. Ma poi vidi scappare via dalla corte anche la sempre ordinata e linda Bettina, tutta rossa in volto, con i capelli bagnati e le lacrime a rigarle le gote. E Bettina era preziosa perché, a dispetto dei suoi sedici anni, cucinava molto bene e si preparava a prendere il posto dell’ormai vecchia e stanca Lucia. Tornai a chiedere spiegazioni a Freja e lei disse di non capacitarsi dell’accaduto e mi pregò di andare a riprenderla. Mi recai allora a casa del massaro Domenico e vi trovai solo la moglie.

«Marcuzia,» le chiesi «dov’è vostra figlia?»La donna mi guardò in modo strano e rispose che la figlia era a letto,

con la febbre. Insistetti per vederla e allora diventò tutta rossa in volto e disse di tornare più tardi, quando c’era il marito. Così feci e con grande imbarazzo Domenico m’implorò: «Padrone, trovate un’altra. Mia figlia non vuole tornare a casa vostra. L’ho anche battuta, ma proprio si rifiuta e…».

«E…?» lo sollecitai.«Siamo povera gente, padrone. Liberi, ma senza un passo di terra. Dei

poveri ignoranti che non capiscono certi discorsi e modi di fare.»«Suvvia, Domenico, parlate chiaro. Con me lo potete fare, lo sapete»

insistetti.Udii piagnucolare sopra la mia testa, dei passi rapidi sull’assito, e

Marcuzia scese le scale. Si mise accanto al marito e accigliata lo incitò: «Diteglielo».

Domenico la spinse lontano da sé bruscamente, fulminandola con lo

Page 221: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

sguardo. Poi si fece coraggio e disse tutto di un fiato: «La vuole sempre lavare, padrone, anche se Bettina è pulita. E questa mattina la signora le ha messo una mano là… capite dove intendo? E le ha detto: “Questa non farla toccare a nessun uomo, conservala per Nostro Signore”. Come vi dicevo, noi siamo gente ignorante e mia figlia si è spaventata».

Lo interruppi con un gesto della mano, lo stomaco serrato, il volto pallido: «Basta! C’è stato di sicuro un fraintendimento. Guai a voi se una sola parola uscirà da queste mura. Tenete pure vostra figlia a casa, troverò qualcun altro. E non preoccupatevi per la sua dote. Domani vi mando metà soldi e l’altra metà ve la consegnerò il giorno delle sue nozze».

Domenico, al di là di tutto il suo sminuirsi, era un uomo sveglio e, cercando di baciarmi la mano, disse: «Grazie, padrone. C’è giusto un bravo giovane di Casarsa che la vuole sposare. In capo a un mese sarà accasata».

Tornai a casa furibondo e cercai mia moglie. Sia a Treviso sia a Verona avevo conosciuto donne con quella certa predilezione, e gliela gettai in faccia. Mi guardò come se fossi impazzito e quando comprese ciò che intendevo dire perse quasi i sensi. Il confronto fu lungo e duro, e alla fine dovetti convincermi che, se lei era quel tipo di donna, non ne aveva proprio coscienza e, se aveva provato certe piacevolezze le aveva giudicate il naturale compenso concesso da Dio a chi si fa servo dei suoi servi. Allora le dissi di dimenticare l’accaduto, ma le proibii di lavare chicchessia. Lei, a ulteriore prova della sua innocenza, m’implorò: «Permettetemi almeno di lavare i piedi, come ci ha insegnato nostro signore Gesù Cristo».

Glielo concessi, ma incaricai Lucia di tenerla d’occhio. Soprattutto quando io ero via. Si comportò come avevamo concordato, facendosi però sempre più triste. Non sapevo come prenderla e non sopportavo gli sguardi di rimprovero di mio fratello e i tentativi di prete Giacomo di intromettersi nelle mie faccende private. Stavo seriamente pensando di andare a chiedere consiglio a zio Rosso, quando a casa mia comparve Satana in persona.

Page 222: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

II

Era la notte tra il dodicesimo e il tredicesimo giorno di marzo dell’anno 1333, quando un urlo lacerante mi svegliò. Al secondo urlo capii che era di mia moglie, anche perché fu seguito dal pianto dirotto dei miei figli. Balzai giù dal letto e, con le sole brache addosso, corsi nella camera di fronte alla mia. Freja era rannicchiata sul letto, le spalle contro il muro, gli occhi terrorizzati e la camicia appiccicata al corpo dal sudore. Fissava, tremando, un angolo dove la lucerna appesa al baldacchino non riusciva ad arrivare.

«Cosa vi accade? Perché urlate?» chiesi afferrandole una mano gelida e rattrappita.

Dalla bocca le uscirono parole incomprensibili, accompagnate da una specie di rantolo. Intanto, dall’ala dei servi, era accorsa Lucia e guardava smarrita la padrona. Le indicai i bambini che continuavano a piangere e le ordinai: «Portateli in camera vostra». Poi a mia moglie: «Su, calmatevi e ditemi cosa avete».

Indicò con la mano tremante l’angolo buio e, infine, riuscì a pronunciare una sola parola: «Satana».

Lucia la guardò spaventata, si fece il segno della croce, prese rapida i bambini in braccio e fuggì via. Mi ci volle del tempo a calmarla e farmi raccontare cosa aveva visto realmente. E lei, con mio fratello pallido come un morto sull’uscio, disse di essersi svegliata a causa di uno scossone del letto e di aver visto nell’angolo due occhi di brace che la fissavano.

«E poi?»«Una sagoma nera è uscita dal buio e, ghignando, ha cominciato ad

avvicinarsi a me.»«Siete sicura che non fosse qualche ladro entrato in casa?»«No, no. L’ho visto bene. Aveva corna da bue e muso da gatto, ed era

tutto coperto di peli neri. Era il demonio.»

Page 223: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«E si è spaventato per un grido?» chiesi sarcastico.«No, ho invocato Nostro Signore e la Vergine Maria ed è subito

scomparso.»«Avete avuto solo un incubo. Rimettetevi sotto le coperte e cercate di

dormire. Starò qui a farvi compagnia» dissi sicuro.Mi fissò incerta, desiderosa di credermi e implorò: «Sì, vi prego.

Restate qui».Non accadde null’altro quella notte, ma la successiva tutto si ripeté

uguale. Allora feci portare i bambini nella camera di Lucia e mi misi a letto con mia moglie. Stetti sveglio a lungo e verso metà della notte il sonno mi colse. Mi svegliai di colpo con il tetto che tremava come per un terremoto. Oscillava anche la lucerna appesa al baldacchino e non capii se a produrre quello sbatacchiamento fosse mia moglie o se fosse il letto a ballare. Mi rizzai e vidi Freja contorcersi con l’orrore sul viso e le mani tese in avanti come se qualcuno gliele avesse afferrate e tentasse di trascinarla via. Mi spaventai anch’io e le serrai i fianchi esclamando: «Vergine santa, cosa sta succedendo?».

Subito si afflosciò e dopo qualche tempo disse sfinita: «Voleva portarmi via e se non aveste nominato voi la Vergine ci sarebbe riuscito. Mi aveva reso muta».

Ordinai a mio fratello e a Lucia di non far parola con nessuno di quanto stava succedendo. Ma la quarta notte accaddero cose che mi obbligarono a svelare tutto a prete Giacomo. Avevo dormito con Freja e la notte era trascorsa tranquillamente. Lei aveva riposato e l’avevo lasciata nel sonno, poco prima del sorgere del sole, perché dovevo prepararmi per andare a una convocazione del gastaldo patriarcale di San Vito. Non ero neppure in fondo alla scala quando si scatenò l’inferno. Udii del fracasso frammisto a urla, corsi su e trovai il letto sconvolto, la cassapanca rovesciata e Freja che si torceva sul pavimento come sotto i colpi di frusta di un invisibile persecutore. Ma la cosa che mi fece tremare i polsi furono i segni rossi sul suo viso, sulle sue braccia e gambe. Del tutto simili a colpi di frusta.

Prete Giacomo, Freja, Guido e io passammo la giornata in preghiera; e siccome la voce della presenza del diavolo si era sparsa nel villaggio, anche la corte era piena di uomini e donne che pregavano in ginocchio. prima di lasciare la nostra casa, prete Giacomo benedisse la camera, recitò esorcismi e posò sulla cassapanca una piccola icona con l’immagine di san Michele, assicurando: «Il diavolo teme la sua spada.

Page 224: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Vedrete, se ne starà alla larga».La quinta notte, nonostante mi fossi imposto di vegliare, uno strano

sonno s’impossessò di me e a svegliarmi nel cuore della notte non furono urla ma lo scuotermi di Freja. Appena aprii gli occhi, mi disse sorridendo: «Era venuto, ma è apparso subito l’arcangelo Michele ed è fuggito via gemendo e digrignando i denti». Non sapevo cosa aggiungere e lei continuò: «L’arcangelo mi ha accarezzato la testa e ha detto: “Non temere, non lo vedrai più. Invece preparati a un grande dono del signore”. Quelle parole mi hanno dato pace e ora non ho più paura. Domani potete dormire nella vostra camera».

Invece mi trattenni da lei altre due notti, ma non accadde nulla. Tornai allora nella mia camera, cominciando a pensare che tutto fosse finito. Così non fu, perché dopo sette giorni, una domenica mattina, non vedendola alzarsi, andai da lei e la trovai stesa sul letto, immobile, con il viso pervaso di felicità e un grande sorriso a illuminarle il volto. Provai a chiamarla, a scuoterla: nulla, sembrava essere in un altro mondo. Stavo per chiamare mio fratello pensando che fosse paralizzata e proprio in quell’attimo si scosse come chi si sveglia e pronunciò queste parole: «Oh, mio signore, come vi amo». Rimasi sorpreso pensando che fossero rivolte a me, invece come nulla fosse, continuò: «Fratello mio, voi siete un uomo fortunato perché ora avete Nostro Signore Gesù Cristo come cognato».

Sgranai gli occhi pensandola ammattita ed esclamai: «Freja, cosa state dicendo! Guardatemi, sono vostro marito!».

Mi prese una mano e sempre sorridendo insistette: «Solo fratello per il regno dei cieli. Questa notte il signore mi ha sposato, con la Vergine Maria e san Giuseppe a fare da testimoni. C’era anche re Davide e ha suonato per noi la cetra».

Dopo un attimo di smarrimento mi convinsi che Freja era diventata pazza e mandai subito Andrea a Udine, a pregare zio Rosso di venire al più presto. Ciò che accadde nelle settimane successive lo riassumo solamente. Zio Rosso, da quel grande medico che era, parlò di follia mistica. Non cambiò idea neppure dopo aver assistito a una delle quotidiane paralisi che prete Giacomo definì estasi. Scosse la testa ormai canuta e, lasciandomi, disse: «Povero nipote mio, hai un gran brutto problema. Solo per salvaguardare l’onore della famiglia non ti consiglio la casa dei pazzi. È innocua, lasciala alle sue fantasie e permettile di fare ciò che vuole con i poveri e tutti coloro che vuole aiutare».

Dal canto loro, mio fratello e prete Giacomo si fecero immediatamente

Page 225: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

la ferma convinzione di trovarsi dinnanzi a una santa. L’abate di Sesto la pensò diversamente. Ero andato a cercare consiglio dai miei fratelli monaci e l’abate Ludovico aveva voluto venire a esaminarla. La interrogò a lungo e se ne ripartì dubbioso, asserendo che molte volte Satana si traveste da angelo. Infine, quando la voce che fosse una santa si sparse per la diocesi, venne anche il vescovo Guido. Inquisì mia moglie, prete Giacomo, mio fratello, me e altri del villaggio. Alla fine concluse: «Messer Corrado, io non ho certezze da darvi. L’albero buono si vede dai frutti e per ora anche i frutti sembrano buoni vista la carità che vostra moglie sparge a piene mani. Ho potuto fare una sola cosa per provare la sua santità: ordinarle di giacere con voi come moglie e marito. Se tutto questo viene da Cristo, deve adempiere appieno a tutti i suoi doveri cristiani in questa terra. Fatemi sapere se rispetta il mio ordine. Con comodo, ma in lei io non vedo male alcuno».

Siccome ero smarrito, seguii il mandato del vescovo e lei giacque con me anche se ancora più gelidamente di prima. E dopo averla sottoposta ai suoi doveri per tre volte, alla quarta decisi che non era né santa né indemoniata, solo pazza e, se ho sbagliato, Dio mi perdoni. Perché la quarta volta, entrando nella sua camera, avevo avvertito subito un forte odore di cera e l’avevo attribuito alle candele quotidianamente accese sotto una nuova icona di san Michele. Però, quando la sentii gemere sotto di me e vidi le lacrime e l’espressione sofferente, la scoprii, incurante delle sue suppliche. Aveva la sua femminilità gonfia e arrossata, con le tipiche bolle delle scottature. Guardai sotto il letto e trovai subito il pentolino ancora tiepido e rivestito di cera e uno di quei piccoli bracieri che si usano per sciogliere la ceralacca. Le chiesi perché e lei mi rispose singhiozzando e coprendosi il viso con le mani: «Per rendere più grande il mio martirio».

Infine, venne il giorno nel quale non osai più neppure avvicinarla. Si era fermata da noi una mendicante con un bubbone sul viso e quando lei tentò di medicarlo questo si ruppe facendo scorrere un siero marcio e dalla puzza indicibile. Neppure lei lo sopportò e fuggì via vomitando. Salvo non tornare poco dopo con nuove bende e unguenti.

«Perdonami, sorella. Mi vergogno per la mia vigliaccheria» e detto questo prese a pulirle con la lingua l’immonda ferita, con la stessa bramosia con la quale un bambino lecca il miele.

Qualche giorno dopo venne mia sorella. Freja l’accolse con grande gioia, ma appena l’ebbe salutata la sua attenzione tornò a essere solo per

Page 226: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

le preghiere e i mendicanti e non si curò neppure di chiederle come stavano i nipoti. Aurora stette a osservarla per un paio d’ore e si accorse di come ignorava anche i figli. Venne da me e disse: «Fratello, volevo fermarmi qualche giorno. Non credo sia il caso e non credo che sia bene per i tuoi figli vedere queste cose. Se sei d’accordo, li porto per qualche settimana a Maniago».

Accolsi subito la proposta, ma volli che lo chiedesse anche a mia moglie, e lei rispose: «Mi sembra una cosa buona, cognata. Potrò dedicarmi con maggior libertà ai figli del Signore».

«Ma non ti dispiace lasciarli?» replicò Aurora.«Oh, cognata mia carissima. Quando saremo tutti in paradiso avrò

l’eternità per stare con loro.»Mia sorella se ne andò con i bambini, furiosa con Guido, ormai

succube di Freja, e salutandomi mi accarezzò il viso, con le lacrime agli occhi, e disse: «Povero fratello mio, perché proprio a te?».

Sentivo la mancanza dei miei figli e almeno una volta alla settimana cavalcavo fino a Maniago per vederli. Un giorno, sulla strada del ritorno, mi fermai a Spilimbergo per salutare Pregogna, signore di quel castello. Pure lui sapeva di mia moglie e mi fece molte domande. Risposi quello che poteva essere detto senza vergogna e lui comprese anche il taciuto. Era un uomo fra i più potenti della Patria, eppure aveva conservato una rusticità che gli permetteva chiarezza senza offendere nessuno. Mi disse: «Corrado, mi sembrate patito. Cosa ne dite di restare qui un paio di giorni? Un po’ di caccia e di buona compagnia vi toglierebbero dal viso quell’espressione da cane bastonato».

Rimasi e a sera lui mandò nella mia camera una damigella di sua moglie piuttosto golosa di uomini. Dopo tanto tempo, quando se ne fu andata, dormii di un sonno profondo e mi svegliai riposato. Così, dopo ogni visita ai miei figli, mi fermai a Spilimbergo.

Intanto Freja aveva deciso che l’unico nutrimento di cui aveva bisogno erano il Sangue e il Corpo di nostro Signore. Smise di mangiare e iniziò a deperire rapidamente. Zio Rosso era preoccupato e, seppure con parecchi acciacchi, almeno una volta al mese veniva da Udine a controllare la situazione. Le parlò duramente e lei lo ringraziò per i suoi consigli e gli promise di fare almeno un pasto al giorno. Ma tutto si ridusse a un po’ di cicoria e a un bicchiere d’acqua.

Non so, e sono sincero, se sono giunto a odiare mia moglie, la madre dei miei figli. Non sopportavo la sua presenza e persino la sua voce mi

Page 227: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

dava fastidio, ma non mi opposi mai alle sue volontà, neppure quando, fattasi esangue e scheletrica e non riuscendo a stare in piedi, se non per pochissimo tempo, faceva salire nella sua camera i mendicanti accampati nella corte. A fare delle rimostranze furono solo alcuni anziani, asserendo durante una Vicinia che fra i poveri c’erano anche parecchi ladri e a qualcuno erano sparite delle uova e dei pollastri. Promisi di intervenire chiedendo loro di pazientare ancora per un po’ e intanto ripagai i derubati.

Non dovettero pazientare a lungo, perché nel febbraio del 1334 Freja si ammalò di polmoni e il suo respiro divenne un rantolo continuo. Sopportò il male con il sorriso sulle labbra e invocando la Vergine entrò in agonia. Morì il terzo giorno di marzo, con un attimo di lucidità che usò per pronunciare queste parole: «Sposo mio, ecco, ora sono pronta a venire con te».

Due giorni dopo la sua sepoltura, con una folla di poveri e mendicanti a piangere per lei, mio fratello Guido chiamò un notaio di Valvasone. Rinunciò in mio favore a ogni suo diritto e bene e l’indomani mise poche cose in una bisaccia, montò a cavallo e abbandonò la sua casa per ritirarsi nel convento francescano di Udine. Mi lasciò dicendo: «Fratello, che Dio ti perdoni per come ti sei comportato con tua moglie. Non mi cercare, per te io sono morto».

Non lo trattenni e non trattenni neppure prete Giacomo, deciso a chiedere al vescovo l’autorizzazione a farsi monaco nell’abbazia di Summaga. Semplicemente feci ciò che sempre facevo quando il mio animo vacillava. Andai prima a Spilimbergo e poi mi chiusi per tre giorni nell’abbazia di Sesto.

Page 228: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

III

Nei mesi seguenti mi dedicai ai miei interessi e ai miei doveri. Con l’accordo degli anziani riformammo gli statuti dei villaggi a me soggetti, rendendoli più moderni. Rimisi ordine nelle mie terre e partecipai a tutte le convocazioni volute da Beatrice come Capitano della Patria. Avevo trovato con lei un compromesso, simile a quando stavo a Verona. La trattavo da signora e da amica, senza però riconoscerle doveri di fedeltà come contessa di Gorizia. Anche lei voleva sapere di mia moglie e mi domandò senza giri di parole: «Amico mio, era veramente una santa?».

Quando il legame con una donna nasce solo dalla carne, senza alcuna delle complicazioni insite nell’amore, ed è consensualmente accantonato, con lei si può parlare come se fosse un uomo. Perciò le raccontai tutto, anche l’intimità. Per una volta il suo parlare e il suo agire furono di una sincerità purissima: «Credimi, Corrado, voi uomini non potete capire. Quando la tua vita è decisa da altri e a te non resta che piegare il capo e ubbidire, la tentazione di metterti al riparo dietro Dio è fortissima. Oppure fingi di ubbidire, di essere felice, e ti dedichi al vizio o al potere. Salvo non si abbia la grazia di nascere idiote o molto sciocche. Perciò non so se tua moglie fosse una santa, ma pazza non lo era davvero».

Poi, dopo un anno e mezzo di vacanza della sede, il papa ci impose da Avignone un nuovo signore e Patriarca. Bertrando di San Genesio era un francese ormai vicino alla settantina, non sapeva nulla della Patria né tantomeno conosceva la nostra lingua. Al principio lo si considerò un vecchio inutile, invece mostrò presto di quale impasto era fatto. Prese in mano le redini del patriarcato, deciso a mettere ordine sia nelle questioni feudali sia in quelle religiose, e creando non poco scontento iniziò a reclamare il saldo dei crediti e a ricacciare i castellani all’interno dei veri confini dei loro feudi. Quando a ottobre venne a San Vito convocò pure me e mi chiese ragione delle mie signorie. Era piccolo, segaligno, con uno sguardo durissimo. Ascoltò attento le mie spiegazioni che Ettore di

Page 229: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Savorgnan, un nobile udinese, gli traduceva. Quand’ebbi finito chiese: «Voi dunque non le reclamate come feudi? Riconoscete di esserne solo il protettore e il portavoce e che quei liberi comuni dipendono direttamente da me?».

Risposi di sì a entrambe le domande e lui si disse soddisfatto. Volle dividere con me il cibo e il vino preparato per il pranzo e, pur mostrandosi cordiale, continuò a indagare: «Quali obblighi avete nei confronti della Patria in caso di guerra?».

«Devo partecipare a cavallo e con corazza pesante, vostra paternità.»«Nonostante non abbiate nostri feudi?»«Così è stato concordato ai tempi di mio nonno Guido, quando si

stabilì in Friuli.»«E da dove veniva vostro nonno?»Guardai Ettore e lui parlò a lungo, citando Ezzelino.

Allora il patriarca Bertrando mi fissò incuriosito e disse, con un sorriso capace di trasformare il volto arcigno in uno paternamente ironico: «Bene, messer Corrado, allora l’obbligo di partecipare con cavallo e armatura mi sembra un buon indennizzo per i danni arrecati alla santa madre Chiesa dal vostro antenato. Anche se, dovendo applicare la medesima regola, certi castellani della Patria meriterebbero di veder raddoppiata l’imposizione militare. Almeno il vostro bisnonno era un grande uomo. Questi, di grande, hanno solo la protervia».

Andrea, il mio primo scudiero, seppur ormai uomo fatto e padre di tre figli, non aveva mai smesso di considerarsi tale. A suo tempo gli avevo concesso un manso con un canone molto basso e di quello aveva vissuto. Ma, una volta rimasto solo in casa, gli avevo chiesto di lasciarlo e di trasferirsi con la famiglia nella casaforte come mio tuttofare e con un buon salario. Maddalena, la sua sposa, cresceva i miei figli assieme ai suoi e lo faceva bene, contenta di vederli affrontare tutti assieme i rudimenti del leggere e dello scrivere, impartiti settimanalmente da uno dei cappellani di San Giovanni. Non solo, la sua dedizione e quel po’ di baccano concesso ai bambini, rendeva meno triste ogni mio ritorno nella casa vuota.

Rientrando da San Vito trovai ad attendermi Andrea, piuttosto agitato nell’arco della porta principale della corte, e subito mi disse: «Messer Corrado, mentre eravate via è venuto a cercarvi un uomo. Un tipaccio dall’aspetto selvatico, con la faccia da brigante e modi rudi. Con un tono prepotente mi ha chiesto dove eravate e poi se n’è andato via infuriato.

Page 230: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Ho provato a domandargli il nome, ma lui ha risposto con malagrazia che il nome lo dà solo ai suoi pari».

Gli passai le briglie del cavallo pensando a chi potesse essere, ma la descrizione non mi riportava alla mente nessuno.

«Non ti ha detto null’altro?» domandai.«Solo che sarebbe tornato domani mattina. Io tirerei fuori la spada,

non mi è piaciuto per niente.»Feci spallucce e il mattino seguente attesi lo strano visitatore. Si

presentò un’ora prima del mezzodì e mi accorsi che la descrizione di Andrea era stata molto vicina al vero. Teneva per le briglie un cavallo tozzo, dalle zampe enormi, più adatto a tirare l’aratro che a portare la vecchia sella dalla quale pendeva una spada di tipo tedesco, larga un palmo. Aveva capelli e barba lunghissimi e arruffati, di un nero simile alla pece e rotto solo da qualche filo di canizie. Gli occhi erano cupi e agitati, le sopracciglia folte e ingarbugliate. La pelle del viso e quella delle mani era bruciata dal sole, fitta di piccole rughe e screpolature. Il naso, schiacciato e storto, era probabilmente rotto. In quanto agli abiti, non indossava tunica ma brache e un giacchetto di pelle. Notai subito, però, la camicia bianca e pulitissima spuntare sul collo e fra i lacci allentati del giacchetto, l’anellino d’oro all’anulare sinistro e gli speroni d’argento ben lucidato, simili ai miei e non a rotella come già si usava allora.

Sedevo nell’androne della torre, un libricino di conti in mano, e non mi alzai né dissi nulla finché non l’ebbi davanti e chiese con un vocione dai toni sgarbati: «buona giornata, signore. Siete voi il cavaliere Corrado?».

Lo scrutai da capo a piedi e risposi: «Non vi conosco e la buona creanza vorrebbe che foste voi a presentarvi, visto che siete a casa mia».

Tormentò imbarazzato le briglie, si dondolò sulle gambe e chiese: «Non vi ricordate di me?».

Tornai a scrutarlo in volto: «No, signore. Il vostro nome?».«Sono Ermanno, Ermanno di Marzinis. A rendervi omaggio e a

chiedervi una grazia, seppure con grande vergogna.»Dalla mente iniziò a emergere il ricordo di un uomo incontrato al

tempo del matrimonio di mia sorella Aurora. C’era una lite per questioni di legnatico ed ero riuscito a chiuderla dopo una trattativa con il gastaldo del Waldo, ossia l’amministratore patriarcale del grande bosco che si estendeva dal Tagliamento fino al fiume Meduna, ormai ridotto

Page 231: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

quasi a nulla nel tratto fra San Giovanni e San Vito. Ecco chi era quell’uomo, il gastaldo Ermanno. Ricordai anche ciò che mi avevano raccontato di lui pochi anni dopo. Il bosco era stato frazionato in feudi e al gastaldo, come liquidazione, il patriarca aveva concesso un pezzo dello stesso, equivalente a circa una decina di mansi e il castelletto di Marzinis, posto al centro della concessione. E poi c’era una storia che non sapevo se fosse vera o leggendaria: dicevano avesse avuto una moglie di straordinaria bellezza, sbranata da un lupo poco dopo aver partorito; da quel momento era tanto incattivito e inselvatichito che pochi osavano entrare nel suo oscuro e minuscolo feudo.

Mi alzai in piedi e lo invitai a entrare nella sala, dicendo: «Ora ricordo, ma allora non avevate né barba né capelli lunghi. E il vostro naso…».

«Un maledetto cinghiale furioso, signore. Ho dovuto atterrarlo con le mie mani e mi ha lasciato questo regalo» m’interruppe.

Non riuscivo proprio a immaginare cosa avesse spinto quell’uomo a lasciare il fitto del bosco per venire da me. Così, una volta seduti e con Andrea che lo guardava preoccupato mettendoci davanti un boccale di vino, attesi che me lo svelasse.

«Signore, come dicevo, sono qui con vergogna a chiedervi una grazia. Tutto ciò che entra nella mia casa, in denaro intendo, deriva dalle pelli e dalle corna che riesco a vendere. Pelli buone e sane, perfette, ben scuoiate e conciate. Corna di cervo per far manici degni di un re. Però con quei due patriarchi, i della Torre intendo, spero che il diavolo se li sia portati via, a pretendere sempre denaro per questa e quella decima, ebbene… ebbene, ho dovuto disonorarmi chiedendo un prestito.»

Siccome mi fissava e rimaneva silenzioso, azzardai: «Vi serve forse del denaro?».

Scosse le mani davanti al viso, guardandomi come se avessi detto uno sproposito: «E io verrei qui a disturbare un cavaliere aurato per chiedere denaro? Voi mi fate torto, signore!».

«Allora vi prego, spiegatevi meglio.»«Quello stramaledetto prestito me lo ha voluto fare, anzi me lo ha

imposto, un grande uomo. L’unico degno di trovare la porta del mio castello sempre aperta. L’unico con cui cacciavo come con un fratello. Vostro zio materno, Federico di Pinzano.»

«Ma è morto da più di un anno.»«Qui sta il problema. Quando ha voluto darmi il denaro, ho preteso di

redigere un regolare atto, garantendo il debito con il mio castello. Anche

Page 232: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

se vostro zio non lo voleva. Sono un uomo retto io, e cavaliere.»«Continuo a non capire, ser Ermanno.»«Tre giorni fa si è presentato da me un messo di vostro cugino Simone.

