Rassegna stampa 21 dicembre 2016 - patriarcatovenezia.it

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 21 dicembre 2016 SOMMARIO “Mancano le informazioni e forse quelle che ci sono non vengono analizzate nel modo più accurato – scrive oggi Alessandro Zaccuri sulla prima pagina di Avvenire -, ma il motivo che rende così difficile comprendere che cos’è veramente successo a Berlino l’altra sera è un altro. Non riguarda le falle dell’intelligence né le eventuali negligenze degli investigatori. Riguarda, semmai, il fatto che da almeno due anni a questa parte – dalla strage nella redazione parigina di 'Charlie Hebdo', il 7 gennaio 2015 – l’Europa si trova a fronteggiare un nemico invisibile. Meglio, una realtà sfuggente, che assume i connotati del nemico proprio in virtù della propria invisibilità. Se gli attentanti dell’11 settembre 2001 erano ancora il risultato di una struttura verticistica, a suo modo innovativa rispetto al passato ma ancora innestata in una concezione otto-novecentesca del nichilismo terrorista (fra I demoni di Dostoevskij e L’agente segreto di Conrad, per intenderci), l’avanzata del Daesh si è sviluppata lungo una direttrice in gran parte diversa, che si sarebbe tentati di definire “culturale”, non ci fosse il rischio di lusingare eccessivamente la retorica dei tagliagola. Ma è fuor di dubbio che la macchina propagandistica del sedicente Stato islamico abbia puntato, fin dall’inizio, alla diffusione di una mentalità ben riconoscibile, tanto raffinata nell’involucro mediatico quanto semplificata nei contenuti, riducibili alla rozza contrapposizione noi contro loro così ingenuamente apprezzata dai populismi dell’Occidente avanzato. Il reclutamento sul campo continua, con i disastrosi risultati di cui rendono conto le cronache da Aleppo. Contemporaneamente, però, si sviluppa una modalità di affiliazione più incontrollabile e sottile, la stessa alla quale allude il politologo Oliver Roy nella sua analisi sull’islamizzazione del radicalismo. Quale che sia l’origine dello scontento, basta trovare rifugio sotto le bandiere nere del Daesh per illudersi di ottenere una qualche legittimazione. Per ottenere, quel che è peggio, l’attenzione di un’opinione pubblica che davanti a quelle stesse bandiere non riesce a reagire se non con gli strumenti della rivalsa e del panico morale. Non sappiamo ancora che cosa sia esattamente accaduto a Berlino, né ci appare chiara la dinamica dell’uccisione dell’ambasciatore russo ad Ankara, ma entrambe le parate di morte finiscono per inserirsi nella stessa danza macabra che da Parigi si è snodata a Bruxelles, a Nizza, a Rouen, a Istanbul, in diverse località della Germania. Non serve più neppure la rivendicazione, ormai. È il nemico invisibile che ogni volta torna a colpire, e proprio da questo lo si riconosce: dal fatto che non lo si può guardare in faccia. C’è una strategia in tutto questo? L’impressione è che sì, una strategia ci sia, ma si manifesti in modo pressoché spontaneo. Una mossa si aggiunge all’altra senza che sia stato impartito alcun ordine, le motivazioni personali – non di rado meschine – si mescolano ai deliri geopolitici, rispetto ai quali il richiamo perverso alle tradizioni religiose riveste il ruolo di una profezia auto-avverante. Si evoca il disastro nello stesso momento in cui lo si provoca, vantandosi intanto della previsione. In ogni caso, se proprio si volesse tentare di decifrare le tracce di un disegno, non si potrebbe fare a meno di notare come l’insistenza con cui dall’estate in poi è stata bersagliata la Germania vada a colpire, in sostanza, il progetto di integrazione ben regolata coraggiosamente sostenuto dalla cancelliera Angela Merkel. Da sempre il noi con loro è l’avversario più temibile del noi contro loro, la smentita più clamorosa di ogni falsa profezia. Che tutto questo accada alla vigilia del Natale, la festa cristiana che celebra nell’Incarnazione la caduta della barriera fra umano e divino, potrebbe anche non essere soltanto una coincidenza” (a.p.) 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Le due fonti Intervista a padre Arturo Sosa

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 21 dicembre 2016

SOMMARIO

“Mancano le informazioni e forse quelle che ci sono non vengono analizzate nel modo più accurato – scrive oggi Alessandro Zaccuri sulla prima pagina di Avvenire -, ma il

motivo che rende così difficile comprendere che cos’è veramente successo a Berlino l’altra sera è un altro. Non riguarda le falle dell’intelligence né le eventuali

negligenze degli investigatori. Riguarda, semmai, il fatto che da almeno due anni a questa parte – dalla strage nella redazione parigina di 'Charlie Hebdo', il 7 gennaio

2015 – l’Europa si trova a fronteggiare un nemico invisibile. Meglio, una realtà sfuggente, che assume i connotati del nemico proprio in virtù della propria invisibilità.

Se gli attentanti dell’11 settembre 2001 erano ancora il risultato di una struttura verticistica, a suo modo innovativa rispetto al passato ma ancora innestata in una

concezione otto-novecentesca del nichilismo terrorista (fra I demoni di Dostoevskij e L’agente segreto di Conrad, per intenderci), l’avanzata del Daesh si è sviluppata lungo una direttrice in gran parte diversa, che si sarebbe tentati di definire “culturale”, non

ci fosse il rischio di lusingare eccessivamente la retorica dei tagliagola. Ma è fuor di dubbio che la macchina propagandistica del sedicente Stato islamico abbia puntato,

fin dall’inizio, alla diffusione di una mentalità ben riconoscibile, tanto raffinata nell’involucro mediatico quanto semplificata nei contenuti, riducibili alla rozza contrapposizione noi contro loro così ingenuamente apprezzata dai populismi

dell’Occidente avanzato. Il reclutamento sul campo continua, con i disastrosi risultati di cui rendono conto le cronache da Aleppo. Contemporaneamente, però, si sviluppa una modalità di affiliazione più incontrollabile e sottile, la stessa alla quale allude il politologo Oliver Roy nella sua analisi sull’islamizzazione del radicalismo. Quale che

sia l’origine dello scontento, basta trovare rifugio sotto le bandiere nere del Daesh per illudersi di ottenere una qualche legittimazione. Per ottenere, quel che è peggio,

l’attenzione di un’opinione pubblica che davanti a quelle stesse bandiere non riesce a reagire se non con gli strumenti della rivalsa e del panico morale. Non sappiamo

ancora che cosa sia esattamente accaduto a Berlino, né ci appare chiara la dinamica dell’uccisione dell’ambasciatore russo ad Ankara, ma entrambe le parate di morte

finiscono per inserirsi nella stessa danza macabra che da Parigi si è snodata a Bruxelles, a Nizza, a Rouen, a Istanbul, in diverse località della Germania. Non serve

più neppure la rivendicazione, ormai. È il nemico invisibile che ogni volta torna a colpire, e proprio da questo lo si riconosce: dal fatto che non lo si può guardare in

faccia. C’è una strategia in tutto questo? L’impressione è che sì, una strategia ci sia, ma si manifesti in modo pressoché spontaneo. Una mossa si aggiunge all’altra senza

che sia stato impartito alcun ordine, le motivazioni personali – non di rado meschine – si mescolano ai deliri geopolitici, rispetto ai quali il richiamo perverso alle tradizioni

religiose riveste il ruolo di una profezia auto-avverante. Si evoca il disastro nello stesso momento in cui lo si provoca, vantandosi intanto della previsione. In ogni caso, se proprio si volesse tentare di decifrare le tracce di un disegno, non si potrebbe fare

a meno di notare come l’insistenza con cui dall’estate in poi è stata bersagliata la Germania vada a colpire, in sostanza, il progetto di integrazione ben regolata

coraggiosamente sostenuto dalla cancelliera Angela Merkel. Da sempre il noi con loro è l’avversario più temibile del noi contro loro, la smentita più clamorosa di ogni falsa profezia. Che tutto questo accada alla vigilia del Natale, la festa cristiana che celebra

nell’Incarnazione la caduta della barriera fra umano e divino, potrebbe anche non essere soltanto una coincidenza” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Le due fonti Intervista a padre Arturo Sosa

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Pag 8 Il dialogo non è debolezza di Gianluca Biccini Intervista al cardinale Tauran all’indomani della strage di Berlino: siamo sconvolti ma dobbiamo resistere alla tentazione del disfattismo IL GAZZETTINO Pag 13 “Sì alle nozze nel clero e alle donne prete” di Antonella Lanfrit Dodici sacerdoti di frontiera del Friuli Venezia Giulia scrivono una “lettera di Natale” chiedendo svolte nella Chiesa 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 8 Allerta in Laguna. Tra le calli cento soldati di Claudia Fornasier Pag 27 Trucco vietato per le vigilesse: “Smalti e rossetti vistosi? Se li mettano fuori servizio” di Alberto Zorzi Le nuove regole a Venezia CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Bidè, risse e scaramucce nella Mestre dei poveri: “Moraglia la fa facile ma qui ci viviamo noi” di Martina Zambon e Alice D’Este Viaggio nel quartiere degli ultimi. L’idea di Brugnaro e l’ira del Patriarca dividono i residenti. Il commerciante: “Numeri da emergenza, così esercizi penalizzati”. L’operatore sociale: “Trasferire gli indigenti? Si sposta solo il problema” LA NUOVA Pagg 22 – 23 Povertà in città: 500 in strada, 1800 con la tessera della Caritas di Mitia Chiarin Don Capovilla: “Emarginare è anti-evangelico”. A Carpenedo nuovi Paradiso bond per il polo della carità. Appelli al sindaco a chiarire il suo progetto: “Decentriamo le mense ma non diventino ghetti”. Il Patriarca a Radio 24: “Si rischia di creare spazi simili alle periferie francesi” IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XII “Il problema c’è, ma no ai ghetti” di Fulvio Fenzo Bettin: “Troppe tre mense a poca distanza”. La diocesi: “Apriamo una discussione obiettiva” Pag XIV Marghera: Massimo Cacciari, confronto su San Francesco di g.gim. Pag XXIV Caorle: Premio Mazzarotto a don Gino Zuccon di R.Cop. 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 7 I colleghi le regalano le ferie per assistere la figlia malata: “Il mio miracolo di Natale” di Andrea Priante La gioia di Michela e la generosità contagiosa nata in azienda IL GAZZETTINO Pag 13 Rifiutò la pillola del giorno dopo, assolta farmacista Gorizia: la dottoressa era imputata di omissione di atti d’ufficio. Gli avvocati: ha agito nel rispetto del codice deontologico … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Noi europei e le paure da vincere di Aldo Cazzullo

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Pag 1 L’orgoglio rischioso di Angela di Danilo Taino Merkel più debole Pag 32 La politica non può ridursi a campagna elettorale di Marco Cianca LA REPUBBLICA Pag 13 L’Europa e l’ombrello del Quirinale su Gentiloni di Stefano Folli AVVENIRE Pag 1 La falsa profezia di Alessandro Zaccuri I nemici dell’integrazione ben regolata Pag 3 Senza Dio né fede chi uccide per Allah di Asmae Siria Dachan C’è un patrimonio di fratellanza tra le fedi che va tutelato Pag 3 Ma esistere è esistere insieme di Ferdinando Camon La morte, la Nascita di Gesù, la nascita di due gemelli Pag 3 Lo spot sulla morte in diretta, il mondo sta impazzendo di Giacomo Poretti E’ necessario riflettere sul fatto che nulla vale più delle nostre compere Pag 9 Le “scelte” di Erdogan consegnano il Paese in mano allo zar Putin di Giorgio Ferrari CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Il sudario non ha tasche di Massimo Mamoli I poveri e noi Pag 17 Carrère: “Siamo sempre più divisi, ormai viviamo in pianeti diversi” di Francesco Chiamulera Il grande scrittore e intellettuale francese premiato a Cortina. Dall’attentato di Berlino allo scontro dei poveri a Mestre: “D’accordo col Patriarca, ma io non ospiterei un rifugiato” IL GAZZETTINO Pag 1 Vivere (e morire) da giovani figli d’Europa di Marco Ventura Pag 1 Se l’errore è peggio di un crimine di Carlo Nordio LA NUOVA Pag 1 La crisi Ue è nelle scelte di Bruxelles di Maurizio Mistri Pag 3 Sanguinosa campagna, cancelliera penalizzata di Renzo Guolo

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Le due fonti Intervista a padre Arturo Sosa Sessantotto anni, venezuelano, Arturo Sosa è il primo generale dei gesuiti non europeo. In questa intervista all’Osservatore Romano si racconta e racconta la Compagnia. È la mattina del 12 dicembre, una giornata di fine autunno romano ancora molto lontana dall’inverno, e il sole invade di luce dorata una stanza spoglia e accogliente al quarto

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piano della curia generalizia. L’intervistato parla volentieri, distesamente, il suo viso si apre spesso in un largo sorriso e il movimento delle mani accompagna le risposte che si dipanano durante una conversazione cordiale e coinvolgente. Il calendario liturgico ricorda la Madonna di Guadalupe e quello personale di padre Sosa registra ben tre anniversari: delle nozze dei genitori nel 1947, del suo battesimo nel 1948 e della sua professione solenne (il famoso quarto voto di obbedienza al Papa) nel 1982. E non basta, perché la congregazione generale che lo scorso 14 ottobre lo ha eletto si è conclusa proprio un mese fa, il 12 novembre, giorno del suo compleanno. Chi è Arturo Sosa, e come è diventato padre Sosa, ormai da un paio di mesi preposito generale della Compagnia di Gesù? Per capire chi sono basta tenere presenti due fonti: la mia famiglia e il collegio San Ignacio di Caracas, che ho frequentato dalle elementari al liceo, e cioè da quando avevo cinque anni fino ai diciassette. La mia famiglia è venezuelana da più di tre generazioni, ma mio nonno materno era arrivato in America dalla Spagna cantabrica, da Santander. Siamo sei fratelli. Io sono il maggiore, poi vengono due sorelle, un altro maschio che oggi vive negli Stati Uniti, e altre due sorelle, tutte e quattro in Venezuela. Una famiglia praticante, con una mia prozia religiosa e un cugino gesuita. Ed è proprio qui, nella mia famiglia, che ho imparato a pregare e ad aprirmi all’esperienza degli altri. Già da bambino mio padre mi portava spesso con lui nei suoi viaggi per tutto il paese. Era avvocato ed economista, un imprenditore entrato in politica che per un anno è stato ministro delle finanze in un governo di transizione dopo la fine della dittatura di Marcos Pérez Jiménez. Per quasi tutto il Novecento il Venezuela ha attraversato dittature e l’impegno di mio padre, alla fine degli anni Cinquanta, è stato per creare spazi democratici. E in famiglia ho imparato che nessuno si salva da solo: se volevamo star bene, dovevamo contribuire al benessere del paese. E l’altra fonte? È stata altrettanto importante. Al collegio San Ignacio, dove sono rimasto quasi tredici anni, dal 1953 al 1966, c’erano molti gesuiti giovani e lì stavamo dalla mattina alla sera, dal lunedì al sabato. Dopo la scuola, ci portavano a visitare ospedali oppure in campagna per stare con i contadini. Ricordo quegli anni come un ambiente molto creativo. Facevo parte anche di una congregazione mariana e giocavo, per la verità piuttosto male, a calcio, baseball e pallacanestro. Finito il liceo, ho sentito che per contribuire meglio al bene di tutti dovevo entrare nei gesuiti e così ho fatto, il 14 settembre 1966, poco prima di compiere diciott’anni. Com’è stata la formazione? E gli anni successivi? La mia preparazione? Quella tipica della Compagnia: noviziato, studi di filosofia nell’università cattolica Andrés Bello di Caracas, quindi un periodo nel gruppo del Centro Gumilla, tenuto dai gesuiti a sostegno di cooperative per il risparmio e il credito nel centro del paese, e poi la teologia a Roma, nel collegio del Gesù e in Gregoriana, tra il 1974 e il 1977, anno in cui sono stato ordinato prete. Ma sono tornato in Venezuela per completare la teologia, mentre nella Universidad Central di Caracas ho preparato un dottorato in scienze politiche, materia che ho insegnato sia nella Central che nell’Andrés Bello, occupandomi soprattutto di storia delle idee. Per quasi un ventennio ho anche diretto la rivista dei gesuiti “Sic”. Dal 1996 al 2004 sono stato provinciale della Compagnia in Venezuela, e infine rettore dell’università cattolica del Táchira dal 2004 fino al 2014. Quell’anno il generale mi ha chiamato a Roma per occuparmi delle case internazionali, dove lavorano quattrocento gesuiti che dipendono direttamente da lui. Cosa significa un preposito generale della Compagnia di Gesù per la prima volta non europeo (e americano) dopo quasi cinque secoli di vita? Questo è certo il frutto di un cambiamento che investe tutta la Chiesa e un segno della sua cattolicità, come è stato evidente per l’elezione in conclave di Bergoglio. Voglio però sottolineare un dato storico innegabile molto importante: è stata la generosità missionaria europea a permetterlo, e a favorire questa predisposizione all’inculturazione che è tipica dei gesuiti e delle loro missioni. Il processo è durato oltre un secolo e mezzo, e ha portato oggi la Compagnia a essere una realtà multiculturale, incarnata ormai in decine di culture, per aiutare le persone e le società a essere più umane, mostrando Gesù Cristo, il volto di Dio. È una ricchezza enorme per i gesuiti e per tutte le Chiese. Come quella latinoamericana, molto vitale, spesso ingiustamente appiattita su una teologia della liberazione che non di rado è stata presentata in modo caricaturale

