Rassegna stampa 10 aprile 2018 - patriarcatovenezia.it · Possiamo menzionare santa Ildegarda di...

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RASSEGNA STAMPA di martedì 10 aprile 2018 SOMMARIO “Non pensiamo solo ai santi già beatificati o canonizzati – scrive Papa Francesco all’inizio dell’esortazione apostolica sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo “Gaudete et exsultate” -. Lo Spirito Santo riversa santità dappertutto nel santo popolo fedele di Dio, perché «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità». Il Signore, nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo. Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, “la classe media della santità”. Lasciamoci stimolare dai segni di santità che il Signore ci presenta attraverso i più umili membri di quel popolo che «partecipa pure dell’ufficio profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza di Lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità». Pensiamo, come ci suggerisce santa Teresa Benedetta della Croce, che mediante molti di loro si costruisce la vera storia: «Nella notte più oscura sorgono i più grandi profeti e i santi. Tuttavia, la corrente vivificante della vita mistica rimane invisibile. Sicuramente gli avvenimenti decisivi della storia del mondo sono stati essenzialmente influenzati da anime sulle quali nulla viene detto nei libri di storia. E quali siano le anime che dobbiamo ringraziare per gli avvenimenti decisivi della nostra vita personale, è qualcosa che sapremo soltanto nel giorno in cui tutto ciò che è nascosto sarà svelato». La santità è il volto più bello della Chiesa. Ma anche fuori della Chiesa Cattolica e in ambiti molto differenti, lo Spirito suscita «segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo» (..) …quello che vorrei ricordare con questa Esortazione è soprattutto la chiamata alla santità che il Signore fa a ciascuno di noi, quella chiamata che rivolge anche a te: «Siate santi, perché io sono santo». Il Concilio Vaticano II lo ha messo in risalto con forza: «Muniti di salutari mezzi di una tale abbondanza e di una tale grandezza, tutti i fedeli di ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a una santità la cui perfezione è quella stessa del Padre celeste». «Ognuno per la sua via», dice il Concilio. Dunque, non è il caso di scoraggiarsi quando si contemplano modelli di santità che appaiono irraggiungibili. Ci sono testimonianze che sono utili per stimolarci e motivarci, ma non perché cerchiamo di copiarle, in quanto ciò potrebbe perfino allontanarci dalla via unica e specifica che il Signore ha in serbo per noi. Quello che conta è che ciascun credente discerna la propria strada e faccia emergere il meglio di sé, quanto di così personale Dio ha posto in lui e non che si esaurisca cercando di imitare qualcosa che non è stato pensato per lui. Tutti siamo chiamati ad essere testimoni, però esistono molte forme esistenziali di testimonianza. Di fatto, quando il grande mistico san Giovanni della Croce scriveva il suo Cantico spirituale, preferiva evitare regole fisse per tutti e spiegava che i suoi versi erano scritti perché ciascuno se ne giovasse «a modo suo». Perché la vita divina si comunica ad alcuni in un modo e ad altri in un altro. Tra le diverse forme, voglio sottolineare che anche il “genio femminile” si manifesta in stili femminili di santità, indispensabili per riflettere la santità di Dio in questo mondo. E proprio anche in epoche nelle quali le donne furono maggiormente escluse, lo Spirito Santo ha suscitato sante il cui fascino ha provocato nuovi dinamismi spirituali e

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RASSEGNA STAMPA di martedì 10 aprile 2018

SOMMARIO

“Non pensiamo solo ai santi già beatificati o canonizzati – scrive Papa Francesco all’inizio dell’esortazione apostolica sulla chiamata alla santità nel mondo

contemporaneo “Gaudete et exsultate” -. Lo Spirito Santo riversa santità dappertutto nel santo popolo fedele di Dio, perché «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo,

che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità». Il Signore, nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza

appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare,

nella dinamica di un popolo. Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che

lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità

della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, “la classe media della santità”. Lasciamoci stimolare dai segni di santità che il Signore ci presenta attraverso i più umili membri di quel popolo che «partecipa pure dell’ufficio profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza di

Lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità». Pensiamo, come ci suggerisce santa Teresa Benedetta della Croce, che mediante molti di loro si

costruisce la vera storia: «Nella notte più oscura sorgono i più grandi profeti e i santi. Tuttavia, la corrente vivificante della vita mistica rimane invisibile. Sicuramente gli avvenimenti decisivi della storia del mondo sono stati essenzialmente influenzati da

anime sulle quali nulla viene detto nei libri di storia. E quali siano le anime che dobbiamo ringraziare per gli avvenimenti decisivi della nostra vita personale, è

qualcosa che sapremo soltanto nel giorno in cui tutto ciò che è nascosto sarà svelato». La santità è il volto più bello della Chiesa. Ma anche fuori della Chiesa Cattolica e in ambiti molto differenti, lo Spirito suscita «segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo» (..) …quello che vorrei ricordare con questa Esortazione è

soprattutto la chiamata alla santità che il Signore fa a ciascuno di noi, quella chiamata che rivolge anche a te: «Siate santi, perché io sono santo». Il Concilio Vaticano II lo ha messo in risalto con forza: «Muniti di salutari mezzi di una tale abbondanza e di una

tale grandezza, tutti i fedeli di ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a una santità la cui perfezione è quella stessa del Padre

celeste». «Ognuno per la sua via», dice il Concilio. Dunque, non è il caso di scoraggiarsi quando si contemplano modelli di santità che appaiono irraggiungibili. Ci

sono testimonianze che sono utili per stimolarci e motivarci, ma non perché cerchiamo di copiarle, in quanto ciò potrebbe perfino allontanarci dalla via unica e

specifica che il Signore ha in serbo per noi. Quello che conta è che ciascun credente discerna la propria strada e faccia emergere il meglio di sé, quanto di così personale

Dio ha posto in lui e non che si esaurisca cercando di imitare qualcosa che non è stato pensato per lui. Tutti siamo chiamati ad essere testimoni, però esistono molte forme

esistenziali di testimonianza. Di fatto, quando il grande mistico san Giovanni della Croce scriveva il suo Cantico spirituale, preferiva evitare regole fisse per tutti e

spiegava che i suoi versi erano scritti perché ciascuno se ne giovasse «a modo suo». Perché la vita divina si comunica ad alcuni in un modo e ad altri in un altro. Tra le

diverse forme, voglio sottolineare che anche il “genio femminile” si manifesta in stili femminili di santità, indispensabili per riflettere la santità di Dio in questo mondo. E proprio anche in epoche nelle quali le donne furono maggiormente escluse, lo Spirito

Santo ha suscitato sante il cui fascino ha provocato nuovi dinamismi spirituali e

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importanti riforme nella Chiesa. Possiamo menzionare santa Ildegarda di Bingen, santa Brigida, santa Caterina da Siena, santa Teresa d’Avila o Santa Teresa di Lisieux. Ma mi preme ricordare tante donne sconosciute o dimenticate le quali, ciascuna a modo suo,

hanno sostenuto e trasformato famiglie e comunità con la forza della loro testimonianza. Questo dovrebbe entusiasmare e incoraggiare ciascuno a dare tutto sé stesso, per crescere verso quel progetto unico e irripetibile che Dio ha voluto per lui o per lei da tutta l’eternità: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato». Per essere santi non è necessario essere vescovi, sacerdoti, religiose o religiosi. Molte volte abbiamo la tentazione di pensare che la santità sia riservata a coloro che hanno la possibilità di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così. Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la

propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova. Sei una consacrata o un consacrato? Sii santo vivendo con gioia la tua donazione. Sei sposato?

Sii santo amando e prendendoti cura di tuo marito o di tua moglie, come Cristo ha fatto con la Chiesa. Sei un lavoratore? Sii santo compiendo con onestà e competenza il tuo lavoro al servizio dei fratelli. Sei genitore o nonna o nonno? Sii santo insegnando con pazienza ai bambini a seguire Gesù. Hai autorità? Sii santo lottando a favore del bene comune e rinunciando ai tuoi interessi personali. Lascia che la grazia del tuo

Battesimo fruttifichi in un cammino di santità. Lascia che tutto sia aperto a Dio e a tal fine scegli Lui, scegli Dio sempre di nuovo. Non ti scoraggiare, perché hai la forza

dello Spirito Santo affinché sia possibile, e la santità, in fondo, è il frutto dello Spirito Santo nella tua vita. Quando senti la tentazione di invischiarti nella tua debolezza,

alza gli occhi al Crocifisso e digli: “Signore, io sono un poveretto, ma tu puoi compiere il miracolo di rendermi un poco migliore”. Nella Chiesa, santa e composta da

peccatori, troverai tutto ciò di cui hai bisogno per crescere verso la santità. Il Signore l’ha colmata di doni con la Parola, i Sacramenti, i santuari, la vita delle comunità, la

testimonianza dei santi, e una multiforme bellezza che procede dall’amore del Signore, «come una sposa si adorna di gioielli». Questa santità a cui il Signore ti

chiama andrà crescendo mediante piccoli gesti... A volte la vita presenta sfide più grandi e attraverso queste il Signore ci invita a nuove conversioni che permettono alla sua grazia di manifestarsi meglio nella nostra esistenza «allo scopo di farci partecipi della sua santità». Altre volte si tratta soltanto di trovare un modo più perfetto di

vivere quello che già facciamo: «Ci sono delle ispirazioni che tendono soltanto ad una straordinaria perfezione degli esercizi ordinari della vita cristiana». Quando il

Cardinale Francesco Saverio Nguyên Van Thuân era in carcere, rinunciò a consumarsi aspettando la liberazione. La sua scelta fu: «vivo il momento presente, colmandolo di amore»; e il modo con il quale si concretizzava questo era: «afferro le occasioni che si presentano ogni giorno, per compiere azioni ordinarie in un modo straordinario». Così, sotto l’impulso della grazia divina, con tanti gesti andiamo costruendo quella

figura di santità che Dio ha voluto per noi, ma non come esseri autosufficienti bensì «come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio»… Per un cristiano non è

possibile pensare alla propria missione sulla terra senza concepirla come un cammino di santità, perché «questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione». Ogni santo è una missione; è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo. Tale missione trova

pienezza di senso in Cristo e si può comprendere solo a partire da Lui. In fondo, la santità è vivere in unione con Lui i misteri della sua vita. Consiste nell’unirsi alla

morte e risurrezione del Signore in modo unico e personale, nel morire e risorgere continuamente con Lui. Ma può anche implicare di riprodurre nella propria esistenza

diversi aspetti della vita terrena di Gesù: la vita nascosta, la vita comunitaria, la vicinanza agli ultimi, la povertà e altre manifestazioni del suo donarsi per amore… Il disegno del Padre è Cristo, e noi in Lui. In definitiva, è Cristo che ama in noi, perché «la santità non è altro che la carità pienamente vissuta». Pertanto, «la misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello

Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua». Così, ciascun santo è un

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messaggio che lo Spirito Santo trae dalla ricchezza di Gesù Cristo e dona al suo popolo” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Venerdì i funerali di don Aldo Marangoni di Alvise Sperandio Cerimonia ai Santi Giovanni e Paolo celebrata dal patriarca CORRIERE DEL VENETO Pag 10 E’ morto don Marangoni, una vita spesa per l’arte di Gi.Co. Aveva 85 anni LA NUOVA Pag 22 Si è spento don Aldo Marangoni L’85enne sacerdote aveva fondato Chorus, venerdì i funerali 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Dal cuore del pontificato di g.m.v. Perché parlare di santità? di Angelo De Donatis Per gente comune di Paola Bignardi Dalla grazia della vergogna alla gioia del perdono La messa della Divina misericordia Niente giustifica lo sterminio di persone inermi Al Regina caeli l’appello per la Siria AVVENIRE Pag 1 No, non è per superuomini di Pierangelo Sequeri L’esortazione e la vita di tutti Pag 2 Il Signore t’ha chiamata e tu gli hai risposto sì di Maurizio Patriciello Lettera aperta ad Antonietta Gargiulo:un mese fa il marito ha ucciso le figlie, l’ha ferita e si è tolto la vita Pagg 6 – 7 Il Papa: la santità chiama tutti anche nel mondo di oggi di Stefania Falasca Nelle Beatitudini “la carta d’identità del cristiano”. L’esortazione apostolica sulla santità nasce dalla “paternità” del Papa CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Comunione, veto del parroco: “Non regalate smartphone” A Reggio Emilia IL FOGLIO Pag 4 Il prontuario del Papa su come essere santi e felici nel mondo di oggi LA NUOVA Pag 8 E Bergoglio attacca i siti dei cattolici: “Basta odio in rete” di Mariaelena Finessi Pag 11 La Chiesa alle prese con il budget di Madina Fabretto Padova, la riforma economica di papa Francesco spiegata da monsignor Mistò

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VATICAN INSIDER Il Papa: “Ecco la via per una santità alla portata di tuttiˮ di Andrea Tornielli Nell’esortazione “Gaudete et Exsultateˮ di Francesco indicazioni e suggerimenti concreti per essere i santi “della porta accantoˮ nel mondo di oggi. I rischi del web e dei media cattolici Comunicazione, santità e gli eccessi dei media (anche cattolici) di Andrea Tornielli Nell'esortazione “Gaudete et exsultateˮ le indicazioni per uno stile evangelico di comunicare. Purtroppo «anche i cristiani possono partecipare a reti di violenza verbale» sul web Pelagianesimo e gnosticismo, quei “sottili nemici” della santità di Gianni Valente Pubblichiamo la versione integrale dell’intervento alla presentazione dell’esortazione “Gaudete et Exsultateˮ Francesco: “Il Maligno, essere personale che ci tormentaˮ di Andrea Tornielli L'esortazione papale sulla santità “Gaudete et exsultateˮ contiene pagine forti sul demonio: «Non pensiamo che sia un mito, un simbolo, una figura o un’idea» 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 24 Abbiamo pochi laureati ma quel titolo è ancora importante di Roger Abravanel 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXXI Referendum separazione. Ecco perché non si voterà di Ennio Fortuna CORRIERE DEL VENETO Pag 9 Venezia città “Green”. Tra due anni nei canali solo con motori elettrici di Benedetta Leardini Ca’ Farsetti prepara la Ztl. Brugnaro: ma i costi devono scendere LA NUOVA Pagg 2 – 3 Limiti di stazza e di velocità. Grandi navi, a luglio si cambia di Alberto Vitucci ed Enrico Tantucci Comitati ancora prudenti: “Vediamo come funziona” 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 1 Padova, quei selfie nel vuoto in bilico sul grattacielo di Marina Lacchin … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La sinistra e i diritti degli amici di Paolo Mieli Il caso Lula Pag 3 Quando è necessario mostrare la foto di un bimbo che muore di Beppe Severgnini Pag 5 Il ping pong dei “vincitori”, tra veti esibiti in pubblico e aperture coltivate in segreto di Massimo Franco Lega e M5S rassegnati a tempi lunghi e senza certezze

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Pag 6 Ma per il Quirinale lo scenario M5S-Lega resta il più probabile di Marzio Breda L’ipotesi del “terzo uomo”, il Colle però non farà nomi Pag 24 La strategia di Di Maio per occupare la scena di Paolo Franchi LA REPUBBLICA La linea rossa del Colle di Stefano Folli AVVENIRE Pag 3 Altra strage utile e senza verità di Riccardo Redaelli Sempre più complicato il caso siriano IL GAZZETTINO Pag 1 La sterzata di Budapest e i suoi effetti su Bruxelles di Alessandro Campi LA NUOVA Pag 1 Le nomine nel governo populista di Massimiliano Panarari Pag 1 Tra Usa e Cina battaglia commerciale di Franco A. Grassini

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Venerdì i funerali di don Aldo Marangoni di Alvise Sperandio Cerimonia ai Santi Giovanni e Paolo celebrata dal patriarca Venezia. Saranno celebrati venerdì, nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, i funerali di don Aldo Marangoni, morto nelle prime ore del pomeriggio di domenica nel vicino ospedale civile. Le esequie, fissate per le 10.15, saranno ovviamente celebrate dal patriarca Francesco Moraglia, che rientrerà in città per l'occasione, essendo in questi giorni impegnato agli esercizi spirituali della Conferenza episcopale del Triveneto alla casa di spiritualità San Martino di Vittorio Veneto . In Curia hanno scelto i Santi Giovanni e Paolo, chiesa particolarmente capiente, immaginando un afflusso consistente di persone per dare l'addio al sacerdote che aveva 85 anni. «Eravamo nella stessa classe in Seminario anche se poi, nel sacerdozio, abbiamo seguito strade abbastanza diverse. Ci siamo ritrovati, infine, entrambi parroci a Venezia: io a San Zaccaria, lui a San Giacomo dall'Orio. L'ho conosciuto e lo ricordo sempre come uomo intelligente e acuto, come un buon sacerdote», il ricordo di monsignor Carlo Seno, sempre classe 1933 e compagno di ordinazione il 22 giugno 1958 con l'allora patriarca Angelo Giuseppe Roncalli, poi Papa Giovanni XXIII. Mentre don Roberto Donadoni, vicario parrocchiale di San Moisé e che lo ha seguito molto in questi ultimi tempi quand'era già molto provato dalla malattia, spiega: «Posso testimoniare che sino all'ultimo, anche quando in questi giorni poteva esprimerlo ormai solo con un filo di voce, ha avuto a cuore e dimostrato sempre un grandissimo attaccamento alla città e alle chiese di Venezia». In effetti, don Marangoni viene ricordato soprattutto per il suo impegno nella salvaguardia dei luoghi di culto cittadini fino a fondare e presiedere l'associazione Chorus che da anni gestisce l'apertura e la custodia di un circuito di chiese nel centro storico a cui i visitatori non per ragioni di culto accedono con un biglietto d'ingresso. Negli ultimi tempi viveva a San Giovanni Elemosinario e dopo il pensionamento aveva dato una mano a celebrare le messe a San Giacomo di Rialto. Uomo dal carattere spigoloso e talvolta criticato, era originario di Burano. Nei primi anni di ministero pastorale, fu vicario parrocchiale prima a Santo Stefano di Venezia e poi a San Giuseppe di Mestre nonché, per un anno, vice assistente diocesano della Gioventù di Azione Cattolica. Tra il 1966 e il 1967, subito dopo il Concilio Vaticano II, fu missionario fidei donum in Kenya e poi collaborò, per brevi periodi, con le

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parrocchie mestrine di San Lorenzo Giustiniani e San Lorenzo Martire. Passò quindi a guidare, dal 1970 al 1986, prima come amministratore parrocchiale e poi come parroco la comunità della Risurrezione alla Cita di Marghera; quindi, dal 1986 al 2010 fu parroco a San Giacomo dall'Orio. Tanti gli incarichi ricoperti in diocesi: fu membro del Consiglio Presbiterale dal 1987 al 1992, direttore dell'Ufficio Chiese dal 1987 al 1996, responsabile della Commissione Chiese del Patriarcato dal 1992 al 1996 e poi direttore della sezione beni ambientali e architettonici, sempre nel settore dei beni culturali ecclesiastici, dal 1996 al 2006. Dal 1990 al 2003 ha anche presieduto il Collegio urbano dei parroci della città di Venezia. CORRIERE DEL VENETO Pag 10 E’ morto don Marangoni, una vita spesa per l’arte di Gi.Co. Aveva 85 anni Venezia. Si è spento domenica, nel primo pomeriggio nell’ospedale Civile che lo ospitava da qualche settimana. E per dargli l’estremo saluto, venerdì interverrà lo stesso Patriarca. Don Aldo Marangoni aveva 85 anni e quasi sessanta di sacerdozio - li avrebbe celebrati il prossimo giugno - e a Venezia lo conoscevano tutti, specie chi si occupava di arte e architettura. Impegnato per la tutela del patrimonio artistico e culturale dei luoghi di culto lagunari, Marangoni è stato fondatore e presidente dell’associazione Chorus, che gestisce l’apertura e la custodia di un circuito di chiese del centro a cui i visitatori accedono con un biglietto d’ingresso. Tale fu il suo amore per le opere sacre che mal sopportava i trasferimenti e gli spostamenti, anche solo in occasioni di mostre temporanee: «Non voglio che le opere si muovano dalla mia chiesa - aveva detto nel 2010 - per principio amo che le cose rimangano dove sono state collocate». Marangoni fu vicario parrocchiale a Santo Stefano di Venezia e a San Giuseppe di Mestre, vice assistente diocesano della Gioventù di Azione Cattolica; tra il 1966 e il 1967 fu missionario in Kenya e collaborò con le parrocchie mestrine di San Lorenzo Giustiniani e San Lorenzo Martire. Dal 1970 al 1986, prima come amministratore e poi come parroco, guidò la comunità della Risurrezione a Marghera; dal 1986 al 2010 divenne il parroco di San Giacomo dall’Orio, quindi rettore della chiesa di San Giovanni Elemosinario. Tra gli incarichi diocesani va ricordata la partecipazione al consiglio presbiterale dal 1987 al 1992, la direzione dell’ufficio chiese dal 1987 al 1996, il lavoro con la commissione chiese del Patriarcato dal 1992 al 1996 e della sezione beni ambientali e architettonici dal 1996 al 2006. Dal 1990 al 2003 ha presieduto il collegio urbano dei parroci. I funerali saranno celebrati venerdì alle 10.15, nella basilica dei Santi Giovanni e Paolo, presieduti dal Patriarca. LA NUOVA Pag 22 Si è spento don Aldo Marangoni L’85enne sacerdote aveva fondato Chorus, venerdì i funerali Venezia. È morto domenica all'Ospedale Santi Giovanni e Paolo don Aldo Marangoni, sacerdote veneziano di 85 anni. Nato nell'isola di Burano, avrebbe raggiunto a breve i 60 anni di sacerdozio, essendo stato ordinato dal Patriarca Roncalli il 22 giugno 1958. Nei primi anni di ministero pastorale, don Aldo è stato vicario parrocchiale prima a Santo Stefano di Venezia e poi a San Giuseppe di Mestre nonché, per un anno, vice assistente diocesano della Gioventù di Azione Cattolica (Giac).La vocazione lo aveva portato a diffondere la sua fede andando oltre i confini nazionali. Tra il 1966 e il 1967 fu infatti missionario "fidei donum" in Kenya e poi collaborò, per brevi periodi, con le parrocchie mestrine di San Lorenzo Giustiniani e S. Lorenzo Martire. La sua esperienza lo portò a essere sempre una figura di riferimento: dal 1970 al 1986 divenne amministratore parrocchiale e poi parroco per la comunità della Risurrezione a Marghera. Tornò a Venezia dal 1986 al 2010 come parroco della chiesa di S. Giacomo dall'Orio e poi dal 2010 in veste di rettore della chiesa veneziana di San Giovanni Elemosinario. Quanto agli incarichi diocesani, fu membro del Consiglio Presbiterale dal 1987 al 1992, direttore dell'Ufficio Chiese dal 1987 al 1996, responsabile della Commissione Chiese del Patriarcato dal 1992 al 1996 e poi direttore della sezione beni ambientali e architettonici (sempre nel settore dei beni culturali ecclesiastici) dal 1996 al 2006. Per molti anni (dal

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1990 al 2003) ha presieduto anche il Collegio urbano dei parroci della città di Venezia. È stato fondatore e presidente dell'associazione Chorus, che da anni gestisce l'apertura e la custodia di un circuito di chiese nel centro storico di Venezia a cui i visitatori accedono con un biglietto d'ingresso, iniziativa avviata per permettere di trovare i fondi per la manutenzione e la fruizione dei fedeli e dei visitatori. I funerali di don Aldo Marangoni saranno celebrati venerdì alle 10.15, nella basilica dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia e verranno presieduti dal Patriarca Francesco Moraglia. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Dal cuore del pontificato di g.m.v. Nasce dal cuore del pontificato di Francesco il documento sulla santità nel mondo di oggi. Ed è un richiamo alla radicalità del Vangelo l’elemento conduttore che percorre tutta l’esortazione apostolica Gaudete et exsultate, in alternativa a una «esistenza mediocre, annacquata, inconsistente». Un testo forse per molti inatteso e che invece, con un’impostazione e tratti indubbiamente personali, rivela il volto più autentico del Papa. Nel riferimento costante alla Scrittura e alla continuità della tradizione cristiana che è assicurata spesso dalla testimonianza di donne: «nostra madre, una nonna» nota Bergoglio, sempre attento alla componente femminile della Chiesa. La prima citazione non biblica è così dall’omelia di Benedetto XVI per l’inizio del pontificato, con il cenno alla realtà misteriosa, ed eppure così vera, della comunione dei santi, grazie alla quale «siamo circondati, condotti e guidati dagli amici di Dio». Ma non si tratta solo di figure formalmente proclamate sante o beate, come nel caso del primo modello di santità contemporanea citato, quello di una giovanissima donna, Maria Gabriella Sagheddu, che offrì la sua vita per l’unità dei cristiani. Una caratteristica del testo, cara al Papa, è infatti quella di sottolineare una santità che si potrebbe definire feriale, cioè di tutti i giorni, nel vitale contesto comunitario cristiano. È l’esistenza quotidiana della Chiesa militante, semplice ed esemplare, che rimane nascosta alla storia: uomini che lavorano per «portare il pane a casa», malati spesso soli, «religiose anziane che continuano a sorridere»; in una sola efficace espressione, quella «classe media della santità» descritta dallo scrittore francese Joseph Malègue che affascinò il giovane Bergoglio. Dimensione quotidiana peraltro già presente nella realtà nuova, e dunque anche nel linguaggio, delle primissime comunità cristiane, come appare per esempio nei saluti delle lettere di san Paolo ai Romani e ai Corinzi, appena un trentennio dopo la predicazione di Gesù. La predicazione di Cristo è alla radice del documento papale, fin dal titolo ricavato dalla conclusione delle beatitudini nel vangelo secondo Matteo e che richiama altre due esortazioni apostoliche: quella programmatica del pontificato (Evangelii gaudium) e un testo quasi dimenticato di Paolo VI sulla gioia cristiana (Gaudete in Domino). E proprio le beatitudini evangeliche sono evocate dal Pontefice, commentate e riassunte in una serie efficace dal sapore francescano, dalla prima («essere povero nel cuore, questo è santità») all’ottava («accettare ogni giorno il cammino del Vangelo benché ci comporti problemi, questo è santità»). Fino al «grande protocollo» del giudizio finale descritto nel venticinquesimo capitolo del vangelo di Matteo sul quale tante volte è tornato in questi cinque anni Papa Francesco, il cui insegnamento troppo spesso viene mutilato da semplificazioni e caricature mediatiche, non di rado malevole ma soprattutto lontane dalla realtà. Un insegnamento che invece richiama di continuo la tradizione cristiana, come nell’ultima parte di questo documento dedicata alla vita cristiana che è «un combattimento permanente»: contro il male e più precisamente contro il demonio, «terribile realtà» sulla quale il Pontefice cita un testo poco noto di Paolo VI e scrive pagine importanti. Al termine di uno straordinario documento molto personale sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo che si chiude con una toccante visione della maternità di Maria, la santa tra i santi. Perché parlare di santità? di Angelo De Donatis

