Rassegna stampa 13 aprile 2016 - patriarcatovenezia.it · riassunto nel più ovvio degli...

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 13 aprile 2016 SOMMARIO “Ora Casaleggio è assurto al rango di visionario, profeta - commenta Stefano Folli su Repubblica di oggi -. Ed è anche vero, dal momento che è stato un modernizzatore. Ora Casaleggio è assurto al rango di visionario, profeta, rivoluzionario. Ed è anche vero, dal momento che è stato un modernizzatore: l'inventore e l'architetto, insieme a Grillo, del Movimento CinqueStelle. Ma fino a ieri, prima della sua prematura scomparsa, era dipinto dai suoi avversari, e in generale dagli scettici, come un oscuro stregone, il Rasputin del grillismo, l'uomo che inseguiva l'utopia della democrazia diretta via web, ma la negava all'interno del movimento. La verità è a metà strada, come spesso accade. Casaleggio ha dato voce a un malessere reale serpeggiante nella società italiana sul finire della fallimentare stagione berlusconiana. Accanto a un comico brillante con innate qualità di comunicatore - quelle che a lui mancavano -, ha plasmato un partito anti-sistema, nemico di un establishment sgretolato, e lo ha guidato dietro le quinte verso un successo spettacolare nel 2013, quando il 25 per cento degli elettori ha scosso l'albero della stagnazione e ha creato la terza gamba di un assetto traballante. Eppure, a ben vedere, l'autentica novità che ha cambiato la politica italiana comincia dopo. Riguarda la sopravvivenza del M5S ben oltre l'orizzonte dell'ondata populista che per sua natura è effimera. I precedenti storici, dal qualunquismo del dopoguerra al "poujadismo" francese, raccontano di brevi fiammate presto riassorbite dal sistema. Ma i CinqueStelle sono diversi nella loro origine e nella loro articolazione. Dal 2013 a oggi hanno dimostrato di essere ben radicati nel tessuto sociale del Paese e questo rappresenta la loro originalità: compresa e interpretata da Casaleggio e Grillo, il binomio di vertice del movimento. Grillo istintivo e umorale, Casaleggio assai più raffinato sul piano intellettuale, dotato di antenne sensibili per cogliere i segnali di una società frammentata. Oggi i CinqueStelle sono un caso unico in Europa: senza equivalenti, tranne parziali analogie, né in Spagna né in altri Paesi che pure sono scossi da spinte anti- establishment figlie della crisi collettiva. Questa assoluta originalità del laboratorio italiano riconduce al tratto peculiare del pensiero di Casaleggio, una volta emendato dalla vocazione apocalittica e cospirazionista, ma non aiuta a decifrare il rebus oggi riassunto nel più ovvio degli interrogativi: cosa accadrà a un movimento che raccoglie tuttora, stando ai sondaggi più recenti, intorno al 27 per cento delle intenzioni di voto e appare in crescita? Quale sarà la sua sorte ora che si trova davanti al bivio fra il pieno inserimento nelle dinamiche politico-istituzionali, a cominciare dal tentativo di scalata al Campidoglio, e la possibile tentazione di rifluire in un ruolo di semplice denuncia e testimonianza morale? Il quesito è sul tavolo già da qualche tempo e tocca al piccolo gruppo dirigente nazionale trovare la risposta. Senza Casaleggio il compito sarà più arduo, è logico, ma non impossibile. Nessuno può credere che un movimento capace di superare le malattie infantili del populismo vecchia maniera, dimostrando con ciò di essere qualcosa di diverso, possa dissolversi come neve al sole in seguito alla scomparsa del suo ispiratore e del parziale ritiro del leader storico, Grillo (oggi risospinto sul proscenio). Del resto, una delle caratteristiche del M5S, tale da distinguerlo dai vari Iglesias, Farage o Varoufakis, è proprio quell'abile miscela di temi di destra e di sinistra con cui Casaleggio ha disegnato nel tempo il profilo del movimento. S'intende che il punto di partenza è discutibile e consiste nella negazione del tradizionale antagonismo destra-sinistra. Tuttavia è attraverso questo espediente, che peraltro fotografa l'imprevedibilità dell'Italia di oggi, o se si preferisce dell'intero occidente, che i CinqueStelle sono in grado di pescare consensi in tutti i segmenti di opinione pubblica. Da un lato si presentano ormai come il vero "partito delle procure", i nuovi giustizialisti che occupano lo spazio lasciato sguarnito dal Pd renziano. Dall'altro sono alleati nel Parlamento europeo con il "destro" Farage, tipico esponente dell'isolazionismo nazionalista britannico e fiero avversario dell'Unione. Ma i

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 13 aprile 2016

SOMMARIO

“Ora Casaleggio è assurto al rango di visionario, profeta - commenta Stefano Folli su Repubblica di oggi -. Ed è anche vero, dal momento che è stato un modernizzatore. Ora Casaleggio è assurto al rango di visionario, profeta, rivoluzionario. Ed è anche

vero, dal momento che è stato un modernizzatore: l'inventore e l'architetto, insieme a Grillo, del Movimento CinqueStelle. Ma fino a ieri, prima della sua prematura

scomparsa, era dipinto dai suoi avversari, e in generale dagli scettici, come un oscuro stregone, il Rasputin del grillismo, l'uomo che inseguiva l'utopia della democrazia diretta via web, ma la negava all'interno del movimento. La verità è a metà strada,

come spesso accade. Casaleggio ha dato voce a un malessere reale serpeggiante nella società italiana sul finire della fallimentare stagione berlusconiana. Accanto a un

comico brillante con innate qualità di comunicatore - quelle che a lui mancavano -, ha plasmato un partito anti-sistema, nemico di un establishment sgretolato, e lo ha

guidato dietro le quinte verso un successo spettacolare nel 2013, quando il 25 per cento degli elettori ha scosso l'albero della stagnazione e ha creato la terza gamba di un assetto traballante. Eppure, a ben vedere, l'autentica novità che ha cambiato la

politica italiana comincia dopo. Riguarda la sopravvivenza del M5S ben oltre l'orizzonte dell'ondata populista che per sua natura è effimera. I precedenti storici, dal qualunquismo del dopoguerra al "poujadismo" francese, raccontano di brevi fiammate presto riassorbite dal sistema. Ma i CinqueStelle sono diversi nella loro origine e nella loro articolazione. Dal 2013 a oggi hanno dimostrato di essere ben radicati nel tessuto sociale del Paese e questo rappresenta la loro originalità:

compresa e interpretata da Casaleggio e Grillo, il binomio di vertice del movimento. Grillo istintivo e umorale, Casaleggio assai più raffinato sul piano intellettuale, dotato

di antenne sensibili per cogliere i segnali di una società frammentata. Oggi i CinqueStelle sono un caso unico in Europa: senza equivalenti, tranne parziali analogie, né in Spagna né in altri Paesi che pure sono scossi da spinte anti-

establishment figlie della crisi collettiva. Questa assoluta originalità del laboratorio italiano riconduce al tratto peculiare del pensiero di Casaleggio, una volta emendato dalla vocazione apocalittica e cospirazionista, ma non aiuta a decifrare il rebus oggi riassunto nel più ovvio degli interrogativi: cosa accadrà a un movimento che raccoglie tuttora, stando ai sondaggi più recenti, intorno al 27 per cento delle intenzioni di voto

e appare in crescita? Quale sarà la sua sorte ora che si trova davanti al bivio fra il pieno inserimento nelle dinamiche politico-istituzionali, a cominciare dal tentativo di scalata al Campidoglio, e la possibile tentazione di rifluire in un ruolo di semplice

denuncia e testimonianza morale? Il quesito è sul tavolo già da qualche tempo e tocca al piccolo gruppo dirigente nazionale trovare la risposta. Senza Casaleggio il compito sarà più arduo, è logico, ma non impossibile. Nessuno può credere che un movimento capace di superare le malattie infantili del populismo vecchia maniera, dimostrando con ciò di essere qualcosa di diverso, possa dissolversi come neve al sole in seguito alla scomparsa del suo ispiratore e del parziale ritiro del leader storico, Grillo (oggi

risospinto sul proscenio). Del resto, una delle caratteristiche del M5S, tale da distinguerlo dai vari Iglesias, Farage o Varoufakis, è proprio quell'abile miscela di temi

di destra e di sinistra con cui Casaleggio ha disegnato nel tempo il profilo del movimento. S'intende che il punto di partenza è discutibile e consiste nella negazione del tradizionale antagonismo destra-sinistra. Tuttavia è attraverso questo espediente, che peraltro fotografa l'imprevedibilità dell'Italia di oggi, o se si preferisce dell'intero occidente, che i CinqueStelle sono in grado di pescare consensi in tutti i segmenti di

opinione pubblica. Da un lato si presentano ormai come il vero "partito delle procure", i nuovi giustizialisti che occupano lo spazio lasciato sguarnito dal Pd renziano.

Dall'altro sono alleati nel Parlamento europeo con il "destro" Farage, tipico esponente dell'isolazionismo nazionalista britannico e fiero avversario dell'Unione. Ma i

CinqueStelle sono anche super-pacifisti nel Mediterraneo, per un verso, e tutt'altro che favorevoli all'accoglienza indiscriminata dei migranti, per l'altro. Sui nuovi muri eretti in Europa sono molto cauti, a dir poco, mentre Grillo (il leader non-leader)

preferisce terrorizzare i dipendenti pubblici del Comune di Roma, che di sicuro non sono fra i suoi elettori, promettendo a molti di loro il licenziamento. Si potrebbe

continuare. In attesa del paradiso della democrazia diretta, il M5S si è attrezzato per prendere voti sia a sinistra sia a destra. Casaleggio sapeva tenere in equilibrio le due sfere, i suoi successori dovranno dimostrare la stessa qualità di giocolieri. Saranno aiutati dalla debolezza complessiva del sistema politico che non è paragonabile alla solidità democristiana in cui De Gasperi riassorbì i militanti di Giannini; ovvero al

gollismo trionfante che dissolse Poujade e le sue velleità. Ma la scelta di stare nelle istituzioni, che sembra prevalente nel gruppo dirigente convinto che la conquista del potere sia possibile, non può avvenire attraverso l'omologazione con gli altri partiti. Né la differenza può misurarsi solo sul tasso di demagogia. Coniugare la vecchia carica

anti-sistema, depurata degli aspetti più infantili o provocatori, e trasformarla nel supporto morale di un ipotetico "buon governo" grillino, rappresenta una sfida

drammatica. Forse troppo per un fragile direttorio. Servirà una leadership e non potrà essere a mezzo servizio come quella di Grillo. È un punto che Casaleggio aveva ben chiaro, ma implica una maturazione complessiva del movimento CinqueStelle che è

ancora di là da venire” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE LA NUOVA Pag 35 Treporti, domani arrivano le spoglie di don Giorgio di Francesco Macaluso Un parrocchiano sta preparando una lapide in legno a forma della chiesa di Ss. Trinità 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 Concretezza affettuosa di Pierangelo Sequeri L’esortazione apostolica Pag 8 La non violenza arma di pace Nuovo appello del Papa per l’abolizione della pena di morte e la cancellazione dei debito dei Paesi poveri Pag 8 Due persecuzioni Messa a Santa Marta AVVENIRE Pag 1 Per restare ben svegli di Francesco Ognibene Le parole-scossa di Francesco Pag 17 “Così Francesco rilancia la bellezza della famiglia” di Luciano Moia I coniugi Miano: uno sguardo che apprezza il sogno e la sofferenza della vita matrimoniale Pag 19 La “geopolitica” di Francesco di Pasquale Ferrara Il Pontefice e l’attualità mondiale vista dalla “periferia” IL FOGLIO Pag 4 La breccia in Amoris laetitia che fa sognare la revoluciòn sulla famiglia di Matteo Matzuzzi WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT La visita del Papa a Lesbo, ecumenismo sul campo di Andrea Tornielli Cristiani di diverse confessioni lavorano fianco a fianco nel servizio a chi soffre e fugge

le conseguenze delle guerre SETTIMO CIELO (blog di Sandro Magister) "Amoris lætitia" non è magistero. La linea di resistenza del cardinale Burke 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag II M9, ombre sul futuro. L’allarme dei mestrini di Melody Fusaro La preoccupazione del Centro studi storici sulle voci che la parte culturale del progetto potrebbe essere abbandonata. I club service: “Non possiamo perdere anche questa occasione” Pag II Il museo diventerà parcheggio? di Debora Esposti Pag II Quando i turisti diventano “prede” di Paolo Navarro Dina Figuranti, venditori di fiori, portabagagli sempre più insistenti per avere soldi: tensioni frequenti Pag XIII Troppi schiamazzi, a giudizio per le minacce al parroco di Lauredana Marsiglia Due persone nei guai, ma don Lio Gasparotto ora potrebbe ritirare la querela LA NUOVA Pag 17 “Restauri sulla facciata e sui mosaici” di Enrico Tantucci Il nuovo proto illustra i lavori in corso. L’architetto Piana: “Dobbiamo risolvere alcuni inevitabili problemi statici, interverremo anche nel transetto destro” Pag 17 “Save Venice” fa risplendere Veronese a San Sebastiano Pag 25 Inseguirono un prete, saranno processati di g.so. L’episodio a Domegge, era finito in ospedale. Madre e figlio sarebbero responsabili della caduta di don Lio, parroco a Marghera 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 17 La fame, la nostalgia e la speranza. Le lettere (inedite) dei prigionieri di Alessandro Tortato Pubblicate le missive italiane censurate dagli austriaci … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il pensiero spezzato di Daniele Manca Addio a Casaleggio, il leader che ha portato la politica in Rete Pag 1 Il tempo delle scelte di Aldo Cazzullo Pag 8 Si delinea uno scontro tra due idee di Italia di Massimo Franco LA REPUBBLICA Pag 1 Il movimento al bivio di un’eredità difficile di Stefano Folli LA STAMPA Il passaggio più difficile per i grillini di Giovanni Orsina AVVENIRE Pag 3 L’Ue schizofrenica, ideali e chiusure di Andrea Lavazza

Linee opposte governi-Europarlamento Pagg 8 – 9 Casaleggio, uno stratega fra web e televisione di Alessandro Zaccuri e Luca Mazza Ora il Movimento è al primo vero bivio IL GAZZETTINO Pag 1 Quel politico alieno che voleva sostituire il Parlamento con la rete di Mario Ajello Pag 1 I falsi miti cancellati dal cambiamento di Alessandro Campi LA NUOVA Pag 1 Movimento senza lo stratega di Andrea Sarubbi Pagg 6 – 7 Casaleggio, testamento con la linea del M5S di Maria Berlinguer e Nicola Corda Visionario, guru e idealista. Da conoscitore della Rete inventò un “movimento” Pag 10 Accogliere con dignità è un dovere di Erik C.F. Burckhardt

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE LA NUOVA Pag 35 Treporti, domani arrivano le spoglie di don Giorgio di Francesco Macaluso Un parrocchiano sta preparando una lapide in legno a forma della chiesa di Ss. Trinità Treporti. Don Giorgio Barzan domani con la tumulazione delle sue spoglie a Treporti concluderà idealmente il ritorno in auto che fu interrotto giusto un anno fa dal tragico incidente stradale che gli costò la vita a 67 anni. Un parrocchiano falegname sta realizzando proprio in queste ore una lapide provvisoria di legno a forma della chiesa di Ss. Trinità di Treporti in onore di tutta la dedizione investita nel rinnovo dell’immagine della parrocchia in un ventennio da pastore della frazione. La salma arriverà al cimitero di Treporti alle 13.30 di domani. Seguirà alle 16.30 l’accoglienza del feretro in piazza SS. Trinità, dalle 17 il santo rosario in suffragio con la nuova sepoltura alle 17.30. Le celebrazioni si concluderanno con la santa messa, alle 19 l’intitolazione alla sua memoria del salone del patronato nuovo, struttura che durante il suo percorso pastorale a Treporti volle ristrutturare con tutto se stesso. Fondamentale la collaborazione per la parte logistica delle imprese di servizi funebri Walter Gusso di Eraclea e Facco di Cavallino-Treporti per l’esumazione, il trasporto e la nuova sepoltura. I suoi fedeli parrocchiani e tutta la comunità del litorale attendono trepidanti il suo arrivo quando potranno accogliere la salma del parroco che, con i suoi modi burberi ma sinceri, è stato per molti un’importante guida spirituale e morale. «Un affetto profondo e sincero», ha ribadito don Alessandro Panzanato, parroco di Ca’ Savio e Treporti, vicario per Jesolo e Cavallino-Treporti, «della sua famiglia spirituale di Treporti che ha commosso i suoi familiari terreni che posso solo ringraziare per la grande sensibilità dimostrata. Lo rispetteremo anche nella sobrietà delle cerimonia che rispecchierà il suo carattere mai propenso alle autocelebrazioni». Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 Concretezza affettuosa di Pierangelo Sequeri

L’esortazione apostolica L’apertura al definitivo, iscritta nella natura stessa del rapporto coniugale, attraversa i flussi della vita, con la loro combinazione «di gioie e di fatiche, di tensioni e di riposo, di sofferenze e di liberazioni, di soddisfazioni e di ricerche, di fastidi e di piaceri» (Amoris laetitia, n. 126). In altre parole, questa alleanza per la vita, che iscrive il definitivo nel quotidiano della condizione familiare umana, segna la storia e dalla storia è segnata. La prima felice sorpresa dell’esortazione apostolica è proprio il tono sapienziale e avvolgente, penetrante e affettuoso, con il quale la realtà coniugale e familiare è abbracciata ed esplorata in tutta la sua ampiezza. E posta sotto lo sguardo di Dio in ognuna delle pieghe della sua storia, liete o dolorose che siano. Una tale concretezza manifesta già di per sé un profondo cambio di passo e di stile, per la Chiesa stessa. La famiglia esiste. Questa famiglia, che butta il cuore oltre l’ostacolo, e non cede all’usura del tempo, esiste. Il tema della sollecitudine della Chiesa - qui appare, ormai, in modo definitivamente chiaro - non è un ideale metafisico che non conosce la fatica e gli incerti della storia, in cui la famiglia si cerca e si costruisce, può perdersi e deve ritrovarsi. Farsi carico della famiglia, della sua vita e delle sue vicissitudini, rendendo evidente l’alleanza tra Chiesa e famiglia, non è un gesto di condiscendenza. È una storia di passione, non solo di compassione. La Chiesa non è un’élite di ideologi, è un popolo di credenti. Quando interpreta la parola di Dio per la famiglia, e ne sollecita l’ascolto fiducioso e generoso, la Chiesa non si limita a definire procedure di legittimità e regole d’uso che devono sbrigare la pratica. Allo sguardo della Chiesa - insiste il Papa - la famiglia non è un fascio di problemi, ma un’opportunità umana e sociale di portata globale. In questo appassionato racconto di Francesco, che non elude i problemi, è restituita alla condizione familiare l’ammirazione dovuta al coraggio della sua dedizione, e il rispetto che tutti devono avere per la dignità della sua missione. Il fatto che si tratti di una condizione comune non deve oscurare l’altezza della sua vocazione. La fedeltà all’irrevocabile legame personale della reciprocità affettiva dell’uomo e della donna - alla quale Dio stesso ha donato la gioia indivisa dell’intimità sessuale e della responsabilità generativa - ha il compito di presidiare e di far crescere «lietamente» la qualità spirituale della vita del mondo. In questo legame, infatti, è l’intera storia dell’alleanza (o del conflitto) dell’uomo e della donna a essere in gioco. Quando le cose vanno male, fra uomo e donna, tutte le altre vanno male. Quando la complicità affettuosa e la reciprocità feconda dell’uomo e della donna non hanno peso nell’educazione dei giovani e nella città dell’uomo, la vita del pianeta (dell’ambiente, del lavoro, della giustizia, della cultura) è esposta al degrado. Il filo del magistero di Francesco - che unisce «la gioia del Vangelo» e la «letizia dell’amore», passando attraverso l’appassionata perorazione per la cura dell’ecologia umana e cristiana del pianeta (Laudato si’) - apre una strada inedita anche per la riconciliazione dell’amicizia di uomo e donna con il destino della terra. Il resto è dottrina del sacramento cristiano, che annuncia la serietà della testimonianza e la sostiene oltre l’umana debolezza. E poi - dottrina cattolica ben nota anche questa - pastorale dell’amore comunitario, che non sottrae nessuno all’onere e all’onore evangelico di portare gli uni i pesi degli altri: «Così adempirete la legge di Cristo», chiosa san Paolo nella lettera ai Galati (6, 2). Non per caso, ma del tutto a sorpresa rispetto all’abitudine ecclesiale più corrente, Papa Francesco illustra la profondità dell’amore coniugale, commentando nel quarto capitolo, parola per parola, l’inno alla carità della prima lettera ai Corinzi, non il Cantico dei cantici. L’eros coniugale, per custodire la sua letizia e la sua benedizione, deve apprendere l’audace sapienza dell’agape di Dio: senza di essa, i nostri carismi e le nostre qualità migliori non sono niente. La fedeltà e il perdono, fanno parte entrambi del comandamento dell’amore. E dei suoi doni. Gesù proponeva un ideale esigente, ma «non perdeva mai la vicinanza compassionevole alle persone fragili» (n. 38). La norma indica la strada, ma è la prossimità che deve percorrerla. Il discernimento delle coscienze e l’intercessione della Chiesa, che incoraggiano la prossimità e non abbandonano nella prova, sono la parte più bella del comandamento dell’amore. Pag 8 La non violenza arma di pace Nuovo appello del Papa per l’abolizione della pena di morte e la cancellazione dei debito dei Paesi poveri