Non avesse avuto le insegne dei Pinzano gli avrei aizzato contro i cani. Ma aveva le insegne del mio amico e l’ho accolto. E cosa mi ha messo in mano quel farabutto? Un’ingiunzione di vostro cugino. O pago entro il mese o mi toglie il castello!»

Era tutto agitato, rosso in viso, con le mani che gli tremavano per la rabbia. Lo invitai a calmarsi, a bere un bicchiere, e poi chiesi: «E io come posso servirvi?».

«Ecco la grazia che vi chiedo. Come siete protettore di tre villaggi, siate anche mio protettore. Vi sarò servo se implorerete vostro cugino di darmi almeno sei mesi di tempo, per accumulare pelli e corna sufficienti a saldare il mio debito. Suo padre non mi aveva dato termini, sia benedetta la sua anima.»

«A quanto ammonta questo debito?»«Restavano tre marche aquileiesi e ora sono diventate sei.»La voce gli si era quasi rotta, gli occhi arrossati, e temetti di vederlo

piangere. Feci due calcoli: si trattava di circa trenta fiorini, non un granché, ma per lui un’enormità se pensava di saldare il debito con le pelli.

«Non è per me, sapete. Oh, no. Io me ne andrei mendicante per il mondo. È per la mia povera figlia. Non ha dote e ora rischia di non avere più un tetto sulla testa. Piuttosto do fuoco al castello con noi dentro.»

Mi faceva pena, capivo quanto gli era costato venire da me. Era un uomo disperato. Non solo, era un uomo di altri tempi, di quando la parola valeva più dell’oro e l’amicizia più di un castello. Lo tranquillizzai: «Non dite queste cose, nessuno vi toglierà il vostro castello. Ve lo prometto. Tra qualche giorno devo giusto andare a Pinzano e parlerò io con mio cugino. Si troverà un accomodamento».

Il viso gli si riempì di gratitudine, fece per prendermi una mano e baciarla. Glielo impedii appena in tempo: «Non fatelo, siamo fra cavalieri. A me non costa nulla».

«Voi siete la mia salvezza. Ora sono più tranquillo. Me lo ricordo, sapete, di come avete trattato quella questione sul legnatico. Per questo mi sono detto: chi meglio di messer Corrado può essere mio paladino? E quando pensate di…»

«Tornate alla fine della prossima settimana. Venerdì, se volete.

Page 233: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Dovrebbe essere tutto a posto.»Lo tenni a pranzo da me, gli riempii più volte il bicchiere e due ore

dopo il mezzodì, quasi allegro, rimontò a cavallo per tornare nei boschi di Marzinis, a non più di sei miglia da San Lorenzo.

Come gli avevo promesso andai a parlare con mio cugino Simone, convinto di risolvere tutto. Invece, per il fatto di essere ormai in troppi a dividersi le rendite del castello, di quei soldi lui aveva proprio bisogno, erano l’unica possibilità per pagare le nuove decime imposte dal patriarca Bertrando. Decisi d’istinto, per me la cifra era da poco. Scrissi una carta di pagamento per mio cugino Guido di Udine, subentrato al nonno materno nella banca fiorentina, la diedi a Simone e così rilevai l’ipoteca.

Venerdì, alla stessa ora della volta precedente, Ermanno di Marzinis tornò. Era teso e mi scrutava nel tentativo d’intuire la sentenza. Non volli farlo angosciare oltre e ancora prima che parlasse gli annunciai: «Rilassatevi. È tutto a posto».

Fu come se si fosse scrollato dalle spalle un pesante masso, si drizzò nel busto e trasse due profondi respiri.

«Vi devo la vita!» esclamò. Poi, di nuovo preoccupato: «Ci sono altri interessi da pagare? I mesi di dilazione sono quelli chiesti?».

In parte mentii: «Dovrete pagare unicamente il capitale. Per rispetto a suo padre e all’amicizia che c’era fra di voi ha rinunciato a spese e interessi. Per il tempo non dovete preoccuparvi. Avrete tutto quello che vi serve. Ora entriamo, vi do la vostra ipoteca e così dormirete sonni tranquilli».

Si bloccò nel mezzo della corte, aggrottando le sopracciglia: «L’ipoteca? Resa prima del saldo del debito?».

Dovetti dire la verità: «Per evitare trattative troppo lunghe ho saldato io. Siete mio debitore e, come vi ho detto, potete pagare con comodo».

«Non posso accettare» asserì risoluto.«E perché mai? Darli a me o a mio cugino per voi non cambia nulla.»«Perché l’avete fatto? Non siamo né parenti né amici.»«Parenti no, ma amici potremmo diventarlo. Non vi pare? Amo la

caccia e se voi m’invitaste nel vostro bosco…»«La caccia? Troppo poco per una simile grazia» m’interruppe.Non capivo la sua titubanza ad accettare la cosa e m’incuriosiva

l’espressione sospettosa, come se io celassi un imbroglio. M’infastidì, e sbottai: «La volete o non la volete questa ipoteca?».

Page 234: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«A questo punto la voglio e non la voglio. I favori sono obbligazioni, come i prestiti. Ditemi cosa volete veramente in cambio.»

A quell’uomo non potevo chiedere nulla che già non avessi. Poi, improvvisamente capii perché fin dal principio gli avevo concesso attenzione. Era, nonostante la bruttezza e la sgarberia, molto simile a nonno Guido. Mi imposi di pazientare e dissi: «Voi mi ricordate l’uomo cui devo tutto, la mia stessa esistenza. Prendete il favore come un omaggio a lui».

«Intendete dire Alberico, vostro padre? Be’, con lui un po’ di amicizia c’era.»

«Intendevo mio nonno, messer Ermanno. Anche lui è stato salvato da uno sconosciuto, uno con il quale non aveva né parentela né amicizia. Poi sono arrivate entrambe. Era Corrado di Valvasone. E già che ci siamo, pure Ansoaldo di San Lorenzo che l’ha voluto come figlio. Vedete? La mia famiglia deve molto a persone che non erano tenute a dare nulla. Perciò entrate e portatevi via quell’ipoteca. Forse, un giorno, sarete voi a farmi un favore e senza saperlo. Io non vi chiederò mai nulla.»

Avevo parlato con foga, perfino con un filo di dispetto. Lui scosse la grossa testa, si sfregò le mani e con imbarazzo cercò di giustificarsi: «Capisco, capisco cosa intendete dire. È che di questi tempi, simili comportamenti… Perdonatemi, sono un uomo rozzo, disabituato alle buone maniere. Prima, quando c’era mia moglie, non ero così. Poi, il dolore, le ingiustizie…».

Finalmente entrò nella sala e gli tesi l’ipoteca. Guardò il rotolo di pergamena e non lo prese.

«Allora vi faccio una carta» disse.«Non serve. Ho la vostra parola. Non fate il cocciuto come con mio

zio, pure a lui sarebbe bastata la parola. Le carte non si sa mai in quali mani finiscono.»

La prese cauto, quasi potesse mordergli la mano, e se la infilò sotto il giacchetto. Mi guardò fiero: «Ogni mese verrò a portarvi qualcosa, garantito».

«Va bene anche ogni due mesi, o tre. Non ha importanza. Non dimenticatevi della caccia, invece. Ci tengo.»

«Vi aspetto il giorno di san Martino. Non importa se piove o tira vento, l’importante è indossare panni robusti. I cinghiali nati a primavera, i più teneri, li si scova fra arbusti e rovi. Con arco e lancia, vi prego. La

Page 235: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

balestra non è arma da uomini, è da vigliacchi. Anche se non dovrei osare imporvi alcunché essendovi debitore.»«Niente balestra, sono d’accordo con voi.»Ero veramente interessato alla caccia e mai avrei creduto che l’incontro con quell’uomo mi avrebbe cambiato la vita per sempre.

Page 236: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

IV

Il giorno di san Martino sorse curiosamente tiepido, con grandi sprazzi di sereno e qualche grosso nuvolone a coprire le cime dei monti. La strada per andare a Marzinis era abbastanza comoda, almeno fino al casale detto Siletto, perché sorge a ridosso di quel fiumiciattolo ben prima che prenda dignità di fiume. Da là, attraversati un ponte di legno e la porzione di bosco chiamata Boscatto, si doveva proseguire per un sentiero stretto fra querce e olmi secolari. A mano a mano che si avanzava, il tappeto di foglie si faceva sempre più alto e, se non si fossero ormai i rami denudati in gran parte, sarebbe stato come cavalcare in un tramonto verdastro e cupo. Invece, l’autunno e il sole cavavano un arcobaleno di gialli, marrone e rossi da commuovere l’animo.

Giunto a un paio di miglia dal luogo dove sorge il castello, temetti di essermi perso e il cavallo iniziò a scuotere nervosamente la criniera per i troppi rigagnoli e sorgive che lambivano il sentiero rendendo molli e cedevoli i cigli. Poi vidi orme di cavallo recenti proseguire nella mia direzione, profonde come solo il cavallo di Ermanno poteva lasciare. Le seguii finché improvvisamente il bosco diradò e, da sopra i bassi cespugli, sporsero le mura del castello. Era circondato da rii e fosse naturali, con cinquanta passi di prato tutto attorno. Vi era una cerchia merlata, quasi perfettamente circolare, con nel mezzo un tozzo mastio in mattoni giallognoli, e di mattoni erano le mura aggredite dal muschio e dall’edera. L’intero castello occupava uno spazio più piccolo della mia casaforte.

Proprio dalla mia parte pascolavano pecore, agnelli e castrati sotto lo sguardo attento di un uomo vestito come uno straccione e con un nodoso bastone stretto fra le mani. Appena mi scorse emise un fischio lungo e forte e subito udii un furioso abbaiare di cani. Mi fermai impugnando la lancia, pronto a difendermi. Non vedevo la porta perché era dal lato opposto ed ebbi un po’ di paura. Invece dei cani comparve

Page 237: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Ermanno. Sempre vestito alla sua maniera, ma questa volta di duro cuoio, la lancia in mano, l’arco a tracolla e la faretra con le frecce appesa alla cintura assieme a un coltello dal manico d’osso. Mi accolse gridando da lontano: «Benvenuto, messer Corrado. Il Signore sembra volerci donare una giornata buona per la caccia, senza un solo refolo d’aria a tradirci. Le prede annusano l’uomo a cinquanta passi, anche senza vento». E rivolto al pastore: «Bovo, prendi il cavallo di questo signore e mettilo nella stalla. Si va a piedi, per la caccia nel bosco».

Il pastore borbottò parole incomprensibili e prese il cavallo per la cavezza guardandomi di sguincio. Intanto Ermanno mi era giunto davanti e controllava com’ero vestito. Avevo indossato brache di panno pesante, stivali di pelle e una tunica corta, di quelle con gli spacchi fin sotto le ascelle, stretta ai fianchi da una cintura di cuoio spesso. Mentre anch’io m’infilavo a tracolla l’arco e appendevo la faretra alla cintura, chiesi: «Allora, vi sembro adatto alla caccia?».

«Sì, va bene, ma dovrò proprio farvi un dono. Ci vuole la pelle. Il panno protegge ma s’impiglia sui rovi e sugli spini. Vi darò io la pelle giusta, messer Corrado.»

«Sentite, dobbiamo cacciare assieme. Non è meglio lasciar perdere il messere?»

Ridacchiò soddisfatto: «Dite bene, non avevo il coraggio di chiedervelo. Sapete, la caccia nel bosco è un po’ come la guerra e combattere assieme un po’ di confidenza la crea. Allora, cosa preferite? Cinghiale o cerbiatto?».

«Vada per un giovane, tenero e grasso cinghiale.»Ermanno conosceva il bosco come le sue mani, credo fosse persino in

grado di dare un nome a ogni singolo albero. Fu una caccia strana, fatta di suoni, odori, orme. Di un correre e un appostarsi improvvisi, di un rifiutare una certa preda perché l’anno successivo avrebbe figliato in abbondanza e un’altra perché la sua bravura a non farsi catturare era stata così grande da meritare la vecchiaia. Faticosissima a studiare un ciuffo di peli rimasto su uno spino, o un ramo di cespuglio spezzato a una particolare altezza. Alla fine m’indicò, in una minuscola radura piena di aglio selvatico, una piccola mandria di cinghiali. Nascosti in ginocchio dietro un cespuglio li studiò a uno a uno e poi decise, sussurrandomi: «Il terzultimo a sinistra».

Incoccai la freccia, feci un profondo respiro e con la corda già tesa uscii allo scoperto. I cinghiali, mi guardarono, grugnirono e presero a

Page 238: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

correre da ogni parte. Tenevo sotto tiro quello indicatomi e scoccai poco prima che sparisse nel fitto del bosco. Parve inciampare, fece un capitombolo e crollò proprio al margine della radura con un grido altissimo.

«La lancia! Non deve patire oltre il giusto» mi gridò Ermanno.Corsi dall’animale. Aveva il collo trafitto da parte a parte, ma cercava di

scuotersi via la freccia e tirarsi su, e mi guardava continuando le sue grida di disperato dolore. Gli spaccai il cuore al primo colpo e non avevo ancora estratto la punta della lancia che Ermanno già lo stava sgozzando con il suo coltello, spiegando: «Altrimenti la carne diventa scura e dura poco. Ottimo colpo, Corrado. Una sola freccia, senza infliggere troppe sofferenze».

Lo sventrò, tolse i visceri, meno il cuore e il fegato, e li portò in una fossa asciutta dove, a ripulire, avrebbero provveduto gli animali della notte. Quindi gli riempì il ventre di foglie d’aglio selvatico e se lo caricò sulle spalle. Avevamo iniziato la caccia con il sole circa all’altezza dell’ora terza e ormai stava calando oltre nona. Erano trascorse sei ore, e non mi erano parse più di due. Per tornare al castello ne impiegammo quasi un’altra e mancava poco al tramonto. Dissi: «Ermanno, dovrete darmi ospitalità per la notte».

Camminava davanti a me, leggermente piegato sotto il peso dell’animale, e rispose ansando e senza girarsi: «L’avrei considerata un’offesa se non aveste passato la notte da me. Solo non aspettatevi lussi. Sono povero e il castello avrebbe bisogno di parecchi restauri. Ma Cosa volete, ormai non serve a nulla. Un tempo sì, e non sono passati neppure vent’anni. Chiunque voleva tagliar legna o raccoglierla, pescare o cacciare nel bosco, doveva venire da me a chiedere il permesso. E se non gli spettava per privilegio o diritto, doveva pagare il giusto, metà a me e metà al patriarca».

«Potreste vendere concessioni di caccia ai nobili confinanti.»Si arrestò di colpo e girò la testa il poco bastante a guardarmi: «Forse

saranno anche vostri amici, ma la verità è la verità. Quelli non sanno neppure dove sta di casa la cavalleria, non sono mica come i loro padri. La caccia è nobile al pari della guerra, ma in entrambe bisogna rispettare il nemico e fare il minor danno possibile alle terre calpestate. Questi invece cacciano con cani, battitori, perfino con reti, e ammazzano animali in così grande numero che metà sono destinati a marcire».

Sorrisi perché la pensava esattamente come me e seppur selvatico e

Page 239: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

rozzo era più nobile e cavaliere della stragrande maggioranza di certi nobili e cavalieri di mia conoscenza.

La porta del castello dava l’idea di come poteva essere la situazione all’interno. Era di quercia, spessa e rivestita di ferro, ma la ruggine si era infiltrata attorno ai chiodi fino a bucare le lastre. I due grossi battenti di bronzo apparivano consunti dal tempo e una delle ante non doveva venir aperta da anni, perché affondava nella terra. Appena dentro, da un lato c’era una stalla con portico e fienile e dall’altro una piccola canova. Fra la porta e il mastio, il pozzo, l’unico ad avere scolpita l’arma del mio ospite: una testa di leone con ancora tracce di rosso. Da dietro il mastio sporgevano i lati della casa, a un solo piano con solaio e tetto di paglia.

Quattro enormi cani dalla razza indefinibile corsero scodinzolando incontro al padrone. Appena videro me si bloccarono, mi puntarono gli occhi addosso e iniziarono a ringhiare. Mi fermai, mentre il pastore che aveva preso il mio cavallo si avvicinava lento e dondolante al padrone.

«Cialtrone di un Bovo, muoviti! Prendi questo cinghiale, lavagli la pancia e appendilo a sgocciolare nella canova» gli gridò Ermanno.

«Amico mio,» dissi io «quei cani non mi sembrano per nulla amichevoli.»

«Non vi preoccupate. Permettetemi solo di passarvi un braccio attorno alle spalle e non vi daranno più fastidio» rispose.

Così fece e subito i cani smisero di puntarmi e vennero trotterellando verso di noi. Ci circondarono e poi a uno a uno presero ad annusarmi, ancora diffidenti. Continuavo a stare immobile, per nulla rassicurato.

«Cagnacci, questo è un amico. Annusate bene e cercate di ricordarlo» continuava Ermanno scuotendomi le spalle. «Tu, Giallo, annusa bene e fallo capire a quegli altri testoni.» Il cane mi fissò, sfregò il naso contro la mia coscia e prese a scodinzolare. «Questo è il capo, Corrado. Accarezzatelo. Non sulla testa, sulla gola.»

Ubbidii, Giallo si tirò su fino a poggiarmi le zampe sulle spalle e mi leccò il mento. Quindi mugolò e andò tranquillo ad accovacciarsi con gli altri sotto il porticato. Proprio allora fece la sua comparsa Francesca, la figlia diciassettenne di Ermanno.

Gli uomini, soprattutto quando sono costretti alla castità, spesso sognano donne. Solitamente molto belle, spesso costruite dalla mente mettendo assieme particolarità di molte, conosciute o anche solo intraviste. Sirene della notte, venute apposta a sgravare il basso ventre. Perciò carnali e impudiche, eppure talmente belle da aver facile gioco

Page 240: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

nel loro mandato. Nello stesso tempo dolci e amorevoli da lasciare un bel ricordo e il desiderio d’incontrarle anche nella vita reale. Per questo, credo, si usa parlare de “la donna dei miei sogni”. Poi ve ne sono altre, talmente pudiche e oneste, piene di grazia ed eleganza, da non parer vere e, infatti, si trovano solo nei versi dei poeti e dei trovatori. Non l’avrei mai creduto che ne esistesse una nella quale i due tipi, senza lascivia e senza algidità, potessero fondersi. invece, l’avevo davanti.

Francesca possedeva una bellezza virginale nella pelle appena dorata dal sole, nel roseo delle labbra socchiuse sul niveo dei denti e, soprattutto, nella limpidità e purezza degli occhi azzurri. Tutto incorniciato da capelli castano chiari striati di biondo, lunghi fin oltre le spalle e sciolti, a parte due lunghe treccine ai lati del volto, nel quale non vi era imperfezione di sorta. Se ne stava ritta e snella, le mani, dalle dita lunghe e affusolate, intrecciate davanti a sé quasi a nascondere persino l’intuizione del pube, gli occhi bassi ma non tanto da celare lo sguardo. La tunica dalle maniche attillate, povera nel suo lino tessuto grossolanamente, priva di ogni ornamento, forse era lisa dove la sopravveste di misera canapa la nascondeva. Eppure la indossava con tale noncuranza da renderla più elegante delle dame che esibivano vesti setose o damascate.

«Ecco, questa è Francesca» annunciò Ermanno. «Vieni avanti, saluta il nostro ospite e benefattore.»

Ero stordito e, ricordo bene, provai subito un assurdo impulso di abbracciare quella fanciulla. Attratto ma senza alcuna impurità nella mente, come se volessi solo trasmetterle amore e protezione. Nei trentadue anni della mia vita non avevo mai provato una sensazione simile e mi ci volle un grande sforzo per mostrarmi indifferente e comportarmi da uomo rispettoso.

Quando mi fu davanti fece un piccolo inchino e piegò leggermente un ginocchio dicendo, con una voce soffice come la lana appena garzata: «Signor cavaliere, è un grande onore avervi nella nostra casa».

Le presi una mano, la sfiorai appena con le labbra e dissi: «L’onore è mio, perché è una casa dove abitano la bellezza e la grazia».

Arrossì leggermente. Faticavo a lasciarle la mano, mi sembrava che qualcosa di deliziosamente caldo fluisse dalla sua alla mia per risalire lungo il braccio ed entrarmi nel petto a intenerire il cuore. Fu lei a staccarsi, con un piccolo ma gentile strappo.

«Figlia, è tutto a posto dentro? Hai preparato cibo e birra? Sono

Page 241: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

affamato e assetato e, se non sono un caprone, credo anche il nostro ospite» disse Ermanno.

«Lasciatemi solo qualche attimo ancora, padre. Intanto ho preparato qualcosa sotto il pergolato. Se non avete freddo e il nostro ospite gradisce aver per tetto solo poche foglie ingiallite.»

«Quale freddo? Stiamo sudando. Vero, Corrado?»Mi stava per uscire un altro complimento e lo fermai proprio con i

denti: «Il tramonto è tiepido e la mancanza di foglie lo renderà ancora più piacevole con gli ultimi raggi di sole».

Sotto il pergolato cerano un tavolo e due panche con i segni dei colpi d’ascia, ma lei aveva steso sul primo una candida tovaglia con ricamati dei papaveri e dei fiordalisi e sulle seconde due cuscini rivestiti di bombasina cerulea. Cuscini coperti e ricoperti dozzine di volte, ma che mi parvero degni dello scranno di un papa. Siccome ero un po’ sporco di terra, spinsi il mio da parte. Sul tavolo c’erano una caraffa di birra e due boccali di peltro lucido e ammaccato, un cucchiaino d’argento dal manico quasi consumato, una piccola terrina di pasticcio di fegato mescolato a delle erbe e alcune fette di pane nero tagliate sottili.

«Prego, servitevi. Io non ho vigne e mi faccio la birra da solo. L’orzo me lo dà il pievano di Pescincanna, in cambio di beccacce, fagiani e qualche lepre. Spero vi piaccia» m’invitò Ermanno.

Non avevo mai voluto bere birra e non amavo troppo il fegato. Invece bevvi, e mangiai il pasticcio trovando entrambi deliziosi. Dopo due boccali, osai dire: «Ermanno, avete una figlia molto bella. Come mai nessuno ve l’ha ancora portata via?».

Si asciugò i baffi con il dorso della mano, scosse la testa e rispose: «Bella lo è, ma povera. Né la voglio dare a qualche contadinaccio arricchito. Ma prima o poi verrà qualcuno capace di meritarsela, e allora si vedrà». Infilò una mano sotto la camicia e tirò fuori una scatolina d’argento di forma triangolare, appesa al collo con una striscia di cuoio. La baciò, l’aprì e mi mostrò cosa conteneva. C’era incastrato un triangolo d’osso e il viso di donna dipinto sopra appariva, per quanto un pittore può fare, identico a quello di Francesca.

«Bella, ma di persona lo è molto di più di come l’hanno dipinta» dissi.Mi guardò perplesso: «Di persona?». Poi fece un sorriso amaro. «Ah,

già. Sono uguali, e non solo esteriormente. No, no. Questa non è Francesca, è la mia povera e adorata moglie.»

«Posso chiedervi come è morta?»

Page 242: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Voi potete, sì. È stato un lupo. Vedrete la sua pelle, in casa. Ma potrebbe essere ancora qui, maledizione. Se solo quei maledetti… Stava tornando da Bannia, assieme a un mio servo e sua moglie. Le avevo detto di non andare. C’era la neve e avevamo sentito il lupo ululare due notti prima. Ma lei non voleva mancare alla messa, e c’è andata. Io ero via… Scusate, m’ingarbuglio. Non è facile per me parlarne, anche se sono passati tanti anni. Bene, come vi dicevo stavano tornando a casa e con loro c’erano anche i signori di Zoppola. Due donne e un servo, con il lupo a ululare. Ma quelli non li hanno accompagnati fino qui, se ne sono andati per i fatti loro. Poi hanno detto di aver udito grida e di averle scambiate per quelle di gente che litigava. Sono mica tornati indietro! Ma vi prego, non parliamo più di questo. Non vado più a Zoppola da allora. Temo di incontrarli e scannarli!»

La voce gli tremava e aveva le lacrime agli occhi. Mi protesi verso di lui, poggiai amichevolmente una mano sulle sue, contratte una sull’altra, e dissi: «Scusatemi, Ermanno. Non dovevo chiedervelo».

Si sfregò gli occhi con i pugni, come un bambino. Ebbe un gesto di dispetto: «No, no. Sono io a essere sbagliato. Forse ho fatto male a voler crescere una figlia da solo. Eppure, come vedete, è graziosa. È capace anche di leggere e scrivere, sapete? Glielo ha insegnato il mio povero fratello Uldarico. Era cancelliere del vescovo e ha passato qui gli ultimi anni di vita. Le ha insegnato anche le buone maniere. Si vede, no?».

«Eccome se si vede. Su, facciamoci un altro boccale di birra.»La sala e la cucina occupavano un unico grande stanzone. Da una parte

il focolare e dall’altra la tavola con due panche ai lati e due sedie alle estremità. Il soffitto di grosse travi era stato pulito e non aveva una sola ragnatela; sulle pareti, bianche di calce, campeggiavano contrapposte un’icona di sant’Uberto assieme a un cervo con una serpe sotto gli zoccoli e una grande pelle di lupo dalla testa ringhiante. Il pavimento di terra battuta mostrava qua e là argilla fresca, ma era ben spazzato. Dal trave maestro pendevano tre lucerne a olio, e un’altra aiutava il fuoco a illuminare uno spiedo dove un giovane castrato stava rosolando. E proprio accanto a questo, seduta su uno scranno, stava Francesca e ungeva la carne con una piuma d’oca che di tanto in tanto intingeva nella leccarda.

Ermanno m’indicò una delle due sedie, quella con lo schienale più alto, e spostandola mi accorsi che una delle gambe era stata appena sostituita. Il mio ospite m’indicò la pelle di lupo e io mostrai meraviglia per le

Page 243: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

dimensioni. Disse qualcosa sulla cenere e certe erbe usate per mummificare la testa e altre cose che neppure udii. Non riuscivo a staccare lo sguardo dal profilo di Francesca illuminato dalle fiamme; quando chinava la testa per intingere la piuma, i capelli lo celavano e quasi soffrivo nell’attesa che la rialzasse per ammirarlo nuovamente. Poi, guardandolo di sottecchi, mi accorsi dello strano modo con cui Ermanno mi fissava. Allora cercai rapido una scusa: «Sembra buono e ha un profumo molto invitante».

«Tra un po’ potrete smettere di guardarlo e lo potrete gustare. Il castrato, intendo» borbottò accigliandosi.

M’imposi di non guardare più verso il focolare e con non poca fatica mi concentrai prima sulla disquisizione di Ermanno sulla morte della cavalleria e poi sul perché la gente si ostinasse a comprare spezie costose quando il bosco poteva darne gratuitamente di ben più buone. Finché Francesca disse: «Padre, è pronto».

Mentre lei deponeva sul tavolo un enorme tagliere con un coltello e un forchettone, lui andò a prendere lo spiedo. Mettendo accanto a me una terrina colma di valerianella, Francesca mi sfiorò una spalla con il braccio, con un movimento che non mi parve casuale, e ne godetti come se me la fossi stretta al petto. Ermanno tagliò la carne con la rapidità e la precisione di uno scalco e realmente il vapore che sgorgava era pieno di un delizioso aroma nel quale riconobbi solo il finocchio selvatico e la mentuccia.

Francesca sedette alla destra del padre, lontana da me. E le fui grato, perché guardando Ermanno potevo guardare lei e ammirare l’eleganza con la quale si portava il cibo alla bocca e mangiava. La delusione venne poco dopo, perché in quel castelletto mezzo diroccato si usava andar a letto presto e appena portato via il bacile con l’acqua e le pezzuole per pulirsi le mani lei si ritirò dandoci la buonanotte. Dopo un ultimo boccale di birra, anche Ermanno disse: «Una giornata faticosa, vero? Meglio andare a stendere le ossa. Venite, vi mostro la camera».