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Perché un’esortazione apostolica sulla chiamata alla santità? Questo linguaggio ecclesiale non è, quantomeno, da «addetti ai lavori» (cioè da religiosi)? In effetti la parola «santità» è considerata un po’ antiquata proprio da quel mondo contemporaneo a cui l’esortazione vorrebbe rivolgersi. Chi oggi esprimerebbe con questa parola ciò a cui il suo cuore aspira, per sé e per la propria esistenza quotidiana? Queste brevi considerazioni, che forse esprimono il pensiero di tante persone, ci dicono subito qual è la sfida che l’esortazione intende affrontare: mostrare l’attualità perenne della santità cristiana, presentandone il contenuto, così come è narrato dalla Scrittura, in modo da poterla proporre a tutti come meta desiderabile del proprio cammino umano, come una chiamata che Dio rivolge a ciascuno. Papa Francesco sintetizza così: la santità è «la vera vita, la felicità per la quale siamo stati creati» (1). Il contrario della santità non è, prima di tutto, una vita di peccato, quanto «l’accontentarsi di un’esistenza mediocre, annacquata e inconsistente» (1). Essere cristiani significa ricevere da Dio il dono di una vita bella, ricca di senso, piena di gusto, mettersi in un cammino che renda «più vivi e più umani» (32). Contro il male di vivere o l’accettazione (falsamente pacificata) del non senso della realtà per limitarsi ad abitare il proprio frammento di esistenza, Dio offre un cammino di santità, coraggioso e umanizzante, da vivere nella sequela di Cristo e nella rete delle relazioni con gli altri. Dio è il tre volte Santo, e riversa sugli uomini la sua stessa vita divina: «Siate santi, perché io il Signore, sono santo» (Levitico, 11, 44), trasfigurando l’esistenza dell’uomo e rendendola sempre più a immagine e somiglianza della sua. È evidente che Papa Francesco con questa esortazione vuole puntare l’attenzione su ciò che è decisivo ed essenziale nella vita cristiana e aiutarci a tenere ben largo il nostro sguardo, contro la tentazione di ridurre la visuale o di perdere l’orizzonte, di accontentarci e «vivacchiare». L’appartenenza al Signore Gesù e alla Chiesa si dissolve e si svuota di senso se non tiene ben dritta la direzione del cammino nella traiettoria della santità e fatalmente scade nella ricerca di «altro», di ciò che nulla ha a che fare con la costruzione del regno di Dio. La finalità dell’esortazione non è di offrire «un trattato sulla santità, con tante definizioni e distinzioni»; «il mio umile obiettivo - scrive Papa Francesco - è far risuonare ancora una volta la chiamata alla santità, cercando di incarnarla nel contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità» (2). Già il concilio Vaticano II aveva sottolineato con forza questa universale chiamata, ribadendo il fatto che essa è rivolta a tutti: «Muniti di salutari mezzi di una tale abbondanza e di una tale grandezza, tutti i fedeli di ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a una santità la cui perfezione è quella stessa del Padre celeste» (Lumen gentium, 11). Il Papa riprende e ribadisce questo punto del concilio, attualizzandolo e rendendolo più comprensibile e attraente per l’uomo di oggi. Dei temi toccati dal Papa, io riprenderò il primo (la chiamata alla santità) e l’ultimo capitolo (il combattimento spirituale, la vigilanza e il discernimento). Gianni Valente, il secondo, dedicato a due nemici della santità, il pelagianesimo e lo gnosticismo; Paola Bignardi il terzo e il quarto capitolo: vivere le beatitudini oggi e alcune caratteristiche della santità nel mondo attuale. Per quello che riguarda il primo capitolo, vorrei riprendere quattro punti fondamentali, che rappresentano altrettante dimensioni della chiamata alla santità. Prima di tutto il Papa vuole dirci che la santità non è un’altra cosa rispetto alla vita che facciamo tutti i giorni, ma è esattamente questa stessa nostra esistenza ordinaria vissuta in maniera straordinaria, perché resa bella dalla grazia di Dio, dall’azione dello Spirito santo ricevuto nel battesimo. Il frutto dello Spirito è infatti una vita vissuta nella gioia e nell’amore, e in questo consiste la santità. Non ci sono condizioni particolari: la santità non è appannaggio di chi vive dedicando molto tempo alla preghiera o allo studio teologico o esercitando un particolare ministero nella Chiesa, ma è quella vita nuova che per dono di Dio è concretamente possibile a tutti, «nelle occupazioni di ogni giorno, il dove ciascuno si trova» (14). Francesco ricorda le parole del cardinale vietnamita Van Thuan, nei lunghi giorni del carcere: «Vivo il momento presente, colmandolo di amore» (17). Il Papa fa volutamente esempi di santità prendendoli dalla vita ordinaria: «I genitori che crescono con tanto amore i figli, gli uomini e le donne che lavorano per portare il pane a casa, i malati, le religiose anziane che continuano a sorridere» (7). Sono i santi «della porta accanto», o «la classe media della santità» (7, titolo di un libro di Joseph Malegue). Per questo, Papa Francesco a un certo punto cambia stile e si rivolge direttamente al suo interlocutore, a chi lo sta leggendo, per dirgli che la santità, cioè la

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vita vera e felice, è davvero possibile anche a te: «Lascia che la grazia del tuo battesimo fruttifichi in un cammino di santità. Lascia che tutto sia aperto a Dio e a tal fine scegli Lui, scegli Dio sempre di nuovo. Non ti scoraggiare perché hai la forza dello Spirito Santo affinché sia possibile e la santità in fondo è il frutto dello Spirito nella tua vita» (15; ma il tu comincia anche al numero 10, 14, ecc). Il concilio, nel brano già citato, diceva: tutti sono chiamati, «ognuno per la sua via». Non si tratta di copiare le opere dei santi, perché in definitiva ognuno ha la sua vita e il suo posto nel mondo; si tratta invece, «sotto l’impulso della grazia di Dio, di costruire con tanti gesti quella figura di santità che Dio ha voluto per noi» (18). Anche se la mia vita fosse sprofondata nel peccato o nel fallimento, la chiamata alla santità mi raggiunge dove sono per donarmi una ripartenza e una possibilità di riscatto. Altro punto: la santità non è possibile da soli. L’individualismo e la pretesa di autosufficienza non portano alla vera vita. Abbiamo bisogno degli altri, abbiamo necessità di sentire che la nostra vita è inserita in quella del Popolo di Dio, nel quale lo Spirito di Dio riversa la sua santità. Dio non ci salva da soli, ma come Lui si è voluto rivelare entrando nella storia di un popolo, in «una dinamica popolare», scrive il Papa (6), così anche il nostro percorso di avvicinamento al Signore e di crescita nella fede è possibile solo dentro «la complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana» (7). Francesco cita qui l’omelia per l’inizio del ministero petrino di Papa Benedetto: «Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo»: il santo Popolo di Dio «mi sostiene, mi sorregge e mi porta». Nella Chiesa trovo la testimonianza degli altri, dei santi canonizzati, delle persone più umili, di chi «con costanza va avanti giorno dopo giorno» (7); nella Chiesa «trovi tutto ciò di cui hai bisogno per crescere verso la santità: la Parola, i Sacramenti, i santuari, la vita della comunità, la testimonianza dei santi, e una multiforme bellezza che procede dall’amore del Signore» (15). Nel Popolo di Dio è presente uno stile maschile e uno femminile di vivere la santità, tutti e due «indispensabili per riflettere la santità di Dio in questo mondo» (12). E ancora, «fuori della Chiesa Cattolica e in ambiti molto differenti», lo Spirito suscita «segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo» (9, citando Novo millennio ineunte). Come si comprende, la spiritualità cristiana è essenzialmente comunitaria, ecclesiale, profondamente diversa e lontana da una visione elitaria o di eroismo individuale della santità. La sorgente da cui scaturisce la santità è il Signore Gesù, la meta a cui tende è la storia umana, la trasformazione della storia nel regno di Dio. Questo è un punto centrale. Scrive il Papa che ogni uomo che viene in questo mondo ha «bisogno di concepire la totalità della sua vita come una missione» (23). Quando mi chiedo: «Perché sono nato? Perché vivo e a che serve la mia vita? Qual è il mio contributo alla crescita di questo mondo?», mi sto interrogando su quale sia la mia missione. Ebbene, «ogni santo è una missione» (19), cioè è uno inviato dal Padre per incarnare e rendere presente Cristo, l’uomo nuovo, nel mondo. Gesù è infatti la sorgente di ogni santità: lo Spirito santo non fa altro che riprodurre oggi, in noi, i lineamenti del volto di Cristo. Però, ciascuno in un modo diverso: ci sono santi che riproducono la sua vita nascosta a Nazareth, altri la sua vicinanza agli ultimi; gli sposi divengono sacramento di Cristo sposo, i presbiteri sacramento del Cristo Buon Pastore... «Contemplare i misteri della vita di Cristo ci orienta a renderli carne nelle nostre scelte e nei nostri atteggiamenti» (20). Dall’altra parte Cristo è stato inviato per il Regno, per questo dice Francesco, sempre rivolgendosi a ciascuno di noi suoi lettori, anche tu «non ti santificherai senza consegnarti anima e corpo per dare il meglio di te in questo impegno» della costruzione del regno (25). La santità cristiana non aliena dall’impegno per la storia umana, anzi! I santi sono pericolosi rivoluzionari, perché sono decisi a giocarsi totalmente per la missione affidatagli dal Padre. Sanno che chi perde la vita per il regno, la trova, come Gesù. Come Francesco aveva ribadito in Evangelii gaudium (87-92) dalla spiritualità cristiana non si può togliere l’incarnazione e la croce, magari per dedicarsi a un Dio del benessere personale, distaccato dalle vicende umane, dalla carne dolorante dei suoi figli. Non c’è santità cristiana lì dove la spiritualità si distacca dalla storia, e in nome di una comunione vaga, magari con «energie armonizzanti», dimentica la comunione con gli altri esseri umani e la ricerca del volto dell’altro, dimentica la fraternità e la rivoluzione della tenerezza. A noi è affidato il compito di accogliere questa chiamata alla santità, fatta di imitazione di Gesù e impegno con Lui per la trasformazione della storia umana «Voglia il cielo che tu possa riconoscere qual è quella parola, quel messaggio di Gesù che Dio desidera dire al

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mondo con la tua vita» (24). Questa proposta di vita che è la santità cristiana tende gradualmente a conformare l’uomo a Cristo unificando e integrando la sua vita. Preghiera e azione nel mondo, tempi di silenzio e tempi di servizio, vita familiare e impegno del lavoro, «tutto può essere accettato e integrato come parte della propria esistenza in questo mondo ed entra a far parte del cammino di santificazione» (26). La ricerca di momenti di solitudine e di silenzio, staccando dalla corsa febbrile di cui è fatta la nostra vita, è in funzione di questa unificazione interiore sotto lo sguardo di Dio. In questo spazio personale, a contatto finalmente con la verità di noi stessi, potremo vivere un dialogo sincero con il Signore e farci invadere da Lui. «Non avere paura di puntare più in alto, di lasciarti amare e liberare da Dio. Non aver paura di lasciarti guidare dallo Spirito Santo. La santità non ti rende meno umano perché è l’incontro della tua debolezza con la forza della sua grazia» (34). Permettete di aggiungere qualche parola sull’ultimo capitolo, perché si tratta di una parte comunque importantissima della esortazione. Il titolo spiega che il cammino verso la santità implica il combattimento e richiede l’atteggiamento di una costante vigilanza. Per viverlo, dobbiamo chiedere il dono del discernimento. Il combattimento è contro «la mentalità mondana», «contro la propria fragilità e le proprie inclinazioni» disordinate, ma è anche «una lotta contro il Maligno». (159-161). Papa Francesco, come sappiamo, ne parla spesso e nell’esortazione sottolinea che quando si parla del Nemico non abbiamo a che fare solo con «un mito, una rappresentazione, un simbolo, una figura o un’idea» (161), ma «con un essere personale che ci tormenta» (40). Nel Padre nostro l’ultima invocazione in realtà è «liberaci dal Maligno». Lo scopo del Nemico è quello di separarci da Dio, facendoci passare dall’esperienza del peccatore perdonato, del “misericordiato” (il peccato come luogo dell’incontro liberante e umanizzante con la misericordia di Dio), al quel ribaltamento della nostra realtà di figlio di Dio che è la corruzione (164-165). Qui è necessario esercitare una grande vigilanza, perché il corrotto è colui che vive una «cecità comoda e autosufficiente, dove alla fine tutto sembra lecito» (165). Satana qui è capace di «mascherarsi da angelo di luce», pur di ingannarci e ripiegarci nell’autoreferenzialità più radicale (165). Come fare? Il Papa ci invita a chiedere il dono del discernimento. Questa grazia dello Spirito si trasforma in uno sguardo permanente sulla realtà: quella che è nel nostro cuore (i nostri pensieri, sentimenti, desideri, lì dove Dio stimola, attira, consola...) e la realtà che ci circonda, dove lo Spirito agisce suscitando quelli che il concilio chiama i «segni dei tempi» (Gaudium et spes, 11). «Discernimento» è davvero una parola chiave di questo pontificato, perché dice lo stile e la modalità spirituale con cui il discepolo di Gesù e la comunità sono chiamati a interpretare le cose della vita, a decidere scegliendo la volontà di Dio, a realizzare il suo regno nel mondo: Non si tratta solo di intelligenza o di buon senso, né tantomeno di utilizzare l’apporto delle scienze umane (psicologia, sociologia...) pensandole come risolutive. Il discernimento trascende tutto questo, perché mettendoci nel silenzio e nella preghiera davanti al Signore, con un atteggiamento di totale apertura, «ci disponiamo ad ascoltare: il Signore, gli altri, la realtà stessa che sempre ci interpella in nuovi modi». Soltanto chi «ha la libertà di rinunciare al proprio punto di vista parziale ed insufficiente, alle proprie abitudini e ai propri schemi, è realmente disponibile ad accogliere una chiamata che rompe le sue sicurezze» (172). Papa Francesco, ad esempio, chiede a tutti i cristiani «di non tralasciare di fare ogni giorno, in dialogo con il Signore che ci ama, un sincero esame di coscienza» (169), creando così nella propria vita personale uno spazio di solitudine e di preghiera dove leggere e comprendere la propria vita, cogliendovi gli appelli di Dio. «Al giorno d’oggi l’attitudine al discernimento è diventata particolarmente necessaria», perché «esposti alla tentazione di uno zapping costante... possiamo trasformarci facilmente in burattini alla mercé delle tendenze del momento» (167). Concludo con la citazione bellissima della frase che si trova sulla tomba di sant’Ignazio di Loyola e che Papa Francesco ricorda in nota per descrivere la vita vissuta nell’atteggiamento permanente del discernimento: Non coerceri a maximo, contineri tamen a minimo divinum est, “Non aver nulla di più grande che ti limiti, e tuttavia stare dentro ciò che è più piccolo: questo è divino”. Per gente comune di Paola Bignardi

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La prima cosa che colpisce in questo documento è la determinazione con cui si sostiene che la santità appartiene alla gente comune, che ha un’ordinaria vita quotidiana fatta delle cose semplici che sono la struttura dell’esistenza di tutti. Dunque una santità che non è per pochi eroi o per persone eccezionali, ma che rappresenta il modo ordinario di vivere l’ordinaria esistenza cristiana. La conseguenza di questo è subito detta: se non vi è vocazione o condizione esistenziale incompatibile con la chiamata alla santità, allora non vi è vita cristiana possibile al di fuori di questo quadro esigente e appassionante: la vita cristiana non può realizzarsi pienamente se non nella prospettiva della santità, non vi sono percorsi intermedi o accomodamenti con lo sconto. La regola di essa è presentata nel terzo e quarto capitolo del documento. La carta di identità del cristiano è data dalle beatitudini e da quella che Papa Francesco chiama la «grande regola di comportamento» proposta nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo: la concreta misericordia verso il povero. Nelle beatitudini vi è la carta di identità del cristiano perché in esse si delinea il volto del Maestro, che il cristiano è chiamato a far trasparire nella quotidianità della sua vita (n. 63). La parola “felice”, o beato, è sinonimo di santo. Chi vive nel dono di sé perché vive secondo la parola di Gesù, è santo e raggiunge la vera beatitudine. Papa Francesco però mette in guardia dalla tentazione di considerare le beatitudini come belle parole poetiche: esse vanno controcorrente e delineano uno stile diverso da quello del mondo. Basta leggerne la semplice declinazione che viene fatta al termine della descrizione di ciascuna di esse: il santo è colui che è povero nel cuore; il santo è chi reagisce con umile mitezza; santo è chi sa piangere con gli altri; santo è chi cerca la giustizia con fame e sete; santo è chi guarda e agisce con misericordia; santo è chi mantiene il cuore pulito da tutto ciò che sporca l’amore; santo è chi semina pace attorno a sé; santo è chi accetta ogni giorno la via del Vangelo nonostante questo gli procuri problemi. La «grande regola di comportamento» traduce in modo concreto le beatitudini, soprattutto quella della misericordia. L’esempio che viene riportato al n. 98 è proprio molto concreto e mostra il discrimine tra l’essere cristiani e non esserlo. «Quando incontro una persona che dorme alle intemperie, in una notte fredda» (n. 98) posso considerarlo un imprevisto fastidioso o riconoscere in lui un essere umano con la mia stessa dignità, come me infinitamente amato dal Padre: dal mio atteggiamento passa il confine tra l’essere cristiano e no. Le beatitudini delineano il volto del Signore Gesù e non possono essere vissute se non conservando un’intensa unione con Lui. Ma non è sulla via della santità nemmeno colui che diffida dell’impegno sociale «considerandolo qualcosa di superficiale, mondano, secolarizzato, immanentista, comunista, populista» (n. 101); e conclude il testo: «Non possiamo proporci un ideale di santità che ignori l’ingiustizia di questo mondo». Perché se la santità è vivere l’amore, il dono di sé come lo ha vissuto il Signore Gesù, fino in fondo, in maniera radicale e totale, non si potrà passare distratti e indifferenti accanto al fratello; e per fare questo, il cristiano avrà bisogno che sia il Signore Gesù a renderlo capace di amare come Lui ha amato. Vivere la santità richiede di aver realizzato nella propria vita quella unità per cui si passa dalla contemplazione del volto del Signore al concreto gesto di carità, e dal gesto al volto. Il capitolo quarto delinea cinque grandi manifestazioni dell’amore per Dio e per il prossimo; cinque forme attuali, perché la santità ha forme concrete diverse nei diversi tempi. Il documento è uno strumento per cercare le forme della santità per l’oggi. Le cinque caratteristiche proposte intendono misurarsi con alcuni rischi e limiti della cultura di oggi: «l’ansietà nervosa e violenta che ci disperde e debilita; la negatività e la tristezza; l’accidia comoda, consumista ed egoista; l’individualismo, e tante forme di falsa spiritualità senza incontro con Dio che dominano nel mercato religioso attuale» (n. 111). Per questo, c’è bisogno di fermezza e solidità interiore per resistere all’aggressività che è dentro di noi, alla tentazione di partecipare a quelle forme moderne di violenza quali quelle costituite dalla rete, per non lasciarsi suggestionare dal male che si annida sottile nelle relazioni con gli altri e le avvelena... Il santo vive con gioia e ha il senso dell’umorismo; la sua non è la gioia spensierata e superficiale, ma quella che nasce dalla consapevolezza di essere infinitamente amati e si esprime nella comunione fraterna. Inoltre la santità è parresia, è coraggio apostolico, è capacità di osare, di sperimentare, di prendere l’iniziativa, di muoversi verso la novità. È osare di andare verso le periferie e le frontiere, per scoprire che il Signore è già lì «Gesù ci precede nel cuore di quel fratello, nella sua carne ferita, nella sua vita oppressa, nella sua anima ottenebrata. Lui è già lì» (135). Santità è sfidare l’abitudinarietà e lasciarsi

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smuovere da ciò che succede attorno a noi e dalla Parola del Risorto. Santità è un cammino da fare in comunità, come testimoniano tanti santi, e tra essi i monaci trappisti di Tibhirine, che si sono preparati insieme al martirio. La vita comunitaria - in famiglia, in parrocchia, nella comunità religiosa... - è «fatta di tanti piccoli dettagli quotidiani» (n. 143). La via dell’unità desiderata da Gesù nel discorso di addio passa dai piccoli gesti di ogni giorno. Infine la santità è preghiera, fatta di silenzio, del lasciarsi guardare dal Signore, dal lasciar alimentare da Lui il calore dell’amore e della tenerezza; è «la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità». La santità è lasciarsi trasformare dal Signore e dalla potenza del suo Spirito. Anche oggi, dunque, la via della santità è la via della gioia. Dalla grazia della vergogna alla gioia del perdono La messa della Divina misericordia Papa Francesco ha celebrato in piazza San Pietro, la mattina dell’8 aprile, la messa della seconda domenica di Pasqua o della divina misericordia. Con lui hanno concelebrato cinque cardinali, l’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, numerosi arcivescovi e vescovi, e i sacerdoti missionari della misericordia, inviati dal Papa in tutto il mondo come apostoli del sacramento della riconciliazione durante il giubileo straordinario del 2016. Nel Vangelo odierno ritorna più volte il verbo vedere: «I discepoli gioirono al vedere il Signore» (Gv 20, 20); poi dissero a Tommaso: «Abbiamo visto il Signore» (v. 25). Ma il Vangelo non descrive come lo videro, non descrive il Risorto, evidenzia solo un particolare: «Mostrò loro le mani e il fianco» (v. 20). Sembra volerci dire che i discepoli hanno riconosciuto Gesù così: attraverso le sue piaghe. La stessa cosa è accaduta a Tommaso: anch’egli voleva vedere «nelle sue mani il segno dei chiodi» (v. 25) e dopo aver veduto credette (v. 27). Nonostante la sua incredulità, dobbiamo ringraziare Tommaso, perché non si è accontentato di sentir dire dagli altri che Gesù era vivo, e nemmeno di vederlo in carne e ossa, ma ha voluto vedere dentro, toccare con mano le sue piaghe, i segni del suo amore. Il Vangelo chiama Tommaso «Didimo» (v. 24), cioè gemello, e in questo è veramente nostro fratello gemello. Perché anche a noi non basta sapere che Dio c’è: non ci riempie la vita un Dio risorto ma lontano; non ci attrae un Dio distante, per quanto giusto e santo. No: abbiamo anche noi bisogno di “vedere Dio”, di toccare con mano che è risorto, e risorto per noi. Come possiamo vederlo? Come i discepoli: attraverso le sue piaghe. Guardando lì, essi hanno compreso che non li amava per scherzo e che li perdonava, nonostante tra loro ci fosse chi l’aveva rinnegato e chi l’aveva abbandonato. Entrare nelle sue piaghe è contemplare l’amore smisurato che sgorga dal suo cuore. Questa è la strada. È capire che il suo cuore batte per me, per te, per ciascuno di noi. Cari fratelli e sorelle, possiamo ritenerci e dirci cristiani, e parlare di tanti bei valori della fede, ma, come i discepoli, abbiamo bisogno di vedere Gesù toccando il suo amore. Solo così andiamo al cuore della fede e, come i discepoli, troviamo una pace e una gioia (cfr. vv. 19-20) più forti di ogni dubbio. Tommaso, dopo aver visto le piaghe del Signore, esclamò: «Mio Signore e mio Dio!» (v. 28). Vorrei attirare l’attenzione su quell’aggettivo che Tommaso ripete: mio. È un aggettivo possessivo e, se ci riflettiamo, potrebbe sembrare fuori luogo riferirlo a Dio: come può Dio essere mio? Come posso fare mio l’Onnipotente? In realtà, dicendo mio non profaniamo Dio, ma onoriamo la sua misericordia, perché è Lui che ha voluto “farsi nostro”. E come in una storia di amore, gli diciamo: “Ti sei fatto uomo per me, sei morto e risorto per me e allora non sei solo Dio; sei il mio Dio, sei la mia vita. In te ho trovato l’amore che cercavo e molto di più, come non avrei mai immaginato”. Dio non si offende a essere “nostro”, perché l’amore chiede confidenza, la misericordia domanda fiducia. Già al principio dei dieci comandamenti Dio diceva: «Io sono il Signore, tuo Dio» (Es 20, 2) e ribadiva: «Io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso» (v. 5). Ecco la proposta di Dio, amante geloso che si presenta come tuo Dio. E dal cuore commosso di Tommaso sgorga la risposta: «Mio Signore e mio Dio!». Entrando oggi, attraverso le piaghe, nel mistero di Dio, capiamo che la misericordia non è una sua qualità tra le altre, ma il palpito del suo stesso cuore. E allora, come Tommaso, non viviamo più da discepoli incerti, devoti ma titubanti; diventiamo anche noi veri innamorati del Signore! Non

