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RASSEGNA STAMPA di giovedì 28 aprile 2016 SOMMARIO “In fila e a pranzo. Lo stupidario dell’esposizione”: è l’articolo di Paolo Foschini sul Corriere della Sera di oggi. Ecco le “perle” scovate nel tempo dell’Expo: “Ora di cena dell’11 ottobre in uno dei ristoranti di Expo, il cameriere si chiama Ivan Cestari: «Buonasera signora, dica». «Una pizza farcita». «Come la vuole?». «Farcita!». «Sì ma come? Abbiamo vari gusti, mi deve dire il nome». «Maria!». Ecco. Moltiplicate questo dialogo per centinaia di altri. Tipo quello riportato tre giorni prima dalla hostess Virginia Grandi: «Scusi, che padiglione è questo?». «Regno Unito». «Io pensavo Inghilterra!». «Beh, l’Inghilterra fa parte del Regno Unito. Comunque questa è l’uscita». «Ah sì, ma tranquilla: tanto io nel Regno Unito non ci entro». O quest’altro, stesso giorno, con Francesca Tomasi del padiglione Usa che tenta di aiutare una signora al telefono: «Sì, sono qui al Regno Unito». «Mi perdoni signora, questi sono gli Stati Uniti». «Vabbè, sempre Unito è». Magari chiamarlo stupidario non è politicamente corretto. Ma l’antologia ha una sua poetica tenerezza ed è quella accumulatasi nel corso di quei sei mesi principalmente su Inside Expo, forse il più affollato tra i gruppi Facebook costituiti dai lavoratori dell’esposizione. Una miniera di aneddoti infinita. A raccogliere i più spiritosi è stata Elisa Frigo, impegnata per 184 giorni di fila ad accogliere i visitatori di CasaCorriere. E il risultato è un florilegio che meriterebbe davvero un libro. Seguono altri esempi come quello di Federica Vitiello, in servizio all’ingresso Triulza: «Quanti siete?». «Io, mia moglie, la bimba di 6 mesi e due amici». «Ok, voi potete entrare da qui, ma i vostri amici devono fare la fila». «Ma se entriamo noi con la bimba e poi gliela passiamo ai nostri amici ed entrano loro?». Mattia Miele, biglietteria, arriva un visitatore tedesco: «Vorrei un biglietto». «28 euro, prego». Lo compra e si avvia. Dopo pochi minuti torna: «Ma io volevo un biglietto per l’autostrada. Devo andare a Verona!». Rosa Lucarelli, sul Decumano: «Scusi, sa dov’è quella roba con tutti i Paesi?». «Cioè?». «Nazioni». «È l’Expo, ci sei dentro». «Ok, non lo sai, cercavo una scorciatoia, fa niente». Elisa Sinis, del padiglione Intesa Sanpaolo: «Scusi questo è il San Paolo del Brasile?». «No signora, è Intesa Sanpaolo». «Ma neanche sopra c’è il Brasile?». «No signora, è una banca». Antonio Lamantea, cluster riso: «Cosa fate qui da mangiare?». «Un buon risotto». «Allora un brasato». Salvatore Caliolo, Francia: «Ho perso mio figlio. Mi aiuta?». «Certo, come si chiama e quanti anni ha?». «Vincenzo, 35». Michele Petrucci: «Salse per l’hotdog? Ketchup, maionese, bbq e chili». «Ok, senape». Emanuele Pagani, spazio Mauritania: «Scusi questo è il padiglione della marijuana?». E per finire Noemi Pap, altra biglietteria: «Salve, sono entrato dieci minuti fa da Triulza e sono uscito da Fiorenza ma ho solo seguito la folla e non ho visto nulla. Che faccio ora?». (a.p.) 2 – DIOCESI E PARROCCHIE WWW.TEMPI.IT A Caorle parrocchie in campo con un manifesto che «detta alla politica le priorità» IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XII Da oggi “Arrampilandia” ma salta la festa del primo maggio Marghera. Alla parrocchia di Gesù Lavoratore 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Chi è il prossimo All’udienza generale il Papa parla del buon samaritano

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 28 aprile 2016

SOMMARIO

“In fila e a pranzo. Lo stupidario dell’esposizione”: è l’articolo di Paolo Foschini sul Corriere della Sera di oggi. Ecco le “perle” scovate nel tempo dell’Expo: “Ora di cena

dell’11 ottobre in uno dei ristoranti di Expo, il cameriere si chiama Ivan Cestari: «Buonasera signora, dica». «Una pizza farcita». «Come la vuole?». «Farcita!». «Sì ma come? Abbiamo vari gusti, mi deve dire il nome». «Maria!». Ecco. Moltiplicate questo

dialogo per centinaia di altri. Tipo quello riportato tre giorni prima dalla hostess Virginia Grandi: «Scusi, che padiglione è questo?». «Regno Unito». «Io pensavo Inghilterra!». «Beh, l’Inghilterra fa parte del Regno Unito. Comunque questa è

l’uscita». «Ah sì, ma tranquilla: tanto io nel Regno Unito non ci entro». O quest’altro, stesso giorno, con Francesca Tomasi del padiglione Usa che tenta di aiutare una

signora al telefono: «Sì, sono qui al Regno Unito». «Mi perdoni signora, questi sono gli Stati Uniti». «Vabbè, sempre Unito è». Magari chiamarlo stupidario non è

politicamente corretto. Ma l’antologia ha una sua poetica tenerezza ed è quella accumulatasi nel corso di quei sei mesi principalmente su Inside Expo, forse il più

affollato tra i gruppi Facebook costituiti dai lavoratori dell’esposizione. Una miniera di aneddoti infinita. A raccogliere i più spiritosi è stata Elisa Frigo, impegnata per 184 giorni di fila ad accogliere i visitatori di CasaCorriere. E il risultato è un florilegio che meriterebbe davvero un libro. Seguono altri esempi come quello di Federica Vitiello, in servizio all’ingresso Triulza: «Quanti siete?». «Io, mia moglie, la bimba di 6 mesi e due amici». «Ok, voi potete entrare da qui, ma i vostri amici devono fare la fila». «Ma se entriamo noi con la bimba e poi gliela passiamo ai nostri amici ed entrano loro?». Mattia Miele, biglietteria, arriva un visitatore tedesco: «Vorrei un biglietto». «28 euro, prego». Lo compra e si avvia. Dopo pochi minuti torna: «Ma io volevo un

biglietto per l’autostrada. Devo andare a Verona!». Rosa Lucarelli, sul Decumano: «Scusi, sa dov’è quella roba con tutti i Paesi?». «Cioè?». «Nazioni». «È l’Expo, ci sei

dentro». «Ok, non lo sai, cercavo una scorciatoia, fa niente». Elisa Sinis, del padiglione Intesa Sanpaolo: «Scusi questo è il San Paolo del Brasile?». «No signora, è Intesa Sanpaolo». «Ma neanche sopra c’è il Brasile?». «No signora, è una banca». Antonio Lamantea, cluster riso: «Cosa fate qui da mangiare?». «Un buon risotto». «Allora un brasato». Salvatore Caliolo, Francia: «Ho perso mio figlio. Mi aiuta?».

«Certo, come si chiama e quanti anni ha?». «Vincenzo, 35». Michele Petrucci: «Salse per l’hotdog? Ketchup, maionese, bbq e chili». «Ok, senape». Emanuele Pagani,

spazio Mauritania: «Scusi questo è il padiglione della marijuana?». E per finire Noemi Pap, altra biglietteria: «Salve, sono entrato dieci minuti fa da Triulza e sono uscito da

Fiorenza ma ho solo seguito la folla e non ho visto nulla. Che faccio ora?». (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE WWW.TEMPI.IT A Caorle parrocchie in campo con un manifesto che «detta alla politica le priorità» IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XII Da oggi “Arrampilandia” ma salta la festa del primo maggio Marghera. Alla parrocchia di Gesù Lavoratore 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Chi è il prossimo All’udienza generale il Papa parla del buon samaritano

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AVVENIRE Pag 21 Presto beati i 38 martiri albanesi di Giacomo Gambassi Sarà santo il prete campano degli ultimi, Alfonso Maria Fusco Pag 24 Scandinavia, cattolici non più “invisibili” di Andrea Galli A sei mesi dal viaggio del Papa in Svezia, nel Nord Europa la Chiesa di Roma conta pochi fedeli ma in crescita costante. E non solo grazie ai migranti CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Francesco apre il caso dell’infallibilità del Papa di Gian Guido Vecchi Il teologo Küng: “Mi ha risposto con una lettera fraterna, non ha posto limiti alla discussione sul dogma” Pag 23 Il prossimo Sinodo sulla pace universale LA REPUBBLICA Pag 29 Il dogma dell’infallibilità di Hans Küng WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT L’evoluzione della dottrina spiegata da «Civiltà Cattolica» di Andrea Tornielli Nel prossimo numero della rivista un articolo di padre Rausch riporta esempi di come l’insegnamento dottrinale si sia sviluppato e abbia subito correzioni e contestualizzazioni «guidate dalla fedeltà al kerygma essenziale e ai princìpi che esprimono l’aspetto duraturo del messaggio cristiano» WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT L'opzione tedesca del papa argentino di Sandro Magister Il cardinale Kasper e l'ala progressista della Chiesa di Germania hanno ottenuto ciò che volevano. Sulla comunione ai divorziati risposati Francesco è dalla loro parte. L'aveva deciso da tempo e così ha fatto Spaemann: "È il caos eretto a principio con un tratto di penna" 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DEL VENETO Pag 6 I laureati veneti trovano lavoro più in fretta che nel resto d’Italia di Alice D’Este I dati Almalaurea: a tre anni dal titolo quasi il 90% ha trovato un'occupazione LA NUOVA Pag 25 “Shopping libero il Primo maggio, hanno vinto ancora i poteri forti” di Marta Artico Don Torta tuona contro le aperture festive: sono scandalizzato, una deriva culturale che fa spavento nel segno del consumismo 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ CORRIERE DELLA SERA Pag 25 Perché la vita al Sud è più breve. Il federalismo fallito della Sanità di Goffredo Buccini In calo l’aspettativa nel Meridione, tra le donne e nelle fasce deboli 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 21 I messaggi dei bimbi tradotti dai detenuti L’iniziativa del carcere di Santa Maria Maggiore

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Pag 22 Matrimoni in crescita ma gli sposi veneziani sono soltanto il 43% di Roberta De Rossi Da Woody Allen alle nozze di Clooney e Amal IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IX Da un mese sotto la tangenziale di Fulvio Fenzo Madre e figlia costrette a vivere in un’auto nel parcheggio scambiatore. Affitto non rinnovato, l’appello delle due donne veneziane e del marito senza lavoro 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Isis, la paura vista dal Nordest di Vittorio Filippi Pag 2 La Camera “scarica” Galan, anche la Lega vota la decadenza di Marco Bonet Da Publitalia al Mose, si ferma la lunga marcia dell’uomo che diceva di sé: “Io sono il Nordest” LA NUOVA Pag 1 Il saccheggio elevato a sistema di Francesco Jori Pag 13 L’addio all’ex Doge che ha scelto la gogna. Resta il “suo” mondo di Renzo Mazzaro I beneficiati del sistema Mose in gran parte al loro posto aspettano il prossimo benefattore per tornare in azione 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 17 di Gente Veneta in uscita venerdì 29 aprile 2016: Pag 1 A Caorle comunità in campo. Esempio da seguire di Serena Spinazzi Lucchesi Pag 1 Quando i cattivi abusano dei buoni lavoro... di Giorgio Malavasi Pagg 1, 4 – 5 Nuovi spettri dietro alla ripresa? di Giorgio Malavasi e Serena Spinazzi Lucchesi Parla il nuovo segretario Cisl del Veneto, Onofrio Rota: «Segnali buoni ce ne sono, ma...». Veneto: quanto peseranno su noi le due banche in crisi? Pag 3 Nell’isola di Lampedusa ad ascoltare il racconto diretto di chi accoglie i migranti. Anche noi Acli siamo chiamati a interrogarci sul futuro della nostra società di Paolo Grigolato Pag 10 Papa Francesco: «Se un giovane non sogna è già in pensione» 150 ragazzi veneziani, con animatori e sei sacerdoti, hanno ascoltato l’omelia del Pontefice, domenica, e hanno vissuto i giorni del Giubileo a Roma: «Che bello - hanno detto in tanti - vedere tutti giovani, sentirsi parte di una stessa cosa. E poi il Papa, e la serata allo stadio...» Pag 16 Atassia di Friedreich, nuova cura e invito a Mestre di Giulia Busetto Dal 7 maggio inizia per 12 persone (tra cui una mestrina) ammalate di questa patologia rara una nuova terapia. Coordinatore un primario di Conegliano: «Testiamo l’interferone gamma, che ha già dato buoni risultati di laboratorio». Federica: «Non mi scoraggio e sollecito tutti» Pag 17 Villa Elena: cresce la casa che sostiene chi è in difficoltà di Alvise Sperandio

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A giugno prevista l’apertura di uno spazio per il sostegno al pomeriggio di una decina di giovani. Ma già da un anno e mezzo l’Opera Santa Maria della Carità dà supporto a una trentina di disabili gravi e ospita una quindicina di bambini e adolescenti Pag 18 “Amoris Laetitia”, venerdì 27 maggio la presentazione alla Diocesi Due incontri: al mattino per i preti, alla sera per tutti. Parlerà il gesuita p. Iàn Dacok Pag 23 Famiglia, casa, lavoro, legalità: comunità in campo di Riccardo Coppo Volantino-appello ai candidati elaborato da parroci e laici del Vicariato di Caorle. «Vi sono problematiche riscontrate dalle comunità nel vivere quotidiano - spiega don Marchesi - sulle quali chiediamo un confronto con i vari candidati alle prossime elezioni» Pag 24 La sfida di papà di Giorgio Malavasi La psicologa Scalari: per sviluppare una sana sessualità gli adolescenti abbiano padri che accettano il distacco dei figli Pag 25 “Dal conflitto alla comunione”: a 500 anni dalla Riforma di Marco Da Ponte Il 3 e il 10 maggio, grazie a Centro Pattaro, Chiesa Evangelica Luterana, la Chiesa Valdese e Metodista, Sae, “Esodo”. Due incontri per riflettere sul documento della Chiesa luterana nell’anniversario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Moderati, le inutili illusioni di Antonio Polito Centrodestra diviso Pag 15 Le incognite di altri scandali in vista del referendum di Massimo Franco Pag 29 In fila e a pranzo. Lo stupidario dell’esposizione di Paolo Foschini Pag 32 Il declino dei neoliberisti lascia spazio ai populismi di Mauro Magatti LA REPUBBLICA Pag 1 La politica della resa di Roberto Saviano LA STAMPA Il coraggio di sfidare il populismo di Stefano Stefanini AVVENIRE Pag 1 Attenti anche agli amici di Riccardo Redaelli L’Italia e il rompicapo libico Pag 2 Spagna, sei mesi persi e un sistema Paese a rischio di Sergio Soave La grande democrazia iberica a una prova difficile Pag 2 Un angelo di nome Chiara (lettera di Pino Ciociola) Pag 3 A Cuba vecchi timonieri per la nuova “revoluciòn” di Lucia Capuzzi L’evoluzione politica dell’isola passa sottotraccia IL FOGLIO Pag 2 Il ministro belga che vede l’Europa islamizzata: “Colpa dei cristiani” di Matteo Matzuzzi IL GAZZETTINO Pag 1 Debito greco, il rigore tedesco penalizza la Ue di Giulio Sapelli LA NUOVA

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Pag 1 Al Brennero una partita costosa di Francesco Morosini Pag 6 Se i clan scalano i “democrat” di Andrea Sarubbi

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE WWW.TEMPI.IT A Caorle parrocchie in campo con un manifesto che «detta alla politica le priorità» Il Corriere del Veneto, in una cronaca dai toni quasi sbigottiti, ha definito «irrituale» il volantino presentato ieri dalle parrocchie di Caorle in vista delle elezioni amministrative del prossimo giugno. A prescindere dagli aggettivi, una cosa è certa, come osserva lo stesso Corriere: questo manifesto «diretto ai candidati a sindaco della località balneare è destinato a scuotere non solo la politica locale. Perché mai, prima d’ora, perlomeno nella Diocesi di Venezia, i parroci di sette parrocchie erano scesi dal pulpito per dettare alla politica le priorità della comunità». Priorità che vanno dalla valorizzazione della famiglia come primo pilastro della società allo snellimento della burocrazia per le imprese, e che le guide della Chiesa di Caorle hanno voluto declinare in sei punti precisi. Quasi un programma elettorale fatto e finito. Non a caso alla presentazione erano presenti «tra il pubblico due candidati a sindaco: Luciano Striuli e Alessandro Borin che ascoltano con attenzione», scrive sempre il Corriere. «Sta nascendo un movimento politico delle parrocchie? I parroci sorridono e spiegano che “è solo l’espressione della comunità”». E di una fede che «ci fornisce il coraggio di stare in piazza per collaborare al bene comune», come dice don Francesco Marchesi, viceparroco della parrocchia del Duomo. Anche il sito del Patriarcato di Venezia ha voluto evidenziare in homepage la notizia dell’uscita del manifesto. Nell’articolo tra l’altro è sottolineato che il volantino «non rappresenta però un’iniziativa a se stante: le parrocchie di Caorle intendono, infatti, proporre un dibattito e confronto pubblico con i candidati sindaco nella seconda metà di maggio 2016 e poi al termine della stagione estiva (ottobre 2016) anche un pellegrinaggio a piedi, dal forte significato spirituale e di valore civile, da Caorle alla Porta Santa della chiesa parrocchiale di Eraclea». IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XII Da oggi “Arrampilandia” ma salta la festa del primo maggio Marghera. Alla parrocchia di Gesù Lavoratore Niente festa del primo maggio per la parrocchia di Gesù Lavoratore di Cà Emiliani a Marghera. Dopo 62 anni, si interrompe la tradizione iniziata dai Salesiani nel 1954. In compenso, si ripresenta oggi, giovedì 28 aprile, «Arrampilandia» che permetterà a migliaia di alunni delle scuole della provincia di scalare il torrione della chiesa di via don Armando Berna. Doppia la motivazione che ha indotto i volontari della parrocchia a rinunciare alla sagra: la difficoltà di far quadrare i conti e la complessità dell'iter burocratico. «Le difficoltà per arrivare al pareggio economico e le complessità per le autorizzazioni - spiegano in parrocchia - non hanno permesso di realizzare la festa. Avremmo dovuto passare attraverso lo sportello unico attività produttive Suap, affidandoci ad un professionista con una spesa che non potevamo permetterci». Sta di fatto che Marghera sud, da oggi, si ritroverà attorno alla parete attrezzata della chiesa realizzata, nel 1997, grazie ad alcuni parrocchiani appassionati di alta quota che si costituirono nell'associazione «Sgrafa Masegni» e che, nel Duemila, hanno dato vita, appunto, ad Arrampilandia. Quest'anno, tra oggi e domani, saranno più di mille i bambini in trasferta a Ca’ Emiliani, provenienti dalle scuole elementari della stessa Marghera, ma anche di Mestre, Favaro, Dese, Campalto, Terraglio, Concordia Sagittaria e Noventa di Piave con una media di oltre venti classi al giorno.