Era una stanzetta adiacente alla sala, con un letto e una cassapanca sulla quale Francesca aveva preparato un lume acceso. Le lenzuola odoravano di lisciva e alloro, il pagliericcio profumava di foglie, il guanciale era di soffici piume d’oca, la coperta fatta di pelli d’agnello. Eppure quasi non chiusi occhio e a ogni risveglio spiavo di continuo le fessure dell’imposta sperando di veder filtrare il chiarore dell’alba. Con il sole lei sarebbe riapparsa, e la mia giornata avrebbe avuto un senso.

Page 244: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

V

Innamorarsi per la prima volta a trentadue anni è una cosa molto imbarazzante. Ci si comporta come se di anni se ne avessero sedici, si fanno le medesime assurdità, si hanno i medesimi pensieri e si dicono le stesse cose. Solo che a sedici anni fanno tenerezza e invece in un uomo ormai adulto rischiano di apparire patetici e ridicoli. Purtroppo non ce ne si rende conto, ci si sente normali, e prima o poi è sempre qualcun altro a metterti davanti la realtà.

Nel mio caso fu lo stesso Ermanno. Ma quel burbero e selvatico lo fece con la delicatezza di un amico affettuoso. Accadde dopo l’Epifania, quando venne a portarmi una quota del debito. Era una giornata ventosa, l’umidità faceva penetrare il freddo fin dentro le ossa e minacciava neve. Vedendolo entrare nella corte quasi lo rimproverai: «Non dovevate venir in una simile giornata. Ve l’ho detto ormai tante volte, non c’è fretta. Naturalmente mi fa sempre piacere vedervi, però…».

Aveva il vizio di interrompermi sempre e lo fece pure allora: «A dire il vero il denaro non è il motivo più importante della mia visita, Corrado».

Mi parve come agitato e comunque in preda a una grande preoccupazione. Pensai subito a Francesca e, senza riflettere, chiesi ansioso: «Avete qualche problema? Forse vostra figlia sta male?».

«Francesca sta bene, ma un problema c’è e riguarda proprio lei.»Entrammo in casa e ci sedemmo accanto al fuoco. Avevo il cuore che

batteva forte per l’ansia e lo sollecitai: «Vi prego, ditemi qual è il problema».

«Il problema sono i fiori» disse aggiustandosi la pelliccia come per darsi un contegno.

«I fiori?»«I fiori. Quante volte siete venuto da me nelle ultime settimane?

Quattro? Cinque? Non importa, è sempre stata una gioia accogliervi.

Page 245: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Solo che i fiori aumentavano di volta in volta. Ne ha seccati tanti quest’estate, però, se continua così, presto non ce ne saranno più per la tomba di mia moglie. E mi dispiacerebbe.»

Compresi subito cosa intendeva. Quando ero tornato la prima volta, ne avevo trovato un mazzetto sul letto. Nell’ultima la quantità era triplicata. Ogni volta avevo ringraziato Francesca e lei si era schermita dicendo che servivano a togliere l’odore di chiuso. Comunque feci finta di nulla: «Non vi capisco, amico mio».

«Sentite, io mi sono sposato circa alla vostra età e tutto ciò che è accaduto prima è ancora qui, conservato nella mia testa, come il ricordo più bello.» E si batté il pugno sulla fronte. «Perciò, se non ho frainteso, se non ho attribuito a certi sguardi significati inesistenti, mi sono fatto una convinzione. Se sbaglio, vi chiedo perdono fin da ora.»

Ebbi la stessa reazione di un bambino colto a rubar uova. Arrossii e biascicai: «Se qualche mio comportamento vi ha infastidito, vi chiedo subito perdono. Ma non credo…».

«Lasciatemi finire, altrimenti mi confondo. Ho impiegato tutto il viaggio a prepararmi il discorso. dunque, come dicevo, se non ho frainteso, mi sembra che voi gradiate la presenza di mia figlia.»

«Come potrebbe essere diverso? Voi avete in casa…»«Per favore, abbiate ancora un po’ di pazienza. Francesca si è fatta

improvvisamente triste. Almeno finché non vi vede comparire. Allora cinguetta come un usignolo d’estate. Se ne sta tutti i giorni come un’anima in pena a spiare speranzosa la corte e, se non venite, all’imbrunire sembra di avere un morto in casa. Insomma, credo, anzi ne sono sicuro, che si sia invaghita di voi. A questo punto devo farvi una preghiera: se a voi è indifferente, se vi comportate con lei a quel modo solo per cortesia o galanteria, preferirei non vedervi a Marzinis per almeno qualche mese. Sperando che le passi. Cosa mi dite?»

Ero pieno di gioia e con fin troppa foga risposi: «Vi dico, amico mio, che avete fatto di me un uomo felice. Decidete il giorno, e io corro da voi con il notaio a redigere l’atto di matrimonio».

Tirò un sospiro di sollievo, fece persino un ampio sorriso: «Anche voi mi rendete felice. E triste nello stesso tempo. Quel castellaccio mi sembrerà una tomba senza Francesca. Ma l’egoismo di un padre non deve intralciare il destino dei figli. Inoltre, sarà per me un grande onore avere voi per genero, un cavaliere aurato ricco di beni e terre. Non correte troppo, però. Ci sono almeno tre regole da rispettare».

Page 246: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Nessuna che non si possa violare» replicai.Sembrò non avermi neppure udito e continuò: «Per prima cosa, e ne va

del mio onore, non do in sposa mia figlia a chi è mio creditore. Potrebbe sembrare un baratto, una cosa indegna. Devo saldare il debito e poi si parlerà di notai. Inoltre, per dote, dovrete accontentarvi della mia casa e delle mie terre. Vi prego solo di lasciarmi morire nel mio letto, poi potrete anche vendere tutto. Infine ci vuole un congruo tempo di fidanzamento, la decisione deve essere meditata e desiderata. Se accettate queste indiscutibili condizioni, stringetemi la mano e l’impegno è preso».

Mi tese la mano e io, ben sapendo che era inutile discutere le sue condizioni, la strinsi. Impiegò quasi un anno e mezzo a saldare il suo debito. Finalmente, l’ultimo sabato di agosto dell’anno 1335, il notaio stese l’atto e il pievano di Pescincanna benedisse la nostra unione.

Quelli tra il 1335 e il 1338 sono anni incisi nell’oro. Ci amavamo al punto di essere un solo corpo e una sola anima. Anche i miei figli l’amarono subito, ma lei non volle che la chiamassero madre e li faceva pregare per la vera portandoli spesso a deporre fiori sulla sua tomba. Tolse loro ogni brutto ricordo ed eliminò ogni chiacchiera del villaggio ripetendo a chiunque nominasse Freja: «Non ditela santa o pazza, ricordate solo l’enorme bene che lei ha fatto a chiunque bussava alla sua porta. E se considerate un peccato o una pazzia amare il prossimo più di se stessi, allora non siete dei buoni cristiani».

E a me, dopo che le ebbi confidato anche l’intimità: «Marito mio, se io non ti amassi come ti amo, anch’io avrei odiato la mia e la tua carne».

Anche lei aveva aperto le porte ai poveri e non c’era donna di San Lorenzo o degli altri miei villaggi che non trovasse in Francesca una sorella cui potersi confidare e chiedere aiuto più che una signora generosa. Così, dopo un’iniziale diffidenza, gli anziani presero a riverirla, e uno di loro, vicino a compiere i novantadue anni, un giorno mi disse: «Corrado ho una cosa da dirti. Posso chiudere gli occhi felice, perché qui è tornata la tanto amata e mai dimenticata Aurora. Non avrei mai creduto che tu riportassi qui una come tua nonna».

Insomma, la felicità era enorme e neppure le mancate gravidanze la scalfivano. Mia moglie ripeteva: «Il signore ci ha fatto un grande dono: l’amore che ci lega. Per ora non chiediamogli di più. Lui deciderà il momento giusto per mandarci dei figli. Ora badiamo a quelli donati a te e a Freja, meritano attenzione come fossero nostri».

Potrei andare avanti per pagine e pagine. Per me non c’è un solo

Page 247: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

attimo di quegli anni che non meriterebbe di essere raccontato. Purtroppo, però, la manticora era in agguato e, il quindicesimo giorno di gennaio del 1339, il patriarca Bertrando mi mandò a chiamare e io mi presentai nel suo palazzo nel castello di Udine. Mi ricevette nello studiolo dove d’inverno leggeva e scriveva cose di teologia, soprattutto contro gli eretici. Una stanza molto piccola e calda dove mancava quasi il fiato per il camino troppo rovente e la presenza di tre prelati e due Savorgnan. Non sapevo il perché della chiamata ma, convinto com’ero che si trattasse di qualche nuova decima, non avevo alcuna preoccupazione. Era già accaduto e mi ero preparato a trattare una riduzione per dare respiro alla mia gente già stremata dalle continue imposizioni.

Bertrando se ne stava avvolto in un mantello bianco, la cuffia dello stesso colore in testa e nessun segno della sua dignità addosso, neppure il pallio. Lasciandomi in piedi, chiese: «Siete ancora amico di Alberto e Mastino della Scala?».

«Certo, vostra paternità. Anche se negli ultimi dieci anni li ho visti solo un paio di volte. Durante i miei viaggi a Verona.»

«Allora non vi dispiacerebbe rivederli.»Iniziai a temere di star per ricevere un invito a far parte di qualche

ambasceria. Non avevo nessuna intenzione di lasciare Francesca, né di rimettermi dentro faccende politiche. Perciò dissi cauto: «Se venissero a rendervi omaggio, sarei felice di abbracciarli».

Lui scambiò uno sguardo con Tristano Savorgnan, seduto accanto a lui, e con il suo accento francese pieno di erre mosce ed enne nasali sembrò voler far cadere il discorso: «Come sta la vostra famiglia? Vostra moglie vi ha finalmente dato un figlio? Il mio gastaldo di San Vito parla di lei come di una donna dalla straordinaria bellezza e dai modi molto graziosi».

«Ringrazio il gastaldo, ma no, nessun figlio in arrivo per ora. E la mia famiglia sta bene, vostra paternità.»

«Allora bisogna far di tutto per salvare salute e bellezza.»Lo stomaco cominciava a stringersi e sentivo come avvicinarsi il

pericolo. Le ultime parole del patriarca, seppur pronunziate con leggerezza, avevano un sentore di minaccia. Continuò, cambiando di nuovo discorso: «Cosa sapete sulla situazione di Milano?».

«Ben poco. So di una grande inimicizia all’interno di casa Visconti, fra Azzone e il suo consanguineo Lodrisio. Cosa comune quando le grandi

Page 248: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

dinastie si fanno troppo numerose.»«Già, ma c’è un problema. Sua santità papa Benedetto considera la

cosa molto grave, pericolosa per la Chiesa.Mi ha scritto una lettera e, diciamo così, lui amerebbe che questa lite terminasse. Magari a favore dei vostri amici Alberto e Mastino.»

Non capivo come Visconti e Scaligeri fossero collegati nella faccenda e l’aria mi mancava sempre più. Mi limitai a osservare: «Reverendissimo, Verona non ha nessuna mira su Milano. Di questo sono certo. Qualche lettera ce la scambiamo, e nessuno dei due signori me ne ha fatto cenno».

«Ah, ecco. Non vi vedete, ma vi scambiate lettere. Allora di sicuro vi avranno detto di aver dato asilo a Lodrisio quando Azzone ha raso al suolo il suo castello di Seprio. Credo la sappiate più lunga di quanto volete far credere. Ma non importa, sono cose fra vecchi amici. Vero?»

La sensazione di pericolo si faceva sempre più forte, l’aria irrespirabile. I sensi si stavano acuendo e sentivo perfino la puzza del fiato di fra Scipione seduto a un passo da me. Dovevo capire cosa si nascondeva dietro a tutti quegli sguardi puntati su di me: «Signore, voi siete ammirato per la chiarezza. Me ne donate qualche oncia?».

Bertrando fece un gesto a Tristano e lui finalmente spiegò: «Sia Azzone sia Lodrisio hanno chiesto aiuto al reverendissimo signor patriarca, e il nostro amatissimo signore ha chiesto consiglio a sua santità. La santa madre Chiesa considera più vicina agli interessi della cristianità la posizione di Lodrisio, attualmente protetto dai vostri amici. Perciò sarete felice di poter aiutare l’una e gli altri».

Tristano non mi era mai piaciuto. Troppi paroloni, una deferenza vicina all’untuosità. Subdolo e goloso di primeggiare nella Patria. E amico di Ugo di Duino che, dopo la morte improvvisa di Giovanni Enrico e il ritorno in Baviera di Beatrice, teneva ormai in pugno il conte Alberto e i suoi figli.

«Aiutarli? Io?»Il patriarca sorrise, si raddrizzò la cuffia e, puntandomi contro l’indice,

disse: «Messer Corrado, vi stiamo per rendere un grande onore e anche per concedervi la possibilità di riparare una volta per tutte ai peccati del vostro bisnonno Ezzelino. Abbiamo deciso di inviare cento cavalieri in aiuto di Lodrisio e affidare a voi il comando. Sono sicuro che accetterete. Così, con un piccolo servigio, metterete al sicuro per sempre la vostra famiglia».

Page 249: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

La minaccia non poteva essere più chiara. Cercai rapidamente qualche scappatoia senza trovarne neppure una. Non ero così potente da oppormi al patriarca. L’unica soluzione era rivoltare la cosa a mio favore, l’unica cosa importante mettere al sicuro Francesca e i miei figli. Se dovevo andare a Verona ci sarei andato e, una volta là, avrei cercato di trarre qualche beneficio da quella che consideravo una disavventura. E se in tutta la faccenda c’era di mezzo Ugo di Duino, non gli avrei dato la soddisfazione di mostrarmi avvilito quale ero dentro di me.

«Se questi sono i vostri desideri, signore, io chino il capo e ubbidisco. Quando dovrei partire?»

«Sarà tutto pronto in due settimane. Comunque avete tempo, basta che siate a Vicenza entro un mese. Ce ne fossero di uomini come voi, capitano. Perché questo è il nuovo titolo che vi spetta» rispose Tristano con un tono leggermente ironico.

Lo fissai dritto negli occhi e poi dissi: «Signore di Savorgnan, preferisco che mi trattiate da cavaliere aurato quale sono. Di capitani ce n’è una schiera. Lo siete anche voi, vero?».Arrossì, strinse le labbra e subito guardò Bertrando come a cercare aiuto. Ma lui rise e buttò là: «Ve la siete cercata, figliolo».Ritornai a San Lorenzo con la morte nel cuore. Non mi spaventava combattere, faceva parte dei miei doveri. Ma lasciare Francesca era come strapparmi un braccio. Entrando in casa mi finsi allegro e la strinsi fra le braccia. A lei bastò un solo sguardo per farsi seria e dire: «Tu porti brutte notizie».«Oh, non così terribili. Dovrò solo andare via per qualche settimana. Passeranno in fretta.»Si era staccata da me e mi fissava stringendo spasmodicamente una mano nell’altra. Entrò Andrea e lei passò subito da tu al voi: «Dove dovreste andare? E a fare cosa?».«Il patriarca mi ha ordinato di comandare delle truppe fino a Vicenza. Probabilmente per nulla. Sarà una buona occasione per rivedere i miei amici Alberto e Mastino. Suvvia, non preoccupatevi.»«Appena vi ho visto ho provato una brutta sensazione. Non potete evitarlo?»«No, non lo posso fare.»«Allora scusate, devo sistemare delle cose in camera» disse, e se ne fuggì via.«Ci sono problemi, signore?» domandò preoccupato Andrea.

Page 250: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Con lui non finsi e, fattomi serio, gli ordinai: «Tira fuori armi e armatura e falle lucidare».«Dovrete combattere?»«Se no perché le tirerei fuori?» risposi un po’ sgarbato.«Allora io vengo con voi. Sono sempre il vostro scudiero.»«No, mi farà da scudiero uno dei cavalieri più giovani. Tu dovrai

badare alla casa, vigilare sulle mie cose mentre sono via.»«La signora resterà qui? E i vostri figli?»«Non voglio darti troppe responsabilità. Farò in modo che appaia loro

come una vacanza, ma affiderò Francesca ai miei cugini di Pinzano e i ragazzi ai miei fratelli a Sesto.»

«Perché non a Ermanno o a vostra sorella?»«Riportarla da suo padre? No, il gesto potrebbe essere frainteso,

provocare chiacchiere. Soprattutto se la mia assenza dovesse prolungarsi oltre il previsto. In quanto a mia sorella, nel castello di Maniago ci sono troppe trame per la supremazia. Quei litigiosi potrebbero passare alle armi. Meglio fare come ho deciso. E tu, una volta alla settimana, andrai a controllare o da una parte o dall’altra che tutto sia come deve essere. Solo se a Pinzano ci fossero dei problemi, e non vedo il perché, andrai a prendere Francesca e la porterai da suo padre. O se io dovessi….»

Non terminai la frase e Andrea esclamò: «Non pensatelo neppure!».Salii in camera e trovai mia moglie stesa a letto. Singhiozzava

premendosi il cuscino sulla bocca per non farsi udire. Sedetti accanto a lei e me la strinsi al petto: «Mia amata, non fare così o mi renderai ancora più doloroso il lasciarti. Ti prego».

Mi si aggrappò al collo, le sue lacrime bagnarono la mia pelle e pure io ebbi un brutto presentimento.

Page 251: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

VI

Non voglio scrivere sullo strazio degli addii. Ognuno, se ama veramente qualcuno, lo può immaginare. Passo subito a Udine, nel campo di Marte sotto il colle del castello, dove i miei cento cavalieri mi attendevano sotto un piovigginare fine. Era l’ora prima del venticinque gennaio 1339, un lunedì. Partimmo quasi di nascosto, lo stendardo della Patria e la mia bandiera arrotolate, con solo pochi padri e madri a salutare perché la mia truppa era composta da cadetti, il più vecchio dei quali non superava i venticinque anni. Né il patriarca né un suo rappresentante si degnò di venire a benedirci, ma mandarono solo il decano del Capitolo a benedirci.

A causa dei carri con i viveri e le masserizie impiegammo quattro giorni per arrivare a Vicenza, e vedendo con chi avremmo dovuto combattere mi si raggelò il sangue nelle vene. Avevano preparato per me un quartiere a palazzo da Vivaro e Giovanni Maria, il padrone di casa, mi accolse tenendo fra le mani una lettera di Alberto e Mastino. Una lettera affettuosa nella quale si scusavano di non poter essere a Vicenza per motivi di opportunità politica, mi auguravano fortuna e richiedevano la mia presenza a Verona durante il ritorno dalla Lombardia.

Giovanni Maria mi aveva lasciato leggere ponendosi da parte, vicino alla finestra sul cui davanzale si erano accumulate due dita di neve. Vedendomi deporla sul letto, domandò: «Messer Corrado, cosa ne pensate di questa avventura? Anche voi credete che Lodrisio possa prendere Milano e scalzare Azzone?».

«I signori di Verona ne paiono convinti» risposi sorpreso da una domanda tanto diretta e dall’espressione perplessa del mio ospite.

«Io vorrei saperlo da voi. E non pensate che voglia criticare i miei signori. Ci fanno una grazia concedendo a Lodrisio di portarsi via i mercenari tedeschi. La situazione stava diventando insostenibile.»

«Non conosco ancora bene la situazione. Ma perché v’interessa tanto

Page 252: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

la mia opinione?»Giovanni Maria aveva pressappoco la mia età e le numerose cicatrici

sulle mani e sul volto non lasciavano dubbi sul suo passato. Eppure aveva il disgusto dipinto sul volto, come chi è costretto ad assistere a spettacoli ributtanti.

«Milano è una brutta bestia, fatale a molti. Se non ricordo male lo è stata anche per il vostro avo Ezzelino. Ed Ezzelino era un grande generale, non comandava certo truppe come questa ripugnante Compagnia di San Giorgio. Sono in gran parte mercenari, tagliagole, assassini e ladri. Voi vi fidereste di gente così?»

Credetti di capire cosa stava tentando di dirmi, seppure nascondendosi dietro a una domanda. I liberi Comuni e le signorie utilizzavano sempre più truppe prezzolate, per evitare di mettere a rischio la vita dei nobili e dei ricchi cittadini. Meglio perdere qualche libbra d’oro piuttosto di un figlio. Naturalmente, chi è costretto per vivere a giocare con la morte, chi spera di costruire una fortuna con i saccheggi, non è certo uomo da ideali. Risposi: «Siamo ancora abbastanza giovani da poterlo dire senza venire accusati di stupida nostalgia: questi tempi stanno abbrutendo di giorno in giorno. Una volta non era così».

Annuì e disse: «Esattamente quello che intendevo. Solo che alle volte tutti mi paiono come dei ciechi o degli stolti. Se si affida la propria difesa a degli estranei e senza andare troppo per il sottile, prima o poi si perde la libertà. Spero di non essere un profeta di sventure, ma temo che un giorno, a questi stranieri, sembrerà più semplice e conveniente farsi padroni delle nostre case anziché difenderle per un pugno d’argento».

Socchiuse la finestra e si sporse leggermente. Una folata di vento e qualche fiocco di neve entrarono nella camera ed egli, richiudendo, si volse verso di me dicendo: «Stanno arrivando i vostri alleati. Fate con comodo, io scendo a riceverli e far servire loro vino e pane dolce. Ponti d’oro all’occupante che se ne va!».

Poco dopo scesi nel salone e trovai Giovanni Maria da Vivaro che conversava, fingendosi lieto, con alcuni uomini seduti sugli scranni posti davanti al camino. Li descrivo a uno a uno, con i nomi che mi diedero presentandosi. Lodrisio Visconti, vicino alla sessantina, era un uomo di discreta statura, il viso ornato da una barba che gli copriva solo il mento e terminava in due corni appuntiti, e non gli si poteva negare nobiltà nei tratti e nei gesti; Konrad di Landau, detto Lando, alto, le spalle larghe, pareva un albino per i suoi occhi pallidi e i capelli di un biondo quasi

Page 253: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

bianco, e c’era una durezza vicina alla crudeltà nel suo sguardo; Werner di Hurslingen, detto Guarneri, ricordava Passerino nella statura e nell’apparente gracilità del corpo, aveva un viso appuntito e aguzzo al pari dei lunghi denti scoperti in un sorriso inquietante; infine Rainardo di Givier, detto Malerba, un gigante con i tratti del barbaro appena uscito dalla foresta, capelli e barba di un colore indefinito, fra il castano e il canuto, in gran parte raccolti in trecce grosse sul capo e fini sul viso butterato, uno sguardo che non si riusciva a capire se fosse placido o tonto.

Il primo ad alzarsi al mio ingresso fu il padrone di casa: «Questi è il capitano Corrado da Romano, l’ultimo di quelli che attendevate». Si alzarono anche gli altri e indicandomeli con il braccio, la mano aperta e il palmo all’insù, Giovanni Maria continuò: «Messer Lodrisio e i suoi capitani della Compagnia di San Giorgio».

Compiute le presentazioni, se ne andò con la scusa di dare ordini ai servi e io occupai il suo scranno.

«Quanti uomini mi avete portato, capitano?» domandò Lodrisio.«Cento cavalieri, autonomi in ogni cosa. Sia viveri sia alloggi. Ci basta

acqua pulita» risposi.«Non si è davvero sprecato sua paternità! Ma ciò che conta è la vostra

partecipazione. Mette la Chiesa dalla nostra parte. Dove vi siete accampati?»

«A neppure cento passi dal campo che innalza uno stendardo con tre corna di cervo sovrapposte» risposi.

«Allora siete mio vicino» disse Lando, con un forte accento tedesco.«Avete bisogno di qualcos’altro, oltre all’acqua?» chiese Guarneri.«Nevica da tre giorni ormai. Del fieno ci tornerebbe utile.»«Lo avrete entro questa sera» mi rassicurò lui.Guardai Lodrisio, intento a fissarmi quasi con curiosità: «Signore,

potrei sapere quali sono i vostri piani?».«Sono semplici. Riprendermi il mio, cioè Milano.»«Iniziando quando e da dove?»«Oggi siamo al primo febbraio, perciò partiremo dopodomani,

mercoledì. Aggirando Verona per non disturbare i nostri amici Mastino e Alberto, punteremo ai traghetti di Rivolta, sul fiume Adda e, da là, su Legnano dove ci attendono i mercenari svizzeri. Infine, Milano.»

Non mi piacque la sua sicurezza. Un buon comandante vince grazie ai dubbi e alle cautele, salvo non gli interessi nulla il massacro dei suoi

Page 254: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

uomini. Posi la mia ultima domanda: «Su che forza possiamo contare?».«Alla fine, a Legnano, l’esercito conterà settemila uomini fra cavalieri,

fanti e balestrieri. Vi pare una forza sufficiente?»«Dalla vostra espressione soddisfatta penso di sì, come presumo

abbiate anche la sicurezza di un nemico meno numeroso di noi.»«Non solo, capitano. I nostri sono tutti uomini d’arme, esperti in ogni

tipo di combattimento. Gli altri, per gran parte, sono gente di leva obbligata da mio cugino a prendere le armi. Comunque voi coprirete il lato sinistro del capitano Givier, così non correrete troppi pericoli.»

Non commentai, profittando dell’ingresso di alcuni valletti con vassoi di dolci e brocche di vino.

All’alba del giorno prestabilito partimmo, nonostante una neve fitta e insistente che arrivava ormai a metà polpaccio. I miei uomini, tutti alla loro prima guerra, erano eccitati. Indossavano solo usbergo e barbuta, lo scudo a tracolla sulle spalle e in mano la lancia. Sulla copricotta azzurra avevano tutti cucita l’aquila d’oro del patriarcato, con artigli e lingua sanguigni; io solo esibivo la mia arma. E il monte a tre cime sormontato da tre stelle d’oro era dipinto anche sulla bandiera che sventolava accanto a quella della Patria.

Corazza ed elmo chiuso, con quel freddo e quel nevicare, erano solo un intralcio. Impiegammo quasi quattro giorni per raggiungere Rivolta e una volta arrivati sul fiume Adda vedemmo in attesa dall’altra parte, allineata lungo la riva, una schiera di cavalieri nemici. Il gonfaloniere innalzava una bandiera bianca con quattro grembi rossi. A Lodrisio sfuggì una bestemmia ed esclamò: «Hanno mandato avanti a tutti il migliore. Quella è la bandiera di Pinalla Aliprandi!».

Udii Guarneri ribattere: «Se mandano avanti il migliore, allora sono malmessi».

Mi girai sollevandomi sulle staffe e non riuscii a vedere la coda del nostro esercito. Sull’altra riva non dovevano essere neppure un decimo di noi. Infatti, da lì a poco, udimmo uno squillo di tromba lungo seguito da due brevi, e il nemico girò i cavalli e scomparve. Lodrisio fece mandare due esploratori con una barca che tornarono annunciando che Pinalla e almeno cinquecento cavalieri si stavano ritirando verso Milano. La notizia passò di bocca in bocca e fu tutto un gridare vittoria per una battaglia neppure iniziata. Ci vollero un giorno e una notte per traghettare tutti gli uomini, e poi Lodrisio pretese di rioccupare la perduta contea di Seprio, un territorio molto vasto. Quando ebbe fatto

Page 255: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

questo, e le truppe e gli animali si furono riposati e nutriti, raggiungemmo finalmente Legnano, il diciotto febbraio.

Non avevo mai incontrato mercenari svizzeri e ne rimasi impressionato. Provenivano dalle terre e dai monti che circondano Bellinzona. Avevano visi truci, barba e capelli lunghi, ed erano armati di pesanti scudi di legno, spadoni e picche dalle aste molto lunghe e terminanti, oltre che con la punta, con due specie di ronconi ai lati.

Non avevano una divisa vera e propria, solo pesanti giubboni e tuniche imbottite, ma tutti con gli stessi colori. E rosse e azzurre erano pure le loro bandiere. Rimanemmo a Legnano solo due giorni, perché Lodrisio, preoccupato per le enormi quantità di viveri necessarie a un così grande esercito, decise di anticipare l’attacco a Milano.