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dobbiamo avere paura di questa parola: innamorati del Signore. Come assaporare questo amore, come toccare oggi con mano la misericordia di Gesù? Ce lo suggerisce ancora il Vangelo, quando sottolinea che la sera stessa di Pasqua (cfr. v. 19), cioè appena risorto, Gesù, per prima cosa, dona lo Spirito per perdonare i peccati. Per sperimentare l’amore bisogna passare da lì: lasciarsi perdonare. Lasciarsi perdonare. Domando a me e a ognuno di voi: io mi lascio perdonare? Per sperimentare quell’amore, bisogna passare da lì. Io mi lascio perdonare? “Ma, Padre, andare a confessarsi sembra difficile...”. Di fronte a Dio, siamo tentati di fare come i discepoli nel Vangelo: barricarci a porte chiuse. Essi lo facevano per timore e noi pure abbiamo timore, vergogna di aprirci e dire i peccati. Che il Signore ci dia la grazia di comprendere la vergogna, di vederla non come una porta chiusa, ma come il primo passo dell’incontro. Quando proviamo vergogna, dobbiamo essere grati: vuol dire che non accettiamo il male, e questo è buono. La vergogna è un invito segreto dell’anima che ha bisogno del Signore per vincere il male. Il dramma è quando non ci si vergogna più di niente. Non abbiamo paura di provare vergogna! E passiamo dalla vergogna al perdono! Non abbiate paura di vergognarvi! Non abbiate paura. C’è invece una porta chiusa davanti al perdono del Signore, quella della rassegnazione. La rassegnazione sempre è una porta chiusa. L’hanno sperimentata i discepoli, che a Pasqua constatavano amaramente come tutto fosse tornato come prima: erano ancora lì, a Gerusalemme, sfiduciati; il “capitolo Gesù” sembrava finito e dopo tanto tempo con Lui nulla era cambiato, rassegniamoci. Anche noi possiamo pensare: “Sono cristiano da tanto, eppure in me non cambia niente, faccio sempre i soliti peccati”. Allora, sfiduciati, rinunciamo alla misericordia. Ma il Signore ci interpella: “Non credi che la mia misericordia è più grande della tua miseria? Sei recidivo nel peccare? Sii recidivo nel chiedere misericordia, e vedremo chi avrà la meglio!”. E poi - chi conosce il Sacramento del perdono lo sa - non è vero che tutto rimane come prima. Ad ogni perdono siamo rinfrancati, incoraggiati, perché ci sentiamo ogni volta più amati, più abbracciati dal Padre. E quando, da amati, ricadiamo, proviamo più dolore rispetto a prima. È un dolore benefico, che lentamente ci distacca dal peccato. Scopriamo allora che la forza della vita è ricevere il perdono di Dio, e andare avanti, di perdono in perdono. Così va la vita: di vergogna in vergogna, di perdono in perdono. Questa è la vita cristiana. Dopo la vergogna e la rassegnazione, c’è un’altra porta chiusa, a volte blindata: il nostro peccato, lo stesso peccato. Quando commetto un peccato grande, se io, in tutta onestà, non voglio perdonarmi, perché dovrà farlo Dio? Questa porta, però, è serrata solo da una parte, la nostra; per Dio non è mai invalicabile. Egli, come insegna il Vangelo, ama entrare proprio “a porte chiuse” - l’abbiamo sentito -, quando ogni varco sembra sbarrato. Lì Dio opera meraviglie. Egli non decide mai di separarsi da noi, siamo noi che lo lasciamo fuori. Ma quando ci confessiamo accade l’inaudito: scopriamo che proprio quel peccato, che ci teneva distanti dal Signore, diventa il luogo dell’incontro con Lui. Lì il Dio ferito d’amore viene incontro alle nostre ferite. E rende le nostre misere piaghe simili alle sue piaghe gloriose. C’è una trasformazione: la mia misera piaga assomiglia alle sue piaghe gloriose. Perché Egli è misericordia e opera meraviglie nelle nostre miserie. Come Tommaso, chiediamo oggi la grazia di riconoscere il nostro Dio: di trovare nel suo perdono la nostra gioia, di trovare nella sua misericordia la nostra speranza. Niente giustifica lo sterminio di persone inermi Al Regina caeli l’appello per la Siria Un nuovo accorato appello per la pace in Siria - da dove continuano a giungere «notizie terribili di bombardamenti con decine di vittime» e di «tante persone colpite dagli effetti di sostanze chimiche contenute nelle bombe» - è stato lanciato dal Papa al termine del Regina caeli dell’8 aprile. Dopo aver celebrato la messa della Divina misericordia sul sagrato della basilica vaticana, prima di impartire la benedizione conclusiva il Pontefice ha guidato la recita dell’antifona mariana, durante la quale ha rivolto gli auguri ai fratelli e alle sorelle delle Chiese orientali che secondo il calendario giuliano celebrano la Pasqua e ha salutato i rom e i sinti presenti per la loro giornata internazionale, il “Romanò Dives”.

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Cari fratelli e sorelle, prima della Benedizione finale, ci rivolgeremo in preghiera alla nostra Madre celeste. Ma prima ancora desidero ringraziare tutti voi che avete partecipato a questa celebrazione, in particolare i Missionari della Misericordia, convenuti per il loro incontro. Grazie per il vostro servizio! Ai nostri fratelli e sorelle delle Chiese Orientali che oggi, secondo il calendario giuliano, celebrano la Solennità di Pasqua, porgo gli auguri più cordiali. Il Signore risorto li ricolmi di luce e di pace, e conforti le comunità che vivono in situazioni particolarmente difficili. Un saluto speciale rivolgo ai Rom e ai Sinti qui presenti, in occasione della loro Giornata Internazionale, il “Romanò Dives”. Auguro pace e fratellanza ai membri di questi antichi popoli, e auspico che la giornata odierna favorisca la cultura dell’incontro, con la buona volontà di conoscersi e rispettarsi reciprocamente. È questa la strada che porta a una vera integrazione. Cari Rom e Sinti, pregate per me e preghiamo insieme per i vostri fratelli rifugiati siriani. Saluto tutti gli altri pellegrini qui presenti, i gruppi parrocchiali, le famiglie, le associazioni; e insieme ci poniamo sotto il manto di Maria, Madre della Misericordia. Ecco infine l’appello di Francesco per la popolazione siriana. Giungono dalla Siria notizie terribili di bombardamenti con decine di vittime, di cui molte sono donne e bambini. Notizie di tante persone colpite dagli effetti di sostanze chimiche contenute nelle bombe. Preghiamo per tutti i defunti, per i feriti, per le famiglie che soffrono. Non c’è una guerra buona e una cattiva, e niente, niente può giustificare l’uso di tali strumenti di sterminio contro persone e popolazioni inermi. Preghiamo perché i responsabili politici e militari scelgano l’altra via, quella del negoziato, la sola che può portare a una pace che non sia quella della morte e della distruzione. AVVENIRE Pag 1 No, non è per superuomini di Pierangelo Sequeri L’esortazione e la vita di tutti L’immagine che mi ha preso la mente, dopo aver letto l’esortazione apostolica Gaudete et exsultate di papa Francesco, è questa: «Ti sono rimessi i tuoi peccati. Alzati e cammina », indirizzata alla Chiesa, in primo luogo e con ogni evidenza (cfr. n.39; 165). Come ricorderete, sono le parole che Gesù pronuncia in occasione dell’ennesima stucchevole discussione con coloro che gli contestavano la pretesa di rimettere i peccati al paralitico che i suoi amici avevano fatto passare da un buco del tetto (Mc 2, 1-12). Gesù conferma il suo clamoroso atto di misericordia, aggiungendovi il miracolo della guarigione. La chiamata alla santità incomincia sempre di qui: dal miracolo di una grazia della liberazione dal male che non si lascia imporre condizioni, né fissare limiti. Tentazione infinita, sempre risorgente, quella di imporre condizioni e di fissare limiti alla grazia. I credenti per primi esaminino se stessi a questo riguardo, ammonisce in molti modi il Papa: accade infatti che i nostri atteggiamenti non corrispondano «a quello che affermiamo sulla necessità della grazia, e nei fatti finiamo per fidarci poco di essa» (n.50). E che cosa fa la grazia che apre e riapre la santificazione della vita? In primo luogo, ci rende serenamente consapevoli dei nostri limiti. Proprio così. Ci guarisce dalla presunzione di avere l’ultima parola sull’agire di Dio: l’ostacolo maggiore al riconoscimento del dono. Il primo atto della grazia che raggiunge il paralitico del Vangelo, come spesso accade, è 'un piccolo particolare' che ci incanta, al quale è emozionante prestare attenzione (cfr. n.144). Perché è l’inizio di tutto: quattro persone, dopo aver visto che la porta principale di accesso alla presenza di Gesù è ostruita da una grande folla, fanno un buco nel tetto proprio sopra Gesù e lo depongono ai suoi piedi. Già questo, ti porta gioia nel cuore. Trovassimo quattro amici, ogni volta, quando siamo peccatori e paralitici, peccatori e ciechi, peccatori e sordi. Facessero pure un buco nel tetto della casa (o della chiesa), fino a che non ci hanno portati davanti a Gesù. Come la donna Cananea o il Centurione romano che supplicano per la loro creatura. (La strada di questo inizio della grazia, del resto, e non per caso, è aperta proprio da Maria, la Madre, che insiste per i giovani sposi di Cana. Il primo grande segno che manifesta l’Inviato della misericordia di Dio, racconta l’evangelista Giovanni, prende l’avvio dal 'piccolo particolare': alla letizia della santificazione delle nozze manca il vino. La grazia dell’umanità di Dio si illumina nei dettagli). In realtà, come scrive papa Francesco

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appoggiandosi alla Parola, «noi siamo circondati da una moltitudine di testimoni» (Ebrei 12, 1), i quali «ci spronano a non fermarci lungo la strada». Basta stare attenti «a un piccolo particolare » e la scena della vita si illumina di grazia. Tra di loro «[…] può esserci la nostra stessa madre, una nonna o altre persone vicine (cfr. 2 Timoteo 1, 5). Forse la loro vita non è sempre stata perfetta, però, anche in mezzo a imperfezioni e cadute, hanno continuato ad andare avanti e sono piaciute al Signore» (n.3). La grazia della santificazione della vita, del resto, è dono destinato agli uomini, non ai super- uomini (n.50). Il popolo delle Beatitudini, che impedisce alla storia del genere umano di sprofondare nell’incredulità e nell’ingiustizia, è per lo più un popolo di 'invisibili'. «Sicuramente – scrive il Papa – gli avvenimenti decisivi della storia del mondo sono stati essenzialmente influenzati da anime sulle quali nulla viene detto nei libri di storia» (n.8). La meditazione di papa Francesco illustra, nei corposi capitoli del testo, le diverse porte di ingresso al mistero della santificazione della vita. Queste porte – l’umile apertura del cuore al rivoluzionario vangelo delle Beatitudini, la generosa semplicità della dedizione per i più abbandonati, la preghiera e l’adorazione di Dio in spirito e verità – sono veri passaggi di salvezza fra le acque turbolente della vita. Invalicabili solo per coloro che, religiosi o irreligiosi che siano, si lasciano paralizzare dalla cura della loro perfezione e dal risentimento per le loro frustrazioni, seminando zizzania nel campo dove Dio semina amore. E questo è un monito rivolto a tutti, a cominciare dagli utili idioti del Maligno (nn.158-163), che vendono cose e comprano anime, tengono in ostaggio le generazioni e fanno il lavoro della morte. La lotta per il riscatto delle anime e la santificazione della vita coltiva il buon grano, fa lavorare il lievito, moltiplica il pane, commuove di vino buono, mette allegria. E guarisce la paralisi. Pag 2 Il Signore t’ha chiamata e tu gli hai risposto sì di Maurizio Patriciello Lettera aperta ad Antonietta Gargiulo:un mese fa il marito ha ucciso le figlie, l’ha ferita e si è tolto la vita «La mia vita oggi qui è un miracolo» e «l’odio, il male e il rancore non hanno vinto, nei nostri cuori regna un senso di pace, pietà e misericordia ». È il messaggio che Antonietta Gargiulo ha voluto inviare alla Comunità “Gesù risorto”, a poco più di un mese dalla tragedia che ha sconvolto la sua famiglia: il 28 febbraio scorso, il suo ex marito Luigi Capasso uccise, a Cisterna di Latina, le loro figlie di 8 e 14 anni e la ferì gravemente prima di suicidarsi. «Il vero miracolo – afferma la donna, nel messaggio audio pubblicato sul sito della Comunità e datato 4 aprile 2018 – è l’amore che ha circondato me e soprattutto le mie bambine. La parola di Dio ha vinto sulla morte». Antonietta carissima, in queste ultime settimane sei stata presente nella mia vita di uomo e di prete quasi continuamente. Ho pregato e fatto pregare per te il popolo a me affidato. Non osavo immaginare il momento in cui ti saresti svegliata dal coma. Nella vita ognuno porta la sua croce. Il dolore non dimentica l’indirizzo di nessuno, è vero. Ma quando si è presentato a casa tua, come un uragano, ha sfondato la porta e ti ha travolta senza darti nemmeno il tempo di capire. Ingigantito e inferocito come uno spaventoso animale preistorico ha distrutto tutto ciò che ha trovato sul suo cammino. Un dolore, il tuo, che anche a guardarlo da lontano spaventa. Hai perso Alessia e Martina, le tue bambine, la tua gioia, la tua vita. Il loro amore ti ripagava di tutti i sacrifici sofferti, le umiliazioni subite. E adesso non ci sono più. Una voragine che nessuno potrà mai colmare. Che farà da sola? Chi darà a questa mamma orfana due volte la forza per andare avanti? Dove troverà il coraggio per continuare il cammino della vita? Queste domande ce le siamo poste tutti, compresi coloro che si fidano di Gesù. La morte non ti ha voluto, Antonietta, dal coma ti sei svegliata. I disegni di Dio li conosce Dio. A noi spetta camminare alla fioca luce della sera. Pochi giorni fa abbiamo avuto la gioia di poter leggere i tuoi pensieri e, addirittura, ascoltare la tua voce. Una commozione unica. Nel silenzio della notte, ho sentito e risentito quell’audio tante volte. Mi sembrava di esserti seduto accanto, di tenerti per mano. Ho capito che il Signore, attraverso la tua esperienza di fede e di dolore, stava parlando alla sua Chiesa. Ho fatto silenzio. Commosso, con gli occhi bassi, ho ringraziato il Padre. Ho capito che con Dio non hai scherzato. Che di Gesù sei veramente innamorata. Hai saputo perdonare chi ti ha sconvolto l’esistenza. Sei una creatura stupenda. «Il vero miracolo è che l’odio, il male, il

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rancore non hanno vinto nei nostri cuori. Ma regna un senso di pace, di pietà, di misericordia. Regna l’amore che si sta estendendo a cerchi concentrici come una goccia che sta arrivando da lontano. La parola di Dio ha vinto sulla morte e io lo posso testimoniare», hai detto. Le tue non sono parole, sono sangue che sgorga faticosamente dal tuo cuore lacerato. Sei diventata una cosa sola con il Cristo che pende dalla croce. Il Signore ti ha chiamata a seguirlo sulla via del Calvario, e tu gli hai detto sì. Con Maria hai raccolto il suo ultimo respiro. Con Simone di Cirene hai preso sulle tue spalle il legno che lo accasciava. Sai? Durante le Messe, domenica, ho parlato di te e di santa Faustina Kowalska. Faustina è volata in cielo ottant’anni fa. È santa. I fedeli non restano eccessivamente meravigliati delle virtù eroiche di questi giganti. I santi sono santi. Ma quando ho raccontato di te, della tua fede, del perdono con cui hai voluto accompagnare Luigi nel suo ultimo, tragico viaggio, il popolo di Dio è rimasto stupefatto. I credenti, con gli occhi lucidi, arrossati, hanno abbassato la testa. Allora abbiamo ripensato alle nostre vite; a tutte le volte che non siamo riusciti a perdonare una piccola offesa, uno sgarbo, una mortificazione. A tutte le volte che ci siamo lasciati rovinosamente travolgere dal nostro stupido orgoglio, dalla sciocca vanità, dal nostro egoismo. Davanti a te ci siamo sentiti piccoli, piccoli. Tu ci hai fatto capire che la fede non è un soprabito elegante da indossare nei giorni di festa, ma l’essere uniti a Cristo nei giorni feriali. La fede è una stupenda, incredibile, storia d’amore con il Signore della vita che niente e nessuno potrà mai distruggere. Abbiamo compreso che il cristiano non si appartiene più, ha liberamente fatto dono di se stesso a un Altro. Il Signore non ti ha riparata dal dolore, ma ti ha donato la grazia e la forza di sopportarlo. E di trasformarlo in dono. Perché il tuo piccolo seme caduto in terra portasse frutto. Grazie, Antonietta. Davvero. Grazie per questo genuino, stupendo, limpido regalo che hai voluto farci. Un sorso d’acqua fresca nell’arsura della vita. Aveva ragione Paolo VI: «Il mondo non ha bisogno di maestri ma di testimoni». Gesù è vivo. È risorto. È veramente risorto. E tu, sorella, dopo due millenni, ci hai fatto toccare con mano il mistero della sua tremenda morte e della sua stupefacente resurrezione. Pagg 6 – 7 Il Papa: la santità chiama tutti anche nel mondo di oggi di Stefania Falasca Nelle Beatitudini “la carta d’identità del cristiano”. L’esortazione apostolica sulla santità nasce dalla “paternità” del Papa E’ l’urgenza di una risalita all’essenzialità. A ciò che conta per vivere pienamente da uomini e da veri cristiani nel contesto storico attuale. L’Esortazione apostolica Gaudete et exultate “sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo” non è perciò riservata a pochi ma è una via per tutti. Non un trattato sulla santità, ma una sua descrizione, così come l’aveva profilata il Concilio Vaticano II nella Lumen gentium. Nei cinque capitoli del documento papa Francesco sgombera così il campo dalle false immagini che si possono avere della santità, da ciò che è nocivo e ideologico e «da tante forme di falsa spiritualità senza incontro con Dio che dominano nel mercato religioso attuale», e, spiegando che la santità è frutto della grazia di Dio, indica le caratteristiche che ne costituiscono un modello a partire dal Vangelo. Illumina così la vita nell’amore non separabile per Dio e per il prossimo, che è il comandamento centrale della carità e il cuore delVangelo dalle parole stesse di Gesù: «Gesù ha spiegato con tutta semplicità che cos’è essere santi, e lo ha fatto quando ci ha lasciato le Beatitudini (cfr Mt 5,3-12; Lc 6,20-23). Esse sono come la carta d’identità del cristiano». «In esse si delinea il volto del Maestro, che siamo chiamati a far trasparire nella quotidianità della nostra vita». È il capitolo centrale dell’esortazione. Il canovaccio di riferimento di uno stile di vita. E si comprende da qui la forza e l’utilità di questo documento che mette insieme in modo organico ciò su cui Papa Francesco insiste da cinque anni, andando controcorrente rispetto a quanto abitualmente si fa nella società. «La forza della testimonianza dei santi sta nel vivere le Beatitudini e la regola di comportamento del giudizio finale – scrive –. Sono poche parole, semplici, ma pratiche e valide per tutti, perché il cristianesimo è fatto soprattutto per essere praticato». La santità della porta accanto - «Il Signore chiede tutto, e quello che offre è la vera vita, la felicità... Egli ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente», scrive Francesco e nel primo capitolo ricordando

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che i santi non sono solo quelli già beatificati o canonizzati. «Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere... Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio» (7). «Molte volte abbiamo la tentazione di pensare che la santità sia riservata a coloro che hanno la possibilità di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così. Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno» (14). Il Concilio Vaticano II lo ha messo in risalto con forza, «ognuno per la sua via, dice il Concilio» (15). I due nemici della santità e il cuore della Legge - Nel secondo capitolo si sofferma su quelle che definisce «due falsificazioni della santità che potrebbero farci sbagliare strada: lo gnosticismo e il pelagianesimo ». Ancora una volta, quindi, il Papa fa riferimento a queste eresie «sorte nei primi secoli cristiani» e che «continuano ad avere un’allarmante attualità» dentro la Chiesa (35). Si tratta di «due forme di sicurezza dottrinale o disciplinare che danno luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario » (35). I «nuovi pelagiani» ad esempio «per il fatto di pensare che tutto dipende dallo sforzo umano incanalato attraverso nor-È me e strutture ecclesiali – spiega il Papa – complicano il Vangelo e diventando schiavi di uno schema che lascia pochi spiragli perché la grazia agisca» ( 59). E si manifesta in molti atteggiamenti: «L’ossessione per la legge, il fascino di esibire conquiste sociali e politiche, l’ostentazione nella cura della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, la vanagloria legata alla gestione di faccende pratiche, l’attrazione per le dinamiche di auto-aiuto e di realizzazione autoreferenziale. In questo alcuni cristiani spendono le loro energie e il loro tempo, invece di lasciarsi condurre dallo Spirito sulla via dell’amore, invece di appassionarsi per comunicare la bellezza e la gioia del Vangelo e di cercare i lontani nelle immense moltitudini assetate di Cristo» (57). Le Beatitudini: ritratto di Gesù e stile di vita controcorrente - Nel terzo capitolo Francesco srotola una per una le beatitudini evangeliche contenute nel capitolo 5 del Vangelo di Matteo e le rilegge attualizzandole. «Vivere le Beatitudini – spiega – diventa difficile e può essere addirittura una cosa malvista, sospetta, ridicolizzata». Ma queste sono «la carta d’identità del cristiano». Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli: «Le ricchezze non ti assicurano nulla – ricorda il Papa –. Anzi, quando il cuore si sente ricco, è talmente soddisfatto di sé stesso che non ha spazio per la Parola di Dio, per amare i fratelli » (68). «Essere poveri nel cuore, questo è santità». Beati i miti, perché avranno in eredità la terra: «È un’espressione forte, in questo mondo che fin dall’inizio è un luogo di inimicizia dove si litiga ovunque, dove da tutte le parti c’è odio, dove continuamente classifichiamo gli altri per le loro idee, le loro abitudini» (71). Osserva Francesco: «Qualcuno potrebbe obiettare: “Se sono troppo mite, penseranno che sono uno sciocco, che sono stupido o debole”. Forse sarà così, ma lasciamo che gli altri lo pensino». La mitezza è propria di Cristo: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Il Papa pertanto ricorda che «anche quando si difende la propria fede e le proprie convinzioni, bisogna farlo con mitezza, e persino gli avversari devono essere trattati con mitezza. Nella Chiesa tante volte abbiamo sbagliato per non aver accolto questo appello» (73). «Reagire con mitezza, questo è santità». Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. «La persona che vede le cose come sono realmente – scrive – si lascia trafiggere dal dolore e piange nel suo cuore è capace di raggiungere le profondità della vita e di essere veramente felice» (76). «Saper piangere con gli altri, questo è santità». Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati: «La giustizia che propone Gesù – spiega – non è come quella che cerca il mondo, molte volte macchiata da interessi meschini, manipolata da un lato o dall’altro. La realtà ci mostra quanto sia facile entrare nelle combriccole della corruzione, far parte di quella politica quotidiana del “do perché mi diano”, in cui tutto è commercio» e si resta «ad osservare impotenti come gli altri si danno il cambio a spartirsi la torta della vita» (78). «Cercare la giustizia con fame e sete, questo è santità». Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. «“Tutto quanto vorrete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”. Il Catechismo ci ricorda che questa legge si deve applicare in ogni caso» (80). Gesù, ricorda il Papa, «non dice “Beati quelli che

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programmano vendetta”, ma chiama beati coloro che perdonano e lo fanno “settanta volte sette?”». «Guardare e agire e agire con misericordia, questo è santità». Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. «Quando il cuore ama Dio e il prossimo, quando questo è la sua vera intenzione e non parole vuote, allora quel cuore è puro e può vedere Dio» (86). «Mantenere il cuore pulito da tutto ciò che sporca l’amore, questo è santità». Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio: «Il mondo delle dicerie, fatto da gente che si dedica a criticare e a distruggere, non costruisce la pace», scrive Francesco (87). Mentre i pacifici «costruiscono pace e amicizia sociale» (88). «Seminare pace intorno a noi, questo è santità». Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli: «Se non vogliamo sprofondare in una oscura mediocrità – avverte il Papa – non pretendiamo una vita comoda» (90). «Non si può aspettare, per vivere il Vangelo, che tutto intorno a noi sia favorevole» (91). Ma Francesco spiega anche che «un santo non è una persona eccentrica, distaccata, che si rende insopportabile per la sua vanità, la sua negatività e i suoi risentimenti ». Non erano così gli Apostoli che «godevano della simpatia di tutto il popolo?» (93). Quanto alle persecuzioni, esse «non sono una realtà del passato, perché anche oggi le soffriamo, sia in maniera cruenta, come tanti martiri contemporanei, sia in un modo più sottile, attraverso calunnie e falsità» (94). «Accettare ogni giorno la via del Vangelo nonostante ci procuri problemi, questo è santità». Il protocollo su cui saremo giudicati Francesco rievoca le parole di Gesù nel Vangelo di Matteo (25,31-46) sul dar da mangiare agli affamati e accogliere gli stranieri e ricorda che queste sono la «regola di comportamento in base alla quale saremo giudicati». «Quando incontro una persona che dorme alle intemperie, in una notte fredda, posso sentire che questo fagotto è un imprevisto che mi intralcia, un delinquente ozioso... un problema che devono risolvere i politici... Oppure posso reagire a partire dalla fede e dalla carità e riconoscere in lui un essere umano con la mia stessa dignità... un fratello redento da Cristo. Questo è essere cristiani!» (98). «In questo richiamo a riconoscerlo nei poveri e nei sofferenti si rivela il cuore stesso di Cristo, i suoi sentimenti e le sue scelte più profonde, alle quali ogni santo cerca di conformarsi». Pertanto – afferma Francesco – «davanti alla forza di queste richieste di Gesù è mio dovere pregare i cristiani di accettarle e di accoglierle con sincera apertura, sine glossa, vale a dire senza commenti, senza elucubrazioni e scuse che tolgano ad esse forza». La nocività delle ideologie - Purtroppo, scrive Francesco, a volte «le ideologie ci portano a due errori nocivi». Da una parte, quello di trasformare «il cristianesimo in una sorta di Ong», privandolo della sua «luminosa spiritualità» (100). Dall’altra parte c’è l’errore di quanti «vivono diffidando dell’impegno sociale degli altri, considerandolo qualcosa di superficiale, mondano, secolarizzato, immanentista, comunista, populista ». O lo relativizzano come se ci fossero altre cose più importanti o come se interessasse solo una determinata etica o una ragione che essi difendono. «La difesa dell’innocente che non è nato, per esempio, deve essere chiara, ferma e appassionata... Ma ugualmente sacra è la vita dei poveri che sono già nati, che si dibattono nella miseria, nell’abbandono, nell’esclusione, nella tratta di persone, nell’eutanasia nascosta dei malati e degli anziani privati di cura, nelle nuove forme di schiavitù, e in ogni forma di scarto. Non possiamo proporci un ideale di santità che ignori l’ingiustizia di questo mondo» (101). Il santo e la violenza verbale dei media - All’interno del grande quadro della santità proposte dalle Beatitudini, nel quarto capitolo Francesco presenta alcune caratteristiche che, a suo giudizio, sono indispensabili per comprendere lo stile di vita a cui Cristo ci chiama nel contesto attuale «dove si manifestano – afferma – l’ansietà nervosa e violenta che ci disperde e debilita; la negatività e la tristezza; l’accidia comoda, consumista ed egoista; l’individualismo, e tante forme di falsa spiritualità senza incontro con Dio che dominano nel mercato religioso attuale». Le prime sono: la sopportazione, la pazienza e la mitezza. Virtù necessarie. «Anche i cristiani – scrive poi Francesco – possono partecipare a reti di violenza verbale mediante Internet... Persino nei media cattolici si possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui». «È significativo che a volte, pretendendo di difendere altri comandamenti, si passi sopra completamente all’ottavo: “Non dire falsa testimonianza”, e si distrugga l’immagine altrui senza pietà» (115). Il santo, ricorda Francesco, «evita la violenza verbale» (116).