La «testimonianza attiva della non violenza come “arma” per conseguire la pace» è stata rilanciata da Francesco nel messaggio inviato lunedì pomeriggio, 11 aprile, ai partecipanti a una conferenza promossa dal Pontificio Consiglio della giustizia e della pace e dal movimento Pax Christi. Di seguito il testo italiano del messaggio papale. Signor Cardinale, sono lieto di far pervenire il mio cordiale saluto a Vostra Eminenza e a tutti i partecipanti alla Conferenza che si tiene a Roma dall’11 al 13 aprile 2016 sul tema: «Nonviolence and Just Peace: Contributing to the Catholic Understanding of and Commitment to Nonviolence». Questo incontro, organizzato congiuntamente dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e dal Movimento Pax Christi, assume un carattere ed un valore del tutto particolari nell’Anno Giubilare della Misericordia. La misericordia, infatti, è «fonte di gioia, di serenità e di pace»1, una pace prima di tutto interiore, che nasce dalla riconciliazione con il Signore2. È innegabile, però, che anche le circostanze, il momento storico, in cui tale Conferenza si svolge, da una parte la carichino di aspettative e, dall’altra, non possano non essere tenute in conto nelle riflessioni dei partecipanti. Per cercare vie di soluzione alla singolare e terribile “guerra mondiale a pezzi” che, ai nostri giorni, gran parte dell’umanità sta vivendo in modo diretto o indiretto, è necessario riscoprire le ragioni che spinsero nel secolo scorso i figli di una civiltà in grande parte ancora cristiana a dare vita al Movimento Pax Christi e al Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. È necessario, cioè, operare per una pace vera tramite l’incontro fra persone concrete e la riconciliazione fra popoli e gruppi che si affrontano da posizioni ideologiche contrapposte e impegnarsi per realizzare quella giustizia cui le persone, le famiglie, i popoli e le nazioni sentono di aver diritto, sul piano sociale, politico ed economico per compiere la loro parte nel mondo3. Infatti, accanto al «sapiente sforzo di quella superiore fantasia creativa, che chiamiamo diplomazia»4 che va continuamente alimentato, e alla promozione, nel mondo globalizzato, della giustizia, che è «ordine nella libertà e nel dovere cosciente»5, è necessario rinnovare tutti gli strumenti più adatti a concretizzare l’aspirazione alla giustizia e alla pace degli uomini e delle donne di oggi. Così, anche la riflessione per rilanciare il percorso della non violenza, e in specie della non violenza attiva, costituisce un necessario e positivo contributo. È quanto si propongono di fare i partecipanti alla Conferenza di Roma, ai quali vorrei, in questo mio messaggio, ricordare alcuni punti che mi stanno particolarmente a cuore. La premessa fondamentale è che lo scopo ultimo e più degno della persona umana e della comunità è l’abolizione della guerra6. Del resto, come è risaputo, l’unica condanna espressa dal Concilio Vaticano II fu proprio quella della guerra7, pur nella consapevolezza che, non essendo questa estirpata dalla condizione umana, «una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa»8. Altro punto fermo: la constatazione che «il conflitto non può essere ignorato o dissimulato. Deve essere accettato»9 per non rimanervi intrappolati perdendo la prospettiva generale e il senso dell’unità profonda della realtà10. Infatti, solo accettando il conflitto, lo si può risolvere e trasformare in un anello di collegamento di quel nuovo processo che gli «operatori di pace» mettono in atto11. Inoltre, da cristiani, sappiamo che solamente considerando i nostri simili come fratelli e sorelle potremo superare guerre e conflittualità. La Chiesa non si stanca di ripetere che ciò vale non solo a livello individuale ma anche a livello dei popoli e delle nazioni, tanto che essa considera Comunità internazionale come la “Famiglia delle Nazioni”. Per tale motivo, anche nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest’anno ho rivolto un appello ai responsabili degli Stati perché rinnovino «le loro relazioni con gli altri popoli, permettendo a tutti una effettiva partecipazione e inclusione alla vita della comunità internazionale, affinché si realizzi la fraternità anche all’interno della famiglia delle nazioni»12. Come cristiani, sappiamo anche che il grande ostacolo da rimuovere perché ciò avvenga è quello eretto dal muro dell’indifferenza. La cronaca dei tempi recenti ci dimostra che se parlo di muro non è solo per usare un linguaggio figurato, ma perché si tratta della triste realtà. Una realtà, quella dell’indifferenza, che investe non solo gli esseri umani, ma anche l’ambiente naturale con conseguenze spesso nefaste in termini di sicurezza e di pace sociale13. L’impegno a superare l’indifferenza avrà successo, però, solo se, ad imitazione del Padre, saremo capaci di usare misericordia. Quella misericordia che trova nella solidarietà la sua

espressione, per così dire, “politica” poiché la solidarietà costituisce l’atteggiamento morale e sociale che meglio risponde alla presa di coscienza delle piaghe del nostro tempo e dell’inter-dipendenza tra la vita del singolo e della comunità familiare, locale o globale14. Grande è, allora, nel nostro mondo complesso e violento, il compito che attende coloro che operano per la pace vivendo l’esperienza della non violenza! Conseguire il disarmo integrale «smontando gli spiriti»15, creando ponti, combattendo la paura e portando avanti il dialogo aperto e sincero, è veramente arduo. Dialogare, infatti, è difficile, bisogna essere pronti a dare e anche a ricevere, a non partire dal presupposto che l’altro sbaglia ma, a partire dalle nostre differenze, cercare, senza negoziare, il bene di tutti e, trovato infine un accordo, mantenerlo fermamente16. Del resto, differenze culturali e di esperienze di vita caratterizzano anche i partecipanti alla Conferenza di Roma, ma esse non faranno altro che arricchire gli scambi e contribuire al rinnovamento della testimonianza attiva della non violenza come “arma” per conseguire la pace. Vorrei, infine, invitare tutti i presenti a sostenere due delle richieste che ho rivolto ai responsabili degli Stati, in questo Anno Giubilare: l’abolizione della pena di morte, là dove essa è ancora in vigore, insieme alla possibilità di un’amnistia, e la cancellazione o la gestione sostenibile del debito internazionale degli Stati più poveri17. Mentre auguro cordialmente a Vostra Eminenza e ai partecipanti un proficuo e fruttuoso lavoro, a tutti impartisco la mia apostolica benedizione. Francesco 1. Misericordiae vultus, n. 2. 2. Ibid., n. 17. 3. Cfr. Gaudium et spes, n. 9. 4. Paolo VI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1976, Le vere armi della pace. 5. Ibid. 6. Discorso al IV Corso di formazione dei Cappellani Militari al Diritto internazionale umanitario, 26 ottobre 2015. 7. Cfr. Gaudium et spes, n. da 77 a 82. 8. Gaudium et spes, n. 79. 9. Evangelii gaudium, n. 226. 10. Ibid. 11. Ibid., n. 227. 12. Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2016, Vinci l’indifferenza e conquista la pace, n. 8. 13. Cfr. ibid., n. 4. 14. Cfr. Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2016, Vinci l’indifferenza e conquista la pace, n. 5. 15. San Giovanni XXIII, Pacem in terris, n. 61. 16. Discorso ai Rappresentanti della Società civile, Asunción, 11 luglio 2015. 17. Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2016, Vinci l’indifferenza e conquista la pace, n. 8. Pag 8 Due persecuzioni Messa a Santa Marta Sono due le persecuzioni contro i cristiani: c’è quella «esplicita» - e il ricordo del Papa è andato ai martiri uccisi a Pasqua in Pakistan - e c’è quella «educata, travestita di cultura, modernità e progresso» che finisce per togliere all’uomo la libertà, anche all’obiezione di coscienza. Ma proprio nelle sofferenze delle persecuzioni il cristiano sa di avere sempre accanto il Signore, ha ricordato Francesco durante la messa celebrata martedì mattina 12 aprile nella cappella della Casa Santa Marta. Per la sua meditazione il Pontefice ha preso le mosse dalla prima lettura, tratta dagli Atti degli apostoli (7, 51-8, 1). «Abbiamo ascoltato - ha spiegato - il martirio di Stefano: la tradizione della Chiesa lo chiama il protomartire, il primo martire della comunità cristiana». Ma «prima di lui c’erano stati i piccoli martiri che, senza parlare ma con la vita, sono stati perseguitati da Erode». E «da quel tempo a oggi ci sono martiri nella Chiesa, ci sono stati e ci sono».

Sono «uomini e donne perseguitati soltanto per confessare e per dire che Gesù Cristo è il Signore: ma questo è vietato!». Anzi, questa confessione «provoca - in alcuni tempi, in alcuni posti - la persecuzione». «È quanto appare chiaramente - ha affermato il Papa - nel brano degli Atti degli apostoli che leggeremo domani: dopo il martirio di Stefano scoppiò una grande persecuzione in Gerusalemme». Allora «tutti i cristiani sono scappati via, sono solo rimasti gli apostoli». Ecco che, ha aggiunto, «la persecuzione - io direi - è il pane quotidiano della Chiesa: d’altronde lo ha detto Gesù». «Noi quando facciamo un po’ di turismo per Roma, e andiamo al Colosseo, pensiamo che i martiri erano quelli uccisi con i leoni» ha proseguito il Pontefice. Però «i martiri non sono stati solo quelli lì». In realtà i martiri «sono uomini e donne di tutti i giorni: oggi, il giorno di Pasqua, appena tre settimane fa». Il pensiero di Francesco è andato a «quei cristiani che festeggiavano la Pasqua nel Pakistan: sono stati martirizzati proprio per festeggiare il Cristo risorto». E «così la storia della Chiesa va avanti con i suoi martiri». Perché «la Chiesa è la comunità dei credenti, la comunità dei confessori, di quelli che confessano che Gesù è Cristo: è la comunità dei martiri». «La persecuzione - ha fatto notare il Papa - è una delle caratteristiche, dei tratti nella Chiesa, pervade tutta la sua storia». E «la persecuzione è crudele, come questa di Stefano, come quella dei nostri fratelli pachistani tre settimane fa». È crudele «come quella che faceva Saulo, che era presente alla morte di Stefano, del martire Stefano: andava, entrava nelle case, prendeva i cristiani e li portava via per essere giudicati». C’è però, ha messo in guardia Francesco, anche «un’altra persecuzione della quale non si parla tanto». La prima forma di persecuzione «si deve al confessare il nome di Cristo» ed è dunque «una persecuzione esplicita, chiara». Ma l’altra persecuzione «si presenta travestita come cultura, travestita di cultura, travestita di modernità, travestita di progresso: è una persecuzione - io direi un po’ ironicamente - educata». Si riconosce «quando viene perseguitato l’uomo non per confessare il nome di Cristo, ma per voler avere e manifestare i valori di figlio di Dio». È perciò «una persecuzione contro Dio Creatore nella persona dei suoi figli». E così «vediamo tutti i giorni che le potenze fanno leggi che obbligano ad andare su questa strada e una nazione che non segue queste leggi moderne, colte, o almeno che non vuole averle nella sua legislazione, viene accusata, viene perseguitata educatamente». È «la persecuzione che toglie all’uomo la libertà, anche della obiezione di coscienza! Dio ci ha fatti liberi, ma questa persecuzione ti toglie la libertà! E se tu non fai questo, tu sarai punito: perderai il lavoro e tante cose o sarai messo da parte». «Questa è la persecuzione del mondo» ha insistito il Pontefice. E «questa persecuzione ha anche un capo». Nella persecuzione di Stefano «i capi erano i dottori delle lettere, i dottori della legge, i sommi sacerdoti». Invece «il capo della persecuzione educata, Gesù lo ha nominato: il principe di questo mondo». Lo si vede «quando le potenze vogliono imporre atteggiamenti, leggi contro la dignità del figlio di Dio, perseguitano questi e vanno contro il Dio creatore: è la grande apostasia». Così «la vita dei cristiani va avanti con queste due persecuzioni». Ma anche con la certezza che «il Signore ci ha promesso di non allontanarsi da noi: “State attenti, state attenti! Non cadere nello spirito del mondo. State attenti! Ma andate avanti, Io sarò con voi”». In conclusione, Francesco ha chiesto al Signore, nella preghiera, «la grazia di capire che la strada del cristiano sempre va avanti nel mezzo di due persecuzioni: il cristiano è un martire, cioè un testimone, uno che deve dare testimonianza del Cristo che ci ha salvato». Si tratta di «dare testimonianza di Dio Padre, che ci ha creato, nel cammino della vita». Su questa strada il cristiano «tante volte deve soffrire: tante sofferenze questo porta». Ma «così è la nostra vita: sempre Gesù accanto a noi, con la consolazione dello Spirito Santo». E «quella è la nostra forza». AVVENIRE Pag 1 Per restare ben svegli di Francesco Ognibene Le parole-scossa di Francesco La «persecuzione educata» che il Papa ha evocato ieri mattina nella Messa a Santa Marta si aggiunge al già corposo dizionario bergogliano dei neologismi e delle immagini folgoranti: un concetto inciso nella pietra del realismo con lo stile del paradosso. È la forza espressiva degli ossìmori, un’idea lavorata a sbalzo grazie alla compresenza di due opposti apparentemente incompatibili eppure combinati in una miscela che alimenta il

motore della cultura globalizzata. Oggi – denuncia il Papa con l’abituale franchezza – «viene perseguitato l’uomo non per confessare il nome di Cristo, ma per voler avere e manifestare i valori del Figlio di Dio». Quella che prende di mira idee e princìpi è una forma di persecuzione che non ricorre alla sopraffazione fisica – evocata comunque da Francesco ricordando il massacro di Pasqua in Pakistan e parlando apertamente di cristiani «martirizzati» – ma dissimula la sua violenza intrinseca presentandosi «travestita di cultura, di modernità, di progresso». Non per questo è meno pericolosa, anzi: anch’essa, come l’altra, è «contro Dio creatore nella persona dei suoi figli». Le sue armi sono «leggi che obbligano ad andare su questa strada» contro le proprie radicate convinzioni, a tal punto che «una nazione che non segue queste leggi moderne, colte – nota Francesco con un lampo di humour –, o almeno che non vuole averle nella sua legislazione, viene accusata» e «perseguitata », s’intende, «educatamente», fino al punto che si «toglie all’uomo la libertà, anche dell’obiezione di coscienza». Un caso-limite che il Papa propone il giorno dopo l’assai reclamizzato rimprovero del Comitato per i diritti sociali del Consiglio d’Europa all’Italia per 'eccesso di obiettori' all’aborto, e che cita con parole che suonano come un allarme esplicito sull’avanzare inavvertito dell’intolleranza verso chi esprime un’istanza etica dissonante. Rimbalzando spesso increduli tra notizie di sentenze, risoluzioni, progetti di legge e campagne mediatiche, tutti sull’identica rotta dell’omologazione a marce forzate, assistiamo al progressivo svuotamento della scena pubblica da ogni valore significativo, riconoscibile come tale proprio per il suo profilo, la storia, il radicamento nella coscienza della gente, la diffusa condivisione. Per estirpare queste delicate strutture che danno corpo allo spirito di una comunità, e dunque alla sua capacità di riconoscersi in un sistema di riferimenti essenziali, comuni e rispettati su un piano semplicemente umano, si ricorre a ogni genere di strumenti culturali e a strategie comunicative sottili e persuasive, messe in campo però con l’aria di non voler ferire nessuno, e semmai di muoversi animati dal desiderio di rispettare tutti. Ecco allora diffondersi «educatamente» la convinzione che sia bene rimuovere idee sorpassate, che altrove si è già andati ben 'oltre', che l’intelligenza va sfrondata dai pregiudizi, che senza aggettivi per definire appartenenze si è più liberi e meno succubi, che il significato di parole antiche e sinora univoche vada allargato per non escludere nessuno... Una petulante manipolazione per plasmare la cultura piegandola all’ideologia della neutralità che tutto equipara e nulla sopporta di stonato rispetto al suo indiscutibile dogma dell’antidogmatismo. Ma come può la tolleranza mostrarsi allergica alla differenza di opinioni? E l’accettazione asettica di qualunque presenza opporsi a manifestazioni di identità? Eppure è di queste contraddizioni che si nutre la cultura oggi prevalente sulla scena pubblica, forgiando una 'piazza' per il dibattito di idee nella quale hanno diritto di cittadinanza tutte le opinioni salvo quelle che contestano proprio l’assoggettamento a questa religione del vuoto, ossessionata dalla negazione della differenza, che esalta l’individuo e ogni sua possibile pretesa nel nome dell’uniformità e dell’allineamento a un pensiero medio collettivo. È ovvio che, come davanti alla prima diffusione del messaggio evangelico, i cristiani sono i primi destinatari dell’avviso di sfratto per chi non accetta questa forma di totalitarismo culturale, tanto ostile a chi si richiama a un’autorità «che non è di questo mondo» da mettere in campo forme di autentica persecuzione. Educata, ci mancherebbe, per non disturbare il sonno della ragione. Ma c’è chi non vuol proprio farsi addormentare. E papa Francesco dà una mano, anzi tutte e due. Pag 17 “Così Francesco rilancia la bellezza della famiglia” di Luciano Moia I coniugi Miano: uno sguardo che apprezza il sogno e la sofferenza della vita matrimoniale Un inno alle «famiglie normali», una bussola per riscoprire le piccole, grandi storie d’amore di ciascuno di noi, un testo scritto in modo semplice da un uomo che conosce davvero la vita familiare e vuole accompagnare con le sue parole le fatiche di genitori e figli. Anche, e forse soprattutto, nei momenti di crisi e di fragilità. Giuseppina De Simone e Franco Miano, unica coppia di coniugi ad aver partecipato al doppio Sinodo 2014-2015 come esperti, rileggono in questo modo l’Esortazione Amoris laetitia.