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Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Chi è il prossimo All’udienza generale il Papa parla del buon samaritano Ogni uomo può «diventare prossimo di chiunque incontri nel bisogno», a patto che nel cuore abbia «compassione, cioè quella capacità di patire con l’altro». Lo ha detto Papa Francesco all’udienza generale di mercoledì 27 aprile, in piazza San Pietro, dedicando la catechesi alla parabola del buon samaritano. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Oggi riflettiamo sulla parabola del buon samaritano (cfr. Lc 10, 25-37). Un dottore della Legge mette alla prova Gesù con questa domanda: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» (v. 25). Gesù gli chiede di dare lui stesso la risposta, e quello la dà perfettamente: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso» (v. 27). Gesù allora conclude: «Fa’ questo e vivrai» (v. 28). Allora quell’uomo pone un’altra domanda, che diventa molto preziosa per noi: «Chi è mio prossimo?» (v. 29), e sottintende: “i miei parenti? I miei connazionali? Quelli della mia religione?...”. Insomma, vuole una regola chiara che gli permetta di classificare gli altri in “prossimo” e “non-prossimo”, in quelli che possono diventare prossimi e in quelli che non possono diventare prossimi. E Gesù risponde con una parabola, che mette in scena un sacerdote, un levita e un samaritano. I primi due sono figure legate al culto del tempio; il terzo è un ebreo scismatico, considerato come uno straniero, pagano e impuro, cioè il samaritano. Sulla strada da Gerusalemme a Gerico il sacerdote e il levita si imbattono in un uomo moribondo, che i briganti hanno assalito, derubato e abbandonato. La Legge del Signore in situazioni simili prevedeva l’obbligo di soccorrerlo, ma entrambi passano oltre senza fermarsi. Erano di fretta... Il sacerdote, forse, ha guardato l’orologio e ha detto: “Ma, arrivo tardi alla Messa... Devo dire Messa”. E l’altro ha detto: “Ma, non so se la Legge me lo permette, perché c’è il sangue lì e io sarò impuro...”. Vanno per un’altra strada e non si avvicinano. E qui la parabola ci offre un primo insegnamento: non è automatico che chi frequenta la casa di Dio e conosce la sua misericordia sappia amare il prossimo. Non è automatico! Tu puoi conoscere tutta la Bibbia, tu puoi conoscere tutte le rubriche liturgiche, tu puoi conoscere tutta la teologia, ma dal conoscere non è automatico l’amare: l’amare ha un’altra strada, occorre l’intelligenza, ma anche qualcosa di più... Il sacerdote e il levita vedono, ma ignorano; guardano, ma non provvedono. Eppure non esiste vero culto se esso non si traduce in servizio al prossimo. Non dimentichiamolo mai: di fronte alla sofferenza di così tanta gente sfinita dalla fame, dalla violenza e dalle ingiustizie, non possiamo rimanere spettatori. Ignorare la sofferenza dell’uomo, cosa significa? Significa ignorare Dio! Se io non mi avvicino a quell’uomo, a quella donna, a quel bambino, a quell’anziano o a quell’anziana che soffre, non mi avvicino a Dio. Ma veniamo al centro della parabola: il samaritano, cioè proprio quello disprezzato, quello sul quale nessuno avrebbe scommesso nulla, e che comunque aveva anche lui i suoi impegni e le sue cose da fare, quando vide l’uomo ferito, non passò oltre come gli altri due, che erano legati al Tempio, ma «ne ebbe compassione» (v. 33). Così dice il Vangelo: “Ne ebbe compassione”, cioè il cuore, le viscere, si sono commosse! Ecco la differenza. Gli altri due “videro”, ma i loro cuori rimasero chiusi, freddi. Invece il cuore del samaritano era sintonizzato con il cuore stesso di Dio. Infatti, la “compassione” è una caratteristica essenziale della misericordia di Dio. Dio ha compassione di noi. Cosa vuol dire? Patisce con noi, le nostre sofferenze Lui le sente. Compassione significa “compatire con”. Il verbo indica che le viscere si muovono e fremono alla vista del male dell’uomo. E nei gesti e nelle azioni del buon samaritano riconosciamo l’agire misericordioso di Dio in tutta la storia della salvezza. È la stessa compassione con cui il Signore viene incontro a ciascuno di noi: Lui non ci ignora, conosce i nostri dolori, sa quanto abbiamo bisogno di aiuto e di consolazione. Ci viene vicino e non ci abbandona mai. Ognuno di noi, farsi la domanda e rispondere nel cuore: “Io ci credo? Io credo che il Signore ha compassione di me, così come sono,

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peccatore, con tanti problemi e tante cose?”. Pensare a quello e la risposta è: “Sì!”. Ma ognuno deve guardare nel cuore se ha la fede in questa compassione di Dio, di Dio buono che si avvicina, ci guarisce, ci accarezza. E se noi lo rifiutiamo, Lui aspetta: è paziente ed è sempre accanto a noi. Il samaritano si comporta con vera misericordia: fascia le ferite di quell’uomo, lo trasporta in un albergo, se ne prende cura personalmente e provvede alla sua assistenza. Tutto questo ci insegna che la compassione, l’amore, non è un sentimento vago, ma significa prendersi cura dell’altro fino a pagare di persona. Significa compromettersi compiendo tutti i passi necessari per “avvicinarsi” all’altro fino a immedesimarsi con lui: «amerai il tuo prossimo come te stesso». Ecco il Comandamento del Signore. Conclusa la parabola, Gesù ribalta la domanda del dottore della Legge e gli chiede: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?» (v. 36). La risposta è finalmente inequivocabile: «Chi ha avuto compassione di lui» (v. 27). All’inizio della parabola per il sacerdote e il levita il prossimo era il moribondo; al termine il prossimo è il samaritano che si è fatto vicino. Gesù ribalta la prospettiva: non stare a classificare gli altri per vedere chi è prossimo e chi no. Tu puoi diventare prossimo di chiunque incontri nel bisogno, e lo sarai se nel tuo cuore hai compassione, cioè se hai quella capacità di patire con l’altro. Questa parabola è uno stupendo regalo per tutti noi, e anche un impegno! A ciascuno di noi Gesù ripete ciò che disse al dottore della Legge: «Va’ e anche tu fa’ così» (v. 37). Siamo tutti chiamati a percorrere lo stesso cammino del buon samaritano, che è figura di Cristo: Gesù si è chinato su di noi, si è fatto nostro servo, e così ci ha salvati, perché anche noi possiamo amarci come Lui ci ha amato, allo stesso modo. AVVENIRE Pag 21 Presto beati i 38 martiri albanesi di Giacomo Gambassi Sarà santo il prete campano degli ultimi, Alfonso Maria Fusco Non ha confini la santità. E contagia il mondo: dalla Corea all’Italia, passando per l’Albania, l’Irlanda, la Spagna e la Polonia. È un’autentica geografia del “bene”, di vite donate per il Vangelo e il prossimo, quella che emerge dai decreti della Congregazione delle cause dei santi la cui promulgazione è stata autorizzata da papa Francesco. I decreti riguardano un nuovo santo, l’italiano Alfonso Maria Fusco; quarantatré nuovi beati fra cui i 38 martiri dell’Albania comunista (con l’arcivescovo di Durazzo, Vincenzo Prennushi), quattro martiri della Guerra civile spagnola e il gesuita irlandese “dei poveri e della bicicletta” John Sullivan; e otto nuovi venerabili come il coreano Tommaso Choe Yang-Eop e gli italiani Sosio Del Prete, Maria Consiglio dello Spirito Santo, Maria Laura Baraggia e Ilia Corsaro. Il “via libera” pontificio è arrivato martedì scorso durante l’udienza privata concessa da Bergoglio al cardinale prefetto Angelo Amato. In uno dei decreti viene riconosciuto il miracolo attribuito all’intercessione di Alfonso Maria Fusco che sarà presto canonizzato. Il sacerdote originario di Angri, in provincia di Salerno, dove nacque il 23 marzo 1839 e dove morì il 6 febbraio 1910, è stato il fondatore delle Suore di San Giovanni Battista. Una famiglia religiosa in cui la santificazione attraverso la vita di povertà e l’unione con Dio si traduce in carità impegnata nella cura e nell’istruzione degli «ultimi»: all’inizio delle giovani orfane che trovarono nella Piccola Casa della Provvidenza la loro famiglia; oggi di bambini, studenti, famiglie o anziani attraverso scuole, case di riposo, punti sanitari e strutture di ospitalità. In festa la diocesi di Nocera Inferiore-Sarno. «Con gioia accogliamo il dono del Santo Padre – afferma il vescovo Giuseppe Giudice – e ci prepariamo a vivere la celebrazione per il nuovo santo». Sarà beato il sacerdote irlandese che in bicicletta (ma anche a piedi) macinava chilometri per andare a visitare poveri e ammalati nei villaggi della contea di Kildare. È John Sullivan, figlio di una ricca famiglia di Dublino in cui nacque l’8 maggio 1861. Adesso un miracolo viene attribuito alla sua intercessione. Uomo di preghiera, insegnante appassionato, ha avuto un’instancabile attenzione verso sofferenti e bisognosi. È morto il 19 febbraio 1933. Nei decreti autorizzati dal Papa viene sancita l’uccisione in odium fidei dell’arcivescovo e frate minore francescano Prennushi e di 37 compagni trucidati in Albania dal regime comunista fra il 1945 e il 1974 che saliranno all’onore degli altari. Sono martiri, e quindi verranno beatificati, anche il benedettino José Antón Gómez e i tre confratelli Antolín Pablos Villanueva, Rafael Alcocer Martínez e Luis Vidaurrázaga González. Appartenenti alla comunità di Silos, vivevano nel monastero

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di Santa Maria de Montserrat a Madrid e furono assassinati nel 1936: padre Antón Gómez, acuto intellettuale, fu arrestato il 24 settembre e ucciso il giorno successivo; padre Pablos Villanueva, fine storico, fu fucilato l’8 novembre con centinaia di detenuti; padre Alcocer Martínez, grande oratore e arabista, venne ucciso il 4 ottobre; e padre Vidaurrázaga González, esperto in direzione spirituale, fu tradito e giustiziato il 31 dicembre. Vengono, poi, riconosciute le virtù eroiche di Tommaso Choe Yang-Eop, il prete coreano nato il 1° marzo 1821 e morto il 15 giugno 1861. È dichiarato venerabile il frate minore Sosio Del Prete (al secolo Vincenzo), nato a Frattamaggiore, in provincia di Napoli, il 28 dicembre 1885 e fondatore delle Piccole Ancelle di Cristo Re. Devoto a “Madonna Povertà”, vide dal convento di Sant’Antonio ad Afragola le piaghe sociali che caratterizzavano il territorio e dette vita un’avventura di fede e carità verso gli “abbandonati” prima di morire il 27 gennaio 1952. Altro venerabile è il frate minore conventurale polacco Venanzio Katarzyniec (al secolo Giuseppe) caro a padre Massimiliano Kolbe che lo definisce uno fra più «zelanti dei nostri frati negli ultimi tempi». Nato il 7 ottobre 1889, affrontò il suo personale Calvario segnato dalla malattia e morì il 31 marzo 1921. Vengono riconosciute, inoltre, le virtù eroiche di Maria Consiglio dello Spirito Santo (al secolo Emilia Pasqualina Addatis), fondatrice delle Suore Serve dell’Addolorata. Nata il 5 gennaio 1845 a Napoli (dove morirà l’11 gennaio 1900), mise al centro del suo Istituto l’opera educativa e assistenziale verso le bambine offrendo loro quell’«alloggio umano» che non avevano. Venerabile è anche la spagnola Maria dell’Incarnazione (al secolo Caterina Carrasco Tenorio), fondatrice delle Suore del Terzo Ordine di San Francesco del Rebaño de María. E poi Maria Laura Baraggia, fondatrice delle Suore della Famiglia del Sacro Cuore di Gesù, dette di Brentana, dal nome del luogo dove si trova la casa madre e dove la religiosa morì il 18 dicembre 1923. Nata a Sulbiate Maggiore, in Brianza, il 1° maggio 1851, ha imperniato la sua Congregazione su educazione e assistenza. Nuova venerabile è Ilia Corsaro che ha fondato a Bagnoli, in Campania, la Piccole Missionarie Eucaristiche. Nata a Ercolano il 4 ottobre 1897, declinò il Vangelo della carità nelle zone povere e si impegnò nella ricostruzione dalla guerra, fra gli operai, negli orfanotrofi. Morirà a Napoli dopo una lunga malattia il 23 marzo 1977. E, infine, sono state accertate le virtù eroiche di Maria Montserrat Grases García, la giovane spagnola morta a 18 anni e appartenente all’Opus Dei. Pag 24 Scandinavia, cattolici non più “invisibili” di Andrea Galli A sei mesi dal viaggio del Papa in Svezia, nel Nord Europa la Chiesa di Roma conta pochi fedeli ma in crescita costante. E non solo grazie ai migranti Le migrazioni non mutano solo la geografia “etnica”, ma anche quella della fede. È un fenomeno che passa spesso in secondo piano nel dibattito su profughi e migranti, o viene preso in considerazione per quanto riguarda l’espansione dell’islam, molto meno per le altre confessioni. Eppure anche la Chiesa cattolica ne è coinvolta, in positivo, con un suo allargamento in corso in territori fino a ieri impensati. Non è una novità nella storia, del resto. Se oggi gli abitanti degli Stati Uniti sono circa per un quarto cattolici lo si deve soprattutto all’esodo di irlandesi nell’800, di italiani nella prima metà del ’900 e di latinos dal Messico e dal Centroamerica negli ultimi decenni. La esile Chiesa giapponese ha ricevuto negli ultimi trent’anni il soccorso insperato di filippini, brasiliani e peruviani: insieme costituiscono più del 50% dei cattolici del Paese. In Arabia Saudita, dove il culto pubblico è proibito, indiani e filippini hanno dato vita, nel silenzio, a una comunità di fedeli che si dice sfiori i due milioni. Un caso significativo c’è anche in Europa ed è quello della Scandinavia, ovvero l’estremo Nord secolarizzato, con uno dei tassi di religiosità più bassi al mondo. Una serie di Paesi dove il cattolicesimo, dopo la rottura protestante, è stato semplicemente azzerato, per quasi tre secoli, in alcuni casi sotto la minaccia della pena capitale per chi fosse osasse professare il credo del Papa di Roma. I numeri restano limitati in termini assoluti ma il trend è di crescita costante. Secondo gli ultimi report forniti dalla Conferenza episcopale dei Paesi scandinavi, in Danimarca dal 2004 al 2014 i cattolici “ufficiali” sono passati da 37.648 a 42.768, in Islanda da 5.775 a 11.911, in Norvegia da 57.498 a 160.746, in Svezia da 81.259 a 110.392, in Finlandia da 8.790 a 13.422. Ma i dati reali che vengono stimati – non tutti i cattolici riescono a essere identificati dalla rete di parrocchie e istituzioni – sono

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sensibilmente superiori: in Islanda quasi del 50%, in Finlandia del 20%, percentuali simili anche per Svezia e Norvegia (qui la Chiesa, sull’onda del boom e di metodi di rilevamento approssimativi, è purtroppo incorsa in un’indagine e in un contenzioso con lo Stato, che l’ha accusata di aver gonfiato i numeri dei fedeli e di aver ricevuto sussidi non dovuti, che ora le sono chiesti indietro). Questo contesto aiuta a capire, tra l’altro, quale situazione ecclesiale incontrerà Bergoglio nel suo prossimo viaggio a Lund, in Svezia – tra sei mesi quasi esatti, il 31 ottobre – dove prenderà parte a una cerimonia congiunta fra Chiesa cattolica e Federazione Luterana Mondiale per commemorare il cinquecentesimo anniversario della Riforma. Il Papa troverà una Chiesa di “periferia” ma in uno stato di effervescenza, avamposto dell’evangelizzazione in una terra non meno ostica di quanto fossero terre vergini nel Sud del mondo per i missionari del passato. E una Chiesa che presenta un mix di caratteristiche del tutto insolito. Il grosso dei fedeli viene appunto dai migranti, con parrocchie che “contengono” fino a novanta nazionalità diverse in un mosaico affascinante. A Södertäljem, città di 62mila abitanti nella contea di Stoccolma – conosciuta per essere la sede della Scania, storico marchio di autotrasporti, e per aver visto crescere Björn Borg –, si è formata per aggregazione la più grande comunità di cristiani caldei fuori dall’Iraq. Ma il resto dei cattolici svedesi è fatto per la quasi totalità di figli di convertiti o convertiti recenti. «Ogni anno abbiamo circa un centinaio di conversioni ufficiali», spiega padre Klaus Dietz, gesuita tedesco che opera in Svezia da ben 46 anni, «che per il nostro Paese sono numeri importanti. La religione, come esperienza vissuta, è stata a lungo un tema tabù a livello pubblico. Una di quelle cose di cui si parla in una conversazione fra amici solo quando si alza un po’ il gomito, altrimenti è evitata, mette in imbarazzo. Oggi il clima sta cambiando, ma resta l’attitudine di fondo a vivere la religione nella più stretta intimità. Spesso faccio presente che quando morì Dag Hammarskjöld e fu pubblicato il suo diario spirituale, in Europa fu un caso, ebbe un grande successo, in Svezia fu visto come qualcosa di strano». Un tratto comune a molte conversioni è poi quello di riguardare persone con un alto livello di studi e professionale. In proporzione alle dimensioni della Chiesa, in un Paese di nove milioni e mezzo di abitanti, non sono infatti poche le voci cattoliche nel mondo intellettuale: da uno scrittore popolare come Torgny Lindgren, a Erik Helmerson, editorialista del Dagens Nyheter, il più importante quotidiano svedese, ad Astrid Söderberg Widding, rettore dell’Università di Stoccolma e terziaria domenicana. Cattolica era anche Gunnel Vallquist, scrittrice e traduttrice, membro dell’Accademia di Svezia, morta lo scorso gennaio. «Uno dei motivi – dice padre Ulf Jonsson, anche lui gesuita, di Uppsala, nato in una famiglia di non credenti e convertitosi da ragazzo – è che per le persone che hanno modo di viaggiare, fare esperienze all’estero per studio o lavoro è più facile che entrino in contatto con il cattolicesimo, superando i pregiudizi». «La Chiesa luterana svedese – aggiunge padre Dietz – è diventata una presenza quasi simbolica. Quel che resta del cristianesimo storico è ridotto a una serie di tradizioni, di elementi folkloristici. Molti trovano nella Chiesa cattolica un cristianesimo “vero”, con un profilo teologico chiaro, con una dimensione comunitaria viva e accogliente. Oggi a Stoccolma esiste una sola libreria religiosa e non è luterana, ma cattolica». Questo, ribatte padre Jonsson, che è direttore di Signum, autorevole rivista culturale della Compagnia di Gesù in Svezia, «è anche il motivo per cui l’opinione dei cattolici su temi sensibili è spesso ricercata, nei talk show o sui giornali. La Chiesa cattolica è guardata con un rispetto crescente. A questo riguardo va segnalata la grande simpatia di cui gode papa Francesco, soprattutto per il suo impegno su temi come l’ambiente, la difesa degli oppressi e dei poveri. Mi sento di dire che in questo momento papa Francesco è il leader straniero che gode della più alta reputazione in Svezia». Ma il fatto che ha più scosso l’attenzione sulla presenza della Chiesa cattolica è stata la conversione choc, due anni fa, di Ulf Ekman, fondatore e leader della Livets Ord, o Word of Life in inglese, la più importante comunità pentecostale svedese. Un caso che ha tenuto banco su giornali e tv. Ekman ha trovato la sua strada verso Roma anche grazie all’accompagnamento discreto di Anders Arborelius, vescovo di Stoccolma: pure lui convertitosi in giovane età e fattosi carmelitano dopo essere stato folgorato dagli scritti di santa Teresa di Lisieux. CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Francesco apre il caso dell’infallibilità del Papa di Gian Guido Vecchi

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Il teologo Küng: “Mi ha risposto con una lettera fraterna, non ha posto limiti alla discussione sul dogma” Città del Vaticano. Racconta Hans Küng che la lettera di Francesco, con la data del 20 marzo, gli è stata recapitata attraverso la nunziatura di Berlino. Una lettera «che risponde alla mia richiesta di una libera discussione sul dogma dell’infallibilità» del Papa. «Mi ha risposto in maniera fraterna, in spagnolo, rivolgendosi a me come Lieber Mitbruder, caro fratello, e queste parole personali sono in corsivo», ha fatto sapere Küng. Il grande teologo svizzero «per la riservatezza che devo al Papa» non cita frasi del pontefice. Però dice che «Francesco non ha fissato alcun limite alla discussione», che ha «apprezzato» le sue considerazioni. E con malcelato stupore fa notare quanto sia «per me importante» il fatto che abbia risposto di persona e soprattutto «non abbia lasciato, per così dire, cadere nel vuoto il mio testo». E in effetti il testo, rivolto ad un pontefice, era impegnativo: «Imploro papa Francesco, che mi ha sempre risposto in modo fraterno: riceva questa ampia documentazione e consenta nella nostra Chiesa una discussione libera, non prevenuta e aperta su tutte le questioni irrisolte e rimosse legate al dogma dell’infallibilità. Non si tratta di banale relativismo, che mina i fondamenti etici della Chiesa e della società. E nemmeno di rigido e insulso dogmatismo legato all’interpretazione letterale. È in gioco il bene della Chiesa e dell’ecumene». Küng lo aveva reso pubblico, tradotto in più lingue, il 9 marzo. Giunto all’ottantottesimo compleanno, «da teologo alla fine dei miei giorni, sostenuto da una profonda simpatia per lei e per la sua azione pastorale», il pensatore svizzero aveva rilanciato «un appello che ho più volte inutilmente lanciato nel corso di una discussione pluridecennale». Francesco non ha mai parlato del dogma dell’infallibilità, sancito dal Concilio Vaticano I e da Pio IX il 18 luglio 1870. Del resto nessuno Oltretevere ritiene abbia mai pensato di metterlo in discussione. Bergoglio è il Papa della sinodalità ma ha ben presenti le prerogative del pontefice, che elencò in un discorso memorabile il 18 ottobre 2014, alla fine del Sinodo, citando il Codice di diritto canonico: il Papa è «il garante dell’ubbidienza e della conformità della Chiesa alla volontà di Dio, al Vangelo di Cristo e alla Tradizione della Chiesa, mettendo da parte ogni arbitrio personale, pur essendo - per volontà di Cristo stesso - il “Pastore e Dottore supremo di tutti i fedeli” (canone 749) e pur godendo “della potestà ordinaria che è suprema, piena, immediata e universale nella Chiesa” (canoni 331-334)». Diverso è dire che Francesco non abbia posto «alcun limite alla discussione», come riferisce Küng. Anche perché si tratta del dogma forse più frainteso, oltre che dibattuto. Il Concilio Vaticano I non disse affatto, come molti credono, che il Papa è infallibile tout court . Il Papa è un essere umano e la prima cosa che Bergoglio disse al conclave, subito dopo l’elezione, fu: «Io sono un peccatore». Dopo lunghe discussioni, nel 1870 si stabilì che il Papa è infallibile solo «quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi». Sono casi rarissimi, come quando nel 1950 Pio XII proclamò solennemente l’Assunzione di Maria in cielo. Ma l’estensione dell’infallibilità resta dibattuta tra i teologi. La posizione di Küng è netta: vorrebbe abolirla o almeno sottoporla ad una revisione radicale. Già il fatto che Francesco non abbia posto un limite alla discussione, scrive, è una bella notizia: «Penso che sia ora indispensabile utilizzare questa nuova libertà per portare avanti la riflessione sulle definizioni dogmatiche, che sono motivo di polemica all’interno della Chiesa cattolica e nel suo rapporto con le altre chiese cristiane». Pag 23 Il prossimo Sinodo sulla pace universale Il grande sogno di papa Francesco potrebbe prendere forma attraverso la discussione del prossimo Sinodo dei Vescovi. Il Sinodo, tramite la Segreteria, sta individuando il tema su cui i vescovi di tutto il mondo saranno chiamati a riflettere. Le prime proposte, alla presenza del Papa, secondo l’Ansa hanno riguardato il tema dell’ecumenismo, quello dei sacerdoti sposati ma soprattutto quello di come sviluppare una iniziativa davvero forte in favore della pace universale. E sarebbe proprio quest’ultimo il tema che più sta a cuore a papa Francesco, che già da tempo aveva in mente di trovare le vie per rivolgersi a tutte le religioni per dire un no definitivo alla guerra. La proposta sul tavolo della Segreteria che in questo momento trova più spazio è quella di sottoporre agli episcopati una