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L’umiltà e le umiliazioni - «L’umiltà – spiega il Pontefice – può radicarsi nel cuore solamente attraverso le umiliazioni. Senza di esse non c’è umiltà né santità» (118). Non si riferisce solo alle situazioni violente di martirio, «ma alle umiliazioni quotidiane di coloro che sopportano per salvare la propria famiglia, o evitano di parlare bene di sé stessi e preferiscono lodare gli altri invece di gloriarsi, scelgono gli incarichi meno brillanti, e a volte preferiscono addirittura sopportare qualcosa di ingiusto per offrirlo al Signore» (119). Senso dello humour e fervore - Il Papa sottolinea che quanto detto finora «non implica uno spirito inibito, triste, acido, malinconico, o un basso profilo senza energia. Il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo» (122). Bisogna superare la tentazione di «fuggire in un luogo sicuro che può avere molti nomi: individualismo, spiritualismo, chiusura in piccoli mondi, dipendenza, sistemazione, ripetizione di schemi prefissati, dogmatismo, nostalgia, pessimismo, rifugio nelle norme» (134). «Dio è sempre novità – scrive Francesco – che ci spinge continuamente a ripartire e a cambiare posto per andare oltre il conosciuto, verso le periferie e le frontiere » (135). Ci mette in moto, ricorda il Papa, l’esempio di tanti preti, religiose e laici «che si dedicano ad annunciare e servire con grande fedeltà, molte volte rischiando la vita... La loro testimonianza ci ricorda che la Chiesa non ha bisogno di tanti burocrati e funzionari, ma di missionari appassionati, divorati dall’entusiasmo di comunicare la vera vita» (138). In lotta contro il demonio - Il quinto capitolo avverte che il cammino per la santità è anche «una lotta costante contro il diavolo, che è il principe del male» (159). Il “male” citato nel Padre Nostro è «il Maligno» e «indica un essere personale che ci tormenta» (160). «Non pensiamo dunque che sia un mito, una rappresentazione, un simbolo, una figura o un’idea. Tale inganno ci porta ad abbassare la guardia, a trascurarci e a rimanere più esposti. Lui non ha bisogno di possederci. Ci avvelena con l’odio, con la tristezza, con l’invidia, con i vizi» (161). E può portare alla «corruzione spirituale », che «è peggiore della caduta di un peccatore, perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché “anche Satana si maschera da angelo della luce” (2 Cor 11,14)» (165). «Come sapere se una cosa viene dallo Spirito Santo o se deriva dallo spirito del mondo o dallo spirito del diavolo? L’unico modo – ricorda Francesco – è il discernimento» che «è anche un dono che bisogna chiedere» (166). Un’esistenza disponibile per Dio e per i fratelli - «San Paolo invitava i cristiani di Roma a non rendere “a nessuno male per male” ( Rm12,17), a non voler farsi giustizia da sé stessi (cfr v. 19) e a non lasciarsi vincere dal male, ma a vincere il male con il bene (cfr v. 21). Questo atteggiamento non è segno di debolezza ma della vera forza ». Solo «chi è disposto ad ascoltare – conclude Francesco – è realmente disponibile ad accogliere una chiamata che rompe le sue sicurezze ma che porta a una vita migliore» (172). Questo atteggiamento «implica, naturalmente, obbedienza al Vangelo come ultimo criterio, ma anche al Magistero che lo custodisce, cercando di trovare nel tesoro della Chiesa ciò che può essere più fecondo per l’oggi della salvezza» (173). «Credo che l’Esortazione apostolica di papa Francesco sulla santità sia il frutto del suo essere “padre”, e sia nata proprio dalla paternità spirituale che lo caratterizza». Così l’arcivescovo Angelo De Donatis, vicario per la diocesi di Roma, ha risposto ai giornalisti durante la presentazione della Gaudete et exsultate presso la Sala stampa vaticana. Insieme a De Donatis sono intervenuti l’ex presidente dell’Azione cattolica italiana, Paola Bignardi e il giornalista Gianni Valente, per il quale la genesi del documento è da inquadrare alla radice del magistero precedente come indicazione di ciò che è «prioritario e importante» nella vita di fede rispetto a una certa «spettacolarizzazione della Chiesa». Per Bignardi, si tratta di un documento attraverso il quale «i cristiani, e non solo i cristiani, troveranno conferma e incoraggiamento a tante intuizioni della loro quotidianità». Introdotti dal direttore della Sala Stampa Greg Burke, che ha anche trasmesso un video sul documento pontificio, i tre relatori hanno presentato le cinque parti in cui il testo è articolato. Dei temi toccati dal Papa, il primo - la chiamata alla santità - e l’ultimo capitolo - il combattimento spirituale, la vigilanza e il discernimento - sono stati commentati dal vicario di Roma. Gianni Valente, ha ripreso il secondo, dedicato a due nemici della santità, il pelagianesimo e lo gnosticismo, mentre Paola Bignardi il terzo e il quarto capitolo: vivere le beatitudini oggi e alcune caratteristiche

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della santità nel mondo attuale. «Perché un’esortazione apostolica sulla chiamata alla santità? Questo linguaggio ecclesiale non è, quantomeno, da addetti ai lavori, cioè da religiosi?» ha detto De Donatis. In effetti la parola santità – ha commentato – è considerata un po’ antiquata proprio da quel mondo contemporaneo a cui l’esortazione vorrebbe rivolgersi. «Chi oggi esprimerebbe con questa parola ciò a cui il suo cuore aspira, per sé e per la propria esistenza quotidiana? Queste brevi considerazioni, che forse esprimono il pensiero di tante persone, ci dicono subito qual è la sfida che l’esortazione intende affrontare: mostrare l’attualità perenne della santità cristiana, presentandone il contenuto, così come è narrato dalla Scrittura, in modo da poterla proporre a tutti come meta desiderabile del proprio cammino umano, come una chiamata che Dio rivolge a ciascuno». Se papa Francesco sintetizza così la santità è «la vera vita, la felicità per la quale siamo stati creati» – ha ripreso ancora l’arcivescovo – il contrario della santità non è, prima di tutto, una vita di peccato, quanto «l’accontentarsi di un’esistenza mediocre, annacquata e inconsistente ». Essere cristiani significa ricevere da Dio il dono di una vita bella, ricca di senso, mettersi in un cammino che renda «più vivi e più umani». La prima cosa che colpisce in questo documento è la determinazione con cui si sostiene che la santità appartiene alla gente comune – ha ripreso Bignardi – che ha un’ordinaria vita quotidiana fatta delle cose semplici che sono la struttura dell’esistenza di tutti. «Dunque – ha sottolineato – una santità che non è per pochi eroi o per persone eccezionali, ma che rappresenta il modo ordinario di vivere l’ordinaria esistenza cristiana. La conseguenza di questo è subito detta: se non vi è vocazione o condizione esistenziale incompatibile con la chiamata alla santità, la vita cristiana non può realizzarsi pienamente se non nella prospettiva della santità, non vi sono percorsi intermedi o accomodamenti con lo sconto. La regola di essa è presentata nel terzo e quarto capitolo del documento è data dalle Beatitudini e da quella che papa Francesco chiama la “grande regola di comportamento” proposta nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo: la concreta misericordia verso il povero». Gianni Valente ha invece sviscerato quelle che il Papa definisce «due falsificazioni della santità che potrebbero farci sbagliare strada: lo gnosticismo e il pelagianesimo», le due eresie «sorte nei primi secoli cristiani», e che a suo giudizio «continuano ad avere un’allarmante attualità». Per comprendere cosa c’entrano gnosticismo e pelagianesimo in un testo papale sulla chiamata universale alla santità, Valente, che già nel mensile 30Giorni aveva trattato queste tematiche, è partito proprio dalla natura della santità, da come la santità viene vissuta e considerata nella Chiesa e nel suo insegnamento. «Se la santità è un frutto è un dono della grazia nella vita della Chiesa – ha spiegato – questo vuol dire che la santità non è l’esito di un proprio sforzo, non è una montagna da scalare da soli. Vuol dire che non si possono fare strategie o programmi pastorali per 'produrre' la santità. Vuol dire soprattutto che è Cristo stesso l’iniziatore e il perfezionatore della santità. Per questo la santità è il tesoro della Chiesa: perché se ci sono santi vuol dire che Cristo è vivo, e continua a operare in loro, a cambiare le loro vite, e noi possiamo vederne gli effetti. E sempre per questo è vero anche che le “proposte ingannevoli” che si muovono sulla scia del pelagianesimo e dello gnosticismo rappresentano un ostacolo per la chiamata universale a essere santi: esse infatti ripropongono in varie forme l’antico inganno pelagiano o quello gnostico: cioè occultano o rimuovono la necessità della grazia di Cristo, oppure svuotano la dinamica reale e gratuita del suo agire». Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Comunione, veto del parroco: “Non regalate smartphone” A Reggio Emilia «Ma lo sa che due mamme mi chiedevano di spostare la comunione delle figlie perché avevano un saggio di danza?». Don Giordano Goccini sorride un po’ amaro, «oggi gli adulti sono smarriti…». Per questo alla riunione dei genitori ha concluso «con una battuta», racconta: «O la comunione o lo smartphone!». Tv, giornali, siti Internet... Tutti a parlare del parroco di Novellara, in provincia di Reggio Emilia. Ma davvero non darà la prima comunione ai bambini che ricevono un cellulare in regalo? «Ma no, era una provocazione: i bambini non hanno colpe. E poi, con un centinaio di ragazzini, non ho il

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controllo dei regali. Però…». Però almeno è servito a porre il problema. I figli che devono fare tutto, avere tutto, «la perdita di senso del limite, genitori pronti a spostare la riga quando la palla va fuori». Don Giordano sta sui social, usa la Rete. Ma lo smartphone è anche simbolico, «la grande illusione di essere sempre ovunque». E poi non può essere che «la comunione diventi l’occasione di regalare un cellulare». E cosa si dovrebbe donare, ai figli? «Tempo. Un giorno a pescare, in montagna con mamma e papà. Il cellulare invecchia, ma quello lo ricorderanno tutta la vita». IL FOGLIO Pag 4 Il prontuario del Papa su come essere santi e felici nel mondo di oggi Roma. Gaudete et exsultate, terza esortazione apostolica di Papa Francesco dall' inizio del pontificato, si propone di delineare i criteri e i presupposti per diventare santi nel mondo contemporaneo. Lo fa in cinque capitoli e centosettantasette paragrafi, divisi per temi, con un forte richiamo al Concilio Vaticano II. Il documento è una sorta di summa della predicazione di Bergoglio, un utile ripasso di quanto ha detto e scritto in questi cinque anni. Il Pontefice chiarisce subito che "non ci si deve aspettare qui un trattato sulla santità, con tante definizioni e distinzioni che potrebbero arricchire questo importante tema, o con analisi che si potrebbero fare circa i mezzi di santificazione". No, "il mio umile obiettivo - scrive il Papa - è far risuonare ancora una volta la chiamata alla santità, cercando di incarnarla nel contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità". La santità, chiarisce, "è parresia: è audacia, è slancio evangelizzatore che lascia un segno in questo mondo". Tutti possono essere santi, tutti i membri del "popolo di Dio" (popolo è termine che ritorna assai di frequente nell'esortazione). Non solo "vescovi, sacerdoti, religiose o religiosi. Molte volte - osserva Francesco - abbia mo la tentazione di pensare che la santità sia riservata a coloro che hanno la possibilità di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così". Tutti santi purché felici, allegri, con una buona dose di humor: guai ad avere "uno spirito inibito, triste, acido, malinconico, o un basso profilo senza energia. Il santo è capace di vivere con gioia e senso dell'umorismo". Come Evangelii gaudium, il programma di governo del pontificato, il documento diffuso ieri mattina è enciclopedico. Si passa dai migranti alla bioetica ("spesso si sente dire che, di fronte al relativismo e ai limiti del mondo attuale, sarebbe un tema marginale, per esempio, la situazione dei migranti. Alcuni cattolici affermano che è un tema secondario rispetto ai temi 'seri' della bioetica"), dalla difesa degli innocenti non nati ai poveri nati ("la difesa dell'innocente che non è nato deve essere chiara, ferma e appassionata, perché lì è in gioco la dignità della vita umana, sempre sacra, ma ugualmente sacra è la vita dei poveri che sono già nati, che si dibattono nella miseria e nell'abbandono, nell'esclusione, nella tratta di persone, nell'eutanasia nascosta dei malati e degli anziani privati di cura"), dai rischi del consumismo ai pericoli che s'annidano su internet: "Persino nei media cattolici si possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui". Nulla è lasciato al caso. Si cita anche Satana, ora chiamato "diavolo" (sei volte), ora maligno (cinque). Che esiste, come più volte aveva già detto il Papa nonostante le recenti fantasiose ricostruzioni giornalistiche sull'inesistenza degli inferi. La santità, osserva Francesco, ha due "sottili nemici", che sono lo gnosticismo e il pelagianesimo attuali. "Molte volte - si legge - contro l'impulso dello Spirito, la vita della chiesa si trasforma in un pezzo da museo o in un possesso di pochi. E' forse una forma sottile di pelagianesimo". LA NUOVA Pag 8 E Bergoglio attacca i siti dei cattolici: “Basta odio in rete” di Mariaelena Finessi Roma. «Anche i cristiani possono partecipare a reti di violenza verbale tramite internet e i diversi ambiti o spazi di interscambio digitale». Il Papa scrive dei suoi timori circa l'uso distorto della rete, annotandoli nella "Gaudete et Exsultate", l'esortazione apostolica «sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo», presentata ieri alla stampa. «Persino nei media cattolici - spiega il pontefice - si possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia e sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il

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buon nome altrui». Tutto questo porta, secondo Francesco, ad «un pericoloso dualismo» poiché nel cercare «di compensare le proprie insoddisfazioni, scaricando con rabbia i desideri di vendetta», succede che «in queste reti si dicono cose che non sarebbero tollerabili nella vita pubblica». Ed «è significativo che a volte - aggiunge il Papa, richiamando le Sacre Scritture - pretendendo di difendere altri comandamenti, si passi sopra completamente all'ottavo: «Non dire falsa testimonianza» e così si distrugga l'immagine altrui senza pietà. Lì si manifesta senza alcun controllo che la lingua è "il mondo del male"». Occorrono contromisure, prima delle quali è la «fermezza interiore», che «ci preserva dal lasciarci trascinare dalla violenza che invade la vita sociale, perché la grazia smorza la vanità e rende possibile la mitezza del cuore». Non ci fa bene guardare dall'alto in basso, assumere il ruolo di giudici spietati - ammonisce Francesco» Pag 11 La Chiesa alle prese con il budget di Madina Fabretto Padova, la riforma economica di papa Francesco spiegata da monsignor Mistò Padova Anche la Chiesa si affaccia alla "cultura del budget" per garantire una corretta gestione del suo patrimonio. Il progetto di riforma economico-finanziaria avviato da papa Francesco, che distingue chi gestisce i beni della Santa Sede da chi vigila su questa gestione, è stato illustrato ieri nella sede di Confindustria da monsignor Luigi Mistò, coordinatore ad interim della Segreteria per l'Economia della Santa Sede, nell'ambito di una conferenza moderata dal direttore di questo giornale Paolo Possamai. All'incontro sono intervenuti anche Alessandro Dri, professore della China University of Political Sciences e Maurizio Longhi, vice presidente del Consiglio di Amministrazione della Bcc di Roma. La Segreteria per l'Economia rappresenta il dicastero simbolo della riforma economica avviata dal papa e monsignor Mistò, cresciuto alla scuola del cardinale Martini, ne è divenuto il coordinatore quando il cardinale australiano George Pell si dovuto congedare per difendersi dalle accuse di abusi. «Il progetto di riforma», ha detto Mistò, «non è ancora compiuto, ma ha già dato importanti risultati. Oggi ciascun dicastero ha un suo budget, che deve essere approvato dal Consiglio e rispettato. La Segreteria per l'economia svolge funzioni di controllo».Il monsignore ha ammesso che la gestione dell'Apsa era «un po' approssimativa, tanto poi Pantalone paga». L'esigenza di stilare un bilancio imporrà invece ai vari dicasteri di pianificare i loro bisogni, volti sempre ai fini spirituali della Chiesa, e rispettarli. «Una mentalità», ha aggiunto, «che potrà essere trasferita anche nelle diocesi e nelle parrocchie». Alessandro Dri ha quindi descritto gli effetti della globalizzazione sul sistema bancario e sulla competitività delle imprese, prospettando i possibili scenari futuri. Infine Longhi ha ricordato l'operazione di salvataggio effettuata nel dicembre 2015 dalla Bcc di Roma su quella dell'Alta Padovana, «salvando 315 posti di lavoro, e rimborsando 27 milioni di crediti subordinati. Nel 2017, sul territorio, gli impieghi sono cresciuti del 3%».L'incontro è stato chiuso dalla presidente di Unindustria Treviso Maria Cristina Piovesana. «Per ristabilire un rapporto di fiducia», ha detto, «dobbiamo imparare a fare sistema. Un esempio concreto è l'accordo che sigleremo a giugno tra le associazioni di Padova e Treviso». VATICAN INSIDER Il Papa: “Ecco la via per una santità alla portata di tuttiˮ di Andrea Tornielli Nell’esortazione “Gaudete et Exsultateˮ di Francesco indicazioni e suggerimenti concreti per essere i santi “della porta accantoˮ nel mondo di oggi. I rischi del web e dei media cattolici L’esortazione Gaudete et Exultate, sulla «chiamata alla santità nel mondo contemporaneo» è un documento che in cinque capitoli e 177 paragrafi invita ad essere santi oggi. Spiegando che non si tratta di una chiamata per pochi ma è una via per tutti, da vivere nella quotidianità. «Il Signore chiede tutto, e quello che offre è la vera vita, la felicità... Egli ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente» scrive Francesco. La “classe mediaˮ della santità - Nel primo capitolo il Papa invita a non pensare solo ai santi «già beatificati o canonizzati» e ricorda che «non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato...». (6) «Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con

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tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere... Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, “la classe media della santità”». (7) Possibilità per tutti - Francesco invita a non scoraggiarsi di fronte a «modelli di santità che appaiono irraggiungibili», perché dobbiamo seguire la «via unica e specifica che il Signore ha in serbo per noi». (11). Il Papa spiega che ci sono anche «stili femminili di santità» (12) e ribadisce che per essere santi «non è necessario essere vescovi, sacerdoti, religiose o religiosi. Molte volte abbiamo la tentazione di pensare che la santità sia riservata a coloro che hanno la possibilità di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così. Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno». (14) La santità dei piccoli gesti - Il Papa ricorda che la santità «andrà crescendo mediante piccoli gesti. Per esempio: una signora va al mercato a fare la spesa, incontra una vicina e inizia a parlare, e vengono le critiche. Ma questa donna dice dentro di sé: “No, non parlerò male di nessuno”. Questo è un passo verso la santità. Poi, a casa, suo figlio le chiede di parlare delle sue fantasie e, anche se è stanca, si siede accanto a lui e ascolta con pazienza e affetto. Ecco un’altra offerta che santifica...». (16) «Voglia il Cielo che tu possa riconoscere qual è quella parola, quel messaggio di Gesù che Dio desidera dire al mondo con la tua vita». (24) L'impegno nel mondo non è “distrazioneˮ - Il Papa scrive che «non è sano amare il silenzio ed evitare l’incontro con l’altro... ricercare la preghiera e sottovalutare il servizio» (26). A volte «abbiamo la tentazione di relegare la dedizione pastorale e l’impegno nel mondo a un posto secondario, come se fossero “distrazioni” nel cammino della santificazione» (27). Questo però non implica «disprezzare i momenti di quiete, solitudine e silenzio davanti a Dio». Anche perché oggi «le continue novità degli strumenti tecnologici, l’attrattiva dei viaggi, le innumerevoli offerte di consumo, a volte non lasciano spazi vuoti in cui risuoni la voce di Dio» (29). L'invito è a «non avere paura della santità. Non ti toglierà forze, vita e gioia» (32). I due “sottili nemiciˮ della santità - Nel secondo capitolo Francesco mette in guardia da due «sottili nemici», gnosticismo e pelagianesimo: «Due forme di sicurezza dottrinale o disciplinare che danno luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario dove, invece di evangelizzare, si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare» (35). Attenzione: questo atteggiamento, avverte il Papa, lo possiamo trovare dentro la Chiesa. È «tipico degli gnostici credere che con le loro spiegazioni possono rendere perfettamente comprensibili tutta la fede e tutto il Vangelo. Assolutizzano le proprie teorie e obbligano gli altri a sottomettersi ai propri ragionamenti» (39). Le troppe risposte “giusteˮ dei falsi profeti - «Quando qualcuno ha risposte per tutte le domande - scrive il Papa - dimostra di trovarsi su una strada non buona ed è possibile che sia un falso profeta... Dio ci supera infinitamente, è sempre una sorpresa e non siamo noi a determinare in quale circostanza storica trovarlo, dal momento che non dipendono da noi il tempo e il luogo e la modalità dell’incontro. Chi vuole tutto chiaro e sicuro pretende di dominare la trascendenza di Dio» (41). Francesco ricorda che «noi arriviamo a comprendere in maniera molto povera la verità che riceviamo dal Signore. E con difficoltà ancora maggiore riusciamo ad esprimerla. Perciò non possiamo pretendere che il nostro modo di intenderla ci autorizzi a esercitare un controllo stretto sulla vita degli altri» (43). La dottrina, afferma Papa Bergoglio, «o meglio, la nostra comprensione ed espressione di essa, non è un sistema chiuso, privo di dinamiche capaci di generare domande, dubbi, interrogativi» (44). Affidarsi alle proprie forze - I pelagiani sono coloro che trasmettono l'idea che «tutto si può fare con la volontà umana, come se essa fosse qualcosa di puro, perfetto, onnipotente, a cui si aggiunge la grazia. Si pretende di ignorare che “non tutti possono tuttoˮ e che in questa vita le fragilità umane non sono guarite completamente e una volta per tutte dalla grazia» (49). «La grazia - ricorda Francesco - proprio perché suppone la nostra natura, non ci rende di colpo superuomini» (50). Atteggiamenti egocentrici - «I santi evitano di porre la fiducia nelle loro azioni» (54), scrive il Papa. «La prima cosa è appartenere a Dio. Si tratta di offrirci a Lui che ci anticipa, di offrirgli le nostre capacità... affinché il suo dono gratuito cresca e si sviluppi