Si è parlato tanto in questi giorni di 'svolta epocale' per la pastorale familiare in particolare e per la famiglia cristiana in generale, grazie all’uscita dell’Esortazione. Siete davvero convinti che sia così? L’Amoris laetitia segna una svolta nel modo in cui la Chiesa si rivolge alle famiglie, alle famiglie cristiane sicuramente, ma potremmo dire a tutte le famiglie. Attingendo alla sua più ricca tradizione di pensiero e di esperienza, la Chiesa sembra parlare direttamente alle famiglie ponendosi accanto a loro. È una Chiesa che sta tra la gente, che cammina con la gente, e che, proprio per questo, può farsi maestra, capace di aiutare a fare chiarezza e a ritrovare il senso del procedere. L’invito è a riscoprire la bellezza che c’è dentro la vita quotidiana, dentro le storie concretissime delle nostre famiglie per avvertire in esse la presenza del Signore che non viene mai meno, neppure nei momenti di difficoltà e di sbandamento, e che fa nuove tutte le cose. Quali sono i punti dell’Esortazione che a vostro parere hanno maggiormente il sapore della novità? Sicuramente il linguaggio, semplice, immediato, alla portata di tutti, delicato e rigoroso, così profondo tanto da essere a tratti poetico. E poi lo sguardo: uno sguardo di tenerezza e di stima che si posa sulla normalità della vita, fatta di fatiche e di gioie, di stanchezze e di slanci, di sofferenze e di sogni. Questo testo nasce dall’ascolto della vita delle famiglie, e lascia parlare questa vita che è semplice e intenso annuncio dell’amore di Dio, anche nella sua imperfezione e nelle sue fragilità. Senza l’amore del Signore infatti il miracolo delle relazioni familiari non sarebbe possibile, né sarebbe possibile assumerne il divenire nel tempo. Uno dei motivi di forza di questo testo sta proprio nell’aiutare a comprendere che la vita della famiglia è un cammino in cui non bisogna temere il cambiamento che il trascorrere degli anni, il mutare delle situazioni, il divenire delle persone porta con sé. Ci sono parole bellissime a proposito del fatto che è un’esigenza dell’amore il tornare a scegliersi sempre di nuovo e che lo sguardo a cui l’amore abilita è uno 'sguardo che apprezza', capace di vedere il bello e il sacro che c’è nell’altro anche quando il suo corpo si trasforma, quando sopraggiunge la vecchiaia o la malattia, quando diventa fastidioso. È una sottolineatura preziosa che fa cogliere l’intensità e la forza dell’amore che tutto sopporta non solo tra i coniugi ma anche nella relazione tra genitori e figli e più in generale nelle relazioni che fanno vera la nostra vita. Voi che avete vissuto dall’interno il doppio Sinodo 2014-2015 in qualità di esperti ritenete che l’Esortazione rifletta davvero lo spirito e la lettera sinodale? Senza dubbio. Ci sembra che in particolare esprima il senso di un cammino di riflessione che ha coinvolto tutto il popolo di Dio. Nello stesso tempo l’esortazione di papa Francesco apre un percorso ulteriore che rilancia a tutto campo la bellezza dell’annuncio cristiano sulla famiglia. Nel documento il Papa stesso ci dice di leggere questo testo a poco a poco. Se voi doveste consigliare a una coppia di accostarsi alla lettura, da dove direste loro di incominciare? Sono molte le pagine che i fidanzati o gli sposi possono leggere insieme, e quelle in cui ognuno, in quanto parte una famiglia, può ritrovarsi. Si avverte che, nell’annunciare il Vangelo della famiglia, il Papa sta raccontando quello che viviamo ogni giorno e che molto spesso ci sfugge. Così, ad esempio, nel capitolo IV l’inno alla carità viene declinato nei tempi e nei giorni della vita delle famiglie e siamo condotti per mano a scoprire come l’amore che sa crescere 'tutto scusa' perché vede nell’altro 'molto più di quello che a me dà fastidio', 'tutto crede' perché dà fiducia, 'tutto spera' perché sa che l’altro può fiorire accettando anche 'che certe cose accadano non come uno le desidera', tutto sopporta perché attraversa ogni sfida. Ecco si potrebbe cominciare a leggere il testo da qui. Qualcuno ha sottolineato che anche l’Amoris laetitia – come tanti altri documenti del magistero – è ricca di intuizioni profetiche che poi è molto difficile tradurre in prassi pastorale. Temete che sarà così anche per questo documento? Amoris laetitia non è solo un bel documento, ma un testo che, disegnando un cammino, lascerà scoprire e far venire fuori tutte le sue potenzialità nel tempo perché è affidato all’impegno responsabile e responsabilizzante delle famiglie e delle comunità chiamate a cambiare stile e mentalità. Questi processi sono di lungo periodo, hanno bisogno di tempo, e tuttavia quando sono messi in atto sono di grande efficacia. Un testo ricchissimo di approfondimenti e anche di curiosità. Quali tra gli aspetti 'minori' più a più colpito?

Tra le tante sottolineature possibili vorremmo ricordare che papa Francesco afferma che la famiglia non è un recinto per proteggerci dall’esterno, una sorta di 'piccolo nido', ma deve diventare luogo di solidarietà e d’integrazione della persona con la società e punto di unione tra pubblico e privato. Le famiglie cristiane possono così dipingere, come dice il Papa, il grigio dello spazio pubblico 'con i colori della fraternità, della sensibilità sociale, della difesa delle persone fragili, della fede luminosa, della speranza attiva'. Ed è qui la loro fecondità che si traduce in mille modi e rende presente l’amore di Dio nella società. Pag 19 La “geopolitica” di Francesco di Pasquale Ferrara Il Pontefice e l’attualità mondiale vista dalla “periferia” Il Pontefice e l’attualità mondiale vista dalla «periferia» «Si direbbe, in qualche modo, che il Pontefice stia compiendo una sorta di riconcettualizzazione più autenticamente cattolica della politica internazionale». Lo scrive Pasquale Ferrara nel volume di fresca pubblicazione Il mondo di Francesco. Bergoglio e la politica internazionale (San Paolo, pagine 228, euro 17,50). Un libro in cui l’autore, diplomatico di carriera, docente alla Luiss Guido Carli e all’Istituto Universitario 'Sophia', affronta i nodi cruciali della 'politica estera' del Papa: dalla critica al modello liberista all’opera di riconciliazione in corso in Medio Oriente, dal dramma dei flussi migratori e dei muri che si ergono contro chi fugge dalle guerre alla situazione dell’America Latina e delle “periferie” di tutto il mondo. Soprattutto – scrive nella prefazione il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni – il Papa «ha cambiato il tono del discorso politico mondiale, con l’appello a un dialogo serio, all’inclusività, a stigmatizzare la “globalizzazione dell’indifferenza” e porre al centro dell’agenda internazionale la dignità della persona, invitando a guardare il mondo dalla “periferia'». Da Il mondo di Francesco pubblichiamo ampi stralci tratti dal capitolo Guerra di religione o religione della guerra? La lettura di Papa Francesco della pericolosa deriva para-bellica globale si articola in un mondo in cui si manifestano fenomeni di disgregazione violenta dell’assetto internazionale. In effetti, a metà della seconda decade del XXI secolo, si fa fatica a identificare i caratteri precisi di un sistema internazionale che è ben lontano dalle fattezze dell’ordine. Certo è che la lunga transizione iniziata con la fine della guerra fredda non solo non è ancora giunta a maturazione, ma sta assumendo i tratti della confusione globale. Diventa sempre più evidente che le forze economiche della globalizzazione si confrontano con quelle ben più antiche e profonde delle culture e delle identità. In alcune aree del mondo, e in particolare in Me- dio Oriente, si determinano fattori di instabilità che vanno ben oltre il concetto di scontro di civiltà. In molti casi, un rozzo radicalismo si unisce a pratiche di violenza e di intolleranza che sembravano essere relegate negli archivi della storia. In questo contesto già di per sé critico, l’errore più grave che potremmo compiere sarebbe quello di cadere nella trappola tesa da fondamentalisti violenti, che hanno tutto l’interesse a radicalizzare l’opposizione all’Occidente in termini di guerra di religione. Purtroppo, prestigiosi intellettuali occidentali hanno esortato l’opinione pubblica europea a prendere atto di questa situazione di belligeranza a sfondo religioso e hanno sostenuto che non si tratterebbe di una novità, in quanto guerre di religione costellano l’intera storia dell’umanità (...) Papa Francesco si è distinto nettamente dalla lettura antagonista e dozzinale del terrorismo a pretesto religioso, forma di fanatismo ideologico omicida, facendo sentire il suo sdegno, subito dopo i terribili attentati di Parigi del 13 novembre 2015, quando affermò senza mezzi termini che utilizzare il nome di Dio per giustificare la violenza equivale a «una bestemmia» (Angelus, 15 novembre 2015). In molte altre occasioni, in precedenza, si era espresso in termini analoghi: «Nessuno pensi di poter farsi scudo di Dio mentre progetta e compie atti di violenza e sopraffazione! Nessuno prenda a pretesto la religione per le proprie azioni contrarie alla dignità dell’uomo e ai suoi diritti fondamentali, in primo luogo quello alla vita e alla libertà religiosa di tutti!» ( Incontro con le autorità, Tirana, 21 settembre 2014). E ancora: «La religione autentica è fonte di pace e non di violenza! Nessuno può usare il nome di Dio per commettere violenza! Uccidere in nome di Dio è un grande sacrilegio! Discriminare in nome di Dio è inumano » ( Incontro con i leader di altre religioni e altre denominazioni cristiane, Tirana, 21 settembre 2014). In Turchia aveva affermato che «la vita umana, dono di Dio Creatore,

possiede un carattere sacro. Pertanto, la violenza che cerca una giustificazione religiosa merita la più forte condanna, perché l’Onnipotente è Dio della vita e della pace» (Visita al presidente degli Affari religiosi Al Diyanet, Ankara, 28 novembre 2014). Un cambiamento di approccio rilevante sostenuto da Francesco connesso alla questione dell’intolleranza e della libertà religiosa è il passaggio da una “diplomazia della determinazione”, cioè da un atteggiamento assertivo, a una dimensione di “diplomazia del dialogo”, centrato sulla cultura dell’incontro. Questo non significa assegnare alle religioni un’impropria funzione politico-diplomatica – non si sente alcun bisogno di una «Onu delle religioni». Intendiamoci. Non si può avere una visione ingenua o irenista delle religioni. Ideologie o pratiche di ogni tipo – incluse le religioni come l’islam, il cristianesimo e l’ebraismo – possono ricorrere e sono ricorse alla violenza in certi momenti storici e in certe cere condizioni (...) Le religioni producono e motivano estremisti religiosi violenti, quando ricorrano precise condizioni di radicalizzazione o si producano miscele esplosive e “letali” di religione e politica, ma anche “militanti della pace” che operano sulla base di convincimenti religiosi articolati in termini di riconciliazione e perdono. Le religioni, spesso ritenute la causa prima di intolleranza, violenza, e intrattabilità dei conflitti, si rivelano talvolta determinanti nei processi di risoluzione dei conflitti e di riconciliazione, come evidenziato negli studi che mirano a collegare il dialogo interreligioso e la costruzione della pace (peace-building)(...). Non è perciò accettabile sostenere che una specifica religione, in quanto tale, sia più incline alla violenza di altre religioni o di istituzioni considerate laiche o secolari, o che le religioni siano un terreno di cultura dei conflitti più favorevole di altri ambiti, come per esempio il nazionalismo, l’imperialismo, il colonialismo vecchio e nuovo, e il totalitarismo ideologico di ogni colore (...). Il militarismo, l’egemonia economica, l’intolleranza a tutti i livelli sono cause di conflitto unitamente a tanti altri fattori sociali e culturali di cui la religione costituisce solo una componente. Persino le organizzazioni panislamiste che si ispirano a distopie antistoriche (come quella del Grande Califfato) perseguono non tanto il trionfo dell’islam in quanto tale (o una concezione falsificata e strumentale di tale religione) ma la formazione di un’entità politica di natura statuale o addirittura dai tratti vagamente imperiali. Paradossalmente la loro assoluta e dogmatica opposizione all’Occidente si fonda sull’accettazione distorta di una delle istituzioni politiche inventate proprio nel mondo euro-atlantico, e cioè lo Stato moderno e il connesso apparato di potere, per non parlare degli strumenti tradizionali di tutti «i troni e le dominazioni» in ogni tempo e in ogni angolo del mondo, come il genocidio e la propaganda, più o meno sofisticata e più o meno tecnologica. Tutto ciò ha molto poco a che fare con la religione e invece ha molto a che vedere con le consuete ricette del dominio di oligarchie e della prevalenza di strutture improntate alla cultura bellica. Persino il meccanismo volutamente terrorizzante delle raccapriccianti esecuzioni di innocenti o degli atti di terrorismo contro civili inermi risponde a una logica di controllo sociale e dell’opinione, come ha dimostrato Michel Foucault in Sorvegliare e punire: chi usa tali meccanismi di psicologia sociale ricerca l’altrui sottomissione e un governo basato sull’intimidazione e la minaccia. Da ogni punto di vista, in questi casi si dovrebbe parlare non tanto di guerre di religione ma, più concretamente, realisticamente e prosaicamente, di religione della guerra. Sono infatti la politica di potenza, la sete di conquiste territoriali e l’esercizio del potere senza scrupoli le motivazioni delle presunte guerre di religione. Tantomeno ha senso parlare di scontro di civiltà (spesso mescolate in un minestrone indigesto con le culture e le religioni, che sono ben altra cosa); in realtà si dovrebbe riconoscere l’esistenza di uno scontro all’interno delle civiltà tra coloro che concepiscono l’identità in senso esclusivista e aggressivo e quanti invece considerano che essa è sempre il risultato di incontri, confronti, interazioni, scambi e reciproche “contaminazioni” (...). IL FOGLIO Pag 4 La breccia in Amoris laetitia che fa sognare la revoluciòn sulla famiglia di Matteo Matzuzzi Roma. Che l'esortazione post sinodale firmata dal Papa, Amoris laetitia, avrebbe diviso il campo cattolico come si trattasse del clásico spagnolo, era scontato. Due anni di dibattito acceso, colpi bassi tra cardinali, offese reciproche e delibere assembleari decise per uno o due voti, non potevano che consegnare tale esito. Che vi sarebbe stata

un'apertura era altrettanto certo, visto che Francesco non per nulla ha convocato due sinodi a distanza di un anno l'uno dall'altro. Prevedibile era pure la sfida all'interpretazione dell'enciclopedico testo (256 pagine, 325 paragrafi), quasi si trattasse dell' oracolo della pizia di Delfi, la cui decodificazione spettava a sacerdoti per nulla disinteressati al corso degli eventi nella storia. Robert Royal, autorevole commentatore statunitense, ha meglio d'ogni altro riassunto la questione: Amoris laetitia è in realtà un insieme di due testi. Sul primo, che raggruppa i primi sette capitoli e l'ultimo, tutti sono d'accordo: c'è la condanna del gender, dell'eutanasia, la riaffermazione della fa miglia come istituto fondato sul matrimonio indissolubile tra uomo e donna (solo tra uomo e donna, nonostante qualche padre sinodale, preda dello Zeitgeist, avesse messo in discussione pure il fatto che i figli sono concepiti solo tra maschio e femmina), il no fermo alle unioni di fatto - "unioni precarie", scrive Francesco. Poi c'è il punto dolens, il capitolo ottavo, quello che tratta delle situazioni cosiddette irregolari. E cioè della comunione ai divorziati risposati. Da nessuna parte, come ha scritto anche il preside dell'Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia, mons. Livio Melina, il Papa dice che la comunione va ridata. Non affronta neppure il problema, salvo una nota a pié di pagina (la 351) dove si parla di integrazione che può portare anche a un riaccostamento ai sacramenti previo percorso penitenziale, esame di coscienza, confessione, eccetera. Il Papa dice che non si può sostenere che tutti i casi siano uguali e - soprattutto - che "nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo!". Tanto è bastato per far tirare le somme a buona parte dei media, che hanno subito parafrasato la frase del vescovo di Roma in un inappellabile "la svolta del Papa, ostia ai divorziati risposati". D'altronde, non c'è più il peccato mortale, si sosteneva da più parti. Si dimentica, però, come ha ribadito mons. Melina, che "l'affermazione di Amoris laetitia dell'impossibilità di definire la mortalità del peccato personale a prescindere dalla verifica della responsabilità del soggetto, che può essere attenuata o mancare, non toglie la necessità di dire che nondimeno è uno stato oggettivo di peccato". Un capitolo ambiguo, dicono i più. Si spiega che non poteva essere altrimenti, che trattasi di mediazione tra il fronte rigorista - quello che Bergoglio spesso bolla come il covo "dei cuori duri" - e quello più "misericordioso" (altri preferiscono l'attributo "lassista"). Un capitolo che appare come una breccia nel muro eretto da Familiaris consortio, destinato quindi a crollare sotto i colpi dei paragrafi in cui il Pontefice mette nero su bianco che "molti, conoscendo e accettando la possibilità di convivere 'come fratello e sorella' che la chiesa offre loro, rilevano che, se mancano alcune espressioni di intimità, non è raro che la fedeltà sia messa in pericolo e possa venir compromesso il bene dei figli". Il che appare a molti osservatori come un invito neppure troppo implicito a vivere come fossero coniugi. Ma, appunto, non dice esplicitamente neppure questo. Una rivoluzione, insomma, che ha poco del copernicano. Semplicemente, "il documento segnala che ci possono essere circostanze in cui le persone, che vivono obiettivamente in una situazione di peccato, magari non sono soggettivamente colpevoli a motivo dell' ignoranza, della paura, di affetti disordinati e di altre ragioni, che sempre la tradizione morale ha riconosciuto e che il catechismo della chiesa cattolica menziona", notava ancora il preside dell' istituto sulla famiglia voluto da Giovanni Paolo II. WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT La visita del Papa a Lesbo, ecumenismo sul campo di Andrea Tornielli Cristiani di diverse confessioni lavorano fianco a fianco nel servizio a chi soffre e fugge le conseguenze delle guerre Il programma della visita di Francesco e del Patriarca Bartolomeo all’isola greca di Lesbo, sabato 16 aprile, viene definito in queste ore. Il Papa sarà accolto all’aeroporto di Mitilene dal premier greco Alexis Tsipras, ci sarà un momento di preghiera al porto al termine del quale Francesco, Bartolomeo e l’arcivescovo ortodosso di Atene Hieronimus II getteranno in mare una corona di fiori in ricordo delle vittime, quindi si recheranno in visita al campo profughi, dov’è previsto che si fermino per condividere con loro il pranzo. Il gesto papale, un richiamo potente alle responsabilità dell’Europa di fronte all’emergenza di chi fugge da guerre e violenze, ha un’origine e un significato ecumenici. L’invito a Francesco è stato rivolto da Bartolomeo e dal Sinodo permanente della Chiesa