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come marxista: una mediazione della fede cristiana che già in un mio articolo degli anni Settanta definivo impossibile. Qual è lo stato di salute odierno della Compagnia, dimezzata rispetto a mezzo secolo fa, al suo interno con poche centinaia di fratelli, una volta molto più numerosi? E la formazione? Il numero non è un criterio per giudicare lo stato di salute dei gesuiti: già agli inizi Ignazio parlava di “minima Compagnia”. Preferiamo la qualità alla quantità e non vi è dubbio che il rigore nella nostra formazione, se possibile, è oggi ancora maggiore di quello di un tempo. Certo, non nego la forte crisi che attraversiamo in Europa e negli Stati Uniti, principalmente a causa del secolarismo e della crisi demografica. La formazione accademica e spirituale deve poi tenere conto che entrano nei gesuiti molti professionisti. E l’ambito della preparazione si è diversificato ancor più di prima, allargandosi alla psicologia, alle scienze sociali, alle aree scientifiche. Anche all’innalzamento del livello culturale generale si deve la rarefazione dei fratelli, una volta molto numerosi nella Compagnia. E dico con orgoglio che la mia vocazione deve molto a loro, ai “fratelli maestri”, così come a quella dei giovani gesuiti ancora non ordinati. Molte volte sono ammutolito davanti all’esperienza di Dio di questi fratelli, che sono religiosi non sacerdoti. Ricordo in particolare uno di loro che in una fattoria per tutta la vita ha badato agli animali: era un contemplativo. Bisogna però tenere presente che la forma ideale della Compagnia è quella dei professi [i gesuiti che arrivano al quarto voto], oggi in larga maggioranza rispetto ai coadiutori [che invece non lo pronunciano], agli scolastici [quelli che stanno formandosi] e, appunto, ai fratelli. Come mai dai gesuiti non è mai nato un ramo femminile? Moltissime sono state e sono le religiose che si sono ispirate alla spiritualità ignaziana, l’hanno condivisa e la condividono. E voglio aggiungere che senza le donne semplicemente non sarebbe possibile pensare la missione della Compagnia di Gesù. D’altra parte, alle origini dei gesuiti vi è gruppo di uomini già ordinati deciso a vivere un nuovo stile di consacrazione religiosa: insieme, come compagni e al servizio della Chiesa universale. Un ordine nato per stare in frontiera dove e come si muove oggi? Quali sono le sue frontiere? Siamo missionari e le frontiere, come in tutta la nostra storia, oggi sono moltissime: l’educazione, sia tradizionale che popolare, il servizio ai profughi e ai rifugiati, l’ambito vastissimo della lotta per la giustizia sociale e quello della formazione all’impegno politico. Questo, insieme alla vita religiosa, è una delle mie due grandi passioni: lotta e contemplazione, per usare un’espressione di qualche decennio fa. I gesuiti sono ancora formatori e direttori spirituali? Oggi più che mai. E ora questo servizio alla vita spirituale si è moltiplicato, proprio come si sono moltiplicati i modi, i luoghi e le persone. Gli esercizi spirituali ignaziani di un mese o anche di una settimana sono quasi impossibili a causa dei ritmi della vita contemporanea, e allora si propongono forme alternative nella quotidianità che possono durare anche otto o nove mesi. E a darli non sono più soltanto i gesuiti, ma anche molte altre persone, laiche o religiose, uomini o donne. Dopo il concilio, che è stato una grazia, siamo molto più sensibili alla diversità di vocazioni e di doni che vengono da Dio. Pag 8 Il dialogo non è debolezza di Gianluca Biccini Intervista al cardinale Tauran all’indomani della strage di Berlino: siamo sconvolti ma dobbiamo resistere alla tentazione del disfattismo «Il dialogo con i musulmani deve continuare, perché l’alternativa sarebbe la violenza. Tuttavia si deve chiarire che desideriamo il dialogo, ma non la “sottomissione”». All’indomani dell’attentato che ha colpito il cuore di Berlino, il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, sulla scia del magistero di Papa Francesco continua a ripetere che è necessario «un dialogo della speranza, per ribadire che le religioni non sono il problema, ma fanno parte della soluzione di ciò che sta accadendo nel mondo». In quest’intervista al nostro giornale il porporato francese traccia anche un bilancio dell’anno che sta per concludersi e illustra i progetti per il futuro.

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Le modalità dell’attacco di Berlino ricordano i sanguinosi fatti di luglio a Nizza, seguiti da quelli di Rouen, che hanno portato molti in Europa ad atteggiamenti di chiusura nei confronti dell’islam. Per non parlare poi della tragedia di Aleppo o del recente attentato nella cattedrale copta della capitale egiziana. Davanti a tutto questo, è ancora possibile parlare di dialogo? È proprio a causa di questa situazione che s’impone un’attenzione particolare al mondo musulmano. Tutti siamo stati sconvolti da quanto è successo in Germania, in Egitto e prima ancora in Francia, nella mia patria. Ma in quella circostanza, per esempio, abbiamo potuto anche apprezzare - in particolare dopo l’omicidio dell’anziano sacerdote Jacques Hamel - come un risveglio dell’identità religiosa della maggioranza dei francesi nonché la solidarietà espressa dai musulmani d’oltralpe. Con grande sofferenza, continuiamo ad assistere ad atti di brutalità insensata che colpiscono persone innocenti nella loro vita quotidiana. Davanti a questi atti, al dramma delle migrazioni, alla crisi internazionale, soprattutto davanti alla situazione di conflitto in Siria, grande è la tentazione del disfattismo. Ma è proprio allora che occorre continuare a credere nel dialogo, che è essenziale per tutta l’umanità. Come si può portare avanti questo dialogo nella quotidianità? Tutti devono approfondire la conoscenza della propria religione e capire che il dialogo non è riservato agli “specialisti”. Tutti dobbiamo rinunciare ad atteggiamenti di sospetto o polemica in merito alle nostre motivazioni. Praticando, nella libertà e nel rispetto del diritto, tutto ciò che la maggioranza delle religioni hanno in comune - preghiera, digiuno, elemosina, pellegrinaggio - dimostreremo che i credenti sono un fattore di pace per le società umane. Nel mondo precario di oggi, il dialogo tra le religioni non è un segno di debolezza. Esso trova la sua ragion d’essere nel dialogo di Dio con l’umanità. Se dovesse sintetizzare con un’immagine i frutti del dialogo nell’anno che sta per concludersi, quale sceglierebbe? Di certo quella dell’incontro tra Papa Francesco e il grande Imam di Al-Azhar. Il 23 maggio lo sceicco Ahmad Muhammad al-Tayyib è giunto in Vaticano con una delegazione di alto livello, di cui facevano parte, tra gli altri, i professori Abbas Shouman, sottosegretario della prestigiosa istituzione accademica musulmana sunnita, e Mahmoud Hamdi Zakzouk, direttore del Centro per il dialogo di Al-Azhar. Il grande Imam è stato accolto da me e dal vescovo segretario del nostro dicastero Miguel Ángel Ayuso Guixot, e lo abbiamo accompagnato all’incontro con il Papa. Nel colloquio, è stata ribadita la necessità di un comune impegno dei responsabili e dei fedeli delle grandi religioni per la pace nel mondo, con il rifiuto della violenza e del terrorismo, e si è parlato della situazione dei cristiani nel contesto dei conflitti e delle tensioni nel Medio oriente. Papa Francesco ha più volte ripetuto che non si deve identificare l’islam con la violenza. Non solo: a una domanda specifica durante il volo di ritorno dal viaggio in Polonia, lo scorso 31 luglio, ha anche assicurato che i musulmani cercano la pace, l’incontro. E lo stesso sceicco al-Tayyib, in un’intervista ai media vaticani subito dopo l’udienza pontificia, ha sottolineato che l’islam non ha niente a che fare con il terrorismo, perché chi uccide ne ha frainteso i testi fondamentali sia intenzionalmente sia per negligenza, e che è fondamentale uno sforzo congiunto delle grandi religioni per dare all’umanità un nuovo orientamento verso la misericordia e la pace in questo tempo di grande crisi. Così, se Giovanni Paolo II è stato il primo Pontefice a visitare il grande Imam di Al-Azhar nel suo viaggio in Egitto durante il giubileo del 2000, lo sceicco al-Tayyib è stato il primo a visitare il Papa in Vaticano e sempre in occasione di un giubileo, quello dell’anno santo della misericordia, una quindicina di anni dopo. Qual è stato il lavoro “diplomatico” che ha preceduto e seguito quell’udienza? A febbraio monsignor Ayuso si era recato al Cairo dove, accompagnato ad Al-Azhar dal nunzio apostolico in Egitto, l’arcivescovo Bruno Musarò, aveva consegnato personalmente a Shouman una mia lettera, nella quale esprimevo la disponibilità a ricevere il grande Imam e ad accompagnarlo in udienza dal Pontefice. Dopo l’incontro con Papa Francesco in Vaticano, monsignor Ayuso si è recato nella capitale egiziana altre due volte - a luglio e a ottobre - per preparare l’appuntamento che segnerà la ripresa ufficiale del dialogo fra il Pontificio Consiglio e l’università cairota, in programma a Roma nel 2017, probabilmente a fine aprile. Quali sono state le altre tappe significative dell’attività del dicastero nel 2016?

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All’inizio dell’anno, ha avuto luogo l’incontro annuale a Ginevra tra gli officiali del nostro dicastero e il personale dell’Ufficio per il dialogo interreligioso e la cooperazione (Irdc) del Consiglio ecumenico delle Chiese (Wcc), durante la settimana dell’armonia interreligiosa proclamata dalle Nazioni Unite. Sempre a gennaio, monsignor Ayuso è stato ad Abu Dhabi per il primo Arab Thinkers Forum. Era l’unico relatore non musulmano ed è intervenuto nella sessione dedicata al tema dell’estremismo, con un’analisi delle cause e dei possibili rimedi. A febbraio, accompagnato da monsignor Khaled Akasheh, capo ufficio per l’islam, ho partecipato personalmente alla dodicesima Interfaith Dialogue Conference, tenutasi a Doha, in Qatar. È significativo che più di una volta in questo anno il Papa abbia fatto precedere l’udienza generale del mercoledì da brevi ma significativi incontri con esponenti di altre religioni. Che senso hanno avuto? Sono stati momenti molto importanti in cui il Papa ha pronunciato brevi parole a braccio. Con i suoi modi gentili, egli ha lasciato in tutti un buon ricordo. Me lo hanno testimoniato sia i membri del Royal Institute for Interfaith Studies di Amman, in Giordania, che ho accompagnato in Vaticano il 4 maggio; sia Haxhi Baba Edmond Brahimaj, capo della comunità dei Bektashi, ricevuto dal Papa la settimana seguente. Si tratta di una confraternita musulmana di derivazione sufi, fondata nel tredicesimo secolo in Turchia e diffusasi soprattutto in Albania. Lo stesso è accaduto il 1° giugno con una delegazione giainista composta da 35 persone e infine il 23 novembre con i musulmani sunniti iraniani partecipanti al colloquio sull’estremismo e la violenza in nome della religione, che è stato promosso dal nostro Pontificio Consiglio con l’Islamic Culture and Relations Organization (Icro) di Teheran. Inoltre, dal 7 all’8 settembre, il nostro dicastero ha collaborato all’organizzazione del simposio «America in dialogo - Nostra casa comune» promosso dall’Organizzazione degli stati americani e dall’Istituto di dialogo interreligioso (Idi) di Buenos Aires, i cui partecipanti sono stati ricevuti da Papa Francesco. E non dimentichiamo, infine, l’udienza interreligiosa voluta dal Pontefice il 3 novembre, con la partecipazione di tanti nostri amici e partner del dialogo, tra i quali il Centro internazionale di dialogo a Vienna (Kaiciid), che nell’occasione ha pure promosso un colloquio sulla misericordia presso la Pontificia università Gregoriana. Per i numeri che esprime il continente asiatico e per l’attenzione con cui il Papa ne segue le vicende, un capitolo importante del dialogo riguarda l’Oriente. Quali rapporti ci sono con l’Asia e le sue culture? A maggio il nostro segretario è stato in Giappone per una consultazione di alto livello con i responsabili religiosi del Medio oriente sul tema della cittadinanza, per promuovere una maggiore consapevolezza negli Stati a maggioranza musulmana. Durante la missione a Tokyo è stata anche rafforzata la collaborazione tra la Chiesa cattolica e l’organizzazione buddista Rissho Kosei-kai (Rkk). A ottobre, con il sottosegretario Indunil Kodithuwakku, monsignor Ayuso si è recato prima a Singapore, e poi a Taiwan in occasione del primo incontro cristiano-taoista. Proprio ad alcune religioni particolarmente diffuse nel continente avete rivolto messaggi in occasione di particolari feste. Buddisti e cristiani insieme per promuovere l’educazione ecologica è stato il tema di quello che abbiamo inviato per la festa di Vesakh, durante la quale si commemorano i principali avvenimenti della vita di Buddha. A ottobre abbiamo indirizzato un messaggio agli indù incentrato sull’importanza della famiglia in occasione della festa di Deepavali, che significa “fila di lampade a olio”, ed è simbolicamente fondata su un’antica mitologia volta a rappresentare la vittoria della verità sulla menzogna e della luce sulle tenebre. Infine, in occasione del mese del Ramadan, a giugno c’è stato il tradizionale augurio alla comunità islamica. Uno dei momenti centrali dell’anno appena trascorso è stato senza dubbio la giornata del 20 settembre ad Assisi, nel trentennale dello storico incontro che vide riuniti con Giovanni Paolo II i responsabili delle principali religioni mondiali. Che significato ha avuto? L’incontro di Assisi nel 1986 ha proiettato la Chiesa verso le religioni non cristiane. Queste infatti, nonostante l’insegnamento di Paolo VI, nella sua prima enciclica Ecclesiam suam, e del Concilio Vaticano II, con la dichiarazione Nostra aetate, apparivano lontane, se non estranee. È stato il simbolo, la realizzazione del compito della Chiesa in un mondo segnato dal pluralismo religioso. Non a caso, dunque, lo stesso

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Papa Francesco ha voluto riproporne i contenuti recandosi ad Assisi per una nuova giornata di preghiera sul tema: «Sete di pace. Religioni e culture in dialogo». IL GAZZETTINO Pag 13 “Sì alle nozze nel clero e alle donne prete” di Antonella Lanfrit Dodici sacerdoti di frontiera del Friuli Venezia Giulia scrivono una “lettera di Natale” chiedendo svolte nella Chiesa «Restare umani. Oltre le paure», il titolo che dodici preti «di frontiera» del Friuli Venezia Giulia hanno dato alla loro ormai tradizionale Lettera di Natale, significa anche pensare che oggi il sacerdozio «possa essere esercitato da uomini celibi, da uomini sposati nelle condizioni di poter essere ordinati, da preti che si sono sposati e per il celibato hanno dovuto lasciare il ministero ma sentono giusto e importante poterlo esercitare nuovamente». E che ci possano essere «donne ordinate prete», le quali «potrebbero portare alla comunità la ricchezza della loro diversità di genere». Don Pierluigi Di Piazza parroco di Zugliano e fondatore del Centro Balducci, insieme ai confratelli Franco Saccavini, Mario Vatta, Pierino Ruffato, Paolo Iannaccone, Giacomo Tolot, Piergiorgio Rigolo, Renzo De Ros, Luigi Fontanot, Alberto De Nadai, Albino Bizzotto e Antonio Santini, ha presentato ieri a Zugliano la Lettera che affronta molto dei problemi spinosi dell'oggi. Il fenomeno dei migranti, sostengono, «è oggi dirimente, la chiave di lettura interpretativa dell'attuale storia dell'umanità». E per l'accoglienza «la Regione suggeriscono dovrebbe orientarsi a progetti d'inserimento lavorativo in zone spopolate e abbandonate, per un impegno lavorativo che riguardi ambiente, agricoltura, allevamento, lavorazione dei prodotti». Si pensi «alla montagna pordenonese, alla Carnia, alle Valli del Natisone». Faro puntato, inoltre, su quelle città in cui «l'impegno da affrontare per l'amministrazione pubblica è ripulire le strade dalla povera gente». Pur senza citarle, il riferimento recente è alle iniziative di Trieste e Pordenone e il giudizio è di una condizione «paradossale». L'enciclica sull'ambiente di Papa Francesco e l'amore come dimensione di salvezza sono altri punti sviluppati nella missiva, che riflette anche sulla manifestazione della violenza «sui social media come facebook». I sacerdoti avvertono «l'importanza di studiare» la «dinamica della distruttività disumana che oggi trova eco ampia e incontrollata sui social media» e sollecitano «a partecipare a processi educativi volti alla liberazione dalla aggressività, con scelte di non violenza attiva, con parole, gesti e azioni di pace». Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 8 Allerta in Laguna. Tra le calli cento soldati di Claudia Fornasier Cento soldati tra le calli, le squadre antiterrorismo della polizia e dei carabinieri di nuovo a presidiare piazza San Marco, Rialto e le porte di accesso alla città. Il piano per la sicurezza di Venezia non è mai stato interrotto dopo l’attentato di Parigi, ma da venerdì 23 dicembre i presidi saranno potenziati in tutta la città. Per veneziani e turisti sarà un’altra messa della Vigilia in una Basilica di San Marco circondata da poliziotti. Misure eccezionali che continueranno fino all’8 gennaio e non solo a Venezia dove per i fuochi d’artificio dell’ultimo giorno dell’anno sono attese 80 mila persone. Controlli estesi anche a località sul litorale, come Jesolo, che attirano migliaia di giovani con le feste all’aperto. Pag 27 Trucco vietato per le vigilesse: “Smalti e rossetti vistosi? Se li mettano fuori servizio” di Alberto Zorzi Le nuove regole a Venezia Venezia, «Una volta anche io sono stata richiamata, vent’anni fa. Portavo i capelli lunghi ed ero tornata dalle vacanze con una treccia con i fili colorati che all’epoca andavano di moda. Fui dispiaciuta perché avrei dovuto pensarci prima». E oggi? «Sono una donna generalmente sobria, ma d’estate talvolta mi piace dipingermi le unghie di rosso. Prima