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in noi» (56). Ma ci «sono ancora dei cristiani che si impegnano nel seguire un’altra strada: quella della giustificazione mediante le proprie forze», che «si traduce in un autocompiacimento egocentrico ed elitario privo del vero amore» e si manifesta in molti atteggiamenti: «l’ossessione per la legge, il fascino di esibire conquiste sociali e politiche, l’ostentazione nella cura della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, la vanagloria legata alla gestione di faccende pratiche» (57). Molte volte, «contro l’impulso dello Spirito, la vita della Chiesa si trasforma in un pezzo da museo o in un possesso di pochi. Questo accade quando alcuni gruppi cristiani danno eccessiva importanza all’osservanza di determinate norme proprie» (58). La carità al centro - «È bene ricordare spesso - conclude il Papa - che esiste una gerarchia delle virtù», e «al centro c’è la carità» (60). Detto in altre parole: «In mezzo alla fitta selva di precetti e prescrizioni, Gesù apre una breccia che permette di distinguere due volti, quello del Padre e quello del fratello» (61). Le beatitudini oggi - Nel terzo capitolo, Francesco presenta le beatitudini evangeliche come «la carta d’identità del cristiano». E le rilegge attualizzandole. «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli». «Le ricchezze non ti assicurano nulla - ricorda il Papa - Anzi, quando il cuore si sente ricco, è talmente soddisfatto di sé stesso che non ha spazio per la Parola di Dio, per amare i fratelli» (68). «Beati i miti, perché avranno in eredità la terra». «È un’espressione forte, in questo mondo che fin dall’inizio è un luogo di inimicizia... dove continuamente classifichiamo gli altri per le loro idee, le loro abitudini» (71). Il Papa ricorda che «anche quando si difende la propria fede e le proprie convinzioni, bisogna farlo con mitezza, e persino gli avversari devono essere trattati con mitezza. Nella Chiesa tante volte abbiamo sbagliato per non aver accolto questo appello» (73). «Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati». «La persona che vede le cose come sono realmente - scrive Francesco - si lascia trafiggere dal dolore e piange nel suo cuore è capace di raggiungere le profondità della vita e di essere veramente felice» (76). «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati». «La giustizia che propone Gesù - spiega il Pontefice - non è come quella che cerca il mondo, molte volte macchiata da interessi meschini, manipolata da un lato o dall’altro. La realtà ci mostra quanto sia facile entrare nelle combriccole della corruzione, far parte di quella politica quotidiana del “do perché mi diano”, in cui tutto è commercio» (78). «Cercare la giustizia con fame e sete, questo è santità». «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia». «“Tutto quanto vorrete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loroˮ. Il Catechismo ci ricorda che questa legge si deve applicare “in ogni casoˮ,» (80). Gesù, ricorda il Papa, «non dice “Beati quelli che programmano vendetta”, ma chiama beati coloro che perdonano e lo fanno “settanta volte setteˮ». «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio». «Il mondo delle dicerie, fatto da gente che si dedica a criticare e a distruggere, non costruisce la pace», scrive Francesco (87). Mentre pacifici «costruiscono pace e amicizia sociale» (88). Anche se, riconosce, «non è facile costruire questa pace evangelica che non esclude nessuno, ma che integra anche quelli che sono un po’ strani, le persone difficili e complicate... quelli che sono diversi» (89). «Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli». «Se non vogliamo sprofondare in una oscura mediocrità - avverte il Papa - non pretendiamo una vita comoda» (90). «Non si può aspettare, per vivere il Vangelo, che tutto intorno a noi sia favorevole» (91). Ma Francesco spiega anche che «un santo non è una persona eccentrica, distaccata, che si rende insopportabile per la sua vanità, la sua negatività e i suoi risentimenti». Non erano così gli apostoli che «godevano della simpatia “di tutto il popoloˮ» (93). Quanto alle persecuzioni, esse «non sono una realtà del passato, perché anche oggi le soffriamo, sia in maniera cruenta, come tanti martiri contemporanei, sia in un modo più sottile, attraverso calunnie e falsità» (94). Il protocollo su cui saremo giudicati - Francesco rievoca le parole di Gesù sul dar da mangiare agli affamati e accogliere gli stranieri, presentandole come «una regola di comportamento in base alla quale saremo giudicati. «Quando incontro una persona che dorme alle intemperie, in una notte fredda, posso sentire che questo fagotto è un imprevisto che mi intralcia, un delinquente ozioso... un problema che devono risolvere i

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politici... Oppure posso reagire a partire dalla fede e dalla carità e riconoscere in lui un essere umano con la mia stessa dignità... un fratello redento da Cristo. Questo è essere cristiani!» (98). Rischio ONG e la diffidenza per l'impegno sociale - Purtroppo, scrive Francesco, a volte «le ideologie ci portano a due errori nocivi». Da una parte, quello di trasformare «il cristianesimo in una sorta di ONG», privandolo della sua «luminosa spiritualità» (100). Dall'altra parte c'è l'errore di quanti «vivono diffidando dell’impegno sociale degli altri, considerandolo qualcosa di superficiale, mondano, secolarizzato, immanentista, comunista, populista». Difendere la vita... tutta - «La difesa dell’innocente che non è nato, per esempio - scrive il Papa - deve essere chiara, ferma e appassionata, perché lì è in gioco la dignità della vita umana, sempre sacra... Ma ugualmente sacra è la vita dei poveri che sono già nati, che si dibattono nella miseria, nell’abbandono, nell’esclusione, nella tratta di persone, nell’eutanasia nascosta dei malati e degli anziani privati di cura, nelle nuove forme di schiavitù... Non possiamo proporci un ideale di santità che ignori l’ingiustizia di questo mondo» (101). I migranti (e la bioetica) - Il Papa inserisce qui una messa a punto sui migranti. «Spesso si sente dire che, di fronte al relativismo e ai limiti del mondo attuale, sarebbe un tema marginale, per esempio, la situazione dei migranti. Alcuni cattolici affermano che è un tema secondario rispetto ai temi “seri” della bioetica. Che dica cose simili un politico preoccupato per i suoi successi si può comprendere, ma non un cristiano... Possiamo riconoscere che è precisamente quello che ci chiede Gesù quando ci dice che accogliamo Lui stesso in ogni forestiero?» (102). Pertanto, chiarisce Francesco «non si tratta dell’invenzione di un Papa o di un delirio passeggero» (103). Non solo culto, preghiera e norme etiche - «Potremmo pensare - sottolinea Papa Bergoglio - che diamo gloria a Dio solo con il culto e la preghiera, o unicamente osservando alcune norme etiche», e «dimentichiamo che il criterio per valutare la nostra vita è anzitutto ciò che abbiamo fatto agli altri» (104). «Chi desidera veramente dare gloria a Dio con la propria vita... è chiamato a tormentarsi, spendersi e stancarsi cercando di vivere le opere di misericordia» (107). I rischi del consumismo - «Il consumismo edonista - avverte Francesco - può giocarci un brutto tiro, perché nell’ossessione di divertirsi finiamo con l’essere eccessivamente concentrati su noi stessi, sui nostri diritti e nell’esasperazione di avere tempo libero per godersi la vita... Anche il consumo di informazione superficiale e le forme di comunicazione rapida e virtuale possono essere un fattore di stordimento che... ci allontana dalla carne sofferente dei fratelli» (108). Il santo, i rischi del web e dei media cattolici - Nel quarto capitolo, Francesco presenta alcune caratteristiche «indispensabili» per lo stile di vita del santo. Si inizia con sopportazione, pazienza e mitezza. «Anche i cristiani - scrive il Papa riferendosi alla sfera dei blog e siti - possono partecipare a reti di violenza verbale mediante internet... Persino nei media cattolici si possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui». «È significativo che a volte, pretendendo di difendere altri comandamenti, si passi sopra completamente all’ottavo: “Non dire falsa testimonianzaˮ, e si distrugga l’immagine altrui senza pietà» (115). Il santo, ricorda Francesco, «non spreca le sue energie lamentandosi degli errori altrui, evita la violenza verbale» (116). Non ci fa bene infatti «guardare dall’alto in basso, assumere il ruolo di giudici spietati, considerare gli altri come indegni e pretendere continuamente di dare lezioni. Questa è una sottile forma di violenza» (117). Le umiliazioni necessarie - «L’umiltà - spiega Papa Bergoglio - può radicarsi nel cuore solamente attraverso le umiliazioni. Senza di esse non c’è umiltà né santità» (118). Francesco non si riferisce solo alle situazioni violente di martirio, «ma alle umiliazioni quotidiane di coloro che sopportano per salvare la propria famiglia, o evitano di parlare bene di sé stessi e preferiscono lodare gli altri invece di gloriarsi, scelgono gli incarichi meno brillanti, e a volte preferiscono addirittura sopportare qualcosa di ingiusto per offrirlo al Signore» (119). Gioia e humor - Il Papa sottolinea che quanto detto finora «non implica uno spirito inibito, triste, acido, malinconico, o un basso profilo senza energia. Il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con

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uno spirito positivo e ricco di speranza» (122). Il malumore dunque «non è un segno di santità» (126). Francesco intende riferirsi a «quella gioia che si vive in comunione, che si condivide e si partecipa» (128). Audacia e fervore - Bergoglio sintetizza questi elementi in una parola: «Audacia, entusiasmo, parlare con libertà, fervore apostolico, tutto questo è compreso nel vocabolo parresia» (129). «Guardiamo a Gesù: la sua compassione profonda - fa notare Francesco - lo spingeva a uscire da sé con forza per annunciare, per inviare in missione, per inviare a guarire e a liberare» (131). Dunque bisogna superare la tentazione di «fuggire in un luogo sicuro che può avere molti nomi: individualismo, spiritualismo, chiusura in piccoli mondi, dipendenza, sistemazione, ripetizione di schemi prefissati, dogmatismo, nostalgia, pessimismo, rifugio nelle norme» (134). Dio è novità - «Dio è sempre novità - scrive Francesco - che ci spinge continuamente a ripartire e a cambiare posto per andare oltre il conosciuto, verso le periferie e le frontiere... là lo troveremo: Lui sarà già lì» (135). Ci mette in moto, ricorda il Papa, l’esempio di tanti preti, religiose e laici «che si dedicano ad annunciare e servire con grande fedeltà, molte volte rischiando la vita... La loro testimonianza ci ricorda che la Chiesa non ha bisogno di tanti burocrati e funzionari, ma di missionari appassionati, divorati dall’entusiasmo di comunicare la vera vita. I santi sorprendono, spiazzano, perché la loro vita ci chiama a uscire dalla mediocrità tranquilla e anestetizzante» (138). E Francesco ricorda anche come sia difficile «lottare contro la propria concupiscenza e contro le insidie e tentazioni del demonio e del mondo egoista se siamo isolati» (140). È dunque importante «la vita comunitaria, in famiglia, in parrocchia, nella comunità religiosa», che «è fatta di tanti piccoli dettagli quotidiani» (143): anche Gesù «invitava i suoi discepoli a fare attenzione ai particolari». Preghiera e adorazione - «Infine, malgrado sembri ovvio - precisa Francesco - ricordiamo che la santità è fatta di apertura abituale alla trascendenza, che si esprime nella preghiera e nell’adorazione» (147). Il Papa chiede: «Ci sono momenti in cui ti poni alla sua presenza in silenzio, rimani con Lui senza fretta, e ti lasci guardare da Lui?» (151). Ma questo silenzio orante non è «un’evasione che nega il mondo intorno a noi» (152). In lotta contro il diavolo - Il quinto capitolo avverte che il cammino per la santità è anche «una lotta costante contro il diavolo, che è il principe del male» (159). Il «male» citato nel Padre Nostro è «il Maligno» e «indica un essere personale che ci tormenta» (160). «Non pensiamo dunque che sia un mito, una rappresentazione, un simbolo, una figura o un’idea. Tale inganno ci porta ad abbassare la guardia, a trascurarci e a rimanere più esposti. Lui non ha bisogno di possederci. Ci avvelena con l’odio, con la tristezza, con l’invidia, con i vizi» (161). E può portare alla «corruzione spirituale», che «è peggiore della caduta di un peccatore, perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito» (165). La via del discernimento - «Come sapere se una cosa viene dallo Spirito Santo o se deriva dallo spirito del mondo o dallo spirito del diavolo? L’unico modo - ricorda Francesco - è il discernimento», che «è anche un dono che bisogna chiedere» (166). «Al giorno d’oggi - continua il Papa - l’attitudine al discernimento è diventata particolarmente necessaria... Tutti, ma specialmente i giovani, sono esposti a uno zapping costante... Senza la sapienza del discernimento possiamo trasformarci facilmente in burattini alla mercé delle tendenze del momento» (167). Questo discernimento «è necessario non solo in momenti straordinari», di fronte a decisioni cruciali. «È uno strumento di lotta per seguire meglio il Signore... Molte volte questo si gioca nelle piccole cose, in ciò che sembra irrilevante». Pertanto il Papa chiede «a tutti i cristiani di non tralasciare di fare ogni giorno... un sincero esame di coscienza» (169). Ascoltare e rinunciare ai propri schemi - Solo «chi è disposto ad ascoltare - conclude Francesco - ha la libertà di rinunciare al proprio punto di vista parziale e insufficiente, alle proprie abitudini, ai propri schemi. Così è realmente disponibile ad accogliere una chiamata che rompe le sue sicurezze ma che lo porta a una vita migliore» (172). Questo atteggiamento «implica, naturalmente, obbedienza al Vangelo come ultimo criterio, ma anche al Magistero che lo custodisce, cercando di trovare nel tesoro della Chiesa ciò che può essere più fecondo per l’oggi della salvezza. Non si tratta di applicare ricette o di ripetere il passato», perché «quello che era utile in un contesto può non esserlo in un

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altro. Il discernimento degli spiriti ci libera dalla rigidità, che non ha spazio davanti al perenne oggi del Risorto» (173). Comunicazione, santità e gli eccessi dei media (anche cattolici) di Andrea Tornielli Nell'esortazione “Gaudete et exsultateˮ le indicazioni per uno stile evangelico di comunicare. Purtroppo «anche i cristiani possono partecipare a reti di violenza verbale» sul web Nell’esortazione apostolica “Gaudete et Exsultateˮ di Papa Francesco si ritrovano indicazioni anche per chi comunica e possono risultare un utile antidoto contro l'ipertrofia dell'“ioˮ, l'egocentrismo, la violenza verbale, lo scherno, l'incapacità di immedesimarsi nelle ragioni degli altri e nel dolore degli altri; l'incapacità di fare autocritica. Commentando questa frase delle beatitudini annunciate da Gesù, «Beati i miti, perché avranno in eredità la terra», Francesco scrive: «È un’espressione forte, in questo mondo che fin dall’inizio è un luogo di inimicizia, dove si litiga ovunque, dove da tutte le parti c’è odio, dove continuamente classifichiamo gli altri per le loro idee, le loro abitudini, e perfino per il loro modo di parlare e di vestire. Insomma, è il regno dell’orgoglio e della vanità, dove ognuno crede di avere il diritto di innalzarsi al di sopra degli altri» (71). L'indicazione è quella dell'essere miti: «Tuttavia, nonostante sembri impossibile, Gesù propone un altro stile: la mitezza». Se viviamo «agitati, arroganti di fronte agli altri, finiamo stanchi e spossati. Ma quando vediamo i loro limiti e i loro difetti con tenerezza e mitezza, senza sentirci superiori, possiamo dar loro una mano ed evitiamo di sprecare energie in lamenti inutili», suggerisce Papa Bergoglio. Un’altra beatitudine riguarda la capacità di condividere la sofferenza e il dolore. «La persona che vede le cose come sono realmente, si lascia trafiggere dal dolore e piange nel suo cuore è capace di raggiungere le profondità della vita e di essere veramente felice» (76). Il Papa ricorda che la vita «ha senso nel soccorrere un altro nel suo dolore, nel comprendere l’angoscia altrui, nel dare sollievo agli altri. Questa persona sente che l’altro è carne della sua carne, non teme di avvicinarsi fino a toccare la sua ferita, ha compassione fino a sperimentare che le distanze si annullano». Anche queste sono parole che non dovrebbero lasciare indifferente chi si occupa di comunicazione. In un altro capitolo dell'esortazione, descrivendo alcune caratteristiche essenziali della vita santa, come «sopportazione, pazienza e mitezza», Francesco scrive: «È necessario lottare e stare in guardia davanti alle nostre inclinazioni aggressive ed egocentriche per non permettere che mettano radici» (114). L'egocentrismo, la tendenza a mettersi in mostra, a credersi i migliori, a primeggiare, a mettersi su un piedistallo è caratteristica a volte riscontrabile nel mondo mediatico e nella più vasta galassia del web. Francesco non fa sconti e scrive che «anche i cristiani possono partecipare a reti di violenza verbale mediante internet e i diversi ambiti o spazi di interscambio digitale. Persino nei media cattolici si possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui. Così si verifica un pericoloso dualismo, perché in queste reti si dicono cose che non sarebbero tollerabili nella vita pubblica, e si cerca di compensare le proprie insoddisfazioni scaricando con rabbia i desideri di vendetta. È significativo che a volte, pretendendo di difendere altri comandamenti, si passi sopra completamente all’ottavo: “Non dire falsa testimonianzaˮ, e si distrugga l’immagine altrui senza pietà» (115). Non occorre essere esperti del settore per rendersi conto di quanta violenza verbale, scherno, character assassination, calunnia e diffamazione vi sia nella galassia del web, anche in siti, blog e social media che vedono protagonisti cattolici. L’abuso di fonti anonime per veicolare i giudizi più sprezzanti, gli attacchi quotidiani verso altri cristiani “reiˮdi non pensarla allo stesso modo. Il Papa ricorda che «il santo non spreca le sue energie lamentandosi degli errori altrui, è capace di fare silenzio davanti ai difetti dei fratelli ed evita la violenza verbale che distrugge e maltratta, perché non si ritiene degno di essere duro con gli altri, ma piuttosto li considera “superiori a sé stessoˮ» (116). E aggiunge che «non ci fa bene guardare dall’alto in basso, assumere il ruolo di giudici spietati, considerare gli altri come indegni e pretendere continuamente di dare lezioni. Questa è una sottile forma di violenza» (117). Sono suggerimenti che si aggiungono a quelli, chiarissimi e noti da secoli, che il patrono dei giornalisti, il vescovo san Francesco di Sales, aveva fissato

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all'inizio del Seicento nella sua “Filoteaˮ . Il santo scriveva: «Quando parlo del prossimo, la mia bocca nel servirsi della lingua è da paragonarsi al chirurgo che maneggia il bisturi in un intervento delicato tra nervi e tendini: il colpo che vibro deve essere esattissimo nel non esprimere né di più né di meno della verità». Aggiungeva: «Il tuo modo di parlare sia pacato, schietto, sincero, senza fronzoli, semplice e veritiero. Tieniti lontano dalla doppiezza, dall’astuzia e dalle finzioni. È vero che non tutte le verità devono sempre essere dette; ma per nessun motivo è lecito andare contro la verità». Francesco di Sales suggeriva un criterio particolarmente indicativo: «Occorre seguire l’interpretazione più benevola del fatto. Bisogna agire sempre in questo modo, Filotea, interpretando sempre in favore del prossimo; e se un’azione avesse cento aspetti, tu ferma sempre la tua attenzione al più bello…». E concludeva: «L’uomo giusto quando non può scusare né il fatto né l’intenzione di chi sa per altre vie essere uomo per bene, rifiuta di giudicare, se lo toglie dallo spirito, lascia a Dio solo la sentenza… Quando non ci è possibile scusare il peccato, rendiamolo almeno degno di compassione, attribuendolo alla causa più comprensibile che si possa pensare, quali l’ignoranza e la debolezza». Pelagianesimo e gnosticismo, quei “sottili nemici” della santità di Gianni Valente Pubblichiamo la versione integrale dell’intervento alla presentazione dell’esortazione “Gaudete et Exsultateˮ Nel secondo capitolo della Esortazione Apostolica Gaudete et Exsultate Papa Francesco si sofferma su quelle che definisce «due falsificazioni della santità che potrebbero farci sbagliare strada: lo gnosticismo e il pelagianesimo». Ancora una volta, quindi, il Papa fa riferimento ai nomi di queste due eresie «sorte nei primi secoli cristiani», e che a suo giudizio «continuano ad avere un’allarmante attualità» (35). Anche stavolta l’intenzione non è quella di parlare dello sviluppo storico-teologico di queste due eresie. Il Papa vuole solo segnalare le insidie di matrice pelagiana e gnostica che toccano il presente della Chiesa. Per provare a suggerire cosa c’entrano Gnosticismo e Pelagianesimo in un testo papale sulla chiamata universale alla santità, conviene partire proprio dalla natura della santità, da come la santità viene vissuta e considerata nella Chiesa e nel suo insegnamento. Santità e grazia - La santità, come ripete in tanti modi anche questa esortazione, viene da Dio. È un frutto è un dono della grazia nella vita della Chiesa. La Costituzione dogmatica conciliare Lumen Gentium, in uno dei paragrafi dedicati proprio alla vocazione universale alla santità, riconosceva che la santità «costantemente si manifesta nei frutti della grazia che lo Spirito produce nei fedeli» (LG 39). Questo vuol dire che la santità non è l’esito di un proprio sforzo, non è una montagna da scalare da soli. Vuol dire che non si possono fare strategie o programmi pastorali per “produrre” la santità. Vuol dire soprattutto che è Cristo stesso l’iniziatore e il perfezionatore della santità. Per questo la santità è il tesoro della Chiesa: perché se ci sono santi vuol dire che Cristo è vivo, e continua a operare in loro, ad accarezzare e a cambiare le loro vite, e noi possiamo vederne gli effetti. E sempre per questo è vero anche che le «proposte ingannevoli» che si muovono sulla scia del pelagianesimo e dello gnosticismo rappresentano un ostacolo per la chiamata universale a essere santi: esse infatti ripropongono in varie forme l’antico ’inganno pelagiano o quello gnostico: cioè occultano/rimuovonola necessità della grazia di Cristo, oppure svuotano la dinamica reale e gratuita del suo agire. Pelagianesimo: Gesù come “buon esempio” - Sant’Agostino scriveva che l’errore velenoso dei pelagiani del suo tempo era la pretesa di identificare la grazia di Cristo «nel suo esempio, e non nel dono della sua presenza». Per Pelagio, il monaco bretone del V secolo che ha dato il nome a quell’antica eresia, la natura di tutti gli esseri umani non era stata ferita dal peccato di Adamo, e dunque tutti erano sempre in grado di scegliere il bene e evitare il peccato esercitando semplicemente la propria forza di volontà. Per Pelagio Cristo si era incarnato e sacrificato per offrire agli uomini l’aiuto del suo buon esempio, che doveva controbilanciare il “cattivo esempio” fornito da Adamo ed Eva. Cristo andava dunque considerato come un buon esempio, un maestro di vita da seguire per coltivare la propria virtù morale. Ma questo percorso si poteva realizzare contando sulle proprie forze e facendo a meno di Lui, del dono e del soccorso della sua grazia. Su questo punto l’Esortazione Apostolica Gaudete et Exsultate si pone nell’alveo dei tanti pronunciamenti con cui il magistero ecclesiale ha invece sempre ripetuto che nella

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condizione reale in cui si trovano tutti gli esseri umani non si può essere santi e non si può nemmeno vivere una vita giusta sulle orme di Gesù senza l’intervento della grazia di Cristo, senza essere abbracciati in maniera misteriosa ma reale dal suo Spirito. Papa Francesco tra le altre cose cita il secondo Sinodo di Orange, che già nel 529 attestava che «persino il desiderare di essere resi puri nasce in noi per l’operazione dello Spirito Santo». Cita anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, per ricordare che la dottrina della assoluta necessità della grazia dovrebbe essere «una delle grandi convinzioni definitivamente acquisite dalla Chiesa», visto che «attinge al cuore del Vangelo» (55). E invece, occorre fare sempre i conti con manifestazioni dell’atteggiamento pelagiano che si infiltra anche nelle prassi più ordinarie della vita ecclesiale. Quelle legate ad una sorta di pelagianesimo dei devoti, che magari partecipano alle pratiche e agli impegni ecclesiali, dalla liturgia alle attività comunitarie, ma lo fanno come esercizio di affermazione di sé e del proprio gruppo, e non sembrano chiedere e attendere alcun vero dono dalla grazia di Dio. L’Esortazione apostolica riscontra un’impronta pelagiana in tutti quelli che «in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze», e anche quando vogliono mostrarsi fedeli a «un certo stile cattolico» (46), in realtà esprimono «l’idea che tutto dipende dallo sforzo umano» sia pur «incanalato attraverso norme e strutture ecclesiali» (58). Invece il Papa scrive che la chiamata universale alla santità è rivolta a chi riconosce che in ogni passo della vita e della fede c'è bisogno sempre della grazia. Perché – come si legge nel testo - «in questa vita le fragilità umane non sono guarite completamente una volta per tutte dalla grazia» (49). E il lavoro della grazia non rende gli uomini dei superuomini, ma «agisce storicamente e, ordinariamente, ci prende e ci trasforma in modo progressivo» (50). Gnosticismo: “disincarnare” il cristianesimo - Anche l’altra «proposta ingannevole» segnalata dal Papa viene assimilata a un’antica contraffazione della novità cristiana, quella delle antiche dottrine gnostiche che spesso assorbivano parole e verità della fede cristiana nei loro sistemi concettuali, ma nel far questo svuotano dall'interno l’avvenimento cristiano della sua storicità. Per le teorie gnostiche, la salvezza consisteva in un processo di auto-divinizzazione, un cammino di conoscenza in cui il soggetto doveva prendere coscienza del divino che aveva già dentro di sé. Mentre la fede cristiana riconosce che la salvezza e la felicità per gli esseri umani sono un dono gratuito di Dio, che raggiunge l’uomo dall’esterno, da fuori di sé. E riconosce anche che Dio, da quando ha scelto d’incarnarsi, non ha più cambiato metodo. Per questo la sua azione di grazia può raggiungere e continua a raggiungere gli uomini e le donne nel tempo e nello spazio della loro condizione reale, così come sono e lì dove sono. Per questo anche le storie di chi è chiamato alla santità, e pure quelle dei Santi già canonizzati, sono disseminate di fatti, di incontri, di circostanze concrete in cui l’operare della grazia si rende percepibile e tocca e cambia le loro vite. In maniera analoga a quello che accadeva ai primi discepoli di Cristo, che nel Vangelo hanno potuto segnare anche l’ora del loro primo incontro con Gesù. Invece - scrive il Papa - la mentalità gnostica, sceglie sempre la via dei ragionamenti astratti e formali, e così sembra voler dominare, «addomesticare il mistero» (40). E questo, anche nella Chiesa, è il percorso imboccato spesso da chi è impaziente, non attende con umiltà il rivelarsi del mistero, perché - come scrive la Esortazione apostolica - non sopporta il fatto che «Dio ci supera infinitamente, è sempre una sorpresa, e non siamo noi a determinare in quale circostanza storica trovarlo, dal momento che non dipendono da noi il tempo e il luogo e la modalità dell’incontro» (41). L’Esortazione apostolica avverte che uno spirito gnostico può insinuarsi anche oggi nella vita della Chiesa ogni volta che si vuole prescindere dalle fattezze concrete e gratuite con cui opera la grazia, e si prende la via dell’astrazione, che procede «disincarnando il mistero». Ad esempio, ciò accade quando prevale la pretesa di ridurre l’appartenenza ecclesiale a «una serie di ragionamenti e conoscenze» da padroneggiare, (36), o alla «capacità di comprendere la profondità di determinate dottrine» (37). E se il cristianesimo viene ridotto a una serie di messaggi, di idee, fossero pure l’idea di Cristo o l’idea della grazia, a prescindere dal suo operare reale, allora inevitabilmente la missione della Chiesa si riduce a una propaganda, un marketing, cioè alla ricerca di metodi per diffondere quelle idee e convincere altri a sostenerle. L’Esortazione apostolica segnala anche altre tracce della mentalità gnostica che possono trovarsi anche in circoli ecclesiali, come l’elitarismo di chi si sente superiore alle moltitudini dei battezzati, o il disprezzo per gli imperfetti, per quelli che cadono, per