ortodossa di Grecia. Il segno comune della vicinanza dei capi delle Chiese cristiane ai profughi è quanto mai significativo, perché rappresenta uno degli aspetti che Francesco non manca mai di sottolineare quando parla dei rapporti tra cristiani: lavorare fianco a fianco per aiutare chi soffre, compiere insieme dei tratti di strada e di impegno comune, aiuta a progredire nel cammino verso l’unità tanto quanto, se non di più dei dialoghi teologici e delle commissioni di studio. Con Bartolomeo la sintonia in questo senso si è già manifestata attraverso l’iniziativa per la pace in Medio Oriente, come pure nella comune preoccupazione per la salvaguardia del creato. Lo scopo concreto di porre al centro dell’attenzione in particolare le sofferenze dei cristiani nei Paesi squassati dalla guerra e dal terrorismo è stato fondamentale anche per l’incontro tra Francesco e il Patriarca di Mosca e di tutta la Russia Kiryll, avvenuto, come si ricorderà, all’aeroporto dell’Avana, tappa iniziale del viaggio papale proseguito poi in Messico. Lo scorso 21 marzo la visita a Lesbo era stata discussa da Francesco con il vescovo ortodosso greco Gavril di Nea Ionia, inviato per concordare in via riservata alcuni dettagli. Negli ultimi giorni sono state rese pubbliche le dichiarazioni contrarie all’arrivo del Papa da parte di tre vescovi greci, i metropoliti di Glyfada, Pireo e Kalavryta, i quali hanno protestato per il fatto che l’invito al Pontefice non è stato deciso dall’assemblea di tutti i vescovi, ma dal Sinodo permanente, cioè dall’organismo di governo nel quale a rotazione vengono eletti ogni anno i rappresentanti dell’episcopato. I tre metropoliti non sono peraltro nuovi a contestazioni di questo genere nei confronti di qualsiasi apertura ecumenica e sono peraltro già noti per le loro prese di posizione. Il vescovo di Kalavryta, ad esempio, aveva appoggiato pubblicamente Alba Dorata, il partito greco di estrema destra sospettato di neo-nazismo. La pubblica protesta dei tre esponenti della gerarchia non è quindi ritenuta particolarmente rappresentativa dell’umore della Chiesa ortodossa di Grecia. Con il viaggio lampo di Francesco, un Papa rimette per la prima volta piede sul suolo greco dopo i l pellegrinaggio giubilare di Papa Wojtyla sulle orme di san Paolo nel maggio 2001. Allora Giovanni Paolo II vinse la freddezza dell’arcivescovo ortodosso Christodoulos e del Sinodo permanente definendo frutto del «mysterium iniquitatis» la crociata del 1204 che distrusse Costantinopoli, evento accaduto otto secoli prima ma ancora vivissimo nella memoria ortodossa. Diversi passi in avanti sono stati compiuti da allora. I cristiani ortodossi e cattolici lavorano insieme nell’accogliere i profughi e l’isola mitologica di Lesbo, con la generosità dei suoi abitanti, è diventata un simbolo per quell’Europa che non si rassegna a essere soltanto un grande mercato comune capace di cavillare sulle regole economiche, ma vuole ricordare i suoi valori fondanti. La trasferta di poche ore del Vescovo di Roma, accolto dal Patriarca ecumenico di Costantinpoli e dall’arcivescovo di Atene, sarà dunque un esempio di quell’« ecumenismo del grembiule» che vede i cristiani di diverse confessioni impegnati fianco a fianco nel servizio a chi soffre. SETTIMO CIELO (blog di Sandro Magister) "Amoris lætitia" non è magistero. La linea di resistenza del cardinale Burke "Resisterò", promise un anno fa il cardinale Raymond L. Burke a chi gli chiedeva che cosa avrebbe fatto se il papa avesse permesso la comunione ai divorziati risposati. E ora che Francesco si è pronunciato, il cardinale spiega come intende resistere. Lo ha fatto in un testo di 2400 parole pubblicato in esclusiva l'11 aprile in inglese dal National Catholic Register e rilanciato il giorno dopo in italiano da La Nuova Bussola Quotidiana. La sua linea di resistenza consiste essenzialmente nel non riconoscere alla "Amoris lætitia" il rango di documento magisteriale, ma semplicemente quello di "una riflessione del Santo Padre", di un suo "punto di vista che egli non intende imporre". E quindi, ne deriva, "l'esortazione apostolica postsinodale può essere correttamente interpretata, in quanto documento non magisteriale, solamente usando la chiave del magistero, come spiegato nel Catechismo della Chiesa cattolica". Un magistero che naturalmente è quello che precede l'attuale pontificato. E che resta pienamente in vigore. In verità lo stesso Francesco – e Burke lo fa notare – ha confessato nell'esordio dell'esortazione, al paragrafo 3, una certa sua ritrosia a pronunciarsi con tutti i crismi magisteriali. Ma anche qui con quella ambiguità di linguaggio che rende l'intero suo discorso aperto alle più diverse letture, anche là dove sembrerebbe più assertivo, come ad esempio nel paragrafo 301: "Non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche

situazione cosiddetta 'irregolare' vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante". La tesi di Burke è che l'errore non stia nella "Amoris lætitia", ma nelle interpretazioni di chi la vede "come una rivoluzione nella Chiesa, come un radicale allontanamento dall’insegnamento e dalla prassi della Chiesa, sul matrimonio e la famiglia, così come trasmesso fino ad ora". Anche il cardinale Walter Brandmüller, in un'intervista a "Bild" ripresa dal sito katholisch.de della conferenza episcopale tedesca, si scaglia contro le "cattive interpretazioni" dell'esortazione papale, che "annacquano" il magistero e "minano la credibilità della Chiesa". Sia lui che Burke, però, non mancano di criticare almeno un punto della "Amoris lætitia" che ritengono foriero di confusione. Per Brandmüller il punto inaccettabile è l'ammettere eccezioni al divieto della comunione per chi vive in uno stato di adulterio, perché "ciò che è fondamentalmente impossibile per ragioni di fede è anche impossibile in casi individuali". Mentre per Burke un pericoloso equivoco nasce là dove l'esortazione fa riferimento al matrimonio indissolubile come a un "ideale": "Una tale descrizione del matrimonio può essere fuorviante. Può condurre il lettore a pensare al matrimonio come a un’idea eterna, alla quale gli uomini e le donne debbano più o meno conformarsi nelle circostanze mutevoli. Ma il matrimonio cristiano non è un’idea; è un sacramento che…". È facile però prevedere che questa linea di difesa dell'insegnamento classico della Chiesa in materia di matrimonio non raffredderà minimamente il fervore sia teorico che pratico dei "rivoluzionari". In testa ai quali c'è sempre il cardinale Walter Kasper, il personaggio chiave dell'operazione che Jorge Mario Bergoglio ha condotto fin qui. Per Kasper la "Amoris lætitia" è nientemeno che "il più importante documento nella storia della Chiesa dell'ultimo millennio". E chi si schiera apertamente con lui, come fa ad esempio il quotidiano "Avvenire" della conferenza episcopale italiana, non vede affatto nella "Amoris lætitia" soltanto "la riflessione ad alta voce di un padre saggio", ma proprio quello che il cardinale Burke non vuole vedervi: cioè "un documento del magistero" in piena regola, in cui "ci sono le note, i rimandi alle encicliche e alle esortazioni proprie, dei predecessori, e dei padri della Chiesa". Un documento "saldo e rivoluzionario", che segna "l’archiviazione di una pastorale dei divieti e degli obblighi, mutuata più da una lettura pedissequa del codice di diritto canonico che non dal Vangelo". Povero cardinale Burke, grande canonista, che non si attacca a nient'altro che a codici e commi… Perché inevitabilmente è anche a lui che pensa papa Francesco, senza amore né letizia, quando nel paragrafo 305 dell'esortazione – come già nel discorso alla fine del sinodo – se la prende con i legulei che "tirano pietre contro la vita delle persone" e i "cuori chiusi che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa, per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite". Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag II M9, ombre sul futuro. L’allarme dei mestrini di Melody Fusaro La preoccupazione del Centro studi storici sulle voci che la parte culturale del progetto potrebbe essere abbandonata. I club service: “Non possiamo perdere anche questa occasione” M9, progetto a rischio? Sul futuro del museo di Mestre le voci si rincorrono e non sono rassicuranti. A lanciare l'allarme sono alcune associazioni locali, che si dicono già pronte alla levata di scudi per proteggere il grande sogno mestrino. «Sembra che il nuovo Cda della Fondazione e il presidente non abbiano più intenzione di impegnare soldi nella realizzazione del museo - afferma Roberto Stevanato del Centro Studi Storici di Mestre -. Da persone vicine alla Fondazione abbiamo saputo che sarebbe in discussione l'ipotesi di completare il piano interrato, per farne addirittura un parcheggio. Tutto il resto dell'edificio, invece, potrebbe essere utilizzato semplicemente a scopo commerciale annullando totalmente il progetto culturale su cui si è lavorato per anni». Dopo il terremoto di qualche settimana fa, con l'uscita di scena dell'amministratore delegato Plinio Danieli e la nomina del nuovo consiglio di amministrazione della società Polymnia (in seguito alle dimissioni di gran parte del vecchio consiglio), ora il timore è di veder

sfumare il sogno di un polo culturale mestrino. Dopo lo scossone la fondazione aveva però confermato l'obiettivo di «inaugurare l'M9 »nei tempi e nei costi previsti" quindi a luglio 2017. Un'intenzione, annunciata in una nota ufficiale, che non convince le associazioni. «Noi abbiamo sempre appoggiato l'idea dell'M9, e avevamo proposto anche di allestire uno spazio per raccontare la Mestre prima delle grandi trasformazioni del '900 - aggiunge Stevanato -. Siamo ancora pronti a collaborare e a dialogare ma, se il progetto dovesse saltare, questa volta faremo una rivoluzione. Siamo pronti, insieme ad altre associazioni, a prendere una posizione forte perché Mestre ha bisogno di un'importante offerta culturale. E dopo anni di studi, di cambi di destinazione d'uso e di interventi, trasformare anche l'M9 in qualcosa di commerciale sarebbe inaccettabile». Ora il Centro Studi Storici sta per lanciare un documento aperto per fare pressione sulla Fondazione, chiamando a raccolta tutti i cittadini e le associazioni mestrine. «Siamo stufi di sentir accampare ragioni di carattere economico - conclude -, magari per tappare buchi di bilancio o perché questo progetto non va bene a certi ambienti veneziani, vicini alle stanze dei bottoni, che vogliono continuare a dirci di prendere l'autobus e andare in centro storico, se abbiamo voglia di cultura. Mestre è già stata tartassata a sufficienza, massacrata da anni di malgoverno e di enorme edificazione, un eventuale cambio di rotta sull'M9 non passerà in modo indolore». «Sono preoccupato, non possiamo perdere anche questa occasione». Anche Antonio Serena, presidente dell'Interclub Service di Mestre, condivide le preoccupazioni per il futuro dell'M9. E domenica sera ha lanciato un appello di fronte a migliaia di mestrini, riuniti al Duomo di Mestre per il concerto e la raccolta fondi destinata alla chiesa di San Girolamo. «Abbiamo fatto di nuovo progetti per Mestre, affinché assuma l'aspetto di una vera città con un'anima - ha detto - e ancora una volta il sospetto è che tutto possa saltare. Un'ipotesi che i mestrini non possono più accettare». I timori nell'associazione mestrina sono sorti con l'uscita di scena dell'ex amministratore delegato Plinio Danieli. «Era lui l'uomo che aveva condotto il progetto fin dall'inizio - aggiunge Serena -, e ora la paura è che, per far quadrare i conti, non venga più portato a termine». E, facendo riferimento alla proposta di Ennio Fortuna, chiede di valutare delle alternative. «Con molta probabilità - conclude - si ritiene che il progetto supertecnologico e moderno sia troppo costoso e rischioso. È condivisibile il timore di non avere una copertura e di non raggiungere quel numero di visitatori necessario per rientrare nelle spese. Ma allora perché non valutare seriamente l'idea di aprire in quegli spazi un museo della Serenissima? Un progetto simile potrebbe essere allargato a tutto il Veneto e non potrebbe che attrarre i turisti in visita a Venezia». Pag II Il museo diventerà parcheggio? di Debora Esposti M9, il promesso primo museo di Mestre, o meglio, primo museo in Mestre, sembra presentare, proprio ora che il traguardo del suo completamento si avvicina, improvvisi e imbarazzanti problemi. A ciel sereno, la defenestrazione del direttore dei lavori; a seguire i dubbi sul suo contenuto; quindi sulla sostenibilità economica del progetto (che la cultura produca anche reddito resta sempre un tabù in Italia). Ora, con una solitaria iniziativa, il dott. Fortuna lo viene a proporre come sede di un possibile museo della Repubblica di Venezia (la Serenissima per capirsi, non quella di Daniele Manin) in ragione, anche, "della dichiarata nostalgia della propria storia" che attanaglierebbe il cuore dei veneti. Un museo a rappresentare quindi i principali aspetti della storia di Venezia... a Mestre. M9, il museo del novecento, un museo «concepito per diventare parte integrante di Mestre, per vivere in rapporto simbiotico con la città e la sua comunità, è un progetto per Mestre. Vuole parlare a Mestre, più che di Mestre», è il commento espresso dal gestore della pagina Facebook dell’M9 come risposta alle perplessità di un lettore. Ora il dott. Fortuna che lamenta di non essere stato adeguatamente compreso nell’aver proposto la realizzazione di un museo della storia di Venezia all’interno dell’arsenale, viene a proporre la sede mestrina. Avanti il prossimo... Ancora una volta si deve assistere, indipendentemente da chi sia il committente, pubblico o privato, alla totale mancanza di pianificazione, per cui, si iniziano i lavori di costruzione del tram senza chiarire preliminarmente il suo percorso e accorgersi solo dopo che questo non può salire la rampa della Vempa e necessita di un percorso

alternativo; si pavimentano parte dei giardini di via Piave per crearci un mercato settimanale senza avere concordato la cosa con chi ci dovrà portare le bancarelle; si costruisce un museo fortemente tematico, prevedendo un break even a 200.000 visitatori, integrando la copertura dei costi con gli affitti degli spazi commerciali, salvo poi rivedere stime troppo ottimistiche! Soluzioni? Si caccia il direttore dei lavori. A questo punto gli scenari possibili si moltiplicano ed è lecito attendersi anche un intervento del pubblico in una iniziativa privata: chissà, magari alla fine niente museo, spazio al commerciale e un bel parcheggio nell’area scoperta... Pag III Quando i turisti diventano “prede” di Paolo Navarro Dina Figuranti, venditori di fiori, portabagagli sempre più insistenti per avere soldi: tensioni frequenti La tensione si coglie al volo. C’è un’aria da equilibrio instabile. Basta solo che qualcuno scardini il meccanismo e potrebbe accadere il putiferio. Da una parte le bancarelle autorizzate, dall’altra gli abusivi. Vecchia storia, ma ora quello che più colpisce non è tanto che le varie etnie si siano spartite il territorio, ma che - con invadenza e arroganza - sia in atto una vera lotta sotterranea tra fazioni. E non vi è dubbio: è forte la pressione psicologica alla quale, volente o nolente, ci si trova di fronte. É il caso dei figuranti. Ci sono delle damigelle in costume che chiamano. «Come here, come here, Vieni qui, vieni qui», mormorano con voce suadente, lanciano baci. C’è chi si avvicina. Finisce per mettersi in posa, scatta il fatidico clic e così pure il rito della mancia. Ma non è così semplice. Le damigelle, non più gentili donzelle, prendono il malcapitato per il braccio, gli si avvicinano con più interesse di prima e lo invitano a dare qualcosina in più. Già, stringi stringi, meglio una banconota da 5 euro, piuttosto che una monetina da un euro. Un rito che si ripete, ora dopo ora, momento dopo momento, quando una normale foto in posa dal valore di pochi spiccioli, si trasforma in un vero e proprio obolo forzoso. Ieri i vigili sono intervenuti con altre due multe da 133 euro per i figuranti e relativo sequestro di abiti e maschere (in pochi giorni le sanzioni sono state 10). Le insistenze dei portabagagli al Ponte della Costituzione sono niente in confronto a quelle del gentil sesso in costume finto Ottocento... E poco lontano c’è anche il simil Charlot sotto il Monumento a Vittorio Emanuele, re con la spada sguainata. L’emulo di Chaplin staziona sotto la statua, si infila quatto quatto nelle foto dei turisti e poi chiede la mancia... Insomma, benvenuti in Riva degli Schiavoni, con la stagione turistica alle porte, tra bancarelle regolari e decine di abusivi. I venditori di occhiali contraffatti stazionano al Ponte della Veneta Marina e poi, poco a poco, si avvicinano verso San Marco, controllando prima che non ci siano carabinieri o finanzieri in divisa. Poi ci sono gli africani che mettono giù il lenzuolo per piazzarci le loro cianfrusaglie in pelletteria, dalle borse ai portachiavi fino ai portafogli. E poi i cingalesi che canticchiano con voce stridula girando come lucertole: "Selfie selfie" e abbindolando i turisti. E tutto questo alla luce del giorno, con un’unica eccezione ovvero quando transitano di pattuglia le forze dell’ordine. Allora tutto rientra. E tutti spariscono per fare capolino subito dopo il passaggio. Insomma, una sonora presa in giro come ammettono gli stessi venditori ambulanti regolari. Nel frattempo, la casbah si ingrossa. E soprattutto si trasforma in un panorama inverosimile all’ora di pranzo quando le pattuglie di servizio "staccano" per mangiare. Allora, la Riva diventa ancor più il luogo dei mercatini abusivi: occhiali, palline antistress, selfie, borse e borsette. E un po’ il gioco di "guardie e ladri". Alle 15, quando riprendono i servizi, tutti sottocoperta in attesa di momenti migliori. E così si va avanti fino a sera. Ma non è finito. In assenza di controlli e di pattuglie notturne e di bancarelle di venditori regolari, Riva degli Schiavoni diventa "terra di nessuno" e il percorso attorno a San Marco si trasforma. É l’ora dei dardi luminosi che - diciamocelo con franchezza - non solo sono ignobili, ma aggiungono tensione a tensione proprio perché spuntano improvvisamente dall’alto sulla capoccia della gente. E dulcis in fundo, i venditori abusivi di fiori. La loro insistenza è ormai proverbiale. E in più di un’occasione, proprio il loro avvicinarsi con una rosa (spesso presa in mano dal turista, ma altre volte la mettono nella borsa o in una tasca) si trasforma in uno scontro verbale tra chi insiste a vendere il fiore, e chi insiste per non accettarlo. Come dire peggio che "oggi le comiche".