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di rientrare, però, tolgo lo smalto». Maria Teresa Maniero, 46 anni, è la responsabile del Servizio verifiche e controlli della Polizia municipale di Venezia. A lei spetterà mettere in pratica il nuovo regolamento approvato lunedì dalla giunta del sindaco-imprenditore Luigi Brugnaro: 76 dettagliate pagine che danno una stretta alle regole per i vigili urbani veneziani, con anche una raffica di divieti «estetici» destinati a far discutere e su cui alcuni sindacati sono già pronti a fare ricorso. Banditi gli orecchini con i pendenti, le unghie lunghe, così come i capelli sciolti: se già non lo sono, vanno raccolti. Via libera al trucco «non eccessivo» e al taglio di capelli non «bizzarro o inusuale». No a piercing e tatuaggi visibili. Niente smalti colorati. «Alcuni divieti sono per motivi di sicurezza - spiega Maniero -. Gli altri poggiano su un pilastro fondamentale: io stessa sono qui perché credo nelle sue funzioni e anche nell’importanza della divisa e con il mio aspetto trasmetto l’immagine dell’amministrazione. E Venezia non è un luogo qualsiasi, ma una delle città più famose del mondo». Nel 2016, però, alcuni divieti potrebbero sembrare un po’ retrò. Perché un vigile tatuato dovrebbe lavorare male? «Ognuno a casa può farsi la cresta o avere un rossetto vistoso, ma quando sono in pattuglia in piazza San Marco la divisa in ordine è il mio biglietto da visita - continua Maniero -. Detto questo, non licenzieremo chi ha scritto un “ti amo” piccolino sulla mano». Perché i controlli, comunque, ci saranno e lì cominceranno i problemi e le interpretazioni: niente rossetto rosso fuoco, va bene, ma il lucidalabbra? L’ombretto sì o no? I baffi quanto lunghi? «Cercheremo di valutare ogni singola situazione, senza perdere di vista l’obiettivo finale». Certo che le donne, più attente ai dettagli, potrebbero prendere male questi divieti. «Ho conosciuto negli anni colleghe che soffrivano: mettevano una gonna un po’ più corta, un tacco un po’ più alto - conclude Maniero -. Alcune avevano addirittura il rossetto con i brillantini o le unghie coloratissime, ognuna diversa dall’altra. Ma non credo che ci si possa sentire limitati per questo». CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Bidè, risse e scaramucce nella Mestre dei poveri: “Moraglia la fa facile ma qui ci viviamo noi” di Martina Zambon e Alice D’Este Viaggio nel quartiere degli ultimi. L’idea di Brugnaro e l’ira del Patriarca dividono i residenti. Il commerciante: “Numeri da emergenza, così esercizi penalizzati”. L’operatore sociale: “Trasferire gli indigenti? Si sposta solo il problema” Mestre. Un bidè sotto i portici di via Querini, a due passi da Ca’ Letizia, una gonna lunga per coprire l’operazione e una bottiglietta d’acqua. Le scaramucce che rischiano di trasformarsi in rissa, all’uscita dalla mensa, quando qualche coltello spunta con troppa facilità. La fila per entrare alla mensa Miani di fianco alla chiesa del Cuore Immacolato di Maria di Altobello. La ressa per le vetrine di una erboristeria in via Ca’ Savorgnan addobbate per Natale e quasi coperte dalla schiera di diseredati in attesa di un pasto caldo alla mensa di Sant’Antonio. Una mattina qualsiasi in centro a Mestre. La mattina in cui il patriarca Francesco Moraglia ha fatto risuonare il suo «no», garbato ma fermo, all’idea del sindaco Luigi Brugnaro di concentrare i servizi di mensa per i poveri a Carpenedo, una «Cittadella della Povertà». Moraglia pone il tema del «vedere» e del «nascondere». E non mancano i mestrini che sbottano: «Certo, in pieno centro, non è un bel vedere». Impossibile «non vedere», non nel triangolo fra Altobello, via Cappuccina e via Querini. Colazione, pasto e cena, da 40 a 150 coperti, un piccolo esercito omogeneo che «arruola» anziani, migranti e cospicui drappelli di badanti. Entriamo nella bella pasticceria accanto alla chiesa di Altobello, un boccione ricolmo di mini babà accoglie i clienti e Salvatore Raia, da dietro il bancone, spiega: «Qui non ci sono problemi particolari con chi va alla mensa. Mi chiedo solo se ci sia un criterio. Ci sono molte signore che fanno le badanti e che poi vengono qui per una pasta, un caffè». Non c’è animosità nelle parole di Salvatore, solo curiosità. Dall’altro lato della piazza c’è Ca’ Bianca, gestito da 16 anni da Sonia, parrucchiera, che aiuta da sempre padre Ottavio e che, pure, qualche dubbio ce l’ha: «Non credo vadano spostate le mense, però manca la sorveglianza». Le clienti, fra uno shampoo e un colpo di spazzola, annuiscono. Intanto Olga fa tranquillamente la fila, fa la badante e spiega che se può risparmiare anche 5 euro da mandare a casa lo fa. I toni si alzano fra via Ca’ Savorgnan e via Costa. C’è chi esordisce con «ci metterei una bomba», ma poi corregge il tiro e si sfoga. Tutti ampliano il discorso alla lenta agonia di Mestre, alle tante saracinesche abbassate. Nella direzione

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opposta, due passi verso la Galleria del Teatro Vecchio. In lontananza le ultime propaggini dei mercatini di Natale, le boutique che resistono. E in un panificio minuscolo, la proprietaria sfodera una verve appassionata ed esordisce con «i portemo tuti in piassa San Marco visto che paghemo e stesse tasse dei venesiani». Oltre il bancone una signora minuta, avvolta nella sua pelliccia, azzarda quasi timidamente: «I delinquenti sono anche “nostri”, come si fa a distinguerli?». «Eh signora mia, sono ben conosciuti, altro che», ribatte la panettiera che fa le ore piccole attendendo il figlio adolescente che rientra la sera («Sto in ansia»). A «Linea parrucchieri» rombano i phon e c’è un signore che si gode la sua manicure mentre si fa spuntare i capelli. «Moraglia fa presto - sbotta il coiffeur - sta nel suo palazzo veneziano, qui se ne fregano tutti». Entriamo alla mensa dei Cappuccini. Ci accoglie un bel ragazzo, occhi azzurro cielo, franchi e determinati, maniche arrotolate, grembiule ben annodato: «Piacere, sono fra’ Paolo», si presenta. «Ci era stato annunciato un incontro col sindaco per discutere, ma al momento abbiamo appreso tutto solo dai giornali. Posso solo dire che il nostro carisma ci porta ad aiutare gli ultimi e continueremo a farlo». La voce è ferma, lo sguardo deciso senza essere bellicoso. Fuori dalla mensa altri tre frati, questa volta con saio d’ordinanza e sandali sui piedi nudi, si ingegnano per sistemare il furgone delle consegne. Via Carducci si apre su un piazzale Sicilia che sembra tirare un sospiro di sollievo dopo la travagliata riqualificazione. La scalinata che porta alla Vez è un viavai festoso. Via Querini, invece, conta un paio di stanchi festoni di pino, qualche fiocco su un paio di alberi di Natale, il rosso delle ciocche scolora in un arancio altrettanto stanco. I commercianti sembrano rassegnati, non vogliono comparire con nome e cognome. E raccontano che, tradizione vuole, almeno una petizione l’anno per risolvere le tensioni quotidiane davanti a Ca’ Letizia si fa. Qualcuno ha segato gli scalini d’accesso al portone di casa, stanco di dover scavalcare chi su quei gradini dormiva stabilmente. Le scaramucce quotidiane nascono dalla richiesta di una sigaretta, un diniego e l’accusa di razzismo (complice forse la vodka versata in una bottiglia d’acqua minerale per farla entrare in mensa) o dalla pipì contro una colonna dei portici. C’è una commerciante che abita di fronte al suo negozio, i figli li fa andare a casa attendendo che passi l’ora di punta d’ingresso a Ca’ Letizia. Due negozi dopo, c’è chi commenta così la proposta di Brugnaro: «Ze rivà el genio . Contro la chiesa non ha chances, che iniziasse a rivitalizzare la città prima di spostare le mense». Filosofa, infine, Mauro D’Este, storico edicolante di piazzale Sicilia: «Abbiamo sempre convissuto con i barboni “nostrani”. Ora non è più così. Basterebbe un presidio continuo come in piazza Ferretto». Solo 500 metri di distanza, ma la piazza con le luminarie e le camionette dell’esercito, la piazza che tenta di recuperare il suo orgoglio di «salotto buono» della città, è più lontana di Plutone vista dai portici tristi di via Querini. «Non ci sono città uguali tra loro, ma qui a Mestre certamente il problema sta assumendo proporzioni molto importanti. Quella che qualche tempo fa era una difficoltà marginale sta diventando esponenziale, le persone coinvolte in situazioni economiche difficili sono sempre di più. Nessuno ha la ricetta vincente per risolvere il problema, ma bisogna pensarci». Massimo Zanon, presidente di Confcommercio Veneto, chiede una riflessione più approfondita. Quali sono le emergenze oggi? «Sono tante. Nessuno immaginava di arrivare a questa situazione qualche anno fa. E sono i numeri a cambiare tutto. Se una persona senza fissa dimora dorme in una strada è un conto, se ne dormono una ventina è diverso, i residenti si allarmano. Nessuno ha la ricetta per risolvere tutto con uno schiocco di dita, ma bisogna occuparsene». Le mense dei poveri in centro città creano problemi al commercio? «Il commercio è certamente penalizzato da queste situazioni. Non si può certo dire, semplificando, “ora spostiamo tutti altrove”: si creerebbero altre sacche di difficoltà, altre proteste. Ma il problema resta. E forse è il momento di offrire molto di più anche a chi ha questi problemi». In che senso? «Ad esempio uno spazio che preveda, oltre al servizio mensa, anche altro. Quello che fa la Chiesa è già molto, ma se la gestione crea scontento nel quartiere, vanno valutati pro e contro anche dello spostamento, se fatto con criterio».

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«C’è un problema a monte legato alle intenzioni. Se “trasferisco i poveri” fuori città per non vederli, sposto solo il problema in un’altra comunità e non risolvo nulla». È contrario Marco Zamarchi, della cooperativa «Il villaggio globale», alla proposta del sindaco Luigi Brugnaro. Quali sono i problemi che vede? «Si spostano problemi, non si progettano soluzioni. Se metto “fuori dal centro” le persone, creo ulteriore emarginazione e non favorisco progetti di inserimento». E per la città? «Vivere in una città pensando che non esistano i problemi, che i poveri non esistano, è controproducente. Certamente si deve prestare più attenzione alla sicurezza, con azioni repressive da un lato ma con grande attenzione al sociale dall’altro, aiutando le persone a sentirsi parte di una società». Qualche esempio? «Capita che qualcuno faccia i suoi bisogni nelle strade vicine. Ovviamente questo va evitato, ma mi chiedo: ci sono dei bagni pubblici nelle vicinanze per risolvere in modo semplice il problema? No». La «cittadella» dunque non funzionerebbe? «La “cittadella” in sé non sarebbe neanche una brutta idea se fosse stata veramente pensata per aumentare i servizi per le persone in difficoltà. Ma allora mi devi creare uno spazio con mensa, docce, bagni, lavatrici, asciugatrici, referenti fissi, psicologi. E che sia raggiungibile coi mezzi pubblici». LA NUOVA Pagg 22 – 23 Povertà in città: 500 in strada, 1800 con la tessera della Caritas di Mitia Chiarin Don Capovilla: “Emarginare è anti-evangelico”. A Carpenedo nuovi Paradiso bond per il polo della carità. Appelli al sindaco a chiarire il suo progetto: “Decentriamo le mense ma non diventino ghetti”. Il Patriarca a Radio 24: “Si rischia di creare spazi simili alle periferie francesi” Abbiamo provato a dare una consistenza numerica alla “cittadella della povertà” annunciata, per delocalizzare in periferia le mense per poveri del centro di Mestre, dal sindaco Luigi Brugnaro, e stoppata dal giudizio fortemente critico del patriarca di Venezia, Francesco Moraglia. Un progetto che fa discutere. Cinquecento sulla strada. Sono 500 le persone che vivono sulla strada, seguite dal nuovo modulo organizzativo, messo in campo dall’amministrazione di centrodestra, e affidato in appalto a Casa dell’Ospitalità di Mestre e cooperativa Coges. Cinquecento persone che mangiano nelle mense per i poveri. A Mestre in poche centinaia di metri ce ne sono tre: Ca’ Letizia, gestita dalla San Vincenzo, che ha visto aumentare i pasti giornalieri da 130 a 150; la mensa dei Cappuccini che distribuisce un altro centinaio di pasti giornalieri e quella di Altobello dei padri Somaschi. Sono la cosiddetta punta dell’iceberg della povertà. Numeri in difetto. Tante situazioni restano nascoste; altri sopravvivono con il minimo vitale concesso dal Comune. Capita spesso al market di vedere persone anziane in difficoltà a pagare una piccola spesa, perché i soldi sono contati. Ci sono poi storie sussurrate, come quella del ragazzo nordafricano che dorme da mesi all’interno di un cassonetto della raccolta differenziata a Favaro, zona via Altinia. Il sistema Caritas. La Caritas veneziana gestisce 3 mense (una a pranzo, due a cena): due sono a Venezia (Betania e Tana), una a Marghera. Complessivamente le tre strutture assicurano 180 circa pasti al giorno; dalle 8 alle 10 le docce al giorno per 5 giorni la settimana alla Tana; tre i dormitori (2 maschili da 24 posti e uno femminile da 14 posti); un pensionato per persone autonome con progetto dei servizi sociali (35 posti) e tre monolocali. 1.800 tessere. La Caritas veneziana spiega che in città ci sono 1.800 tessere per 1.800 persone che usufruiscono di mense, docce e dormitorio messi a disposizione dalla rete caritatevole. Circa 500 le famiglie seguite, a cui vengono garantite borse con la spesa. Il polo di Carpenedo. Un altro grande centro della carità è a Carpenedo dove opera il polo solidale del don Vecchi, creato da don Armando Trevisiol. Una realtà che si occupa di famiglie italiane e straniere e che conta dai 50 ai 60 mila contatti l’anno. C’è chi si va a vestire ai magazzini San Martino, chi prende frutta e verdura al chiosco. Ci sono gli anziani che ogni prima e terza domenica del mese vanno a mangiare al “Senior

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Restaurant”. Del resto, dai dati delle dichiarazioni dei redditi del 2014, si contavano 164 mila veneziani che avevano dichiarato redditi sotto i 10 mila euro l’anno, la soglia della povertà economica. I servizi comunali. La giunta Brugnaro ha confermato i servizi di accoglienza notturna, le aperture del Centro diurno a Ca’ Letizia e del Drop-In in via Giustizia, l’assistenza medica offerta dalla Croce Rossa, dalla Croce Verde e dal centro Emergency di Marghera, i punti di distribuzione di coperte e di vestiti, il servizio di consulenza legale, le opportunità di ristoro per colazione, pranzo e cena. Gli interventi di strada sono affidati ad una équipe di operatori che forniranno ai senza dimora bevande calde e generi di prima necessità, ma anche un kit di sopravvivenza, con coperte. Segnalazioni di casi da seguire si possono fare utilizzando il numero verde 800-589266. La Casa dell’ospitalità ha ricavato al suo interno 24 posti più 10 per i senza dimora. Si sono persi invece gli oltre 30 posti aggiuntivi creati al centro Rivolta di Marghera. La cooperativa Caracol, che per anni ha gestito il servizio, ora è rimasta senza contratto. Otto delle persone che vivono nella Casa di via Spalti oggi hanno un contratto a tempo determinato e fanno i mediatori con i senza fissa dimora. Al servizio docce, da gennaio, sono passate 560 persone. Il Centro diurno di Ca’ Letizia da marzo a ottobre ha contattato 1.953 persone in 108 giorni di apertura straordinaria. In Italia nel 2007 la povertà assoluta colpiva circa 2 milioni di persone e la crisi finanziaria del 2008 ha cambiato lo scenario: il numero di persone che vive in condizione di povertà assoluta è più che raddoppiato dal 2007 al 2014, arrivando secondo le stime più recenti a oltre 4 milioni, ricorda la Caritas di Verona. I poveri assoluti sono passati dal 3,1% del 2007 al 6,8% del 2014. Al Nord si passa dal 2,6% del 2007 al 5,7% del 2014. La Fondazione Zancan aveva stimato nel 2013 in Veneto circa 120 mila famiglie in povertà assoluta, in aumento di 3.500 unità rispetto al 2012. Secondo il rapporto Istat sulla povertà nel Veneto si è passati da una incidenza del 4,5% del 2014 al 4,9% del 2015, in costante ma leggero aumento. «Chi di noi vorrebbe essere trattato da avanzo urbano?». Lo chiede dalla sua animata e colorata pagina Facebook don Nandino Capovilla, parroco della Cita di Marghera. Lui lunedì scorso, mentre sindaco e Patriarca erano impegnati in un botta a risposta, a pochi centimetri di distanza, sull’idea dell’amministrazione di centrodestra di spostare le mense di Ca’ Letizia e dei Cappuccini, era dal barbiere. Un barbiere speciale. La “Ciribiricoccola” della Cita, quartiere popolarissimo di Marghera dove di recente è stato in visita anche Moraglia, è il piccolo servizio di barbiere per i senza dimora che hanno come punto di riferimento la parrocchia della Cita e che vede come cliente lo stesso sacerdote. Don Capovilla ha coinvolto i suoi “utenti” e amici della strada in una serie di cene solidali che si svolgono in parrocchia sotto il nome di “Roof Garden”. Ci sono poi i progetti dell’orto solidale che coinvolgono oltre a residenti di varia nazionalità anche alcuni dei senza dimora che fanno riferimento alla parrocchia, dove trovano la mattina la colazione calda. Don Nandino si schernisce, poi spiega: «Sono perfettamente d’accordo con le parole del nostro Patriarca ed è il vangelo, che conosciamo tutti, ad indicarci il percorso. Del resto, il Patriarca, appena nominato, ha scelto di andare tra i poveri. Non c’è alcun sfondo sociologico da indagare: emarginare ancora di più i poveri è una azione anti-evangelica. Far diventare fantasmi gli invisibili? Meglio evitare le polemiche e invece accogliere e migliorare i servizi con un tavolo che comprenda anche la rete dei senza dimora. Credo che le parole del Patriarca siano state ben comprese dal sindaco della nostra città». «Il progetto della Fondazione Carpinetum è il desiderio di offrire un servizio più organico alle persone, con un coordinamento tra le mense. Altra cosa è discutere, invece, della realtà di Mestre». Don Gianni Antoniazzi, parroco della parrocchia dei Santi Gervasio e Protasio di Carpenedo spiega così l’intento dell’ultima avventura della fondazione Carpinetum, la “macchina”, creata da don Armando Trevisiol per dare gambe alla costruzione dei centri Don Vecchi, arrivati in città a quota sei. Sulla pagina internet della Fondazione c’è l’avviso della nuova sottoscrizione popolare, attraverso i “Paradiso bond” di don Trevisiol (valore 50 euro l’uno) che servirà a finanziare «la costruzione di un centro direzionale e operativo per tutte le associazioni e strutture caritative delle parrocchie mestrine». Una cittadella della carità che dovrebbe nascere a Carpenedo a