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quelli che gli antichi gnostici avrebbero definito come “i carnali”. Il Papa ricorda che già all’inizio del cristianesimo le correnti gnostiche mostravano disprezzo per la semplicità del Vangelo, e tentavano di sostituire al Dio incarnato «una Unità superiore» (43). Davanti alle “proposte ingannevoli” ispirate al pelagianesimo e alla falsa Gnosi, il Papa esorta a riconoscere gli indizi certi che accompagnano chi cammina sulla buona strada, quella aperta alla vocazione universale alla santità. Ad esempio, il Papa dice che non c’è pericolo di essere cripto-pelagiani e cripto-gnostici quando il cammino è disseminato dei segni delle opere di misericordia e dell’autentica carità, che è una «virtù teologale» e quindi non può essere esercitata per volontarismo, o per frenetico attivismo auto-celebrativo, ma è propria di chi è mosso e attirato dalla grazia in atto. (60/61). Comunque, davanti a questi fenomeni di auto-ripiegamento ecclesiale, L’Esortazione apostolica non inizia battaglie culturali contro neo-gnostici e neo-pelagiani. Il Papa prega che sia il Signore stesso a liberare la Chiesa dalle nuove forme di gnosticismo e di pelagianesimo che possono frenare il cammino di tanti «verso la santità» (62). L’intento dell’intero documento non è certo quello di stigmatizzare nuove forme di pelagianesimo e gnosticismo, ma solo quello di invitare tutti a cercare ogni giorno il volto dei santi disseminati tra il popolo di Dio, e a riconoscerli come segno reale e efficace della presenza e della misericordia di Cristo. Francesco: “Il Maligno, essere personale che ci tormentaˮ di Andrea Tornielli L'esortazione papale sulla santità “Gaudete et exsultateˮ contiene pagine forti sul demonio: «Non pensiamo che sia un mito, un simbolo, una figura o un’idea» Dalle pagine dell'esortazione Gaudete et exsultate sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo emerge la preoccupazione di Francesco per la sottovalutazione della figura di Satana e per quanti lo “derubricanoˮ a figura mitologica, oscurantista o folkloristica. Già più volte, nel corso del pontificato, Papa Bergoglio ha parlato del demonio e della sua azione. Ora nell'esortazione torna a farlo in modo ancora più sistematico. Nel paragrafo 159 Francesco afferma che il cammino quotidiano sulla via della santità non si riduce solamente a «un combattimento contro il mondo e la mentalità mondana, che ci inganna, ci intontisce e ci rende mediocri, senza impegno e senza gioia. Nemmeno si riduce a una lotta contro la propria fragilità e le proprie inclinazioni (ognuno ha la sua: la pigrizia, la lussuria, l’invidia, le gelosie, e così via). È anche una lotta costante contro il diavolo, che è il principe del male. Gesù stesso festeggia le nostre vittorie. Si rallegrava - scrive il Papa - quando i suoi discepoli riuscivano a progredire nell’annuncio del Vangelo, superando l’opposizione del Maligno, ed esultava: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore» (Lc 10,18). Satana dunque non è un mito. Nel paragrafo successivo (160), Bergoglio spiega: «Non ammetteremo l’esistenza del diavolo se ci ostiniamo a guardare la vita solo con criteri empirici e senza una prospettiva soprannaturale. Proprio la convinzione che questo potere maligno è in mezzo a noi, è ciò che ci permette di capire perché a volte il male ha tanta forza distruttiva. È vero che gli autori biblici avevano un bagaglio concettuale limitato per esprimere alcune realtà e che ai tempi di Gesù si poteva confondere, ad esempio, un’epilessia con la possessione demoniaca. Tuttavia, questo non deve portarci a semplificare troppo la realtà affermando che tutti i casi narrati nei vangeli erano malattie psichiche e che in definitiva il demonio non esiste o non agisce. La sua presenza si trova nella prima pagina delle Scritture, che terminano con la vittoria di Dio sul demonio». «Di fatto - continua Francesco - quando Gesù ci ha lasciato il “Padre Nostro” ha voluto che terminiamo chiedendo al Padre che ci liberi dal Maligno. L’espressione che lì si utilizza non si riferisce al male in astratto e la sua traduzione più precisa è “il Malignoˮ. Indica un essere personale che ci tormenta. Gesù ci ha insegnato a chiedere ogni giorno questa liberazione perché il suo potere non ci domini». Ecco dunque l'insegnamento che il Papa ne trae (161): «Non pensiamo che sia un mito, una rappresentazione, un simbolo, una figura o un’idea. Tale inganno ci porta ad abbassare la guardia, a trascurarci e a rimanere più esposti. Lui non ha bisogno di possederci. Ci avvelena con l’odio, con la tristezza, con l’invidia, con i vizi. E così, mentre riduciamo le difese, lui ne approfitta per distruggere la nostra vita, le nostre famiglie e le nostre comunità, perché “come leone ruggente va in giro cercando chi divorareˮ (1 Pt 5,8)». L'invito che il Pontefice fa è quello di essere «svegli e fiduciosi» (162): «La Parola di Dio

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ci invita esplicitamente a “resistere alle insidie del diavoloˮ (Ef 6,11) e a fermare “tutte le frecce infuocate del malignoˮ (Ef 6,16). Non sono parole poetiche, perché anche il nostro cammino verso la santità è una lotta costante. Chi non voglia riconoscerlo si vedrà esposto al fallimento o alla mediocrità». Per il combattimento, spiega ancora Francesco, «abbiamo le potenti armi che il Signore ci dà: la fede che si esprime nella preghiera, la meditazione della Parola di Dio, la celebrazione della messa, l’adorazione eucaristica, la riconciliazione sacramentale, le opere di carità, la vita comunitaria, l’impegno missionario. Se ci trascuriamo ci sedurranno facilmente le false promesse del male, perché, come diceva il santo sacerdote Brochero: “Che importa che Lucifero prometta di liberarvi e anzi vi getti in mezzo a tutti i suoi beni, se sono beni ingannevoli, se sono beni avvelenati?ˮ». Infine, Papa Bergoglio ricorda che in questo cammino «lo sviluppo del bene, la maturazione spirituale e la crescita dell’amore sono il miglior contrappeso nei confronti del male» (163). Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 24 Abbiamo pochi laureati ma quel titolo è ancora importante di Roger Abravanel La cattiva notizia dell’ultima statistica Eurostat è che ci sono sempre meno iscritti all’università in Italia, confermando che i giovani pensano che la laurea serva a poco per il successo professionale. Sbagliano perché la laurea conviene ancora, solo che bisogna prendere quella più utile (ingegneria, economia), nelle migliori università, possibilmente laurearsi senza andare fuori corso e avere lavorato durante gli studi. Quando ci si laurea in una università mediocre, in facoltà non troppo utili e a 28 anni, senza avere mai lavorato, trovare un impiego è difficile. Ma nelle statistiche Eurostat c’è anche una buona notizia: aumentano le donne iscritte e laureate. Questo è un bene perché riduce il gap di genere nel nostro Paese. Non vorrei però che si trattasse solo di un’ulteriore conferma della capacità femminile di studiare e del desiderio di usare la laurea soprattutto come affermazione sociale. Visto che al potere politico ed economico continuano ad andare i maschi che spesso non hanno neanche bisogno della laurea. E le recenti elezioni sembrano rafforzare quest’idea. La politica del passato ha spinto per il «diritto allo studio» («Liberi e uguali» voleva l’università gratuita) mentre ci vorrebbe il «diritto al lavoro»: si laureano i figli dei ricchi perché i poveri non hanno la certezza del lavoro e, con le proprie tasse, pagano le lauree dei ricchi. Ciò non ha mai fatto nascere una seria riforma della università: riconoscere più autonomia a poche università di élite che competono a livello internazionale per finanziamenti privati e controllare più strettamente la didattica di università di «massa» totalmente pubbliche e molto più meritocratiche di oggi. Cosa farà la nuova politica per la quale la laurea non sembra essere un prerequisito per il successo? Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXXI Referendum separazione. Ecco perché non si voterà di Ennio Fortuna Nessuno quasi ne parla più, ma è ancora in piedi il problema per il referendum indetto per la separazione di Mestre da Venezia.In realtà,se si tiene conto delle ultime novità,non si può non concludere che ben difficilmente si voterà. Nella pluriennale contesa è sceso infatti in campo un ingombrante protagonista. Il ricorso del governo alla Corte Costituzionale contro il referendum separatista può essere definito come decisivo,anche se i separatisti protestano. E' decisivo perché,se accolto,come il buon senso lascia prevedere, toglie ogni spazio possibile alle speranze degli autonomisti mestrini e del centro storico. Infatti il ricorso mira ad eliminare dalla radice ogni

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competenza regionale in materia di divisione di comuni che siano anche capoluoghi di città metropolitane come è Venezia,lasciando in piedi la sola legge Del Rio che però esige l'iniziativa, che non c'è, del Consiglio Comunale del capoluogo e riserva il voto a tutti gli elettori della ex Provincia, attuale città metropolitana. Il referendum è stato invece indetto nell'ambito delle leggi regionali sulla divisione dei comuni dalla Giunta Regionale dopo il voto di meritevolezza del Consiglio. Verrebbe quindi meno la base stessa del voto popolare e il TAR cui si sono rivolti il Comune capoluogo e la città metropolitana sollecitando l'annullamento della decisione dovrà prendere atto della sentenza della Corte e intanto sospendere il giudizio che sarebbe comunque travolto dall'eventuale accoglimento del ricorso del governo. In pratica la priorità logica è certamente della Corte Costituzionale che deciderà direttamente su quale sia la legge applicabile, se la Del Rio,come sostiene il governo nazionale oppure la legge regionale sulla divisione dei comuni come replicano i separatisti. Ho già più volte spiegato le ragioni che secondo me privilegiano la legge Del Rio, perché ultima nel tempo e speciale perché si riferisce ai soli comuni capoluoghi di città metropolitane,e non le ripeterò. Oltre tutto se così non fosse,e se anche alle modificazioni territoriali delle città metropolitane si applicasse la legge regionale,nessuno sarebbe più in grado di indicare un solo caso di applicabilità della Del Rio che rimarrebbe la sola legge del nostro ordinamento del tutto inutile e inapplicabile. Non si capirebbe la ragione per cui sia stata approvata. Purtroppo, come ho già avuto modo di dire, i separatisti,qualunque sarà la sentenza, continueranno ad insistere e, in un certo senso, è comprensibile che sia così. In democrazia c'è e ci deve essere spazio per tutte le idee, ancorché non sostenibili alla luce della ragione, ma dopo la sentenza della Corte, che prevedo favorevole al governo, dovranno necessariamente convogliare i loro argomenti e le loro richieste nel senso di convincere il Consiglio Comunale,oggi decisamente contrario,a promuovere una divisione territoriale a mio giudizio assolutamente sconsigliabile e deleteria per i destini della città. CORRIERE DEL VENETO Pag 9 Venezia città “Green”. Tra due anni nei canali solo con motori elettrici di Benedetta Leardini Ca’ Farsetti prepara la Ztl. Brugnaro: ma i costi devono scendere Venezia. Nei canali di Venezia solo con motori elettrici. L’orizzonte temporale è ampio, due anni, forse tre, ma per la prima volta Ca’ Farsetti lavora alla creazione di una zona a traffico limitato che comprenda il Canal Grande e tutte le principali «vie» della città. Lo hanno annunciato ieri il sindaco Luigi Brugnaro e l’assessore alla mobilità e ai trasporti Renato Boraso, durante un convegno sulle tecnologie «Green» in campo marittimo organizzato da Assonautica, all’isola della Certosa. Nel 2020, massimo 2021, per percorrere il rio Novo, il rio di Noale, il canale della Giudecca, il rio dei Greci e il Canal Grande sarà obbligatorio avere un motore elettrico o, nel caso di sistema ibrido, attivare la modalità elettrica. «In caso contrario vaporetti, taxi e barche da lavoro - spiega Boraso - dovranno fare il giro». L’obiettivo è rendere il traffico a Venezia sempre più sostenibile e dunque ridurre il moto ondoso, l’inquinamento atmosferico e l’inquinamento acustico: tutti fattori che vengono quasi azzerati con l’utilizzo del sistema a propulsione elettrica. A Venezia, ha ricordato il presidente di Assonautica Roberto Magliocco, la qualità dell’aria è pari a quella di Mestre per quanto riguarda i dati sulle polveri sottili. L’ordinanza sarà realtà entro 24-36 mesi, durante i quali bisognerà trovare un accordo con le associazioni di categoria. «Vogliamo che sia un provvedimento condiviso» ha sottolineato l’assessore Boraso. I tempi sono lunghi soprattutto a causa dello sforzo economico richiesto alle aziende dei trasporti. Il Comune infatti non ha fondi da spendere in incentivi e le aziende saranno da sole a sostenere i costi del passaggio a una tecnologia green. Per esempio utilizzando la tecnologia Transfluid, presentata ieri alla Certosa, il costo stimato per trasformare un taxi in un mezzo ibrido è di 30mila euro, che salgono a 40mila per un mototopo. Il sistema ibrido permette di accumulare energia elettrica (e quindi di ricaricare la batteria), mentre viene utilizzata la modalità diesel. Transfluid stima un risparmio in carburante del 27 per cento al giorno, che si traduce in 12 chili di anidride carbonica in meno. Il sindaco Luigi Brugnaro ha invitato le associazioni di categoria e i trasportatori ad investire sull’innovazione, ma ha lanciato la sfida all’industria per vendere a prezzi più competitivi. «Il vantaggio starà nel fatto che

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quando la tecnologia sarà disponibile e le categorie diranno che il prezzo è sostenibile - ha assicurato Brugnaro - il Comune potrà adottare dei provvedimenti che limitino la circolazione dei mezzi non elettrici». Parallelamente, si spera nell’aiuto dei fondi europei, che ad Amsterdam per esempio hanno finanziato la realizzazione di un sistema di mobilità acquea sostenibile. Le società che sfruttano sistemi ibridi o esclusivamente elettrici sono già presenti in laguna: sia per quanto riguarda il trasporto di persone (hanno mezzi così Alilaguna, il Consorzio Serenissima, Il Sestante per fare escursioni), sia per il trasporto merci (come il Cantiere Amadi, Laguna Trasporti e DHL). A Chioggia invece sono i carabinieri ad utilizzare imbarcazioni green: «Entro sei mesi ci sarà il varo della prima motovedetta ibrida – ha spiegato il capitano di corvetta Roberto Michelutti, capo della seconda sezione navale del comando provinciale di Venezia dei Carabinieri – e nei prossimi dieci anni abbiamo programmato la motorizzazione ibrida di una quarantina di mezzi della flotta». Per quanto riguarda il trasporto su strada, l’assessore Boraso annuncia che entro due anni la totalità degli autobus in servizio al Lido e a Pellestrina saranno elettrici . LA NUOVA Pagg 2 – 3 Limiti di stazza e di velocità. Grandi navi, a luglio si cambia di Alberto Vitucci ed Enrico Tantucci Comitati ancora prudenti: “Vediamo come funziona” Venezia. Le grandi navi potranno passare per San Marco «fino alla formale accertata disponibilità di vie di navigazione praticabili alternative», anche se superiori alle 40 mila tonnellate. Ma dovranno rispettare parametri di modernità e sicurezza ricavabili con una sorta di algoritmo che comprende il dislocamento, la larghezza, l'altezza e la superficie laterale della nave. Divieti per ora piuttosto «morbidi», che saranno inaspriti a partire dal marzo del 2019. È stata pubblicata ieri l'ordinanza della Capitaneria di porto sui transiti delle grandi navi in bacino San Marco e canale della Giudecca. Provvedimento atteso da tempo, sollecitato dall'ultimo Comitatone del novembre scorso. Servirà per disciplinare i passaggi delle navi in attesa della soluzione alternativa, invano annunciata sei anni fa dal famoso decreto Clini-Passera. «Non è una cosa eclatante, ma un segnale che fa capire agli armatori che lo Stato ha intrapreso una strada di controlli e regole precise», commenta l'ammiraglio Goffredo Bon, il comandante della Capitaneria di porto che ha firmato ieri il provvedimento, «e che dà parametri precisi a cui attenersi». «Fino ad oggi», aggiunge, «tutto era lasciato alla volontarietà delle compagnie. Oggi abbiamo uno strumento. Per questa stagione non ci saranno rivoluzioni. Ma dal 2019 i parametri saranno più restrittivi».Cosa succederà adesso? La nuova ordinanza va in vigore dal 1 luglio. Restringe l'accesso a San Marco alle navi superiori alle 40 mila tonnellate. Concedendo però molte deroghe. Tanto le tre ammiraglie di Msc e Costa potranno tranquillamente entrare anche dopo il 1 luglio. «È consentito l'accesso alle unità navali di stazza lorda superiore alle 40 mila tonnellate», recita l'articolo 1, «solo ed esclusivamente ove rientranti nei limiti dimensionali espressi dai valori soglia del fattore tecnico-costruttivo denominato Module d'armamento (EN)». Una sorta di equazione, ai più incomprensibile, che deve portare il prodotto dei valori al numero soglia di 6.600 per il periodo fino al 28 febbraio 2019. In seguito 6.300, dunque con parametri più restrittivi. Sono previsti anche degli «sconti» che possono fare abbassare il valore EN. Come l'adesione all'accordo Blue Flag, i propulsori più moderni alimentati a Gnl e i sistemi di sicurezza. In questo modo il valore soglia si abbassa notevolmente. L'ordinanza esplicita anche la «Formula di calcolo» del moduli d'armamento: EN= D alla 2/3+2hB+0,1A. Dove D sta per dislocamento, B per la larghezza della nave, h per l'altezza dalla linea di galleggiamento al punto più alto della nave; A infine l'area laterale dello scafo in metri quadrati. Non si considererà più soltanto la stazza e il tonnellaggio, spiegano alla Capitaneria gli ufficiali Conte e Marilli, autori del provvedimento tecnico, «ma una serie di altri fattori». Gli altri articoli dell'ordinanza transitoria prevedono anche l'utilizzo dei due rimorchiatori. « di cui quello a poppavia dovrà avere «potenza di tiro superiore alle 35 tonnellate», utilizzando un carburante a basso tenore di zolfo. Vengono introdotti anche (articolo 4) limiti di velocità fissi. Otto nodi dalle bocche di porto di Lido al Forte di Sant'Andrea e viceversa, 6 nodi per la navigazione dal Forte di Sant'Andrea alla Stazione Marittima. Limiti che potranno essere superati soltanto in caso di

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«condizione meteomarine avverse».Restano valide le altre ordinanze che prevedono tra l'altro l'obbligo del secondo pilota a bordo per le navi passeggeri superiori alle 40 mila tonnellate; l'obbligo del secondo rimorchiatore, la distanza tra unità in navigazione «non inferiore a 0,7 miglia nautiche e 2 miglia nautiche per la navi superiori a 40 mila tonnellate»; l'intervallo di partenza dagli ormeggi delle navi «non inferiore a 15 minuti». Le infrazioni all'ordinanza (articolo 7) saranno punite anche in sede penale, per la violazione agli articoli 1174 e 1231 del Codice della Navigazione. Un'ordinanza «transitoria», messa a punto con l'intesa tra Capitaneria e Provveditorato alle Opere pubbliche insieme all'Autorità portuale, con il contributo del Rina e dei Piloti, dopo una serie di rilievi batimetrici e simulazioni effettuate sul transito delle navi tra Riva Sette Martiri e la Salute il 12 dicembre scorso. Sulla base degli studi un gruppo tecnico di lavoro formato a metà 2017. Si parte dal 1 luglio. Grandi navi a Marghera, in canale Industriale Nord, sponda Nord. Stop al Vittorio Emanuele, per cui vanno fatti ulteriori studi per risolvere le criticità degli scavi e analizzarne i rischi. Centralità della esistente Stazione Marittima, ma solo per le navi «medio-piccole». Sono stati questi gli orientamenti del Comitatone del novembre scorso a Roma, che ha indicato, nel suo verbale finale, un possibile percorso alternativo al passaggio delle Grandi Navi dal Bacino di San Marco, ma senza una vera decisione. Adesso toccherà al nuovo o stilare il cronoprogramma dei lavori, all'Autorità portuale fare gli approfondimenti, alla Capitaneria di porto emettere un'ordinanza per disciplinare il transito delle navi in canale della Giudecca. Solo questo terzo passaggio è da ieri operativo, Resta il limite delle 96 mila tonnellate, vincolato alla modernità di scafi e motori, alla sicurezza, a un pescaggio ridotto e ai filtri non inquinanti. Venezia. C'è cautela, anche da parte dei Comitati No Grandi Navi e Ambiente Venezia, nel valutare l'attesa ordinanza della Capitaneria di Porto emessa ieri che ha fissato i nuovi criteri per il passaggio delle Grandi Navi nel Bacino di San Marco, con un algoritmo che prendendo in esame i vari valori di impatto, stabilirà quali navi da crociera potranno continuare a transitare in laguna dal prossimo primo luglio.«Studieremo bene l'ordinanza della Capitaneria» commenta Luciano Mazzolin di Ambiente Venezia, «anche per capire bene come sarà applicato questo algoritmo e quali saranno gli effetti sui passaggi delle Grandi Navi, ma in linea di principio non siamo contrari perché, da quanto ci ha spiegato la stessa Capitaneria quando l'abbiamo incontrata, ci dovrebbe essere un'effettiva limitazione dei passaggi». Nel documento già presentato dai Comitati No Grandi Navi alla Capitaneria prima dell'emissione dell'ordinanza, c'era la richiesta di non ridurre non soltanto le stazze. Ma anche il numero dei passaggi in Bacino, degli accosti. E poi l'inquinamento e la velocità. Le navi autorizzate al passaggio dovranno essere di stazza lorda inferiore alle 96 mila tonnellate. «Ma come prevede il decreto si dovrà andare scalando», si legge nel documento dei Comitato. «Bisognerà anche fare in modo di ridurre gli effetti negativi del dislocamento, sia in termini giornalieri che annuali fin dalla bocca di Lido. La nuova normativa per il passaggio delle Grandi Navi era stata in qualche modo anticipata anche alla Clia, l'associazione che riunisce le compagnie di crociera e condivisa anche con l'Autorità Portuale di Venezia e la stessa Vtp, la società Venezia Terminal Passeggeri, che ha più volte insistito sul fatto che il tonnellaggio non fosse l'unico parametro per stabilire quali fossero le navi da crociera ammesse a sbarcare alla Marittima o a partire dal terminal crocieristico veneziano. come avverrà nei prossimi mesi con la ripresa della stagione. Il limite di 96 mila tonnellate per il passaggio delle Grandi Navi, attuato fino ad oggi, arrivava da una forma di autoregolamentazione accettata dalle compagnie di crociera ma non imposta ad esse. Sempre in attesa di arrivare alla definizione definitiva di una via alternativa al passaggio delle Grandi Navi rispetto a San Marco. Le due soluzioni del nuovo terminal a Marghera e dello scavo del canale Vittorio Emanuele, pure portate all'attenzione dell'ultimo Comitatone e in qualche modo recepite nel verbale finale della seduta del Comitato interministeriale per la salvaguardia di Venezia, non sono di fatto ancora state sancite. Starà quindi al nuovo Governo, se e quando si formerà, riprendere in mano la questione del tracciato delle navi da crociera per arrivare a una decisione definitiva e probabilmente a un nuovo decreto, dopo il Clini-Passera, di fatto ormai superato. Ma ci sarà ancora da aspettare e