Per prima cosa ci recammo a Canegrate e ci accampammo su quei rilievi, con la neve che ci arrivava alle cosce. Non avevamo ancora combattuto e cominciavo a credere che forse saremmo veramente entrati a Milano con facilità. Invece, la sera del giorno ventesimo di febbraio, giunsero le spie di Lodrisio portando buone e cattive notizie. Le buone erano che Azzone giaceva a letto immobilizzato da un terribile attacco di podagra e nella città serpeggiava il panico; le cattive che aveva nominato suo comandante lo zio Luchino il quale, con un esercito alquanto numeroso, si era già accampato a Nerviano e aveva inviato il suo maniscalco Rainaldo di Lonrich a Parabiago.

Parabiago era a poco più di un miglio da noi, e Rainaldo aveva con sé ottocento cavalieri e duecento fanti. Non solo, da Milano stavano per uscire ulteriori truppe al comando di Roberto Villani, truppe fornite ad Azzone dal suocero Ludovico di Savoia, signore di Vaud, e da Obizzo d’Este, signore di Ferrara. Il tentativo di prenderci ai lati e poi attaccarci frontalmente era chiaro, perciò bisognava agire subito.

Ci radunammo per un frettoloso consiglio di guerra e all’unanimità decidemmo che bisognava liberarci delle truppe a Parabiago e poi attaccare le restanti a Nerviano. Prima di doverci concentrare sull’attacco frontale, ci si doveva liberare i fianchi. Le speranze di una vittoria non erano poche. Almeno a sentire le spie, l’intero esercito sarebbe comunque stato in inferiorità numerica. Così, ancora prima dell’alba del ventunesimo giorno di febbraio dell’anno 1339, partimmo per Parabiago. senza grandi angosce, e mai immaginando che stavamo per gettarci nella battaglia più sanguinosa che si ricordi a memoria d’uomo.

Page 256: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Il nemico non si aspettava l’attacco. Contava sulla neve. Non cadeva più, ma arrivava alla coscia e sia i cavalli sia i fanti faticavano ad avanzare. Inoltre il gelo era feroce e gran parte degli avversari aveva preferito occupare le case abbandonate anziché dormire sotto le tende. Perfino le sentinelle, avendo cercato riparo, si accorsero di noi solo all’ultimo momento. Lo scontro fu duro e sanguinoso, ma nel volgere di neppure un’ora, con pochi morti e una cinquantina di feriti, mettemmo in fuga Rainaldo e i suoi, che lasciarono sul campo oltre duecento morti. E la neve iniziò ad arrossarsi.

Non avemmo il tempo di gioire, perché, trascorso giusto il tempo di portare al coperto i feriti, suonò l’allarme. Luchino Visconti ci attaccò con duemila cavalieri e cinquecento fanti. Allora vidi come combattevano gli svizzeri. Si chiudevano in gruppi creandosi una corazza, allineando gli scudi sopra le teste e fra gli spazi tra l’uno e l’altro puntavano le loro lunghe picche. Sembravano dei giganteschi ricci. Appena venivano aggrediti, quelli accoccolati a terra, si servivano dei ronconi fissati alle punte per recidere i tendini delle zampe dei cavalli. Appena questi cadevano, nitrendo di dolore e facendo ruzzolare a terra i cavalieri, si gettavano sui cavalieri finendoli a colpi di spadone.

Da parte mia cercavo di tenere uniti i miei che, rispettando il mio ordine di attaccare senza mai dimenticarsi di proteggere il vicino, si comportarono bene e senza gravi danni. Ne persi dodici nell’attacco di Luchino, solo quelli presi dalla foga della battaglia e usciti dai ranghi. E ciò avvenne nonostante la debolezza dell’avversario, alle volte talmente spaventato e smarrito da non tentare neppure di parare il colpo mortale.

Corsi un unico vero pericolo. Quando, non capendo se chi avevo davanti fosse un amico o un nemico perché in entrambi gli schieramenti molti avevano la biscia gonzaghesca sulla copricotta, ebbi un momento di incertezza nel colpire. Per fortuna avevo alle spalle i due portabandiera e il mio alfiere, e questi fu pronto ad abbassare la lancia e a piantarla nel petto dell’aggressore. Poi, essendo quello del riconoscersi un problema comune ad ambo le parti, gli uomini di Luchino presero a gridare «per sant’Ambrogio» e i nostri, in maggioranza tedeschi, «Reiter Heinrich» in onore di un loro mitico re.

La battaglia durò fino circa al mezzodì, quando un gruppo di svizzeri recise le zampe al cavallo di Luchino ed egli finì a terra. Subito circondato e catturato, venne trascinato da Lodrisio ai bordi del campo di battaglia e là spogliato dell’armatura e legato a un noce. Con lui

Page 257: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

catturato e gli uomini che cadevano in gran numero, i nemici si diedero alla fuga terrorizzati e vidi feriti cercare di nascondersi nella neve come talpe. Avevamo vinto di nuovo, e la neve iniziava a sciogliersi al calore del sangue. Sempre più rossa.

Eravamo sfiniti e contai altri sette morti fra i miei.Ordinai che li mettessero tutti assieme e non mi stupii di vederlo fare quasi con indifferenza. Purtroppo la guerra è così. Il vedere gli altri cadere, rimanendo vivi e vincenti, fa nascere la convinzione di essere immortali. È uno dei tanti modi con i quali la mente si difende dalla paura.

Mentre la soldataglia spogliava i morti e si spargeva nelle case per razziare ogni cosa con un minimo di valore, noi capitani ci concedemmo riposo, cibo e vino in un palazzetto abbandonato. Le cantine erano piene di botti di vino, ed evidentemente era così ovunque perché da lì a poco sentimmo cantare e gozzovigliare da ogni parte.

Mi permisi di suggerire a Lodrisio che era più cavalleresco slegare Luchino dal noce e tenerlo prigioniero in una delle tante stanze a disposizione, e Malerba mi ruggì contro: «Deve stare dov’è, a monito degli altri». E aveva la barba e i capelli incrostati di sangue secco.

Guardai Lodrisio e non mi servì una risposta. I suoi occhi erano pieni di odio. Notai anche il terrificante sorriso di Guarneri e l’assoluta indifferenza di Lando, e pensai: ha ragione mio suocero, la cavalleria, con i suoi ideali e rituali, è veramente morta e sepolta.

Passò circa un’ora e uscii per controllare che i miei uomini si fossero rifocillati. Proprio allora i corni delle vedette suonarono l’allarme e un esploratore quasi mi travolse con il cavallo gridando a squarciagola: «Arrivano! Arrivano! Sono migliaia e accanto alla bandiera dei Visconti sventola quella di Roberto Villani!».

Ci eravamo appena riorganizzati quando, preceduti da una pioggia di verrettoni, ci piombarono addosso. A centinaia, molti ormai ubriachi, caddero sotto i colpi dei balestrieri e, approfittando dell’attimo di sbando, il capitano nemico Brandaligi da Marano, con alcuni milanesi, liberò Luchino e lo portò in salvo e al sicuro nelle retrovie. Poi cominciò il massacro.

Era tutto un urlare, un nitrire, uno schizzare sangue e un volare di membra e teste. A un tratto riuscimmo a ricacciare indietro l’avversario ma i fuggiaschi dei primi attacchi, rincuorati dai comandanti, tornarono indietro capeggiati da Luchino e si gettarono di nuovo nella mischia.

Page 258: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Dovemmo arretrare per poter riordinare le truppe e poi attaccare nuovamente. Da entrambe le parti sembrava che da ogni caduto schizzassero fuori due nuovi combattenti. I miei, troppo giovani e inesperti, stavano soccombendo ma, nonostante ciò, continuavano a fare da scudo a me e alle bandiere. Se io ne salvai venti dai colpi, loro fecero come me dieci volte tanto.

Durò fino a decima, fino all’imbrunire, quando fummo circondati. Ricordo Malerba che combatteva furiosamente, una spalla trafitta da una lancia con ancora un pezzo d’asta dentro il corpo, il sangue che sgorgava da più parti. Ricordo la neve ormai rossa e fumante, e fin dove il mio sguardo poteva spingersi era una distesa di morti. Ricordo le terribili urla di dolore e di rabbia che si alzavano dai feriti e dai morenti. Poi, trafitti due nemici, vidi la bandiera della Patria e la mia a terra, con sopra accatastati i corpi dei miei uomini. Ricordo il mio affannoso tentativo di contare le poche copricotte azzurre ancora in piedi. Infine, vidi tre cavalieri armati di mazza puntare su di me. Cercai di volgere il cavallo per fuggire e con un dolore terribile alla testa caddi da cavallo.

Persi i sensi per il tempo di pochi respiri e cercai di rimettermi in piedi. Non mi fu possibile, perché ero circondato da una dozzina di punte di lancia. Allora gettai la spada e attesi il colpo mortale. Non venne solo perché avevo attorno ai fianchi la fascia rossa da capitano e perciò valevo un buon riscatto. I morti furono quasi settemila, duemila della mia parte fra cui, come seppi anni dopo, ottanta dei miei.

Page 259: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

VII

Ci condussero a Milano su dei carri, esibiti come prede. In quello dove stavo io eravamo una ventina, quasi tutti tedeschi. Poi ci rinchiusero in prigioni dalle celle abbastanza spaziose e pulite. Nessuno usò su di noi violenza, anzi ci trattarono con qualche deferenza e ci servirono cibo decente. All’arrivo, un cancelliere aveva preso i nostri nomi e chiesto a chi Azzone dovesse rivolgersi per chiedere il riscatto. Io gli risposi di scrivere al patriarca Bertrando e rimasi in attesa della liberazione, senza altro tormento che quello delle tante giovani vite sprecate.

Già dopo due settimane iniziarono ad arrivare messi con il denaro e in capo a un mese eravamo rimasti solo in cinque. Iniziavo a preoccuparmi, a far conti su quanti giorni un messo poteva impiegare tra l’andare e il tornare da Udine a Milano. Trascorsero altri dieci giorni e rimasi solo. Mi tenevo aggrappato al ricordo di mia moglie, dei miei figli, facendo ipotesi sul perché ancora nessuno si facesse vedere. Ormai non dormivo più e stavo sempre con l’orecchio teso nella speranza di udire passi avvicinarsi alla mia cella, di sentire il grattare di una chiave nella toppa della porta.

Accadde verso la metà di marzo. La chiave girò nella toppa due ore dopo il tramonto e sulla porta comparve uno dei carcerieri che subito si fece da parte passando la fiaccola al capitano del carcere. Questi entrò di un passo, un sorriso tirato sulle labbra: «Messer Corrado, c’è qui il messo del patriarca pronto a versare il riscatto».

Tirai un sospiro di sollievo e saltai giù dal giaciglio dov’ero steso, esclamando tutto contento: «Finalmente! Per prima cosa voglio mettermi in una tinozza per almeno due ore».

«Solo un momento, capitano. Rimanete lontano dalla porta. Prima vi deve riconoscere e controllare che siate in buona salute.»

Era uno di quei momenti nei quali ci si comporta come bambini. Non importa se si è uomini fatti, cavalieri e capitani. Non si vuol rischiare un

Page 260: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

intralcio e ci si mette ubbidienti sull’attenti.L’uomo con l’aquila patriarcale sul lato sinistro del mantello mi era

sconosciuto. Un tipo dalla faccia comune, attorno alla quarantina, ma con una grande voglia di vino sulla fronte, impossibile da dimenticare. Il capitano delle carceri alzò la torcia per illuminarmi il viso e io, proprio come un bambino, sorrisi e alzai una mano in cenno di saluto.

«È lui?»L’altro mi fissò a lungo, con un’espressione impassibile, e poi rispose:

«No, non è lui».Rimasi come paralizzato, col cuore a battere forte e un senso di

soffocamento. Quindi allargai le braccia e mi voltai come per prendere la mia copricotta e mostrare le insegne. Ma non l’avevo, me l’avevano tolta con l’armatura all’arrivo e indossavo una lisa tunica di lana marrone. Avevo la voce rauca, la bocca senza una goccia di saliva, quando balbettai: «Ma cosa dite… Io sono Corrado, Corrado da Romano… o di San Lorenzo se questo è il nome che vi è stato dato…».

Il capitano insistette, rivolto all’uomo: «Siete sicuro?».«Ne sono sicuro. Per altro mi hanno mandato qui solo per scrupolo. La

notizia della sua morte è arrivata con i pochi sopravvissuti. Costui è un impostore, uno che si fa passare per chi non è» rispose risoluto quello.

Allora mi prese una rabbia furibonda e cercai di saltargli addosso, gridando: «Mentitore! Ditemi il vostro nome!».

Il capitano fu più svelto di me, estrasse la daga e me la puntò al petto: «Fermo, chiunque voi siate. Altrimenti non uscirete vivo da qui».

La porta venne rapidamente richiusa e io mi ci gettai contro, quasi implorando nel buio: «Vi prego, tornate qui. Vi posso descrivere il patriarca e molta gente della sua corte».

Udii borbottare e i passi risuonare sul pavimento di mattoni, sempre più lontani. Scivolai in ginocchio graffiandomi il viso sul legno e iniziai a imprecare disperato. Non chiusi occhio e implorai il Signore e la Vergine di venire in mio soccorso. Il mattino successivo, udendo di nuovo la chiave girare nella toppa mi colse un’irrazionale speranza. L’uomo doveva essersi ricreduto, o forse gli erano venuti dei dubbi. Stava di sicuro tornando per potermi guardare alla luce del giorno che entrava dall’alta finestrella ferrata. Stupidamente mi rassettai i capelli con le mani, mi aggiustai la tunica da prigioniero.

Invece era il solito carceriere, assieme al segretario delle prigioni. M’intimarono di andare nell’angolo più lontano, poi il cancelliere depose

Page 261: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

a terra dei fogli, un calamaio, due penne e disse: «Se avete altri che possano pagare il vostro riscatto scrivetegli. Fatelo subito, perché tra un’ora sarete portato in un altro carcere e non potrete più farlo».

Scrissi due lettere, una indirizzata ad Alberto e Mastino della Scala e l’altra a mio zio Rosso a Udine. Tornò il segretario e le prese senza neppure guardarle, poi i carcerieri mi misero i ceppi alle mani e mi portarono nel cortile delle prigioni. Ero come stordito, incredulo per quello che stava accadendo. Ebbi solo la forza di chiedere, salendo su una carretta di quelle a gabbia per i prigionieri: «Dove mi portate?».

Spingendomi nella gabbia con brutalità, uno rispose: «A Monza, veramente in un bel posticino».

Poi rise e gli altri risero con lui.Nel castello visconteo di Monza vi è un enorme mastio detto “della

morte” o “dei forni”, perché il piano interrato e i due sopra di esso sono per metà adibiti a carcere. E chi ha studiato quelle celle deve essere stato ispirato dal demonio. Hanno il soffitto così basso che neppure un uomo di piccola statura può stare in piedi senza dover tenere la testa china. In ognuna può starci un solo prigioniero e non può neppure stendersi del tutto perché la lunghezza e la larghezza sono tali da impedirlo. Anche mettendosi di traverso, o si allungano le gambe o si raddrizza il collo. Infine il pavimento ha forma convessa, e questa è una gran tortura perché spacca la schiena. Io finii nel piano interrato, più esattamente mi ci dovettero calare, perché l’ingresso era una specie di botola, una grata di ferro con i cardini infissi nel pavimento. E credo di essere stato persino fortunato, perché dal lato del camminamento dei carcerieri vi era una larga feritoia e in certe ore qualche raggio di sole riusciva a giungere fino a me.

Il mio corredo comprendeva un’unica coperta bucata e rattoppata e due scodelle di legno. Una per il cibo e l’altra per l’acqua. Giorno e notte i carcerieri passavano e ripassavano sopra la mia testa, mettendosi con gli zoccoli luridi sulla grata per poter guardare giù. E da quella stessa grata, senza aprirla, con il preavviso solo di un comando, rovesciavano un mestolo d’acqua e uno di zuppa. Se non si era rapidi a porvi sotto le scodelle l’acqua e il cibo, dopo aver dilavato la sporcizia incrostata sui ferri, finivano sul pavimento. Mi ci volle una settimana per poter contare sulle mie porzioni, perché quelli giocavano e dopo aver finto di rovesciare da una parte lo facevano da un’altra.

I bisogni corporali dovevano essere fatti là dentro e avrebbero dovuto

Page 262: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

uscire da uno scolo sul lato destro. Perciò toccava spingerli con le mani e lasciarli in una particolare posizione per far sì che la secchiata d’acqua sporca, gettata sempre dalla grata, li portasse via. Ci facevano uscire solo una volta alla settimana, per lo spazio di un’ora, permettendoci di camminare in tondo attorno al mastio.

L’uomo è un essere strano, capace di adattarsi alle peggiori condizioni, anche le più disumane. Basta che il fisico e la mente reggano. Forse è per questo che domina su tutti gli altri esseri viventi della terra. E io ebbi la grazia di un corpo sano e forte, e di avere Francesca e i miei figli cui aggrapparmi nei momenti nei quali la disperazione e il dolore richiamavano la follia. E il lungo pregare, affidando le mie implorazioni allo spirito di nonno Guido. Aveva provato il carcere, perciò chi più di lui poteva intercedere per me? Ma molti non ce la facevano e non vi era settimana senza che risuonasse alto il grido: «Becchini alla…» e seguiva il numero tracciato in rosse lettere romane sul pavimento accanto alla grata o sopra la porta.

Ci rimasi circa un anno, con la speranza di vedere qualcuno arrivare e annunciarmi che ero finalmente libero. Ed era impossibile odiare coloro cui avevo chiesto aiuto. Non ci riuscivo, concedevo loro dozzine di scuse e attenuanti perché l’ammettere di essere stato dimenticato era come abbandonarsi alla morte. Poi, sul finire di aprile del 1340 vennero i carcerieri di buon mattino e mi tirarono fuori. Ricordo ancora il mio sorriso idiota mentre, curvo e dolorante in ogni osso e muscolo, trotterellavo fra loro verso la sicura libertà. Pronto a perdonare tutto e tutti. Invece nel cortile trovai ad attendermi un carro chiuso dove mi ficcarono dentro a calci senza dare una spiegazione e dire una parola.

Con me c’erano altri tre uomini, tre Barabba con alle spalle una vita da briganti. E Barabba sembravo pure io, quando potei specchiarmi nell’acqua di una mastella dove dovetti abbeverarmi come un maiale. Un anno senza tagliare barba, unghie e capelli, lurido che perfino i miei compagni storcevano il naso per quanto puzzavo. E siccome stetti a fissarmi desolato troppo a lungo, mi presi la prima frustata sulla schiena. Eravamo a oltre sei miglia da Monza, su una strada secondaria, e subito dopo conobbi il mio destino. Due uomini guidavano il carro trainato da quattro cavalli e un terzo ci seguiva a cavallo. Un ometto tondo e panciuto, con vesti pretenziose e l’espressione bonaria. Fu lui a frustarmi con un piccolo flagello con delle palline di ferro, sulla punta delle strisce di pelle, dicendo: «Feccia, d’ora in poi si scende dal carro una sola volta

Page 263: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

al giorno. Per bere, mangiare e fare i bisogni. In fretta, se non vuoi assaggiare di nuovo la frusta».

«Dove mi portate, signore?» osai chiedere.Ormai chiamavo tutti signore, anche l’ultimo secondino. E per risposta

ricevetti una seconda frustata. Risalito sul carro, quando questi si avviò, domandai a chi mi sedeva accanto: «Forse voi sapete dove ci portano?».

Mi guardò torvo e non rispose. Lo fece quello davanti a me: «Amico, ci hanno venduto. Ci portano a Genova, per remare sulle navi. Meglio quello della corda o della mannaia».

«Ma io sono un prigioniero di guerra, sto attendendo il riscatto!»Sghignazzarono tutti e l’uomo di fianco a me disse: «Già. Magari siete

perfino un nobile. Un capitano, forse?».Lo guardai e risposi: «Proprio così, signore».Mi diede un pugno sulla spalla, a suo modo forse amichevole, e sbottò:

«Ma stattene zitto, buffone!».Rimasi frastornato per tutti i giorni e le notti che servirono per

raggiungere Genova, e quando ci chiusero in una cantina fornendoci cibo abbondante e perfino acqua per lavarci, credo ormai vicino alla pazzia, tornai a sperare. In realtà i tre giorni di buon trattamento servirono solo ad alzare il prezzo che un capitano di nave versò per me al mercante di schiavi. Poi, con una corda al collo, c’imbarcarono su una grande nave con due vele triangolari e ci spinsero a sedere su una panca davanti a un remo, il piede destro bloccato da un ceppo.

Remai per sette anni, cambiando tre navi dello stesso armatore. Ed è inutile cercare di spiegare come furono. Si ha uno scopo solo: vivere. Non contano le frustate, i polmoni e il cuore che sembrano scoppiare per la fatica. Non credi di morire neppure quando la tempesta spacca i remi e la nave imbarca acqua e minaccia di rovesciarsi. Cancelli perfino i ricordi. Anzi, quando questi vengono mentre d’inverno cerchi di dormire all’aperto con l’unica protezione di un’impeciata che rende il freddo ancora più tagliente, li cacci via con rabbia. perché, se ti entrano dentro, se tornano a riempirti il cuore, allora lasci il remo e attendi che ti tolgano il ceppo per gettarti in mare come una cosa inutile.

Quante volte l’ho visto accadere nei miei compagni di sventura. E l’uomo che batteva il ritmo se ne accorgeva subito, a causa degli occhi sognanti e dell’improvviso fermare la voga. Allora lanciava un grido e arrivavano due marinai per fare ciò che ho appena detto. Anche dei miei compagni non ho nulla da dire. Non vi può essere amicizia, neppure

Page 264: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

simpatia, nei confronti di chi è disposto ad annegarti pur di guadagnare qualche ultimo sorso d’aria. Si era peggio di bestie feroci, anche fra di noi, pronti ad accusare il vicino di rallentare la voga per ingraziarsi il sorvegliante munito di nerbo. Altro non voglio dire.

Sul finire di maggio del 1347 ci fermammo in un porto dell’isola di Sardegna, per scaricare parte della merce. La nave doveva stare alla fonda per due giorni, così ci liberarono e ci permisero di stare al sole. Vidi la costa a neppure duecento bracciate e, avendo pensato molto ma senza aver programmato nulla, durante la notte profittai dell’ubriacatura del marinaio di guardia e mi gettai in mare. Raggiunsi una minuscola rada dove gli scogli lasciavano due passi di ghiaia e sabbia. Nonostante non riuscissi neppure più a respirare, mi arrampicai fino a un pianoro e poi corsi senza sapere dove. Non avevo calzari e le pietre mi spaccavano i piedi. Fermandomi di tanto in tanto solo per tirar fiato, continuai ad avanzare verso l’interno. Al sorgere del sole caddi e mi addormentai per la stanchezza.

Mi svegliai poco dopo, circondato da pecore. Un uomo, piccolo e nero di occhi e capelli, cotto dal sole, con addosso un giaco di pelle mi stava guardando. La sete mi bruciava la gola, i piedi erano una crosta di sangue, ma ebbi la forza di tendere verso di lui una mano implorando: «In nome di Dio, aiutatemi».

Venne ad accoccolarsi vicino a me fissandomi curioso, senza malanimo, le mani aggrappate a un nodoso bastone. Mi parlò in una lingua sconosciuta e vedendo che non lo capivo, chiese a fatica: «Scappato? Nave?». E indicava in direzione del mare.

Annuii tornando a invocare pietà. E lui ebbe pietà. Mi diede da bere dal suo otre, mi condusse in un cadente ricovero per animali e mi fece capire di restare lì. Tornai a riaddormentarmi e, al risveglio, c’era con lui una donna vestita di nero, il volto quasi del tutto coperto da un fazzoletto da testa dello stesso colore. Profumava di mirto e ginepro, mi aveva lavato i piedi e me li stava bendando con strisce di una corteccia soffice. Poi se ne andò e l’uomo, aiutandosi con i gesti, mi ordinò di non muovermi e non uscire, promettendo che sarebbe tornato verso sera. M’indicò una ciotola di terracotta colma di zuppa di castrato e quindi andò via con un sorriso rassicurante e un gesto di saluto. Ringraziai l’Altissimo per aver posto sulla mia strada gente così misericordiosa e verso il tramonto mi misi subito fuori dalla porta ad attendere il mio benefattore. Lo vidi arrivare, ancora lontano, con una bisaccia sulla

Page 265: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

spalla. Stavo per andargli incontro quando lui improvvisamente si fermò e dopo avermi fatto grandi gesti volse le spalle e corse via. Capii troppo tardi che mi stava esortando a fuggire. Solo quando udii voci alle mie spalle. Mi girai di colpo e vidi gli sgherri del porto ormai a dieci passi da me.

Page 266: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

VIII

Una volta riportato sulla nave, mi legarono all’albero maestro e ricevetti ventiquattro frustate. Il giorno successivo mi rimisero al remo, nonostante avessi la schiena piagata e sanguinante. Per mia fortuna vogammo solo per qualche miglio, poi il vento gonfiò le vele. A sera, quando sulla nave accesero le torce a poppa e a prua e accostarono a mezzo miglio dalla riva, anziché darmi la razione di cibo, mi trascinarono in coperta e, dopo avermi spogliato, mi gettarono addosso secchiate d’acqua di mare. Il bruciore mi fece torcere come un verme tolto dalla terra, urlando dentro per non aggiungere il dileggio al dolore.

Dovevamo affrontare il tratto di mare più lungo e pericoloso, dall’isola fino alle coste campane. Perciò dovevamo coprirlo nel minor tempo possibile, vogando anche la notte se il vento calava. Circa quattro giorni con pause di un’ora ogni tre. Al secondo giorno iniziai a perdere le forze e ad avere la febbre. La schiena martoriata non doleva più e questo era un brutto segno. Inoltre, non riuscivo a tenere i piedi piantati sui supporti; erano gonfi; come serrati in due morse sempre più strette. A metà pomeriggio crollai sul remo. Provarono a farmi riprendere la voga con il nerbo, ma faticavo anche ad avere pensieri logici. Nella mia mente c’erano solo Francesca e i miei figli, immersi in una stanchezza senza fine. Allora mi tolsero dalla voga e mi trascinarono in coperta. Venne il capitano e, siccome ero bocconi, mi fece mettere supino a pedate. Non m’interessava nulla, manco avvertivo il dolore. Ero arrivato alla porta: ancora un passo e avrei potuto finalmente riposare tra le braccia del Signore.

Il capitano domandò: «Secondo voi, è da buttare?».«Non credo, colpa delle frustate. È un uomo forte, mai dato problemi

prima» rispose il capovoga.«Però quei piedi sono proprio malridotti» insistette il capitano.«Un paio di giorni e si dovrebbero sgonfiare.»

Page 267: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Da quanti anni rema?»«Se non ricordo male, sono sette. L’abbiamo comprato nel ’40 e adesso

siamo a maggio del ’47. Perciò sì, sono circa sette anni.»Parlavano di me come se non ci fossi, come si parla di una sartia o una

gomena. Ricordo che mi stupii. Sette anni, pensai. E continuavano a sfilarmi nella mente Francesca, i miei figli, il resto della famiglia, gli amici vivi e morti. Quindi un pensiero, veloce come una saetta. Anch’io ero morto. Per tutti. Questo scatenò un turbinare di ipotesi. Mia moglie viveva con un altro? I miei figli chissà con chi stavano. I fratelli vivevano ancora? No, mi dissi, i morti non devono tornare con i vivi: potrebbero scoprire di essere stati dimenticati. Poi la reazione: no, non Francesca. Francesca è morta per il dolore di avermi perso. Ecco, dovevo tornare. Tornare per piangere sulla sua tomba. Sorrisi. Un morto che prega sulla tomba di una morta. Ridicolo!

«Dategli da bere e mangiare. Se si riprende bene, altrimenti, lasciata Salerno, lo gettate in mare. Sette anni! Si è già pagato, non perdiamo niente. Ed è inutile versare l’obolo alla Confraternita dei Rematori per seppellirlo» concluse il capitano e udii i suoi passi allontanarsi pestando forte il legno, risuonando come sopra una bara vuota.