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fianco al don Vecchi 2, dietro viale don Sturzo e lungo via Martiri della Libertà, in un terreno di proprietà della società dei Trecento campi. Il progetto prevedrebbe nell’area la costruzione del nuovo quartier generale delle attività caritative e in cambio dell’area sarebbe disposta a costruire su una parte della stessa alcune villette a schiera da mettere sul mercato. Don Gianni Antoniazzi la scorsa estate ha parlato con la vicesindaco Luciana Colle e alcuni assessori a Ca’ Farsetti. Il Comune pensa, come ha annunciato il sindaco Brugnaro, di spostare la sede di Ca’ Letizia da via Querini dove continuano a levarsi le proteste per la presenza di bivacchi quotidiani di senza dimora dei residenti, vede di buon occhio il progetto nella speranza di unire entrambe le necessità. Aiutare il progetto di don Antoniazzi e trovare spazi anche per Ca’ Letizia. Ma don Antoniazzi ieri ha precisato di concordare con le parole preoccupate del patriarca Moraglia e che il progetto della Fondazione riguarda la miriade di attività aperte in questi anni da unificare per migliorare il servizio ai cittadini bisognosi. Dalle pagine del foglio parrocchiale, don Gianni precisa: «Fa onore al sindaco la sensibilità per il disagio di Mestre. Ora però la Fondazione Carpinetum concentra tutto il proprio lavoro su un altro obiettivo: dare alle proprie associazioni una sistemazione migliore». La struttura dovrebbe chiamarsi “Il Prossimo” dove «si spera di fare un servizio più efficace e coordinato per tutti». Il sacerdote di Carpenedo precisa: «Non ci sono mai stati accordi con le mense dei poveri che hanno altre radici e strutture di servizio. La Fondazione è aperta a dialogare con loro, ma, qualora l’iniziativa superasse le sue competenze, desidera anteporre un dialogo con il vescovo e con chi è coinvolto nel servizio ai bisognosi». Il Patriarca aveva precisato il suo favore a lavorare per «mettere a posto alcune organizzazioni delle mense. Dobbiamo farlo perché dobbiamo evitare difficoltà anche a chi vive il problema quotidiano». Ovvero i residenti che in questi giorni urlano “Basta” e chiedono lo spostamento delle strutture. La città si interroga sulla “cittadella della povertà” annunciata lunedì a Mestre dal sindaco Brugnaro. Il Patriarca ieri a Radio 24 ha auspicato «di parlarci e di vedere obbiettivamente le difficoltà e cercare di risolverle, correggere i servizi in qualche loro discrasia». Perché «un modo di intendere la città in modo solidale è diverso rispetto a delegare ad alcuni spazi che poi siano di emarginazione. Se no, rischiano di essere spazi simili alle periferie francesi, luoghi dell’emarginazione dove si radicalizzano poi le tensioni e le sofferenze tra queste persone e la popolazione». Intanto chiedono lumi al primo cittadino esponenti della sua stessa maggioranza. Dall’ex capogruppo Maurizio Crovato ai “dissidenti” Serena, Scarpa, Giacomin e Cotena. I quattro consiglieri fucsia ieri hanno reso note le perplessità sul progetto: «Siamo convinti che il sindaco si sia espresso in buona fede e abbia a cuore i problemi di vivibilità della città», spiegano, «compresi gli “aloni”inevitabilmente pesanti, indotti dalle strutture di accoglienza per gli ultimi». Ma il gruppo fa notare che il Comune ha dato sostegno in questi anni alla Fondazione Casa dell’Ospitalità «che fornisce circa 30 mila pasti l’anno e altrettanti pernottamenti» e che «lo spostamento, se all’esterno della città, rischia di diventare ghetto mentre se è in altra parte della città rischia di spostare e non cancellare gli effetti che si vogliono evitare. Nell’interesse della città, oltre che per spirito cristiano, la povertà va combattuta assieme all’emarginazione, e non ci resta che chiedere al sindaco di esplicitare questa sua idea in modo che si possa comprenderne i contenuti e non doverne immaginare i significati, interpretando le parole». Cautela anche da Maurizio Crovato: «Ci sono stati progetti in tal senso anche delle giunte di centrosinistra. A Roma e Milano non ci sono cittadelle di questo tipo in piazza di Spagna o in Corso Napoleone. Il decoro passa anche per il centro di Mestre. L’importante è che sia una struttura funzionale e non un ghetto e per questo voglio capirne di più». Taglia corto il capogruppo del Pd, Andrea Ferrazzi: «Non ho mai sentito di progetti simili in passato. Io sono contro i ghetti. Quelli sono davvero pericolosi per la sicurezza pubblica e il degrado». Favorevole ad una operazione intelligente è Gianfranco Bettin, presidente a Marghera. «Un decentramento di queste strutture, senza costruire ghetti, si può fare. Anzi si dovrebbe fare perché in centro a Mestre in pochi metri ci sono tre mense con un impatto sui residenti che rischia di creare pesanti contraccolpi. Si può decentrare una parte di queste strutture, creando nuovi spazi e migliorando i servizi ma occorre discuterne seriamente, con intelligenza, evitando le crociate e le campagne ideologiche. Fare invece un ghetto per poveri è sbagliato. E serve far lavorare gli operatori comunali

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con forti motivazioni e una valorizzazione che oggi è scemata». Intanto i cittadini litigano a suon di lettere: «Smettetela e ragionate, si tratta di organizzare meglio e incrementare dei posti nelle mense meno centrali», attacca Luciano Niero da via Querini. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XII “Il problema c’è, ma no ai ghetti” di Fulvio Fenzo Bettin: “Troppe tre mense a poca distanza”. La diocesi: “Apriamo una discussione obiettiva” E adesso non resta da vedere quale carta giocherà Luigi Brugnaro per ricucire i rapporti con il Patriarcato dopo l'annuncio del suo progetto di spostare in periferia le mense dei senza dimora nell'ipotetica Cittadella della povertà immaginata dal sindaco. Una cittadella che, non solo in diocesi, ha suscitato parecchi dubbi, anche se è innegabile che una parte del centro di Mestre si senta sotto pressione. «Se Brugnaro pensa a una soluzione del genere come ad un ghetto, una forma di apartheid, per togliere dai nostri occhi queste persone, non si discute nemmeno - commenta Gianfranco Bettin, presidente della Municipalità di Marghera e sociologo -. É però innegabile che esiste un problema di concentrazione di queste mense lungo un asse che va da Ca' Letizia in via Querini ai Cappuccini, fino ad Altobello, mentre sull'altro fronte della città si trova la Casa dell'ospitalità. A questo vanno aggiunti quei supermercati a prezzo stracciato in via Carducci che ovviamente attraggono chi vive di carità. A Marghera abbiamo solo la mensa-dormitorio Papa Francesco, e non ci sono problemi di convivenza». Piccolo, insomma, per Bettin è meglio «ma va anche rilanciato il lavoro di strada a bassa soglia per allacciare rapporti e legami con queste persone». Don Armando Trevisiol ha un moto di stizza solo a sentir parlare di cittadella della povertà: «Definizione di cattivo gusto, mentre la vera sfida è aggiornare la nostra organizzazione caritativa per evitare doppioni e sprechi di risorse - sostiene il sacerdote -. Spostare altrove le mense? Si tratta di strutture gestite da volontari e, per fare un esempio, quando l'ospedale si è trasferito dall'Umberto I all'Angelo, ne abbiamo persi la metà». «Alleggerendo una parte rischiamo di sovraccaricarne un'altra - teme don Dino Pistolato, vicario episcopale -. Teniamo presente che i senza dimora sono persone, non sono valigie: ci sono gli irriducibili, altri vanno dove vogliono e altri ancora possono decidere di andare a supermercati. Possiamo invece metterci seriamente a ragionare, ma conoscendo veramente il fenomeno». Apertura a Brugnaro rilanciata ieri dallo stesso patriarca Moraglia ai microfoni di Radio24: «Quello che auspico è di parlare con il sindaco e di vedere obiettivamente le difficoltà e cercare di risolverle, distribuire questi servizi, organizzarli e correggerli - spiega Moraglia -. Altrimenti rischiano di essere spazi simili alle periferie francesi, luoghi dell'emarginazione dove si radicalizzano poi le tensioni e le sofferenze tra queste persone e la popolazione. Le nostre mense si possono distribuire in modo più articolato, ma senza portarle al di fuori del contesto sociale, creando in queste persone già in difficoltà una mentalità ulteriore di esclusione». «Oltre a riproporre un dualismo centro/periferia del tutto anacronistico, ciò che manca davvero nel dibattito sulla ricollocazione delle mense per i senza fissa dimora è un approccio di natura culturale e strutturale alle povertà e alle nuove marginalità, che contraddistingue purtroppo in questo tempo le società urbane». Per Gabriele Scaramuzza, responsabile sanità e welfare del Pd comunale, «più che la ricollocazione di strutture, serve uno straordinario sforzo di creatività e innovazione per ripensare politiche di inclusione, riduzione della povertà, ricostruzione della dignità delle persone. Uno sforzo da articolare sul piano nazionale come su quello locale, anzichè smantellare il nostro modello di welfare urbano originale, come il sindaco sta facendo». IL SINDACO BRUGNARO: «Via le strutture per i poveri dal centro» L'idea di spostare le mense fuori dal centro di Mestre era stata anticipata dal sindaco nell'ultimo Tavolo di consultazione della lista fucsia. «Sto pensando ad una cittadella della povertà - ha spiegato Brugnaro -. Ovvio che vanno coinvolte le strutture caritatevoli che operano in città, ma è un progetto che c'è e che penso possa portare risultati e garantire una maggiore offerta di servizi alle persone che hanno bisogno di aiuto».

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IL PATRIARCA MORAGLIA: «Queste realtà non vanno emarginate» «Ho appreso dal Gazzettino questa notizia - ha replicato lunedì Francesco Moraglia -. Sono rimasto sorpreso rispetto a questa iniziativa. Una città deve essere funzionale, ma non può emarginare realtà che appartengono al vivere sociale. Se c'è bisogno di organizzare meglio le strutture dobbiamo farlo, ma nello stesso modo dobbiamo prendere atto che c'è la ricchezza e c'è la povertà». Pag XIV Marghera: Massimo Cacciari, confronto su San Francesco di g.gim. Si incontrano, da anni, con studiosi e accademici per parlare di filosofia e di teologia della salvezza. Tanto che questi cittadini, legati in qualche modo a Marghera, hanno deciso di dar vita ad un'associazione culturale che ha preso il nome di Gruppo di ricerca e confronto filosofico religioso. I molti confronti a porte chiuse diventano ora un appuntamento pubblico, dal titolo Nel segno di Francesco, in cui il filosofo Massimo Cacciari si soffermerà sul cantico delle creature di Francesco d'Assisi. L'incontro si terrà alla biblioteca di piazza Municipio di Marghera domani, giovedì 22 dicembre alle 17.30. Il Cantico delle Creature con la sua forza poetica è un riferimento importante nella riflessione sulla questione francescana che il gruppo di ricerca, affiliato ai Ragazzi della panchina di Marghera e di cui fanno parte credenti e non credenti, ha affrontato, studiando opere di carattere storico, filosofico, teologico e politico. Nell'incontro con Cacciari si cercherà di penetrare nell'esperienza, umanissima, del Santo di Assisi, nella consapevolezza dell'estrema drammatica attualità del messaggio di San Francesco. All'incontro, organizzato in collaborazione con la Municipalità, parteciperanno il presidente di Marghera Gianfranco Bettin e Aldo Bastasi del Gruppo di ricerca e confronto filosofico religioso. Pag XXIV Caorle: Premio Mazzarotto a don Gino Zuccon di R.Cop. Caorle. Istituito dal Lions Club Caorle in collaborazione con la famiglia Mazzarotto, nei giorni scorsi è stato consegnato a don Gino Zuccon il premio Giovanni Mazzarotto 2016, che intende ricordare l'operato dell'imprenditore edile di Portogruaro. Nato a Venezia nel 1936, sacerdote dal 1964, don Gino nel 1966 ricevette l'incarico di seguire la parrocchia di Santa Margherita e la guida ancor'oggi. A contribuire all'assegnazione del premio sono state anche le molteplici iniziative promosse per il benessere sociale e morale dei residenti e dei villeggianti. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 7 I colleghi le regalano le ferie per assistere la figlia malata: “Il mio miracolo di Natale” di Andrea Priante La gioia di Michela e la generosità contagiosa nata in azienda Marostica (Vicenza) La favola di Nicole e di Michela, la sua mamma, è custodita in una casa gialla a due passi da un boschetto di ulivi e dalle mura di un castello. È un posto incantevole sulle colline di Marostica. Tra queste pareti, da quando è nata, Nicole fa i conti con un nemico invisibile che prima le ha portato via la possibilità di muoversi e ora prova a rubarle anche il respiro. Si chiama tetraparesi spastica. E per tenerlo a bada, oggi che ha 6 anni, deve circondarsi - invece che dei giocattoli che fanno compagnia ai suoi coetanei - di una serie di apparecchi, come un grosso bombolone di ossigeno e uno strumento che registra costantemente i suoi parametri vitali. Ma guai a lasciarsi ingannare dalle apparenze: questa non è una storia triste. Basta osservare il sorriso di mamma Michela quando si siede sul divano su cui è stesa la bambina e la prende in braccio - stando attenta a non aggrovigliare i tubicini che aiutano i polmoni a gonfiarsi - e la riempie di baci e di carezze e le dice «sei bellissima» e la chiama «il mio amore». Michela è felice. Di più: «Sono piena di gioia e di speranza», assicura. In fondo è quasi