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riflessione in grado di far convergere i rappresentanti di tutte le fedi del mondo per sancire una pace universale. LA REPUBBLICA Pag 29 Il dogma dell’infallibilità di Hans Küng Il 9 marzo è apparso su importanti giornali di diversi Paesi il mio appello a papa Francesco per avviare una discussione libera, non prevenuta, aperta sulla questione dell'infallibilità. Mi ha fatto molto piacere ricevere già subito dopo Pasqua, attraverso la nunziatura di Berlino, una lettera personale di papa Francesco datata la domenica delle Palme (20 marzo). In questa lettera sono per me molto significativi i seguenti punti: che papa Francesco mi abbia risposto e che non abbia, per così dire, lasciato cadere nel vuoto il mio appello; che abbia risposto di persona e non attraverso il suo segretario privato o il cardinale segretario di Stato; che sottolinei il carattere fraterno della sua lettera in spagnolo con l'appellativo tedesco «lieber Mitbruder» («caro confratello»), scritto in corsivo; che abbia letto attentamente l'appello che gli avevo rivolto anche in traduzione spagnola; che tenga in grande considerazione le riflessioni che mi hanno indotto a pubblicare il quinto volume dei miei scritti, nel quale propongo di discutere sul piano teologico, alla luce della Sacra Scrittura e della tradizione, le diverse questioni sollevate dal dogma dell' infallibilità, allo scopo di approfondire il dialogo costruttivo della Chiesa del ventunesimo secolo, «semper reformanda», con l'ecumene e la società postmoderna. Papa Francesco non pone alcuna limitazione. Egli ha così corrisposto al mio desiderio di dar luogo a una libera discussione del dogma dell'infallibilità. Ritengo, perciò, che occorra utilizzare questo nuovo spazio libero per portare avanti il chiarimento delle definizioni dogmatiche contestate nella Chiesa e nell'ecumene cattolica. Allora non potevo immaginare quale spazio libero avrebbe aperto pochi giorni dopo papa Francesco nello scritto apostolico post-sinodale Amoris laetitia. Già nell'introduzione egli dichiara che «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero». Egli si volge contro una «una morale fredda da scrivania» e non vuole che i vescovi continuino a comportarsi come «controllori della grazia». Non vede l'eucarestia come un premio per i perfetti, ma come un «alimento per i deboli». Cita ripetutamente affermazioni del sinodo dei vescovi e delle conferenze episcopali nazionali. Non vuole più essere il portavoce solitario della Chiesa. Questo è il nuovo spirito che ho sempre atteso dal magistero. Sono convinto che in questo spirito anche il dogma dell'infallibilità, questa fondamentale questione chiave della Chiesa cattolica, potrà alla fine essere discussa in modo libero, non prevenuto e aperto. Per questo libero spazio rivolgo a papa Francesco un ringraziamento profondamente sentito. Aggiungo l' aspettativa che i vescovi, le teologhe e i teologi facciano proprio senza riserve questo spirito in un dialogo collegiale e collaborino a questo compito nel solco della Scrittura e della grande tradizione ecclesiale. WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT L’evoluzione della dottrina spiegata da «Civiltà Cattolica» di Andrea Tornielli Nel prossimo numero della rivista un articolo di padre Rausch riporta esempi di come l’insegnamento dottrinale si sia sviluppato e abbia subito correzioni e contestualizzazioni «guidate dalla fedeltà al kerygma essenziale e ai princìpi che esprimono l’aspetto duraturo del messaggio cristiano» L’obiettivo dell’articolo è implicito ed è quello di entrare nel dibattito che ha affiancato il lavoro dei Sinodi sulla famiglia continuando ora dopo la pubblicazione dell’esortazione apostolica «Amoris laetitia»: è possibile e in che termini uno sviluppo della dottrina? Sul prossimo numero di «Civiltà Cattolica» l’argomento è proposto in un articolo di padre Thomas P. Rausch, intitolato «Missione pastorale della Chiesa». L’autore parte dalla domanda che si pose nel V secolo san Vincenzo di Lerino: «Un progresso della religione ci può essere nella Chiesa di Cristo?». Quesito oggi traducibile così: «Come si custodisce e trasmette nel tempo il prezioso deposito della fede? In che senso si può parlare di “evoluzione” della dottrina»? Il santo rispondeva affermativamente, proponendo l’esempio delle membra del corpo umano, che sono certamente diverse dal bambino all’adulto e poi nella persona anziana, pur rimanendo sempre le stesse. E dunque si può

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rispondere di sì, secondo Vincenzo da Lerino, «a condizione però che si tratti veramente di un progresso nella fede e non di un cambiamento. È caratteristico del progresso che ogni realtà si sviluppi intrinsecamente, mentre il cambiamento implica il passaggio di una data cosa a qualcos’altro di diverso». Nell’intervista con padre Antonio Spadaro apparsa su «La Civiltà Cattolica» nel 2013, Papa Francesco aveva affermato di meditare spesso su questo brano e lo aveva commentato così: «San Vincenzo di Lerino fa il paragone tra lo sviluppo biologico dell’uomo e la trasmissione da un’epoca all’altra del depositum fidei, che cresce e si consolida con il passar del tempo. Ecco, la comprensione dell’uomo muta col tempo, e così anche la coscienza dell’uomo si approfondisce. Pensiamo a quando la schiavitù era ammessa o la pena di morte era ammessa senza alcun problema. Dunque si cresce nella comprensione della verità. Gli esegeti e i teologi aiutano la Chiesa a maturare il proprio giudizio. Anche le altre scienze e la loro evoluzione aiutano la Chiesa in questa crescita nella comprensione. Ci sono norme e precetti ecclesiali secondari che una volta erano efficaci, ma che adesso hanno perso di valore o significato. La visione della dottrina della Chiesa come un monolite da difendere senza sfumature è errata». Padre Rausch cita in proposito la costituzione conciliare «Dei Verbum», nella quale si afferma: «Questa Tradizione che viene dagli Apostoli progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la riflessione e lo studio dei credenti che le meditano nel loro cuore (cfr Lc 2,19.51), sia con l’intelligenza interiore delle cose spirituali che sperimentano, sia per la predicazione di coloro che con la successione nell’episcopato hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. In altri termini, nel corso dei secoli la Chiesa tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa giungano a compimento le parole di Dio». Questa affermazione, spiega l’autore dell’articolo «illustra il dinamismo accrescitivo della dottrina della Chiesa nell’intelligenza della Tradizione, spiegando come il processo storico di comprensione della verità sia il risultato dell’azione dei diversi soggetti della compagine ecclesiale, giacché la dottrina si costituisce in un processo storico di intelligenza creativa del popolo di Dio nella tradizione/trasmissione. È importante qui notare l’importanza data dal Concilio all’esperienza spirituale dei fedeli. Emerge chiaramente che la dottrina, nel suo dinamismo, è intimamente connessa con la storia vissuta dalla Chiesa: nell’annuncio e nella custodia della fede così come nell’approfondimento spirituale e nell’elaborazione teologica». La Rivelazione, continua padre Rausch, «si dà nella storia: da qui il dinamismo dottrinale nella Chiesa». Viene ricordata la dichiarazione «Mysterium Ecclesiae» della Congregazione per la Dottrina della Fede (1973), che «ha posto l’accento sul “condizionamento storico che incide sull’espressione della Rivelazione”, ovunque si trovi, cioè nella Scrittura, nel Credo, nel dogma e quindi nell’insegnamento del magistero». Ciò significa che è da considerare «opportuna una riformulazione dell’enunciazione del deposito della fede, ossia della verità della dottrina, chiarendone il significato e dandogli nuova veste espressiva affinché sia efficace sotto il profilo pastorale». È la linea indicata nel discorso di apertura del Concilio ecumenico Vaticano II da san Giovanni XXIII, quando ricordava: «Occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale». L’approfondimento e la riesposizione della dottrina devono dunque tener conto del «nesso vitale tra la dottrina e l’annuncio (kerygma) al cuore del Vangelo», osserva l’autore dell’articolo. Un punto importante nel discorso sull’evoluzione della dottrina è il rapporto tra dottrina e dogmi. «Chi respinge un dogma si pone al di fuori della comunità di fede - ricorda padre Rausch - Ma i dogmi possono essere reinterpretati da successive azioni magisteriali, com’è accaduto quando il Concilio Vaticano II ha sviluppato e chiarito la definizione del Concilio Vaticano I riguardo a quella che viene comunemente chiamata “infallibilità pontificia”». Il concilio Vaticano II ha infatti ampliato la definizione del Vaticano I, comprendendovi i vescovi in unione con il Papa nell’esercizio dell’infallibilità della Chiesa, quando in comunione tra loro e con il successore di Pietro, «insegnando ufficialmente a proposito di fede e morale convengono

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su una sentenza da ritenere come definitiva». E ancora di più quando sono riuniti in concilio. Il Vaticano II ha insegnato che anche i fedeli prendono parte all’infallibilità della Chiesa: «La totalità dei fedeli che hanno l’unzione ricevuta dal Santo non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua particolare proprietà mediante il soprannaturale senso della fede di tutto il popolo, quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici” esprime il suo consenso universale in materia di fede e di morale». Padre Rausch cita quindi il testo pubblicato nel giugno 2014 dalla Commissione teologica internazionale nel quale si afferma che i fedeli «non sono soltanto i destinatari passivi di ciò che la gerarchia insegna e che i teologi esplicitano: essi sono al contrario soggetti viventi e attivi in seno alla Chiesa». E svolgono un ruolo nello sviluppo della dottrina, talvolta anche quando vescovi e teologi si dividono su una determinata questione, e nello sviluppo dell’insegnamento morale della Chiesa. Dato che nella vita della Chiesa gli insegnamenti sono espressi per mezzo dei concetti che sono frutto dei tempi e delle culture diverse, si legge ancora nell’articolo di «Civiltà Cattolica», «essi vanno sempre interpretati. La regola della fede nella sua essenza non cambia, ma le espressioni della dottrina e la sua comprensione spontanea segnata dalla cultura cambiano, e per questo il Magistero e i Concili devono assicurare la giusta formulazione della fede». Nella vita pastorale «si deve tener conto dell’esperienza umana, delle nuove informazioni, dei contesti culturali e storici e degli effetti provocati sugli altri». Tra gli esempi che padre Rausch cita c’è l’indiscutibile ed evidente evoluzione avvenuta con il documento conciliare «Dignitatis humanae» rispetto al magistero del secolo precedente. Passando dall’enciclica «Mirari vos» di Gregorio XVI (1832) che definiva «assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza», e dal Sillabo del beato Pio IX (1864), all’affermazione della libertà religiosa tra i diritti fondamentali di ogni essere umano. È vero che il concetto di «libertà religiosa» di Gregorio XVI o di Pio IX non equivaleva a quello che valido per noi oggi, dato che nel XIX secolo la libertà religiosa si comprendeva «come un atto dell’intelletto, che ha il diritto di ignorare arbitrariamente la verità, mentre nel secolo XX essa è intesa come atto della volontà, di libera scelta». Tuttavia, resta vero, scrive l’autore dell’articolo, che «con il Vaticano II si è avuta una svolta significativa», una «chiara evoluzione» rispetto a ciò che teologi, vescovi e Papi hanno insegnato precedentemente. Un altro esempio citato riguarda l’affermazione «fuori della Chiesa non c’è salvezza», che è stata notevolmente approfondita e per la quale, ha affermato il Papa emerito Benedetto XVI si è verificata «una profonda evoluzione del dogma». Un ulteriore esempio riguarda la schiavitù. Citando il beato John Henry Newman, il teologo Yves Congar affermava che lo sviluppo comporta rispetto delle forme acquisite e passate, fedeltà, fondamento e continuità; ma implica pure movimento, crescita e adattamento. La preoccupazione di Papa Francesco, scrive padre Rausch, appare oggi proprio quella di «ricontestualizzare» la dottrina al servizio della missione pastorale della Chiesa. «Ciò può condurre a evoluzioni e correzioni guidate dalla fedeltà al kerygma essenziale e ai princìpi che esprimono l’aspetto duraturo del messaggio cristiano. Se non si riconoscesse questa necessità, si rischierebbe di restare fermi a una visione della dottrina intesa come un deposito di verità astratte e statiche, indipendenti da qualsiasi particolare contesto storico». Alla luce degli esempi proposti, «La Civiltà Cattolica» conclude che «la dottrina della Chiesa non va ridotta a qualcosa di meramente regolativo e informativo, espungendone il carattere vissuto e trasformativo proprio del dinamismo della fede guidato dall’annuncio dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo». «Come abbiamo precedentemente ricordato - conclude l’autore - questa fu la prospettiva di san Giovanni XXIII, il quale desiderava un magistero di carattere fondamentalmente pastorale, piuttosto che soltanto dedito a ripetere precedenti formulazioni dottrinali. Così, anche la prospettiva di Papa Francesco mette in evidenza con decisione la “pastoralità della dottrina”. La dottrina va dunque interpretata in relazione al cuore del kerygma cristiano e alla luce del contesto pastorale in cui verrà applicata, sempre ricordando che la suprema lex deve essere la salus animarum, la salvezza delle anime». WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT L'opzione tedesca del papa argentino di Sandro Magister

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Il cardinale Kasper e l'ala progressista della Chiesa di Germania hanno ottenuto ciò che volevano. Sulla comunione ai divorziati risposati Francesco è dalla loro parte. L'aveva deciso da tempo e così ha fatto La conferma definitiva dell'adesione di papa Francesco alla soluzione tedesca della cruciale questione della comunione ai divorziati risposati l'ha data il più celebre dei cardinali e teologi di Germania, Walter Kasper, nell'intervista del 22 aprile al quotidiano di Aquisgrana "Aachener Zeitung”. Grazie all'esortazione postsinodale "Amoris lætitia" – ha detto Kasper – i vescovi tedeschi hanno ora "il vento in poppa per risolvere tali situazioni in un modo umano". E ha raccontato questo episodio rivelatore. Tempo fa un prete di sua conoscenza aveva deciso di non proibire a una madre risposata di fare anche lei la comunione nel giorno della prima comunione di sua figlia. E lui stesso, Kasper, aveva aiutato quel prete a decidere così, sicuro che avesse "pienamente ragione". Il cardinale riferì poi la cosa al papa, che approvò la scelta e gli disse: "È così che un pastore deve prendere una decisione". Dunque "la porta è aperta" per l'ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti, ha proseguito Kasper. "C'è anche una certa libertà per i singoli vescovi e le conferenze episcopali. Perché non tutti i cattolici la pensano come noi tedeschi. Qui [in Germania] può essere consentito ciò che in Africa è proibito. E allora il papa dà libertà per differenti situazioni e futuri sviluppi". Tra Kasper e Jorge Mario Bergoglio c'è molto di più che un contatto episodico. Nell'ultima sua conferenza stampa in aereo, di ritorno dall'isola greca di Lesbo, Francesco ha detto di aver provato "fastidio" e "tristezza" per l'importanza data dai media alla comunione ai divorziati risposati. Eppure ciò è accaduto proprio a motivo della scelta del papa di affidare a Kasper – da decenni il numero uno dei fautori di una svolta in materia – la relazione d'apertura del concistoro cardinalizio del febbraio 2014. A quel drammatico concistoro seguirono due sinodi che misero a nudo forti divisioni dentro la gerarchia della Chiesa. Ma nella mente di Francesco il copione era già scritto. Ed quello che ora si legge nella "Amoris lætitia", il cui clou è precisamente il capitolo ottavo, redatto nella forma vaga ed ondivaga tipica di Jorge Mario Bergoglio quando vuole aprire e non chiudere un processo, ma che appunto fa ora dire a Kasper e ai tedeschi, con sicurezza assoluta, di avere ormai "il vento in poppa". Certo, non tutti i cardinali e vescovi di Germania concordano con Kasper. Anche l'altro cardinale e teologo Gerhard L. Müller, prefetto della congregazione per la dottrina della fede, è tedesco, e ha fatto sapere più volte – l'ultima in un libro uscito pochi giorni prima della pubblicazione della "Amoris lætitia" – di essere in radicale dissenso con chi, assolvendo i divorziati risposati e ammettendoli alla comunione, mina di fatto le fondamenta non di uno ma di tre sacramenti, il matrimonio, la penitenza e l'eucaristia. Ma è ormai di evidenza solare che per Francesco il cardinale Müller non conta nulla, a dispetto del suo ruolo di custode della dottrina e dell'inutile fatica con cui ha rinviato al papa con decine di note correttive la bozza dell'esortazione, datagli in visione in anticipo per mero dovere d'ufficio. Infatti, per presentare ufficialmente al mondo la "Amoris lætitia" nel giorno della sua pubblicazione il papa non ha chiamato Müller, ma un altro cardinale e teologo dell'area germanofona, Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna. E pochi giorni dopo, durante il volo da Lesbo a Roma, Francesco ha di nuovo proposto Schönborn come esegeta principe dell'esortazione postsinodale, da "grande teologo [che] conosce bene la dottrina della fede" quale l'ha definito. Alla domanda se per i divorziati risposati c'è ora sì o no la possibilità in precedenza preclusa di fare la comunione, il papa ha risposto con un perentorio e per una volta inequivocabile: "Sì. Punto". Ma ha raccomandato di rivolgersi proprio a Schönborn per avere una risposta più dettagliata. E non a caso. Perché nel sinodo dello scorso ottobre fu proprio l'arcivescovo di Vienna, d'intesa con Kasper, a escogitare nel "Circulus germanicus" le formule di apparente rispetto del magistero tradizionale della Chiesa ma nello stesso tempo aperte al cambiamento – capaci di aggirare le obiezioni di Müller – che sono poi confluite nella "Relatio finalis" del sinodo e infine nella "Amoris lætitia", sempre in quella forma studiatamente ambigua che consente però ora al partito di Kasper di cantare vittoria e a Müller e agli altri della sua parte di patire una sconfitta bruciante. Sul fronte opposto alla vittoriosa soluzione tedesca c'è finora un unico vescovo che ha reagito andando dritto al cuore della questione, non solo trincerandosi dietro la natura "non magisteriale" – e quindi interpretabile unicamente alla luce del precedente magistero della Chiesa – della