Avvertivo la presenza del capovoga, ma neppure di quello mi interessava qualcosa. Contava solo l’odore del mare, il beccheggiare della nave, il sibilo ritmato della prua che fendeva le onde. Immaginai la scia, con i delfini cavalcare di fianco al vascello, o corrergli davanti come a indicare una via invisibile. Un dolore atroce ai piedi mi obbligò a rannicchiarmi con un gemito. Dato il calcio, il capovoga borbottò: «Vedi di reagire, uomo. A Salerno ci fermeremo una settimana. Ti potrai riposare. Mi dispiacerebbe gettarti in mare. Non mi hai mai dato problemi, tu».

Il sale del mare, se non curò la febbre, impedì che le ferite si infettassero e il quinto giorno tornai alla voga sotto le grida dei gabbiani. Giusto il tempo per portare la nave in porto. Però scottavo e mi girava spesso la testa. Per evitare il sole già rovente, mi permisero di starmene a tremare appoggiato contro il castello di poppa e il capovoga mi tolse perfino i ceppi ai piedi per aiutarli a sgonfiarsi. Il giorno prima della partenza da Salerno, con la testa bruciante di febbre, di ricordi e disperazione, stavo là a fissare inebetito le case che si arrampicavano sul monte sopra il porto. Case con gente che amava, odiava e soffriva, gente libera di sognare il domani, gente fortunata. Mi giunse chiara la voce del

Page 268: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

capitano: «Come sta quell’uomo?».E il capovoga, mentendo: «Schiena e piedi stanno guarendo. Sono

certo che tra un po’ se ne andrà anche la febbre».«Mastro Alberto, state invecchiando e rammollendo. Domani, prima di

partire, carichiamo due nuovi rematori. Gente da forca, ma sana e pagata poco. Qui lo spazio non abbonda perciò, appena in mare aperto, buttatelo in acqua.»

«Capitano, è un buon elemento. Guarito, di anni ne dura altri sette.»«Quanti anni ha, secondo voi?»«Così, a occhio e secondo quello che dice lui, circa quarantaquattro.»«Vedete che vi state rammollendo? Nessuno supera i quarantasette alla

voga. E per ancora due anni non vale il rischio di farlo poltrire per chissà quanti giorni ancora. Buttatelo.»

Non ebbi paura, l’angoscia non aumentò. Era finita. Bene così, se il futuro erano neppure due anni di quella vita disgraziata. Iniziai a recitare le preghiere dei morti. Meglio portarsi avanti. Poi mi abbandonai fantasticando fra le braccia di Francesca. Quasi sentivo la sua pelle di seta, l’odore del suo respiro con il sentore delle foglie di salvia che usava per pulirsi i denti. Venne sera, regalai al mio vicino la zuppa. A me non serviva più. Cerano perfino dei pezzi di carne dentro. Me la strappò quasi di mano e per mangiarla mi volse la schiena, nel timore che la reclamassi indietro. Poi mi misi in fila con gli altri, per farmi mettere i ceppi e prendere la mia impeciata. L’ultima notte l’avrei trascorsa con Francesca e, se non fosse venuta a riempirmi la mente, bastava attendere. Se era ormai morta, domani sarebbe sicuramente venuta a trarre fuori dagli abissi la mia anima. Se invece viveva, l’avrei attesa. Magari mi sarebbe stato permesso di andarla a prendere, quando sarebbe venuto il suo momento. Per rassicurarla e dirle che la morte non è nulla, solo un tuffo nel mare.

Fu il mio turno e il capovoga mi spinse da parte, dicendo: «Aspetta, tu».

Quando tutti ebbero i ceppi e si furono stesi sotto le impeciate, divaricai leggermente le gambe per facilitare l’operazione al mio aguzzino. Il capovoga mi guardò strano e per la prima volta mi accorsi che gli mancavano i due denti davanti e che aveva una verruca proprio sulla punta del naso. Era un po’ ridicolo.

Lui spinse via l’aiutante, dicendo: «Faccio io».L’altro, già accoccolato davanti a me, lo guardò stupito. Poi gli passò i

Page 269: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

ceppi, bofonchiando con tono offeso: «Ah, ho capito… Volete controllare voi… ma con me non è mai scappato nessuno».

Mi mise i ceppi, li chiuse con il chiodo ma non passò la corda nei fori. Mi ordinò, a voce bassa: «Stenditi e copriti. Quando sarà buio te li potrai togliere. Ma ricordati di rimetterteli domani mattina. Non voglio guai». Ubbidii stupito, e ancora più lo fui vedendolo tornare con il buio. Mi mise accanto un piccolo otre di vino, sussurrandomi: «Ti aiuterà a dormire e a far calare la febbre. Quando l’hai finito buttalo contro la murata».

Quei semplici gesti di umana pietà mi sconvolsero. C’era dunque bontà nel mondo. Non solo lupi feroci e traditori. E di gente buona ne avevo conosciuta. Dovevo qualcosa a molti: Mainardo, Beatrice ed Enrico, Francesco da Collalto, Cangrande. Mentre pensavo i loro nomi, altri si affollarono. Tanti, molti di più di coloro che meritavano da me odio ed esecrazione. Gli dovevo forse qualcosa? Un lampo: gli dovevo gratitudine e per dargliela bisognava vivere. Vivere per cantare le loro gesta. Vivere per vendicarmi di chi aveva vanificato il loro agire. Uccidere i cattivi per glorificare i buoni. Dovevo vivere. Anche se tremavo per la febbre, potevo farcela. La costa era vicina, un nulla rispetto a quanto lo era in Sardegna.

Attesi il giro di ronda della mezzanotte, il rintocco della campana sul castello di poppa. Attorno a me russavano, la vedetta probabilmente sonnecchiava. Mi tolsi piano i ceppi e strisciai fino alla murata raggomitolandomi contro questa, in un tratto buio. Dei barili d’acqua impedivano alla luce delle fiaccole di arrivare fin là. Con il cuore che picchiava nelle orecchie scavalcai piano la murata e mi lasciai scivolare giù cercando di tenermi dritto. Entrai in acqua con un leggero sciabordio. Rimasi immobile, contro la chiglia. Non udii passi, nessuno gridò l’allarme. Ero giusto dalla parte della costa e iniziai a nuotare lento, poi sempre più forte. La nave si stava allontanando e restava silenziosa. Evitai le banchine del porto, puntai verso nord e approdai dove le case finivano, fra gli scogli. Alla luce della luna ormai calante vidi il biancore di un sentiero tortuoso ed erto. Pareva inerpicarsi sui monti e lo imboccai.

Percorsi pochissima strada. Improvvisamente fui circondato da nere figure incappucciate. Maledissi il destino, ma senza rabbia, e mi gettai sconfitto in ginocchio.

Una voce chiese: «Sei un rematore fuggito?».

Page 270: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

A cosa serviva mentire, tanto valeva farla finita subito: «Sì» risposi ansando.

Un’altra voce: «Togliti la camicia e facci vedere la schiena».Ubbidii, docile. Uno degli incappucciati aveva una lanterna cieca. Si

vedeva la luce filtrare dagli spiragli della portella. Venne a mettersi alle mie spalle, l’aprì e disse: «Ha la schiena piagata dalle frustate». E a me: «Mettiti seduto e mostra i palmi delle mani e dei piedi».

Si avvicinarono in due e allo stretto fascio di luce della lanterna osservarono i palmi e le caviglie.

«Sì, è un rematore. Non c’è dubbio.»Allora si fece avanti un quarto uomo e con voce rassicurante disse:

«Stai tranquillo. Sei fra amici. Noi siamo della Confraternita dei Rematori. Da quale nave sei fuggito?».

Risposi, smarrito: «Il nome non lo so. Quella genovese arrivata sei giorni fa. Un mercantile».

«Indossa questi e seguici, fratello.»L’uomo mi tese un saio, un cappuccio e un paio di sandali. Poi mi

condussero a un altro sentiero e, reggendomi e aiutandomi, mi fecero salire fino a quelli che mi sembrarono i ruderi di un castello. Entrammo fra i monconi di mura e, all’alba, eravamo scesi in un sotterraneo simile a un labirinto. Giunti in una specie di prigione dal soffitto a botte, illuminata da solo due lumi, trovammo una dozzina di altri incappucciati e io potei finalmente vedere che indossavano sandali, un saio e un cappuccio neri. Sul petto avevano cucita una croce sanguigna, le braccia terminanti con quattro remi. Anch’io ne indossavo uno uguale.

Nessuno si scoprì il volto o parlò, solo uno si rivolse a me indicandomi un giaciglio con sopra un coperta d’agnello e, accanto, un bacile d’acqua per lavarsi, una terrina con pane, cacio e pesce arrostito, un bicchiere di legno e un piccolo otre di vino. Disse: «Riposati e mangia. Non uscire da qui, per nessun motivo. Questa sera qualcuno verrà a prenderti, ti spiegherà ogni cosa e ti porterà in un posto sicuro».

Mangiai poco e bevvi ancor meno. A un certo punto, le lucerne si spensero una dietro l’altra e io persi il senso del tempo. In compenso dormii molto, con la testa vuota di pensieri. Poi venne un uomo, sempre incappucciato, con un lume e una fiasca di olio. Riempì le lucerne vuote e le riaccese e, mentre faceva questo, lentamente spiegò: «Fratello, molti di noi sono stati riscattati dopo mesi, alle volte anni, di remo. Facciamo parte di una confraternita segreta e antichissima, fondata da un nobile

Page 271: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

longobardo ai tempi del grande re Arechi. Era un uomo molto ricco, catturato dai bizantini e finito a remare per ben dodici anni. Ogni suo bene è andato al primo maestro della prima confraternita e dopo di lui di maestri ne sono venuti ventisei. Ufficialmente noi abbiamo la missione di riscattare i prigionieri di guerra, ma per dovere cristiano aiutiamo chiunque fugga dal remo. Per questo pattugliamo le zone attorno al porto tutte le notti. Ora, però, devo sapere qualcosa di te, per decidere quale sia il posto più adatto a nasconderti e a darti il tempo per organizzarti e cercare di tornare alla tua casa».

«Io, signore, non so come mostrarvi la mia gratitudine» dissi cercando di reprimere i brividi della febbre.

Sedette per terra accanto a me, allacciò con le braccia le ginocchia e disse: «Nessuno può mostrare il volto a chi non è della confraternita, ma non chiamarmi signore. Chiamami fratello e dammi del tu. Dunque, come ti chiami?».

«Corrado, signore…»«Fratello.»«Corrado, fratello. Corrado di San Lorenzo o da Romano. Come

preferite. La mia patria è il Patriarcato di Aquileia. Mio padre si chiamava…»

«Non m’interessa la tua genealogia. Dimmi come sei finito a remare» m’interruppe.

Gli raccontai della guerra fra i Visconti e della sanguinosa battaglia di Parabiago. Poi della prigionia, del mancato riscatto e di come ero stato venduto a un mercante di schiavi genovese. Mi ascoltò senza mai interrompermi con una domanda e alla fine disse solo: «Non credo che sua paternità il patriarca si sia rifiutato di pagare il riscatto. Tu hai qualcuno molto potente che ti odia, lo dimostra la falsità di chi è venuto a riconoscerti e non lo ha fatto. Bene, non serve sapere altro. Tra poco, appena farà buio, verranno due uomini con un cavallo anche per te. Ti porteranno dove potrai iniziare il tuo viaggio verso casa. Quando sarai guarito dalla febbre e dalle ferite».

«Dove, fratello?»«Dove lo vedrai all’arrivo. Intanto fidati di noi.»«E qui dove siamo? Questo lo posso sapere?»«Siamo in ciò che resta del castello del grande re Arechi, sopra

Salerno.»Gli uomini vennero e nonostante il buio cavalcammo con sicurezza per

Page 272: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

strade ripide e impervie, con il bosco su entrambi i lati. Infine vidi un grande complesso di fabbricati. Nessuno aveva parlato, non ci eravamo scambiati neppure un saluto. Però capii subito che doveva trattarsi di una grande abbazia o di un monastero. Non mi lasciarono alla porta principale, me ne indicarono una piccola dalle parti della foresteria. Mi fecero cenno di smontare da cavallo, uno di loro prese l’animale per le briglie e disse: «Fratello, tu hai un debito con il Signore. Per saldarlo fai a un altro ciò che è stato fatto a te. Abbi fortuna e che Dio ti riporti a casa sano e salvo».

Se ne andarono con un piccolo inchino e un gesto di saluto. Rimasi per qualche minuto davanti alla porta chiusa e solo per la paura di vedere l’arrossarsi dell’aurora picchiai con il battente. Il tempo di pochi respiri e la porta si aprì. Un monaco mi guardò, sorrise e disse: «Benvenuto alla Santissima Trinità, messer Corrado. Io sono l’abate Mainerio. Vi prego, entrate». Alzò le braccia al cielo e concluse: «Ringrazio il Signore per avervi inviato da me».

Page 273: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

GLI ANNI DELL’ERCINIO

(1347-1350)

L’ercinio è un uccello che vive in una boscosa regionedella Germania. Ha piume talmente lucenti che risplendonoanche nelle tenebre, perciò, per quanto sia oscura la notte,

il loro riflesso illumina il sentiero che conduce a luoghi sicuri.

Page 274: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

I

Ero in condizioni pietose e temetti di non sopravvivere. Dopo avermi lavato, sbarbato e tosato, mi sistemarono in una stanza stretta fra la foresteria e il chiostro, con una piccola finestra da dove entrava la luce del tramonto. Delirai per giorni, quindi iniziò la guarigione. Ma a mano a mano che il dolore della carne se ne andava, uno ben peggiore invadeva la mia mente e il mio animo. In salvo, senza l’angoscia di arrivare al domani, trattato dai monaci come se fossi un principe anziché un derelitto, cominciai a odiare. Sempre con maggior forza e risolutezza. Se fossi tornato a casa, la mia vendetta sarebbe stata terribile.

I buoni figli di san Benedetto si accorsero subito del mio mutamento e ne rimasero addolorati. Anche imponendomi di tacere, le mezze parole uscivano a forza e bastava metterle assieme per comprendere i miei propositi. Al principio non dissero nulla, pensando a una naturale reazione alle ingiustizie e alle sofferenze subite. Poi cercarono con belle parole di farmi capire che sarei passato da una schiavitù all’altra. L’unica cosa che ottennero fu un ulteriore smarrimento: più odiavo più pregavo e vedendomi prostrato a terra o aggrappato alla croce non capivano come fosse possibile che in me convivessero l’amore per Dio e l’odio per gli uomini.

Se la sete di vendetta non mi avesse tappato le orecchie e annebbiato la mente, avrei dovuto riconoscere l’errore già quando l’abate Mainerio cercò di lenire le sofferenze del mio spirito leggendomi alcuni brani del settimo libro dei Dialoghi di Seneca, quello intitolato De vita beata. Invece, non solo non l’ascoltai ma lo zittii rabbiosamente. Tornò a parlarmi solo il giorno prima della mia partenza da Cava, per raccontarmi una novella. Credo con la speranza di far germogliare in me, prima o poi, il coraggio di mutare pensiero. E non volendo togliere meriti ad alcuno, la riporto come la udii.

Page 275: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Gundo era un giovane e misero fante, perseguitato dalla fame fin da bambino. Ma in battaglia era forte e coraggioso, e un giorno l’imperatore lo notò e lo scelse come palafreniere. Gundo comprese subito quale grande opportunità gli stava offrendo e si disse: “Farò talmente bene il mio lavoro da avere presto e ogni giorno un pollastro sulla mia tavola”. Il pollastro lo ebbe in fretta, e poi si guadagnò pure l’oca e il cappone, il cinghiale e il cervo, il fagiano e la pernice.

Divenne governatore di un vasto territorio e la fama dei suoi sfarzosi banchetti si sparse per tutto il regno, e tutti lo amavano perché viveva in uno stato di eterna allegria. Inoltre, era un signore generoso, comprensivo e sempre pronto a trovare una soluzione bonaria in ogni questione. Purtroppo, nell’arco di pochi anni, non ci fu più cacciatore, pescatore e cuoco in grado di servirgli qualcosa di nuovo: aveva ormai provato ogni tipo di carne e pesce, preparati in tutti i modi possibili. Perfino i cigni e i pavoni farciti di fringuelli non lo soddisfacevano più e iniziò così a farsi malinconico e a considerare i suoi impegni gravosi.

Si stava ormai incattivendo, quando giunse nel suo castello un cantastorie di origine araba. L’uomo, saputa la causa del suo malessere e volendo coglionare un cristiano, gli fece notare che non aveva assaggiato tutto perché gli mancava l’animale più raro al mondo: la purpurea fenice. Allora Gundo convocò mercanti, inviò messi e spese gran parte del suo tesoro per procurarsi una fenice purpurea. Nessuno, però, riusciva a procurargliela e presto divenne per lui un’ossessione. Ogni giorno attendeva inutilmente di averla nel piatto, facendosi sempre più crudele, tanto che il suo dominio si trasformò in una foresta di pali con sopra infisse le teste mozzate dei sudditi. E se ne stava sempre seduto a tavola, nel salone ormai vuoto di amici, ospiti e perfino mendicanti, con davanti dozzine di vassoi ripieni di leccornie che non toccava e faceva gettare ai porci in attesa della fenice. Così, nel volgere di pochi mesi, ridotto ormai a uno scheletro, morì d’inedia nonostante la tavola sempre imbandita.

Quando l’abate Mainerio ebbe finito di raccontare, gli dissi: «Reverendissimo, ho capito cosa intendete dirmi. Ma io non cerco l’impossibile. Cerco solo la giusta vendetta».

«No, fratello mio, nessuno cerca volontariamente ciò che non dà

Page 276: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

felicità. Voi non cercate la vendetta in se stessa, ma la felicità che essa dovrebbe darvi. Otterrete solo amarezza, perché la felicità della vendetta è come la fenice purpurea: non esiste» replicò.

«Allora pregate affinché Dio abbia pietà di me togliendo dalla terra chi mi ha provocato tanto male, e forse mi rassegnerò.»

«Non bestemmiate!» esclamò.Nonostante questo bisticcio, poco dopo tornò con due frati. Era circa

l’ora di compieta. Portavano abiti, calzari e ogni altra cosa necessari a un lungo viaggio. L’abate mi consegnò delle lettere, una per il suo confratello di San Vincenzo al Volturno, una per il decano di Santa Maria di Collemaggio all’Aquila e l’ultima per la badessa di Santa Maria delle Donne ad Ascoli. Erano, oltre ai normali ospizi che avrei trovato lungo la strada, i miei punti di riferimento, luoghi amici dove avrei trovato sicura protezione nell’attraversare la penisola. Poi, una volta ad Ascoli e al suo porto, mi sarei imbarcato sulla prima nave diretta a Venezia. Infine depose sul letto una borsa con del denaro: «Dovrebbe bastarvi fino a casa».

Ero commosso da tanta generosità e mi venne un groppo alla gola: «Abate, come farò a ripagarvi?».

«Ripensate alla novella e, se proprio volete e potete, ridate questo denaro all’abate di Santa Maria in Sylvis, dove stanno i vostri fratelli».

Volevo baciargli la mano, ma lui la ritrasse e mi abbracciò. Le sue ultime parole furono: «Domani mattina troverete fuori dalla porta un cavallo. Prima di imbarcarvi cercate qualcuno che ne abbia bisogno e donateglielo. Ci sarà anche una spada, appoggiata allo stipite della porta. Dovrete usarla solo per difendervi, mai per offendere o vendicarvi. Rispettate queste regole come fossero un giuramento».

Lasciai l’abbazia di Cava il trenta luglio 1347, e due monaci mi accompagnarono fino a Benevento. Impiegammo due giorni ad arrivarci e altri due mi ci vollero per giungere a San Vincenzo.

Questa è un’abbazia con pochi monaci e molto rovinata, ci rimasi una settimana a causa di abbondanti e continue piogge. Tornato il sole, seguii il mercante che forniva carta e pergamena all’abbazia fino alla sua città, ossia Avezzano, e impiegammo quattro giorni e mezzo. Poi raggiunsi da solo l’Aquila, dove stetti due giorni e dove il decano di Santa Maria di Collemaggio mi affidò a un secondo mercante. Questi si chiamava Giovanni di Lorenzo e commerciava in panni, secondo lui i migliori dell’intera Italia, ed era proprio di Ascoli.

Page 277: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Avremmo potuto percorrere l’ultimo tratto in soli quattro giorni, ma Giovanni, dopo una filippica contro la città di Fermo nemica giurata della sua, mi disse che eravamo obbligati a fare una strada ben più lunga appunto per aggirarla. Così di giorni ne impiegammo Sette, anche perché lui ne approfittò per trattare con dei pastori l’acquisto della lana. Insomma, con la protezione del Misericordioso, attraverso boschi e monti, alle volte così selvaggi da ricordarmi il passo di San Boldo, il ventisette agosto il mercante Giovanni mi lasciò davanti a Santa Maria delle Donne, fuori le mura di Ascoli, nei pressi della porta detta Romana.

La badessa delle suore di santa Chiara mi ricevette con il sole vicino al tramontare. Fu come parlare a un’ombra, perché l’unica lucerna era dalla mia parte della grata. Mi disse solo: «Ho letto la lettera del reverendo abate di Cava. La nostra foresteria è piccola e non abbiamo più posto. Eccone un’altra per messer Pietro di Monte Moro. Questa notte potete dormire in chiesa e domani andate da lui. Troverete cristiana ospitalità».

Non ebbi neppure il tempo di ringraziare. Un foglio piegato comparve fra due sbarre della grata, e con un fruscio la badessa se ne andò. Presi il foglio e lo rigirai. Era piegato, chiuso con della ceralacca verde sulla quale era impresso il sigillo del monastero, e con scritto il nome di chi avrebbe dovuto essere il mio benefattore. Uscii, lasciai il cavallo in una stalla pubblica vicina e, digiuno, dormii sul pavimento della chiesa. Ero fuori prima del sorgere del sole e dovetti attendere l’apertura della porta. Mi stupii molto per la grande quantità di soldati che trovai a presidiarla, e per quanti altri fossero di vedetta sulle mura. Poi ricordai le parole del mercante Giovanni: stavo entrando in una città in guerra.

Il capoposto controllò con molta attenzione la lettera, mi chiese il nome, da dove provenivo e perché ero là. Risposi senza mostrare fastidio, neppure davanti al suo girarmi attorno e allo squadrarmi come se in me ci fosse qualche stranezza. Alla fine mi rese la lettera e piuttosto burberamente mi fece cenno di entrare. Io non sapevo da quale parte dirigermi e gli chiesi cortesemente indicazioni.

«Andate dritto e poi chiedete dov’è il quartiere di San Giacomo. Il palazzo è là, lo riconoscerete dallo stemma. Una torre su un monte a cinque cime, circondata da due fronde e con in cima una testa di moro.»

Ascoli, oltre a essere una grande città dalle imponenti difese, ha l’eleganza di una nobilissima signora d’antico lignaggio. Una strada

Page 278: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

lunga, dritta e completamente selciata, l’attraversa tutta, e da questa si dipartono molte vie che la collegano ad altre che le corrono parallele dividendo la città in una grande scacchiera. In questi quadrati sorgono palazzi con accanto torri altissime. Sono oltre cento e mi dissero che un tempo erano più del doppio. Ognuna delle torri è la prova di quella potenza e ricchezza che in parte si riversa sulle innumerevoli chiese e monasteri, molti di dimensioni straordinarie come quelli dei francescani o dei domenicani, sempre in fabbrica per ingrandirli e abbellirli. Della ricchezza si avvertono il profumo, la molteplicità dei colori e il rumore. Infatti, camminando per le vie e i vicoli, si annusa l’odore della lana lavata e lavorata, quello dei pigmenti e delle essenze usati per tingerla, e ovunque cade lo sguardo, si vedono grandi matasse di lana filata e tinta messe ad asciugare sotto gli androni e i portici, e il rumore dei passi è coperto da quello dei telai.

Giunsi dunque al palazzo e consegnai a un servo la lettera. Dopo pochissimo tempo mi fecero entrare nell’atrio e mi venne incontro messer Pietro, uomo in apparenza altero, alto più di me, molto magro e con il naso grande e aquilino. Restando a tre passi di distanza, senza un cenno di saluto, domandò: «Qual è la vostra disgrazia, ser Ecelo?».

Cercai le parole giuste: «Di essere stato tradito da coloro per i quali combattevo».

«In che modo vi hanno tradito?»«Non hanno pagato il riscatto e sono finito schiavo del remo.»«La vostra fedeltà e il vostro valore valevano il prezzo del riscatto?»«Lo valevano, signore.»Mi fissava immobile, impettito, i piedi uniti e le mani dietro la schiena.

Sembrava non essere capace di emozioni, tanto il suo volto era impenetrabile. Continuò: «Rispondete con molta sicurezza, avete la sofferenza sul volto e i vostri occhi mi paiono sinceri. Nel vostro passato c’è qualcosa che potrebbe danneggiare la mia casa se si venisse a sapere?».

Considerai inutile mentire e risposi: «Sono fuggito da una nave genovese e sono stato accolto dall’abate di Cava. Inoltre il mio nome non è Ecelo di Treviso, ma Corrado di San Lorenzo. O, se vi piace, da Romano. La mia Patria è il Friuli, ma lo sono state anche Treviso e Verona, e sono ad Ascoli per imbarcarmi nel vostro porto e cercare di tornare a casa».

Le domande continuarono a lungo, finché non gli ebbi riassunto quasi

Page 279: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

l’intera mia vita. Quindi mi accolse nella sua casa, mettendomi a disposizione una stanzetta al pianterreno. Ma non era finita. Passate neppure due ore, poco prima del mezzogiorno, messer Pietro tornò da me e mi disse: «Seguitemi, devo farvi incontrare una persona».

Pensai che mi conducesse al palazzo del Comune o in un altro pubblico ufficio per iscrivermi come suo ospite. Invece, giunti nella piazza dove c’è il duomo e il battistero, entrammo per una porta di servizio nel palazzo vescovile. E mentre il valletto accorso a riceverci andava da qualcun altro ad annunciarci, sedemmo ai lati di un piccolo tavolo in una stanza piuttosto modesta e spoglia.

Non feci domande né lui diede spiegazioni, poi la porta si aprì ed entrò il vescovo. Era solo. Guardò prima il mio accompagnatore e poi me, quindi chiese: «A cosa devo questa visita piuttosto irrituale, messer Pietro? Forse abbiamo di nuovo i fermani alle porte?».

Colsi subito qualcosa di familiare nel vescovo Isacco. In lui nulla era al di fuori della normalità, eppure avevo già visto quell’uomo tonsurato e dalla barba fluente. Anche se non aveva nulla a che fare con la sopravveste carminia e la grossa croce episcopale che riluceva sul suo petto. Pietro si inginocchiò e gli baciò l’anello. Altrettanto feci io.

«Chi è questo sconosciuto?» domandò il vescovo Isacco guardandomi a occhi socchiusi come se anche lui avesse avuto la mia stessa sensazione.

«Mi è stato mandato dalla badessa di Santa Maria, monsignore eccellentissimo. Un uomo che ha bisogno di ospitalità e protezione. Purtroppo sono tempi di guerra, con i nemici a inventarsi ogni stratagemma per entrare in città e spiare. In altri momenti non avrei avuto tanta diffidenza, ma lui mi ha raccontato cose a voi note e sono qui a disturbarvi per la pace della mia casa e della mia coscienza. Vi sarei molto grato se voleste udirlo e porgli qualche domanda.»

«Allora ditemi chi siete, da dove venite?» mi chiese e facendolo scosse due volte il capo come in segno di diniego.

Ecco cosa mi era familiare. L’aveva fatto entrando e mentre Pietro gli baciava l’anello. La mia mente collocò subito quella contrazione nervosa a Padova e la rivestì di un saio benedettino. Poi si associò a Marsilio da Carrara ed ebbe un nome.