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Natale e ha appena ricevuto un grande regalo. Pensare che a settembre le cose si erano messe davvero male: Nicole ha avuto una crisi, il nemico invisibile è stato a un passo dal portasela via per sempre. Per mamma e papà Igor sono stati giorni complicati: la corsa in ospedale a Bassano, poi a Padova, la terapia intensiva. E i primi segnali di ripresa. «La mia bambina è forte, non si arrende mai», dice orgogliosa. A ottobre, finalmente, il ritorno nella casetta gialla ma con un problema in più: la piccola ha bisogno di assistenza costante. «Di giorno - spiega Michela - si stanca facilmente. Ma è durante la notte, quando le funzioni muscolari si abbassano ulteriormente, che le complicazioni sono più frequenti. Quando capita, le apparecchiature alle quali è collegata fanno scattare un allarme e Nicole rischia di soffocare. Io e mio marito dobbiamo intervenire, aiutarla a respirare, se occorre anche con un aspiratore che introduciamo dalla gola per liberare le vie aeree». Mentre parla indica le strumentazioni sparse intorno al divano: tutto è a portata di mano e pronto per essere usato in qualunque momento. Michela Lorenzin ha 34 anni e da quasi un decennio lavora per la Brenta Pcm, un’industria di Molvena che produce stampi per il settore automobilistico. Fino a qualche mese fa riusciva a incastrare i turni in azienda con l’impegno che comporta l’essere mamma di una bimba che soffre di una grave disabilità degenerativa. Ma ora che Nicole ha bisogno di assistenza continua, le è impossibile tornare al lavoro. La legge, in questi casi, prevede un congedo di diversi mesi che però, tra un ricovero in ospedale e l’altro, Michela ha già utilizzato quasi del tutto. Così ha chiesto ai superiori di anticipare le ferie per stare accanto alla bambina. Un mese, poco più. «Sono stati comprensivi - racconta - mi hanno sostenuta, proponendomi anche un part-time. Purtroppo ho dovuto rifiutare perché non posso allontanarmi da mia figlia, neppure per poche ore al giorno». Era un momento difficile, per questa famiglia di Marostica. Ma come tutte le favole che si rispettino è in questi momenti che arriva l’eroe pronto a sistemare le cose. «Una collega è venuta a trovarmi, mi ha detto che avrebbe voluto fare qualcosa per noi. Ci ha pensato un attimo e poi mi ha detto: “Ti regalo le mie ferie!”. Sono rimasta sorpresa, l’ho ringraziata ma non pensavo fosse possibile…». Invece, grazie a una norma introdotta dal Jobs Act, si può fare. Grazie a quell’amica, avrebbe potuto trascorrere qualche giorno in più con la sua piccola senza perdere il posto. Ma l’operaia della Brenta Pcm si è spinta molto oltre: è tornata in fabbrica e ne ha parlato con gli altri lavoratori e anche loro hanno voluto contribuire. «A dicembre mi ha telefonato la responsabile del personale dicendomi che tanti colleghi erano disposti ad aiutarmi. Ero contenta, pensavo di poter prorogare le ferie, magari di un paio di settimane... È stata lei ad annunciarmi che, complessivamente, i dipendenti dell’azienda avevano trasferito a mio favore cinque mesi di ferie!». Un sogno. «Quella per cui lavoro è un’impresa solida, che continua ad assumere: molti dipendenti li conosco soltanto di vista. Eppure hanno saputo fare un gesto di puro altruismo,arrivando a rinunciare, per me, a un po’ del tempo che invece avrebbero potuto trascorrere con le loro famiglie». Non è finita. Commossa, Michela ha scritto una lettera a chi la stava aiutando. Poche semplici righe per dire quanto prezioso fosse stato per lei quel regalo. Il foglio è stato appeso alla bacheca dell’azienda, in modo che tutti potessero vederlo. Il giorno dopo, il telefono della casetta gialla è tornato a squillare. «Era di nuovo la responsabile del personale, per comunicarmi che le ferie a mia disposizione sono improvvisamente salite a dieci mesi». La favola di Nicole e degli operai che rinunciano alle vacanze per aiutare la sua mamma, ha colpito tutti. «All’inizio non volevo fare questa intervista - ammette Michela - perché temo che troppe attenzioni possano stressare la bambina. Ma poi ho pensato che, forse, la mia storia potrà insegnare che nel mondo ci sono ancora tante persone buone, e magari offrire uno spunto per aiutare altre famiglie che si trovano ad affrontare le nostre stesse difficoltà». Mentre la mamma racconta, Nicole continua a godersi le coccole. Indossa un vestitino rosa a pois bianchi e a vederle così, abbracciate, tutto acquista un senso, anche i sacrifici che stanno attraversando. «Ero una donna fragile - conclude - ma mia figlia mi ha insegnato cos’è la forza. Sono la madre di una bambina meravigliosa. E adesso, anche dopo questo piccolo miracolo di Natale, non ho più paura di nulla». IL GAZZETTINO Pag 13 Rifiutò la pillola del giorno dopo, assolta farmacista Gorizia: la dottoressa era imputata di omissione di atti d’ufficio. Gli avvocati: ha agito nel rispetto del codice deontologico

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Gorizia. Il Tribunale di Gorizia ha assolto una farmacista di Monfalcone, E.M., imputata di omissione o rifiuto di atti d'ufficio per aver rifiutato di consegnare a una cliente la «pillola del giorno dopo», dichiarandosi obiettrice di coscienza. La sentenza, pronunciata il 15 dicembre scorso, è stata resa nota dai difensori della donna, gli avvocati Simone Pillon e Marzio Calacione. La donna, collaboratrice presso la Farmacia comunale, durante il turno notturno aveva rifiutato di consegnare il farmaco «Norlevo», per il quale la cliente aveva esibito una ricetta medica, rilasciata con l'espressa indicazione di assumerlo nella stessa giornata. Il pubblico ministero aveva chiesto il riconoscimento delle attenuanti generiche e la condanna alla pena di quattro mesi di reclusione, coi benefici di legge. I giudici hanno invece optato per l'esclusione della punibilità della condotta. «Dopo tre anni di procedimento penale - afferma Pillon in una nota - con tutto quello che ciò può comportare in termini personali, familiari e professionali, la nostra assistita ha visto riconosciute le sue sacrosante ragioni, conformemente a quanto previsto dall'articolo 3 del codice deontologico dei farmacisti che recita Il farmacista deve operare in piena autonomia e coscienza professionale conformemente ai principi etici e tenendo sempre presenti i diritti del malato e il rispetto per la vita». La pronuncia di assoluzione dei giudici isontini apre un nuovo fronte. Secondo l'interpretazione più diffusa fino a ieri, la pillola del giorno dopo non ricadrebbe tra i farmaci e le pratiche per le quali è consentita l'obiezione di coscienza in quanto si tratta di un dispositivo anticoncezionale e non abortivo. Ciò nonostante quello di Gorizia non è il primo caso in Italia. I più frequenti precedenti conosciuti avevano finora riguardato i medici al momento delle prescrizione, alcuni anche i farmacisti al momento della consegna. Erano prevalentemente risalenti a prima della primavera dell'anno scorso, quando per la pillola del giorno dopo è caduto l'obbligo della ricetta, quantomeno per le maggiorenni: l'Italia si è adeguata alla direttiva europea che liberalizzava la richiesta in farmacia. Il provvedimento riguardava proprio il medicinale Norlevo, perché già altri (la cosiddetta pillola dei cinque giorni dopo) erano vendibili senza ricetta. In passato alcune associazioni femminili avevano denunciato casi di giovani costretti a chiamare i carabinieri per poter comprare il medicinale, a fronte del rifiuto di farmacisti che spiegavano anche le possibili conseguenze collaterali. Ma non si era mai arrivati a un'incriminazione. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Noi europei e le paure da vincere di Aldo Cazzullo L’attacco alla Francia il 14 luglio, festa laica della libertà, dell’uguaglianza, della fraternità. L’attacco al Natale in Germania, il mercatino, le luci, le bancarelle, la gioia di condividere e stare insieme. Un attacco alla civiltà europea. L’anno scorso al Bataclan morirono ragazzi di 19 Paesi diversi, tra cui un’italiana: Valeria Solesin, 28 anni. A Berlino un’altra famiglia dispera per un’altra giovane donna: Fabrizia Di Lorenzo. L’Europa non è quella che vorremmo. È una sovrastruttura burocratica che fa a volte da moltiplicatore della crisi, a volte da capro espiatorio. Ma l’Europa esiste. E se a definirla non riusciamo noi europei, provvedono i nostri nemici. La libertà delle donne, la democrazia, il sentimento cristiano, la convivenza tra le religioni sono valori che fanno ormai parte delle nostre coscienze, ma rendono gli integralisti islamici feroci sino al sangue. L’Europa del resto è nata dalla più grande tragedia della storia, la seconda guerra mondiale. In un contesto ovviamente diverso, in una capitale-simbolo come Berlino, all’ombra dei resti della chiesa dell’imperatore Guglielmo ribattezzata chiesa della pace, l’Europa si ritrova nel dolore, riconosce se stessa nella volontà di resistere e di reagire. Ma come? È fondamentale tenere i nervi saldi. Non chiudersi in casa. Vivere il Natale nella dimensione spirituale e familiare, delle chiese e anche dei mercatini. Non negare le nostre paure, ma con le nostre paure imparare a convivere, sino a vincerle. Nello stesso tempo, lo spirito irenico con cui una parte dei media e della rete minimizza gli attentati non aiuta né a capire, né a sconfiggere gli attentatori e i loro mandanti. La

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tesi del lupo solitario, del pazzo isolato non regge più. Saranno anche solitari e pazzi, o meglio plagiati; ma agiscono con una strategia ben precisa, seguendo ordini, seminando terrore. Li anima l’odio per il cristianesimo, nella versione aperta e dialogante uscita dal Concilio, riconciliata con il liberalismo, i diritti dell’uomo, la separazione tra Stato e Chiesa. Il martirio di Berlino è doloroso, come quello di padre Jacques Hamel, sgozzato sull’altare nella sua chiesa vicino a Rouen; ma è ancora più terribile la persecuzione vissuta dai cristiani in Medio Oriente, in Egitto, nel Darfur, nel Nord della Nigeria e in altre zone dell’Africa subsahariana. Tra gli obiettivi del terrorismo c’è quello di indurci a isolare l’Islam europeo, a diffidare in blocco degli immigrati di prima e seconda generazione, a trattarli con maggior durezza in modo che sia più facile radicalizzarli per i predicatori del male. È una trappola in cui non dobbiamo cadere. Immigrazione e terrorismo sono due fenomeni diversi. Ma è fondamentale che i musulmani di casa nostra condannino sempre e a chiara voce la violenza, senza ambiguità. Ed è importante porsi questioni e cercare soluzioni, senza per questo essere tacciati di islamofobia o xenofobia. L’Italia non ha avuto un impero coloniale vasto e duraturo come quello francese e britannico. A differenza della Germania, ha costruito il suo sviluppo industriale con le migrazioni interne e non facendo arrivare milioni di turchi (e poi iraniani e pachistani). Il suo Islam l’Italia se lo sta costruendo in questi ultimi decenni. Ma non scegliendolo; subendolo. Attraverso l’immigrazione clandestina. Non c’è dubbio che la stragrande maggioranza dei migranti voglia solo sfuggire alla guerra e alla fame. Ma in queste condizioni far entrare in Italia quasi mille stranieri al giorno, senza saper bene che farne, è alla lunga insostenibile. Dobbiamo continuare a salvare vite, e a essere orgogliosi dei volontari che lavorano per l’accoglienza. Dobbiamo impedire forme di sfruttamento e di arricchimento ai danni dello Stato. Ma soprattutto dobbiamo far intervenire l’Ue. L’Europa, unificata dal dolore, deve scendere in campo. Soccorrere i profughi siriani e delle altre guerre. Rimpatriare chi non ha diritto all’asilo. Stroncare il traffico degli scafisti, moderni negrieri, padroni della vita e della morte di donne e bambini inermi. Riprendere il controllo dei porti libici, sostenendo l’embrione di Stato che faticosamente si sta creando. Non sono cose che si fanno in poco tempo; ma di tempo in inutili vertici se n’è perso sin troppo. Incalzare i governanti, e superare la paura: non c’è altra strada. Lo dobbiamo a Valeria Solesin, a Fabrizia Di Lorenzo, alle ragazze di una generazione con cui l’Italia è stata poco generosa - quanto infelice suona oggi la frase del ministro Poletti -, ma che non hanno piagnucolato, si sono date da fare, hanno studiato all’estero. Il loro percorso è stato interrotto. Non erano eroine; si sono trovate, se le prime notizie avranno conferma, al posto sbagliato nel momento sbagliato. Ma altre ragazze seguiranno le loro orme, si metteranno in gioco, studieranno, ricercheranno; e costruiranno quell’Europa dei popoli e dei valori che il terrorismo islamico vorrebbe distruggere. Pag 1 L’orgoglio rischioso di Angela di Danilo Taino Merkel più debole In discussione è la stabilità della Germania. Forse, ancora di più, quella dell’Europa. L’attacco del terrorismo di lunedì sera al mercatino di Natale nel centro di Berlino Ovest è destinato a rendere meno scontata la vittoria di Angela Merkel alle elezioni del prossimo autunno, in qualche modo a fare vacillare la politica tedesca. Il Paese, in realtà, è solido e per il momento appare unito: sarebbe probabilmente in grado di ritrovare un equilibrio persino se le onde provocate dall’attentato dovessero sommergere la cancelliera. Con qualche difficoltà, la Germania un’alternativa a Merkel la troverebbe. Non si può invece dare per scontato che lo stesso valga per l’Unione Europea se questa dovesse perdere il centro di gravità che l’ha tenuta unita in questi anni di crisi molteplici: Frau Merkel, appunto. Ieri, la leader tedesca ha fatto una dichiarazione succinta ma chiara per quello che ha detto e per quello che ha evitato di dire. Il Paese «è una società aperta che rifiuta di vivere nella paura». Nessuna chiusura. E nessuna parola per indicare che fa un passo indietro rispetto alla politica di accettazione dei profughi che hanno diritto all’asilo. Anzi, ha sostenuto che se a compiere l’attentato fosse stato un rifugiato il fatto sarebbe particolarmente «disgustoso», di fronte all’impegno di tanti tedeschi a favore dei migranti nei mesi scorsi. La difesa di un orgoglio. La politica della porta aperta a chi fugge dalle guerre e dalla tirannia rimane. La cancelliera non torna

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indietro. La situazione politica tedesca, però, da ieri è improvvisamente cambiata. Oggi, Merkel è più vulnerabile. La reazione emotiva degli elettori ci sarà e si potrà misurarla nei prossimi giorni. Le elezioni sono comunque ancora lontane e le possibilità di stemperare gli effetti dell’attentato non mancano. Ma dipenderà in gran parte dalla risposta che la leader tedesca stessa e gli alleati daranno. Già ieri, il numero uno della Csu (il partito gemello della Cdu di Merkel in Baviera), Horst Seehofer, le ha chiesto di cambiare politica sui rifugiati: «Lo dobbiamo alle vittime», ha detto. La frattura tra i due partiti storicamente legati dura da mesi e se non sarà ricomposta in fretta si allargherà seriamente. Prima delle elezioni federali, probabilmente il prossimo settembre, si terranno tre tornate elettorali regionali tra marzo e maggio, che la cancelliera non può permettersi di perdere se vuole arrivare all’appuntamento decisivo con la possibilità di essere confermata a capo del governo per la quarta volta. A rendere più difficile la ricomposizione (indispensabile per vincere) tra Cdu e Csu è la presenza alla loro destra del partito anti-immigrati Alternative für Deutschland che ieri ha violentemente attaccato Merkel, accusata di mentire sulla sicurezza in Germania. Finora, era dato attorno al 12% dei consensi, ma se sull’onda dell’attentato dovesse salire nei sondaggi potrebbe aprire il solco tra i due partiti cristiano-democratici e soprattutto mettere in dubbio l’invincibilità della cancelliera. Che sarà anche indebolita se le forze dell’ordine non riusciranno in fretta a stabilire le responsabilità nell’attentato e a dare ai cittadini un maggiore senso di sicurezza. Anche in Europa, la posizione di Frau Merkel è più debole. La sua leadership dipende soprattutto dalla forza effettiva che ha in casa, nel Paese più forte e più stabile del continente. È grazie a essa che in questi anni ha gestito, pur tra molte critiche, la crisi dell’euro e della Grecia, ha tenuto uniti i partner della Ue sulle sanzioni alla Russia di Putin, ha mantenuto aperto un colloquio di un qualche rilievo (in un quasi deserto degli europei) con la Washington di Barack Obama. Se la sua posizione interna si indebolisce, anche la centralità europea della leader è destinata a svanire. Ognuno troverebbe più facile dirle di no nelle nottate di Bruxelles. Ognuno troverebbe più facile attaccarla in campo aperto. Che si tratti dei nazionalisti al governo in alcuni Paesi dell’Est o della Mosca di Vladimir Putin che vorrebbe vederne la fine politica, le forze che spingono per la divisione dell’Europa potrebbero uscirne vincenti. A maggior ragione se la nuova Casa Bianca di Donald Trump abbandonasse il pilastro atlantico che ha funzionato da architrave della sicurezza europea. I prossimi giorni e settimane saranno dunque di grande importanza. Per la Germania ma ancora di più per la Ue, che sarebbe infinitamente più debole con una Merkel sminuita o impotente. La signora è ancora forte ma non è più scontata. All’Europa resta però indispensabile. Pag 32 La politica non può ridursi a campagna elettorale di Marco Cianca Al voto, al voto. Le elezioni come catarsi. Voglia di sprigionare ansia, paura, rabbia. Un bagno purificante e rigeneratore. Desiderio di punire chi governa, chiunque esso sia, nella convinzione che tutto è sbagliato, tutto è da rifare. Ogni giorno che passa senza che si aprano le cateratte del suffragio popolare, rende le acque più torbide e mugghianti, facendole affluire nei mulini di chi propugna l’avvento della Terza Repubblica. Ammesso che quella attuale, datata con la nascita di Tangentopoli, sia la Seconda. Ogni invito alla ragionevolezza, alla calma, alla prudenza è letto come un atto di viltà o il retropensiero di chi non vuole abbandonare anche solo una parvenza di potere. Tutto è sporcato. La cosa pubblica diventa la cosa lorda. È la politica, sinonimo di corruzione e di sopraffazione, a essere vista come mefistofelico tradimento degli interessi, generali o particolari che siano. I moralisti concionano, i populisti gridano, i riformisti balbettano, i moderati tentennano, i novelli tribuni della plebe esultano. La logica e la coerenza sono rovesciate. Chi voleva abolire il Senato ne invoca la fiducia per «senso di responsabilità». Chi ha difeso la Costituzione a spada tratta, ne fa strame parlando di «governo degli sconfitti» e svillaneggia il Parlamento, che, come prevede la suprema Carta, vota la fiducia all’esecutivo, il quale resta in carica finché ha una maggioranza che lo sostiene. Può essere criticato ma non lo si può tacciare d’illegittimità e di minorità. E il presidente della Repubblica, come prescrive il dettato costituzionale, non può comportarsi diversamente da quel che ha deciso, con saggia consapevolezza, precipuo rispetto delle Istituzioni e pacata determinazione, Sergio Mattarella. Che doveva fare? Sciogliere le Camere perché 19 milioni e mezzo d’italiani hanno votato no