Intanto il Comune prova a metterci mano. Impegno non facile dopo anni di abbandono e di polemiche sul da farsi. E proprio nei giorni scorsi il presidente dell’Ascom Roberto Magliocco ha effettuato un sopralluogo con l’assessore al Commercio, Francesca Guzzon che ha potuto rendersi conto della situazione e del livello di abusivismo lungo l’area marciana e Riva degli Schiavoni che è, e rimane, il luogo più delicato nella battaglia ormai di lungo tempo per limitare l’invadenza del commercio abusivo. Un sopralluogo che ha riguardato non solo la Riva ma nel complesso tutta l’area marciana anche e soprattutto dopo le misure per l’emergenza terrorismo che in queste settimane sono state adottare per i luoghi sensibili nella zona di San Marco come Basilica, Palazzo Ducale. Piazza e l’area del Molo. Pag XIII Troppi schiamazzi, a giudizio per le minacce al parroco di Lauredana Marsiglia Due persone nei guai, ma don Lio Gasparotto ora potrebbe ritirare la querela Belluno - Non sopportavano quello stridulo vociare di uno scatenato gruppo di scout ospite della casa parrocchiale, così decisero di passare ai fatti prendendosela con il loro custode, ovvero don Lio Gasparotto, 63 anni, titolare della parrocchia di Catene dalla quale il gruppo era partito per una vacanza a Domegge. Il prete, impaurito dall’aggressione verbale, fatta brandendo un oggetto contundente (pare un grosso mazzo di chiavi), scappò via. Nella disperata fuga inciampò, finendo a terra. Si fratturò ben tre coste riportando una prognosi di 25 giorni alla quale fece seguire una denuncia-querela contro gli aggressori. Era l’estate dell’anno scorso. Ieri, i protagonisti di quell’incursione, Michele Spina, 38 anni, e la madre Adriana Gatto, 60, accusati di lesioni personali e violazione di domicilio, sono stati rinviati a giudizio. Assistiti dal difensore d’ufficio Nino Degli Angeli, del foro di Belluno, dovranno comparire davanti ad un tribunale nel marzo del 2017. Il parroco, assistito dall’avvocato Marco Vassallo, del foro di Venezia, nell’anno giubilare della "misericordia", si è però detto disposto a ritirare la querela, purchè si arrivi a un accordo di buon vicinato. Insomma, i due imputati dovranno imparare ad accettare quelle giovani presente estive, evitando di farsi saltare i nervi in caso di eccessi di sbarazzina euforia. Il fatto sotto accusa avvenne il 26 luglio del 2015. Gli scout di Catene erano saliti in vacanza nella casa parrocchiale di Calalzo, nel centro del paese. LA NUOVA Pag 17 “Restauri sulla facciata e sui mosaici” di Enrico Tantucci Il nuovo proto illustra i lavori in corso. L’architetto Piana: “Dobbiamo risolvere alcuni inevitabili problemi statici, interverremo anche nel transetto destro” Il cantiere-San Marco che non si ferma mai. È quello dei lavori di manutenzione e di restauro della Basilica, ora affidati all’architetto Mario Piana, ordinario di Restauro all’Iuav, che ha da pochi mesi raccolto il testimone come proto della chiesa marciana dall’architetto Ettore Vio. E il prossimo cantiere che sta prendendo il via in questi giorni con l’installazione dei ponteggi è quello che riguarda la facciata della Basilica che dà sulla Piazzetta San Marco. «Interverremo sulla facciata superiore», spiega l’architetto Piana, «risolvendo anche alcuni problemi statici che riguardano le cuspidi. Rappresenta l’ultimo tratto di facciata della Basilica che non è stato ancora restaurato. Il restauro del primo tratto l’avevo già seguito io nel 1980, quando lavoravo ancora in Soprintendenza». Ma anche all’interno della Basilica si continua a intervenire, anche per i problemi di statica che alcune delle sue parti inevitabilmente presentano con il passare del tempo. «La situazione forse più delicata» spiega ancora il proto di San Marco «è quella che riguarda il braccio destro del transetto, che ha registrato i primi cedimenti sin dal Quattrocento, ma la cui situazione è sempre stata tenuta sotto controllo. Si registrano però fratture tra i mosaici, comunque puntellati, ma ora è arrivato il momento di intervenire». Per sua fortuna, la manutenzione e il restauro di San Marco si autofinanziano, grazie ai proventi dei biglietti venduti per l’ingresso al Tesoro, per la Pala d’Oro e anche per l’ingresso al Campanile. «Da tempo la Procuratoria e la Basilica non possono più contare su finanziamenti pubblici per i restauri» spiega ancora l’architetto Piana «ma grazie agli introiti dei biglietti, riusciamo comunque a disporre delle risorse

necessarie per gli interventi». Impiegati anche all’esterno, come avverrà presto anche per l’ex convento di Sant’Apollonia, ora sede del Museo Diocesano. «Qui interverremo per realizzare una nuova vasca idraulica» spiega ancora l’architetto Piana «che metta al riparo l’intero edificio e non solo il chiostro, dalle acque alte, visto che siamo nel punto più basso della città. Qui tra l’altro è possibile che possa trovare sede anche il Museo della Fabbrica di San Marco, a cui si sta pensando da tempo. È una delle ipotesi possibili». Ma, tornando alla Basilica, altro problema è quello del microclima interno, in parte alterato dalla continua presenza dei turisti. «Il limite di trecento persone per volta come limite massimo in Basilica, ci aiuta» commenta ancora il proto di San Marco «ma si può pensare anche all’adozione di monitoraggi specifici per tenere sotto controllo la situazione». Pag 17 “Save Venice” fa risplendere Veronese a San Sebastiano Venerdì è convocata l’assemblea all’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti dei Comitati privati internazionali per la salvaguardia di Venezia che presenteranno come ogni anno il loro programma di restauri. Ma intanto prosegue incessante quello del comitato privato statunitense “Save Venice”, che ormai da diversi anni ha “adottato” la chiesa di San Sebastiano, tempio dedicato alla grande pittura di Paolo Veronese, con il restauro sistematico dei suoi dipinti. Si è appena concluso quello che riguarda l’organo della chiesa e i dipinti con cui il grande artista rinascimentale lo decorò. L’organo della chiesa, fu eseguito nel 1558 da Francesco Fiorentino su disegno dello stesso Veronese e venne decorato poco dopo con le due splendide portelle raffiguranti, all’esterno, la Presentazione di Gesù al tempio, e all’interno Le guarigioni di Cristo alla piscina probatica. Sempre di Veronese è la Natività sul parapetto. Questa primavera sempre all’interno di San Sebastiano e sempre a cura di Save Venice inizieranno nel presbiterio i lavori di restauro dell’altare con il grande dipinto veronesiano con la Madonna con il Bambino in gloria con i Santi e anche quello degli altri due teleri veronesiani ai lati dell’altare che raffigurano scene di vita di San Sebastiano. Un’impresa quasi ciclopica quella del comitato statunitense di restaurare interamente - sotto la supervisione della Soprintendenza veneziana - tutto il ciclo dei dipinti di Veronese a San Sebastiano, ma che si sta avvicinando ormai alla conclusione, facendone forse il restauro pittorico più importante degli ultimi anni a Venezia. Pag 25 Inseguirono un prete, saranno processati di g.so. L’episodio a Domegge, era finito in ospedale. Madre e figlio sarebbero responsabili della caduta di don Lio, parroco a Marghera Attaccato il prete. Inseguito, fatto cadere e mandato all’ospedale con alcune fratture. A.G. e M.S., madre e figlio di Domegge, sono stati rinviati a giudizio dal giudice per le udienze preliminari bellunese Montalto per violazione di domicilio aggravato (l’uomo anche per lesioni personali aggravate) nei confronti di don Lio Gasparotto, il parroco della Madonna di Salute di Marghera, che ogni estate accompagna i suoi ragazzi in montagna. Accolta la richiesta del pubblico ministero Sartorello, dopo che le indagini erano state coordinate dal procuratore Pavone. I due imputati sono difesi dall’avvocato Degli Angeli, mentre il parroco si è costituito parte civile con il conterraneo Vassallo. Il religioso sarebbe anche disposto a ritirare la querela, ma solo in cambio di un accordo tra gentiluomini sul quieto vivere, durante i campi scuola organizzati in Cadore. I ragazzi si impegneranno a fare meno rumore, soprattutto nelle ore tradizionalmente riservate al riposo, e i paesani garantiranno un atteggiamento meno aggressivo. Porteranno un po’ più di pazienza con i piccoli turisti. Non si è discusso di alcun risarcimento danni e non solo per il momento. Non è un problema di soldi, ma soltanto di convivenza. La data della prima udienza del dibattimento è stata fissata per il marzo dell’anno prossimo. Un’estate movimentata, in Centro Cadore. Sembra una domenica come chissà quante altre, con il sole, una temperatura stupenda e luce fino a sera. Ma non per i vicini del locale campo scuola della parrocchia veneziana. I ragazzi in vacanza sono vivaci e i loro giochi, canti e balli infastidiscono più qualche paesano. Qualcuno perde la pazienza, magari anche sobillato da altre persone. La reazione è incontrollata. I due indagati sono accusati di aver abbattuto una rete di recinzione per entrare nel cortile della chiesa

parrocchiale domeggese contro la volontà del parroco, che aveva tutto il diritto di non farli entrare. Sempre secondo l’accusa, l’uomo tenta di aggredire il sacerdote che, per evitare di prenderle, comincia a scappare. Non verrà raggiunto, ma finirà per cadere sull’asfalto, procurandosi la frattura composta di tre costole anteriori di sinistra. Dolorante e ancora impaurito, sarà trasportato all’ospedale di Pieve di Cadore e medicato dai sanitari. Sarà dimesso con una prognosi di 25 giorni. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 17 La fame, la nostalgia e la speranza. Le lettere (inedite) dei prigionieri di Alessandro Tortato Pubblicate le missive italiane censurate dagli austriaci Dobbiamo ancora essere grati agli efficienti burocrati di Sua Altezza Imperiale Francesco Giuseppe, per aver nominato, nel settembre 1915, Leo Spitzer, ritenuto oggi il massimo esponente della critica stilistica, censore della posta militare italiana a Vienna. Il grande filologo, infatti, oltre a fare il suo dovere, vagliando attentamente le migliaia di lettere che i soldati italiani prigionieri in Austria scrivevano ai loro cari, pensò bene di continuare a svolgere la sua attività scientifica raccogliendo, nelle poche ore libere che gli rimanevano dopo il lavoro, un’immensa mole di citazioni catalogate per contenuto. Quando nel 1921 (in Italia solamente nel 1976) le Lettere di prigionieri di guerra italiani vennero per la prima volta pubblicate, l’impatto fu potente: per la prima volta si poteva infatti «leggere« la Grande Guerra anche dal basso, ascoltare la narrazione degli «ultimi». Un punto di svolta per gli studi storici e linguistici. In questi giorni Il Saggiatore ripropone quest’opera capitale in una nuova edizione (481 pagine, 30 euro) a cura di Lorenzo Renzi che, grazie a importanti scoperte filologiche, completa le lettere con i nomi dei mittenti e con preziose correzioni che restituiscono integrità ai testi. Possiamo così dare un volto anche a molti di quei nostri corregionali che vissero parte della loro Grande Guerra nella particolare condizione della prigionia, condizione, peraltro, oltremodo tragica. Come evidenziato dagli studi di Giovanna Procacci, infatti, su 600mila prigionieri italiani, circa 100mila ne perirono per fame, malattia o freddo. Una percentuale particolarmente alta, sulla cui entità non poche responsabilità ebbe il nostro governo che, unico nel panorama dei belligeranti, bloccò l’invio di aiuti alimentari dalla Patria per scoraggiare le diserzioni al fronte. In questo contesto è ovvio che il tema della fame e delle altre sofferenze prevalga. Scrive il padovano Giuseppe Tigno: «Se potete mandatemi due fugase cote soto il fuoco che ame sono tanto oro». C’è chi brama le delizie di un tempo, come Nebrilio Castellanis di Costalunga Brognoligo in provincia di Verona, prigioniero a Mauthausen: «Ora vi prego, che ogni otto o quindici giorni mi spedite dei pacchi contenente fugaccie di Pasqua o brasadeloni ed del formaggio ed altra roba». Celeste Lanaro da Theresiendtadt (come si può notare molti dei campi di prigionia della prima guerra mondiale sono gli stessi utilizzati dai nazisti nella seconda), rivolgendosi ai familiari pensa più al freddo, non esimendosi però, nel richiedere alcuni capi, dall’esprimere le sue preferenze: «Mi puoi spedire un paco di ch. 5 e il mio vestito dinverno il mio beretto nuovo capello una camicia di quelle che costumano adeso con le punte». Per alcuni prigionieri l’amore verso la famiglia è talmente assoluto da spingerli persino ad inviare a casa quel poco denaro di cui possono disporre. È il caso di Eugenio Vescovo di Livenza, in provincia di Venezia, prigioniero a Katzenau: «Sapi che tio spedito lire 50 e quando lericevi fami sapere subito e conquele vesti le mie care io meleotolte dala Boca di più non poso tienti una regola qual che Bichiere divino coragio Maria». E tutti ad aspettare la pace, come confermano le parole di Quinto Carboniero da Altavilla Vicentina: «Spera cara Molie che vada terminata questa guerra micidiale che fa piangere madri, Padri, Molie. Figli. Fratelli e Sorelle ». Sono testimonianze commoventi giunteci per merito di un intellettuale che, rifiutando il «tanfo polveroso di una scienza squallida», cercava l’ascolto «della vita dove essa pulsa più fervida». Torna al sommario

… ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il pensiero spezzato di Daniele Manca Addio a Casaleggio, il leader che ha portato la politica in Rete Si stava dedicando a rimettere in ordine una casa di famiglia nell’Oltrepò pavese. Non si trovava a disagio in quel ristorante affollato di Milano, un mese fa. Un ristorante del centro, comune, dove si mangia in tavoloni assieme a sconosciuti; ci si doveva, per alcune cose, servire da soli: lui si muoveva lentamente. Era chiaro che doveva concentrarsi per farlo. I silenzi erano aumentati. Lo sguardo era il solito, quello un po’ fisso, di chi riflette attentamente sulle parole e sui concetti. Ma uno sguardo che si prolungava. Le persone attorno lo guardavano. Lo riconoscevano. Non sembrava infastidito. Lui, il fondatore di un partito in grado di controllare un quarto dei voti in Italia, pareva preferire i suoi pensieri. Le idee sul mondo che si stava preparando; e che ha provato, riuscendoci in parte, a mettere in rete e in gioco assieme a un comico fattosi tribuno. Chiamarle conversazioni, quelle con Gianroberto Casaleggio, non è del tutto esatto. Penetrare la sua apparente freddezza, interrompere il flusso delle riflessioni che sembravano accavallarsi una dietro l’altra nella sua mente rivolta al futuro, era difficile, quasi impossibile. Alle domande seguivano silenzi, a volte sorrisi. Seguiva percorsi di pensiero eccentrici, insoliti, che apparivano anche bizzarri, ma che tornavano sempre al cuore del suo interesse: le persone, la comunità, il loro governo, o meglio l’autogoverno. Era una sfida colpirlo con qualche considerazione. Non era facile, e non lo è stato anche in quell’ultimo incontro. Ancora un paio di telefonate, prima di ieri. Ma su Beppe Grillo, lo spettacolo. È stato in quel paio d’ore di dialogo che si sono intrecciate Torino, la candidata Chiara Appendino, la campagna elettorale a Roma della 5 Stelle Virginia Raggi, poi il possibile leader candidato a premier e la tecnologia, la famiglia. Quella casa dove viveva con la seconda moglie e il figlio piccolo, con un bosco alle spalle e la terrazza affacciata sulla Valle d’Aosta, su quei vigneti coltivati nella cittadina a fianco, Carema, e il vino rosso prezioso che ancorava gli abitanti a quella terra. Ma soprattutto il mondo che non sarebbe stato più lo stesso. Ne era convinto. Quando descriveva il suo immaginario futuro, o buttava lì previsioni che apparivano fuori da ogni logica apparente, diventava impermeabile alle facce incredule e a volte sprezzanti di chi lo ascoltava. Era un visionario, certamente. Sottovalutato, comunque poco compreso, da chi non ha amato e provato a capire cosa fosse e sia il fenomeno 5 Stelle. È del 2008 quel video, Gaia, postato in Rete dalla Casaleggio Associati, nel quale prefigura per il 2054 un mondo senza divisioni, collegato in Rete, dove ti esprimi continuamente sul governo della tua comunità, alimentato non più da combustibili fossili e dove l’ambiente torna a essere pulito. Non più partiti, non più ideologie. È il 2008. Soltanto un anno dopo, Google lancerà il suo Page rank , il motore di ricerca basato su 57 «ragni» che piazzati nei computer di ognuno di noi iniziano quella rivoluzione in Rete e la creazione di una sorta di intelligenza collettiva che a volte sembra annichilirci quando scopriamo che la Rete sa molto di noi. Troppo. Era questo che immaginava Casaleggio per il 2054... Ma pochi minuti dopo quel pranzo, avrebbe incontrato lo stato maggiore dei 5 Stelle per decidere cosa fare su Roma. Scovare Virginia Raggi era stato il colpo per tentare la scalata al Campidoglio. Perché vincere la corsa per il sindaco e poi, soprattutto, amministrare Roma, sarebbe stato il passaggio decisivo per poter pensare alle elezioni nazionali e candidarsi al governo. Altro che futuro. La concretezza dell’oggi, dell’uomo di impresa cresciuto all’Olivetti dopo gli studi al Feltrinelli, l’istituto tecnico milanese che, assieme all’Enrico Fermi di Roma, con le sue sezioni di informatica e nucleare, aveva rappresentato negli anni Sessanta e Settanta il top per un giovane che voleva collocarsi al confine più avanzato con la modernità e la scienza. Poi i tre anni di fisica e l’approdo a Ivrea. I viaggi all’estero. L’Olivetti rappresentava il meglio dell’informatica non solo italiana «che perdeva o vinceva le gare con l’Ibm non con le piccole aziendine», come ebbe a dire. A Ivrea a scrivere software. Lì incontra la sua prima moglie, inglese, Elizabeth Claire Birks, oggi ritornata a vivere in Gran Bretagna, madre del primo figlio avuto a vent’anni, Davide. Il trentanovenne apparentemente taciturno ma con le idee molto chiare riversate in un libro (Tu sei Rete con prefazione di un altro comico grande