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"Amoris lætitia", come invece ha scelto di fare ad esempio il cardinale Raymond L. Burke. Questo vescovo è anche lui, curiosamente, di ascendenza tedesca. È l'ausiliare di Astana nel Kazakistan, Athanasius Schneider. Il testo integrale del pronunciamento del vescovo Schneider è uscito il lingua italiana il 24 aprile sull'agenzia on line "Corrispondenza Romana" diretta dal professor Roberto de Mattei. E in lingua inglese il giorno successivo nel blog "Veri Catholici". Sulla questione della comunione ai divorziati risposati, la critica di Schneider alla "confusione" prodotta dalla "Amoris lætitia" è durissima. "La confusione raggiunge il suo apice – scrive – poiché tutti, sia i sostenitori della ammissione dei divorziati risposati alla comunione sia i loro oppositori, sostengono che la dottrina della Chiesa in questa materia non è stata modificata". Schneider instaura un paragone col dilagare dell'eresia ariana nel IV secolo. Nel 357 la confusione giunse all'estremo quando lo stesso papa Liberio sottoscrisse una formula ambigua riguardo alla divinità di Gesù, il che fece dire a san Girolamo, descrivendo lo stato di smarrimento dell'epoca: "Il mondo intero gemette e si accorse con stupore di essere diventato ariano". In quel frangente – fa notare Schneider – "sant’Ilario di Poitiers fu l’unico vescovo ad aver mosso gravi rimproveri a papa Liberio per tali atti ambigui". Ma anche oggi – prosegue l'ausiliare di Astana – la situazione è tale che qualcuno potrebbe esclamare come san Girolamo: "Tutto il mondo gemette e si accorse con stupore di aver accettato il divorzio nella prassi". Come dunque nel IV secolo "san Basilio il Grande fece un appello urgente al papa di Roma affinché indicasse con la sua parola una chiara direzione per ottenere finalmente l’unità di pensiero nella fede e nella carità", così oggi "si può considerare legittimo un appello al nostro caro papa Francesco, il vicario di Cristo e 'il dolce Cristo in terra' (santa Caterina da Siena), affinché ordini la pubblicazione di una interpretazione autentica di 'Amoris lætitia', che dovrebbe necessariamente contenere una dichiarazione esplicita del principio disciplinare del magistero universale e infallibile riguardo l’ammissione ai sacramenti dei divorziati risposati, così come è formulato nel n. 84 della 'Familiaris consortio'". Il quale n. 84, "incomprensibilmente assente da 'Amoris lætitia'", dice: "La riconciliazione nel sacramento della penitenza – che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico – può essere accordata solo a quelli che... assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi". Allo stato degli atti appare comunque inverosimile che papa Francesco accolga un simile appello. Il processo di cambiamento è in moto e lui per primo non mostra la minima intenzione di volerlo fermare. Anzi. Ed è il processo nel quale i tedeschi della linea Kasper "ottengono tutto quello che vogliono", come osserva il teologo morale E. Christian Brugger, professore al seminario teologico St. John Vianney di Denver, nell'analisi della "Amoris lætitia" da lui pubblicata il 22 aprile su "The Catholic World Report", la rivista on line americana diretta da Carl Olson ed edita dal gesuita Joseph Fessio, fondatore e direttore della Ignatius Press. Qui di seguito sono riportati alcuni passaggi dell'analisi del professor Brugger, di cui è imminente l'uscita di un saggio sull'indissolubilità del matrimonio nel concilio di Trento. Un'ultima notazione a proposito dell'asse tra il papa argentino e l'ala progressista della gerarchia tedesca: il cardinale Kasper, assieme al connazionale e sodale Karl Lehmann, ha avuto una parte importante in quel manipolo di porporati che nei decenni prima e dopo il 2000 si riuniva periodicamente a San Gallo, nella Svizzera tedesca, e dal quale è infine sbocciata l'elezione di Bergoglio a papa. Cinque seri problemi con il capitolo 8 di "Amoris lætitia" di E. Christian Brugger Per i cattolici che si sentono stanchi degli attacchi che la famiglia cristiana ha ultimamente sofferto ad opera del laicismo militante, l’esortazione postsinodale di papa Francesco "Amoris lætitia" (AL) ha molte cose incoraggianti da dire: per esempio, la sua affermazione esplicita che "nessun atto genitale degli sposi può negare" la verità che "l'unione [coniugale] è ordinata alla generazione ‘per la sua stessa natura’” (AL 80; cfr. 222); la sua bruciante condanna dell'uccisione del nascituro (n. 83); la sua affermazione senza tentennamenti che ogni bambino ha un "diritto naturale" di avere una madre e un padre (n. 172), e la sua conseguente trattazione – la più ampia in qualsiasi documento papale degli ultimi 50 anni – dell'importanza dei padri per i bambini (n. 175). Ma sebbene il testo dica molte cose vere e belle su "l'amore nella famiglia", il capitolo 8 (dal titolo "Accompagnare, discernere, e integrare la fragilità" ) dà spazio – e sembra farlo

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intenzionalmente – a interpretazioni che pongono seri problemi per la fede e la pratica cattolica. Mi concentro qui su cinque di questi problemi: 1. Il modo in cui è presentato il ruolo che le attenuanti della colpevolezza dovrebbero svolgere nella pastorale 2. L'incoerenza del concetto di "non giudicare" gli altri 3. La definizione del ruolo della coscienza nella assoluzione di persone in situazioni oggettivamente di peccato 4. La trattazione degli assoluti morali come "regole" che scandiscono le esigenze di un "ideale", piuttosto che doveri morali vincolanti per tutti in ogni situazione 5. L'incoerenza con l'insegnamento del concilio di Trento Il trattamento problematico dell’atto di “giudicare” nella ”Amoris Lætitia" - Il capitolo 8 insiste sulla necessità di "evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni" (n. 296). Questo è, naturalmente, un buon consiglio e dovrebbe essere preso sul serio da tutti i soggetti impegnati nel lavoro pastorale. Ma nello stesso tempo il testo sembra anche insistere sul fatto che è proprio alla luce della considerazione di tale complessità che i pastori possono ritenere che delle persone siano in buona fede quando decidono di rimanere nella loro irregolarità. Ma se non dobbiamo – e in realtà non possiamo – emettere un giudizio di condanna sullo stato dell'anima di un'altra persona, allora non dobbiamo e non possiamo neanche emettere un giudizio di assoluzione. Ma il capitolo 8 implica che i pastori possono avere un'adeguata certezza che una persona sia priva di imputabilità soggettiva e quindi possono autorizzarla a partecipare ai sacramenti. Il paragrafo 299 fa anche riferimento ai divorziati risposati civilmente come “membra vive” della Chiesa. Il comune significato di membro "vivo” è quello di una persona battezzata e in grazia. Ma come può un sacerdote ritenere che tali persone siano in grazia senza esprimere un giudizio? Papa Francesco insiste, e giustamente, sul fatto che non dobbiamo giudicare. Ma il giudizio non è solo condannare; significa anche assolvere. Il presupposto qui, e in tutto il capitolo, è che i pastori possono davvero emettere un giudizio di assoluzione sulle coscienze in modo che le persone in unione irregolare possano andare avanti. Ma se non possiamo e non dobbiamo giudicare le anime degli altri, allora non possiamo né condannarle dicendo che sono certamente colpevoli di peccato mortale, né assolverle dicendo che non sono soggettivamente colpevoli nel compiere una scelta di materia grave. Non possiamo giudicare. Se i pastori non possono giudicare le anime, che cosa dovrebbero fare? Essi dovrebbero accettare la valutazione che una persona fa della propria anima. Se i pastori notassero degli indizi di attenuazione della colpevolezza, dovrebbero aiutare delicatamente la persona a scorgere questi fattori, poi caritatevolmente informarla circa l'insegnamento più pieno di Gesù sul matrimonio (cioè dovrebbero impegnarsi nella formazione della coscienza); il pastore dovrebbe poi scoprire se la persona è decisa a vivere secondo l'insegnamento di Gesù come inteso dalla Chiesa cattolica; e se la persona dicesse "no", o “non posso", il pastore direbbe: “Guardi, non posso dire se lei si trova in peccato grave rifiutando di accettare l'insegnamento della Chiesa, perché io non posso giudicare la sua anima. Ma anche se lei fosse veramente in buona fede, non posso giudicare che lei possa giustamente ricevere la santa eucaristia, perché non posso saperlo, e se le dicessi questo potrei incoraggiarla a giustificare un peccato mortale in atto e comportare la sua dannazione eterna. Inoltre, come insegna san Giovanni Paolo II, 'se si ammettessero queste persone all'eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio' ('Familiaris consortio' 84)". In questo modo, i pastori veramente metterebbero in pratica l’ammonimento evangelico di papa Francesco a "non giudicare". Ma questi paragrafi danno uno scarso incoraggiamento a questa interpretazione. […] "Amoris Lætitia" tratta i comandamenti morali assoluti come regole che scandiscono le esigenze di un ideale. Esempio 2: AL 305: "A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa. Il discernimento deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti. Credendo che tutto sia bianco o nero, a volte chiudiamo la via della grazia e della crescita e scoraggiamo percorsi di santificazione che danno gloria a Dio. Ricordiamo che 'un piccolo passo, in mezzo a

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grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà'. La pastorale concreta dei ministri e delle comunità non può mancare di fare propria questa realtà". In questo passaggio di AL i vescovi tedeschi ottengono tutto quello che vogliono. È vero che delle persone, a causa di un'ignoranza invincibile, possono vivere in grazia mentre optano per materie oggettivamente e gravemente immorali. Ma è anche vero che se un pastore sapesse che si trovano in una tale ignoranza, avrebbe il dovere di carità di aiutarle a uscire dalla loro situazione oggettivamente peccaminosa. Ma il passaggio citato non presuppone che il peccatore sia in ignoranza invincibile, o che il pastore supponga questo. Il passaggio suppone che delle persone che oggettivamente commettono adulterio possono pensare che sono "in grazia di Dio", e che anche il loro pastore può pensarlo, e che il loro giudizio è giusto perché approva ciò che in realtà Dio sta chiedendo a loro qui e ora, che non è ancora l'ideale. Il pastore deve aiutarle a trovare la pace nella loro situazione, e aiutarle a ricevere "l'aiuto della Chiesa", che (la nota 351 lo dice chiaramente) include "l'aiuto dei sacramenti". Così, ancora una volta, i vescovi tedeschi finalmente ottengono ciò che vogliono. Coppie divorziate e risposate civilmente si trovano in situazioni complesse, a volte senza sensi di colpa. I pastori dovrebbero aiutarle a discernere se la loro situazione è accettabile, anche se è "oggettivamente" peccaminosa, in modo che possano tornare ai sacramenti. Più in generale, tutti coloro che hanno dissentito contro gli insegnamenti morali assoluti della Chiesa ottengono quello che volevano. Perché quei cosiddetti assoluti sono ormai ideali non vincolanti, e le persone che pensano che la contraccezione e altro sono giusti per loro qui e ora farebbero semplicemente ciò che Dio sta chiedendo a loro nelle loro complesse situazioni. Un altro punto altrettanto importante deve essere preso in considerazione a proposito di questo processo di assoluzione delle coscienze. Il foro interno è interno solo per i preti. La persona divorziata è libera di parlare di ciò che accade nella confessione. Se i preti assolvono i divorziati e risposati per farli riaccedere ai sacramenti senza riformare le loro vite, alcuni di costoro certamente potrebbero gridare dai tetti: "Posso fare la comunione". Proprio questo ha detto Giovanni Paolo II in "Familiaris consortio" 84: “Se si ammettessero queste persone all'eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull'indissolubilità del matrimonio". Perché ciò dovrebbe portare a tale confusione? Perché la Chiesa non solo insegna con quello che dice, ma anche con quello che fa. Se si desse a persone invalidamente coniugate il via libera a ricevere la santa comunione – e sappiamo che i matrimoni civili dei cattolici non sono validi perché perlomeno mancano della forma corretta –, se i sacerdoti dessero questo via libera (costituendo con ciò un atto ecclesiale), ciò insegnerebbe che il matrimonio non è indissolubile. Come potrebbe essere indissolubile se la Chiesa dice che le seconde unioni sono valide? Atti di pastori della Chiesa mineranno la verità rivelata della indissolubilità del matrimonio. Spaemann: "È il caos eretto a principio con un tratto di penna" Il professor Robert Spaemann, 89 anni, coetaneo e amico di Joseph Ratzinger, è professore emerito di filosofia presso la Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera. È uno dei maggiori filosofi e teologi cattolici tedeschi. Vive a Stoccarda. Il suo ultimo libro uscito in Italia è: "Dio e il mondo. Un'autobiografia in forma di dialogo", edito da Cantagalli nel 2014. Questa che segue è la traduzione dell'intervista sulla “Amoris lætitia” che ha dato in esclusiva ad Anian Christoph Wimmer per l'edizione tedesca di Catholic News Agency del 28 aprile D. – Professor Spaemann, lei ha accompagnato con la sua filosofia i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Molti fedeli oggi si chiedono se l’esortazione postsinodale “Amoris lætitia” di papa Francesco possa essere letta in continuità con l’insegnamento della Chiesa e di questi papi. R. – Per la maggior parte del testo ciò è possibile, anche se la sua linea lascia spazio a delle conclusioni che non possono essere rese compatibili con l’insegnamento della Chiesa. In ogni caso l’articolo 305, insieme con la nota 351, in cui si afferma che i fedeli "entro una situazione oggettiva di peccato" possono essere ammessi ai sacramenti "a causa dei fattori attenuanti", contraddice direttamente l’articolo 84 della "Familiaris consortio" di Giovanni Paolo II.

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D. – Che cosa stava a cuore a Giovanni Paolo II? R. – Giovanni Paolo II dichiara la sessualità umana "simbolo reale della donazione di tutta la persona" e, più precisamente, "un’unione non temporanea o ad esperimento". Nell’articolo 84 afferma, dunque, in tutta chiarezza che i divorziati risposati, se desiderano accedere alla comunione, devono rinunciare agli atti sessuali. Un cambiamento nella prassi dell’amministrazione dei sacramenti non sarebbe quindi "uno sviluppo" della "Familiaris consortio", come ritiene il cardinal Kasper, ma una rottura con il suo insegnamento essenziale, sul piano antropologico e teologico, riguardo al matrimonio e alla sessualità umana. La Chiesa non ha il potere, senza che vi sia una conversione antecedente, di valutare positivamente delle relazioni sessuali, mediante l’amministrazione dei sacramenti, disponendo in anticipo della misericordia di Dio. E questo rimane vero a prescindere da quale sia il giudizio su queste situazioni sia sul piano morale che su quello umano. In questo caso, come per il sacerdozio femminile, la porta qui è chiusa. D. – Non si potrebbe obiettare che le considerazioni antropologiche e teologiche da lei citate siano magari anche vere, ma che la misericordia di Dio non è legata a tali limiti, ma si collega alla situazione concreta di ogni singola persona? R. – La misericordia di Dio riguarda il cuore della fede cristiana nell’incarnazione e nella redenzione. Certamente lo sguardo di Dio investe ogni singola persona nella sua situazione concreta. Egli conosce ogni singola persona meglio di quanto essa conosca se stessa. La vita cristiana, però, non è un allestimento pedagogico in cui ci si muove verso il matrimonio come verso un ideale, così come pare presentata in molti passi della "Amoris lætitia". L’intero ambito delle relazioni, particolarmente quelle di carattere sessuale, ha a che fare con la dignità della persona umana, con la sua personalità e libertà. Ha a che fare con il corpo come "tempio di Dio" (1 Cor 6, 19). Ogni violazione di questo ambito, per quanto possa essere divenuto frequente, è quindi una violazione della relazione con Dio, a cui i cristiani si sanno chiamati; è un peccato contro la sua santità, e ha sempre e continuamente bisogno di purificazione e conversione. La misericordia di Dio consiste proprio nel fatto che questa conversione è resa continuamente e di nuovo possibile. Essa, certamente, non è legata a determinati limiti, ma la Chiesa, per parte sua, è obbligata a predicare la conversione e non ha il potere di superare i limiti esistenti mediante l’amministrazione dei sacramenti, facendo, in tal modo, violenza alla misericordia di Dio. Questa sarebbe orgogliosa protervia. Pertanto, i chierici che si attengono all’ordine esistente non condannano nessuno, ma tengono in considerazione e annunciano questo limite verso la santità di Dio. È un annuncio salutare. Accusarli ingiustamente, per questo, di "nascondersi dietro gli insegnamenti della Chiesa" e di "sedere sulla cattedra di Mosè… per gettare pietre contro la vita delle persone" (art. 305), è qualcosa che nemmeno voglio commentare. Si noti, solo per inciso, che qui ci si serve, giocando su un fraintendimento intenzionale, del passo evangelico citato. Gesù dice, infatti, sì, che i farisei e gli scribi siedono sulla cattedra di Mosè, ma sottolinea espressamente che i discepoli devono praticare e osservare tutto quello che essi dicono, ma non devono vivere come loro (Mt 23, 2). D. – Il papa vuole che non ci si concentri su delle singole frasi della sua esortazione, ma che si tenga conto di tutta l’opera nel suo insieme. R. – Dal mio punto di vista, concentrarsi sui passi citati è del tutto giustificato. Davanti a un testo del magistero papale non ci si può attendere che la gente si rallegri per un bel testo e faccia finta di niente davanti a frasi decisive, che cambiano in maniera sostanziale l’insegnamento della Chiesa. In questo caso c’è solo una chiara decisione tra il sì e il no. Dare o non dare la comunione: non c’è una via media. D. – Papa Francesco nel suo scritto ripete che nessuno può essere condannato per sempre. R. – Mi risulta difficile capire che cosa intenda. Che alla Chiesa non sia lecito condannare personalmente nessuno, men che meno eternamente – cosa che, grazie a Dio, nemmeno può fare – è qualcosa di chiaro. Ma, se si tratta di relazioni sessuali che contraddicono oggettivamente l’ordinamento di vita cristiano, allora vorrei davvero sapere dal papa dopo quanto tempo e in quali circostanze una condotta oggettivamente peccaminosa si muta in una condotta gradita a Dio. D. – Qui, dunque, si tratta davvero di una rottura con la tradizione dell’insegnamento della Chiesa?

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R. – Che si tratti di una rottura è qualcosa che risulta evidente a qualunque persona capace di pensare che legga i testi in questione. D. – Come si è potuti giungere a questa rottura? R. – Che Francesco si ponga in una distanza critica rispetto al suo predecessore Giovanni Paolo II lo si era già visto quando lo ha canonizzato insieme con Giovanni XXIII, nel momento in cui ha ritenuto superfluo per quest’ultimo il secondo miracolo che, invece, è canonicamente richiesto. Molti a ragione hanno percepito questa scelta come manipolativa. Sembrava che il papa volesse relativizzare l’importanza di Giovanni Paolo II. Il vero problema, però, è un influente corrente di teologia morale, già presente tra i gesuiti nel secolo XVII, che sostiene una mera etica situazionale. Le citazioni di Tommaso d’Aquino prodotte dal papa nella "Amoris lætitia" sembrano sostenere questo indirizzo di pensiero. Qui, però, si trascura il fatto che Tommaso d’Aquino conosce atti oggettivamente peccaminosi, per i quali non ammette alcuna eccezione legata alle situazioni. Tra queste rientrano anche le condotte sessuali disordinate. Come già aveva fatto negli anni Cinquanta con il gesuita Karl Rahner, in un suo intervento che contiene tutti gli argomenti essenziali, ancor oggi validi, Giovanni Paolo II ha ricusato l’etica della situazione e l’ha condannata nella sua enciclica "Veritatis splendor". "Amoris Laetitia" rompe anche con questo documento magisteriale. A questo proposito, poi, non si dimentichi che fu Giovanni Paolo II a mettere a tema del proprio pontificato la misericordia divina, a dedicarle la sua seconda enciclica, a scoprire a Cracovia il diario di suor Faustina e, in seguito, a canonizzare quest’ultima. È lui il suo interprete autentico. D. – Che conseguenze vede per la Chiesa? R. – Le conseguenze si possono vedere già adesso. Crescono incertezza, insicurezza e confusione: dalle conferenze episcopali fino all’ultimo parroco nella giungla. Proprio pochi giorni fa un sacerdote dal Congo mi ha espresso tutto il suo sconforto davanti a questo testo e alla mancanza di indicazioni chiare. Stando ai passaggi corrispondenti di "Amoris lætitia", in presenza di non meglio definite "circostanze attenuanti", possono essere ammessi alla assoluzione dei peccati e alla comunione non solo i divorziati risposati, ma tutti coloro che vivono in qualsivoglia "situazione irregolare", senza che debbano sforzarsi di abbandonare la loro condotta sessuale, e, dunque, senza piena confessione e senza conversione. Ogni sacerdote che si attenga all’ordinamento sacramentale sinora in vigore potrebbe subire forme di mobbing dai propri fedeli ed essere messo sotto pressione dal proprio vescovo. Roma può ora imporre la direttiva per cui saranno nominati solo vescovi “misericordiosi”, che sono disposti ad ammorbidire l’ordine esistente. Il caos è stato eretto a principio con un tratto di penna. Il papa avrebbe dovuto sapere che con un tale passo spacca la Chiesa e la porta verso uno scisma. Questo scisma non risiederebbe alla periferia, ma nel cuore stesso della Chiesa. Che Dio ce ne scampi. Una cosa, però, mi sembra sicura: quel che sembrava essere l’aspirazione di questo pontificato – che la Chiesa superi la propria autoreferenzialità, per andare incontro con cuore libero alle persone – con questo documento papale è stato annichilito per un tempo imprevedibile. Ci si deve aspettare una spinta secolarizzatrice e un ulteriore regresso del numero dei sacerdoti in ampie parti del mondo. Si può facilmente verificare, da parecchio tempo, che i vescovi e le diocesi con un atteggiamento non equivoco in materia di fede e di morale hanno il numero maggiore di vocazioni sacerdotali. Si deve qui rammentare quel che scrive san Paolo nella lettera ai Corinti: "Se la tromba emette un suono confuso, chi si preparerà alla battaglia?" (1 Cor 14, 8). D. – Che cosa succederà ora? R. – Ogni singolo cardinale, ma anche ogni vescovo e sacerdote è chiamato a difendere nel proprio ambito di competenza l’ordinamento sacramentale cattolico e a professarlo pubblicamente. Se il papa non è disposto a introdurre delle correzioni, toccherà al pontificato successivo rimettere le cose a posto ufficialmente. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DEL VENETO