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al referendum? E mandare al confino gli altri tredici milioni e mezzo che hanno scelto il sì? I predicatori del Grande Cambiamento sembrano invocare un colpo di Stato. Al voto, al voto. Persino l’idea della legge elettorale, qualunque essa sia, è giudicata con sospetto. Forse non serve nemmeno la scheda, basta entrare nell’urna e gridare basta. Venghino, venghino, alla fiera elettorale. Tre palle, un soldo. E come le tricoteuses che sferruzzavano sotto la ghigliottina durante la Rivoluzione francese, gli italiani aspettano di vedere quali altre teste verranno mozzate, virtualmente, s’intende. La democrazia si trasmuta in una sorta di danza macabra, un rito collettivo di punizione e di espiazione. Va avanti così, dalla caduta del muro di Berlino e dall’arresto di Mario Chiesa, in una lunga transizione che è diventata una palude. Matteo Renzi, l’aspirante tiranno, dopo Bettino Craxi e Silvio Berlusconi, è caduto, almeno per il momento. Avanti un altro. Beppe Grillo o Matteo Salvini? Così diversi, eppure così simili. Sono gli alfieri dell’antipolitica, che ormai si è fatta a sua volta politica. Danno voce alla pancia del Paese. Sono contro l’Europa, contro le banche, contro ogni forma di establishment, contro l’ondata immigratoria. Potrebbero persino allearsi, in nome di quell’oclocrazia, il governo delle plebi, che è stata evocata in questi giorni citando Polibio. E il Partito democratico? Aspetta, difende il difendibile. Con grande fatica. Nei giorni del dibattito sul governo Gentiloni, anche l’acronimo Pd è stato oggetto di sberleffo: non Partito Democratico ma Poltrone e Divani. Il congresso è rinviato, il confronto delle idee sopito. La minoranza continua a promettere battaglia, anche se è difficile capire come si possa stare nella stessa comunità quando si è brindato per la sconfitta del proprio segretario. Ma tant’è. La consapevolezza di essere percepiti come quelli dei quartieri alti sembra comunque essersi fatta strada. Dove porterà, è difficile prevederlo. Giovani, disoccupati, ceto medio impoverito, periferie dimenticate, Sud ripiegato su se stesso: un composito blocco sociale nel quale appare arduo riconquistare il consenso perduto. Siamo in piena campagna elettorale. Una campagna elettorale continua, senza soluzione di continuità. Al voto, al voto. Chi resiste è perduto. Bisogna scrivere un nuovo capitolo di quella che Piero Gobetti, a proposito del fascismo, chiamava autobiografia di un popolo. La trama è ancora incerta e confusa, persa nel labirinto delle non verità. LA REPUBBLICA Pag 13 L’Europa e l’ombrello del Quirinale su Gentiloni di Stefano Folli Possiamo supporre che a Matteo Renzi peraltro assente - non sia piaciuto granché il discorso di Sergio Mattarella di fronte alle alte cariche dello Stato, forse il più importante pronunciato fin qui dal presidente della Repubblica. Nessuna polemica verso l'ex premier, è naturale. Ma uno stile e una sostanza che contraddicono l'ansia tipicamente renziana di correre al voto anticipato appena possibile. Lo stile, come è logico, è quello personale di Mattarella: misurato, rassicurante e mai sopra le righe, semmai sotto. La sostanza è un sostegno senza riserve al governo Gentiloni, il quale andrà avanti con il suo programma fin quando avrà la fiducia delle Camere. È una frase in sé ovvia e anche il neopresidente del Consiglio l'ha ripetuta in Parlamento nei giorni scorsi: segno che esiste un serio accordo, persino lessicale, fra lui e il Quirinale su questo punto. In definitiva, il governo Gentiloni avrà molto da fare nel 2017. Tra l'altro dovrà favorire la ricerca di una nuova legge elettorale, sulla quale è opportuno che si realizzi una maggioranza più ampia di quella che sostiene il governo. Torna l'insistenza sulla necessità di rendere coerenti il modello per la Camera e quello per il Senato. E anche qui piena sintonia con il presidente del Consiglio, il quale intende solo "accompagnare" il lavoro del Parlamento in vista dell'intesa sul dopo-Italicum. Si capisce fin troppo bene che l'era dei voti di fiducia sulle riforme elettorali è tramontata. Forse non è stato un caso che il proporzionialista Berlusconi fosse presente nel grande salone, in vena di cordialità nonostante Vivendi. Cordialità verso Gentiloni e generoso di parole mai sentite prima anche rispetto ai governi di Romano Prodi, il quale "ha fatto bene, a parte le tasse". Perciò non sorprende la chiosa del centrista Lupi alle parole del capo dello Stato: sulla riforma elettorale è bene comunque cominciare dalla maggioranza esistente, quella governativa. Come dire che i centristi stanno in guardia, temono di essere i vasi di coccio fra i vasi di ferro, leggi Pd e Forza Italia. S'intende, Mattarella non ha detto nulla da cui si possa dedurre un'opposizione in linea di principio alle elezioni anticipate. Il Parlamento è sovrano e può decidere di togliere la fiducia all' esecutivo in qualsiasi

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momento. Il punto è che una tale decisione comporterebbe un prezzo da pagare, forse anche oneroso. Ci sono infatti delle responsabilità internazionali a cui l'esecutivo deve far fronte in primavera, primo fra tutti il vertice del G7 in Italia. In teoria si può far tutto presto e bene in modo da votare in giugno. Tuttavia il realismo impone di essere prudenti circa la data, anche per non minare la stabilità indispensabile in questa fase e di cui il governo Gentiloni, nelle intenzioni del Quirinale, è l'emblema. C'è poi un punto a cui il capo dello Stato non poteva accennare, se non in via assai indiretta, ma che è parte del quadro complessivo. Con l'operazione Montepaschi in corso e i conti pubblici ancora sotto esame, l'Italia non è nelle condizioni di sottovalutare le indicazioni dell'Europa, o per meglio dire della Germania. Il 2017 sarà un anno elettorale: dall'Olanda alla Francia e infine al paese di Angela Merkel. L'attacco terroristico di Natale dimostra che i rischi per la Cancelliera sono considerevoli. Oggi più che mai la saldezza dell'Europa a ogni livello passa dal destino di questa signora alla ricerca del suo quarto mandato. Logico quindi che a Berlino non si desideri aggiungere instabilità a instabilità. Le elezioni in Italia, con un Renzi indebolito dalla sconfitta referendaria e i Cinque Stelle dilaganti nonostante il disastro di Roma, rappresenterebbero un'incognita per l'Unione e soprattutto per i tedeschi. Un rebus avvolto in un enigma, come diceva Churchill dell'Urss. È un aspetto che nell'Europa interdipendente non può essere trascurato. Ma ovviamente il voto dipende in misura prevalente dalle dinamiche della politica interna. Mattarella ha fatto capire quel che pensa e la sua intenzione di proteggere Gentiloni, capo di un governo che è anche "del presidente". Certo, la composizione del ministero, i nomi e i volti di certi personaggi, hanno provocato polemiche che il capo dello Stato non ha gradito. Tuttavia ora comincia un'altra storia; e ognuno, a cominciare da Renzi, giocherà le sue carte. AVVENIRE Pag 1 La falsa profezia di Alessandro Zaccuri I nemici dell’integrazione ben regolata Mancano le informazioni e forse quelle che ci sono non vengono analizzate nel modo più accurato, ma il motivo che rende così difficile comprendere che cos’è veramente successo a Berlino l’altra sera è un altro. Non riguarda le falle dell’intelligence né le eventuali negligenze degli investigatori. Riguarda, semmai, il fatto che da almeno due anni a questa parte – dalla strage nella redazione parigina di 'Charlie Hebdo', il 7 gennaio 2015 – l’Europa si trova a fronteggiare un nemico invisibile. Meglio, una realtà sfuggente, che assume i connotati del nemico proprio in virtù della propria invisibilità. Se gli attentanti dell’11 settembre 2001 erano ancora il risultato di una struttura verticistica, a suo modo innovativa rispetto al passato ma ancora innestata in una concezione otto-novecentesca del nichilismo terrorista (fra I demoni di Dostoevskij e L’agente segreto di Conrad, per intenderci), l’avanzata del Daesh si è sviluppata lungo una direttrice in gran parte diversa, che si sarebbe tentati di definire “culturale”, non ci fosse il rischio di lusingare eccessivamente la retorica dei tagliagola. Ma è fuor di dubbio che la macchina propagandistica del sedicente Stato islamico abbia puntato, fin dall’inizio, alla diffusione di una mentalità ben riconoscibile, tanto raffinata nell’involucro mediatico quanto semplificata nei contenuti, riducibili alla rozza contrapposizione noi contro loro così ingenuamente apprezzata dai populismi dell’Occidente avanzato. Il reclutamento sul campo continua, con i disastrosi risultati di cui rendono conto le cronache da Aleppo. Contemporaneamente, però, si sviluppa una modalità di affiliazione più incontrollabile e sottile, la stessa alla quale allude il politologo Oliver Roy nella sua analisi sull’islamizzazione del radicalismo. Quale che sia l’origine dello scontento, basta trovare rifugio sotto le bandiere nere del Daesh per illudersi di ottenere una qualche legittimazione. Per ottenere, quel che è peggio, l’attenzione di un’opinione pubblica che davanti a quelle stesse bandiere non riesce a reagire se non con gli strumenti della rivalsa e del panico morale. Non sappiamo ancora che cosa sia esattamente accaduto a Berlino, né ci appare chiara la dinamica dell’uccisione dell’ambasciatore russo ad Ankara, ma entrambe le parate di morte finiscono per inserirsi nella stessa danza macabra che da Parigi si è snodata a Bruxelles, a Nizza, a Rouen, a Istanbul, in diverse località della Germania. Non serve più neppure la rivendicazione, ormai. È il nemico invisibile che ogni volta torna a colpire, e proprio da questo lo si riconosce: dal fatto che non lo si può

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guardare in faccia. C’è una strategia in tutto questo? L’impressione è che sì, una strategia ci sia, ma si manifesti in modo pressoché spontaneo. Una mossa si aggiunge all’altra senza che sia stato impartito alcun ordine, le motivazioni personali – non di rado meschine – si mescolano ai deliri geopolitici, rispetto ai quali il richiamo perverso alle tradizioni religiose riveste il ruolo di una profezia auto-avverante. Si evoca il disastro nello stesso momento in cui lo si provoca, vantandosi intanto della previsione. In ogni caso, se proprio si volesse tentare di decifrare le tracce di un disegno, non si potrebbe fare a meno di notare come l’insistenza con cui dall’estate in poi è stata bersagliata la Germania vada a colpire, in sostanza, il progetto di integrazione ben regolata coraggiosamente sostenuto dalla cancelliera Angela Merkel. Da sempre il noi con loro è l’avversario più temibile del noi contro loro, la smentita più clamorosa di ogni falsa profezia. Che tutto questo accada alla vigilia del Natale, la festa cristiana che celebra nell’Incarnazione la caduta della barriera fra umano e divino, potrebbe anche non essere soltanto una coincidenza. Pag 3 Senza Dio né fede chi uccide per Allah di Asmae Siria Dachan C’è un patrimonio di fratellanza tra le fedi che va tutelato Quella del 2016 sarà ricordata anche come una vigilia di Natale all’insegna del dolore e dell’angoscia. Gli occhi del mondo sono puntati su Aleppo, la martoriata città siriana che sta vivendo il peggior momento della sua millenaria storia. Sembra che la macchina della diplomazia internazionale sia inceppata e incapace di garantire il rispetto dei diritti umani e la tutela dei civili, mentre quella del terrore, purtroppo, è ancora drammaticamente attiva. In Siria come in Germania. L’attentato a Berlino, che ha colpito civili ai mercatini tradizionali, è un colpo al cuore dell’Europa e dell’umanità intera. L’ennesimo, vile e spregiudicato atto di sangue dai contorni ancora poco definiti, che ha provocato un unanime moto di indignazione e che solleva molteplici interrogativi. Perché, perché, ci si chiede, un uomo o un gruppo di uomini decidono deliberatamente di togliere la vita a innocenti che nemmeno conoscono? Odio, fanatismo? Nell’ultimo ventennio il terrorismo ha colpito in tutto il mondo e lo ha fatto, sempre più spesso, strumentalizzando il nome e i significati della religione islamica, diventata, per i criminali internazionali, la ragione e il fine delle loro violenze. Chiunque creda, chiunque abbia una coscienza, si chiede se davvero il terrorismo può avere una religione, se esista realmente un Dio che ordina di sterminare innocenti in suo nome e che promette il Paradiso a chi commette simili barbarie. La retorica estremista continua a fare vittime e al tempo stesso proseliti e a pagarne le conseguenze sono sempre persone inermi. Civili ai mercati, religiosi nei luoghi di culto, lavoratori inermi che muoiono senza pietà in Siria, in Iraq, in Nigeria come a Parigi, Bruxelles e Berlino. Siamo di fronte a quella che Papa Francesco definisce la terza Guerra Mondiale a pezzi. Tutto ciò crea paura, diffidenza, sospetto e provoca atteggiamenti di odio, razzismo e xenofobia. Da un lato innocenti che muoiono, dall’altro innocenti che si trovano ogni volta additati come complici e colpevoli del terrorismo internazionale. Questo circolo vizioso sta scandendo le nostre vite da troppo tempo. Ci si interroga su come prevenire simili fenomeni, su come combatterli e sconfiggerli e il modo migliore si conferma la prevenzione. Non solo in termini di sicurezza, controlli, contrasto alle organizzazioni di fanatici, ma anche e soprattutto in termini di diffusione della cultura della vita e del rispetto dell’altro. Molte delle persone che uccidono in nome di Allah, in nome di Dio, un dio, in realtà non ce l’hanno. Non conoscono nulla della vera fede, non sanno cosa sia la spiritualità, la fratellanza, la misericordia, il pluralismo. Sono indottrinati da maestri di mentalità chiusa, retrograda, misogina e violenta e spesso non hanno altri interlocutori per le questioni religiose. Sono come terreni concimati col veleno, da cui non può che venire altro veleno. Si piange per le vittime di Berlino, si piange per le vittime di Aleppo. Due città lontane fisicamente, ma vicine nella loro storia recente. Oltre un milione di profughi siriani, infatti, hanno trovato accoglienza in Germania negli ultimi anni. Dove condurranno le indagini non si sa, ma la paura non deve impedirci di continuare a lavorare per costruire un’umanità di pace e giustizia. Dobbiamo ricordarci che siamo un’unica, grande famiglia, la famiglia umana e se in un angolo del mondo c’è anche solo un bambino che soffre, l’intera famiglia deve adoperarsi per alleviare le sue pene. C’è bisogno di giustizia per costruire la pace, c’è bisogno di cultura per costruire una società

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del reciproco rispetto. L’avvicinarsi del Natale deve essere per tutti un momento di pausa e riflessione, di festa e di speranza. La nascita di Gesù è una gioia per il mondo cristiano, ma anche per il mondo dell’islam. La maternità della vergine Maria è un miracolo celebrato e condiviso dai fedeli di entrambe le confessioni. I significati e le verità del Vangelo sono riconosciuti e adorati sia da cristiani sia da musulmani. Ci sono molte differenze tra le due religioni, come anche con l’altra confessione abramitica, l’ebraismo, ma ci sono anche punti fondamentali in comune ed è da lì che bisogna ripartire. L’amore per il Dio unico, per Gesù e per Maria deve essere un punto di unione tra le due sponde del Mediterraneo, dove la religione cristiana affonda le sue radici e le sue tradizioni. In Siria si parla ancora l’aramaico, la lingua di Gesù. Anche questa ricchezza è minacciata oggi. C’è un patrimonio di devozione e fratellanza che va riscoperto, tutelato. Ora più che mai. Pag 3 Ma esistere è esistere insieme di Ferdinando Camon La morte, la Nascita di Gesù, la nascita di due gemelli Non sentono il Natale coloro che portano la morte a Natale: Ankara, Berlino. Il guidatore del Tir che ha fatto la strage a Berlino, dicono le indagini, non sapeva guidare, ha girato la chiave tre volte per mettere in moto il motore, poi avanzava con gli occhi fissi sulle persone da colpire. Come a Nizza. Il Tir di Nizza di comportava come uno squalo nel mare: lo squalo avanza a bocca spalancata, va dove vede nuvole di pesciolini. Così il Tir di Berlino: voleva travolgere i mercatini, perché nei mercatini si radunano crocchi di persone, lui le guarda e le investe. Da ieri, quando leggo che uno vuol far del male e guarda in faccia la vittima, penso alla lettera pubblicata su un giornale da una ragazza che è stata violentata e ha rivisto il suo violentatore al processo: adesso lui teneva gli occhi bassi, scrive la ragazza, ma quando mi violentava mi guardava con occhi negli occhi: «Feroce: cercava la mia anima». Non era la violenza di un fuori di sé, incapace d’intendere e di volere: quelli occhi che cercano l’anima sono gli occhi di uno che 'vuole' farti del male. Il tuo male è il suo bene. Anche i guidatori del Tir di Nizza e del Tir di Berlino guardano le vittime. L’idea che ce ne facciamo è che 'vogliono vederle morire'. È un’idea che ci fa soffrire, sotto Natale è intollerabile. Il Natale ricorda la Nascita e quindi la nascita. La Nascita che fonda la nostra storia, e la nascita che fonda la nostra vita. Nella società è la festa del Bambino, nelle famiglie è la festa dei bambini. I bambini che nascono siamo noi che rinasciamo. Il Natale di Gesù è la festa della nostra immortalità. La nascita è qualcosa che noi uomini non sappiamo bene che cosa sia, lo sanno meglio le donne. Ho qui davanti un articolo che ho scaricato ieri da un giornale on line (oggi non lo vedo nell’edizione su carta, pensavano forse che non interessa alla gente? Errore), che spiega – lo so che la cosa non è nuova, ma colpisce sempre – come la nascita di un figlio cambia il cervello della madre, modifica la corteccia e il rapporto tra i neuroni. Sono convinto che non succede soltanto agli umani. L’orsa Dàniza aveva un altro cervello, dopo che le erano nati i due orsacchiotti, e da mite camminatrice dei boschi era diventata una guerriera armata. L’ha ben capito il cercatore di funghi che se l’è sentita addosso. La maternità aveva infuso nel cervello della madre-orsa un’idea che prima non c’era: «Ho fatto due vite che valgono più della mia». La nascita è l’evento per il quale una vita superiore si genera da una vita inferiore. Il generato è più del generante. È per questo che il figlicidio è snaturato, va contro ogni natura, anche animale. Abbiamo bisogno che il Natale ci ricordi questa verità, ce ne dia consapevolezza. Quando s’avvicina il Natale, cerchiamo inconsapevolmente notizie sul senso della nascita. Questo Natale resterà nel mio ricordo per una di queste notizie, che temo i miei lettori non abbiano visto, perché è apparsa on line ma non su carta. Era un video, brevissimo, di una nascita. Una doppia nascita. Due gemelli. I due gemelli vengono alla luce, un’ostetrica li prende e li depone su un lettino, prima uno e poi l’altro. Quello che afferra per secondo resta per un attimo da solo, e brancola impaurito con le manine. Quando vien deposto accanto al fratello, compie una manovra imprevista: alza il braccio destro, lo ruota in alto, e lo cala alla propria sinistra sopra il gemellino. L’ostetrica lo aiuta, alzandogli e abbassandogli la mano. Quando ha la mano calata, il piccolo si quieta. La mia idea di maschio, negato-al-parto, è che il secondo fosse abituato al contatto col primo, e voleva ristabilirlo immediatamente. Nato fratello, ha bisogno del fratello. In lui