«Allora, perché non rispondete?» mi sollecitò Isacco.«Eccellentissimo, non consideratela una mancanza di rispetto. Credo

di conoscervi, e permettetemi di essere prima io a porvi una domanda. Voi siete fra Isacco Bindi da Perugia, prima monaco e poi abate nel

Page 280: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

monastero di San Michele di Candiana nel padovano? Amico e confessore di Marsilio da Carrara?»

I suoi occhi si illuminarono, scosse la testa due volte ed esclamò: «Mi pareva d’avervi già visto! Voi eravate l’emissario di Cangrande a Padova».«Lo ero, mio signore. In un’altra vita.»«Quanti ricordi mi portate alla mente.»Pietro di Monte Moro mi rivolse un inchino e, cambiando

completamente atteggiamento, mi tese la mano e disse: «Vi chiedo perdono. Spero voi capiate la mia diffidenza». E rivolto a Isacco: «Eccellentissimo, mi pareva incredibile che due vite sfioratesi a Padova potessero ritrovarsi tanto lontano. Così, quando mi ha parlato di Cangrande, ho dubitato. Volevo che ve lo descrivesse, per…»

«Non preoccupatevi, messer Pietro. Mi farete un dono se lo accompagnerete qui altre volte, magari a cena, perché io possa rivivere con lui la mia gioventù.»

Una volta in strada, Pietro tornò a scusarsi. Era realmente mortificato per come mi aveva accolto. Lo rassicurai, dicendogli che nulla poteva intaccare la mia gratitudine per la sua ospitalità e lui chiuse la cosa spiegandomi: «Messere Corrado, Giovanna, la badessa, è mia cugina. Lei non si cura di chi mi manda in casa. A lei interessa solo la carità».

Mi ero riproposto di restare ad Ascoli pochi giorni, il tempo di organizzarmi, andare al porto che dista dalla città circa quindici miglia, e salire sulla prima nave diretta a Venezia. Invece il mio ospite e il vescovo mi trattennero per due settimane. Visitai le sante reliquie di san Fedele, pregai in San Francesco, e adorai la santa spina della corona del Signore conservata in San Pietro. Poi non potei più partire, perché cominciò a diffondersi la notizia di una terrificante epidemia e le navi veneziane non accettavano nessuno e quelle d’oriente non si videro più. A ottobre non ci furono addirittura navi di alcun tipo e quando dissi a Pietro di voler tornare a casa via terra, lui me lo sconsigliò perché da lì a poco avrebbe cominciato a nevicare e le strade fino in Romagna si sarebbero fatte impraticabili. Infine, negli ultimi giorni di febbraio, una nave gettò l’ancora davanti al porto di Ascoli. Ma quando i gabellieri salirono a bordo, la trovarono piena di morti o morenti. Un mese dopo la peste iniziò a mietere vittime ad Ancona e, a distanza di due settimane, giunse ad Ascoli.

Page 281: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

II

La pestilenza ebbe il suo inizio nella casa di un soldato che prestava servizio alla porta presso Ponte Tufillo. All’uomo, e poi a tutto il resto della famiglia, vennero dei gonfiori nerastri e della dimensione di una piccola mela o di un uovo sotto le ascelle e all’inguine. Quindi i gonfiori presero a trasudare sangue e pus, e perfino il sudore aveva una puzza insopportabile. In breve tutto il corpo gli si ricoprì di vesciche e macchie nere. L’uomo urlò per il dolore e delirò per la febbre lo spazio di cinque giorni, sudando copiosamente e infine una tosse violenta fu accompagnata da un vomito sanguinolento e morì.

Sua moglie e i suoi figli lo seguirono nella tomba tre giorni dopo, infatti, a mano a mano che si propagava, la pestilenza diveniva sempre più veloce fino a uccidere le persone nell’arco di un giorno e una notte e anche meno. Ed era impresa sovrumana avvicinarsi agli ammalati, perché tutto ciò che usciva dai loro corpi, alito, sudore, sangue, orina sanguinolenta e feci nere, aveva un odore più fetido della putrefazione. Inoltre morivano in preda al terrore e alla disperazione in quanto, prima della fine, asserivano di vedere la morte sedersi di fronte a loro.

Al principio gli addetti alla sanità e i medici riuscirono a rallentare il contagio isolando le case dove c’era il morbo, bruciando gli abiti e i letti dei morti, fumigando con erbe medicamentose, spezie e zolfo le case dei vicini sani. Ma il soffio pestifero sembrava non conoscere ostacoli e in poche settimane l’intera città fu infetta. Morivano più i giovani dei vecchi, le donne degli uomini, i ricchi dei miserabili. E nessuno sapeva come curare o spiegare l’origine della peste. Ancora oggi si fanno dozzine di ipotesi, senza riconoscere la giusta. Anche se ad Avignone la si attribuì alle troppe eresie e ai costumi licenziosi, da Parigi si diffuse l’affermazione che tutto era nato da una triplice congiunzione di Marte, Saturno e Giove nel quarantesimo grado dell’acquario, verificatasi nel marzo del 1345. E si potrebbe andare avanti a lungo con queste

Page 282: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

supposizioni.Alla corruzione della carne, ben presto si abbinò quella dell’anima. Se

molti si gettavano a chieder perdono a Dio ai piedi degli altari e presso le sante reliquie, altrettanti, decisi a togliersi prima della morte ogni voglia, si davano a feste e banchetti dove veniva commesso ogni peccato. Così le processioni di penitenti, che si dilaniavano le carni con i flagelli, sfioravano case e palazzi dove regnava la turpitudine o, essendo morti i padroni, i servi, indossati i loro gioielli e le loro vesti, celebravano veri e propri carnevali. E chi poteva se ne fuggì in castelli e borghi isolati.

Questo fece anche il mio ospite con la moglie e i figli: andò a rinchiudersi in una sua casa a Castel Trosino, borgo non solo imprendibile ma perfino inaccessibile, murato e posto com’è su di un orrido strapiombo. L’ultimo ad andarsene da palazzo fu suo figlio Andriuccio, il quale volle portarmi con sé. Ma, essendo forestiero, a Castel Trosino non mi permisero di varcare neppure il ponte levatoio e tornai da solo ad Ascoli.

A un tratto credetti di essermi infettato pure io. Sentii un gonfiore sotto l’ascella sinistra e mi preparai a morire. Invece, dopo un giorno di febbre altissima, il gonfiore sparì e fui fra quelli immuni al contagio. Il perché non lo so. Forse l’Altissimo volle compensarmi dei passati patimenti, forse le numerose infezioni contratte con i miei compagni di remo avevano messo nel mio corpo un flusso avverso alla pestilenza. Nessuno potrà mai darmi una spiegazione e a me piace credere che fosse nei disegni divini darmi il tempo per compiere l’impresa della quale dirò.

Andavo spesso in chiesa, soprattutto in quella di San Pietro dove c’è l’angelo che stringe fra le mani una piccola teca contenente la spina della corona di nostro Signore. E andando e tornando al palazzo, purtroppo saccheggiato al punto che per un intero mese potei nutrirmi, anche durante la febbre, solo di rape, aglio e cipolla, assistetti a cose difficili anche da scrivere. Nelle prime settimane si celebravano funerali regolari per un morto alla volta, poi le bare cominciarono a mancare e in una sola si ponevano anche tre persone una sull’altra. Poi non ci furono più né celebranti né bare e i corpi venivano gettati com’erano morti, vestiti o nudi non importava, senza alcuna preghiera ad accompagnarli, in fosse comuni fuori e dentro le mura. E c’era in tutta Ascoli un fetore indicibile, perché ai molti uomini e donne rimasti a marcire nelle loro case, iniziarono a morire anche gli animali e le loro carcasse ammorbavano l’aria.

Page 283: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Ricorderò sempre una casa, nei pressi del convento dei francescani. Vidi con questi miei occhi un padre murare la porta di casa imprigionando all’interno la moglie e i figli agonizzanti. Mentre io cercavo di convincere l’uomo a desistere dal suo intento, dalla finestra del primo piano si sporse la sua donna. Era pallidissima, ma non aveva le macchie nere né sul viso né sulle braccia. Queste, invece, deturpavano i due bimbi seminudi che reggeva tra le braccia. Bestemmiò Dio e maledisse il marito, poi gli gettò i bambini ancora vivi addosso e il selciato fracassò loro i teneri crani. E potrei raccontare eventi ben più orridi e tristi, ma preferisco chiudere questa breve e orribile parte della mia vita dicendo quale fu il mio lavoro per mesi, ossia fino a settembre.

Andavo spesso alla porta del vescovado per informarmi sulla salute di Isacco. Egli se ne stava rinchiuso nel suo palazzo e mandava uno dei valletti a rispondermi, ma un giorno venne di persona e tenendosi lontano dallo spioncino mi disse: «Messer Corrado, ho proclamato un’indulgenza di cinquecentonovantanove giorni per chi va in San Pietro a implorare la fine della pestilenza. Mi riferiscono di disordini perché i custodi sono quasi tutti morti. Voi sembrate immune dal morbo, e perciò vi prego di prendere il posto di uno di loro».

Fu così che indossai la tunica e il cappuccio rossi e iniziai a trascorrere le giornate cercando di mettere ordine nella chiesa ormai svuotata di domenicani, morti o chiusisi in volontaria clausura. Ma siccome il male chiama il male, nonostante la peste, i fermani vennero a fare danno alla città e non potendo violarla sfogarono tutta la loro furia sul porto. Questo provocò la chiamata di Galeotto Malatesta, il quale lasciò Rimini e con il nipote e un gran numero di soldati entrò ad Ascoli. Ai morti per la peste si aggiunsero i morti per la guerra, tanto che ai primi di settembre, quando il morbo cessò, due terzi della popolazione ascolana erano morti.

Tornò Pietro e, attribuendo a me il merito del poco rimasto a palazzo, implorò lo stesso Galeotto di trovarmi un passaggio su una delle sue navi. M’imbarcai il dodici settembre del 1348 e il ventuno lasciai Rimini, da dove, a cavallo, presi la strada di casa lontana oltre centocinquanta miglia. Ciò che vidi durante il lungo viaggio fece vacillare il mio animo e, non fosse stato per il desiderio di ritrovare mia moglie e i miei figli e di prendermi la giusta vendetta, probabilmente non sarei mai giunto a destinazione.

Ovunque desolazione e morte, villaggi spopolati, campi dove le messi

Page 284: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

marcivano, animali inselvatichiti, e non c’era giorno nel quale non m’imbattessi in uno o più scheletri umani. La pestilenza mi precedeva come certe onde del mare che nascono all’improvviso, prendono sempre più forza travolgendo e affondando navi fino a rovesciarsi sulla terra sconquassando tutto e lasciando dietro di sé solo relitti e cadaveri. I pochi viandanti spinti sulla strada da ragioni altrettanto gravi della mia raccontavano di città desolate, con i sopravvissuti talmente rabbiosi da passare per le armi qualunque forestiero tentasse di entrarvi. Perciò le evitai accuratamente e scelsi strade secondarie imbattendomi più volte in ladroni e briganti. Ma erano talmente deboli e affamati che io, rafforzato dalla carne secca e dal lardo che riempivano la mia bisaccia, me ne liberai facilmente. E come i sopravvissuti fossero a caccia di colpevoli cui attribuire la moria, lo vidi quando fui fra Ravenna e Ferrara.

Notai da lontano innalzarsi una colonna di fumo e poi mi giunse un forte lezzo di carne bruciata. Volendo sapere se da quelle parti infuriasse ancora la peste, mi avvicinai fino a trovarmi davanti a un’enorme catasta sulla quale degli uomini imbestialiti ne gettavano altri ancora vivi che urlavano e si contorcevano. Mantenendomi a distanza di sicurezza, gridai: «Perché li bruciate?».

E uno di rimando rispose: «Perché sono lebbrosi ed ebrei! Sono stati loro a diffondere la peste!».

Erano una dozzina e armati, perciò proseguii al galoppo trattenendo a fatica dei conati di vomito.

Giunto finalmente in terra friulana, sfiorando Sacile, vidi un’enormità di case rase al suolo. Notando lo stesso nei villaggi successivi, con oltre alle case anche chiese e campanili crollati, quando raggiunsi il guado di Cordenons per attraversare i fiumi Meduna e Cellina, domandai all’unico barcaiolo ancora al suo posto il perché della rovina e lui mi rispose: «Signore, la notte del venticinque gennaio scorso c’è stato un grande terremoto. Anche molti castelli e città sono crollati. E come se non bastasse, le locuste sono venute ormai tre volte quest’anno».

«Ci sono stati molti morti?»«Oh, dipende. In certi villaggi sono morti tutti, in altri pochi. Non vi è

stata logica. Per fortuna è finita. Ora, almeno per quello che dicevano i quattro mercanti passati di qua nell’ultimo mese, sta mietendo oltralpe. Però non è finita. Non si raccoglie e non si semina, e il prossimo anno ci sarà di sicuro una terribile carestia.»

«Sapete qualcosa del villaggio di San Lorenzo?»

Page 285: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«No, signore. Certo è che non vedo nessuno di loro pascolare o far legna su quella riva.»

Mi preparai al peggio, implorando il Signore di ritrovare i miei vivi e la casaforte in piedi. Quando lasciai la strada Ungaresca e fui all’imbocco di quella che conduceva a casa, spronai il cavallo con l’intenzione di galoppare. Lo feci per pochi passi e tirai tanto forte le briglie che il cavallo sbandò rischiando di cadere. Ero madido di un improvviso sudore freddo, avevo il cuore in gola e mi mancava il respiro. Di colpo avevo realizzato di stare ritornando dopo dieci anni e di essere per tutti un morto. Come presentarmi? Cosa dire? Sempre che avessi trovato qualcuno cui dire qualcosa. Credetti di perdere i sensi, presi l’otre dell’acqua e feci per bere. Era vuoto. Lo scagliai con rabbia nel fosso. Così mi accorsi che non c’erano più i fossi al lato della strada. O meglio, erano occultati da erbacce e rovi. Neppure la strada c’era più. Al posto di un ciglione stretto fra i solchi scavati dalle ruote dei carri c’era solo erba, un’erba neppure piegata da passaggi recenti.

Smontai da cavallo e caddi in ginocchio. E là mi tormentai finché non trovai il coraggio di riprendere la via fra campi e prati in abbandono, vuoti di gente. Poi le vigne, un intrico di tralci snudati dalle locuste con poca uva a marcire. Cominciai a tenere lo sguardo fisso in direzione della torre e quando mi apparve sopra le cime degli alberi vidi subito che non c’era il tetto e che mancava del lato sinistro. Infine la chiesa, in piedi ma con il campanile a vela crollato davanti alla porta principale. Allora alzai gli occhi al cielo e chiesi a Dio: «Mi hai riportato a casa solo per punirmi ancora un volta? Quale terribile peccato ho commesso contro di te?».

La piazza era deserta, non udivo una voce e, volgendo all’ingresso della casaforte, bestemmiai. Le porte erano sbarrate. Balzai giù da cavallo e con furia iniziai a picchiarci contro con il pomolo della spada. Stavo per rimontare a cavallo e andare alla porta del villaggio, dietro la casaforte, quando un’anta si aprì cigolando. Solo il poco bastante a mostrare il viso di Andrea. Mi fissò, sbiancò e richiuse subito.«Cosa fai, Andrea?» gridai.«Vai via! Vai via fantasma! In nome di Gesù e della santa Vergine!» urlò lui dall’altra parte.«Apri, stupido! Apri svelto o ti taglio la gola!»Di nuovo lo spiraglio. Andrea aprì e cadde in ginocchio tutto tremante, ripetendo: «Allora non siete morto, non siete morto».Entrai nella corte come una furia, la spada in mano. Poi vidi pure lì le

Page 286: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

erbacce crescere fra l’acciottolato, la torre e un lato delle mura mezzo crollati e trovai solo la forza di dire al mio vecchio scudiero: «Dimmi che non sono tutti morti».Non attesi la risposta. Corsi alla casa ed entrai nella sala. Era desolatamente vuota e silenziosa. Tornai fuori e chiamai: «Francesca! Francesca!».Nessuno mi rispose.

Page 287: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

III

Andrea mi raggiunse a capo chino e disse: «Signore, Sono tutti morti. I vostri e i miei figli, vostra sorella Aurora e Ansoaldo. Faccio prima a dirvi chi vive: solo vostro fratello Federico, all’abbazia di Sesto. È lui che cerca di mandare avanti le proprietà e per questo mi ha nominato suo gastaldo».«Morti? Anche Francesca?»«Non lo so signore, lei è scomparsa.»

Lo afferrai per il petto e sibilai: «Come scomparsa?».«Signore, sono dieci anni. Datemi il tempo di raccontarvi tutto, vi prego.»«Perché dici scomparsa?» tornai a chiedergli, scuotendolo con violenza.«Vi prego, calmatevi. Lasciatemi raccontare.»Crollai su una sedia e come svuotato dissi: «Allora racconta».«Prima vi devo dire un’altra cosa.»«Parla.»«Con lei è scomparso anche vostro figlio.»

«Mio figlio? Ma hai appena detto che sono morti!»«Non i figli avuti da donna Freja, il bambino partorito da donna Francesca. Quando siete partito per la guerra era incinta e ha partorito un maschio, a Pinzano. Lo ha chiamato come voi, Corrado.»Mi coprii il volto con le mani e lui continuò a raccontare. Quando era

giunta la notizia della mia morte, i miei fratelli e mio suocero Ermanno si erano precipitati alla casaforte e avevano deliberato tutti assieme di riportare Francesca e i miei figli a Marzinis, e Ansoaldo era stato nominato tutore e amministratore dei loro beni. Avrebbero dovuto stare con mio suocero solo per il tempo di organizzare la loro vita alla casaforte e sempre Ansoaldo, non avendo famiglia sua, si era impegnato a essere il loro protettore e difensore. Dopo di che, mio suocero e i miei fratelli si erano recati a Pinzano per prendere Francesca. Ma lei non

Page 288: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

aveva voluto muoversi, dicendo: «No, Corrado non è morto. Io lo sento. Prima o poi tornerà a prendermi. Qui mi ha voluto durante la sua assenza e qui resto».

Non cera stato verso di convincerla e nel castello di Pinzano era rimasta fino alla notte del terzo giorno di giugno del 1344. In quella notte, Manfredo aveva fatto assassinare quasi tutti i miei e suoi cugini per impossessarsi del feudo. Saputa la cosa, il patriarca Bertrando era accorso con l’esercito a Pinzano per catturare gli assassini. Lo aveva assediato per un mese e infine conquistato. La sera precedente il suo ingresso a castello, temendo violenze da parte degli assedianti, Simone, l’unico mio cugino di primo grado sopravvissuto, aveva fatto fuggire Francesca con il bambino per un passaggio segreto che conduceva al Tagliamento, dove una barca avrebbe dovuto portarli in salvo nel vicino castello di Ragogna, Da quel momento non si era saputo più nulla di loro.

Lo interruppi: «Come nulla? Dove sono gli altri Pinzano? Qualcuno ha parlato con il barcaiolo?».

«Io stesso sono andato con vostro suocero a Pinzano, anche se era ormai affidato ai signori di Savorgnan. Ma i nuovi padroni e la loro gente non sapevano nulla. Ermanno è andato anche dal patriarca, e neppure lui sapeva nulla. Ho parlato io con i barcaioli del guado. Nessuno ha visto vostra moglie e vostro figlio. Poi il signor Simone, che oggi abita a Spilimbergo, ha giurato che cera un suo barcaiolo ad attenderli in un luogo nascosto, ma è sparito pure lui. Il signor Simone è convinto che la barca si sia rovesciata e siano annegati tutti. C’era un grande temporale quella notte.»

«E gli altri Pinzano?»«Impiccati, imprigionati o spariti. C’è solo il signor Simone e uno di

nome Giovannino, ma questo era e sta a Ragogna, dove signore. Vostro suocero ha parlato pure con lui, ma vostra moglie là non è arrivata. Non solo, i vostri fratelli monaci sono andati a Castel Raimondo, dove si era asserragliato Manfredo con i suoi. Neppure loro sapevano qualcosa, neppure del tentativo di fuga. Mi dispiace, signore, credo proprio che siano annegati nel Tagliamento.»

Come Francesca aveva la certezza che io ero vivo, io non riuscivo a concepire la sua morte. Ma non dissi nulla e gli lasciai finire il racconto. Mio suocero era morto pochi mesi dopo, di disperazione e dolore. Invece i miei fratelli avevano continuato a badare alle mie cose e agli altri

Page 289: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

miei figli per portarli alla giusta età e riconsegnare loro tutto. Purtroppo, dopo il grande terremoto, era arrivata la peste. Tra aprile e maggio erano morti tutti, anche mio zio Rosso e un mio cugino.

«Quanti uomini sono rimasti nei miei villaggi?» domandai con la disperazione nel cuore.

«Non avete più villaggi, signore. Tutte le vostre terre e case sì, ma i villaggi li ha avocati a sé il patriarca dopo l’annuncio della vostra morte. Senza di voi, non c’era altro da fare.»

«E qui?»«Di duecentosei siamo rimasti in cinquantanove.»«Dove sono ora?»«Nei campi. Ci sono state le locuste, ma un po’ di sorgo è rimasto, e

anche abbastanza uva. Cercano di raccogliere quello che possono, sulle terre verso Casarsa dove le locuste hanno fatto meno danno.»

Continuavo a pensare a Francesca e al figlio mai visto, aggrappandomi alla convinzione che ancora vivessero, forse nascosti in qualche monastero o chissà dove. E avevo deciso: l’indomani avrei cominciato a cercarli. Subito dopo aver parlato con il patriarca e saputo perché non ero stato riscattato e aver scovato l’uomo che aveva asserito di non riconoscermi. Tutta la stanchezza del viaggio si stava impossessando di me. Ebbi la forza di porre ancora un domanda: «Perché mio fratello Federico non ha ancora fatto riparare la torre e le mura?».

Andrea deglutì più volte e con grande imbarazzo rispose: «Non vi è più denaro, signore. Fino a quest’anno si tirava avanti con quello che dava la terra, ma ora anche quella è abbandonata».

Mi aspettai l’ennesima mazzata, chiedendo: «Cerano trentamila fiorini depositati nella banca di mio cugino quando sono partito, che fine hanno fatto?».

«Mi dispiace. Le banche fiorentine sono fallite nel ’43, anche quella di vostro cugino. Subito dopo si è trasferito ad Avignone, con i parenti di sua madre.»

«Qualche altra disgrazia, amico mio?» domandai.Allargò le braccia con le lacrime agli occhi e disse in un sussurro:

«Questa nostra straziante solitudine».«Qualcuno ha violato la casa?»«No, quello no.»«Allora denaro ne abbiamo. Ne parleremo domani.»A sera tutti gli abitanti del villaggio si radunarono nella corte. Andrea

Page 290: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

gli aveva annunciato il mio ritorno e il podestà, Antonio detto Zoppo, seppe solo dirmi: «Ora, con voi di nuovo qui, forse le cose miglioreranno».

Prima di partire, dicendolo solo a mia moglie, avevo nascosto diecimila fiorini nel doppiofondo della cassapanca in camera nostra. Erano ancora là e ne presi venti per me e cinque per Andrea ordinandogli di cercare un muratore o chiunque altro fosse in grado di riparare gli spacchi nei muri della casa. L’unica cosa che non ci mancava erano i cavalli, anche se molti erano stati rubati o si stavano inselvatichendo da qualche parte. Presi il migliore e andai a Udine. I crolli erano ancora evidenti sia sulle mura e le torri sia sulle case. Una parte del castello sul colle era crollata e uno dei soldati di guardia alla porta bassa mi disse che il patriarca alloggiava a palazzo Savorgnan.

Feci il tratto fino al palazzo tenendo il cavallo per la cavezza. La gente era poca, smagrita e malconcia come durante un lungo assedio, e camminavano tutti a testa bassa. Mi presentai alla porta custodita da una mezza dozzina di militi e dissi il mio nome chiedendo di parlare con urgenza al patriarca. Dovetti attendere fuori finché non uscì Tristano Savorgnan, gli occhi pieni di meraviglia.

«Dunque siete proprio voi! Non potevo credere alle mie orecchie!» esclamò.

«Sono io. Il patriarca mi può ricevere?»Notò il mio parlare aggressivo, la furia negli occhi.«Certo, messer Corrado. Dovete avere solo un po’ di pazienza. Sta

parlando con il maresciallo della Patria. Bisogna cominciare a mettere un po’ d’ordine, liberare le strade da chi crede di poter vivere razziando i beni dei morti. Ma entrate e intanto mi racconterete quello che vi è successo.»

Non avevo nessuna intenzione di narrargli le mie disavventure, volevo solo delle risposte. E iniziai da lui, appena ci fummo accomodati in una saletta tutta affrescata e con degli scranni intarsiati di avorio: «Messer Tristano, voi siete uno degli uomini più vicini al patriarca. Il più vicino, se non ricordo male. Perché nessuno ha pagato il mio riscatto?».

Mostrò stupore e rispose: «Forse potete accusare sua paternità di aver ritardato, ma è stata colpa dei pochi cavalieri tornati a casa. Vi davano tutti per morto. Poi è arrivata la lettera e, nonostante qualche incredulità sul vostro essere ancora in vita, ha inviato un messo con tutti i poteri necessari a riscattarvi. Però è tornato con la conferma della vostra morte.

Page 291: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Perciò…».«Oh, l’ho visto quel farabutto. È venuto nel carcere di Milano e ha

asserito che io non ero chi dicevo di essere. Non ha voluto neppure ascoltarmi.»

«Mi state dicendo una cosa di una gravità inaudita!»«Ditemi il nome di quell’uomo!»«Credetemi, non lo so. Però sua paternità certamente lo ricorda. È

stato lui a incaricarlo, e nonostante l’età avanzata ha ancora una memoria di ferro.»

«Lo spero, lo spero proprio.»Il patriarca Bertrando fece il suo ingresso in quell’istante e

squadrandomi da capo a piedi disse: «Dunque siete vivo. Ringrazio Dio per questo. Ho pregato spesso per voi. Anzi, per la vostra anima dovrei dire».

Aveva allungato la mano verso di me perché la baciassi. Non lo feci e mi limitai a un inchino. Lui guardò Tristano e questi gli riassunse ciò che avevo appena raccontato. Allora mi venne vicino e mi abbracciò. Poi sedette facendomi cenno di accomodarmi accanto a lui. Rimase un po’ pensieroso e disse: «Il messo era Girolamo di Gemona. Uno dei nostri uomini più fidati, lo ricordo bene. Non riesco a capacitarmi. Forse si è trattato di un malinteso. Vi ripeto, quell’uomo era andato e tornato per me da Avignone almeno una dozzina di volte. Facendo sempre al meglio il suo lavoro».

«No, vostra paternità. Nessun malinteso. Mi ha guardato bene in viso e non mi ha permesso di parlare» replicai.

Si rivolse a Tristano: «Ci ha servito bene fino all’anno successivo, poi ha dato le dimissioni dal suo incarico e ha aperto una bottega qui a Udine. L’ho rivisto circa un anno fa, quando è venuto a portarmi in dono certi unguenti. Voi sapete qualcosa di lui?».

«Certo, ora so di chi parlate. La sua bottega è stata chiusa al principio dell’epidemia. Comunque gli affari non andavano bene e probabilmente è morto. Ma posso far controllare subito.»

«Vi prego, fatelo subito.» Mentre Tristano usciva, si rivolse a me: «Se è vivo, vi assicuro che la pagherà cara. Avete voglia di raccontarmi cosa vi è accaduto in questi dieci anni?».

«Un’altra volta, vostra paternità. Vi vorrei invece parlare di mia moglie.»

«Vostra moglie? Aspettate, era la figlia di Ermanno di Marzinis?»

Page 292: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Lo era.»«Povero figlio mio, quante sfortune. Ricordo bene suo padre. Venne

qui dopo il fattaccio di Pinzano, proprio a parlarmi di vostra moglie. Abbiamo fatto indagini, molte, ve lo assicuro. Purtroppo pare abbia perso la vita nel Tagliamento, con vostro figlio.»