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Pag 6 I laureati veneti trovano lavoro più in fretta che nel resto d’Italia di Alice D’Este I dati Almalaurea: a tre anni dal titolo quasi il 90% ha trovato un'occupazione Venezia. Piccoli passi avanti ma che permettono per la prima volta di tirare un sospiro di sollievo: per i giovani laureati italiani e veneti qualcosa sta cambiando. Lo dicono i dati nazionali del Consorzio AlmaLaurea che vedono, per la prima volta dal 2007 un segno più nelle percentuali relative all’occupazione dopo la laurea ad 1 e 3 anni di distanza. Una ripresa minima, certo, considerando la perdita di almeno 20 punti (a livello occupazionale) dal 2007 ad oggi, ma comunque qualcosa. L’analisi comparata delle ultime otto generazioni di laureati da un lato conferma le difficoltà recenti del mercato del lavoro ma dall’altro mostra il timido emergere nel corso del 2015 di alcuni segnali di ripresa. In particolare, tra i neolaureati cala la disoccupazione e aumentano le retribuzioni. Il Veneto come sempre «stacca» sensibilmente il resto d’Italia con performance molto buone, soprattutto a 3 anni dalla laurea, quando risultano aver trovato lavoro l’89% dei laureati veronesi, l’88% di quelli di Ca’ Foscari a Venezia, l’87,3% di quelli dell’Università di Padova e l’85% di quelli di Iuav, la scuola veneziana di Architettura, contro l’80% della media italiana. Diverso il dato a un anno dal titolo, che in tutte le università venete raggiunge o supera di poco il 60% (Padova 60,8%; Ca’ Foscari 57,6%; Iuav 54,3%) tranne a Verona dove arriva al 69,1% mentre in Italia si ferma al 52,3%. Numeri bassi che non devono però trarre in inganno facendo pensare a una mancata ricettività delle imprese venete. A determinarli infatti spesso è la scelta degli studenti: la maggior parte di loro dopo la triennale prosegue gli studi (e dunque non cerca lavoro). Il dato, infatti, se calcolato considerando solo chi si ferma dopo la triennale sale all’82% per Verona (dove a proseguire gli studi è solo il 36%), al 78% per Padova e al 67% per Ca’ Foscari e Iuav. Una particolarità, quella veronese legata anche alla grande attenzione agli stage (il 75% degli studenti ha fatto tirocini durante il corso di studi). «Sono numeri incoraggianti – dice Tommaso Dalla Massara, delegato del rettore all’orientamento di Verona - l’alta occupazione a un anno è il risultato anche della politica sugli stage, che spesso fanno da volano ai primi impieghi». A tre anni dalla laurea, però, anche Venezia e Padova raggiungono percentuali molto buone. A Venezia l’88% dei laureati magistrali biennali del 2012 ha un lavoro e gli occupati stabili sono il 48%. «Gli ultimi dati del Rapporto AlmaLaurea confermano l’efficacia delle scelte strategiche di Ca’ Foscari – dice Michele Bugliesi, rettore veneziano - l’investimento nell’internazionalizzazione delle nostre proposte formative, nella qualità dei contenuti e nei servizi, dalle infrastrutture allo stage e Placement, trovano riscontro nel grado di soddisfazione dei laureati e soprattutto nei dati occupazionali che per Ca’ Foscari si confermano nuovamente al di sopra della media nazionale». Le retribuzioni superano di 40 euro la media italiana, pur cresciuta rispetto al passato (si arriva a 1.233 euro mensili in Italia, a 1.278 per i laureati dell’università di Padova, a 1.277 per quelli di Ca’ Foscari, 1273 a Verona e a 1.213 per quelli di Iuav). «Abbiamo sempre patito una condizione più complicata rispetto alle altre università sia sul fronte dell’occupazione che della retribuzione – spiega Alberto Ferlenga, rettore di Iuav – il nostro non è un ateneo che copre tutti i corsi di laurea ma ha una specificità precisa, i dati quindi non sono comparabili. Tra le scuole di architettura italiane però è una di quelle che sta funzionando meglio». Sul fronte dei voti, la media italiana è di 102 su 110; Verona si attesta sul 100, Padova sul 101, Iuav sul 104, Ca’ Foscari sul 103. E in Veneto gli studi si concludono prima: a 26 anni in Italia, a 25 o poco più nei nostri atenei. «I dati delle università venete - dice Daniela Lucangeli, prorettore di Padova - sono vicini perché da anni lavoriamo insieme con il coordinamento della Regione, senza entrare in competizione. Padova raggiunge indici di eccellenza che di solito riguardano solo le piccole università: il confronto premia gli sforzi del nostro servizio orientamento». LA NUOVA Pag 25 “Shopping libero il Primo maggio, hanno vinto ancora i poteri forti” di Marta Artico Don Torta tuona contro le aperture festive: sono scandalizzato, una deriva culturale che fa spavento nel segno del consumismo

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«Ancora una volta i poteri forti delle multinazionali hanno ordinato ai centri commerciali di tenere aperto, passando sopra a San Marco e offendendo il Primo maggio, festa dei Lavoratori». Don Enrico Torta, il parroco di Dese che da anni ha abbracciato due battaglie, quella contro i “forzati del lavoro” e quella contro le banche che schiacciano le persone, non ci sta. Punta il dito contro la liberalizzazione del commercio e le aperture festive, quella del 25 aprile, appena passata, e la prossima alle porte, quella del Primo maggio. Domenica outlet e centri commerciali saranno aperti. Don Torta prova a scuotere gli animi, parlando ad alta voce nella speranza di fare breccia: «Continuo a scandalizzarmi», spiega, «mi scandalizzo perché siamo immersi in una deriva culturale che fa spavento alle pietre, governo e pubbliche amministrazioni si impongano contro lo strapotere del profitto a tutti i costi, ci sono valori di vita comuni che vanno al di là del nudo lucro del denaro e meritano rispetto. L'ondata di piena di questi colossi sta sterilizzando con tonnellate di proposte i desideri di libertà e scelta creativa ben più utili alle famiglie. Al consumo interessa ridurre a zombie le persone purché comprino prodotti, siamo sommersi da bisogni indotti con il lavaggio dei cervelli, siamo bombardati da una pubblicità che rende pepite d'oro anche lo sterco, bisogna arginare questa deriva che riduce l'uomo a stomaco e intestino». E aggiunge: «Non dobbiamo permettere questo massacro a cui andiamo incontro attraverso la deificazione del denaro. È l'uomo il centro della vita e nell'uomo i suoi valori più alti». Lo va dicendo da anni don Torta, bisogna tornare ai valori umani che si coltivano stando in famiglia, dedicando del tempo a se stessi e agli altri. Sulla questione interviene anche Tiziana D'Andrea, la trevigiana diventata portavoce del movimento “Domenica No Grazie”. «Stiamo attivando un nuovo servizio», annuncia, «per denunciare tutto ciò che c'è dietro la liberalizzazione selvaggia. Abbiamo preso accordi con una grossa associazione che ci darà assistenza legale: le persone in difficoltà, dipendenti che si sentono vessati o hanno problemi con i turni piuttosto che con le domeniche, potranno contattare il numero verde, la prima consulenza sarà gratuita, poi decideranno se continuare il percorso. La stessa cosa vale per i titolari e gli imprenditori che vogliono fare causa contro i centri commerciali che li obbligano a tenere aperto. Non si tratta solo di una tematica che riguarda i dipendenti, ma anche l'imprenditoria, i negozianti che hanno casa all'interno di un colosso dello shopping e che vivono una difficoltà, riceviamo moltissime segnalazioni e faremo da anello di congiunzione». Conclude: «Troviamo drammatico che ancora una volta gente che ha voglia di fare metta a disposizione del proprio tempo perché le categorie non ci riescono». E sul Primo Maggio: «Non sappiamo più cosa dire, prima ero sconfortata e provavo rabbia, adesso ci arrivano testimonianze di rassegnazione da parte di mamme che lavorano da vent'anni nel commercio e che adesso mandano via curriculum a imprese di pulizie pur di conciliare tempo e lavoro, mentre il Governo non fa nulla di quanto ha promesso». I centri commerciali domenica rimarranno aperti: Outlet di Noventa, Valecenter di Marcon, Nave De Vero e Panorama di Marghera, Centro Le Barche di Mestre e Auchan (gallerie aperte e iper chiuso). Anche la Coop Campo Grande di Mestre starà chiusa, come le altre della catena. «Una volta in più sono contrariato da questo atteggiamento che si ripete a ridosso delle festività nazionali», commenta Andrea Stevanin, segretario provinciale di Fisascat, «purtroppo queste aziende non capiscono il valore civile e sociale delle festività, persino di quelle legate alla Costituzione». Torna al sommario 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ CORRIERE DELLA SERA Pag 25 Perché la vita al Sud è più breve. Il federalismo fallito della Sanità di Goffredo Buccini In calo l’aspettativa nel Meridione, tra le donne e nelle fasce deboli Se un cittadino campano o siciliano ha una vita mediamente più corta di tre o quattro anni rispetto a un cittadino trentino, il dato non è tecnico: è politico. E certifica il fallimento del federalismo regionale (soprattutto se applicato alla sanità) e il tradimento dell’articolo 32 della Costituzione che garantirebbe a tutti gli italiani uguale diritto alla

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salute nonché cure gratuite per gli indigenti. Hanno forse una chiave di lettura assai inquietante i già pesantissimi numeri diffusi l’altro giorno dal rapporto Osservasalute 2015. Per la prima volta in tempo di pace, descrivono una contrazione, pur minima, nell’aspettativa di vita degli italiani. E, naturalmente, questa foto di «come siamo» ci sconvolge, costringendoci a pensare a un’Italia rovesciata rispetto alla confortevole idea di progresso continuo dentro la quale siamo cresciuti. Tuttavia un ulteriore elemento velenoso che motiva questo calo si coglie già nelle analisi degli stessi ricercatori dell’«Osservatorio nazionale sulla salute nelle Regioni»: c’entra la devolution , spiegano nel gruppo guidato da Walter Ricciardi. Voluta fortemente dalla Lega di Bossi e messa in atto quindici anni fa dal centrosinistra forse nella speranza di prosciugare consenso ai leghisti, la devoluzione (ovvero la trasformazione della nostra Costituzione in senso federalista) cambiò l’Italia unita in un mosaico di venti staterelli, tra l’altro con venti sistemi sanitari non integrati tra loro. Prima del 2001, dicono gli studiosi, i cittadini della Repubblica potevano aspettarsi tutti più o meno la stessa vita media. Dal 2001, la forbice si va allargando. Chi stava bene è stato meglio; chi stava male, peggio. «Le più in difficoltà sono ancora le Regioni del Meridione e lo scenario è aggravato dalle ripercussioni della crisi economica principalmente sugli stili di vita e, quindi, sulla qualità di vita dei cittadini, soprattutto dei meno abbienti», scrivono Marta Marino e Alessandro Solipaca nella sintesi del rapporto sulle Regioni. Ieri il Mattino di Napoli evidenziava come, in una Campania che guida l’arretramento, più penalizzate siano le donne, con circa cinque mesi di aspettativa di vita in meno. E la faglia non è solo (o non necessariamente) tra Nord e Sud ma tra «chi ha» e «chi non ha», essendo saltato del tutto il ruolo di perequazione dello Stato unitario. Il sistema sanitario nazionale, che molti ci invidiavano e sulla carta non abbandonava nessuno, è stato cancellato prima dalla regionalizzazione e dal saccheggio (infiniti gli scandali di questi tre lustri) e poi da una stretta economica che ha costretto le Regioni a piani di rientro durissimi. Sono proprio le Regioni in piano di rientro le più problematiche, anche secondo Osserva salute . L’allarme non è nuovo. Nel 2013 la Corte dei conti paventava sempre più «deficit assistenziali» al Sud. Due anni dopo la Società italiana di Pediatria ha rilevato che nel Meridione la mortalità infantile è più alta del 30 per cento rispetto al Nord. In un saggio degno d’attenzione, Paolo De Ioanna e Roberto Fantozzi hanno messo a punto tempo fa il concetto negativo di «indice di disuguaglianza»: lo stato di salute percepito dai cittadini in rapporto al sistema sanitario di appartenenza. Beh, Calabria, Puglia e Sicilia hanno l’indice più alto; Toscana, Emilia, Lombardia e Veneto, guidate dal solito Trentino-Alto Adige, il più basso. Il nodo sono i «Lea», i livelli essenziali di assistenza, depressi, nelle Regioni in cattive condizioni finanziarie (quasi tutte del Sud). Per tappare le falle, si ricorre al prelievo fiscale aggiuntivo a carico dei residenti di queste Regioni in «maglia nera». Ma, ci si chiede nel saggio, se il diritto alla salute è garantito per tutti dalla Costituzione, non è forse ingiusto che i residenti di una Regione che usa in modo inappropriato le risorse della sanità siano «fiscalmente penalizzati per la mala gestio dei propri amministratori»? Non sarebbe opportuna la perequazione tra Regioni? Domande nobili ma oziose, purtroppo: avrebbero avuto senso quando l’Italia era davvero «una e indivisibile». Da anni la risposta è: ognun per sé. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 21 I messaggi dei bimbi tradotti dai detenuti L’iniziativa del carcere di Santa Maria Maggiore Con il fisico non possono evadere ma con il cervello sì e insieme creano ponti di pace. Ogni giorno nove detenuti del carcere di Santa Maria Maggiore provenienti dal Marocco, dalla Tunisia e dall’Italia consultano il vocabolario, il Corano, la Torah, la Bibbia e traducono i messaggi dei bambini veneziani e tunisini dall’italiano all’arabo e viceversa. Con questo lavoro il gruppo permette un dialogo tra piccoli studenti delle due sponde del Mediterraneo e abbatte muri culturali e religiosi. Il progetto – denominato “501 disegni a sei mani per 500 anni veneziani” – verrà presentato a fine mese in carcere, alla

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presenza del sindaco Luigi Brugnaro, della direttrice del carcere Immacolata Mannarella e dei rappresentanti delle religioni cattolica, ebraica e musulmana. «La singolare iniziativa educativa e culturale» spiega Immacolata Mannarella «comporta il coinvolgimento di sentimenti e rappresenta il concetto dell’accoglienza tra i popoli. Il carcere è palestra di vita, scuola dello stare insieme e del progettare il futuro». Al progetto partecipano scuole elementari veneziane (Canal, Diaz, Gallina, Gozzi, Manzoni, Zambelli, Cerutti e Foscolo di Murano, Vivarini di Sant’Erasmo), triestine, vicentine, trevigiane, tunisine e collaborano la Fondazione dei Musei Civici, la Scuola Abate Zanetti, l’Autorità Portuale e Apv Investimenti. Lo propone l’associazione di volontariato “Venezia: Pesce di Pace” che nel tempo ha ricevuto il plauso dei tre Presidenti della Repubblica Italiana e tre Pontefici. «Caro amico per me sei un amico speciale, peccato che non ci possiamo vedere di persona. Ti abbraccio con il pensiero». Così scrive Alessandro della 5A della scuola Giacinto Gallina e così risponde Nordin della Garderie Scolaire Pilote di Tunisi: «Veneziani, vi vogliamo bene e vi aspettiamo». Pag 22 Matrimoni in crescita ma gli sposi veneziani sono soltanto il 43% di Roberta De Rossi Da Woody Allen alle nozze di Clooney e Amal Venezia. Dopo anni di precipizio, con il numero di matrimoni in città crollati a capofitto, pare riprendere la voglia di dirsi “Sì, lo voglio” a Venezia. Il che è una buona notizia non solo per gli appassionati di confetti, abiti bianchi e amore “eterno”, ma anche per le martoriate casse del Comune, che - come si sa - da tempo fa pagare un obolo più o meno sostanzioso alle coppie non residenti che si sposano in città, che scelgano la sala di palazzo Cavalli sul canal Grande o il trionfo di Ca’ Vendramin Calergi. Così, l’Ufficio Bilancio ha messo in preventivo che quest’anno dalla celebrazione dei matrimoni civili arriveranno nelle casse di Ca’ Farsetti 350 mila euro. Una buona notizia anche per i dipendenti dell’ufficio, dal momento che - di questi - 87.500 euro andranno al personale chiamato a celebrare le nozze, quando gli sposi lo vogliono, domenica e festività comprese. A raccontare della ritrovata voglia di matrimonio in città sono i dati dell’Ufficio statistica del Comune, che da un paio d’anni hanno visto risalire - seppur d’un soffio - il numero delle nozze: 1183 quelle celebrate nel 2015, quando erano state 1127 nel 2014 e solo 1104 nel 2013. Curva che ha così ripreso a salire, anche se resta lontanissima dal boom delle 1838 nozze celebrate nel 1998. Quel che è certo, è che ci si sposa sempre più civilmente: tre coppie su quattro scelgono di dirsi “Sì” davanti ad uno (per di più) sconosciuto ufficiale dell’anagrafe piuttosto che davanti ad un prete o con qual si voglia cerimonia religiosa riconosciuta dallo Stato italiano. L’anno della svolta è stato il 1998, quando per la prima volta le nozze civili hanno superato quelle religiose, in un testa a testa 929-909. Poi è stato un continuo crescere delle prime e decrescere delle seconde: solo per restare agli ultimi anni, se nel 2011 i “matrimoni con rito concordatario” erano ancora al 33%, nel 2015 sono scesi al 25%. Naturalmente, c’è da tener conto del gran numero di coppie “foreste” che scelgono l’immagine di Venezia romantica come immagine per il loro album: l’anno scorso ben il 34 per cento degli sposi aveva passaporto europeo, un due per cento è arrivato dall’America, l’1,27% (che sono comunque sette coppie) dall’Oceania, mentre i veneziani rappresentano ancora il 43,7% dei “Sì”, insieme ad un altro 10% di veneti. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IX Da un mese sotto la tangenziale di Fulvio Fenzo Madre e figlia costrette a vivere in un’auto nel parcheggio scambiatore. Affitto non rinnovato, l’appello delle due donne veneziane e del marito senza lavoro Via Miranese, parcheggio sotto alla tangenziale. Il rombo continuo di auto e camion che ti passano sopra alla testa. Qualche decina di macchine parcheggiate nelle prime file e, in fondo, qualche furgone con targa straniera. In mezzo, vicino alla recinzione verso Villa Ceresa, una Mercedes E200 station wagon un po’ acciaccata. Lì dentro due donne, madre e figlia, accampate da quasi un mese in un posto che, se di giorno è polvere, sporcizia e rumore, di notte fa anche paura. Patrizia Heinz, 54 anni, e Micol Pannella, 24, sono veneziane. Fino al 20 marzo scorso vivevano in affitto, con un "contratto