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la coscienza di 'esistere' è fusa con la coscienza di 'esistere insieme'. Che lezione per l’umanità! Pag 3 Lo spot sulla morte in diretta, il mondo sta impazzendo di Giacomo Poretti E’ necessario riflettere sul fatto che nulla vale più delle nostre compere La sera scorsa ho appreso da internet che ad Ankara era stato ucciso l’ambasciatore russo. In rete, infatti, era stato immediatamente diffuso il video dell’omicidio in diretta. Era lì, a disposizione di un clic sul mio desktop: non ho saputo resistere alla morbosità di una morte che si mostrava reale e disponibile, ho pigiato il mouse, dopo nemmeno un secondo è apparsa su fondo scuro la scritta: «Attenzione! Le immagini che seguono non sono adatte a un pubblico particolarmente impressionabile». Quel cartello nero mi ha impressionato e ha scatenato definitivamente la mia curiosità. Attendevo eccitato il volto di una persona, inconsapevole, la cui vita sarebbe stata spazzata via da una pallottola, forse speravo di poter leggere l’angoscia che passa negli occhi in quei centesimi di secondo prima che si spenga la coscienza, forse speravo di vedere lo smarrimento, o chissà che cos’altro si prova quando un proiettile ti arriva nella schiena: si riesce a capire che si morirà, si ha il tempo di chiedere aiuto, ce la si fa in quei pochi attimi a pentirsi, a rammaricarsi, a gioire, a disperarsi? Invece è apparsa sul monitor, accompagnata da una musica glamour, una pubblicità. Ho dovuto controllare con un po’ di rassegnazione la mia stizza, perché una scritta in basso mi spiegava che avrei potuto ignorare l’annuncio dopo 15 secondi, dopodiché mi sarebbe stata concessa una doppia scelta: o cliccare sopra a 'Salta annuncio' e andare direttamente al filmato dell’assassinio oppure finire di guardare il filmato pubblicitario. Ho scelto di saltare l’annuncio, ma oramai ero distratto. «Signore e signori, il profumo Tal dei tali ha il piacere di presentarvi... 'L’assassinio dell’ambasciatore'». «Grazie all’automobile Caio e Sempronio vi trasmetteremo ora... 'La strage del mercatino di Natale'». «La pasta trafilata con oro e diamante ha il piacere di svelarvi 'La lite di Brunetta con la brunetta'». Ogni accadimento, tragico, tragicomico o insignificante ha la sua sponsorizzazione, e ogni acquisto consigliato ci ricorda che nulla vale più delle nostre compere, del nostro mondo patinato di benessere, della nostra economia che – ce lo ricorda papa Francesco – arriva a uccidere. Dopo questo uragano di emozioni in così pochi istanti: il senso di colpa per la morbosità, l’eccitazione inquieta per lo spettacolo della morte in diretta, lo strano conforto che sia morto un altro e non io, sospetto che non ci sia più la possibilità di esercitare lo spirito critico nei confronti del 'maggiordomo' che introduce la notizia. Viene addirittura il sospetto che il maggiordomo ci insinui un altro pensiero inquieto: che il mondo reale è quello che ci turba, noi invece abbiamo tanto bisogno di essere rassicurati dall’attesa del nostro piatto di pasta, mentre usciamo profumati da una bella auto. Mi chiedo se valga la pena di soffermarsi seriamente a meditare sul solito lamento qualunquista che si leva tutte le volte che accade qualche cosa di tremendo che non sappiamo spiegarci: «Il mondo sta impazzendo». Pag 9 Le “scelte” di Erdogan consegnano il Paese in mano allo zar Putin di Giorgio Ferrari Non è difficile immaginare la solitudine che avvolge in queste ore cupe Recep Tayyp Erdogan, l’autocrate che voleva farsi re e che è divenuto ostaggio della propria “hybris”, del proprio sgomitare nel turbolento scacchiere mediorientale, costretto dalla sua stessa sventatezza a farsi complice e sodale sotto ogni aspetto dell’altro più potente e astuto autocrate, quel Vladimir Putin che da Mosca vigila e determina il suo destino. Una solitudine corrusca che fa pensare al Macbeth prigioniero delle proprie scelte e impossibilitato a tornare indietro. Sono lontani i tempi in cui il trionfatore delle elezioni politiche si poneva come arbitro del mondo islamico sunnita, gettando il suo sguardo che lampeggiava di nostalgie ottomane fino al lontano Sudan. Perché è fino al Corno d’Africa che Erdogan guardava, aspirando a divenirne il califfo e il lord protettore, arbitro e demiurgo dei destini dell’Iraq, della Siria, del Libano, con buoni rapporti con l’Egitto di Mubarak e poi di Morsi e con un unico vero nemico, Israele. Ma erano sogni. Sogni di grandezza che quel politico acclamato e amatissimo, protagonista di una rinascita economica e sociale senza eguali, dispensatore di consenso e di benessere, idolo della

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classe media che lo lodava a Istanbul e a Smirne così come della profonda Anatolia che ne riconosceva il carisma, tesseva giorno dopo giorno, immaginandosi ora un “bey” selgiuchide, ora un raiss moderno, ora una replica dell’ultimo sultano Mehmet VI. Non senza picconare, anno dopo anno, decreto dopo decreto il quasi centenario edificio kemalista su cui la Turchia moderna uscita dalla rovina dell’impero all’indomani della Prima guerra mondiale aveva ripreso il passo con la Storia. Prima i militari, quindi i magistrati, infine i curdi: l’Akp di Erdogan vinceva e travolgeva, normalizzava e mutava la fisionomia del Paese, modernizzandolo e insieme sospingendolo verso un confessionalismo sempre più evidente il cui nemico assoluto era il laicismo che fino ad allora aveva imperato. Al culmine della sua parabola Erdogan proclamò il suo credo: «Nessun problema con nessun vicino», ammannendo amicizia, liberalità, complicità. Ma tutto è andato storto. A cominciare dalle relazioni internazionali, per finire con la guerra civile a bassa intensità che si svolge tuttora nel vasto Paese anatolico. Dichiararsi nemico giurato dell’alauita Assad (uno sciita, come sciiti sono gli iraniani, gli hezbollah libanesi dello sceicco Nasrallah, come sciita è una porzione dello Yemen e del Bahrein), convinto che un fronte sunnita spalleggiato dagli Stati Uniti, dal Qatar e da Riad avrebbe avuto vita facile nello spodestare il rais di Damasco è stato il primo letale errore di Erdogan. Dalla sponda turca fluivano denaro, armi, guerrieri e in cambio si facevano entrare profughi e petrolio di contrabbando a basso costo. In compenso Assad non cedeva, Aleppo e certi quartieri di Damasco diventavano delle copie imbruttite di Grozny, il Medio Oriente si irrigidiva invece che applaudire: il sultano stava uscendo dal binario. Fino a quando – mossa dall’unico intramontabile appetito che è proprio delle grandi potenze, quello dell’espansione imperialista – la Russia di Putin sbarcava, boots on the ground, sul suolo siriaco. Offriva armi, eserciti, navi, aerei per chiudere la partita con il Daesh e con la ribellione finanziata dall’Occidente e da Erdogan e ottenere – come ha ottenuto – una enclave permanente nei mari caldi. Una partita che ha costretto l’uomo forte di Ankara a sottomettersi, dopo aver fatto abbattere un aereo (o due) con bandiera della Federazione Russa. A colmare il cumulo di errori del raiss arriva poi quel golpe da operetta in cui soccombono migliaia fra poliziotti, funzionari quadri dell’esercito, magistrati e – certo non si potevano tralasciare – giornalisti e intellettuali. E insieme al drastico giro di vite contro i golpisti e i seguaci (veri o immaginati) di Gülen, ecco gli attentati a decine, la diaspora curda, la vendetta del Daesh, i canali misteriosi e inafferrabili che armano mani imponderabili, come quella del ventiduenne Mert Altintas, lupo solitario o jihadista che sia. Ma non sarà il brutale omicidio dell’ambasciatore russo a turbare i rapporti fra Mosca e Ankara: troppo interessate l’una all’altra per spezzare quel legame. Men che meno conviene a Erdogan: dietro il pugno di ferro del presidente si cela la fragile solitudine del sultano che è riuscito nella missione quasi impossibile di litigare con tutti i vicini, perdere la fiducia della Nato e il treno per l’Europa. Guadagnandosi solo un guinzaglio made in Russia. CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Il sudario non ha tasche di Massimo Mamoli I poveri e noi Povertà rimossa. Sarebbe fin troppo facile liquidare eticamente il caso Venezia. Facciamo un breve passo indietro. Il sindaco Luigi Brugnaro propone un piano anti degrado che prevede di spostare le mense dal centro di Mestre per realizzare un’unica cittadella della carità. Facendosi in questo interprete anche di una parte del senso comune dei residenti. Il patriarca, Francesco Moraglia, esplicita tutto il dissenso della Chiesa, e bolla la proposta: «Crea emarginazione, alza delle barriere». Cerchiamo di capire. Venezia diventa il paradigma di un problema vecchio come il mondo. Il reiterato processo per mezzo del quale nel corso dei secoli abbiamo cercato di toglierci i poveri dalla coscienza. Citiamo Plutarco per efficacia: «Lo squilibrio tra ricchi e poveri è il morbo più antico e fatale delle repubbliche». E i problemi che sorgono dalla millenaria compresenza di abbondanza e miseria, in particolare la convinzione che le grandi fortune sono giustificate in presenza di sfortune altrui, sono stati, come osservò Kenneth Galbraith nella sua «Arte di ignorare i poveri» una preoccupazione intellettuale (e politica) da sempre. Continuano ad esserlo tutt’oggi. E alla fine, quando tutto il resto fallisce, ricorriamo alla semplice rimozione. È una tendenza psicologica che in misura e forme

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diverse è comune a molte delle nostre percezioni. Fa sì che evitiamo di pensare alla morte. O alle domande sul senso ultimo dell’esistere. Anche la Chiesa, intesa come popolo di Dio, non ha avuto un percorso lineare e univoco, a cominciare dal suo linguaggio. È stato indubbiamente papa Francesco, con tenacia e movimentismo, a ridare spinta, nel lessico non solo nei gesti, al prepotente ritorno all’opzione preferenziale degli ultimi dopo mezzo secolo di affermazione e rimozione. Non si vedeva in maniera così incarnata nei tempi contemporanei. Bisogna risalire alla frase profetica pronunciata da papa Giovanni l’11 settembre del ‘62, a un mese dall’inizio del Vaticano II quando disse che la Chiesa vuole essere «la Chiesa di tutti, ma soprattutto la Chiesa dei poveri». Ma il tema, se escludiamo qualche «visionario», come ad esempio nella città del Santo la figura di Giovanni Nervo, fondatore della Caritas italiana e della Fondazione Zancan, o l’impegno sociale dei vescovi latinoamericani e della teologia della liberazione, con tutte le sue ricadute politiche tra luci e ombre, passò gradualmente in secondo piano nel magistero e nella predicazione. Sostituita da una mobilitazione che nel nome di un civismo religioso anche la Chiesa accettò di chiamare «volontariato»: come se la sua immedesimazione nel destino del povero non fosse la sola via per collocarsi sull’asse teologico della storia. (Se restiamo a Padova, bisogna arrivare al pontificato di Francesco per vedere non ai vertici di un’associazione, ma sul soglio episcopale una figura come don Claudio Cipolla, che ha fatto dell’equazione carità- giustizia il proprio modello di vita e pastorale). Contestualmente, nel pensiero socio economico, durante gli anni del boom, del nuovo benessere, si riteneva, non che la povertà non ci fosse, ma che rimanesse qualcosa di laterale, che poteva essere risolta con lo sviluppo. Perciò tutta l’attenzione si spostò sulla crescita, sull’affermazione di nuovi diritti di cittadinanza. Si dava per assodata una serie di punti fermi, a cominciare dalla centralità del lavoro. Solo più tardi ci si è accorti, in Italia come negli altri paesi, che nell’abbondanza c’è la povertà. E la sua visione rende ancora più deflagrante il proprio senso di insicurezza. Insicurezza che come ha giustamente osservato ieri nel suo editoriale Stefano Allievi commentando il blitz anti profughi all’Arcella, si nutre di tante radici ma può scambiare l’effetto per causa. Ecco perché il caso Venezia diventa carico di significati. Perché ripropone lo scontro tra esclusione e inclusione. In Veneto richiama la battaglia delle panchine nella Treviso leghista dello sceriffo Gentilini. La prima di una serie di muri per proteggersi visivamente dal mondo che arrivava in casa propria. Tanto da far diventare le panchine un qualcosa in via di estinzione, come se la loro gratuità, la loro grazia, nel nuovo orizzonte del welfare fosse assolutamente da bandire o comunque da allontanare. Trovare il giusto componimento chiama in causa tutti i mattoni della complessa architettura che è la convivenza civile. Che dovrebbe porre come orizzonte di equità non la lotta contro i poveri, ma contro la povertà. La compassione, che origina dalla presa di coscienza, dalla «visione» della povertà, è il comportamento meno conveniente per il consenso. Ma rimane l’unico compatibile con una vita profondamente civilizzata. Non solo per un senso di giustizia. È anche, alla fine, la via più sinceramente conservatrice. Perché paradossalmente, riprendendo Galbraith, il malcontento popolare e le sue conseguenze non derivano da gente contenta, evidentemente. Nella misura in cui riusciremo a rendere la soddisfazione quanto più universale possibile, garantiremo e amplieremo la tranquillità sociale e politica alla quale i conservatori, più di ogni altro, aspirano. Del resto, come ci ricorda Bergoglio citando l’insegnamento della nonna: «Il sudario non ha tasche». Pag 17 Carrère: “Siamo sempre più divisi, ormai viviamo in pianeti diversi” di Francesco Chiamulera Il grande scrittore e intellettuale francese premiato a Cortina. Dall’attentato di Berlino allo scontro dei poveri a Mestre: “D’accordo col Patriarca, ma io non ospiterei un rifugiato” Emmanuel Carrère, il 2016 sta finendo. Questo di solito è il periodo in cui si fanno bilanci. Com’è stato per lei l’anno che stiamo per lasciarci alle spalle? «Terribile. Sul piano personale è stato veramente disastroso, ma preferirei non toccare nemmeno l’argomento. Il fatto è che di solito quando si ha problemi nella vita privata non si bada molto a quello che sta succedendo nel mondo: ma diciamocelo, nel 2016 era impossibile non prestare attenzione a quello che accadeva intorno a noi. E’ stato un