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nel frattempo l'unica «legge» sul passaggio delle navi da crociera da San Marco sarà appunto l'ordinanza della Capitaneria di Porto emessa ieri. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 1 Padova, quei selfie nel vuoto in bilico sul grattacielo di Marina Lacchin Minorenni affamati di like sui social sfidano la morte. Li troviamo nelle foto su Instagram a strapiombo sulla tangenziale, mentre guardano l'orizzonte seduti su una bassa e instabile balaustra di legno, annerita dagli anni e dalle intemperie. Basterebbero un passo falso, un'asse marcia o una banale distrazione per trasformare la bravata in tragedia: un volo di oltre 70 metri non lascerebbe scampo. Protagonisti degli scatti, stavolta, sono quattro ragazzi padovani tra i 16 e i 17 anni: hanno voluto provare il brivido delle foto tra cielo e vuoto che tanto vanno di moda sui social network. Così sono saliti fino all'ultimo piano dell'Onda Palace, il grattacielo di 18 piani incompiuto e abbandonato da tempo nella zona industriale della città del Santo. Armati di cellulare e maschere di Anonymous hanno realizzato un servizio fotografico, completo anche di video da pubblicare poi su Instagram. Una guardia giurata, però, li ha scoperti e ha allertato la centrale operativa del 113. Quando gli agenti delle Volanti sono arrivati sul posto, li hanno pizzicati ancora nel grattacielo: sono stati tutti e quattro denunciati per procurato allarme e invasione di edifici. Uno dei quattro era già finito nei guai nel dicembre scorso per lo stesso motivo, protagonista di altri selfie tra cielo e vuoto con l'Onda Palace sempre come set. Il giovane è stato anche trovato in possesso di una patente contraffatta: aveva riprodotto quella del padre, cambiando la foto con la propria. Così ha rimediato un'ulteriore denuncia per falso materiale. LA BRAVATA - Erano circa le 17 di domenica quando la guardia giurata in servizio nella zona ha notato i quattro ragazzini all'interno del palazzo. D'altro canto i giovani non sono stati molto discreti nella loro impresa. Nel video, che uno di loro ha pubblicato nella sezione stories del proprio profilo Instagram, si vedono due dei protagonisti mentre ballano sulle note di Billie Jean di Michael Jackson, mimando anche la mossa del re del pop, indossando la maschera dal volto bianco e sorriso beffardo di Guy Fawkes. Sul lato destro si intravede il braccio del terzo, mentre il quarto riprendeva. Sullo sfondo la tangenziale di Padova e la sua zona industriale. A dividere i quattro minorenni dal vuoto, solamente una bassa balaustra realizzata da due assi di legno, logorate dagli anni e dalle intemperie. Poi i giovani si sono messi in posa per gli scatti: sguardo verso l'orizzonte seduti a strapiombo sul nulla. Nelle didascalie delle foto pubblicate sul social network, tutta la consapevolezza del pericolo che stanno correndo: «Non ho paura della morte. Ho soltanto paura di non riuscire a vivere abbastanza per ciò che voglio» scrive uno dei ragazzini. LA MODA - La pericolosa moda dei selfie tra cielo e vuoto ha già causato delle vittime, portando la morte anche uno dei suoi più illustri protagonisti, Wu Yongning, free climber cinese, precipitato da un palazzo di 62 piani nella città di Changsha. «Nell'età dell'adolescenza c'è una coscienza minore del pericolo, quindi è più facile che avvengano manifestazioni di questo tipo» spiega Alberto Turolla, psicoanalista e psicoterapeuta, che da anni analizza i comportamenti dei minori e il loro rapporto con le nuove tecnologie. Un'altra chiave di lettura va ricercata nella società in cui viviamo «dove apparire è per molti ragazzi la cosa più importante». I primi a non conoscere quello che combinano i propri figli, persi nelle pericolose mode dei social da cui loro sono così distanti, sono i genitori. La mamma di uno dei quattro minorenni denunciati a Padova, preoccupata per il futuro del figlio e arrabbiata, taglia corto: «Hanno fatto una stupidaggine, ma non possono restare rovinati da una cosa del genere». D'altro canto la denuncia passa in sordina se si pensa al rischio che i ragazzini hanno corso. I suoi occhi di mamma si sono riempiti d'orrore vedendo le foto e i video del figlio e degli amici: per lei il pericolo che hanno corso i quattro è lampante. I PRECEDENTI - Nel Padovano è lunga la scia di bravate di questo genere. A settembre all'interno dell'Interporto un giovane è salito sul locomotore di un treno merci per

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scattarsi una foto e ha rischiato di rimanere folgorato. È rimasto per alcuni giorni ricoverato in ospedale in gravi condizioni, e ha pagato una salata multa per l'accesso ad un'area interdetta. Altri esempi sono gli scatti sul tetto dell'ex seminario di Tencarola e i selfie sui binari a Stanghella. Un'altra sfida mortale è quella di correre in mezzo alla strada schivando le auto. I selfie sui binari sono un fenomeno diffuso e preoccupante, come conferma Ferrovie dello Stato: «I macchinisti prestano massima attenzione e sono in costante contatto con la Polfer. È molto pericoloso per questi giovani, ma non solo per loro. Brutte conseguenze possono esserci, in caso di brusca frenata, anche per chi viaggia in treno». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La sinistra e i diritti degli amici di Paolo Mieli Il caso Lula Adesso che si è consegnato alla giustizia del proprio Paese, nella sede di polizia di Curitiba, vale la pena di soffermarci a riflettere sulle modalità con le quali il settantaduenne Luiz Inacio Lula da Silva, ex operaio, sindacalista e infine Presidente del Brasile dal 2003 al 2011, si è reso disponibile a scontare la condanna a dodici anni di carcere (per corruzione e riciclaggio) inflittagli da due sentenze. Per cominciare, però, vanno messe in chiaro due o tre cose. La prima: non è venuta alla luce una prova definitiva e incontrovertibile del fatto che all’ex presidente sia stato regalato un superattico su tre piani con piscina, terrazza e strepitosa vista sul mare come vorrebbe il capo d’imputazione di Sergio Moro, titolare dell’inchiesta «Lava Jato» («autolavaggio»), una «Mani pulite» in versione brasiliana. Esistono, però, un contratto d’acquisto firmato nel 2005 dalla moglie di Lula, Marisa Leticia, e ritrovato nella loro casa; fotografie che documentano sue ispezioni ai lavori di ristrutturazione dell’appartamento; testimonianze unanimi del portiere dello stabile, dei vicini, degli operai secondo i quali Lula e la moglie si comportavano, in tutto e per tutto, come se fossero i «padroni di casa». Ed esistono altresì molteplici indizi che, stando alle sentenze, dimostrano come anche i lavori di ristrutturazione del favoloso appartamento fossero a carico dei corruttori, riconducibili alla compagnia petrolifera Petrobras. Secondo punto: il processo, a detta dei difensori di Lula, è stato molto più veloce di altri dallo stesso impianto. Terzo punto: il prossimo ottobre si terranno in Brasile le elezioni presidenziali e Lula, stando ai sondaggi, godrebbe di un vantaggio di circa venti punti sui suoi competitori. Talché può essere presa in considerazione l’ipotesi di un complotto per impedirgli di essere eletto. Cospirazione ordita dai suoi avversari politici e da non meglio identificati poteri economici. Questo almeno è quel che affermano i suoi sostenitori, prima tra tutti Dilma Rousseff, la donna che ne ha raccolto l’eredità, ha guidato il Brasile dopo di lui (2011-2016), ha provato a sottrarre Lula alla giustizia con un escamotage (nominandolo ministro) e alla fine, due anni fa, è stata anche lei travolta dal Parlamento con l’accusa di aver truccato i dati del deficit del bilancio pubblico. Per essere poi destituita. Ma veniamo alle modalità con le quali Lula si è consegnato alla giustizia. Dapprima l’ex presidente si è rifugiato per alcuni giorni nella sede del «suo» sindacato a Sao Bernardo do Campo in attesa che quelli che lo sostengono si radunassero attorno all’edificio. Poi ha avviato una trattativa con le autorità, politica e giudiziaria, per ottenere un volo privato che lo portasse al luogo predisposto per la detenzione e una sistemazione carceraria più confortevole di quella prevista per gli altri detenuti. Faceva questo, sosteneva, per tranquillizzare i suoi seguaci e «prevenire i disordini» che avrebbero potuto verificarsi in caso di suo arresto «manu militari». Ottenute le due cose, Lula ha lasciato scadere, senza onorare l’impegno a consegnarsi, i termini ordinari per l’esecuzione della sentenza e ha ottenuto un giorno di permesso in più per la celebrazione, in sua presenza, di una funzione religiosa in ricordo della moglie, la Marisa Leticia di cui si è detto, scomparsa un anno fa. Tempo che gli è stato concesso sicché ha potuto aver luogo quella che Rocco Cotroneo su queste pagine ha descritto come «una cerimonia che assomigliava vagamente a una messa con preghiere e canzoni amate

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dall’ex primeira dama celebrata da don Angelico Sandalo Bernardino «già vescovo, compagno di strada del partito di Lula». E mentre il prete «parlava a vuoto» (proseguiva Cotroneo), l’ex presidente abbracciava le persone che salivano sul palco, salutava a pugno chiuso, leggeva ad alta voce i bigliettini che gli venivano consegnati. Finché prendeva lui stesso la parola e per un’ora abbondante arringava la folla contro gli orditori della congiura ai suoi danni: «Hanno voluto togliere di mezzo l’unico Presidente senza titolo scolastico, colui ha fatto di più per i poveri di questo Paese», ha gridato. Finita la «messa», ha annunciato che avrebbe voluto assistere alla partita di calcio tra le squadre del Palmeiras e del Corinthians e qui sono stati i suoi stessi avvocati a fargli presente che sarebbe stato più saggio consegnarsi all’autorità. Cosa che lui ha fatto tra ali di folla che, senza essere scoraggiate, lo imploravano di «resistere», di «non consegnarsi». Nel frattempo il Movimento Sem Terra paralizzava, bruciando copertoni, trentasette autostrade in tutto il Paese e il suo leader, Joao Pedro Stedile annunciava che il loro beniamino «verrà liberato da grandi manifestazioni di massa». Lula è un personaggio fuori dal comune, amatissimo dal «suo popolo» e chi conosce anche superficialmente l’America Latina non può stupirsi del modo con cui i suoi seguaci hanno ritenuto di testimoniargli affetto. Stupisce, semmai, che qui in Europa ciò che è accaduto sia stato trattato alla stregua di un episodio folkloristico, privo di qualsiasi implicazione politica. In Italia poi, la sinistra - nelle ore in cui era dilaniata sul tema se accettare o meno le profferte di Luigi Di Maio - per qualche ora ha sospeso le ostilità fratricide e si è «riunificata» per firmare un impegnativo manifesto pro Lula. In esso si poteva leggere che, non essendo «emerse a suo carico prove tali da dimostrare che egli si sia appropriato di risorse pubbliche o abbia ricattato imprese per ottenere benefici personali», era da biasimare il fatto che venisse incarcerato (pur se si riconosceva essere ciò avvenuto in osservanza di specifiche norme). A leggere tra le righe, un’esibizione di certezza - da parte dei firmatari - circa l’inconsistenza delle prove a carico di Lula e una implicita pesantissima accusa nei confronti dei magistrati brasiliani. Il documento esprimeva poi «grande preoccupazione e un vero e proprio allarme per il rischio che la competizione elettorale in un grande Paese come il Brasile venga distorta e avvelenata da azioni giudiziarie che potrebbero impedire impropriamente a uno dei protagonisti di prendervi parte liberamente». Praticamente quei magistrati o quantomeno le loro «azioni giudiziarie» venivano accusati di aver «avvelenato» la vita politica del Brasile in combutta, si presume, con i nemici del Partido dos Trabalhadores. Firmato, tra gli altri, da Romano Prodi, Massimo D’Alema, Piero Fassino, Susanna Camusso, Pier Luigi Bersani, Lia Quartapelle, Vasco Errani, Guglielmo Epifani. Ora, a nessuno dei sottoscrittori può essere sfuggita qualche assonanza tra quel che in quella loro pagina si scrive a favore di Lula e ciò che qui in Italia negli ultimi trent’anni è stato detto e scritto da avversari della sinistra a proposito di «competizioni elettorali» distorte per effetto di azioni giudiziarie. Siamo altresì certi che ognuno dei firmatari in passato ha sostenuto che le sentenze della magistratura - a meno che non siano state emesse da tribunali speciali di un qualche regime - vanno sempre e comunque rispettate. Anche quando si nutre qualche dubbio sul merito delle decisioni e sull’operato dei giudici. Cosa peraltro non infrequente tra gli imputati. Avranno sostenuto anche, Prodi e gli altri, che la solidarietà di appartenenza non dovrebbe modificare il giudizio, neanche nel caso in cui un atto giudiziario modifichi i termini della competizione politica (ciò che qui da noi è capitato più di una volta). E cosa è cambiato adesso? Quando tocca a uno dei «nostri» valgono criteri diversi? Quel manifesto, diciamolo, sarebbe stato un atto davvero rilevante se, invece che essere stato steso a favore di una personalità della propria «famiglia», fosse stato redatto per difendere i diritti di un politico del campo avverso. In questo caso, apporre quella firma, sarebbe stato un modo per dimostrare che, per gli autorevolissimi sottoscrittori, i principi valgono più di ogni spirito familistico di appartenenza. Sarà per un’altra volta. Pag 3 Quando è necessario mostrare la foto di un bimbo che muore di Beppe Severgnini Si può pubblicare la foto di un bambino siriano dopo un attacco chimico? Si può. In qualche caso, si deve. È la nostra risposta angosciata, e non potrebbe essere altrimenti. Non c’è giornale, televisione o sito d’informazione che non si sia posto il problema, in

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queste ore. L’attacco chimico a Douma, nella periferia orientale di Damasco, non ha risvegliato solo governi cinici e presidenti superficiali. I gas del regime contro i civili nei rifugi - l’ultima vergogna di una serie iniziata nel 2013 - hanno svegliato anche le coscienze nelle redazioni in tutto il mondo. Le immagini sono arrivate, anche quelle delle piccole vittime: mostriamo tutto, mostriamo qualcosa, non mostriamo nulla? La scelta si ripresenta con orrenda periodicità. Ricordo che, al Corriere , ci siamo trovati davanti allo stesso angoscioso dilemma dopo la strage nella scuola di Beslan, in Ossezia, nel 2004; quando Alan, tre anni, un bambino siriano di etnia curda che fuggiva con la famiglia da Kobane, è stato trovato morto sulla spiaggia di Bodrum in Turchia nel 2015; dopo gli attacchi terroristici sul lungomare di Nizza nel 2016 e sulla Rambla di Barcellona nel 2017. La scelta di mostrare tutto è difficile: può urtare la sensibilità di alcuni lettori/utenti, ma non può esistere il sospetto che sia un modo di speculare sui minori. Se qualcuno pensasse che un giornale pubblica certe foto per suscitare curiosità morbosa è fuori strada. Nei media abbiamo molte colpe - anche quella di indulgere sul crimine, soprattutto in televisione - ma non questa. La fotografia di un bambino morente è uno strazio. Per chi ha scattato la foto, per chi la pubblica, per chi la vedrà. Ma questa sofferenza non è inutile. È il passaggio obbligato verso una soluzione dei conflitti, che passano dal coinvolgimento dell’opinione pubblica. Pochi ricordano il nome di Kim Phúc, ma quasi tutti ricordano la sua immagine. Aveva nove anni quando, l’8 giugno 1972, venne fotografata mentre scappava, nuda e in lacrime, dopo un attacco al napalm a Trang Bang, un villaggio vicino Saigon, in Vietnam. La foto venne scattata da Nick Ut della Associated Press e vinse il premio Pulitzer. Il fotografo ha seguito Phuc anche durante gli interventi e le cure per guarire dalle ustioni. Se la guerra del Vietnam è finita un po’ prima, se altri bambini non sono morti, è anche a causa di quella foto, che sconvolse l’America. Quindi, con dolore, diciamo: le foto dei bambini siriani vittime del gas vanno pubblicate. Spiega l’avvocato Caterina Malavenda, che ha studiato a lungo la materia: «Il principio della legge è chiaro: i volti dei minori che soffrono non si possono mostrare. Ma un caso come questo è del tutto eccezionale. Le foto non arrecano alcun danno ulteriore a quei poveri bambini, hanno un impatto emotivo più forte di mille parole, e potrebbero contribuire alla fine dell’orrore di questa guerra». Un riassunto impeccabile di una situazione insopportabile. Speriamo di non dovervi mostrare mai più certe immagini. Vuol dire che nessuno avrà usato di nuovo un’arma chimica. È quello per cui tutti preghiamo. Pag 5 Il ping pong dei “vincitori”, tra veti esibiti in pubblico e aperture coltivate in segreto di Massimo Franco Lega e M5S rassegnati a tempi lunghi e senza certezze Il tentativo di archiviare gli equilibri del passato rimane forte: almeno quanto la difficoltà di riuscirci. E il modo in cui Luigi Di Maio e Matteo Salvini si muovono riflette il potere e i limiti del mandato elettorale ricevuto il 4 marzo. Contano di fare un governo insieme, ma le condizioni politiche, i numeri e il tempo non bastano a perfezionare il loro «contratto». Anzi, in apparenza sembrano allontanarlo. Nell’impazienza e nei timori che si avvertono nel Movimento 5 Stelle, traspaiono l’incertezza per una soluzione ancora sfuggente. Per quanto soddisfatti per la giornata in memoria di Gianroberto Casaleggio a Ivrea, i seguaci di Beppe Grillo appaiono ipersensibili. È bastato il vertice del centrodestra ad Arcore, da Silvio Berlusconi, per metterli in allarme. Già avevano borbottato per la scelta di Matteo Salvini di andare con Giorgia Meloni nella residenza del fondatore di Forza Italia. Suonava come la replica di un film vecchio di vent’anni; una concessione eccessiva del leader leghista e del centrodestra a un primato berlusconiano smentito dagli elettori; e soprattutto la conferma che il Carroccio non riesce a staccarsi dall’alleato di sempre. Poi c’è stato il comunicato che parlava di unità e di Salvini candidato premier; e l’irritazione è cresciuta. Solo quando, poche ore dopo, Salvini si è smarcato dal documento diramato dopo quel vertice, Di Maio e i suoi hanno ripreso a pensare che un accordo sia possibile. È significativo che per le nuove consultazioni al Quirinale, probabilmente giovedì e venerdì, non sia stato ancora fissato l’ordine col quale i partiti saranno ricevuti. Potrebbe cambiare, o forse no: si saprà nelle prossime ore. Il fatto che il centrodestra si presenterà unito, non più diviso, non lo «promuove» automaticamente a primo partito. Dunque, il M5S potrebbe essere ricevuto di nuovo alla

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fine, come forza che ha ottenuto più voti. Ma il dialogo con la Lega rimane guardingo. Anzi, forse lo è più di una settimana fa. I Cinque Stelle cominciano a rendersi conto che per capire quale sarà la ricaduta finale del voto, ci vorrà più tempo di quanto pensassero. Salvini, ma non solo, ne ha bisogno per definire meglio i contorni di un centrodestra del quale oggi è l’azionista di maggioranza. E quando annuncia che c’è il «51 per cento di possibilità» di formare un esecutivo tra centrodestra e M5S, provoca in Di Maio l’ennesimo moto di stizza. Più si va avanti, più il suo Movimento arretra rispetto ai possibili «contraenti». No a Forza Italia, non solo a Berlusconi. No a Fratelli d’Italia. E no allo stesso Pd, «perché non abbiamo intenzione di abbracciare un Matteo Renzi sconfitto nel Paese». Per questo, mentre Salvini annuncia che chiederà «volentieri» un incontro a Di Maio e esclude altri vertici della sua coalizione, il candidato premier dei Cinque Stelle nicchia. Fa filtrare che non ci sarà incontro con Salvini: almeno fino a quando il leader della Lega e del centrodestra proporrà un governo tra il suo schieramento nella sua interezza, e il Movimento. Messa così, la trattativa sembrerebbe incanalata in un vicolo cieco. L’aut aut della forza di maggioranza relativa avrebbe come unico sbocco la presa d’atto che non si può fare un governo; e dunque che sarebbe meglio tornare alle urne. Ma anche in questo schema si nota un eccesso di schematismo, simmetrico all’idea della «diarchia» Di Maio-Salvini. Non è da escludersi che il limbo tra dopovoto e governo possa dilatarsi per un paio di settimane; e che, di fronte a una rigidità che non accenna a sciogliersi, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, riceva la richiesta dei partiti di sondare quali siano i veri margini di trattativa. Il problema è quanto tempo sarà necessario per capire se e come i veti incrociati cadranno o almeno si attutiranno; e a quali condizioni. Non è da escludersi che alla fine si renda necessario un terzo giro di consultazioni, o magari che gli stessi partiti chiedano al Quirinale di affidare un incarico esplorativo di tipo istituzionale. Il M5S rimane dell’idea che a Palazzo Chigi debba andare Di Maio. In teoria potrebbe toccare anche a Salvini, se non rappresentasse solo il 17 per cento dei voti; comunque, a qualcuno che abbia il consenso popolare, dopo una legislatura di premier cooptati. Non sarà facile uscire da una richiesta così perentoria: sebbene in realtà il sistema parlamentare non preveda l’elezione del presidente del Consiglio, e comunque nessuno abbia consensi sufficienti per rivendicare l’incarico. L’Europa osserva e aspetta, confidando in Mattarella. Ma prima o poi, il capo dello Stato chiederà agli interlocutori di assumersi le loro responsabilità. E esigerà risposte e soluzioni, non solo veti: sempre che non siano destinati a cadere magicamente dopo le Regionali di aprile. Pag 6 Ma per il Quirinale lo scenario M5S-Lega resta il più probabile di Marzio Breda L’ipotesi del “terzo uomo”, il Colle però non farà nomi La generazione di Sergio Mattarella ricorda di sicuro i duelli, negli anni 60, tra due star della velocità su pista: Maspes e Gaiardoni. Sfide giocate sul surplace, la tecnica di stare fermi in equilibrio sulla bicicletta, senza poggiare i piedi a terra né retrocedere, aspettando l’attimo per attaccare l’avversario e sorprenderlo (il record, di un certo Del Zio, superò le due ore). Dal 4 aprile, giorno in cui sono cominciate le consultazioni al Quirinale, è la politica a trovarsi in surplace. Non a caso, la logica dei partiti somiglia molto a quella che ispirava i vecchi campioni del velodromo Vigorelli di Milano. E cioè: sfinire nella tensione gli antagonisti e muovere di scatto l’offensiva, per tagliare alle proprie condizioni il traguardo di un accordo solo all’ultimo istante dell’ultimo minuto utile. Chi ragiona così fa però i conti senza il Quirinale, e quindi sbaglia. Perché il presidente della Repubblica non ha intenzione di vedere il gioco trascinato senza frutto alle calende greche. Se verificherà che i negoziati procedono, con fatica ma procedono, darà il tempo necessario a siglare un’intesa. Del resto glielo hanno chiesto tutti. Ma lo stallo inconcludente, il surplace studiato come pretesto per tornare di corsa alle urne (e indipendentemente da ciò che una simile scelta può costare al Paese), quello non lo concederà. A un certo punto, anche per stimolare gli attori in campo a chiudere, dirà basta. Anche se, come il Corriere ha segnalato più volte, resta assolutamente contrario a nuove elezioni subito. Ecco lo spirito con cui il capo dello Stato si prepara al secondo sondaggio con le forze politiche, che dovrebbe cominciare giovedì o venerdì e avrà il carattere di una prova d’appello per registrare la stasi o i progressi delle trattative.