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transitorio", in un appartamento nella vicina via Lissa. Poi lo sfratto, e la decisione di "non fare resistenza". Per una decina di giorni vengono ospitate in un magazzino a Venezia, nella casa del padre del marito di Patrizia («siamo ancora legalmente sposati, ma di fatto siamo separati da cinque anni» racconta lui, Mauro Marco Pannella, 53 anni), ma le famiglie non si possono vedere. E da allora, dai primi giorni di aprile, bivaccano in quest’auto del marito, finita sotto sequestro perché senza assicurazione né revisione. Venticinque giorni di inferno, e presto arriverà pure il carro attrezzi a prendersi la Mercedes. Mauro Marco se la passa un po’ meglio, perché è ospitato a casa del padre e qualche volta da un amico, ma ha perso il lavoro («facevo mercatini, ma senza auto ho mollato tutto»). Prima, quando viveva in Toscana, aveva un’attività commerciale, ma ha chiuso. «Tornato a Venezia ho cercato in tutti i modi di portare qui mia figlia e mia moglie - racconta -. Quando poco più di un anno fa ho trovato quell’appartamento non mi sembrava vero, e loro sono arrivate. L’affitto lo abbiamo sempre pagato, ma il contratto non è stato rinnovato e siamo finiti qui. Non abbiamo più nulla». La vita li ha divisi dai parenti, che comunque hanno a Venezia, e che non li vogliono ospitare. Si sono rivolti al Comune, ma madre e figlia hanno ancora la residenza in altre città e, per essere inseriti nelle graduatorie, devono almeno risultare come "senza fissa dimora", e mancano ancora le carte. Riprende il padre: «Abbiamo chiesto un aiuto alla Caritas, ma per avere ospitalità mia figlia dovrebbe liberarsi dei suoi due cani». Un bastardino e un bulldog che, stando sotto alla tangenziale, perlomeno aiuta le due donne a tenere a distanza i malintenzionati. «E di notte qui di gentaglia ne gira di continuo - raccontano -. Spacciatori, ubriachi, scambisti... Un incubo». L’unico aiuto arriva da qualche amico che porta loro cibo e acqua, e un’anziana residente in zona che, in cambio di un po’ di compagnia, permette alle due donne di lavarsi. «Non vogliamo carità. Non ci si deve vergognare della propria miseria - riprende Mauro Marco Pannella -. I miei vestiti li ho comprati al "mercato solidale" di don Armando, a Carpenedo, a un euro l’uno: sette euro in tutto. Occupare una casa? Non vogliamo conseguenze penali, né per me e tantomeno per mia figlia. Chiediamo solo un aiuto, qualcuno che ci possa vendere a rate un vecchio camper, o una casa dove vivere anche da sistemare. E mia figlia da mesi cerca un lavoro: ha mandato curriculum su curriculum, ma finora non ha risposto nessuno». Hanno chiamato il 118 ieri mattina. Dopo 25 giorni trascorsi bivaccando in un’auto, Micol sarebbe stata colpita da un’infezione che si è manifestata con gonfiore e rossore alle gambe, oltre a una febbre quasi a 40. La giovane è stata portata in pronto soccorso dove, dopo un’attesa durata diverse ore (le avevano dato un "codice bianco"), è stata trattenuta in osservazione per una sospetta infezione. «Mia figlia soffre di anemia mediterranea e di asma allergica - racconta il padre, Mauro Marco Pannella -. Queste settimane trascorse in auto sotto la tangenziale hanno messo a dura prova la sua salute, e sono emersi anche dei problemi di circolazione alle gambe. Mia moglie e mia figlia non possono continuare a vivere in queste condizioni». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Isis, la paura vista dal Nordest di Vittorio Filippi L’Isis, il sedicente Stato islamico, è geograficamente lontano da noi. Molto lontano. Ma è anche molto vicino, anzi è addirittura qui. Perché – come stabilito dalle indagini di magistratura e carabinieri – diversi «foreign fighter» sono materialmente partiti dal Veneto alla volta della Siria. Ma anche perché diffonde a piene mani paura ed insicurezza, due sentimenti con i quali convivere è notoriamente fastidioso. La SWG di Trieste, una società di ricerca sociale, ha appena effettuato un sondaggio che cerca di dare un volto a questi sentimenti quantificandoli. Tanto per cominciare, due terzi degli abitanti del nordest hanno francamente paura dell’Isis. Addirittura uno su due si «sente in guerra» con il cosiddetto Stato islamico. Un terzo si percepisce limitato nelle proprie libertà da questa presenza minacciosa. Gli attentati di Parigi e nel parco giochi a Lahore in Pakistan sono i due eventi che più ci hanno colpito emotivamente, dice la ricerca. Due

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luoghi diversissimi, ma percepiti nello stesso sfregio prodotto dalla globalizzazione del terrore. Tuttavia per un abitante del nordest su due siamo di fronte ad uno scontro tra barbarie e civiltà ma non tra islam e occidente (cristiano). Così come viene rifiutata l’idea che il terrorismo integralista sia semplicemente il frutto velenoso della globalizzazione occidentale. Piuttosto l’opinione prevalente è che le azioni dell’Isis mirino a tenere alto il livello del terrore e dell’insicurezza, una insicurezza tale che per il 75 per cento del campione il rischio di attentati in Italia esiste concretamente mentre per il 54 per cento la possibilità addirittura di una terza guerra mondiale non è da sottovalutare. Occorre agire seriamente, afferma il campione, nei confronti del terrorismo islamico – e non in generale nei confronti del mondo islamico – creando finalmente una intelligence europea. Dice la ricerca della SWG che a livello di psicologia collettiva l’Isis ha ormai prodotto quattro conseguenze: rompe le sensazioni di serenità e di spensieratezza, specie negli spazi pubblici come locali di divertimento ed aeroporti; fiacca la voglia di resistere aumentando i sentimenti di tristezza impotente; ci fa sentire dentro uno scontro grandioso, epocale, di civiltà più che di religione; infine evoca nella nostra mente la guerra, il sentirsi in guerra, una guerra dai contorni oscuri e per questo ancora più paurosa. Una osservazione per il nordest. Comparando le risposte del campione nazionale con quello delle nostre aree emerge per così dire una maggior moderazione nel vivere l’allarme che la situazione pone, una moderazione che ad esempio tiene bassi quei toni che oggi tendono ad essere facilmente populistici ed islamofobici. Pag 2 La Camera “scarica” Galan, anche la Lega vota la decadenza di Marco Bonet Da Publitalia al Mose, si ferma la lunga marcia dell’uomo che diceva di sé: “Io sono il Nordest” Venezia. La Lega, per dieci anni mal sopportata alleata in Regione, ha votato convintamente «sì». E pure tra i suoi compagni di partito, in Forza Italia, si è registrata una manciata d’inaspettate ribellioni, in controtendenza rispetto all’indicazione del gruppo: «Si vota “no” per rispetto della Costituzione». Sta di fatto che, alla fine, la decadenza di Giancarlo Galan dalla carica di deputato è passata con una maggioranza larghissima, inequivocabile: 388 favorevoli su 435 presenti (7 astenuti, 40 contrari). «Un verdetto già scritto» aveva commentato alla vigilia l’avvocato di Galan, Antonio Franchini. E in effetti è andata così. Anche perché la legge Severino, sul punto, ai più è sembrata chiarissima: se sopravviene una condanna durante il mandato, il parlamentare deve lasciare lo scranno. E siccome Galan ha patteggiato 2 anni e 10 mesi di reclusione nell’ambito del processo sulle tangenti del Mose e quanto agli effetti la sentenza di patteggiamento è equiparata a quella di condanna, a Montecitorio hanno ritenuto ci fosse poco altro da aggiungere. Ma qualcuno ha seguito comunque l’esito scontato in trepidante attesa. Il diretto interessato, si può immaginare, che per le ragioni esposte dal suo legale stavolta ha preferito non andare a Roma e restarsene sui Colli Euganei; e poi l’ex vice presidente della Provincia di Vicenza Dino Secco, bassanese che in quanto primo dei non eletti potrà ora prenderne il posto. La discussione, aperta alle 18.42 e conclusasi col voto alle 20.07 sotto la regia del vice presidente della Camera Luigi Di Maio, è stato l’atto finale di un lungo procedimento istruttorio, iniziato a cavallo tra novembre e dicembre nella Giunta per le elezioni ma a ben vedere anche prima, già all’alba del 4 giugno 2014, con la retata ordinata dalla procura di Venezia e poi l’autorizzazione a procedere all’arresto del 22 luglio (curiosità: quel giorno i presenti furono 535, i favorevoli al trasferimento nel carcere di Opera 395). Durante il dibattito in aula, il relatore Alessandro Pagano (Area Popolare) si è attenuto alla mera illustrazione tecnica del dossier, spiegando le ragioni per cui la Giunta il 7 aprile aveva già votato a favore della decadenza. Forza Italia, con Gregorio Fontana prima e Paolo Sisto poi ha perorato la causa del «no» («Per tre ragioni: l’irretroattività dell’azione penale, il diritto all’elettorato passivo e l’autonomia del parlamento») mentre le bordate più pesanti sono arrivate dal Movimento Cinque Stelle, che con Mattia Fantinati già rilancia: «Galan è arrivato al capolinea ma questo voto è una goccia nel mare rispetto ai tanti indagati e condannati che siedono nei palazzi della politica». Va detto, poi, che sentendo gli interventi di Psi, Scelta Civica, Sinistra e del «ribelle» Corsaro dei Conservatori e riformisti, non ha giovato alla causa la scelta di Galan di non dimettersi dalla presidenza della commissione Cultura, fino a che non è stato cacciato nel luglio scorso. Sempre ieri,

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si è tenuta a Venezia anche l’udienza alla Corte dei conti per il danno d’immagine da 5,2 milioni di euro che l’ex governatore avrebbe provocato alla Regione e allo Stato. Tramite i suoi avvocati Galan ha respinto le accuse. «E comunque è stato governatore fino al 2010 – spiega l’avvocato Franco Zambelli – e i reati antecedenti al 2008 sono prescritti. Quindi, al massimo, gli si può contestare il periodo tra il 2008 e il 2010». Una ricostruzione negata dal procuratore aggiunto Alberto Mingarelli, secondo cui la prescrizione penale non inciderebbe sulla contestazione contabile, che ha una vita propria. La Corte si è presa qualche giorno di tempo per decidere. Millecentoquarantanove giorni. Tanto è durata l’avventura parlamentare di Giancarlo Galan, che nonostante sia stato assente al 74,9% delle votazioni (per le note ragioni, è agli arresti dal 22 luglio 2014) fino a ieri poteva ancora vantare la 364esima piazza nell’indice di produttività dei deputati, una più che onorevole mezza classifica. E in effetti da che era stato eletto a marzo 2013, sempre per i colori di Forza Italia, Galan si era dato piuttosto da fare, prendendo molto sul serio il nuovo ruolo di presidente della commissione Cultura (scranno a cui teneva a tal punto da abbandonarlo soltanto nel luglio scorso, dopo lunghe insistenze e feroci polemiche, quando già aveva patteggiato ed era ai domiciliari da otto mesi): sette progetti di legge portano in testa la sua firma, tra questi uno per la «disciplina dell’unione omoaffettiva» depositato due anni prima della legge Cirinnà e per dire, se la Basilica palladiana di Vicenza oggi può fregiarsi del titolo di «monumento nazionale» il merito è suo e di una leggina fatta approvare giusto un paio di mesi prima che esplodesse lo scandalo del Mose. Ma c’è da star sicuri che, leggendo, lui avrebbe di che ridire e forse pure sacramentare. Sono infatti ben altri i successi di cui si è sempre vantato e che amava elencare tra gli applausi prima di diventare, almeno secondo alcuni parroci di Padova, l’incarnazione del Maligno, lui che era finito in libreria come l’incarnazione del Nordest: «Il Passante, il rigassificatore, una sanità modello per l’intera Europa, un sistema industriale in grado di competere con il Baden-Württemberg e Île-de-France». Tutte medaglie risalenti alla sua prima vita politica, che poi è anche l’unica che abbia mai davvero riconosciuto ed esibito: quella da governatore del Veneto. Un’immedesimazione tale con la carica, che per tre volte fu eletto a Roma prima del 2013 e per tre volte rinunciò: da deputato nel 1994 - e l’anno dopo si candidò in Regione - poi da senatore nel 2006 e nel 2008, quando fece da traino alle liste di Forza Italia. Per convincerlo a mollare Palazzo Balbi al leghista Luca Zaia, nel 2010, dovettero farlo prima ministro dell’Agricoltura («Il ministero delle mozzarelle» come lo sminuiva lui, quando ad occuparlo era proprio Zaia) e poi della Cultura, ruolo che ricoprì con un po’ più di entusiasmo affiancato dallo storico portavoce Franco Miracco, ma pur sempre controvoglia. In entrambi i casi, comunque, distinguendosi per lo spiccato approccio liberale, fosse a favore degli Ogm nei campi o del mecenatismo privato nell’arte. D’altronde quella è la famiglia da cui proviene, lui che da ex studente di giurisprudenza con master alla Bocconi, a 38 anni era già direttore centrale di Publitalia ’80 con Marcello Dell’Utri (se avete presente Stefano Accorsi nella serie «1992» rende l’idea): «Anni fantastici quelli – ha ricordato diverse volte – donne meravigliose, soldi a palate, ci divertivamo come pazzi. Per convincere un cliente a fare pubblicità sulle tivù di Berlusconi eravamo capaci di portarlo una settimana a giocare a golf in Costa Azzurra. Se dovessi guardare allo stipendio, io a fare politica ci ho rimesso, altro che». Sta di fatto che proprio sotto la regia di Dell’Utri nel 1994 comincia a mettere in piedi Forza Italia in Veneto, «con l’aiuto di tanti amici industriali», di quel club elitario e minoritario che era il Pli di Luigi Migliorini, Niccolò Ghedini, Fabio Gava, Enrico Marchi e, si sussurra, pure dei fratelli massoni del Grande Oriente d’Italia. L’anno dopo decide di lanciarsi in prima persona nell’avventura, candidandosi presidente della Regione e sospinto dall’onda del nuovismo berlusconiano post Tangentopoli batte il favorito della vigilia, il professor Ettore Bentsik, ex sindaco Dc di Padova, presidente della Cassa di risparmio di Padova e Rovigo, componente di svariati e importanti consigli di amministrazione, il deputato leghista Alberto Lembo e il comunista Paolo Cacciari. Quest’ultimo è il fratello di Massimo, per quindici anni il vero (l’unico?) antagonista politico di Galan in Veneto, col quale ha duellato un’infinità di volte sul Mose, trovando peraltro qualche conferma a Palazzo di giustizia, e contro il quale ha provato a candidarsi nel 2000, finendo inesorabilmente sconfitto («Ma mi ha sempre affascinato, Cacciari è stato l’avversario più ostico»). La stessa sorte che toccò cinque anni dopo a Massimo Carraro, l’industriale

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dei gioielli Morellato, nonostante il tentativo di sgambetto del tycoon di Antenna Tre, Giorgio Panto, e del suo Progetto Nordest. Galan è ormai per tutti il Doge, soprannome un po’ inflazionato (prima di lui toccò a Bernini e a De Michelis) che si appaia a quello di «colosso di Godi» per naturale inclinazione alla bella vita che trova la sua plastica rappresentazione nel matrimonio con Sandra a Villa Rodella, nel giugno 2009. A rendere omaggio tutto, ma proprio tutto il Veneto che all’epoca contava e che poi l’ha rapidamente disconosciuto. Perfino Villa Rodella oggi è andata perduta, confiscata dallo Stato a ristoro di quanto Galan avrebbe intascato con le tangenti del Mose. «Adesso vivo con 5 mila euro al mese – ha detto qualche tempo fa, accaldato sotto un ventilatore – per uno come me, abituato a 12 mila, non è facile». Ora che è decaduto da parlamentare non prenderà manco quelli, dovrà riaggiustare il bilancio familiare. I testimoni di nozze furono Dell’Utri e Berlusconi e a ben vedere è stato quest’ultimo, ben prima del voto di ieri in parlamento, a scrivere la parola fine alla vita politica di Galan, costringendolo a cedere il passa all’odiato alleato leghista, a lasciare il Veneto, che per lui era tutto. Galan, che solo al fu Cavaliere aveva sempre mostrato obbedienza («Gli devo tutto, come potrei abbandonarlo?»), la prese alla sua maniera, citando Talleyrand: «Considero quanto avvenuto peggio di un tradimento, e cioè un errore». Poi tentò di rimettersi in pista, candidandosi perfino alla successione nelle fantomatiche «primarie del Popolo delle Libertà» del 2012. Ma lo fece alla sua maniera, quasi per scherzo, con un tweet. Alla Galan. «Era un modo per fare un po’ di casino, per far impazzire un po’ di gente» svelò poi, ridacchiando. Ma il «casino», quello vero, era ancora di là da venire. E ci sarebbe stato ben poco da ridere. LA NUOVA Pag 1 Il saccheggio elevato a sistema di Francesco Jori The end, titoli di coda. Con il voto di ieri alla Camera, si chiude il ventennio politico di Giancarlo Galan: iniziato in modo trionfale con l’ingresso a Montecitorio nel 1994; proseguito l’anno dopo con una presidenza del Veneto mantenuta per tre lustri; gestito sui toni del grigio in due ministeri, Agricoltura e Cultura, in cui non ha lasciato il segno se non per qualche mediocre battuta («il ministero delle mozzarelle»); rovinosamente precipitato nel 2014 con l’arresto per lo scandalo Mose. E infine segnato da una condanna: perché tale è il patteggiamento, checché ne dicano l’ex governatore e i suoi legali, come ha ben spiegato il giudice Nordio che lo ha processato («chi patteggia sa di aver avuto una condanna e ne accetta le conseguenze, giuridiche e anche logiche»). Si potrà discutere sull’aspetto normativo della decadenza da parlamentare, non sulla sostanza. Aggravata dal modo in cui il personaggio ha gestito in questi mesi la sua uscita di scena, tra qualche furbata, un tot di lacrime, e una serie di pubbliche piazzate. Una scadente recita, che si potrebbe titolare “Il Galan Meschino”. Ma la sua, benché esemplare, è solo una delle troppe vicende che da un quarto di secolo costellano l’ignobile intreccio tra politica ed affari, risolto in un vergognoso saccheggio della cosa pubblica: dei soldi, certo, ma pure di quell’inestimabile patrimonio che è rappresentato dalla credibilità delle istituzioni. L’ultimo scandalo in ordine di tempo, il presidente del Pd campano indagato per collusione con la camorra, segnala quanto radicato sia il cancro denunciato nella seconda metà degli anni Ottanta dall’allora presidente della Repubblica Cossiga, quando parlava di quattro regioni (Campania, Puglia, Calabria, Sicilia) fuori dal controllo dello Stato: da allora, abbiamo ripetutamente dovuto prendere atto che anche troppi politici erano e sono dei fuorilegge. E tuttavia, sarebbe fuorviante farne una delle zavorre proprie della questione meridionale: la corruzione è endemica da capo Lilibeo alla Vetta d’Italia, come dimostrano le iniquità seriali che arrivano fino alla Regione Lombardia, passando attraverso le ignominie romane di “mafia capitale”; e ramificandosi in ogni direzione, inclusa quella veneta di un Mose trasformato in una generosa greppia trasversale. Si potrà criticare il giudice Davigo per i toni usati nella sua severa denuncia del permanere della corruzione a distanza di tanti anni da “Mani pulite”. Ma sarebbe ipocrita cercare di capovolgerne l’assunto: come stanno facendo molti di quelli che almeno per pudore dovrebbero tacere, visti i loro trascorsi. Più o meno le stesse considerazioni, sia pure espresse in termini scientifici, si ritrovano in un libro ormai vecchio di quasi dieci anni, “Mani impunite - Vecchia e nuova corruzione in Italia”, scritto da due studiosi del valore di Donatella Della Porta e Alberto Vannucci: frutto di