affabulatore, Alessandro Bergonzoni). Idee in linea con quelle del padre accanto al quale lavorava. Nel libro si parte ancora una volta dai singoli che, collegati in rete, «attraverso piccole cose cambiano le società». Chissà il peso avuto da Adriano Olivetti, quello di Democrazia senza partiti , che scrive, nel 1946, che il popolo non è organizzato e «l’espressione della sua volontà è una mistificazione perché i suoi mediatori - i partiti - hanno perso il contatto con esso». La comunità «concreta a base territoriale» di Olivetti si trasforma, grazie a Internet, in una moltitudine di persone, comunità che interagiscono non solo e non più in relazione all’incontro fisico, in un luogo. Il virtuale diventa realtà. Ecco l’intuizione. La tecnologia non sta cambiando solo l’economia, il modo di produrre, ma anche le strutture sociali. Dopo Olivetti il passaggio in Finsiel (una delle poche grandi aziende di software italiana oggi scomparsa anch’essa), la guida di Webegg. L’incontro con la sua seconda moglie Sabina Del Monego. Un altro figlio. La scelta di vivere alle porte della Val d’Aosta. L’anonimato ricercato ma impossibile con quel volto e i capelli inconfondibili, se non sulla sua collina. I rari incontri pubblici. Al Forum Ambrosetti di Cernobbio, al Corriere della Sera con i giornalisti che si sentono dire nel 2011 che «tra dieci anni non ci saranno tutti quotidiani di oggi». Avrebbe voluto scrivere ancora, non tanto, «una volta a settimana». Per dare corpo alle sue intuizioni e visioni. A quell’intelligenza collettiva, che però ha sempre bisogno di qualcuno che tiri le fila. E chi sarebbe stato questo qualcuno, potenziale presidente del mondo? La Rete, certo... Ancora un silenzio, un sorriso e un ultimo sorso di prosecco, mangiando una torta. Sapendo che i visionari molte forse le sbagliano, ma qualcuna di sicuro l’azzeccano. Pag 1 Il tempo delle scelte di Aldo Cazzullo A vederlo dritto in piedi sulla barca - magrissimo, basco verde alla Che Guevara, capelli brizzolati sulle spalle - mentre sosteneva con lo sguardo la nuotata di Grillo attraverso lo Stretto, faceva pensare a un visionario; tanto più quando, gettatosi nell’acqua fino alla cintola e guadagnata la spiaggia della Sicilia, confidò con tono da cospiratore, a voce appena percettibile: «Stiamo cambiando la storia d’Italia». In realtà, Gianroberto Casaleggio era un precursore. Uno tra i primi ad aver capito che il segno dei nostri anni è la rivolta contro i vecchi partiti e le vecchie classi dirigenti, le forme tradizionali di rappresentanza e anche i media tradizionali. Il vero capo dei Cinque Stelle era lui; e oggi in Europa, nel bene o nel male, non esiste nulla di simile ai Cinque Stelle. Il movimento che li ricorda di più, Podemos, alle elezioni ha preso il 19%, non il 25; ed è un movimento di sinistra, critico con i socialisti ma pur sempre di sinistra, alla fine dei comizi di Pablo Iglesias si canta El pueblo unido, la sua bandiera è quella della Spagna repubblicana sconfitta da Franco nella Guerra civile; i Cinque Stelle sono trasversali. Destra e sinistra esistono ancora, ovviamente, ma Casaleggio è stato tra i primi a capire pure che la politica contemporanea passa per un nuovo crinale, il sopra e il sotto della società. E la Rete, con tutti i suoi limiti, è lo strumento attraverso il quale chi sente di stare sotto, di non contare nulla, si organizza e fa sentire la propria voce. Certo, l’azione politica di Casaleggio - tutta dietro le quinte, con controlli elettronici financo sulla posta dei parlamentari - non aveva quelle caratteristiche di trasparenza che dovrebbe avere qualsiasi protagonista della vita pubblica; ed è da chiarire quale sarà ora il ruolo dell’erede, il figlio Davide. Le sue previsioni catastrofiche gli avevano valso un’esilarante parodia di Crozza - «nel 2027 la scomparsa dei giornali e delle ciabatte farà sì che le zanzare domineranno la terra...» -, il bizzarro culto di Gaia gli era costato pesanti ironie. Ma Casaleggio era in sintonia con lo spirito del tempo. Quasi nessuno aveva visto arrivare i Cinque Stelle, nessuno li pensava davanti al Pd alle elezioni del 2013, in pochi credevano che avrebbero tenuto dopo la battuta d’arresto delle Europee; oggi sono al massimo storico, e potrebbero esprimere il sindaco della capitale. Ora però si apre un grande interrogativo. Soprattutto se Beppe Grillo non tornerà sui propri passi, dopo che aveva rinunciato a un ruolo politico in prima fila. Il movimento accreditato dai sondaggi di quasi il 30% dovrà darsi una nuova leadership, o almeno consolidare quella che ha espresso finora: Di Maio, Di Battista, Fico. Gli scandali dei partiti sono carburante nel motore dei grillini. I loro voti hanno due motivazioni di fondo: l’indignazione e la frustrazione. Il primo è positivo: significa che l’opinione pubblica non è rassegnata né assuefatta, che la domanda di cambiamento è forte. Il secondo è negativo, ma è molto

diffuso, in particolare tra i tanti giovani che sembrano essersi arresi prima ancora di combattere, persuasi da una rappresentazione - tutti i politici sono corrotti, tutti gli imprenditori ladri, tutti i banchieri usurai - falsa ma efficace. Per fare un solo esempio, la proposta del reddito di cittadinanza può funzionare se è un sostegno momentaneo legato alla ricerca del lavoro; può essere devastante - in un Paese dove milioni di ragazzi non studiano, non si formano e non lavorano - se comunica il messaggio che lo Stato può darti qualcosa in cambio di nulla. I Cinque Stelle sono al bivio tra partecipazione e populismo: dalla loro scelta dipende molto della qualità della nostra democrazia. Una cosa è certa: quel giorno sullo stretto di Messina Casaleggio non stava millantando; ha davvero contribuito a cambiare la storia d’Italia. Pag 8 Si delinea uno scontro tra due idee di Italia di Massimo Franco La riforma costituzionale è stata approvata, e per il governo è una vittoria. Ma alla Camera non erano presenti le opposizioni, che hanno continuato a protestare contro il premier. Le dichiarazioni fatte ieri pomeriggio dalla Lega a FI al M5S, sono state univoche contro Matteo Renzi: troppo, per non far pensare che l’attacco sia rivolto non tanto al «sì» di ieri, peraltro scontato, quanto al referendum d’autunno sulla riforma approvata. Il vero appuntamento è quello, e la campagna impazza. Sarà l’occasione per certificare la vittoria di Renzi, o la sua disfatta: tanto più che si celebrerà dopo le elezioni amministrative di giugno e il referendum sulle trivellazioni di domenica. Le resistenze e l’ostilità nei confronti del governo, presenti nello stesso Pd, emergeranno adesso. Il fronte che si sta formando è corposo e variegato. «Il no si spiega solo con l’odio nei miei confronti», scolpisce Renzi con qualche ragione. Eppure, a sorpresa l’ex presidente del Consiglio, Enrico Letta, considerato un avversario acerrimo, ieri ha annunciato che al referendum voterà a favore delle riforme. Ma sembra un’eccezione. Sornione, l’ex segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha glissato quando gli è stato chiesto come si schiererà. E Pietro Grasso, alla domanda su come si sentiva come ultimo presidente del Senato, ha replicato con tre parole anodine ma non troppo: «Aspettiamo il referendum». Significa che l’esito della consultazione non viene ancora dato per sicuro; che la certezza di vincerlo da parte di Renzi, con lo svuotamento politico del Senato, aspetta una certificazione popolare un po’ meno scontata di alcuni mesi fa. «È il giudizio dei cittadini quello che conterà davvero», ha confermato ieri il capogruppo del Pd alla Camera, Ettore Rosato, pochi minuti prima del «sì» di 361 deputati, con 7 contrari e il resto dell’emiciclo vuoto: parole accompagnate da un riconoscimento al ministro per le Riforme. «Grazie a quelli che ci hanno creduto», ricambia Maria Elena Boschi. Ma tutti sono già proiettati sul referendum di autunno. Il premier lo aspetta per ricevere nuova spinta dopo mesi di difficoltà crescenti. «I cittadini voteranno per cambiare», assicura. I suoi avversari, invece, vogliono dimostrare che il premier non è più in sintonia con l’opinione pubblica, e costringerlo a dimettersi. Ma se si confrontano «due Italie», come sostiene Renzi, sarà difficile ricomporle dopo il responso referendario. La virulenza e la strumentalità delle opposizioni non lasciano margini. E la determinazione di Palazzo Chigi, unita a un atteggiamento liquidatorio, radicalizza le posizioni. Per questo, non si può escludere che dopo l’autunno la legislatura entri in una fase convulsa, e porti a elezioni anticipate nel 2017. Lo avrebbe previsto anche il guru del M5S Gianroberto Casaleggio, scomparso ieri, nel suo testamento politico. LA REPUBBLICA Pag 1 Il movimento al bivio di un’eredità difficile di Stefano Folli Ora Casaleggio è assurto al rango di visionario, profeta. Ed è anche vero, dal momento che è stato un modernizzatore. Ora Casaleggio è assurto al rango di visionario, profeta, rivoluzionario. Ed è anche vero, dal momento che è stato un modernizzatore: l'inventore e l'architetto, insieme a Grillo, del Movimento CinqueStelle. Ma fino a ieri, prima della sua prematura scomparsa, era dipinto dai suoi avversari, e in generale dagli scettici, come un oscuro stregone, il Rasputin del grillismo, l'uomo che inseguiva l'utopia della democrazia diretta via web, ma la negava all'interno del movimento. La verità è a metà strada, come spesso accade. Casaleggio ha dato voce a un malessere reale serpeggiante nella società italiana sul finire della fallimentare stagione berlusconiana. Accanto a un

comico brillante con innate qualità di comunicatore - quelle che a lui mancavano -, ha plasmato un partito anti-sistema, nemico di un establishment sgretolato, e lo ha guidato dietro le quinte verso un successo spettacolare nel 2013, quando il 25 per cento degli elettori ha scosso l'albero della stagnazione e ha creato la terza gamba di un assetto traballante. Eppure, a ben vedere, l'autentica novità che ha cambiato la politica italiana comincia dopo. Riguarda la sopravvivenza del M5S ben oltre l'orizzonte dell'ondata populista che per sua natura è effimera. I precedenti storici, dal qualunquismo del dopoguerra al "poujadismo" francese, raccontano di brevi fiammate presto riassorbite dal sistema. Ma i CinqueStelle sono diversi nella loro origine e nella loro articolazione. Dal 2013 a oggi hanno dimostrato di essere ben radicati nel tessuto sociale del Paese e questo rappresenta la loro originalità: compresa e interpretata da Casaleggio e Grillo, il binomio di vertice del movimento. Grillo istintivo e umorale, Casaleggio assai più raffinato sul piano intellettuale, dotato di antenne sensibili per cogliere i segnali di una società frammentata. Oggi i CinqueStelle sono un caso unico in Europa: senza equivalenti, tranne parziali analogie, né in Spagna né in altri Paesi che pure sono scossi da spinte anti-establishment figlie della crisi collettiva. Questa assoluta originalità del laboratorio italiano riconduce al tratto peculiare del pensiero di Casaleggio, una volta emendato dalla vocazione apocalittica e cospirazionista, ma non aiuta a decifrare il rebus oggi riassunto nel più ovvio degli interrogativi: cosa accadrà a un movimento che raccoglie tuttora, stando ai sondaggi più recenti, intorno al 27 per cento delle intenzioni di voto e appare in crescita? Quale sarà la sua sorte ora che si trova davanti al bivio fra il pieno inserimento nelle dinamiche politico-istituzionali, a cominciare dal tentativo di scalata al Campidoglio, e la possibile tentazione di rifluire in un ruolo di semplice denuncia e testimonianza morale? Il quesito è sul tavolo già da qualche tempo e tocca al piccolo gruppo dirigente nazionale trovare la risposta. Senza Casaleggio il compito sarà più arduo, è logico, ma non impossibile. Nessuno può credere che un movimento capace di superare le malattie infantili del populismo vecchia maniera, dimostrando con ciò di essere qualcosa di diverso, possa dissolversi come neve al sole in seguito alla scomparsa del suo ispiratore e del parziale ritiro del leader storico, Grillo (oggi risospinto sul proscenio). Del resto, una delle caratteristiche del M5S, tale da distinguerlo dai vari Iglesias, Farage o Varoufakis, è proprio quell'abile miscela di temi di destra e di sinistra con cui Casaleggio ha disegnato nel tempo il profilo del movimento. S'intende che il punto di partenza è discutibile e consiste nella negazione del tradizionale antagonismo destra-sinistra. Tuttavia è attraverso questo espediente, che peraltro fotografa l'imprevedibilità dell'Italia di oggi, o se si preferisce dell'intero occidente, che i CinqueStelle sono in grado di pescare consensi in tutti i segmenti di opinione pubblica. Da un lato si presentano ormai come il vero "partito delle procure", i nuovi giustizialisti che occupano lo spazio lasciato sguarnito dal Pd renziano. Dall'altro sono alleati nel Parlamento europeo con il "destro" Farage, tipico esponente dell'isolazionismo nazionalista britannico e fiero avversario dell'Unione. Ma i CinqueStelle sono anche super-pacifisti nel Mediterraneo, per un verso, e tutt'altro che favorevoli all'accoglienza indiscriminata dei migranti, per l'altro. Sui nuovi muri eretti in Europa sono molto cauti, a dir poco, mentre Grillo (il leader non-leader) preferisce terrorizzare i dipendenti pubblici del Comune di Roma, che di sicuro non sono fra i suoi elettori, promettendo a molti di loro il licenziamento. Si potrebbe continuare. In attesa del paradiso della democrazia diretta, il M5S si è attrezzato per prendere voti sia a sinistra sia a destra. Casaleggio sapeva tenere in equilibrio le due sfere, i suoi successori dovranno dimostrare la stessa qualità di giocolieri. Saranno aiutati dalla debolezza complessiva del sistema politico che non è paragonabile alla solidità democristiana in cui De Gasperi riassorbì i militanti di Giannini; ovvero al gollismo trionfante che dissolse Poujade e le sue velleità. Ma la scelta di stare nelle istituzioni, che sembra prevalente nel gruppo dirigente convinto che la conquista del potere sia possibile, non può avvenire attraverso l'omologazione con gli altri partiti. Né la differenza può misurarsi solo sul tasso di demagogia. Coniugare la vecchia carica anti-sistema, depurata degli aspetti più infantili o provocatori, e trasformarla nel supporto morale di un ipotetico "buon governo" grillino, rappresenta una sfida drammatica. Forse troppo per un fragile direttorio. Servirà una leadership e non potrà essere a mezzo servizio come quella di Grillo. È un punto che Casaleggio aveva ben chiaro, ma implica una maturazione complessiva del movimento CinqueStelle che è ancora di là da venire.

LA STAMPA Il passaggio più difficile per i grillini di Giovanni Orsina La scomparsa di Gianroberto Casaleggio potrebbe condizionare in profondità il futuro del Movimento 5 Stelle, e con esso quello di tutto il sistema politico italiano. Per i grillini non sarebbe potuta cadere in un momento peggiore. Fra il voto di domenica sulle trivelle, le elezioni comunali, il referendum istituzionale, le inchieste giudiziarie, la crisi del centrodestra, stiamo per entrare in una stagione politica cruciale, ricchissima di opportunità ma anche di pericoli. E di tutto avrebbe bisogno il Movimento, tranne che di affrontarla in contemporanea con una transizione interna - o, magari, con un aspro conflitto di successione. Anche perché la storia ci insegna che raramente viene data una seconda chance a chi le opportunità non ha saputo coglierle nel momento in cui si sono presentate. Il Movimento, per come lo aveva pensato il suo «guru», è stato pienamente figlio del suo tempo. Al tempo della crisi delle classi dirigenti, Casaleggio ha teorizzato che delle classi dirigenti si può fare benissimo a meno, proponendo la retorica dell’«uno vale uno» e la casalinga al ministero dell’Economia. Al tempo della crisi dell’intermediazione politica, ha offerto un modello alternativo di democrazia: la partecipazione diretta dei cittadini via web. Il successo del M5s non è stato affatto casuale: queste idee hanno fornito una risposta alle domande della nostra epoca; hanno dato una forma intellettuale alla rabbia e alle frustrazioni, cercando di metterle al servizio d’un processo di rigenerazione politica e sociale. Poteva essere realizzato, il piano di Casaleggio? In astratto, posso soltanto esprimere una convinzione personale: no, non aveva modo di essere realizzato. E in concreto, invece, che cosa è stato mantenuto delle sue promesse? A questa domanda, i fatti degli ultimi anni consentono di dare una risposta meno opinabile. Le innumerevoli scissioni interne al movimento, l’opacità dei processi decisionali, le frequentissime eccezioni alla regola della democrazia diretta, il controllo che i vertici hanno esercitato sulla base, le regole ferree finalizzate a disciplinare quel controllo: il M5s ci ha somministrato tutto questo in così grande abbondanza da toglierci ogni dubbio sul fatto che l’utopia democratica grillina si sia convertita in un qualcosa che assomiglia molto al suo contrario. Stando a tutte le cronache, insomma, c’era almeno uno - Casaleggio, appunto - che valeva molto, ma molto più degli altri. Il Movimento era anch’esso un partito personale come tanti ne abbiamo conosciuti nell’ultimo quarto di secolo - pure se di natura peculiare, visto che il leader che disegnava le strategie e controllava la macchina non coincideva col leader mediatico, Beppe Grillo. E che fosse un partito personale lo confermano anche le voci secondo le quali Gianroberto avrebbe da ultimo passato la mano al figlio Davide. È proprio sulla buona riuscita di questa successione «dinastica» che è lecito nutrire qualche dubbio. Soprattutto perché in questi tre anni dai gruppi parlamentari del M5s sono emersi vari leader ambiziosi, non sprovvisti d’un certo talento politico e comunicativo, e intenzionati con ogni evidenza a prolungare il più possibile la propria gratificante esperienza di personaggi pubblici. Leader che difficilmente si adatteranno a seguire le indicazioni di un capo il cui solo titolo di legittimità, per ora, è quello di essere «figlio di». Né vi sono, all’interno del Movimento, dei meccanismi «normali» coi quali si possano selezionare i vertici, prendere le decisioni, dirimere i conflitti - visto che si pensava, sbagliando, di potersi affidare ai meccanismi straordinari della democrazia via web. Tutte le premesse, così, lasciano intravedere all’orizzonte l’avvicinarsi d’una burrasca grillina, all’interno della più generale burrasca politica italiana. AVVENIRE Pag 3 L’Ue schizofrenica, ideali e chiusure di Andrea Lavazza Linee opposte governi-Europarlamento Schizofrenia significa 'mente divisa', nella sua etimologia greca, anche se la malattia così definita dallo psichiatra Eugen Bleuler non provoca la comparsa di personalità multiple. La schizofrenia nel senso letterale è invece una patologia che affligge l’Europa contemporanea, e ieri se ne è avuta la conferma più lampante. Non servivano infatti esperti politologi per coglierne i sintomi più manifesti, tanto palesi da risultare sconcertanti. Se la Ue fosse un paziente in carne e ossa, verrebbe da pensare che quella