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Insomma, gli attori devono rassegnarsi: «Due blocchi sui tre disegnati dal voto devono stringere un patto di maggioranza», ha detto Mattarella, altrimenti non se ne esce. Perciò è ovvio che, considerata la paralisi decisionale del tormentatissimo Pd, sul Colle ora ci si concentri soprattutto sul percorso imboccato da Lega e Movimento 5 Stelle, che al momento appare il fronte più avanzato verso un’alleanza. Nel perimetro di questo schema, domenica ad Arcore si è ripetuto l’eterno gioco degli specchi della politica, mentre qualcuno nel centrodestra sembra fare tattica sulle prossime elezioni regionali, la cui evocazione potrebbe essere unicamente un pretesto nella prova di forza in corso. E qui lo stesso Mattarella sta misurando il peso della questione Berlusconi, che ha alimentato ieri un duro battibecco tra Salvini e Di Maio, divaricandone le posizioni. Dinamiche sulle quali qualcuno (cioè l’ex Cavaliere) dovrebbe forse fare pace con se stesso e orientarsi su un accomodamento diverso dall’ingresso in maggioranza, per non farsi escludere dalla partita. E l’appeasement potrebbe magari essere l’offerta di un appoggio esterno. Chissà. È un’opzione di cui si parla molto, ma sulla quale resta nebbia fitta. Come su altre variabili che chiamano in causa Mattarella. Due su tutte: che cosa farà per tirare in lungo questa fase, se fosse indispensabile per non chiudere la legislatura appena nata? E poi, davanti all’ipotesi che il premier sia una terza persona (magari con più esperienza e maggiore standing in Europa) rispetto ai «pretendenti» Di Maio e Salvini, potrebbe imporre lui una simile figura? Quanto al primo punto, il capo dello Stato, pur avendo messo in preventivo un paio di mesi, non s’inventerà nulla rispetto al rito delle consultazioni. Potrebbe offrire un terzo giro al rallenty, ma certo non rianimerà la «commissione di saggi per il programma» insediata da Napolitano nel 2013 per lucrare una quindicina di giorni dopo il fallimento di Bersani. Quanto all’altra domanda è difficile che il capo dello Stato formuli lui un nome ai propri interlocutori. Potrebbe, ma non lo farà. Per com’è andato finora il primo giro al Quirinale, bisogna immaginare una interlocuzione dinamica, nella quale le forze politiche sanno di poter contare su un’istanza costituzionalmente di garanzia cui rivolgersi qualora il negoziato si impantanasse. Èlo stesso schema dei cosiddetti governi tecnici, che in realtà sono sempre politici in quanto non imposti ma votati dal Parlamento. Pag 24 La strategia di Di Maio per occupare la scena di Paolo Franchi Siamo tornati al proporzionale, si dice, e dunque a inventarsele di ogni tipo per dare vita a una qualsivoglia maggioranza parlamentare e a un governo non si fa peccato. Tutto è accaduto. Per dare forza alla tesi, si va anche a pesca di precedenti antichi. Qualcuno riedita addirittura il cosiddetto «patto della staffetta», siglato (o forse no) da democristiani e socialisti nell’estate del 1986: non solo l’ineffabile professor Paolo Becchi, secondo il quale Luigi Di Maio e Matteo Salvini dovrebbero mettersi d’accordo per governare, con i ministri che vogliono, metà legislatura per uno, ma addirittura Eugenio Scalfari, che suggerisce all’opposto una staffetta tra Paolo Gentiloni e Di Maio. Il direttore del Foglio , Claudio Cerasa, che non è un provinciale, si ispira invece a De Gaulle, e propone come piano B il semipresidenzialismo alla francese, prendendo spunto dall’apposito disegno di legge appena presentato dal neoparlamentare pd Tommaso Cerno. Ma il (presunto) precedente più gettonato, dopo che Luigi Di Maio, a condizione di essere lui il premier, si è dichiarato disposto a governare sia con la Lega sia con il Pd, è la «politica dei due forni» una formula coniata mezzo secolo fa da Giulio Andreotti per significare che la Dc avrebbe dovuto, a seconda delle circostanze, scegliere se comprare il suo pane al forno della sinistra (i socialisti e magari anche i comunisti) o a quello della destra (i liberali, e perché no, i missini, o almeno l’ala più governista della Fiamma). Ora. Che Andreotti, senza essere l’incarnazione di Belzebù, sia stato un politico realista sino al limite del cinismo, e anche oltre, è fuori discussione. E non c’è dubbio che, di questo suo ostentato realismo, la teoria dei due forni abbia rappresentato un po’ l’emblema. Ma Andreotti, che impersonava più d’ogni altro la continuità e la intangibilità del potere, compresi i suoi lati oscuri, non voleva rifondare un bel nulla: ancora alla vigilia del crollo della Prima Repubblica, a chi sosteneva che, procedendo così, l’Italia sarebbe finita in serie B, replicava serafico che anche in serie B si giocano bellissime partite. Per quanto molti antropologi della politica sottolineino il suo fare da aspirante democristiano del terzo millennio, il caso di Di Maio è, onestamente, alquanto diverso. Di Maio, «capo politico», come si dice adesso, di un movimento almeno fino a ieri anti

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sistema, si candida a fondare la Terza Repubblica. Ma soprattutto: il M5S (e l’Italia, assai vasta, che lo vota) con la Dc (e l’Italia a lungo ancor più vasta che vi si riconosceva) non c’entra niente, come dovrebbe essere evidente a chi abbia chiaro che, in una casa rasa al suolo dal terremoto, non ha molto senso continuare a discutere su dove collocare il ritratto della nonna. Senza infliggere ai lettori un sommario riassunto (che pure non sarebbe inutile) della storia repubblicana, basterà ricordare che, sin dal fatidico «mai soli» pronunciato da Alcide De Gasperi quando il suo partito disponeva addirittura della maggioranza assoluta, tutta la politica democristiana, persino nella variante iper realista di Andreotti, si è fondata, non solo per motivi di necessità, sul principio di coalizione, anche dopo che, già nel 1968, questo era entrato in crisi. A Di Maio (e qui finisce sul nascere la sua presunta democristianità) il concetto stesso di coalizione, intesa come faticosa ricerca di un’alleanza tra forze diverse chiamate a trovare i motivi del loro stare insieme in una visione comune, è estraneo, anzi, inviso. Quel che propone, o fa mostra di proporre, indifferentemente alla Lega o al Pd (nessun problema: destra e sinistra non esistono più, lo dice anche Davide Casaleggio) è una cosa ben diversa, e cioè, molto più prosaicamente, un contratto, non troppo dissimile da quelli che comunemente si stipulano tra privati: il programma di governo, e la lista dei ministri, si moduleranno diversamente a seconda di chi raccoglierà l’appello. Che riesca nell’impresa, e prima ancora che questa sia davvero e fino in fondo la sua impresa, e non una tattica per occupare il centro della scena più a lungo di quanto il pur clamoroso risultato elettorale da solo gli consentirebbe, è largamente da stabilire, meglio diffidare di chi la sa lunga. Intanto, però, la novità (e che novità!) c’è tutta. Come si diceva una volta, indietro non si torna: e quindi non siamo tornati, come si lamenta in giro, ai cosiddetti «riti della Prima Repubblica». Sciolto ogni ormeggio con il passato, liquidata l’illusione che il ritorno al proporzionale sarebbe bastato a tenervela in qualche modo legata, la politica italiana naviga, con il conforto del voto popolare e con nuovi capitani, per i mari sconosciuti della post democrazia. Auguri a tutti noi. LA REPUBBLICA La linea rossa del Colle di Stefano Folli Giorno dopo giorno il cammino di Mattarella si fa tortuoso. Da un lato è sempre più evidente che la soluzione della crisi passa dal Quirinale, ossia dall'autorevolezza del presidente della Repubblica nel mettere i partiti - vincitori, quasi vincitori o perdenti del 4 marzo - di fronte alle loro responsabilità. Dall'altro i giorni di riflessione accordati ai medesimi partiti fra le prime e le seconde consultazioni non sono serviti ad alcunché. I due protagonisti della scena, Cinque Stelle e Lega, hanno rivelato quello che era impossibile non vedere: un alto grado di incompatibilità fra loro. Quanti ai due comprimari, Il Pd è tuttora arroccato, nonostante il subbuglio interno; e Berlusconi è riuscito a collocarsi di traverso a tutto, per cui scansarlo o metterlo da parte è più complicato che conveniente. Nessuno si aspetta dal capo dello Stato un colpo di bacchetta magica. Erano previsti tempi lunghi e così è. Semmai preoccupa l'assoluta assenza di passi avanti, sia pur minimi. Ognuno è rimasto sulle sue posizioni, al punto che anche il secondo giro di colloqui, peraltro non ancora fissato dal palazzo, rischia di essere non solo inutile, ma forse dannoso. Un conto infatti è prevedere che gli incontri nello studio presidenziale non siano risolutivi, altra cosa è fotografare in via ufficiale la paralisi. In tutto questo il Quirinale resta, come si è detto, il baricentro della vicenda. Per cui non si può escludere che il capo dello Stato, sempre molto rispettoso delle dinamiche politiche, decida prima o poi di far sentire la sua voce in modo secco ed esplicito. Non sarebbe la prima volta nella storia repubblicana e del resto i margini d'azione dei presidenti sono piuttosto ampi. Questo sia nel caso in cui Mattarella decida di conferire un pre-incarico sia che decida di farne a meno giudicandolo superfluo. Ma cosa rende questa crisi più ostica di altre? Probabilmente un errore iniziale: si è creduto che i due semi-vincitori di marzo, Di Maio e Salvini, fossero destinati a sommarsi per governare insieme in quanto animati dalla stessa logica. In realtà le differenze sono sostanziali, ma soprattutto sono diverse le ambizioni. Di Maio è proteso verso il governo e in particolare verso Palazzo Chigi, disposto ad allearsi con la Lega (ma non con Berlusconi, unica preclusione) oppure con il Pd. Per avvicinare il suo obiettivo non ha esitato a dichiararsi a favore dell'Unione europea, della moneta unica e per buona misura anche della Nato.

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In una dichiarazione di quattro righe ha cercato di cancellare anni di ambiguità, specie sull'euro. Salvini, no. Mantiene la sua diffidenza verso l'Unione e per certi aspetti verso la moneta unica. Non abdica a un certo grado di nazionalismo, all'amicizia con Putin e conferma i capisaldi del programma: abolizione della legge Fornero, via gli immigrati, taglio alle tasse. Più che al governo, sembra puntare a un nuovo, più clamoroso successo elettorale, quando avrà finito di stendere il mantello del Carroccio sull'intero centrodestra berlusconiano. Se Salvini cercasse un compromesso di governo, metterebbe un po' d'acqua nel suo vino. Come fa appunto Di Maio. Invece tanta schiettezza lascia immaginare un gioco a medio-lungo termine. Il gioco di chi punta a conquistare un potere più grande, magari sfruttando le contraddizioni dei Cinque Stelle. Se questa è la verità, si capisce perché la matassa nelle mani del presidente è così complicata. Lo sarebbe meno se il Pd decidesse di offrire una sponda al Quirinale, avviando un vero dialogo con Di Maio. Ma forse è ancora troppo presto. AVVENIRE Pag 3 Altra strage utile e senza verità di Riccardo Redaelli Sempre più complicato il caso siriano La questione siriana si complica sempre più. A dimostrazione che vincere le battaglie sul campo serve solo a macinare altre vite nel mulino mai fermo delle violenze settarie e dei contrapposti interessi, ma non ferma i conflitti se non vi è una volontà di accordo fra le forze sul campo e, ancor più, fra le potenze esterne che le manovrano. In questi giorni sono tre i fatti principali che si sono susseguiti velocemente. Il primo è l’accodo del 4 aprile scorso all’interno del cosiddetto 'processo di Astana' fra Iran, Russia e Turchia. Il secondo è il nuovo (presunto) attacco chimico da parte del regime di Damasco e il terzo è il nuovo attacco missilistico israeliano in Siria. Non che questi fatti siano direttamente collegati, ma tutti ci rivelano una sfaccettatura di questo intricato e sanguinoso mosaico. Molto rumore, ovviamente, ha fatto la notizia di un attacco chimico che ha colpito la popolazione già stremata della Ghouta, l’enclave alle porte di Damasco che per anni ha ospitato le forze dei gruppi insorgenti e che ora è stata pressoché completamente riconquistata dalle truppe di Assad. L’uso di armi chimiche suscita giustamente lo sdegno per la sua brutalità e vigliaccheria; tanto che il presidente Usa, Donald Trump, ha annunciato pesanti ritorsioni contro il regime. Come sempre avvenuto in Siria, tuttavia, le cose sono sempre meno chiare di quanto appaia: anche questa volta, sia Damasco sia Mosca hanno negato che le forze siriane abbiano usato armi chimiche. Da un punto di vista tattico, si tratta di una mossa non solo inutile, ma ampiamente controproducente. Dato che presta il fianco ad azioni militari contro le forze che hanno di fatto ormai vinto sul campo di battaglia. Quale che sia la verità, non si può comunque non notare come lo sdegno per i civili uccisi con il gas strida con lo scarso interesse verso il massacro quotidiano di siriani compiuto con armi convenzionali o – che è anche peggio – avvenuto per mancanza di cibo, acqua e cure. Chi si straccia le vesti per un attacco chimico sembra non scandalizzarsi per il quotidiano stillicidio di morti, feriti, profughi. Cosa che genera il sospetto che anche le morti siano solo strumentali a considerazioni di interesse strategico. Il nuovo lancio di missili rivela invece il crescente nervosismo degli israeliani per il radicamento delle forze iraniane in Siria, ovvia conseguenza della loro vittoria militare sui movimenti di insorti sunniti. Israele teme l’innervamento nel Levante di una milizia sciita multi-etnica guidata dai Pasdaran iraniani: una sorta di 'super-Hezbollah', capace di premere sul Paese non solo dal Libano ma anche dalla Siria. Ciò rende sempre più evidente l’alleanza di fatto in Medio Oriente fra Israele e Arabia Saudita – cementata dall’atteggiamento duramente antiiraniano dell’Amministrazione Trump – per combattere Teheran e i suoi alleati regionali. Questi eventi vanno collegati al recente accordo fra Mosca, Teheran e Ankara sulle zone di de-escalation, che dovrebbero evitare lo scoppio di nuovi scontri militare, ma che di fatto certifica e formalizza il loro ruolo e la spartizione in aree di controllo della Siria. Nonostante le profonde differenze di interessi e obiettivi, è evidente come i tre Paesi siano riusciti a trovare un minimo comune denominatore che di fatto garantisce il regime di Damasco e sancisce la sconfitta delle forze sunnite (e in parte anche curde) appoggiate dagli Stati Uniti, dai Paesi arabi del Golfo e, implicitamente, da Israele. È questo che rende così nervoso quest’ultimo attore: l’essere ormai privo di forze credibili sul terreno da poter manovrare per i propri

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interessi nazionali. Allo stesso tempo è proprio questa sconfitta strategica che rende impossibile un accordo internazionale credibile sotto l’egida delle Nazioni Unite e che espone la regione ad azioni imprevedibili o all’apertura di nuovi fronti di conflitto. Sulla pelle della martoriata popolazione siriana si giocheranno con cinismo altre battaglie e ci si ergerà nuovamente a improbabili difensori. IL GAZZETTINO Pag 1 La sterzata di Budapest e i suoi effetti su Bruxelles di Alessandro Campi Ci si chiede, dopo la vittoria clamorosa e largamente annunciata di Viktor Orbán in Ungheria, quali conseguenze potranno scaturirne per l'Europa. Molti osservatori temono il peggio: il rafforzamento del fronte cosiddetto sovranista e identitario rischia infatti di rappresentare un freno al rilancio del processo d'integrazione. Così come l'affermazione di una forza politica presentata come d'estrema destra e pericolosamente incline all'autoritarismo rischia di rafforzare quel sentimento di ostilità verso la democrazia liberale e rappresentativa che si respira sempre più forte in molti Paesi del continente. In realtà, prima di abbandonarsi a scenari tanto cupi converrebbe riprendere il fiato e chiedersi, innanzitutto, se non ci sia qualcosa di sbagliato o di eccessivamente sommario nel modo con cui si interpreta ciò che sta accadendo, non solo in Ungheria, ma in generale nell'Europa centro-orientale. Stanno tornando i fantasmi di un passato innominabile, a partire dall'antisemitismo, o più semplicemente si sono affermati in quell'area equilibri di potere, orientamenti culturali e convergenze politiche che spingono non solo verso un modello di democrazia decisionista che ripropone con forza il tema (colpevolmente dimenticato) della difesa degli interessi e appartenenze nazionali, ma anche verso una differente idea dell'unità e dell'identità europee? Già si dovrebbe essere capito, dopo anni di inutili allarmismi, quanto sia fuorviante e strumentale l'etichetta abusata di populismo, che per voler spiegare tutto ciò che non rientra nei canoni di una scienza politica da manuale universitario finisce per non spiegare nulla. Orbán è un liberale anti-comunista spostatosi nel tempo su posizioni nazional-conservatrici, a capo di un partito che da anni fa parte integrante della famiglia popolare europea. Al di là del suo esibito patriottismo, che si spiega facilmente alla luce della storia dell'Ungheria, dalle mutilazioni territoriali e di popolazione che ha subito a più riprese nel Novecento al tallone di ferro sovietico che ha dovuto sopportare per mezzo secolo, ha un approccio alla politica per nulla ideologico (in questo è assai diverso dal suo sodale polacco Jarosaw Kaczyski), ma al contrario molto pragmatico, tattico e fattivo. I suoi nemici interni più risoluti sono gli esponenti di Jobbik, un partito di ultradestra xenofoba e antisemita sul quale parte della stampa progressista occidentale è arrivata a sperare pur di vedere Orban sconfitto. Se non è mala fede ideologica, è certamente miopia politica. Il problema è che la confusione mentale è doppia e speculare, come dimostrano le reazioni italiane al voto di domenica scorsa. All'allarmismo pregiudiziale della sinistra, che vede in Orbán un dittatore in pectore emulo di Putin ed Erdogan, si aggiunge il semplicismo di una destra che lo saluta come il campione della lotta contro l'immigrazione, dell'anti-islamismo e di un nazionalismo che per definizione non dovrebbe essere il loro. Ad entrambi bisognerebbe spiegare che Orbán continua a vincere non perché aizza gli istinti peggiori del suo popolo, ma grazie ai tassi di sviluppo, benessere e crescita economica che ha garantito in questi anni di governo ai suoi cittadini, alla bassa disoccupazione e ai conti dello Stato in ordine. Gli ungheresi sono pragmatici e concreti esattamente quanto il leader che si sono scelti per altri quattro anni. Quanto alla possibilità che Orbán sia ormai il capo politico del fronte anti-europeo, rappresentato dai Paesi che hanno aderito al cosiddetto Patto di Visegrad, anche questa rappresenta una lettura semplicistica di ciò che sta accadendo nella parte centro-orientale del Vecchio Continente. Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Svolacchia sono un blocco geopolitico che rispecchia in buona parte i confini dell'antico impero austro-ungarico. Un blocco al quale, non a caso, l'Austria retta a sua volta da un'alleanza tra nazionalisti e popolari, guarda con crescente attenzione. Se oggi c'è affinità politica, ci sono anche legami altrettanto forti che vengono dal passato. Sono Paesi che hanno riscoperto, dopo la fine del socialismo reale e del blocco di potere sovietico, un forte senso dell'identità nazionale, ma che sono anche uniti da memorie storiche e culturali comuni. Ad esempio, dal fatto che il ritorno della democrazia e l'inizio di una relativo

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benessere per essi abbiano coinciso con la sconfitta del comunismo, laddove nell'Europa occidentale il fondamento della libertà è stato storicamente rappresentato dalla lotta contro il nazi-fascismo. Ma non è solo un problema di passato. Questi Paesi, che noi immaginiamo uniti tatticamente solo dalla loro scelta di tenere ben chiuse le frontiere e di non accettare immigrati entro i loro confini, probabilmente sono anche animati dal desiderio di contare di più politicamente all'interno del concerto europeo. La scelta di Romano Prodi di integrare l'Europa ex-comunista all'interno dell'Unione, per favorirne l'evoluzione in senso democratico, è stata all'epoca una grande intuizione storico-politica. Ma si poteva immaginare che questi Paesi, ottenuto un relativo benessere anche grazie ai generosi finanziamenti dell'Europa (finanziamenti che peraltro hanno saputo utilizzare con grande intelligenza), si limitassero poi a svolgere un ruolo politico da comprimari o ad accettare un modello d'integrazione che cozza con la loro esperienza storica e con l'idea di indipendenza politica che hanno faticosamente conquistato? Ciò che oggi essi sembrano contestare aspramente non è tanto l'Europa in sé, bensì la storica egemonia franco-tedesca (peraltro sempre più debole), rispetto alla quale ciò che propongono è una forma di partenariato, di maggiore ripartizione dei poteri tra Est ed Ovest, che si basa anche su un'idea dell'integrazione europea diversa, sul piano culturale e politico-istituzionale, da quella sin qui perseguita dai vertici di Bruxelles: verticistica, tecnocratica, tesa al superamento delle sovranità nazionali, formalistica e culturalmente agnostica. Un'idea che invece mantenga e tuteli l'autonomia degli Stati su alcune materie fondamentali. E che soprattutto rispetti le appartenenze e identità storiche delle nazioni che compongono il Vecchio Continente. Se ciò è vero, lo scontro sulle politiche di controllo e gestione dei flussi immigratori ha funzionato da innesco di una divisione le cui origini sono in realtà più profonde. E che non si riassume nell'opposizione tra Europa e anti-Europa, ma tra due idee dell'Europa tra le quali, prima che la situazione sfugga realmente di mano, forse dovremmo trovare una sintesi nuova, realistica e che politicamente convenga a tutti. Ma a Bruxelles hanno consapevolezza che è questa oggi la vera posta in gioco? LA NUOVA Pag 1 Le nomine nel governo populista di Massimiliano Panarari L'"affaire Telecom" di queste settimane e l'annunciata crescita della presenza di Cassa depositi e prestiti (Cdp) nell'azionariato di Tim hanno riportato l'attenzione sulle relazioni tra politica ed economia. Un tema tanto più rilevante perché si intreccia con l'iter e le manovre per la formazione del governo, e con il dibattito sulle (carenti e flebili) politiche industriali quale sistema-Paese. Come hanno indicato alcuni osservatori, schierare Cdp nel complicato conflitto intorno alla compagnia telefonica fra Vivendi, il fondo Elliott e l'esecutivo dà l'impressione di una "santa alleanza" o di un'edizione in salsa strategico-economica delle larghe intese per difendere le ragioni dell'italianità di fronte all'ennesima "invasione francese". L'esigenza di contenere l'aggressività del capitalismo transalpino (e la sua capacità di giocare con uno schema da autentico sistema-Paese) avrebbe messo così dalla stessa parte il governo uscente a guida Pd e i partiti vittoriosi delle ultime elezioni, anche se i pentastellati hanno voluto precisare subito di non tifare per il fondo statunitense. E, infatti, a emergere da queste evoluzioni e posizionamenti è l'irresistibile attrazione che una visione neocolbertista - per rimanere dalle parti del lessico politico à la française - pare esercitare nei confronti dei partiti diversamente populisti che si giocano la partita del prossimo esecutivo. E se l'intesa tra loro non appare al momento delle più cordiali, la visione di un ritorno all'interventismo statale (o statalista) e alle prassi dello Stato azionista (più che imprenditore) sembra unificarli (insieme a vari altri punti programmatici). Non sarà magari la «nostalgia, nostalgia canaglia» dell'Iri o delle partecipazioni statali, ma di sicuro un ottimo motivo per spingere la Lega (meglio se con tutto il centrodestra, per evidenti ragioni di peso contrattuale) all'abbraccio con il "neo-olivettiano" Movimento 5 Stelle coincide proprio con la partita assai ravvicinata delle nomine dei vertici in scadenza delle grandi aziende (più o meno) pubbliche e delle partecipate dal Tesoro. Che, oltre a soddisfare le ambizioni personali, consegnerebbero altrettanti strumenti importanti per fare le politiche economiche a un governo grilloleghista, ancor più se "a tempo" e lanciato verso elezioni anticipate. La posta in palio (e la finestra di opportunità che si è palesata) è, infatti, quella della rifondazione

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dell'offerta partitica - anche attraverso una nuova legge elettorale - nella direzione di una cosiddetta "Terza Repubblica" che veda le due formazioni diversamente populiste trasformarsi nei pilastri e nei gatekeepers di un mutato paesaggio politico. E le promesse fatte in campagna elettorale, fondamentali per andare a incrementare ulteriormente i voti e consentire così di riconfigurare il sistema politico (in primis, l'abolizione, o forte revisione, della legge Fornero e il reddito di cittadinanza o similare), richiedono come noto risorse ingenti. Alle quali, giustappunto, possono provvedere anche i proventi e i profitti delle aziende pubbliche. E la designazione dei cui vertici può peraltro proseguire la metodologia di avvicinamento - tutt'altro che semplice, come si vede, ma praticamente "obbligato" - tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio, già sperimentata nelle nomine istituzionali. Viste le ambizioni di ambedue i leader rispetto alla presidenza del Consiglio, per superare l'impasse Lega e M5S potrebbero magari convergere su un soggetto terzo in grado proprio di dare garanzie ai mercati. Qualcuno, dunque, assimilabile alla figura del "tecnico", a dispetto dell'insofferenza manifestata nei confronti di quel paradigma da partiti che hanno sempre rivendicato, ciascuno a suo modo, il primato della politica. Pag 1 Tra Usa e Cina battaglia commerciale di Franco A. Grassini È naturale che gli Stati Uniti siano insoddisfatti e preoccupati del consistente squilibrio del loro commercio con la Cina. Lo scorso anno le loro importazioni dal colosso asiatico sono ammontate a 506 miliardi di dollari e le loro esportazioni verso lo stesso a 130 miliardi. Molto rumore hanno fatto i dazi Usa sull'acciaio e l'alluminio da parte americana e le contromisure sui beni che costituiscono una modesta parte delle esportazioni statunitensi. Non rappresentano, per altro, un vero pericolo per nessuna delle due economie e nemmeno per quella mondiale. Il recentissimo rifiuto cinese di sedersi ad un tavolo per trattare accresce, invece, le probabilità di un vero e proprio conflitto. Le misure che i due governi hanno iniziato a delineare e a rendere pubbliche hanno preoccupato i mercati finanziari scesi, anche se per adesso di pochi punti percentuali. Da parte americana si è preparata una lista di prodotti che rappresentano parti essenziali della politica industriale cinese che punta a dominare a livello mondiale alcuni settori strategici come i robot industriali, i motori elettrici, i semiconduttori. Va notato che la burocrazia incaricata di preparare la lista dei prodotti su cui alzare le tariffe doganali nei riguardi della Cina sembra non si sia preoccupata dei componenti delle catene del valore. Di conseguenza i prezzi potrebbero aumentare incidendo sulla competitività di molte imprese statunitensi e inducendo molti consumatori a preferire fornitori di Paesi nei cui riguardi non si alzino le tariffe, posto che Trump sia in grado, come spesso ha dichiarato, di limitare alla Cina la sua battaglia difensiva. È chiaro che difficilmente l'inflazione resterebbe limitata ai settori coinvolti. Anche i cinesi, senza tener il minimo conto delle regole del World Trade Organization (Organizzazione mondiale del commercio, Wto), hanno reso nota una lunga lista di beni, 106, con un valore stimato in 50 miliardi di dollari che dovrebbero essere sottoposti a maggiori tariffe. La Cina, secondo quanto scrive The Economist, "tende a far pressione su alcuni punti chiave della democrazia americana, includendo industrie con forti lobbies, come quella aereonautica o i produttori di soia. Il Wisconsin è sia la patria di Paul Ryan, lo Speaker della Camera, sia di una notevole quota degli esportatori americani di ribes. Mitch McConnel, il leader dei repubblicani al Senato, è stato eletto in Kentucky, patria degli esportatori di Bourbon (whisky americano)". In sostanza sembra ci possano essere due alternative. La prima che Trump, preoccupato delle conseguenze in termini di voti per i repubblicani nelle elezioni del prossimo novembre, faccia un passo indietro e rinunci ad aumentare altri dazi oltre a quelli, acciaio e alluminio, già stabiliti. Non è un'ipotesi da escludere essendo il personaggio del tutto imprevedibile e capace di non considerare quella che persone normali qualificherebbero una figuraccia. La seconda alternativa è che divampi una vera e propria guerra commerciale tra America e Cina con conseguenze deleterie anche per l'Europa. Non va, per altro, trascurato che crisi per molte imprese e inflazione, secondo la stragrande maggioranza degli osservatori americani, porterebbero ad una consistente sconfitta dei repubblicani alle prossime votazioni autunnali. Una maggioranza diversa potrebbe sfruttare le molte occasioni che Trump offre per un impeachment e una sua defenestrazione. Non tutto il male verrebbe per nuocere.

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