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un’accurata inchiesta condotta su atti giudiziari, relazioni di commissioni parlamentari, segnalazioni di “authorities” pubbliche, e su una capillare rassegna stampa. Fonte, quest’ultima, che può verificare di persona chiunque abbia la pazienza di recarsi in una biblioteca per sfogliare le raccolte dei giornali. In cui potrà trovare un campionario della disgustosa ingordigia di una sequela di politici: come quello che ha scaricato in nota-spese perfino l’utilizzo di una toilette a Venezia. La funzione pubblica ridotta a minzione pubblica. Anziché scandalizzarsi per le denunce altrui, i partiti dovrebbero occuparsi e preoccuparsi di selezionare con ben diversi criteri il personale che va a gestire le istituzioni, dal Comune al Parlamento. Altrimenti, si ridurranno sempre più a quelli che un autorevole personaggio già nel 1981 bollava come «macchine di potere e di clientela». Non era un giudice. Si chiamava Enrico Berlinguer. Pag 13 L’addio all’ex Doge che ha scelto la gogna. Resta il “suo” mondo di Renzo Mazzaro I beneficiati del sistema Mose in gran parte al loro posto aspettano il prossimo benefattore per tornare in azione Scrivere di Giancarlo Galan oggi fa male. E stato presidente del Veneto per 15 anni, si vantava di avere il voto di 1.300.000 persone e non ce n’è una che dica un “et” vagamente a suo favore. Non per difenderlo, perché è indifendibile, ma qualcosa di buono avrà pur fatto in 15 anni a cui aggrapparsi. O no? Per quattro legislature Forza Italia è andata nelle piazze a chiedere i voti con il faccione di Galan nei manifesti. Ha campato all’ombra del suo nome e oggi i maggiorenti di quel partito sembrano tanti smemorati di Collegno. Muti come pesci. Certo, Galan ha rubato, più che altro per sé. E voleva anche passare per impunito. Atteggiamento odioso ma era in una folta compagnia, come dimenticarlo. Poi “rubare”, bisogna intendersi: non erano i metodi della politica, questi? Non lo sapevano i suoi, gli eletti che viaggiavano in cordata con lui e spartivano i proventi delle vittorie? Se non sapevano di preciso, lo intuivano di sicuro. E andava bene. Altroché se non andava bene. Invece finisce nella vergogna e tocca a noi rimontare l’ondata di dileggio che da Roma la vicenda Galan riversa sul Veneto. A noi che lo criticavamo quando era un uomo potente, sperando che migliorasse, perché bene o male questo è il nostro paese e lui era il presidente che dovevamo tenerci. Oggi la vicenda Galan è una foglia di fico. Concentrarsi su di lui significa ridurre lo scandalo Mose a fatto regionale, frutto del comportamento di singoli, mentre è tutto il contrario: è uno scandalo italiano, che innerva ancora il sistema. C’erano dentro tutti: politici, manager pubblici e privati, avvocati, commercialisti, magistrati, gente dell’alta finanza, militari, poliziotti. La crema delle professioni, l’ossatura dell’organizzazione sociale del nostro Paese. Quelli che ci dicono che dobbiamo rispettare le leggi, i primi corrotti. Chi poteva ha preso il largo, che è finito nella rete ha cercato l’uscita per le vie più brevi. È rimasto Giancarlo a far parlare inutilmente di sé. Per quale motivo abbia resistito fino ad oggi facendosi buttare fuori dal Parlamento invece di dimettersi e andarsene con le sue gambe – con un minimo di dignità almeno una volta – è roba da psichiatri. Forse pensava di essere ancora nel mondo dei sultani che era abituato a frequentare, non in quello degli uomini liberi dove i rapporti sono governati da leggi che valgono per tutti. Quelli del suo giro devono considerarlo un sottoscala. Con il voto della Camera finisce la storia politica di Giancarlo ma non il mondo che ha prodotto il fenomeno Galan. Mondo che resta affollato, tanto che il vero scoop oggi sarebbe raccontare i “beneficiati del sistema Mose” che sono ancora al loro posto e aspettano il prossimo benefattore. Sono tanti, molto al di fuori del Consorzio Venezia Nuova. Sono nella pubblica amministrazione, nelle libere professioni, nelle grandi aziende a capitale misto e nelle imprese private vissute al traino della politica. A scapito di chi correva con le proprie gambe, dei professionisti onesti rimasti a pane e acqua, delle imprese ridotte al lumicino dall’arroganza degli ammanicati. Il malinconico tramonto di Galan consente almeno di porre questi interrogativi. Ci sarà un motivo se Confindustria nazionale si è costituita parte civile nel processo agli imputati di Mafia Capitale, mentre Confindustria Veneto non ha fatto altrettanto nel processo Mose. Non può essere un caso che la Rai stia preparando una fiction su Carminati e compagni, eroi negativi del sacco di Roma, snobbando la vicenda Mose che come thrilling batte ampiamente Mafia Capitale. Senza contare che la batte anche in “fatturato criminale”: Mafia Capitale con annessi e

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connessi “vale” poco più di 100 milioni di euro, il Consorzio Venezia Nuova ne dava fuori 100 all’anno ed è andato avanti per 10 anni. Profilo basso, dimenticare. Questa l’antifona. Se ci fate caso la parola Mose è scomparsa dal lessico. Viene da pensare che i lavori siano finiti, Venezia è salva, i ladri sono in galera e per sottrazione quelli fuori sono tutti onesti. La corruzione è battuta, madama la marchesa. Naturalmente i grandi lavori pubblici devono andare avanti, perché sono di interesse generale. Ma come fa un’opera a diventare d’interesse generale? Provate a domandarvelo. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Moderati, le inutili illusioni di Antonio Polito Centrodestra diviso Non si può escludere che Salvini abbia ragione, quando accusa Berlusconi di essersi mosso nella battaglia di Roma spinto da motivi «aziendali», perché Mediaset avrebbe bisogno della benevolenza di Renzi. Non sarebbe del resto la prima volta che l’ex Cavaliere confonde il bene delle sue aziende con il bene del Paese. Ma su un punto Salvini ha certamente torto: c’era eccome una buona, anzi un’ottima ragione politica perché Berlusconi rifiutasse la candidatura di Giorgia Meloni. E la ragione è che un centrodestra guidato dalla destra non può esistere, e infatti non è mai esistito né in Italia né in Europa. Nell’area politica un tempo egemonizzata da Berlusconi molti lamentano come innaturale e autolesionista la divisione a Roma, attribuendola a bizze senili e cerchi magici. Ma in realtà sta accadendo qualcosa di inevitabile e perfino di salutare. Certo, l’unità è sempre una bella cosa, ma quando non c’è non è mai per caso. Confrontate le posizioni della Lega e di Fratelli d’Italia con quelle di Forza Italia su Europa, moneta unica, immigrati, diritti civili, unioni di fatto, quote rosa, e dite se vi sembra possibile che forze così diverse stiano insieme in una coalizione. È vero, per vent’anni è successo, moderati ed estremisti sono stati insieme nel centrodestra: ma solo perché il bastone del comando era nelle mani dei moderati, per la precisione di Silvio Berlusconi. Il suo schema fu proprio quello di «sdoganare», cioè rendere accettabili, l’ex fascista Fini e l’ex secessionista Bossi, e andare al governo con i loro voti. Ma non sarebbe mai potuto accadere il contrario. Senza dire che Fini e Bossi erano di gran lunga più moderati di Meloni e Salvini su molte cose (la sanatoria per gli immigrati clandestini per esempio; o anche l’europeismo di Fini e quello prima maniera di Bossi, che voleva addirittura annettersi alla Baviera). Del resto in nessun Paese europeo i «popolari», cioè i moderati del centrodestra, sono alleati con i «populisti». Non in Francia, dove Le Pen e gollisti sono nemici giurati, non in Germania dove Angela Merkel combatte a viso aperto gli anti-euro di AfD, né in Austria, dove i popolari sono al governo con i socialdemocratici contro Herr Hofer e il suo Partito delle Libertà. Perfino in America l’establishment moderato del Partito Repubblicano farebbe carte false pur di non vedere candidato Donald Trump. Si potrebbe obiettare: ma oggi è la destra populista che vince le elezioni. Vero, ma fino a un certo punto. Negli Usa vince le primarie, ma è probabile che così prepari la sconfitta repubblicana alle Presidenziali. In Francia vince il primo turno delle Regionali, ma viene isolata e battuta ovunque al secondo turno. Vedremo se in Austria questa legge sarà infranta, ma ad oggi non esiste ancora una sola prova che la destra radicale sia in grado di tirarsi appresso l’elettorato moderato, e con esso la maggioranza. Se così non fosse non si capirebbe, del resto, perché a Milano Salvini ha accettato Parisi, un uomo libero da vincoli di partito oltre che un moderato, e per questo competitivo con Sala. Né si capirebbe perché, anche se oggi si tende a dimenticarlo, Salvini aveva accettato Marchini a Roma, poi respinto da Giorgia Meloni per ragioni di concorrenza elettorale. Va aggiunta la singolarità del caso italiano, complicato dall’esistenza di una terza forza, il Movimento Cinque Stelle, che già pesca a piene mani nel serbatoio di voti anti establishment facendo concorrenza alla destra populista, e che non sembra affatto in via di smobilitazione. Per anni abbiamo consigliato al centrosinistra di mettere fine all’illusione di tenere insieme Mastella e Turigliatto, Follini e Bertinotti, moderati ed estremisti, in coalizioni finte e incapaci di governare.

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Dovremmo renderci conto che questo vale ormai anche per il centrodestra. Il problema non è che è diviso, ma che non ha più un leader moderato capace di tenerlo insieme perché Berlusconi ha fatto il suo tempo. Né Salvini né Meloni possono sostituirlo in questa funzione. Per questo le elezioni amministrative saranno importanti, daranno molte indicazioni sul futuro di questa area politica. Sarà interessante guardare ai risultati di quei candidati (Parisi a Milano e Marchini a Roma, ma ce ne sono anche in altre città come Brindisi, Grosseto, Isernia, Trieste, Cagliari) che dal centro si presentano con l’ambizione di dar vita a una nuova alleanza. Il centrodestra non può essere guidato da destra. Altrimenti, come ha detto per Roma la stessa Meloni, il centrodestra non c’è più. Pag 15 Le incognite di altri scandali in vista del referendum di Massimo Franco Gli attacchi del M5S sono scontati, nella loro virulenza. Per questo, Palazzo Chigi sembra preoccupato più per gli effetti che l’inchiesta in Campania su Stefano Graziano può avere sulle Amministrative di giugno; e ancora di più sul referendum istituzionale di ottobre, nel quale si voterà anche su un Senato composto da consiglieri regionali. Le indagini sul presidente del Pd campano diffondono un imbarazzo palpabile e comprensibile. Matteo Orfini spiega che «quando governi sei più a rischio» perché il crimine cerca di infiltrarsi. Ma più che come una difesa, suona come un’ammissione di impotenza. L’impressione è che il partito del premier si senta accerchiato dalle inchieste giudiziarie; e reagisca con un silenzio pesante e quasi stupito, dopo le polemiche roventi dei giorni scorsi tra il presidente dell’Anm, Piercamillo Davigo, e Matteo Renzi. Anche perché a criticare la politica negli enti locali sono le opposizioni, e gli anti-renziani del Pd. L’indagine sui possibili legami tra Graziano e la camorra proietta ombre lunghe. Lentamente, finisce per riaffiorare la realtà di una nomenklatura locale che in più di un caso si muove in una zona grigia tra legalità e illegalità. Il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, ieri ha spiegato che «la permeabilità è la parte più preoccupante del sistema.... Gli amministratori sono molto semplici da corrompere». Se questa è l’analisi, le conseguenze politiche possono rivelarsi molto insidiose, per il governo. Preoccupa non solo il riflesso sul voto di giugno: le incognite maggiori riguardano la campagna per il referendum confermativo previsto a ottobre sulle riforme istituzionali. Le inchieste della magistratura su consiglieri regionali e comunali possono seminare dubbi crescenti su un nuovo Senato che dovrebbe essere composto proprio da politici eletti negli enti locali. «La cronaca giudiziaria», ha avvertito Rosy Bindi, presidente della Commissione Antimafia, «rilancia troppo spesso il tema della fragilità delle istituzioni locali, che vanno protette ancor di più alla luce del loro crescente peso negli assetti costituzionali, presenti e soprattutto futuri». «Soprattutto futuri»: l’allusione è alla probabile vittoria del «sì» nel referendum d’autunno. Il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, ieri ha difeso quanto il governo sta facendo, dalla corruzione alla prescrizione. E ha ricordato che «nel nuovo Senato» ci saranno i consiglieri regionali. Ma con quanto accade, la composizione di Palazzo Madama potrebbe diventare un’arma nelle mani degli avversari delle riforme. Ogni scandalo offrirà ai fautori del «no» una giustificazione o un pretesto in più per sostenere la bocciatura. L’ipotesi è assai remota, a oggi. Ma di qui a cinque-sei mesi, bisognerà verificarla sullo sfondo dell’esito delle Amministrative e delle inchieste. Pag 29 In fila e a pranzo. Lo stupidario dell’esposizione di Paolo Foschini Ora di cena dell’11 ottobre in uno dei ristoranti di Expo, il cameriere si chiama Ivan Cestari: «Buonasera signora, dica». «Una pizza farcita». «Come la vuole?». «Farcita!». «Sì ma come? Abbiamo vari gusti, mi deve dire il nome». «Maria!». Ecco. Moltiplicate questo dialogo per centinaia di altri. Tipo quello riportato tre giorni prima dalla hostess Virginia Grandi: «Scusi, che padiglione è questo?». «Regno Unito». «Io pensavo Inghilterra!». «Beh, l’Inghilterra fa parte del Regno Unito. Comunque questa è l’uscita». «Ah sì, ma tranquilla: tanto io nel Regno Unito non ci entro». O quest’altro, stesso giorno, con Francesca Tomasi del padiglione Usa che tenta di aiutare una signora al telefono: «Sì, sono qui al Regno Unito». «Mi perdoni signora, questi sono gli Stati Uniti». «Vabbè, sempre Unito è». Magari chiamarlo stupidario non è politicamente corretto. Ma l’antologia ha una sua poetica tenerezza ed è quella accumulatasi nel corso di quei sei mesi principalmente su Inside Expo, forse il più affollato tra i gruppi Facebook costituiti

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dai lavoratori dell’esposizione. Una miniera di aneddoti infinita. A raccogliere i più spiritosi è stata Elisa Frigo, impegnata per 184 giorni di fila ad accogliere i visitatori di CasaCorriere. E il risultato è un florilegio che meriterebbe davvero un libro. Seguono altri esempi come quello di Federica Vitiello, in servizio all’ingresso Triulza: «Quanti siete?». «Io, mia moglie, la bimba di 6 mesi e due amici». «Ok, voi potete entrare da qui, ma i vostri amici devono fare la fila». «Ma se entriamo noi con la bimba e poi gliela passiamo ai nostri amici ed entrano loro?». Mattia Miele, biglietteria, arriva un visitatore tedesco: «Vorrei un biglietto». «28 euro, prego». Lo compra e si avvia. Dopo pochi minuti torna: «Ma io volevo un biglietto per l’autostrada. Devo andare a Verona!». Rosa Lucarelli, sul Decumano: «Scusi, sa dov’è quella roba con tutti i Paesi?». «Cioè?». «Nazioni». «È l’Expo, ci sei dentro». «Ok, non lo sai, cercavo una scorciatoia, fa niente». Elisa Sinis, del padiglione Intesa Sanpaolo: «Scusi questo è il San Paolo del Brasile?». «No signora, è Intesa Sanpaolo». «Ma neanche sopra c’è il Brasile?». «No signora, è una banca». Antonio Lamantea, cluster riso: «Cosa fate qui da mangiare?». «Un buon risotto». «Allora un brasato». Salvatore Caliolo, Francia: «Ho perso mio figlio. Mi aiuta?». «Certo, come si chiama e quanti anni ha?». «Vincenzo, 35». Michele Petrucci: «Salse per l’hotdog? Ketchup, maionese, bbq e chili». «Ok, senape». Emanuele Pagani, spazio Mauritania: «Scusi questo è il padiglione della marijuana?». E per finire Noemi Pap, altra biglietteria: «Salve, sono entrato dieci minuti fa da Triulza e sono uscito da Fiorenza ma ho solo seguito la folla e non ho visto nulla. Che faccio ora?». Pag 32 Il declino dei neoliberisti lascia spazio ai populismi di Mauro Magatti Alla fine degli anni 80 la caduta del socialismo, segnata simbolicamente dal crollo del Muro Berlino, decretò la fine delle ideologie, in pochi anni spazzate via dalla vittoria internazionale del neoliberismo. Capace di trasformare le spinte contro-sistemiche di un emergente individualismo in benzina per una nuova stagione di crescita economica. In quel passaggio storico, i vecchi partiti conservatori lasciarono il posto a un nuovo modo di pensare, icasticamente sintetizzato nella celebre formula thatcheriana «la società non esiste». Nel mercato «liberato», era il singolo individuo l’unico e vero protagonista. A qualche decennio di distanza da quella svolta politica, il combinato disposto di stagnazione economica e pressione migratoria mette in discussione gli equilibri raggiunti dai Paesi avanzati, forgiando nuove visioni politiche. Soprattutto a destra è in atto una battaglia che probabilmente deciderà del nostro futuro. È infatti ormai chiaro che in Europa la destra avanza un po’ ovunque, con un discorso duro e carico di risentimento che fa della chiusura agli immigrati, associato alla difesa dell’identità nazionale, la leva principale. Un modo per gridare che la politica europea, gestita da un establishment che continua a essere lontanissimo dal sentire diffuso, non è efficace. Si tratta di un processo che va acquistando forma e forza crescenti. E che, arrivati dove siamo, è troppo semplicistico ricondurre ai populismi già da molti anni presenti nelle democrazie europee. In alcuni paesi, partiti che si rifanno a questo schema sono già al governo. Ungheria e Polonia in testa. Ai quali potrebbe ora aggiungersi l’Austria. Senza dimenticare i successi elettorali ottenuti al primo turno delle elezioni amministrative da Marine Le Pen in Francia. È evidente che ci troviamo di fronte a una nuova proposta politica che avanza la pretesa di succedere ai vecchi partiti di marca neoliberista (con echi anche nella candidatura di Trump negli Stati Uniti). Fa eccezione, almeno per il momento, la Germania, dove la Merkel riesce a mantenere stabile il principale paese dell’Unione. Ma viene da chiedersi che cosa verrà dopo la cancelliera, che non può essere eterna. Last but not least, anche nel nostro paese la contrapposizione tra le due destre è ormai evidente nello scontro tra quel che resta di Forza Italia e il tandem Salvini-Meloni. Ci sono molte buone ragioni per ritenere che si debba evitare che questo fronte costituisca il perno di una nuova stagione storico-politica. La questione riguarda tutti i partiti, di destra e di sinistra. E si deve ancora capire da quale fronte una risposta costruttiva possa arrivare. Ma in ogni caso il primo passo è riconoscere che, a differenza di quanto accadde negli anni 80, il cuore del problema oggi è il legame sociale: dopo decenni di individualismo spinto e di sganciamento tra economia e società, la prolungata stagnazione economica fa sì che il livello di insicurezza e incertezza sia ormai socialmente intollerabile. In una recente pubblicazione, il Fondo monetario internazionale ha mostrato che, dopo otto anni, solo Stati Uniti e Germania, tra i

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principali Paesi occidentali, hanno pienamente recuperato il livello di reddito precedente alla crisi. Con una velocità di aggiustamento che, se confrontata con altre grandi crisi finanziarie del passato, risulta particolarmente bassa. Senza tenere conto dei permanenti squilibri esistenti nella distribuzione del reddito. Come possono società altamente individualizzate e impaurite sviluppare non dico un atteggiamento solidaristico, ma almeno razionale nei confronti di un fenomeno che suona così minaccioso come quello di migranti e rifugiati? Specie nei ceti popolari, dove il costo della crisi è stato ed è ancora oggi molto salato, il risentimento sta raggiungendo livelli di guardia. E per evitare che arrivi alle sue conseguenze più velenose, c’è bisogno di una risposta politica chiara e realistica, capace di rielaborare questioni rimosse da tempo. E cioè che tra interessi economici e domande sociali occorre trovare un punto di compromesso reciprocamente sostenibile; che l’idea di un astratto cosmopolitismo può forse attrarre piccole élite sociali, ma non il popolo che ha bisogno di forme culturali e istituzionali definite e condivise, tanto più in un mondo molto turbolento; che in una situazione che si fa sempre più complessa è necessario rinegoziare la relazione tra crescita personale e di sistema. Una domanda molto diversa e per certi versi opposta a quella degli anni 80, quando la questione era quella di liberare le energie compresse da uno statalismo soffocante. Come succede sempre in queste fasi di cambiamento, vincerà chi, aggiornando per primo le proprie mappe cognitive, diventerà capace di dare risposte concrete alle mutate sfide storiche. Senza pensare di vivere in un’epoca che non c’è più. LA REPUBBLICA Pag 1 La politica della resa di Roberto Saviano Il Sud sta morendo. Il Sud è già morto. Nell'agenda di questo governo, il Sud è stato affrontato con promesse politiche, con proclami, mentre nel mondo reale sono altre le forze che agiscono. Per capire il Paese bisogna studiare le organizzazioni criminali approfonditamente. Il loro assioma di partenza è semplice: sia che tu voglia fare politica, sia che tu voglia fare impresa, devi sporcarti. Se vuoi emergere, devi sporcarti. Se vuoi guadagnare, devi sporcarti. Se non vuoi essere nulla - zi' nisciun (zio nessuno), come si dice dalle mie parti - allora puoi essere immacolato e onesto. Un principio che deriva da una convinzione altrettanto chiara: nessuno è pulito, nessuno può esserlo, se vuole crescere economicamente. E questo è il motivo per cui il primo gesto davvero efficace contro le mafie sarebbe aiutare gli imprenditori onesti. L'inchiesta su camorra e Pd in Campania ruota intorno a Alessandro Zagaria, l'uomo che, secondo le accuse della Dda di Napoli, gestisce il meccanismo di mazzette per ottenere l'appalto di ristrutturazione del palazzo Teti-Maffuccini a Santa Maria Capua Vetere, si interfaccia con la politica e con le aziende, cerca - secondo le accuse - un appoggio nel presidente del Pd campano, Stefano Graziano, che vuole trasformare nella sua testa di ponte con Roma. Graziano avrebbe sbloccato per esempio fondi per circa due milioni di euro per il restauro del palazzo e avrebbe ricevuto sostegno elettorale "con l'impegno di porsi come stabile punto di riferimento politico e amministrativo del clan dei casalesi". Così si legge nell'inchiesta della Dda di Napoli, coordinata da Giuseppe Borrelli. Ma come può un imprenditore così esposto avere credito? Essere frequentato e ascoltato da politici e imprenditori? Vincere gare d'appalto? Nel 2008 il pentito Oreste Spagnuolo racconta (e le sue dichiarazioni furono ritenute attendibili) che Giuseppe Setola, il camorrista che stava portando avanti una strategia terroristica (sua la strage degli africani di Castelvolturno), voleva entrare nell'affare del grande porto. Per ingraziarsi il boss Michele "Capastorta" Zagaria gli regalò un cesto con prosciutti, champagne e una collana d'oro. Un gesto simbolico come richiesta di benevolenza. Per far arrivare il regalo a Zagaria, all'epoca latitante, Setola lo fece recapitare proprio al ristorante "Il Tempio", di Ciccio Zagaria, padre di Alessandro. Per la cronaca, il ristorante girò il pacco alla sorella del boss, ma Michele Zagaria rifiutò il dono, perché Setola aveva messo le zampe nella distribuzione latte e nei lavori del biogas, che erano suo monopolio: era quindi molto indispettito. E ancora, nel 2014 il pentito Massimiliano Caterino, ex uomo di Michele Zagaria, raccontò che lo stesso ristorante cucinava i pasti per il boss. Grazie a questa devozione, Alessandro Zagaria vinse appalti per mense scolastiche, bar universitari e egemonizzò il settore della ristorazione. Con precedenti e sospetti del genere, poteva la politica capire che non era il caso di avere un dialogo con Alessandro Zagaria? O doveva