messa in atto sia piuttosto una simulazione realizzata ad arte. Ma tant’è. Scena prima: valico del Brennero, confine italo-austriaco (noi guardiamo da Sud). Operai avviano gli scavi per la costruzione di una barriera mobile che possa entrare in funzione dal primo maggio allo scopo di agevolare i controlli sul transito in entrata verso Vienna che, in base agli accordi di Schengen sulla libera circolazione, non dovrebbe invece avere ostacoli. Ma l’Austria teme l’arrivo di 300mila migranti extracomunitari, stima lievitata a quote irrealistiche forse per l’avvicinarsi della scadenza elettorale interna del 24 aprile, quando si sceglierà il nuovo presidente della Repubblica. Scena seconda: aula dell’Europarlamento a Strasburgo. La maggioranza assoluta dei deputati, due terzi dei presenti alla seduta, approva una risoluzione in cui si chiede una completa revisione del Trattato di Dublino, che dovrebbe permettere ai migranti di presentare le domande di asilo all’Unione Europea, considerata come entità unica, senza obbligarli al Paese di primo approdo. Il documento non vincolante votato ieri propone un sistema centralizzato, così da garantire la condivisione delle responsabilità tra gli Stati, la solidarietà e un esame più rapido delle richieste da parte di chi aspira allo status di rifugiato. I meccanismi attuali, si legge infatti nel testo, hanno «ampiamente mancato i due obiettivi primari: stabilire criteri obiettivi ed equi per l’attribuzione della competenza e assicurare un rapido accesso alla protezione internazionale». E mentre le ruspe si muovono al Brennero e le polizie pattugliano le barriere di filo spinato già erette al confine tra Bulgaria e Turchia, Austria e Slovenia, Serbia e Ungheria, Grecia e Macedonia – per limitarci ai Paesi dell’Unione –, almeno qualche deputato di quelle stesse nazioni dà luce verde al progetto di 'corridoi umanitari' «che consentano di trasferire i richiedenti asilo e i rifugiati dalle zone di conflitto ai campi profughi e ai Paesi di destinazione in condizioni dignitose e sicure». «L’immigrazione non va combattuta ma gestita», afferma una delle relatrici, l’eurodeputata italiana del Partito democratico Cécile Kyenge (l’altra è la maltese del Partito popolare europeo Roberta Metsola). Nelle stesse ore, sordo alle proteste internazionale, il governo austriaco, sostenuto dalle stesse forze politiche che a Strasburgo hanno promosso la risoluzione, conferma che procederà a mettere in pratica quanto già annunciato da settimane. Ma si tratta forse di una fisiologica dialettica tra istituzioni sovrannazionali, come è appunto il Parlamento europeo, e gli esecutivi dei singoli Paesi, ciascun attore mosso da interessi e prospettive diverse? Sarebbe qualcosa di maggiormente gestibile. In realtà, le 'personalità multiple' sono più di due, e ciò rende la situazione quasi disperata. I rappresentati eletti nell’organo legislativo europeo hanno chiesto di istituire un gruppo di lavoro composto dalle autorità competenti degli Stati membri, dalle organizzazioni umanitarie che operano sul campo e dalle agenzie dell’Unione e dell’Onu, al fine di predisporre con urgenza mezzi per il trasporto dei rifugiati e la creazione di vie sicure e legali, marittime e terrestri. Peccato che poche settimane fa siano stati il Consiglio europeo e la Commissione a concordare con la Turchia un piano di respingimenti dalla Grecia che va nella direzione opposta. E che le organizzazioni umanitarie chiamate in causa ieri siano le stesse che da giorni denunciano l’uso di violenze e di gas lacrimogeni contro i migranti accampati a Idomeni (da parte della polizia macedone, ma nell’inerzia di quella greca). Il Parlamento europeo ha auspicato che il 3 ottobre, anniversario della tragedia di Lampedusa, diventi un Giorno della Memoria per i migranti che sono morti fuggendo da persecuzioni e conflitti. C’è da sperare che non sia questa l’unica, ipocrita, raccomandazione accolta operativamente dall’Europa, ancora capace di grandi ideali e di nobili progetti, ma che continua a sacrificarli a un miope egoismo. Le personalità multiple possono convivere per un po’, prima di condurre alla dissoluzione del soggetto, ma sono sempre foriere di irrazionalità e di sofferenza. Serve urgentemente una cura. Pagg 8 – 9 Casaleggio, uno stratega fra web e televisione di Alessandro Zaccuri e Luca Mazza Ora il Movimento è al primo vero bivio Moderni, ma senza esagerare. Entusiasti della tecnologia, un po’ meno smaliziati sui contenuti. Con un occhio sullo smartphone, ma la testa ancora dentro il televisore. Sono gli italiani, anzi: siamo noi. E Gianroberto Casaleggio ci conosceva bene. Stratega riconosciuto dell’avanzata mediatico-elettorale del Movimento 5 Stelle, era riuscito a trasformare uno strumento dalla reputazione digitale assai compromessa (un blog? negli

anni Dieci? ma stiamo scherzando?) in un inarrestabile marchingegno di mobilitazione civile e di costruzione del consenso. L’idea era, più o meno, la stessa che attorno al 2004 aveva reso momentaneamente celebre il democratico statunitense Howard Dean, la cui candidatura alle presidenziali era stata sostenuta da una vasta rete di blogger. Se ne fece un gran parlare, ma il risultato fu deludente. Ne rimase traccia nei convegni dove gli esperti, scuotendo sconsolati la testa, dovevano ammettere che così, purtroppo, non funzionava. E Casaleggio, da un certo punto di vista, ha dato loro ragione. Perché affidarsi a una galassia di blog quando ne basta uno solo? L’indirizzo lo conosciamo, beppegrillo.it. Non particolarmente avanzato quanto a grafica e funzionalità, ma formidabile per efficacia. Una contraddizione in termini, come continuano a ripetere gli studiosi: il web si è evoluto, dal 2.0 in poi le gerarchie non sono più ammesse, impensabile intervenire sui commenti. In linea di principio tutti d’accordo, e infatti “uno vale uno” rimane il più azzeccato degli slogan la cui diffusione è stata favorita dall’intuito di Casaleggio. All’atto pratico è andata – e va – molto diversamente. Nell’era dell’orizzontalità, il blog di Grillo è l’ultima enclave della verifica verticale. Top down, dall’alto verso il basso. Uno parla, gli altri ascoltano. Non che per questo la discussione del tutto sia inibita, però. A questo e a molto altro provvedono i social network, meno impegnativi da gestire, ma rapidissimi nel garantire la proliferazione del messaggio generato dal blog principale. Casaleggio, che a maneggiare i media aveva imparato sul campo, si rivelò da subito abilissimo nel distillare il meglio dalle diverse piattaforme. A dettare la linea sono i post di beppegrillo.it (testuali, di solito, anche se in video il titolare, come si sa, viene benissimo), su Facebook e in misura minore su Twitter gli attivisti rilanciano e discutono, sbeffeggiano la casta e denunciano il complotto. È il popolo della rete, bellezza, e tu non puoi farci niente. Al bando la televisione, se non nella versione militante dello streaming. Ecco, a distanza di qualche anno bisogna ammettere che il vero colpo di genio del M5S è stato questo. In un Paese dominato dalla tv, e nel quale la politica stessa era di fatto assimilata a uno spettacolo televisivo, l’esilio – più o meno volontario – di deputati e senatori dal piccolo schermo equivaleva a un’invasione al contrario. Non esserci affatto era ancora più vistoso dello stare di continuo davanti le telecamere. Mentre quel che restava della Seconda Repubblica (anche qui, come con web qualcosa-puntozero, si è ormai perso il conto) si logorava sotto i riflettori, dai ranghi del Movimento si selezionavano i fuoriclasse di oggi: i Di Maio, i Di Battista, le Virginia Raggi che sbaragliano la concorrenza. Non telegenici in senso tradizionale, forse, ma perfetti per dare l’impressione di essere transitati da YouTube a Ballarò senza passare da trucco e parrucco. Che dietro tutto questo ci fosse il mestiere di Casaleggio è risaputo, ma c’è un altro elemento che solitamente si trascura di sottolineare: gli eventi dal vivo, in una gamma che dal primordiale V-Day si estende fino alla modularità dei meet-up, raduni estemporanei nell’aspetto e assai ben dosati negli ingredienti, come se il blog fondatore si fosse materializzato in un tableau vivant. In quelle occasioni Casaleggio, che di norma amava restare in secondo piano, si manifestava sul palco, preferibilmente in chiusura. Ringraziava, puntualizzava, anticipava. Profetizzava, direbbe qualcuno, ma su questo davvero ci sarebbe da aprire il dibattito. Di sicuro, senza mai rinunciare al suo atteggiamento compreso e scostante, Casaleggio metteva in atto le micidiali tattiche di base che la comunicazione ha appreso per tentativi ed errori fin dall’epoca di Napster. Preistoria digitale, è vero, ma l’abbiamo detto all’inizio, no?, che noi italiani siamo moderni a modo nostro. Le due domande cruciali sono lì, dietro l’angolo. Quesiti al momento soltanto bisbigliati, all’interno di una galassia pentastellata sotto choc, ma inevitabilmente destinati a far capolino con prepotenza nelle prossime ore, non appena si sarà lenito almeno in parte il profondo dolore e attutito il comprensibile senso di sbandamento attuale. Che ne sarà del Movimento 5 Stelle senza Gianroberto Casaleggio? E, soprattutto, chi prenderà la pesante eredità politica del leader silenzioso? Interrogativi che incombono. «Ci si rifletterà a mente fredda, da domani in poi, non certo ora», è il commento stringato che filtra dallo staff del principale partito d’opposizione. Le risposte e le analisi, insomma, possono attendere ancora qualche giorno. Si chiedono rispetto e comprensione: «Questo è il momento del lutto, delle lacrime, del silenzio». Intanto, però, confermando la sua fama di stratega e programmatore, c’è da dire che il primo ad affrontare la spinosa questione della successione è stato proprio Gianroberto Casaleggio. L’ha fatto in tempi

non sospetti, col suo carattere schivo, lavorando sottotraccia, ma mostrando anche una buona dose di lungimiranza. Una pianificazione lunga e certosina, cominciata addirittura dopo l’operazione dell’aprile 2014 per un edema al cervello e proseguita nei due anni successivi attraverso varie tappe. Fino all’ultimo vertice, un mese fa, con Grillo e il direttorio. Un incontro convocato in fretta e furia per impostare il lavoro da portare avanti anche dopo le amministrative di giugno. Perché, nonostante non si desse per vinto nella battaglia contro la malattia, la razionalità e il suo stato di salute sempre più compromesso imponevano al 'guru' di lasciare le consegne e confidare i suoi desiderata per il M5S che verrà. Così, nel summit tenutosi nella sede della Casaleggio Associati, a metà strada tra il Duomo e via Montenapoleone, in un pomeriggio di marzo, sono state tracciate le basi della nuova architettura del potere grillino. Voci insistenti, raccontano persino di un «testamento politico» confezionato per i fedelissimi. Si tratterebbe di una serie di appunti stilati in vista delle prossime scadenze politiche e con cui si punta a centrare un doppio obiettivo da qui al 2017. «Ci prendiamo prima il Campidoglio e poi Palazzo Chigi», non smetteva di ripetere nelle ultime settimane Casaleggio. Venendo alla struttura interna, invece, nelle intenzioni dell’ideatore del Movimento, l’immagine della sua creatura dovrebbe essere ancor di più saldamente affidata al tridente di punta, ovvero Di Maio, Di Battista e Fico. Ruolo non meno importante continueranno a recitarlo, nell’ombra, i responsabili della comunicazione dei gruppi alla Camera e al Senato: la coppia formata da Rocco Casalino e Ilaria Loquenzi dovrebbe essere sempre più coinvolta nelle strategie da impostare e nelle decisioni da prendere. Ma le chiavi del blog (cioè dell’unico, vero strumento di comunicazione- organizzazione di un partito che non ha sedi ufficiali), secondo le indicazioni suggerite dalla 'mente' del M5S, devono restare a Milano. O, ancora meglio, devono rimanere in famiglia. L’erede a cui verrà affidata la guida della macchina virtuale, in pratica, c’è già e risponde al nome di Davide Casaleggio, figlio di Gianroberto. Trentanove anni, riservatissimo, allergico a tv e microfoni, il padre l’ha cresciuto a sua immagine e somiglianza. Al timone ci sarà lui. Finora, comunque, Casaleggio junior era già una figura di primo piano nella società di via Morone, di cui deteneva il 30% delle quote. Nel 2009 si occupava dei meetup sul territorio, poi ha cominciato a vagliare le comunicazioni da lanciare via web e nel 2014 ebbe modo di sostituire il papà in occasione dei colloqui con Nigel Farage a Bruxelles, dove si recò con Grillo. Progressivamente, dunque, Davide ha acquisito sempre maggiore confidenza col 'giocattolo'. Ora, gli sarà richiesto uno sforzo aggiuntivo: quello di saper mediare tra le anime diverse del Movimento senza farsi sovrastare. Per aiutarlo in quest’impresa a dir poco complessa, il genitore defunto gli consegna l’ultima innovazione: la piattaforma di dialogo interna ai Cinque Stelle. Il sistema 'Rousseau', non a caso, è attivo online da ieri. Servirà per la gestione delle componenti elettive e la partecipazione degli iscritti per la scrittura delle leggi, per le votazioni e per la risoluzione delle questioni interne. Al di là delle eredità materiali e immateriali, però, è fin troppo evidente che il Movimento è di fronte al bivio più importante della sua storia. «È come se il regista di un film che ambisce a vincere l’Oscar fosse morto quando il secondo tempo della pellicola è ancora tutto da girare», è la metafora efficace confidata al telefono da un senatore del M5S, con la voce provata dal pianto. Lo smarrimento è palpabile. In alcuni avanza il timore «che la perdita del punto di riferimento sia qualcosa di troppo grande da gestire». Altri vedono all’orizzonte il pericolo che si scateni «una lotta intestina tra piccoli leader ambiziosi e affamati di potere». Occhi puntati, dunque, non solo sul direttorio, ma soprattutto su Grillo, che resta l’unico garante. La scomparsa dell’amico e il pressing dei parlamentari, potrebbero indurre il comico a ripensare al «passo di lato» annunciato pochi mesi fa. Difficile che, a quasi 68 anni, un animale da palcoscenico cominci a occuparsi di questioni tecniche e organizzative. «Ma quando abbiamo avuto bisogno di lui – ricorda un big del M5S –, Beppe non si è mai tirato indietro». IL GAZZETTINO Pag 1 Quel politico alieno che voleva sostituire il Parlamento con la rete di Mario Ajello È stato un politico modello ufo. Il politico più alieno della storia italiana. E insieme uno dei più influenti degli ultimi anni. Gianroberto Casaleggio ha fatto di un blog un partito.

Avrebbe voluto sostituire il Parlamento con la Rete come nuovo luogo della sovranità popolare. Diceva sempre le rare volte in cui emergeva dalla penombra della Casaleggio Associati, che «la democrazia della delega appartiene al millennio scorso e verrà superata dalla democrazia diretta». Lui, sognatore realista, superava il presente immaginando altri mondi possibili. A colpi di profezie da folletto o da mistico santone dell'improbabile. Una nuova guerra mondiale nel 2020. La vittoria della democrazia in Rete nel 2004. Prima elezione mondiale su Internet nel 2054. Era così, molto post tutto, il guru del guru Grillo. Ma era anche d'antan, nel senso che il partito di cui era padrone in tandem con Beppe e su cui per discendenza dinastica il figlio Davide avrà voce in capitolo (e già c'è il problema che l'erede pare non straveda per Luigi Di Maio la cui bella e rampante fidanzata Silvia Virgulti viene proprio dalla Casaleggio Associati) ha una forma di tipo leninista, assai verticistica e iper controllata, che è quella che Gianroberto gli ha voluto dare. Anche se non il rivoluzionario sovietico, facevano parte del suo pantheon ideale, ma Gengis Khan, di cui si professava ammiratore; Marco Aurelio il "primo comunitarista"; film come Blade Runner, Matrix e Higlander in cui un solo immortale riuscirà a sopravvivere; cantanti come Giorgio Gaber ("Libertà è partecipazione") e come Fabrizio De Andrè ("Vi credete assolti ma siete pur sempre coinvolti") e via così. Era un assemblatore di culture, di millenarismi, di utopie, di contraddizioni ("Il sapere è gratis", diceva, ma il suo ultimo libro "Veni vidi web" con prefazione di Fedez costa sette euro), di esigenze di trasparenza assoluta (ma non si è mai sottoposto a una pubblica elezione), di grandi innovazioni (ha cambiato la politica inventando l'idea che un partito possa fare anzitutto marketing e facendosi seguire da tutti sulla strada della Rete come motore primo e ultimo del discorso pubblico ed elettorale), di rilancio di vecchie impostazioni forcaiole (non era un garantista, e suggerisce la gogna pubblica nel suo ultimo libero per ladri e malfattori) coniugate a una post-ideologia che è ideologica a sua volta ma del tutto estranea, quindi più moderna, alla dicotomia destra-sinistra. È stato il trionfo della contaminazione Casaleggio. Perciò è risultato spiazzante. Perciò è diventato, anche se pochi lo conoscono, ma tutti conoscono la ricetta che ha emanato e ha fatto interpretare agli eletti grillini, a suo modo super-pop pur non recitando sul palcoscenico dove si muovono i suoi amici e i suoi avversari. La predicazione della trasparenza e dell'onestà - ingredienti forti del casaleggismo diventati bandiere e rap sul blog di Beppe che lui ha creato - ha fatto in modo insieme ad altri motivi di far diventare Grillo terzo nel mondo di Twitter, di dargli il secondo posto su YouTube, il quarto su Facebook. In politica è stato un grande innovatore sulla base di una idea apparentemente semplice ma che non è detto che alla lunga sia vera: non è finita la politica, sono finiti i partiti. Impostazione banale? Tutt'altro. Così come il suo sincretismo, molto moderno, in cui ha fatto rientrare tutto e il contrario di tutto. Riuscendo a far convivere - all'insegna, come si dice ora, della liquidità - il populismo («Sono populista e orgoglioso di esserlo») demagogico e l'individualismo da padroncino, la retorica egualitaria dell'«uno vale uno» e il superdecisionismo personale, l'iper-comunicazione e l'invisibilità che a taluni è apparsa di tipo orwelliano. Al punto che gli elettori 5Stelle per lo più non lo conoscono e gli eletti 5Stelle per lo più gli obbediscono. E lui li istruisce. Come ha fatto appena qualche giorno fa con i candidati sindaci alle elezioni di giugno, tra cui Virginia Raggi. «La vittoria a Roma - questa una delle ultime profezie di Casaleggio - sarà l'inizio della nostra conquista dell'Italia». Se così sarà, lui si godrà la festa dal pianeta di Gaia o da una suo personale Paradiso. Pag 1 I falsi miti cancellati dal cambiamento di Alessandro Campi Una maggioranza parlamentare composita, intermittente e persino sgangherata, un capo di governo mai passato al vaglio degli elettori e giudicato per ciò quasi illegittimo dai suoi numerosi avversari. una giovane ministro lodata soprattutto per la sua avvenenza sono riusciti a varare, con la votazione finale di ieri alla Camera, una riforma della Costituzione che cambia in modo radicale il funzionamento del nostro sistema politico-istituzionale. Se ne deduce che oltre ai numeri in politica contano la volontà e la determinazione (al limite della tigna) con la quale si perseguono i propri obiettivi: un tratto caratteriale che Renzi ha dimostrato di possedere in grande misura. Anche se in questa particolare congiuntura qualcosa ha contato la condizione di grave degrado - percepito o oggettivo poco importa - nel quale versa la politica italiana: delegittimata