Tornò Tristano, annunciando: «Ho mandato un valletto a controllare in cancelleria. Tornerà qui tra poco».

Mi stavano togliendo ogni speranza di vendetta e io sentivo le forze, sia del corpo sia dell’animo, scivolare fuori di me. Raccontai al patriarca solo i fatti salienti e, quando tornò il valletto dicendo che Girolamo di Gemona era nella lista dei morti di peste, crollai. Dovetti poggiare la testa sul tavolo, fra le braccia. Per nascondere le lacrime. Non so se di rabbia o disperazione. Il patriarca cercò di consolarmi: «Suvvia, Corrado. Siete ancora un uomo giovane, con tanti anni davanti. Non sprecateli e cercate di rifarvi una vita. Se avete bisogno di denaro… Anzi no, vi spetta per l’impresa di Parabiago. Tra qualche giorno ve lo farò preparare in tesoreria. E dimenticatevi di Girolamo, concedetegli il dubbio di aver agito per eccesso di scrupolo. Non vi conosceva e per lui eravate solo un mistificatore. Starà patendo in purgatorio per questo suo terribile errore».

Mi alzai, baciai la mano al patriarca e con il suo permesso mi congedai. Però non tornai subito a casa. Dormii, o meglio vegliai, in un ospizio di Udine e l’indomani andai prima da mio cugino Giovannino e poi da mio cugino Simone. Ma né a Ragogna né a Spilimbergo seppi di più su mia moglie e mio figlio. Non mi rassegnai. Nelle settimane successive visitai tutti i paesi fra Pinzano e il mare, chiedendo se qualcuno ricordava di aver trovato una giovane donna o un bambino annegati. Lo feci lungo entrambe le sponde, senza alcun esito. Intanto avevo scritto a Verona, ricevendo come risposta una lettera di Alberto. Era piena di parole affettuose, di gioia nel sapermi vivo, e giurava sul suo onore di non aver mai ricevuto una richiesta di riscatto. Allora mi rinserrai nella casaforte, pieno di malinconia e rancore, e bastò l’inverno fra il 1348 e il 1349 a fare di me un uomo del quale la gente, anche i miei vicini, avevano paura.

In me non c’era più un briciolo di pietà per nessuno e inutilmente mio fratello cercò di riportarmi alla vita. E, lo confesso, vedendo l’intera Patria patire una delle peggiori carestie che si ricordano, anziché dolore provai una maligna soddisfazione. Come se la colpa fosse di tutti. Non

Page 293: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

feci neppure riparare la torre e le mura, non sapendo per quale scopo e per chi farlo. Quale senso aveva riparare, se con me sarebbe morto tutto? Andrea cercava di mantenere almeno la casa in uno stato decente, ma sul finire del 1349 era ridotta a una topaia. Poi venne la primavera del 1350 e una donna, una povera contadina vestita di stracci, riuscì a spingermi di nuovo nel mondo.

Si presentò il mattino del quattro aprile e mi chiamò dalla corte. La spiai infastidito dalla finestrella dietro il focolare e vedendo che si trattava di Maddalena uscii sbuffando. Era stata la prediletta di Francesca, quella che le aveva insegnato a tessere e con la quale alle volte si confidava. Aveva avuto marito e sei figli, ma di tutti le era rimasto solo il figlio più giovane.

«Cosa volete, Maddalena?»«Corrado, io v’imploro, datemi il vostro aiuto» disse congiungendo le

mani e mettendosi in ginocchio sull’acciottolato sporco.«Cosa fate? Suvvia, alzatevi e ditemi cosa volete.»«Mi è rimasto solo un figlio ed è stato chiamato nella milizia

patriarcale. Non torna a casa da un mese e si parla di disordini dalle parti di Trieste. Vi imploro, aiutatemi.»

La obbligai ad alzarsi e sgarbatamente risposi: «E cosa volete che faccia? Sono faccende del patriarca queste!».

«Voi sapete cosa vuol dire perdere le persone più care, perdere tutto ciò che si ama al mondo. Se ne avessi la forza andrei io a Udine. Vi scongiuro di nuovo.»

«Vorreste che io andassi a Udine a cercare vostro figlio?» domandai quasi sarcastico.

«Voi siete l’unico che troverebbe ascolto da chi di dovere. Fatemi questa grazia.»

Ero indeciso e borbottai: «Tornate a casa, vedrò cosa posso fare. Forse manderò Andrea».

«Perdonatemi, ma chi volete che ascolti un contadino come lui. In nome dell’anima beata di Francesca, aiutatemi.»

Stavo per cacciarla in malo modo, poi mi parve di udire la voce di Francesca dirmi “aiutala” e cedetti: «Va bene, va bene. Ma ora tornate a casa. Domani andrò a Udine a cercare vostro figlio, o almeno a cercare di sapere dov’è. Come si chiama e quanti anni ha?».

«Antonio figlio di Giacomo e ha diciassette anni.»Provò a baciarmi le mani e io mi ritrassi. Una volta tornato in casa mi

Page 294: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

ero già pentito della promessa. Ma di nuovo mi parve di udire la voce di Francesca dire “aiutala” e così l’indomani mattina montai a cavallo e andai a Udine.

Page 295: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

IV

La città stava lentamente rinascendo. Era un grande cantiere nel quale si riparava e ricostruiva, popolata da genti dei paesi montani dove la peste o non era passata o aveva fatto poco danno. Anche nel mercato, desolatamente vuoto l’anno precedente, c’era movimento. Però le merci avevano ancora prezzi altissimi. Gironzolai un po’, stupendomi di come l’uomo dimentica facilmente anche le peggiori disgrazie. Andai quindi nel palazzo del maresciallo a chiedere dove fossero acquartierate le truppe di leva, e i due di guardia alla porta m’indicarono una stanza. Al principio, notando i miei abiti modesti, l’alfiere di servizio mi rispose con fastidio: «Come volete che lo sappia. Sono un po’ qua e un po’ là».

Erano tempi nei quali l’essere duro era l’unica cosa capace di darmi un minimo di piacere: «Alzatevi da quella sedia e mettetevi in piedi davanti a me o vi prendo a schiaffi».

Fu sul punto di reagire, ma lo sguardo gli cadde sui miei speroni d’oro e sbuffando si alzò e brontolò: «Un po’ sono al campo di Marte, un po’ fuori le mura dalle parti di Porta Aquileia. Altri sono in missione. Questo intendevo dire».

«Signore» precisai.«Signore» disse.«Non avete un rotolo delle cernite?»«Adesso chiedete troppo, signore.»Dicendo “signore” aveva usato un tono ironico e non ci vidi più.

Allungai una mano sopra il tavolo e lo afferrai per il collo. Con uno strattone lo tirai a me e tenendo il suo viso a un palmo dal mio gli sibilai: «Sentitemi bene, o quel rotolo compare entro il tempo di due Pater o vi trascino io a prenderlo. A calci».

Lo ributtai sulla sedia e più che spaventato mi guardava incredulo. E siccome se ne stava immobile e afflosciato, stavo per aggirare il tavolo e rendere la minaccia un fatto quando una voce alle mie spalle chiese:

Page 296: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Cosa diavolo sta accadendo qui?».Mi voltai trovandomi davanti Francesco di Sbrojavacca. L’ultima volta

l’avevo visto che non aveva più di quindici anni e non lo riconobbi per lo stemma cucito sul mantello ma perché era la copia di suo padre Tezzotto.

«Dovete chiederlo a questo idiota, messer Francesco» dissi.Mi fissò, anche lui notò gli speroni d’oro e domandò: «Ci conosciamo,

signore?».«Sono Corrado di San Lorenzo. Ero amico di vostro padre.»Mi tese subito la mano con un piccolo inchino: «Scusatemi, messer

Corrado. Sono passati molti anni dall’ultima volta che ci siamo visti. Ho saputo delle vostre disavventure e ne sono sinceramente addolorato. Vi posso aiutare in qualcosa? Questo mese tocca a me l’ingrato compito di vigilare su questa marmaglia».

«Cerco un ragazzo del mio villaggio, uno di leva. È l’unico figlio che la peste ha lasciato a una donna sola e povera.»

Francesco si volse all’alfiere, ormai sull’attenti e che mi gettava occhiate timorose: «Vai a prendere il rotolo della gastaldia di San Vito. Svelto!».

Non avemmo neppure il tempo di scambiare due chiacchiere e l’uomo tornò con il rotolo. Domandò umile: «Come si chiama, signore?».

«Antonio figlio del fu Giacomo, del villaggio di San Lorenzo.»Scorse la lista con il dito e annunciò: «Risulta fra i fanti del capitano

Luchino di Castel Pagano. Dovrebbero essere ancora accampati fuori Porta Aquileia».

Francesco di Sbrojavacca si sfregò la fronte con una mano, pensieroso.«No. Se non ricordo male sono partiti proprio questa mattina. Per San

Giovanni del Carso. Brutta faccenda.»«Perché?» domandai.«Era un feudo dei Duino, ma il patriarca glielo ha appena tolto. Con le

loro angherie hanno provocato rivolte e disordini. Cinque giorni fa, per quello che risulta, hanno massacrato una cinquantina di uomini dei Duino, e così si è inviata questa nuova squadra a tentare di mettere ordine. Non sarà facile. Quelli di San Giovanni e dei villaggi vicini sono in piena rivolta, inferociti e armati fino ai denti. Ho quasi litigato con Luchino, ma lui è voluto partire con solo venti cavalieri e quaranta fanti. Troppo pochi secondo me. Rischiamo un nuovo massacro.»

«Allora non si può fare nulla» constatai senza grande dispiacere.

Page 297: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Francesco stava di nuovo riflettendo, il viso serio e la fronte corrugata. Poi disse: «Sentite, messer Corrado.Loro marciano al passo e se voi li seguite a cavallo dovreste raggiungerli. Vi firmo subito una licenza per questo ragazzo, con effetto immediato. Intanto vedrò se lo si può congedare con qualche scusa. Per voi, visto che ci tenete, una scusa la si troverà».

Sentii il bisogno di precisare, e subito me ne vergognai un po’: «Non è che ci tenga. Ma la madre ne avrebbe veramente bisogno, per lavorare quel misero pezzo di terra che hanno».

Mi guardò come in attesa di una mia decisione. Stavo per dire “non importa”, ma tornai ad avere la sensazione di udire la voce di Francesca ripetere ancora una volta “aiutala”. Inoltre, quando si fa i reclusi di propria volontà, una volta tornati nel mondo cambia il modo di guardare le cose. Essere circondati di vita, avere qualcosa da fare, rende odioso il ritorno nella cupa tristezza nella quale si è scelto di vivere. Una sensazione nascosta da altre, difficile da ammettere anche a se stessi. Ma così è, e io, credendo di far violenza al mio animo, decisi: «Va bene. Datemi la licenza».

Fu pronta e sigillata in un attimo, ringraziai Francesco e lasciai subito Udine diretto a Monfalcone, essendo San Giovanni a pochissime miglia da quel castello. Cavalcai tutto il giorno e a sera vidi il campo con la bandiera patriarcale eretto in un prato a dieci miglia da Monfalcone. Non riuscivo ad abbinare la faccia del ragazzo al nome. Ultimamente i giovani preferivano starsene alla larga dalla mia corte. Perciò puntai dritto alla tenda del capitano Luchino, l’unica grande abbastanza da contenere una branda e un tavolo. Mentre smontavo da cavallo, alcuni soldati mi circondarono dicendo: «Signore, questo è un campo militare. Voi non avete le insegne dei messi, perciò non potete stare qui. Dovete andarvene».

«Non preoccupatevi, sono qui a nome di Francesco signore di Sbrojavacca. Qualcuno mi annunci a messer Luchino di Castel Pagano» risposi con calma sapendo che facevano solo il loro dovere.

Non servì. Luchino, udendo le voci, uscì e io mi presentai. A quanto pareva, l’intera Patria ormai conosceva la mia storia e il giovane capitano m’invitò nella tenda. Gli spiegai perché ero lì e lui uscì ordinando a uno dei piantoni fuori dalla sua tenda di cercare questo Antonio del fu Giacomo. Li udii passare la voce gridando il nome e dopo qualche tempo entrò un ragazzo con addosso un giaco di cuoio con due sole

Page 298: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

placche di ferro sul davanti, con brache di panno giallo e un elmo a catino sottobraccio.

«Antonio del fu Giacomo presente, signore» disse mettendosi sull’attenti.

Mi riconobbe prima che io riuscissi a riportarmi alla mente quel viso foruncoloso sotto una zazzera castana, e mi guardò pieno di apprensione.

«Messer Corrado è venuto a prenderti. Domani puoi tornare a casa con lui» gli annunciò Luchino.

Il ragazzo si rivolse a me, sempre più agitato: «Forse è accaduto qualcosa a mia madre, messer Corrado».

«No. Stai tranquillo. Semplicemente c’è bisogno di te a casa. Quella povera donna riesce a fatica a star dietro alle quattro pecore che avete» risposi.

S’impettì e fissando dritto davanti a sé e prendendo un’aria di sfida ribatté: «Allora signore, non torno a casa. Domani, intendo. Prima vado con i miei commilitoni a San Giovanni e poi torno».

«Questo è un ordine, ragazzo» disse Luchino.«Vi prego di ritirarlo. Passerei per vigliacco, per uno che fugge a due

passi dal nemico» insistette Antonio.Pensai alla stoltezza dei giovani, ma lo compresi. Non era un vigliacco e

voleva dimostrarlo. Gli domandai: «Hai già combattuto?».«No, signore. Domani sarà la prima volta.»Guardai Luchino, poi di nuovo il ragazzo. Il primo era chiaramente

d’accordo con Antonio e ne apprezzava l’orgoglio. Cercai di pensare in fretta. Avevo fatto tutta quella strada e non era il caso di tornare a casa a mani vuote. Meglio riportare il suo cadavere che nulla, mi dissi. Allora chiesi a Luchino: «Posso aggregarmi a voi? Vi creo problemi domandandovi la grazia di un posto in una tenda e una scodella di zuppa?».

Apprezzò la mia decisione e si disse onorato della mia compagnia. Congedato il fante, volle far portare nella tenda la branda di riserva. Poi, usando quella come sedia, divisi con lui il cibo preparatogli dallo scudiero. Mentre cenavamo gli chiesi: «Come mai il patriarca ha revocato il feudo di San Giovanni?».

Scosse la testa, rispondendo: «Dalla morte di Giovanni Enrico, l’ultimo conte di Gorizia… Oh, scusatemi, spiego a voi cose che… Insomma, i Duino si stanno trasformando sempre più da vassalli in briganti. Non gli vanno tanto bene le cose da quando non hanno più la protezione dei

Page 299: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

conti di Gorizia. Là ormai comandano di fatto gli Asburgo. Forse sarà a causa della loro lenta decadenza, ma a San Giovanni hanno esagerato. I loro sgherri, più che incassare decime, facevano razzie. Non che li giustifichi, ma non si possono superare certi limiti. Altrimenti la rivolta è inevitabile, e poi tocca a noi porvi rimedio. Speriamo che davanti alla bandiera patriarcale gli torni il buon senso, altrimenti dovrò aggiungere massacro a massacro. E la cosa proprio non mi va a genio. Con questi giovani, poi…».

«Vive ancora il vecchio Ugone?»«Vive, anche se ormai comanda suo figlio Ugo. Ma il peggiore è il figlio

di questi, un altro Ugone. Gente con la quale è meglio non avere nulla a spartire, credetemi. Oh, scusatemi, forse sto parlando di vostri amici.»

«Da molto tempo non lo sono più, non preoccupatevi. Anzi, con Ugo avrei ancora un conto in sospeso.»

Levammo il campo allora prima e iniziammo a salire verso San Giovanni, un villaggio vicino alle sorgenti del Timavo. Appena l’avvistammo, fummo avvolti da un insopportabile lezzo di putrefazione. Prima vedemmo le vedette del villaggio correre via e poi, su un grande prato, una distesa di cadaveri. Erano nudi, allineati in file come a creare una difesa al villaggio, supini e ormai gonfi e anneriti tanto da essere irriconoscibili.

Luchino diede ordine alla sua truppa di arrestarsi disponendosi su cinque file. Quindi spronò il cavallo per andare a vedere i morti da vicino. Lo seguii senza potermi mettere, non avendola, la sciarpa davanti al naso e alla bocca come aveva fatto lui. Notai subito un grumo nerastro sporgere dalle bocche dei cadaveri e pensai alle lingue. Poi vidi: erano tutti castrati e avevano i genitali infilati in bocca.

«Maledetti selvaggi» esclamò Luchino.Invece io non mi stupii più di tanto. Conoscevo slavi come quelli che

abitano sul Carso. Qualcuno, a Gorizia, mi era stato amico e avevo imparato anche un po’ la loro lingua. È gente capace di enorme generosità ed eroismo, ma implacabile quando hanno la convinzione di aver subito un torto o una grande offesa.

Guardai verso il villaggio. Come usano loro, in guerra non fanno differenze fra uomini e donne. Anzi, queste ultime sono le più focose e ardite. E infatti, a circa duecento passi, c’erano proprio le donne armate di falci da mietitura e forconi. Dietro di loro, almeno duecento uomini con picche, spiedi, forconi, scuri e ogni altro attrezzo capace di bucare o

Page 300: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

tagliare. In tutto erano più di trecento, probabilmente molti accorsi a dar manforte dai dintorni. Ingaggiare una battaglia era una follia, e io ero stufo di morti.

«Messer Luchino, qui il massacro si rischia veramente. Mi permettete di andare da loro e parlare? Forse riusciamo a convincerli a trattare la resa» dissi al capitano.

Era pallido, faticava a trattenere il vomito, e al principio tentennò: «Ho ordini precisi. Inoltre non vorrei avere responsabilità nei vostri confronti».

«Sono qui di mia volontà e di mia volontà voglio parlare con loro. Non sarete responsabile di nulla.»

«Vi concedo un’ora, poi attaccherò e vi giuro che non ne lascio uno solo vivo. Non si possono compiere queste atrocità. Probabilmente li hanno castrati da vivi» e dettomi questo volse il cavallo e tornò dalla truppa per preparare l’attacco.

Facendomi forza attraversai il prato dei cadaveri e, giunto a cinquanta passi dalla prima fila di rivoltosi, chiesi: «Perché avete fatto questo?».

Non mi risposero e ripetei la domanda nella loro lingua. Una delle donne mi gridò di rimando: «Erano venuti per succhiare il latte delle nostre vacche e quello delle nostre figlie, si succhino pure i loro membri».

«Cosa credete di ottenere? Oggi siamo in pochi, ma se non torniamo verranno qui in mille e nessuno di voi vedrà più il sole» ribattei. Si agitarono, confabularono fra di loro, poi un uomo grande come un gigante mi gridò: «Che vengano, ci toglieranno la vita ma non la dignità».

«Ascoltate. Il nostro signore, il reverendissimo patriarca Bertrando, ha tolto questo villaggio dai feudi dei signori di Duino. Ugo e Ugone non comandano più qui, ora comanda il patriarca.»

La notizia creò scompiglio, si accese una discussione e, nel momento in cui questa fu sul punto di rasentare la lite, gridai: «Fatemi parlare con il vostro decano. Qui, da uomo a uomo. Troveremo una soluzione».

Smontai da cavallo, sfoderai la spada e la gettai a terra. Attesi poco. Un uomo anziano, con un’ascia in mano, si fece largo fra le donne e mi venne incontro. Fatti alcuni passi, gettò a terra l’ascia e allora anch’io avanzai verso di lui. Ci incontrammo a dieci passi dall’ultimo cadavere, nei pressi di un melo e lui disse: «Il decano sono io. Come mai parlate la nostra lingua?».

Page 301: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Ho passato anni a Gorizia e anche a Pisino. Servivo i conti Enrico e Mainardo.»

«Quella sì era gente perbene, neppure con la contessa Beatrice si stava male. Ma con i maledetti Duino è diventato un inferno. Cosa offrite?»

«Solo ciò che è possibile. In cambio della vostra resa e del ritorno della quiete, credo di potervi offrire clemenza. Il patriarca si accontenterà d’impiccare voi e altri quattro, cinque uomini disposti a caricarsi di tutte le colpe. Quel massacro là compreso. Chi dovrà morire per salvare gli altri, lo deciderete fra di voi.»

Ci fissavamo senza abbassare per un attimo lo sguardo e lui disse: «Parlate piuttosto chiaro».

«Inutile promettere l’impossibile.»Stette un po’ pensieroso, quindi chiese: «Nessuno toccherà gli altri e i

Duino non metteranno più piede in questo villaggio?».«Garantito.»«Aspettatemi qui, devo consultarmi.»Sedetti con la schiena poggiata al tronco del melo e li vidi discutere a

lungo, passare quasi alle mani. Ma infine il decano ebbe la maggioranza e tornò da me: «Accettiamo. Volete me e gli altri ora?».

«Ci penserà il capitano. Vi porteranno a Udine.»Mi tese una mano callosa e io gliela strinsi, domandando: «Avete

qualche prigioniero?».«Solo due, perché sono di villaggi qui vicino. Non abbiamo deciso

ancora cosa fare di loro. Per ora patiscono fame e sete, chiusi in una porcilaia. Non si va contro la propria gente!»

Tornai da Luchino e riferii. Non era convinto ma, quando vide i rivoltosi disperdersi tranquillamente per andarsene o tornare nelle loro case lasciando all’ingresso del villaggio solo il podestà con quattro uomini e una donna anziana, disse: «Forse è meglio così. Se poi a sua paternità non basteranno sei impiccati, si vedrà».

Tornai al villaggio con Luchino mentre gli uomini, felici di allontanarsi dall’orrido spettacolo dei cadaveri e dal fetore, andavano a circondarlo iniziando dalla parte superiore.

«Decano, perché quella donna?» chiese Luchino.«Ha preso il posto del figlio. Vita per vita.»«Portate qui i prigionieri. Dovranno testimoniare.»L’uomo fece due fischi brevi, seguiti da uno lungo, mentre il capitano

ordinava a quattro uomini di accorrere e legare i predestinati alla forca. I

Page 302: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

prigionieri vennero trascinati fino a noi, non per infierire ma perché dopo sei giorni senza bere e mangiare non stavano in piedi. Capii subito che erano vicini alla morte e, preso l’otre di un fante, cercai di farli bere. Indossavano ancora la cotta in maglia di ferro e la copricotta con dipinta la mezzaluna, rossa e crescente, dei Duino ed erano lordi di sterco di maiale dalla testa ai piedi. Il primo per poco non soffocò al primo sorso e allora passai al secondo, ridotto peggio del compagno. Riuscì a inghiottire un sorso, poi un altro e mi guardò. Reagì come se avesse visto un morto camminare e cercò di trascinarsi lontano da me. Pensai al delirio e gli tornai vicino cercando di rimettergli in bocca la piva dell’otre. Con le sue ultime forze scosse la testa rifiutandola. Ansante e con voce rauca, disse: «Io vi conosco. Voi… voi siete Corrado».Lo fissai sorpreso, il suo volto mi era del tutto ignoto.«Come fate a conoscermi?»«Sono stato a Gorizia… finché Beatrice è tornata in Baviera…»Sul viso ci fu il biancore della morte, serrò gli occhi, li riaprì e implorò con voce flebile: «Il vostro perdono».«Di cosa dovrei perdonarvi?»«Io sapevo, io ho visto e non ho detto nulla… Il vostro perdono, sto morendo…»Continuavo a pensare al delirio, ma lui aggiunse: «Vostra moglie… Nel castello di Duino… fino a un anno fa… il perdono».Credetti che la testa mi scoppiasse, un improvviso sudore mi ricoprì il corpo. Scossi con furia l’uomo, gridando: «Cosa state dicendo? Spiegatevi!».Riuscì solo a ripetere «Duino» e spirò.Mi strinsi la testa fra le mani, ebbi un capogiro e barcollai. Fui sul punto di cadere e Luchino dovette sorreggermi.«Cosa vi accade? Cosa vi ha detto quell’uomo?»Non riuscivo a parlare, avevo una grande confusione nella testa e i muscoli mi si stavano aggrovigliando. Mi ripresi a fatica.«La vita oppure la morte. Le sue parole questo mi hanno dato.» Poi andai dal decano già legato agli altri e gli chiesi: «Da quanto quest’uomo serviva Ugo di Duino?».«Da circa cinque anni. Prima stava a Gorizia ed era un buon uomo. Poi si è incarognito. Uno dei più fedeli a Ugo, e uno dei peggiori. Non mi dispiace che ora sia all’inferno, anche se era della mia gente» e il decano sputò in direzione del morto.

Page 303: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Potete dunque spiegarmi?» insistette Luchino.Lo guardai e dovevo avere un’espressione da far paura, perché arretrò di un passo.«C’è un armaiolo a Monfalcone?»La mia domanda lo lasciò interdetto, ma rispose: «Più di uno, e bravi».Gli volsi le spalle dicendo: «Mi prendo il ragazzo».«Ma dove andate?»«A Duino. A riprendermi la vita o a cercare la morte» risposi senza girarmi.

Page 304: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

V

In me c’erano molti sentimenti, tutti aggrovigliati tra loro al punto da non distinguere uno dall’altro. Una situazione insopportabile per la mente umana, che nell’estremo tentativo di salvarsi dalla pazzia li azzera tutti e ti dona un’innaturale freddezza, mettendola al servizio dell’unico sentimento in grado di divorare tutti gli altri. E nel mio caso era l’odio.

Quando ebbi davanti Ermanno di Carnia, in quell’anno capitano e rettore del castello di Monfalcone per conto del patriarca, lo salutai con grazia e come se gli chiedessi una cortesia da nulla, lo pregai di essere mio garante presso l’armaiolo Tarcisio. Non avevo con me sufficiente denaro neppure per una cotta e a me serviva un’armatura completa. Mi offrii di lasciargli in garanzia Antonio e lui disse che non serviva, era sufficiente la mia parola. Ma era curioso e mi domandò: «A cosa vi serve un’armatura, c’è forse un torneo a Trieste?».

E io, senza alcuna titubanza, gli risposi: «No, capitano. Devo uccidere Ugo di Duino».

Mi guardò esterrefatto, poi pensò a uno scherzo e insistette: «Messer Corrado, non burlatevi di me. Avete un qualche segreto mandato del patriarca? Riguarda la faccenda di San Giovanni?».

«La faccenda di San Giovanni è stata sistemata. Entro questa sera verrà il capitano Luchino a informarvi. No, come vi ho detto devo regolare conti vecchi e nuovi con Ugo.»

A quel punto dovette credere di avere davanti un folle e si fece gentile, persino affettuoso. M’invitò a sedere e a bere una coppa di vino con lui, poi, sorseggiandone un po’ e guardandomi da sopra l’orlo della coppa, domandò con finta indifferenza: «Se non è un segreto, potreste dirmi qualcosa di più su questa faccenda? Molti vorrebbero liberare la terra da quel prepotente di Ugo, ma voi siete il primo deciso a farlo».

«Cosa sapete di me, capitano?»«So chi siete e ho sentito parlare di una vostra ingiusta prigionia.»

Page 305: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Allora vi racconterò perché ho subito quella prigionia, vi dirò di mia moglie e di mio figlio e della confessione di un morente.»

Mi ascoltò facendosi sempre più serio fino a non poter celare la sua indignazione. Balzò in piedi ed esclamò: «Un uomo in punto di morte non mente! Contate su di me per ogni cosa». Poi, da uomo pratico qual era, chiese: «Ma come farete? Come credete di poter entrare nel castello di Duino e affrontare Ugo?». Quando ebbe ritrovato la calma, si risedette e iniziò a preoccuparsi: «Non avrete per caso delle truppe in arrivo? Meglio evitare i disordini, meglio mettere la faccenda nelle mani del patriarca».

Gli sorrisi gelido, rassicurandolo: «Nessuna truppa e nessun disordine, capitano. Mi accamperò vicino alla porta del castello e lo sfiderò. Se non è un vigliacco uscirà».

«Starete là da solo?»«Sarò solo. Antonio farà quello che potrà come scudiero. Comprerò

una piccola tenda e delle stoviglie, e dovessi attendere un anno, prima o poi Ugo uscirà.»