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anno orribile, con in aggiunta questo strano senso di irrealtà: la sensazione che le stesse cose in cui fino a poco prima non avresti mai potuto credere stavano accadendo. Prendiamo Trump: una cosa prima ritenuta impossibile è sembrata possibile, e poi... è successa. E rassegnarsi è difficile». Abbiamo un Eduard Limonov - il protagonista di uno dei suoi libri più celebri e di successo, mezzo comunista e mezzo fascista, sregolato e fuori da ogni schema - alla Casa Bianca? «Mah. Ad essere onesto trovo che Limonov paragonato a Trump sia un signore molto rispettabile. Sì, a suo modo è un fascista. Ma è un fascista che almeno cerca di stare dalla parte dei poveri e dei deboli, è lui stesso povero. Rispetto sicuramente più Limonov che Trump, e con Trump molte altre persone che sono al potere». All’inizio del 2015, quando uscì «Sottomissione» di Houellebecq, lei scrisse un articolo in cui si chiedeva se potesse esserci un’alternativa allo scontro culturale tra Islam e cultura europea. Sono passati circa due anni da allora, ed è successo di tutto: non solo Charlie Hebdo e il Bataclan e Nizza, ma, adesso, anche Berlino. E’ più pessimista oggi? «Quella di cui parlavo allora era una possibilità a lungo termine che si arrivasse a una declinazione dell’Islam europeo, che fosse ben differente dagli orribili eventi appena citati. Ciò che è successo a Berlino fa parte dello stesso filone di attentati che abbiamo visto in Francia: si può solo esserne disgustati. Ma la crisi a cui assistiamo non è solo una crisi dei rapporti tra Occidente e Islam; è una crisi interna all’Islam. Non sono uno specialista, ma è evidente che l’Islam non è solo i Mullah e gli estremisti barbuti che urlano. Può essere qualcosa d’altro, e io spero che lo sarà. Intendiamoci, non sono tra quelli che dicono: “questi attentati non hanno niente a che vedere con l’Islam”. Certo che ce l’hanno! Ma per fortuna esprimono solo una tendenza, ben peculiare all’interno dell’Islam, quella wahabita. Sarebbe come dire che il cristianesimo si riduce ai cacciatori di streghe del Sei e del Settecento». Lei è stato nella immensa bidonville dei profughi di Calais e ne ha scritto un articolo, diventato un libro. E’ passato un anno. La situazione è cambiata in qualche modo? «Una precisazione. Ho voluto scrivere non dei migranti, ma del modo in cui gli abitanti di Calais, di quella piccola città così povera e abbandonata, reagivano alla loro presenza. E ne ho tratto un’impressione: quella di una comunità estremamente divisa, spaccata in due, tra coloro che accoglievano i migranti e coloro che li rifiutavano; e che questi due mondi non si parlassero. Questa divisione totale della società è secondo me un problema crescente di oggi. Tra poche settimane uscirà in Francia un mio reportage sulla Turchia: anche a Istanbul ho ritrovato la medesima feroce spaccatura. La stessa che divide i repubblicani e i democratici in Usa. Siamo talmente divisi, il dialogo tra chi non la pensa allo stesso modo è diventato praticamente impossibile, sembra che le persone vivano in pianeti diversi. Lo trovo spaventoso». Il sindaco di Venezia Brugnaro ha proposto la creazione di una “cittadella dei poveri” dove concentrare tutte le mense cittadine, togliendole dal centro. Il patriarca Moraglia si è opposto, dicendo che è un modo per nascondere la povertà. Cosa ne pensa? «Sono sicuramente d’accordo con il Patriarca. Ma il problema con tutte le posizioni virtuose non è essere d’accordo - è facile dire: “sì, bisogna fare così” - ma porsi la domanda: cosa possiamo fare per aiutare a risolvere il problema? Tanto per essere autocritici: io non faccio granché per i poveri. Sì, dono qualcosa a chi fa beneficenza, faccio un po’ di elemosina, porto qualche pasto a un’organizzazione del quartiere che fa mense per i senzatetto. Ma sarei disponibile ad accogliere un profugo nel mio appartamento? Ho una stanza per gli ospiti, gli amici mi vengono a trovare: accetterei di accogliere in casa un rifugiato? Non credo proprio» Adelphi ha appena ripubblicato un suo libro dei primi anni Novanta, «Io sono vivo, voi siete morti», dedicato a Philip K.Dick. Com’era il Carrère di ieri rispetto a quello di oggi? «Sicuramente con venticinque anni in meno sulle spalle. E’ un libro più classico, se vogliamo, in cui la mia componente personale è meno presente, rispetto ad altri successivi. Ma è un libro che amo molto, a cui tengo. Forse è perché tengo a Dick, autore geniale, estremamente importante per il Ventesimo secolo. E lui, al contrario di altri di cui mi sono occupato - Limonov, Romand - continua ad essere per me un piacevole compagno di strada». IL GAZZETTINO

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Pag 1 Vivere (e morire) da giovani figli d’Europa di Marco Ventura Muoiono solo i vivi. E nessuno è più vivo di un ragazzo, una ragazza, che da Sulmona, nel roccioso e testardo Abruzzo, gonfia le vele per abitare il mondo. Dalla provincia d'Italia a Berlino, capitale europea, attraverso una laurea a Bologna, il master alla Cattolica di Milano, per ritrovarsi a 31 anni con un lavoro da italiana all'estero e la sera al mercatino di Natale vicino a un simbolo della guerra e riunificazione, la Chiesa del Ricordo. Vittima di un camion sparato sulla folla come un coltello. La storia di Fabrizia Di Lorenzo ricorda quella di Valeria Solesin uccisa al Bataclan o il destino amaro delle 7 studentesse italiane di Erasmus morte sulla strada in Spagna per la distrazione di un autista. Scopriamo così, tragicamente, che i nostri figli viaggiano l'Europa. Vivono a Berlino, studiano in Spagna, si scambiano casa tra Francia e Italia, si organizzano nelle residenze universitarie britanniche, tentano la sorte in Germania e Olanda. Cercano una chance. Cercano fortuna, lavoro, prospettive, un futuro. Sono cittadini europei, non solo giovani che vanno all'estero per dribblare l'immobilismo del Belpaese condannato all'autoriproduzione dei dinosauri, al vicolo cieco delle raccomandazioni (degli altri). Ai privilegi di chi si bea delle posizioni acquisite senza cedere il passo a chi avrebbe esuberanza da esprimere, competenze fresche da mettere in campo. Fabrizia aveva postato sul twitter una pillola da La meglio gioventù, lo spezzone in cui il professore universitario spinge Nicola a lasciare l'Italia bella e inutile, che va distrutta. Lei sottoscrive. L'Italia? Un Paese di dinosauri in cui non cambia mai nulla. È il 5 dicembre e la ragazza sembra essere tra gli italiani all'estero delusi per la vittoria del no al referendum costituzionale. Immobilismo e dinosauri non abitano a Berlino, città del futuro. Fabrizia era viva, scriveva sui fogli della comunità. Lavorava, usciva la sera, continuava a sperare (a torto o a ragione) in una Italia in movimento. Sfidava il pericolo di vivere in una Europa minacciata dal terrore fai-da-te che colpisce alla cieca. Ed è morta perché non si era rassegnata. Perché sradicarsi significa rischiare. Dietro di lei c'era una famiglia che la amava, perciò aveva accettato il rischio. Il viaggio. Lo sradicamento. L'idea di una vita da costruire altrove. Ma quell'altrove non era sulla Luna o in Cina. Era una casa comune più vasta. I nostri figli sono cittadini europei. Non saranno la meglio gioventù, come goffamente azzarda il ministro del Lavoro Giuliano Poletti quando difende i milioni di quelli rimasti, non tutti dei pistola, mentre fra quelli partiti ce ne sarebbero che l'Italia non soffrirà a non averli più fra i piedi. Ma quei giovani hanno rischiato. Sono partiti. Italiani che hanno scelto di vivere, e morire, da cittadini europei. Pag 1 Se l’errore è peggio di un crimine di Carlo Nordio Il proclama di Beppe Grillo che l'amministrazione Raggi non sarà fermata con gli avvisi di garanzia è di per sé una buona notizia. Poiché abbiamo sempre sostenuto che questa informazione è un atto dovuto che non significa condanna, e nemmeno imputazione, prendiamo atto con gioia che anche la roccaforte del giustizialismo pentastellato è finalmente crollata. È crollata davanti all'evidenza del diritto, perché la funzione dell'avviso è chiaramente deducibile dalla sua stessa formulazione letterale; ed è crollata, con meno dignità, davanti al timore che la Raggi venga eliminata, come tanti altri prima di lei, per via giudiziaria. Come tanti altri? Sì, come moltissimi altri. Perché questa indecorosa e maligna perversione della legge è uno strumento di cui la politica si serve da venticinque anni per sopprimere gli avversari. La vittima più illustre fu Berlusconi, al quale la cartolina fu spedita per via giornalistica, in barba al più elementare segreto istruttorio. E da allora la storia è continuata con un crescendo vergognoso, sì da devolvere di fatto alle Procure la sorte degli eletti e persino dei candidati. Questo scandalo, aggravato dalla sapiente gestione delle intercettazioni telefoniche, ha compromesso e condizionato il panorama istituzionale della cosiddetta seconda repubblica. La formula estromissiva era di un'ipocrisia petulante: la richiesta di un opportuno, responsabile e temporaneo passo indietro che in pratica significava la fine politica del destinatario. Ora il Pd annuncia che un'iscrizione nel registro degli indagati non giustifica e non giustificherebbe il ritiro del sindaco di Milano o di Roma. Speriamo che sia una posizione definitiva, perché non è sempre stato così. La conversione garantista della sinistra ha alcuni padri autorevoli, come Macaluso e Pisapia, ma non è

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mai stata chiara né definitiva. Lo stesso irrigidimento sull'applicazione a Berlusconi della Legge Severino, che in quanto norma afflittiva non poteva essere retroattiva, ha dimostrato che spesso il Pd ha sacrificato le sue timide aspirazioni libertarie all'occasione propizia di un avversario da rimuovere. Nemmeno con Marino si è rinunciato al colpaccio. Il professore sarà stato un disastro di amministratore, ma è pur sempre stato eliminato, direttamente o meno, per via giudiziaria. Che ora il Pd difenda Sala, e di conseguenza la Raggi, che fu eletta per le ragioni che ora lo stesso Pd ripudia, suona almeno come paradosso. E infine i grillini. La loro fortuna, si dice, è stata costruita sull'incapacità degli altri. Se così fosse, non vi sarebbe nulla di strano né di scandaloso. In politica molte fortune sono state costruite raccattando i cocci altrui. Il fatto è che questi materiali sono stati aggregati con un unico collante: il vanto monopolistico di purezza etica e di verginità processuale. Ed ora che la costruzione rischia di franare, ci si affida a precarie e forse temporanee iniezioni di garantismo, giustificato dall'invocazione dell'ingenuità della neofita. Ma questo è un rischio persino peggiore. Perché, anche se la Raggi fosse coinvolta in un'indagine per colpe altrui, e ne uscisse prosciolta per ingenuità, il messaggio finale sarebbe devastante, risolvendosi nella sostanziale ammissione di incapacità nella selezione dei collaboratori, e di inidoneità al compito assuntosi. A una Raggi raggirata resterebbe appiccicato il terribile rimprovero che Talleyrand (o Fouché) rivolse a Napoleone dopo l'esecuzione del duca di Enghien: «Maestà, questo è peggio di un crimine, è un errore». LA NUOVA Pag 1 La crisi Ue è nelle scelte di Bruxelles di Maurizio Mistri Da tempo anche in Italia si vanno manifestando sentimenti contrari all’Unione Europea (Ue) e alle sue politiche, a cominciare da quelle di bilancio. A manifestare insofferenza nei confronti delle politiche monetarie e di bilancio, così come tratteggiate dal Trattato di Maastricht, non sono solo le frange politiche estreme. Persino Matteo Renzi, nell’ultima fase del suo governo, ha mostrato una crescente insofferenza verso gli obblighi derivanti dal Trattato di Maastricht. Di fatto Renzi si è messo a chiederne una revisione, non leggera, ipotizzando la possibilità, per l’Italia, di andare oltre i vincoli di bilancio. A sostegno delle sue più recenti posizioni Renzi ha portato eventi come i flussi immigratori incontrollati e il terremoto che ha colpito l’Italia centrale, eventi sui quali il governo italiano non ha potere di controllo. Nel contempo ha intensificato i suoi attacchi alla Germania, colpevole, a suo dire, di aver accumulato un notevole surplus commerciale nei confronti di molti dei paesi dell’Ue. Comunque sia, le invettive antitedesche, e il mantra renziano secondo cui occorre meno rigore e più solidarietà o, come si dice, più Europa, trovano orecchie attente in alcuni paesi europei, soprattutto quelli dell’Europa meridionale. Si tratta di invettive che in apparenza reclamano una solidarietà tra paesi europei che in realtà non è mai stata tra gli obiettivi né del Mercato Europeo Comune (Mec), né dell’attuale Ue. L’attuale crisi dell’Ue è il frutto di una strutturale dicotomia tra obiettivi annunciati e strategie realmente messe in campo. Si tratta di una dicotomia che è il frutto di una sottovalutazione degli effetti prodotti da un processo di integrazione nel quale ha finito per giocare un ruolo fondamentale l’unificazione monetaria. Qualcuno, oggi, pensa che rafforzando i poteri della tecnostruttura di Bruxelles possa avanzare il processo di integrazione europea, tanto da considerare i fautori di un riequilibrio di competenze a favore dei governi nazionali come “antieuropeisti”. A mio avviso le cose stanno in modo diverso. Il Mec non è nato per trasformarsi in una sorta di Stati Uniti d’Europa. È nato per assicurare un rafforzamento delle difese economiche e ideologiche dei paesi europei occidentali a fronte della capacità attrattiva dell’Urss, stante la constatazione della impossibilità politica di giungere a formare gli Stati Uniti d’Europa. La nuova tecnostruttura che si andava formando a Bruxelles aveva ben chiaro in mente che un rafforzamento delle competenze del Mec e oggi dell’Ue ai danni delle competenze nazionali avrebbe rafforzato la stessa tecnostruttura e non sarebbe stata certamente un passo avanti verso gli Stati Uniti d’Europa. Già negli anni ’50 del secolo scorso in Europa si dibatteva in merito alla strategia più adatta per dar vita a un sostanziale processo integrativo. Da un lato c’erano coloro che ritenevano che avrebbe dovuto essere prioritaria l’integrazione politica dei paesi europei, rispetto a una integrazione economica governata da una tecnostruttura sovranazionale. I primi li possiamo indicare come i

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“federalisti” e i secondi come i “funzionalisti”. La debolezza politica dell’opzione federalista lasciò il campo all’opzione funzionalista. Purtroppo i funzionalisti erano prigionieri di vedute in materia di politica economica basate sull’idea che un processo integrativo a livello continentale avrebbe rappresentato la traduzione pratica, a livello europeo, di principii ispirati alla globalizzazione e alla omogeneizzazione, anche coatta, delle culture nazionali. La disaffezione delle (posso usare questa espressione?) masse popolari europee verso la deriva funzionalista va creando crepe nella costruzione voluta dalla tecnostruttura con cui ci ostiniamo a identificare l’europeismo, fino alla dissoluzione della stessa Ue. Pag 3 Sanguinosa campagna, cancelliera penalizzata di Renzo Guolo Quanto è avvenuto a Berlino, un camion lanciato sulla folla, ricorda tragicamente quanto accaduto a Nizza. Allora fu un immigrato tunisino, dallo stile di vita assai religiosamente poco rigoroso, a cercare la sua personale “redenzione” seminando morte nel giorno in cui la Francia celebra il principale rito della sua religione civile. Ora, la nuova sanguinosa saga del Duel islamista, ha anche una tragica appendice tedesca. Come se le istruzioni impartite nell’ultimo numero di Rumiyah (Roma), rivista di propaganda dell’Is che ricordava agli aspiranti mujahidin l’impiego di tir come «arma mortale contro i crociati» in grado di mietere un gran numero di vittime, avesse trovato nuova ricezione. Anche se, dopo i dubbi sul profugo pachistano arrestato, è ancora da verificare da parte di chi. È un colpo durissimo quello inferto dal tir nero nel mercatino di Natale a Charlottenburg. Perché a essere colpita è quella Germania che ha adottato una politica di apertura verso i profughi, in particolare quelli provenienti dalla Siria. Perché assai serie sono le implicazioni insite nella forma assunta dal jihad in terra europea. Un jihad della vita quotidiana che, ancora una volta, mette nel mirino i cosiddetti soft target, obiettivi facili e non intensamente sorvegliati. Trasformando in macabra scena un luogo di svago o di divertimento, si tratti delle bancarelle nei pressi della Gedächtniskirche o del Bataclan, di un ristorante nel centro di Ansbach o della celebre Promenade des Anglais. Indifferente, in questa logica stragista, è che ad agire sia un nucleo organizzato, come quello del pianificato attacco in Francia del 13 novembre 2015, o “lupi solitari” che entrano in azione all’ultimo istante, spinti dai più diversi motivi. Il jihad della vita quotidiana polarizza il conflitto. Fa lievitare il peso di chi grida allo scontro di civiltà, il consenso di formazioni che mettono al centro della loro offensiva non solo gli jihadisti ma i musulmani in quanto tali. Un clima in cui si scavano nuovi fossati con i musulmani che vivono in Europa, rendendo più facile, a gruppi come l’Is o Al Qaeda, veicolare il loro totalizzante messaggio ideologico fondato sulla categoria amico/nemico. Una bufera che può investire, più di quanto sia avvenuto sin qui, anche Francia e Germania. Nonostante le critiche dell’ala bavarese del suo partito e una certa insofferenza di parte dell’elettorato della Cdu, la Merkel ha cercato di tenere ferma la barra sull’ìmmigrazione. Anche di fronte alla prospettiva, «difficile da tollerare», che l’attentatore fosse un profugo pakistano, la cancelliera ha ribadito la necessità che la Germania integri quanti desiderano integrarsi. Distinguendo tra radicalismo islamista, una corrente politica e religiosa del mondo della Mezzaluna, e musulmani. Indubbio, però, che una simile fermezza rischia di incrinarsi davanti a un ondata capace di produrre una forte risacca nelle urne destinata a premiare la destra di Alternativa per la Germania (Adf), la cui leader Frauke Petry sostiene che la Germania «non è più sicura» dopo le scelte della cancelliera sull’immigrazione. Certo, il sistema politico tedesco, fondato su partiti non personalizzati e una legge elettorale proporzionale, impedisce, allo stato delle cose, che l’Adf possa governare da sola ma nessuno può garantire per il futuro. Una campagna di attentati, prodotta dal duplice ritorno di foreign fighters, sono circa duecentosettanta quelli tedeschi rientrati in Europa dopo la sconfitta dell’Is, dalla radicalizzazione di giovani di seconda generazione o dalle reazioni esasperate di profughi che non riescono a integrarsi o richiedenti asilo che si vedono respinti, può mutare il quadro. Se si tiene conto che a tra pochi mesi, a meno di una nuova unione sacra repubblicana tra gollisti e socialisti al secondo turno delle presidenziali francesi, le porte dell’Eliseo potrebbero spalancarsi davanti a Marine Le Pen, si comprende come il jihad della vita quotidiana rischi di incidere, oltre che sulla sicurezza collettiva, anche sul futuro politico europeo, creando nuovi equlibri politici nei principali paese dell’Unione.

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