agli occhi dei cittadini e perciò facile oggetto di invettiva e denuncia per i demagoghi d'ogni colore. La partita, chiusa per adesso nelle aule, si sposta nelle piazze (divenute nel frattempo quasi interamente virtuali). Ma appare chiaro sin d'ora che quello che si annuncia per il prossimo ottobre non sarà, per come Renzi sta impostando la partita in vista di questo appuntamento, un referendum costituzionale, ma un plebiscito politico: si dirà "sì" o "no" ad una persona e alla sua visione politica, non ad un progetto di riforma e alla sua articolazione funzionale. Renzi e i suoi ministri sono fautori della velocità e del rinnovamento generazionale. Chi si oppone al loro disegno di cambiamento incarna la vecchia Italia dei privilegi e verrà dunque stigmatizzato alla stregua di un guastafeste o di un uccello malaugurante. Ciò significa che ci aspetta una lunghissima campagna elettorale nel corso della quale, c'è da giurarci, la discussione tecnica sulle singole questioni sarà eclissata da argomenti e slogan più ruvidamente polemici. Nel frattempo c'è da segnalare una serie di conseguenze politiche, non prive di aspetti paradossali, che questa riforma appena approvata porta con sé. La più vistosa, un vera ironia della storia, riguarda il fatto che pur muovendosi essa nel corso del decisionismo craxiano-berlusconiano essa è stata votata da una maggioranza parlamentare di sinistra. Una sinistra che alcuni ritengono sia stata geneticamente modificata, e dunque stravolta sul piano delle aspirazioni ideali, da Renzi; ma che probabilmente quest'ultimo ha solo mentalmente liberato dal conservatorismo ideologico che l'attanagliava. Viene da ridire, ad esempio, nel vedere come tra i più accaniti critici di questa riforma ci siano stati, accanto ai grillini, anche gli ultimi testimonial parlamentari del berlusconismo. Non deve essere facile, dinnanzi ai propri elettori e a se stessi, denunciare come un male ciò per cui ci si è battuti per un'intera vita politica. Sono contraddizioni che elettoralmente si pagano. E lascia infine un po' confusi e divertiti il fatto che anni di dotte discussioni sul federalismo e il decentramento territoriale, siano stati spazzati via da una riforma d'impianto radicalmente centralista e gerarchico, che non ha soltanto soppresso le storiche Province, ma tolto competenze alle Regioni e ridotto il Senato delle autonomie ad una funzione poco più che consultiva. Il vento della storia, ammesso che esista, evidentemente ha preso a soffiare nella direzione opposta a quella immaginata da una schiera di opinionisti e osservatori, costretti ancora una volta ad inseguire la realtà. LA NUOVA Pag 1 Movimento senza lo stratega di Andrea Sarubbi Poteva essere un’altra storia, se Gianroberto Casaleggio fosse stato un uomo differente. Se avesse avuto qualche attrazione per le poltrone, ad esempio, nessuno gliene avrebbe mai negata una a Palazzo Chigi: tantomeno Bersani, che tre anni fa - di questi tempi - sondava i Cinquestelle per il governo del cambiamento. Grillo si sarebbe sentito tutelato da uno come lui a Palazzo Chigi, i neoeletti parlamentari ne avrebbero riconosciuto l’autorità e ora staremmo a raccontare una storia diversa: quella della scomparsa prematura di un ministro, o addirittura di un vicepresidente del Consiglio. Così non è stato, un po’ per indole dell’uomo e un po’ per ragionata linea politica: ci si ritrova quindi a parlare della morte di un leader politico sui generis, mai candidato a nulla e mai votato, eppure incaricato di trattare con il presidente della Repubblica a nome di un quarto degli elettori italiani. Anche quando tutti impazzivano per Grillo, come in un gruppo musicale le ragazzine fanno follie per il cantante, era già Casaleggio a scrivere i testi, a scegliere i pezzi, a pubblicare i dischi e a decidere le date dei concerti. L’esempio da scuola del king maker: non un ex leader prossimo alla pensione che, non potendo più candidarsi, si cerca un delfino, quanto piuttosto uno stratega a tutto campo. Nonché, allo stesso tempo, la negazione assoluta del principio grillino secondo cui uno-vale-uno, perché nel momento delle scelte - dal Parlamento al Quirinale, dalle esternazioni sul sacro blog alla disciplina interna - c’era sempre Gianroberto, l’uno un po’ più uno di tutti. Ecco perché la sua morte lascia nei Cinquestelle un vuoto che nessuna delle altre forze politiche può sperimentare. Se Renzi si ritira domattina a vita privata, il Pd ha un piano B già rodato e attuabile in breve tempo: congresso, conta interna, nuovo segretario, poltrone col bilancino. Se lo fa Berlusconi, per Forza Italia non è più drammatico come sarebbe stato qualche anno fa: magari ci vorrà un po’ di tempo, ma anche lì le primarie potrebbero portare a scegliere l’erede e le parole d’ordine classiche della destra garantiranno la continuità del percorso politico. Così, ad esempio, è stato per la Lega,

che nel 2013 ha fatto fuori il padre ma che è sopravvissuta grazie a un impianto ideologico che ne ha salvaguardato l’identità. Per i grillini, invece, è tutto più complicato, e le ragioni sono molteplici. La principale, appunto, è che in molti casi l’adesione ai Cinquestelle è avvenuta per esclusione («né con questa destra, né con questa sinistra»), dando vita a gruppi dirigenti piuttosto eterogenei: alla mancanza di una cultura politica comune ha supplito finora la sagacia strategica della Casaleggio associati, che ha fatto anche da filtro e da tappo alle legittime ambizioni personali di molti. Ora, se viene meno un punto di riferimento, le contraddizioni rischiano di scoppiare: sia a livello di linea, sia sul fronte delle rivalità interne che già oggi - Roma lo dimostra - covano sottotraccia. Il tutto è aggravato dal disimpegno di Grillo, che fino a qualche mese fa era stato la testa d’ariete del Movimento e che ora sembra tornato a concentrarsi sulla propria carriera artistica. C’è da dire che la morte di Casaleggio non è giunta inaspettata, e che con ogni probabilità si sarà già programmata una transizione: del figlio Davide parlano bene in molti e i collaboratori validi non mancano, quindi il rischio che i Cinquestelle si dissolvano in un quarto d’ora è inesistente. Il problema nel medio periodo, però, è di riconoscimento della leadership, perché la storia dimostra che nessun partito può sopravvivere senza un leader riconosciuto dalla propria comunità di dirigenti, militanti ed elettori. Torniamo alle consultazioni del 2013, per capirci. Chi andrebbe oggi al Quirinale da Napolitano, per le consultazioni su un ipotetico governo Bersani? E chi deciderebbe quali ministeri chiedere, e a chi darli? Tre anni fa, con due generali e una massa di reclute, sarebbe stato tutto più facile; ora, senza un’autorità universalmente riconosciuta e un plotone di colonnelli rampanti, volerebbero probabilmente coltelli. Pagg 6 – 7 Casaleggio, testamento con la linea del M5S di Maria Berlinguer e Nicola Corda Visionario, guru e idealista. Da conoscitore della Rete inventò un “movimento” Roma. Se ne è andato in silenzio, alle prime luci dell’alba, e la sua morte lascia sotto choc attivisti e militanti e persino Beppe Grillo. Che Gianroberto Casaleggio fosse malato si sapeva da tempo ma nessuno immaginava che la fine fosse imminente. Si era fatto ricoverare un paio di settimane fa in una clinica milanese ma con un altro nome, Gianni Isolato, a riprova dell’ossessione che Casaleggio ha avuto sulla privacy. La scorsa settimana un giornale aveva pubblicato un articolo sulle sue condizioni di salute e sulla possibile successione alla guida del movimento. E lui aveva replicato duro. «Non mollo, sciacallo chi lo scrive», confermando però che le sue condizioni di salute erano note a tutti. Negli ultimi tempi era molto affaticato. Ma nulla lasciava presagire la fine imminente. Beppe Grillo ha appreso la notizia a Napoli, dove in serata avrebbe dovuto esibirsi per una delle tappe del tour, annullata per lutto. Il suo albergo è stato subito assediato da cronisti e telecamere. Ma il cofondatore del M5s non ha voluto parlare con nessuno. Ha indossato una tuta rossa ed è andato a correre. Poi è volato a Milano. Prima ha affidato a Twitter i suoi pensieri «Solo oggi forse inizieremo tutti a capire la lungimiranza e la visione di Gianroberto Casaleggio», scrive su Twitter Grillo, «Che la terra ti sia lieve», aggiunge Grillo che poi sul blog pubblica una bella foto sua e dell’amico accompagnata da #CiaoGianroberto. «Ha lottato fino all’ultimo», l’omaggio dell’ex comico che in pochi anni è riuscito a dare corpo e consistenza al sogno di un movimento ci cittadini in cui «uno vale uno». Già. Ora però che il movimento ha perso la sua guida, il suo guru, l’ideologo e il fondatore si apre una stagione difficile di transizione. Dove il rischio di una balcanizzazione è dietro l’angolo. Grillo ha tolto come aveva promesso il suo nome dal simbolo e ha fatto «un passo di lato», felice di poter tornare a esibirsi nei teatri. Presto partirà anche per la tournèe americana. «Io farò il garante», aveva detto. Ma ora la sua decisione potrebbe essere rivista. Gli occhi allora sono puntati sul «direttorio». Luigi Di Maio, Roberto Fico e Alessandro Di Battista, i tre nomi di punta del movimento dove se uno conta uno finora c’è stato uno che ha contato più di tutti gli altri: Casaleggio. Grillo? Davide Casaleggio? Il direttorio? Chi guiderà il M5S?». È la domanda che tutti, anche all'interno del Movimento, si pongono dopo la morte di Gianroberto Casaleggio che però, già immaginando quanto sarebbe accaduto, avrebbe lasciato ai suoi fedelissimi un testamento politico: una serie di appunti con indicazioni in vista delle prossime scadenze politiche nella convinzione che nella primavera del 2017 si voterà. Insistendo sul passaggio decisivo delle elezioni

amministrative. Vincere a Roma o a Torino, una tappa importantissima in vista della sfida a Renzi. I pentastellati e Beppe Grillo si trovano di fronte ad una svolta: andare avanti senza il supporto del suo ideatore e fondatore. Secondo alcuni parlamentari pentastellati, il leader dovrebbe tornare a farsi carico del Movimento. L'alternativa è rappresentata dal passaggio della cabina di regia interamente nelle mani del direttorio M5S. Non tutti tra i pentastellati - soprattutto al Senato - sono però convinti che Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista, Roberto Fico, Carlo Sibilia e Carla Ruocco (tutti deputati) abbiano sufficiente piglio per guidare il «partito» per motivi anagrafici e di equilibrio tra le due Camere. Palazzo Madama reclama un peso maggiore all'interno degli organismi direttivi: spesso si sono fatti i nomi dei senatori Paola Taverna e Nicola Morra per incarichi di primo piano. C'è, infine, da definire il ruolo di Davide Casaleggio. Il figlio del co-fondatore si trova ora ad avere la maggioranza della Casaleggio Associati, proprietaria del blog di Beppe. Ad affiancarlo ci saranno anche i soci e Filippo Pittarello. In Parlamento non tutti sono convinti che Davide abbia la sensibilità politica del padre. Ma non mancano neanche i suoi ammiratori, convinti che possa bilanciare «lo strapotere» del direttorio e dare un'impronta più strategica. «Gianroberto era un visionario nel senso che riusciva a capire prima il futuro - spiega una delle fonti - Aveva pianificato cosa sarebbe accaduto quando lui non ci sarebbe stato più. Pianificava tutto, sempre». La soluzione potrebbe quindi averla immaginata lo stesso Casaleggio: un periodo di transizione con direttorio e Davide che si aiutano sotto il controllo di Grillo e traghettano il «partito» durante questo periodo difficile. Anche in questa luce potrebbe essere letto il post della scorsa settimana sul blog nel quale lo stesso Casaleggio ha detto: «Nel M5S non ci sono capi. Decidono i cittadini». Una democrazia allargata che congelerebbe la situazione attuale. L'accordo dovrebbe essere siglato dallo stesso Davide e Di Maio e Fico. Roma. Visionario, guru, idealista digitale, innovatore della politica. A scorrere gli aggettivi che hanno accompagnato la vita di Gianroberto Casaleggio, si fatica a trovarne uno solo che lo sintetizzi. Preferiva definirsi “stratega della rete”, un ruolo riconosciutogli unanimemente negli ambienti della cyber cultura internazionale. Una “professione” coltivata fin dagli anni ’70, quando alla Olivetti faceva il progettista software. Sono gli anni d’oro dell’informatica italiana: quelle “macchine” stanno per diventare strumenti accessibili a tutti e così a soli quarant’anni Casaleggio è amministratore delegato della Webegg, società di consulenza aziendale per il web con la partecipazione della stessa Olivetti. La Casaleggio associati arriva nel 2004 e un anno dopo anche l’incontro con Beppe Grillo. Il comico lo definì subito “un pazzo”, giacché durante i suoi spettacoli prendeva i computer a martellate, il diavolo mascherato da progresso. Dovette ricredersi perché l’incontro con quel visionario nel camerino di un teatro, seppe dare forma al Movimento che grazie alla rete oggi è la seconda forza politica italiana. Se, nonostante la scomparsa del suo ideologo, sarà in grado di competere davvero per il governo del Paese si vedrà, ma questo è già un traguardo e non solo per l’Italia. Nessuno, solo attraverso la rete, è riuscito ad arrivare così in alto. A Grillo la mise semplice: la rete come intelligenza collettiva, la rete che governa, la rete che rottama tutto, televisione inclusa, per cui Casaleggio dichiarava di non avere alcun interesse. «E’ come parlare dei dinosauri. Non ha senso parlare del futuro dei dinosauri, perché si sono estinti». Analogamente la critica allo schema dei partiti: la rete li destrutturerà, così come Wikipedia ha mandato in pensione le enciclopedie tradizionali. L’idea del Movimento 5 Stelle che dieci anni fa si affacciava sulla scena politica italiana, prendeva le mosse da queste riflessioni, con la vera democrazia che si realizza liberandosi dell’intermediazione dei partiti e dei media convenzionali, in un legame diretto con gli elettori. E’ l’invenzione dei “meet up” circoli della politica che nascono virtuali e poi fanno incontrare persone in carne e ossa. Ma il sogno di un “parlamento elettronico” animato da cittadini che diventano attivisti digitali s’infrange troppe volte. La macchina s’ingolfa e i nuovi meccanismi decisionali lasciano a piedi il Movimento 5 Stelle che fatica quando si trova a decidere. Casaleggio si è affannato a spiegare che la democrazia della rete funziona senza leader ma tante volte ha dovuto lui prendere il timone per dire: «si va da questa parte». E spesso non è bastato appellarsi alle regole per dire che «sono un metodo e senza quelle si muore». Metodo che tuttavia ha portato a troppe epurazioni. Lo scrittore di fantascienza americano Bruce Sterling parlando del fenomeno del M5s, gli disse che

«Grillo è come Garibaldi che guida le cariche, Casaleggio è come Mazzini che pubblica le riviste repubblicane clandestine, ma in parlamento servirebbe un Cavour». «Non sono importanti i nomi ma i programmi e la partecipazione» gli rispose Gianroberto. Già, ma senza Mazzini e con Garibaldi che ha fatto un passo di lato, i 5 Stelle dovranno pur inventarselo qualcuno che a Cavour almeno gli assomigli. Pag 10 Accogliere con dignità è un dovere di Erik C.F. Burckhardt Sono iniziati la settimana scorsa i primi rinvii e reinsediamenti di rifugiati siriani nel quadro dell’accordo Ue-Turchia. Dal 20 marzo al 3 aprile, in meno di due settimane, la Grecia ha contato più di 6 mila nuovi sbarchi. 147 sono invece i migranti irregolari ai quali non poteva essere accordata la protezione internazionale e che sono stati ricondotti in Turchia. L’accordo vuole che a ogni siriano rimpatriato in Turchia dalle isole greche corrisponda un siriano reinsediato dalla Turchia all’Ue. Così, la buona notizia è che sono stati avviati anche i ponti aerei per il reinsediamento dei rifugiati più bisognosi. Al momento questa operazione avrebbe coinvolto meno di una cinquantina di rifugiati destinati a Germania, Finlandia e Paesi Bassi. Un piccolo inizio, che ha bisogno di un’accelerata se vuole sortire l’effetto utile di sostituire i flussi migratori, caotici, irregolari e pericolosi con percorsi organizzati, sicuri e legali. Solo attraverso un’implementazione sincera, piena e costante della parte dell’accordo che riguarda i reinsediamenti e i ricollocamenti si potrà smentire chi lo considera un passo verso la riduzione dei diritti dei rifugiati. È vero che dei 20mila reinsediamenti dagli Stati terzi decisi nell’Agenda Ue sulle migrazioni, dopo quasi un anno ne sono stati realizzati appena il 10%. Per quel che riguarda i ricollocamenti, solo dalla Grecia ne servirebbero almeno 6mila al giorno per scongiurare il ripetersi di scene come quella di domenica scorsa a Idomeni, con gas e lacrimogeni sparati sui profughi. L’Italia non è chiamata a farsi carico dei ricollocamenti dalla Grecia in quanto è anch’essa colpita dagli sbarchi. Nei primi tre mesi del 2016, ne abbiamo contati 19 mila, 7 mila in più rispetto al 2015. Il nostro sistema di accoglienza ospita oggi circa 110 mila persone. Numeri importanti che devono, tuttavia, essere contestualizzati nella crisi umanitaria globale. Ad esempio, il Libano - grande quanto la Basilicata e con la metà degli abitanti della Lombardia - ospita da solo più di 1,2 milioni di profughi siriani. In proporzione è come se ad avere cercato rifugio in Italia fosse stata l’intera popolazione siriana coi suoi 20 milioni di abitanti. In tutta l’Europa, i rifugiati siriani sono invece meno di 1 milione. Meno di uno ogni 500 abitanti nel Vecchio continente, più di uno ogni quattro abitanti nel delicato contesto socio-politico libanese, schiacciato tra la Siria e Israele, nonché storicamente caratterizzato da un fragile equilibrio politico-religioso. Questo raffronto rende meno eroica la ormai emblematica affermazione della Cancelliera tedesca Angela Merkel «Wir schaffen das!» (Ce la facciamo!), che le ha fatto guadagnare molte lodi, ma purtroppo anche molte critiche dalle forze politiche che fanno di una confusa difesa della sovranità nazionale il proprio programma. La soluzione sta invece nel richiamare tutti i partner a un atteggiamento di maggiore responsabilità nel gestire i flussi di rifugiati. Questo vale nei rapporti tra gli Stati membri dell’Ue, quanto con i Paesi terzi e con le comunità che stanno svolgendo un fondamentale ruolo di contenimento dell’emergenza. Il Governo ha intensificato l’impegno per sostenere i Paesi più esposti all’emergenza derivante dalla crisi siriana e ha rafforzato il programma di reinsediamento dei rifugiati siriani dal Libano. In parte con il contributo della Comunità di Sant’Egidio, l’Italia ha quindi già portato al sicuro 193 rifugiati selezionati da Unchr tra le persone più vulnerabili in Libano. Altre 381 raggiungeranno la nostra penisola nei prossimi due mesi. Sono gocce dal mare della grande crisi umanitaria. Il minimo che si possa fare per dimostrare che quello dell’Italia contro le divisioni e gli approcci unilaterali non è solo un esercizio retorico. Oggi, il problema di chi mi sta vicino è un mio problema. La debolezza del mio vicino è il mio punto debole. E cercare di spingere il problema al di là dei nostri confini non può che farlo ritorcere contro di noi. Torna al sommario