Ermanno mi guardava con un misto di ammirazione e preoccupazione, ma le sue parole non furono d’incoraggiamento: «Sempre che qualcuno non vi uccida con un colpo di balestra, o che per liberarsi di voi Ugo non mandi fuori i suoi sicari. Neppure il più eroico dei cavalieri può farcela contro due dozzine di mercenari. Potrebbe perfino catturarvi durante la notte e farvi sparire in mare».

«Venderò cara la pelle e poi tutti potranno dargli del vigliacco.»Il capitano si alzò e prese a camminare su e giù per la stanza

sfregandosi il mento, pensieroso. Poi sbottò: «Ecco, ho trovato! Voi state per compiere un’impresa degna degli antichi cavalieri, così eroica da poter diventare epica e io vi devo aiutare. Anzi no, ne voglio in qualche modo far parte».

«Ve ne sono grato, ma non intendo coinvolgere nessuno. È una questione fra gentiluomini, se tale si può ancora definire Ugo.»

«Aspettate. Devo rispondere al patriarca e non posso darvi alcun appoggio con le armi, però posso fare in modo che ci siano dei testimoni pronti a diffondere per l’intera Patria l’eventuale codardia di Ugo, o la sua bassezza se tenterà qualcosa di sordido contro di voi. Quando intendete andare a Duino?»

«L’armaiolo si è detto disposto a lavorare tutta la notte per adattare a me l’armatura preparata per un nobile triestino. E lavoreranno anche i

Page 306: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

pittori per ornare con il mio stemma lo scudo e la copricotta. Un ricamo è impossibile da fare in così poco tempo.»

«Allora, domani, verranno con voi i signori Odorico di Cuccagna e Giovanni di Salcano. Arriveranno questa sera come miei ospiti e accetteranno certamente. Per ora solo loro, ma poi ci saranno altri. Ve lo prometto. E ogniqualvolta potrò, anch’io sarò accanto a voi.»

«Mi rendete un grande onore, messer Ermanno.»«L’onore è solo mio.»Il castello di Duino sorge su una scogliera, a strapiombo sul mare. Ed è

un castello possente, con due grandi torri e un mastio su un piccolo promontorio difeso su tre lati dalle acque adriatiche. La piana fra la porta e l’inerpicarsi sui colli rocciosi non è molta, appena cento passi per cento. Forse pochi per un duello con cavallo e lancia lunga, ma bastanti a dare o prendere una vita. Antonio piantò la mia tenda al limitare del pianoro, a ridosso delle rocce montane, e mentre lui faceva questo io andai armato, a cavallo e con la lancia a venti passi dalla porta.

Già al mio arrivo avevo notato sorpresa e un po’ di agitazione fra i militi di guardia. Ma più che guardarmi incuriositi altro non avevano fatto. Né tentarono qualcosa quando gridai: «Ugo di Duino, vieni fuori!».

Parlarono fra di loro e poi comparve il capitano del castello. Venne da me a piedi, con aria truce: «Cosa fate qui? Chi vi ha autorizzato ad accamparvi? Cosa volete?».

Non gli risposi, manco lo guardai, e tornai a gridare: «Ugo di Duino, sono Corrado da Romano! Vieni fuori!».

«È inutile che gridiate. Non c’è nessuno, sono a falconare sul Carso. Fino a domani mattina non tornano» sbottò rabbioso il capitano.

Allora volsi il cavallo, tornai alla mia tenda, mi tolsi la barbuta e sedetti sotto un rovere. Senza delusione o rabbia, solo pronto ad attendere. Verso il mezzodì vidi comparire due cavalieri e li riconobbi subito dalle insegne. Odorico di Cuccagna e Giovanni di Salcano non erano arrivati la sera prima ma il mattino, subito dopo la mia partenza. Avevano con sé due valletti e le tende, e ancor prima di smontare da cavallo mi dissero: «Messer Corrado, siamo qui a farvi da testimoni. Ermanno ci ha spiegato ogni cosa».

Vedendoli smontare e accamparsi accanto a me, i militi preferirono alzare il ponte levatoio e chiudere le porte. Continuarono a tenerci d’occhio dalla torre e dagli spalti, ed era il dieci aprile dell’anno dalla

Page 307: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

nascita di nostro Signore 1350.Venne il mattino, mi armai e montai a cavallo, allontanandomi però di

soli dieci passi dalle tende. Con una mano reggevo lo scudo e con l’altra la lancia piantata nell’apposito incavo della staffa destra. Attesi immobile per ore, senza mai smontare, e un’ora dopo il mezzodì comparve il corteo di cavalieri e falconieri. Davanti a tutti cavalcava Ugo, un astore poggiato sul pugno guantato di cuoio; Ugone, vecchio e canuto, quasi l’affiancava; dietro di loro Ugone, figlio di Ugo, e Rodolfo suo fratello. Quindi i falconieri e mezza dozzina di armati.

Non si accorsero subito di me, erano troppo interessati a chiacchierare e ridere fra loro. Poi il capitano gli corse incontro e m’indicò. Allora avanzai di dieci passi e gridai: «Ugo di Duino, ridammi mia moglie e mio figlio e indossa le armi. Io ti sfido dandoti del brigante e del vigliacco».

Mi riconobbe subito e si arrestò indeciso sul da farsi. Parlottò con suo padre, con il fratello e il figlio e poi, vedendo Odorico di Cuccagna e Giovanni di Salcano, venne verso di me cupo in volto.

«Mi avevano detto che eri vivo e la cosa non mi ha dato particolare gioia. Ma di cosa vai blaterando? Cosa c’entrano con me tua moglie e tuo figlio?»

«Non so come e non so quando, ma tu li hai rapiti e li hai tenuti in questo castello fino a un anno fa. Ridammeli e poi affrontami.»

Non avevo distolto lo sguardo dal suo neppure per un attimo e fui certo della sua colpevolezza. Era venuto da me con il volto e il collo rossi di collera, ma udendo le parole “fino a un anno fa” era di colpo impallidito. Mi disse sprezzante: «Tu sei pazzo, lo sei sempre stato. Pazzo e intrigante». E rivolgendosi a Odorico di Cuccagna e Giovanni di Salcano che ci osservavano inespressivi: «Stimo voi, signori, che siete in compagnia di quest’uomo. Date forse ascolto alle fantasie di un pazzo?».

Non gli risposero, continuarono a fissarlo immobili. Allora lui imprecò e volse il cavallo avviandosi alla porta del castello. Quando fu sul ponte levatoio, mi gridò contro: «Vattene via, Corrado. Abbi almeno il buonsenso di conservare il poco che ti rimane: la tua inutile vita».

Il Signore misericordioso mi donò sonni ristoratori e giornate di sole. Perché dovetti stare lì tre giorni e tre notti, andando ogni mattina a gridare la stessa frase, prima che accadesse qualcosa. Intanto le tende accanto alla mia aumentavano. Giunsero Giacomo figlio del signore di Villata, Odorico de Portis di Cividale, Giovanni di Strassoldo e altri. E a quel punto Ugo mandò suo fratello Rodolfo con una proposta.

Page 308: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Mio fratello è un castellano della Patria mentre Corrado è solo un cavaliere. Anche se aurato, gli è inferiore per condizione, perciò Ugo gli offre di combattere con un suo campione» disse.

I nobili attorno a me ebbero parole di ribellione, ma c’era anche Ermanno di Carnia che confermò: «Purtroppo è così. Ugo può farsi rappresentare. Piaccia o non piaccia, voi, Corrado, lo potete rifiutare ma equivarrebbe a una sconfitta».Accettai e subito uscì dal castello un uomo a cavallo, coperto tutto di

ferro, armato di spada e scudo. Era enorme, ma non m’intimorì. La sua voce risuonò cupa dentro l’elmo chiuso: «Voi sfidate, voi sceglietevi l’arma che vi pare».

Mi feci dare da Antonio la mannaia dal manico lungo e andai a pormi davanti al campione di Ugo.

«Non volete mostrarmi prima il viso?» domandai.«Io non ho viso, il mio viso è quello di Ugo, signore di Duino» rispose.Capii che l’avrei vinto fin dal primo assalto. Aveva una forza tremenda

e solo su quella contava. Non mi fu difficile schivare i suoi colpi e l’intero duello non superò i cinque assalti. All’ultimo cercò di atterrarmi con un colpo di scudo. Mi piegai di lato e l’attacco andò a vuoto. Traballò sulla sella e prima che potesse riprendere l’equilibrio gli piantai la mannaia nell’elmo. S’immobilizzò senza un gemito, poi dallo spacco cominciò a colare sangue ed egli stramazzò fra le gambe del cavallo.

Allora andai alla porta e per l’ennesima volta gridai in direzione di Ugo, immobile sulla torre e con accanto il padre, il fratello e il figlio: «Ugo di Duino, ridammi mia moglie e mio figlio e indossa le armi. Io ti sfido dandoti del brigante e del vigliacco».

Passarono un altro giorno e un’altra notte. Intanto la notizia della sfida si era sparsa per la Patria e il patriarca, sollecitato da gran parte della nobiltà, inviò il decano del capitolo di Aquileia. Questi, accompagnato da un codazzo di prelati e soldati, reggeva una croce astile e senza parlare prima con nessuno di noi si mise nel mezzo del pianoro. Con un sol colpo piantò la croce nella terra e annunciò: «Proclamiamo un Giudizio di Dio. Chi lo rifiuta non è degno di mettere più piede in una chiesa e il disonore sia su di lui e su tutta la sua discendenza».

Ciò detto, a mostrare la sua imparzialità, si mise in attesa da un lato dove non c’era nessuno. Afferrai subito scudo e spada e andai a pormi accanto alla croce. Non dovetti attendere a lungo. Ugo finalmente uscì, pure lui armato di spada e scudo. Si mise dall’altra parte della croce e mi

Page 309: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

sibilò: «Finalmente terminiamo ciò che non è neppure iniziato a Gorizia. Preparati a morire».

«Dove sono mia moglie e mio figlio?»«Non li vedrai mai più. Né la bella e irraggiungibile Francesca né tuo

figlio Corrado. Non perché non possa renderterli, ma perché tra un po’ morrai e lei sarà finalmente solo mia. Ma consolati, tuo figlio avrà più di quanto avresti potuto dargli tu.»

Probabilmente, con quella confessione, sperava di farmi perdere il controllo. Invece il gelo della mia mente e del mio animo non si sciolsero neppure di una goccia. Altro non potemmo dirci, perché uno dei prelati tolse la croce e il decano del capitolo annunciò: «Invochiamo a testimone la Santissima Trinità, che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo concedano la vittoria a chi è nel giusto. Duellate!».

Durò oltre un’ora. Io ferii Ugo e lui ferì me. A lungo, chi assisteva, non seppe a chi sarebbe andata la vittoria. Ma, a differenza del mio avversario, io avevo dalla mia la forza della giustizia e, benché lui fosse molto più allenato di me, l’affanno, il sudore e il pulsare furioso del sangue non mi annebbiarono la mente. Per cogliere l’attimo mi bastò un suo improvviso serrare gli occhi per cacciar fuori il bruciore del sudore. Vidi lo spiraglio fra i legacci che serravano la corazza ai fianchi e infilai la mia spada nel suo fianco. Con tutte le mie forze. La maglia di ferro resistette, ma la lama entrò.

Mi guardò sorpreso e non c’era più rabbia e odio nei suoi occhi. Solo smarrimento e paura. Fissò il rivolo di sangue scivolare sulla sua anca, sulla sella, sullo sperone, sulla pancia del cavallo, per poi cadere sull’erba in piccole e continue gocce. Iniziò a scivolare di lato e cadde con il piede imprigionato nella staffa. Smontai da cavallo e lo sovrastai. Fissava il cielo, con due lacrime che rotolavano sulle tempie. Il silenzio era rotto solo dal vicino frangersi delle onde, dallo stridere dei gabbiani.

Tutti si aspettavano il colpo mortale, ma io prima volevo sapere. Mi inginocchiai accanto a lui, gli liberai il piede dalla staffa e chiesi: «Dove sono mia moglie e mio figlio, Ugo?».

Incredibilmente sorrise ed ebbe un’espressione dolcissima che mi lasciò interdetto.

«Te lo dirò solo se mi fai una promessa» rispose.«Non sei nella situazione di porre condizioni.»«Prima ascolta cosa voglio e poi decidi.»«Parla.»

Page 310: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Mi hai colpito al fianco sinistro. Non tanto a fondo da uccidermi ma abbastanza da farmi morire. Morte lunga e dolorosa. Ore, forse un intero giorno. Prometti di liberarmi qui e subito e io ti dirò ciò che vuoi sapere.»

Stava avvenendo in lui uno strano mutamento. Davanti a me non avevo l’Ugo prepotente e vendicativo.Avevo lo stesso Ugo che mi aveva aiutato nel castello di Gorizia, che mi era stato amico.

«Te lo prometto. Ma, in nome di Dio, parla!»«Sono nel mio castello di Primano, al sicuro e ben protetti.»Il ghiaccio iniziava a sciogliersi, i sentimenti si stavano scatenando.«Perché, Ugo? Perché?»«Per odio, ho pagato il messo patriarcale per non riconoscerti quando

eri a Milano. Mi è costato una fortuna far distruggere le tue lettere, sai? Ma mi ero liberato di te per sempre. Almeno così speravo.»

Stava vistosamente impallidendo, l’erba accanto a lui era coperta di sangue, cominciava a faticare a non perdere i sensi.

«Perché mia moglie, allora?»«Ero giù con i miei, durante l’assedio di Pinzano. Al guado sul

Tagliamento, per catturare chi tentava di fuggire. Là l’ho presa e non sapevo chi fosse. È stata lei, con aria di sfida, a intimarmi: “Lasciatemi, sono la moglie di Corrado da Romano”. Ho rapito lei e tuo figlio per odio poi… poi io l’ho amata…»

Perse i sensi per qualche attimo e lo scossi. Mormorò: «Te lo giuro sulla mia anima, su quell’anima che sta per incontrare il Giudice supremo. Non l’ho mai toccata, neppure sfiorata. Forse, se tu non fossi tornato… con il tempo, lei… Prigionieri sì, ma trattati come fossero carne mia…».

S’inarcò lanciando un grido di dolore e io mi sollevai da terra. Vidi da una parte i miei sostenitori con sulle facce un solo ordine: uccidilo. Dall’altra, davanti al ponte levatoio, il vecchio Ugone e suo nipote. Nessuno comprendeva quel nostro strano confabulare, neppure il decano con già indosso la lunga cotta e la stola viola, pronto ad assolvere Ugo dai suoi peccati. Cera qualcosa d’irreale attorno a noi, e nessuno sembrava osare muoversi.

Tornai a guardare Ugo. Il respiro si era fatto di nuovo rapido e ansante, come se stesse ancora combattendo, e continuava a inarcarsi con gemiti di dolore. Udii Ugone gridare: «Corrado, abbiate pietà. Sarete risarcito

Page 311: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

di tutto!».Mi venne quasi da ridere davanti a quell’uomo sciocco che credeva di

ripagare il dolore con l’oro.Quindi fu Odorico di Cuccagna a gridare. «Finiscilo, per giustizia

divina e umana!».Ugo spalancò gli occhi, c’era il terrore dentro quelle pupille dilatate.

Udendo il padre tornare a chiedere pietà, con uno sforzo sovrumano girò il capo verso il castello e tese un braccio verso i suoi, come per fermarli. E urlò con tutto il fiato che gli rimaneva: «Noooo!».

Ormai non desideravo altro che correre da mia moglie e da mio figlio, non m’interessava più la vendetta, sarei stato disposto anche a perdonare. Ma Ugo si aggrappò con entrambe le mani alla mia gamba e con grande fatica, stralunando gli occhi, disse: «Lo hai promesso… liberami».

«Non vuoi proprio vivere?»«Liberami!»Allora alzai la spada, a punta in giù e impugnandola a due mani.Dissi: «Ci rivedremo al cospetto di Dio, amico di un tempo lontano».E piantai la spada nel suo petto spaccandogli il cuore.

Page 312: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

VI

Da Duino a Primano ci sono appena trentasei miglia, ma di strada impervia e difficile. Ormai eravamo vicini al tramonto e, nonostante io fossi risoluto a partire subito, i miei sostenitori me lo impedirono. Alla fine riuscirono a convincermi ripetendo: «Ora, che hai ritrovato la tua famiglia, vuoi forse rischiare di perderla di nuovo avventurandoti di notte per quelle strade? Partirai domani prima dell’alba e noi verremo con te».

Passai la notte vegliando. Ero pieno di una frenesia difficile da controllare e cercai un po’ di calma nella preghiera. Pregando tornai a ragionare con un minimo di calma. Erano passati ormai undici anni, cosa avrei detto a mia moglie? Come avrei dovuto comportarmi con un figlio per il quale ero solo un nome? Mi sentivo sì senza colpe eppure anche come un ladro che torna per ridare ciò che ha rubato. Lo so, è difficile da capire. Ma la felicità si mescolava al timore di essere stato inadeguato, di non aver fatto abbastanza per tornare a casa prima e, una volta tornato, forse le mie ricerche avrebbero dovuto essere più approfondite. E come spiegare quegli ultimi anni sprecati a odiare il mondo? Solo nelle canzoni dei trovatori tutto si risolve facilmente, ma nella realtà si devono dare spiegazioni, giustificarsi, mettere sulla bilancia della giustizia tutto il dare e l’avere.

Venne finalmente il crepuscolo e montammo a cavallo. A mano a mano che mi avvicinavo a Primano, montava in me l’angoscia. Iniziarono anche i dubbi: e se Ugo mi avesse mentito? Forse ha compiuto il suo ultimo atto d’odio? No, i morenti non mentono. Di solito. Mi arrovellavo ed ero infastidito dall’allegria che invece aumentava nei compagni. Sembravamo un’allegra brigata, come quando si va a prendere la sposa a casa sua.

Ed ecco il castello in cima al colle, un nido di poiana senza bellezza. Tetro, nonostante la meraviglia dei prati, dei boschetti, dei campi e degli orti che lo circondavano. E là sotto l’azzurro Timavo, uno dei fiumi sacri

Page 313: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

della Patria. Avevo il cuore in gola, le mani mi tremavano. Poi l’urlo della vedetta sul torrione e da lì a poco il correre minaccioso di una trentina di uomini in cotta e armati di picca.

Ci arrestammo, pensando che vedendo i nostri stemmi si sarebbero fermati. Invece ci circondarono ostili. Fu in quel momento che vidi, ancora lontane e indistinte, due figure immobili fra i merli della torre sopra la porta. Entrambe con vesti bianche, leggermente scosse dal vento. Tutto mi fu improvvisamente chiaro. Io amavo più di quando ero partito. E l’amore, per un attimo, annegò tutto il resto.

Ermanno di Carnia si fece avanti e intimò alle guardie: «Giù le armi, in nome del patriarca Bertrando. Sono il capitano di Monfalcone».

Per dare maggior forza alle sue parole, si aprì il mantello e pose la destra sull’elsa della spada. Erano il triplo di noi, ma da cavalieri esperti quali eravamo non avevamo certo timore di quella marmaglia. Non sapevano cosa fare, tenevano le picche puntate contro di noi guardandosi incerti. Li presi in considerazione solo quando le due figure bianche scomparvero tra i merli. Allora sguainai la spada e ordinai: «Fateci largo se non volete raggiungere il vostro signore nel mondo dei morti!».

«Il nostro signore è Ugo di Duino» disse il più anziano.«Appunto, ed è morto» replicai.Ci fu un mormorare fra i militi, un ripetere incredulo: «Ugo morto?».

Dal castello uscì un uomo a cavallo. Indossava la barbuta e nella destra reggeva una balestra caricata. Trottò fino a una trentina di passi dai suoi e quelli gli gridarono: «Dicono che messer Ugo è morto!».

Non gli badò e chiese rivolto a noi: «Cosa volete?».Tornò a parlare Ermanno: «Siamo qui, in nome del patriarca, a

prendere Francesca di Marzinis e suo figlio Corrado».«Non conosco né l’uno né l’altro» ribatté l’uomo.«Avvicinatevi» ordinò Ermanno.Quello ubbidì, ma limitandosi ad avanzare di dieci passi, la balestra

puntata contro il capitano di Monfalcone. Chiese: «Dicono che messer Ugo è morto. È la verità?».

«È la verità, e se non vi sbrigate a farci entrare nel castello, vi mando da lui all’inferno» intervenne Odorico di Cuccagna.

«Come morto?» insistette l’altro.«Ucciso da me in un Giudizio di Dio. Abbassate quella balestra» dissi.L’uomo mi guardò, avanzò ancora di due passi. Mi fissò a lungo, poi

Page 314: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

ebbe un sussulto. Sembrò voler fuggire, ma all’ultimo momento gettò a terra la balestra, si tolse la barbuta e con tono indifferente disse: «Io non ho colpe, messer Corrado. Ho eseguito solo gli ordini».

Togliendosi la barbuta, il cappuccio in maglia di ferro gli era scivolato indietro e io vidi sulla sua fronte la grande macchia violacea. Era Girolamo, già messo del patriarca, l’uomo che a Milano mi aveva abbandonato in carcere. Gli ordinai: «Smontate da cavallo e mettetevi in ginocchio».

Il gelo stava tornando e appena l’uomo ebbe ubbidito smontai anch’io, la spada stretta in pugno. Mi misi davanti a lui: «Quali ordini avete eseguito?».

«Di non riconoscervi e di consegnare al capitano delle prigioni un bel po’ di denaro affinché distruggesse ogni vostra futura lettera. Un ordine di Ugo di Duino.»

«Perché vi siete piegato a un tale crimine? Il patriarca dice che eravate un messo fidato.»

Guardava a terra in atteggiamento umile, ma a quelle parole ebbe come uno scatto d’orgoglio e mi guardò dritto negli occhi: «Fidato? Certo! Ma pagato come un servo. Sapete cosa vuol dire andare e tornare da Avignone? Quanta polvere e quanti patimenti si devono inghiottire? Per cosa? Per nulla!».

«Quanto vi ha pagato Ugo?»«Il sufficiente a comprare casa e aprire bottega. Non solo, appena è

scoppiata la peste mi ha permesso di venire a stare qui. Non c’è stato un solo morto, a Primano.»

«Vi pongo un’ultima domanda e pensate bene prima di rispondere. Credete veramente di non avere colpe?»

Mi guardò come se non avesse capito, poi scosse con forza la testa e asserì deciso: «No. Io non ho colpe. Chi esegue gli ordini non ha mai colpe».

«Avete sbagliato la risposta. L’esecutore di un crimine ha più colpe del suo mandante. Perché lo compie unicamente per interesse.»

Quasi non se ne accorse. Colpii all’improvviso, di taglio. E la sua testa rotolò a un passo dal corpo, con il collo a sgorgare sangue come una fontana.

Subito i suoi uomini arretrarono, terrorizzati. Strappai dei ciuffi d’erba e ripulii con calma la lama, poi rimontai a cavallo e dissi ai miei compagni: «Andiamo a prendere mia moglie e mio figlio».

Page 315: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

Dentro il castello c’erano altri cinque armati e vedendo ciò che era successo avevano sbarrato la porta. Più delle intimazioni di Ermanno valsero le suppliche dei loro soci: «Aprite, idioti, o ci scannano. Ugo è morto. Volete mica morire per un morto?».

Aprirono gettando le armi e ritirandosi sotto la piccola tettoia di fianco alla stalla. I miei compagni si fermarono nell’arco della porta e io avanzai con il cuore che pareva volermi uscire dal petto tanto batteva forte.Il cortile era piccolo, con accanto al pozzo un enorme bagolaro a ombreggiarlo quasi per intero. Oltre ai militi c’era solo un’altra persona, in piedi sulla porta di quello che doveva essere il palazzo. Mi fissava con aria minacciosa, indossava una tunica di lino bianca. Non aveva più di dieci anni.

Avevo la copricotta sporca e macchiata di sangue, non mi radevo da giorni e brandivo ancora la spada. Rinfoderai l’arma, mi tolsi la barbuta e me la misi sottobraccio. Non riuscivo a staccare gli occhi dal ragazzo. Mi sembrava di rivedere me quando avevo lasciato casa per Gorizia. Cercando di non far tremare la voce e di darle dolcezza, chiesi: «Ti chiami Corrado?».

«Il mio nome non vi riguarda. Ma non osate entrare, altrimenti…»«Altrimenti?»Si guardò la cintura senza neppure un piccolo pugnale, ebbe un attimo

di smarrimento e poi, non più tanto sicuro, disse: «Se lo fate non siete un uomo d’onore».

In quel momento uscì una donna, anche lei con la tunica bianca, e senza guardarmi in viso strinse a sé il ragazzo e implorò: «Chi siete, signore? Abbiate pietà di due prigionieri».

Mio Dio, com’era bella! Era come se undici anni fossero scivolati sul suo volto senza lasciare neppure la più piccola orma.

Feci un passo avanti. Lei continuava a guardare a terra o il viso del figlio.

«Francesca, non mi riconosci più?» domandai con il pulsare del sangue che mi rimbombava nelle orecchie.

Alzò la testa di scatto, mi fissò e nostro figlio dovette reggerla perché le si piegarono le ginocchia. Si riprese subito, lasciò Corrado e si aggrappò allo stipite della porta.

«Chi è quell’uomo, madre?»«Lui è… lui è…»«Chi? Perché vi spaventa tanto?»

Page 316: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

«Oh, non mi spaventa. Corri ad abbracciarlo, perché è tuo padre.»Mio figlio si paralizzò, non riuscì a fare un solo passo. Semplicemente

mi fissava con i grandi occhi verdi spalancati, pallido, un leggero tremito a scuoterlo. Allora fui io a correre e, mentre la stringevo tra le braccia, Francesca ripeteva: «Lo sapevo. Ero sicura che non eri morto, amor mio. Lo sentivo nel cuore».

Mi venne come da cullarla e mi riempivo gli occhi di lei, il naso del suo odore, la bocca del salato delle sue lacrime. Fu mio figlio a obbligarci a sciogliere l’abbracciò. Mi prese per un braccio e mi scosse, chiedendo: «Padre, perché non siete venuto prima? Perché tanto tempo?».Non seppi cosa rispondere. Strinsi anche lui a me, trattenendo a fatica

il pianto. Mi volsi verso la porta del castello e vidi i miei compagni ancora raggruppati al limite della corte. Dissi loro: «Questi sono mia moglie e mio figlio, amici miei».

Annuirono con sul viso commozione e imbarazzo. Alzai il viso di Francesca dal mio petto, la guardai negli occhi e le baciai la fronte. Mi domandò: «E adesso?».

«Adesso torniamo a casa e facciamo finta di esserci lasciati ieri. Questi undici lunghi anni ce li racconteremo con calma, come fossero una storia antica.»

Page 317: Marco Salvador - L’Erede Degli Dei

NOTULA CONCLUSIVA

Ecco, ho finito. Oggi è il diciottesimo giorno di giugno dell’anno 1351. Domani ci sarà grande festa nella casaforte. Verrà il vescovo Pietro a celebrare la messa e a rendere grazie per la fine dei lunghi lavori di restauro. Ho fatto rimettere in sesto anche la chiesa e tutte le case del villaggio, e ora San Lorenzo sembra rinato. Alla fine del banchetto darò questo libro a mio figlio Corrado. Così avrò mantenuto una promessa e lui non mi farà più seccare la gola a suon di domande.

Francesca è qui, siede accanto al focolare. Credo sia la terza volta che rilegge le preghiere di compieta nel suo Libro delle ore. Di tanto in tanto sbircia verso di me e lo vedo che è assonnata. Ma non sale in camera. Senza di me non lo fa mai. A costo di vegliare fino a notte alta. Ora mi alzerò e andrò a sedere accanto a lei. Sorriderà accarezzandosi la pancia ormai enorme. Dovrebbe partorire tra un mese. Poi, mano nella mano, andremo a dormire. Stretti l’uno all’altra, perché neppure i sogni possano separarci di nuovo.

Sia lode al Signore Altissimo. Amen.