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aspettare condanne in Cassazione? La stessa cosa capitata a Roma con Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Se queste persone avessero fatto concorso per un posto da uscieri in una scuola sarebbero state bloccate, non avrebbero nemmeno potuto fare gli autisti: qualsiasi società avrebbe rischiato l'interdittiva antimafia. Come sono potuti diventare interlocutori della politica, gestire voti e appalti, intimidire e decidere? Il presidente del pd campano, Stefano Graziano, è indagato per il reato di concorso esterno in associazione camorristica: pare abbia chiesto e ottenuto appoggi elettorali nelle ultime consultazioni per l'elezione del Consiglio regionale. Ora la giustizia farà il suo corso, bisognerà capire se Graziano era consapevole o ingenuo "utile idiota". Ma al di là di come finirà questa vicenda sul piano giudiziario, la questione è prima di tutto politica. Se venisse confermato che questi mondi criminali si sono organizzati per fare avere voti e sostegno, e che Graziano ha accettato l'appoggio pensando che non si trattasse di camorra, ma di normale logica provinciale di scambio di favori e protezioni, sul piano politico sarebbe ancora più grave. La politica viene sostenuta dalle mafie a sua insaputa. È tollerabile? È credibile? La camorra così fa, è la sua astuzia più grande quella di far credere che non esiste, che è tutta un'esagerazione, che qui si tratta solo di normali affari e favori. La vicenda di Santa Maria Capua Vetere non ha nulla di straordinario, perché incarna un meccanismo tipico. La politica ha bisogno dell'impresa, l'impresa ha bisogno del danaro pubblico, il danaro pubblico si ottiene facilmente attraverso l'accesso al potere criminale, che può vantare capacità industriale, liquidità finanziaria, potenziale intimidatorio e controllo dei voti. Il potere criminale minaccia e ammazza senza temere ripercussioni, considera il business qualcosa per cui si può morire e uccidere; grazie a questo ha la capacità di ottenere velocizzazioni burocratiche e riesce quindi a snellire anche i processi. Appoggiarsi alla camorra significa avere il controllo di tutti i passaggi. La camorra lubrifica ogni singola parte dell'ingranaggio. A intervenire in questo meccanismo è anche Michele Zagaria, il boss-imprenditore dagli affari tentacolari (il cuore delle sue imprese è in Emilia Romagna, il fratello ha costruito un palazzo in centro a Milano), ma soprattutto l'uomo che ha intuito meglio di ogni altro un paradigma fondamentale: il miglior modo di fare impresa mafiosa è sostenere l'antimafia. Storica dimostrazione di questa strategia si ha quando Zagaria permette a due imprenditori del suo giro di denunciare estorsioni da parte di due presunti camorristi. Questi vengono identificati e condannati grazie alla dichiarazione degli imprenditori, che assumono un'immagine antimafia, ma in realtà continuano a essere affiliati al clan. Analogo è il metodo utilizzato da tutte le mafie in questi anni: con il Pd, con i Cinque Stelle, con tutta quella politica che si dichiara contro la mafia e persino con le associazioni antimafia. Se avessero potuto - e la 'ndrangheta c'è riuscita - avrebbero lavorato sicuramente anche con giudici antimafia. Basti pensare che molte famiglie camorriste e mafiose oggi si fanno difendere da avvocati, spesso proprio ex magistrati, che provengono da un contesto antimafia. Ma il caso di Santa Maria Capua Vetere evidenzia anche un altro problema: l'incapacità del governo di modificare i meccanismi criminali. Qualunque sarà il risultato giudiziario di questa inchiesta, è evidente che la politica non è in grado di fare autodiagnosi, non riesce più a capire quando diventa partner della camorra. Ma l'aspetto più tragico della vicenda è che la politica non riesce più a difendersi senza la magistratura: rimuove, o costringe alla sospensione, i propri dirigenti solo quando intervengono inchieste giudiziarie. Il potere politico è nudo, totalmente indifeso di fronte alle infiltrazioni mafiose, incapace di stanarle e, dunque, di combatterle. E anche il governo di Matteo Renzi ha perso l'occasione, in questi due anni, di cambiare davvero. È dal Sud che si cambia. E la questione che più sta inficiando la sua autorevolezza è proprio il fallimento della gestione del Meridione, che Renzi conosce pochissimo: non ha interlocutori affidabili e quindi non può valutare il problema nella sua portata reale. In questi anni la paura ha fatto rinchiudere il premier tra amici, nel cosiddetto "cerchio magico". L'errore risiede non nell'avere tra i propri collaboratori persone di cui ci si fida, ma piuttosto nel posizionare in posti chiave persone del proprio giro. E questa è la sua più grande debolezza. Questa chiusura l'ha inevitabilmente condotto a ignorare la questione meridionale, a delegarla nel peggior modo, quello leghista: puntando sulla retorica del Sud lamentoso, che non vuole reagire ma pretende di essere aiutato da altri. Questa è un'accusa inconsistente, basta leggere i classici della letteratura meridionalista - da Guido Dorso a Tommaso Fiore - per rendersene conto. Questa presunta lamentosità è storicamente legata non a tutti i meridionali ma a quella parte di notabili che puntava

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ad aumentare lo spazio del proprio privilegio e per farlo chiedeva una prebenda, in cambio della quale smetteva di lamentarsi: pronti a rifarlo quando serviva di nuovo mungere lo Stato. Finora il governo si è affidato ai proclami: prospettare, come ha fatto il Pd (anche se il premier ha dimostrato maggiore prudenza), assunzioni di sviluppatori Apple, quando invece si tratta di un banalissimo corso a pagamento; parlare di pioggia di milioni di euro che non saranno più sprecati riferendosi ai fondi europei, per i quali manca totalmente un piano di spesa costruttivo; sbandierare il rinnovamento per poi affidarsi a politici (dalla Calabria alla Campania e alla Sicilia) che hanno assai poco rappresentato una linea di rinnovamento reale. A Sud ci sono persone in politica, da esponenti Pd a Cinque Stelle a Sel, che non vedono l'ora di potersi prendere la responsabilità, di indicare un progetto nuovo: ma vengono lasciati al margine. Renzi conta sul suo più grande alleato: il commento finale. Il commento finale? Sì, proprio quello. Il commento che si fa alla fine di ogni dibattito su questo governo: "Ma l'alternativa quale sarebbe? Possiamo dare il Paese in mano a Grillo e Salvini?". Ecco: per quanto Renzi crede di poter godere di questa immunità politica del commento finale? A Palazzo Teti Maffuccini, a Santa Maria Capua Vetere, Garibaldi accolse il documento di resa delle truppe borboniche. Ora quel palazzo sembra accogliere la resa del Pd al meccanismo criminale. LA STAMPA Il coraggio di sfidare il populismo di Stefano Stefanini La chiusura del Brennero era nell’aria. Il voto di domenica e le affermazioni intransigenti del primo arrivato, Norbert Hofer, hanno accelerato una dinamica già in moto. Hofer è in ballottaggio; fermare l’immigrazione è il suo cavallo di battaglia. Il Brennero è vittima della retorica sulla chiusura delle rotte mediterranee. Anche se i passaggi di migranti attraverso la frontiera austro-italiana non sono lontanamente paragonabili alla piena proveniente dai Balcani dello scorso anno, almeno per ora, l’Austria mette le mani avanti. Nel calcio come in politica il tempismo è tutto. Si temeva che con l’estate si aprisse la rotta italiana. Roma e Bruxelles si trovano messe di fronte al fatto compiuto ben prima. Bruxelles per ora tace. L’Italia vede ignorate o respinte al mittente le sue più che fondate rimostranze. Hofer, che parla come già fosse Presidente, si è spinto fino a liquidare la revisione della regola di Dublino che la Commissione Ue sta timidamente portando avanti. Il paese dove arrivano i rifugiati, ha detto, se li deve tenere. Tanto peggio per l’Italia (o per la Grecia o la Spagna): hanno firmato l’accordo di Dublino – dovevano pensarci prima. Se la brutalità del linguaggio stupisce dobbiamo abituarci. Questo è, purtroppo, il nuovo lessico politico in Europa (e non solo). E’ la comunicativa con cui i ribelli anti-sistema riescono a stimolare gli istinti peggiori che ribollono nel continente. Non bisogna andare troppo lontano; risuona ogni giorno anche in Parlamento. I politici tradizionali, come Angela Merkel, vengono messi sulla difensiva. Ancora peggio è l’impermeabilità a critiche e obiezioni. L’Italia aveva chiesto a Vienna di ripensarci. L’Austria ha risposto tirando dritta per la propria strada. Né fa intravedere spazi per un ravvedimento in extremis. Diritto e Giustizia in Polonia o Erdogan in Turchia si comportano alla stessa maniera, ignorando contrappesi istituzionali e vincoli internazionali. I populisti si fanno forti del consenso, in parte nazionale in parte trasversale, per buttare alle ortiche il principio dei «checks and balances» al potere dell’esecutivo. L’America sta conoscendo simili pulsioni ma almeno ha il baluardo di una Costituzione oltre duecentennale di lapidaria semplicità. L’Europa è più vulnerabile. Il Brennero torna così ad essere una frontiera. Senza consultare chi è dall’altra parte, l’Austria reintroduce il filtro ai transiti. Avrebbe potuto ammantarlo della temporaneità ed emergenza previste da Schengen. Non sembra farlo. Alla prevaricazione, l’Italia ha finora risposto con la reazione pavloviana di cercare l’aiuto dell’Ue. Bruxelles tace. Tace anche Berlino. Forse per impotenza; forse in Germania Merkel non ha più sufficiente capitale politico da spendere sull’apertura di tutte le frontiere. Anche per lei è fondamentale che, chiusa la rotta balcanica, non se ne apra un’altra dall’Italia. Dall’Ue possiamo aspettarci qualche voce amica, ma non saranno le benintenzionate dichiarazioni di Juncker o del Parlamento europeo a far breccia a Vienna, tanto meno con un futuro Presidente del Partito della Libertà. Mantenere la pressione a Bruxelles è importante, ma l’Italia deve anche affrontare risolutamente Vienna faccia a faccia.

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Questa è una controversia bilaterale seria con un paese vicino, legato all’Italia da una fitta rete d’interessi e d’interdipendenze. Il Brennero taglia a metà il Tirolo, separa quello austriaco dall’Alto Adige. La chiusura è anche un torto agli altoatesini italiani. Può diventare la prima vera crisi di politica estera di Matteo Renzi, senza sponde cui appoggiarsi. Fare la voce grossa a suon di dichiarazioni è un esercizio sterile. Può solo aiutare la campagna elettorale di Hofer. Qualsiasi attacco italiano non fa che portare acqua al suo mulino. Quello che serve è una forte azione diplomatica nei confronti di Vienna e in altre capitali. All’Austria va fatto presente, con fermezza ma senza isterismi, l’inaccettabilità di misure unilaterali sul confine dei due paesi e le possibili contromisure italiane – che vanno studiate. Con calma e senza twitter. Abbiamo sicuramente leve da usare. Alla Germania va detto che la connivenza con l’Austria non fa che rinviare il problema. Agli altri partners che la chiusura unilaterale di un confine è uno strumento d’isolamento che può ritorcersi contro chiunque. A questa diplomazia, riservata, incisiva, essenziale, non eravamo più abituati, almeno in Europa. Non è bella. Non cerca il consenso solo la composizione degli interessi. Ma nell’Europa dei populismi e delle crisi torna a contare e dobbiamo sapercene servire. L’Ue non ci toglierà le castagne dal fuoco se non ci aiuteremo da soli. AVVENIRE Pag 1 Attenti anche agli amici di Riccardo Redaelli L’Italia e il rompicapo libico All’apparenza è un rompicapo senza soluzioni. È evidente che la Libia da sola non può farcela e che quindi una missione militare di stabilizzazione dovrà essere organizzata, su richiesta del governo Sarraj. E sembra altrettanto logico che l’Italia la guidi, il che implica mettere sul tavolo soldati e soldi. Ma altrettanto evidente è come questa missione rischi di essere una trappola mortale, considerate le fratture fra le mille milizie rivali. Ma anche perché non sembra esservi chiarezza su quali siano i suoi obiettivi politici e strategici. Perché se c’è una lezione che abbiamo imparato dalle precedenti grandi operazioni internazionali di peacebuilding (cioè di ricostruzione della pace) è che senza un’agenda politica chiara e condivisa si rischia il fallimento. Già, purtroppo, questa chiarezza e comunità di obiettivi sembra lontanissima quando si parla di Libia. Deriva forse da questa costatazione la prudenza del governo, che per qualcuno è ambiguità o contraddizione, ma che piuttosto sembra la comprensione dei pericoli di coordinare una missione internazionale in cui i principali partner mantengono agende politiche nascoste e duplici. Oltre a noi, nel Paese nordafricano, sono molto attivi francesi e inglesi. Alleati- competitori con cui abbiamo avuto anni di incomprensione e di anche acuta rivalità. L’atteggiamento inglese, in particolare è stato talvolta percepito da Roma come ostile. Londra sembra aver puntato le sue carte sul consolidamento della presenza in Cirenaica, più che sulla tenuta della Libia come stato unitario. E questa è una politica che mina la nostra strategia di sicurezza e che risulta antitetica all’obiettivo di sgombrare il campo da ogni ipotesi di frazionamento del Paese. L’atteggiamento dei francesi è ancora più ambiguo: a parole appoggiano il governo di unità nazionale, ma non è un mistero il loro appoggio al generale Haftar, l’uomo forte di Tobruk, sponsorizzato da Egitto ed Emirati. Haftar ha lanciato la sua grande offensiva contro tutte le milizie e le forze islamiste, in nome dell’«unità della Libia ». Ma in realtà è egli stesso il capo di una fazione, che sgomita per assicurarsi una fetta del potere. E l’idea di considerare come un unico blocco tutte le fazioni della galassia islamista, da quelle violente jihadiste a quelle della fratellanza islamica, ci spinge dritti in una pericolosa trappola ideologica. Perché è velleitario immaginare di agire in Libia senza interagire con i movimenti islamisti meno ideologizzati. L’impressione è che Parigi guardi più ai suoi legami (e alla vendita di armi) all’Egitto e alla sicurezza della sua area di influenza nella fascia subsahariana che alla stabilità della Libia in quanto tale. Gli Stati Uniti stanno uscendo a fatica da una certa “letargia” strategica verso questo quadrante. Hanno finalmente capito che non possono appaltare la gestione solo a noi europei. E sembra di capire che guardino con favore alla nostra politica e alla nostra strategia. Ma la loro campagna elettorale non ci aiuta. Fra i partecipanti allo sforzo di stabilizzazione vi dovrebbe essere anche la Germania; un gigante economico che ha spesso scelto – per motivi storici evidenti – di essere estremamente prudente sul piano geopolitico. Stavolta però, vista e considerata la

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rovente situazione sul campo nordafricano, Berlino dovrà chiarire – e chiarirsi – su quale siano gli obiettivi strategici reali che persegue. Insomma, date queste prospettive, accettare la direzione di una missione così pericolosa con alleati che perseguono interessi non convergenti – o di fatto divergenti – con i nostri interessi appare puro autolesionismo. Ma la verità è che saremo probabilmente costretti ad agire dalle dinamiche sul terreno; anche per evitare che vi sia un contagio verso altri Paesi, come la Tunisia e l’Algeria. Quest’ultima dovrà affrontare una difficile transizione politica e rischia di venir risucchiata nel gorgo delle violenze islamiste. Dobbiamo quindi lavorare – con l’aiuto di Washington e mai senza consenso significativo tra le parti libiche – per arrivare a una condivisione, almeno parziale, degli obiettivi prioritari di una futura missione sull’altra riva del Mediterraneo. Confidando che risultati sul campo e faticosi (e discreti) sforzi negoziali favoriscano questa convergenza. Ma sapendo che si danza pericolosamente sul ciglio di un abisso. Pag 2 Spagna, sei mesi persi e un sistema Paese a rischio di Sergio Soave La grande democrazia iberica a una prova difficile Ormai è inevitabile che la Spagna torni alle urne dopo il fallimento di ogni tentativo di intesa tra le forze politiche dopo le elezioni del 22 dicembre. A termini costituzionali il re Filippo VI scioglierà le camere e indirà nuove elezioni per il 26 giugno. La Spagna non ha una tradizione di coalizioni di governo, l’ultimo esecutivo con più partiti è stato quello del 1936 di Fronte popolare, che fu rovesciato dal pronunciamento militare che diede origine alla guerra civile e poi alla lunga dittatura di Francisco Franco. Il ritorno alla democrazia vide patti politici rilevanti, a cominciare da quello che diede origine alla nuova Costituzione, ma i governi furono sempre costituiti dal partito vincitore delle elezioni, anche perché – quando esso non otteneva seggi sufficienti – i partiti minori di tipo territoriale hanno sempre scelto di sostenere (ricambiati) gli esecutivi di Popolari o Socialisti. La legge elettorale spagnola è stata costruita per favorire il bipolarismo, visto che contiene un meccanismo (i seggi vengono attribuiti nei singoli collegi provinciali senza recupero nazionale dei resti) che opera una correzione maggioritaria implicita a favore del partito più votato. Il quadro politico tradizionale, imperniato sull’alternanza tra popolari e socialisti è stato però terremotato dall’apparizione di nuove formazioni, Ciudadanos al centrodestra in competizione con il Pp e Podemos a sinistra in competizione con il Psoe, il che ha reso impossibile la formazione di un governo che non fosse basato su una coalizione che, in qualche modo, vedesse una convergenza tra gli avversari storici, appunto i popolari e i socialisti. Fin dall’inizio, il leader popolare e presidente del governo in funzione per gli affari correnti Mariano Rajoy ha dichiarato che senza un accordo con il Psoe non averebbe potuto accettare un’investitura e per questo ha rifiutato quella che gli era stata proposta dal capo dello stato. Il leader socialista Pedro Sanchez, per parte sua, ha puntato a mettere insieme tutte le forze alla sinistra del Partito popolare, è arrivato a insultare Rajoy definendolo «un uomo politico indecente», ma non è riuscito nel suo intento e ieri ha ammesso di aver sbagliato ad attaccare Rajoy in quel modo. Le nuove votazioni si svolgeranno il 26 giugno, tre giorni dopo il referendum britannico, quindi in un clima particolarmente teso per le sorti dell’Unione Europea. In ogni caso è difficile che la ripetizione del voto dopo sei mesi cambi molto profondamente il panorama politico che si è delineato, anche se naturalmente le impressioni che gli elettori hanno ricevuto dal comportamento dei partiti durante questa fase di stallo avranno un certo peso. Gli analisti prevedono un calo della partecipazione al voto, che dovrebbe pesare soprattutto sulle formazioni di sinistra. La competizione tra socialisti e Podemos per la conquista del secondo posto resta aperta, anche perché Podemos includerà nelle sue liste anche i candidati di Izquierda unida, la formazione postcomunista che nelle elezioni di dicembre si era presentata da sola. Tra i due partiti moderati la gara non sarà per la conquista del primo posto, visto che i popolari hanno più del doppio dei consensi di Ciudadanos, ma sarà comunque aspra, anche se poi, quando si dovrà fare i conti con l’esigenza di creare una coalizione, le ostilità dovranno cessare. E qui verrà di nuovo il difficile. In quasi tutta Europa, anche per l’emergere di partiti di protesta originati dalla crisi economica e sociale, si è arrivati a governi di coalizione, nella precedente legislatura ce n’è stato persino uno tra conservatori e liberali in Gran Bretagna, dove non si erano mai visti governi pluripartitici

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in tempo di pace. La Spagna, con ogni probabilità, sarà costretta a seguire questo esempio, che è stato definito un po’ con disprezzo e un po’ con ammirazione «italiano». E dovrà riuscirci se vuole reggere ai rischi di disfacimento istituzionale connessi alla sfida indipendentista catalana. Pag 2 Un angelo di nome Chiara (lettera di Pino Ciociola) Caro direttore, erano nella stessa stanza, in un grande ospedale del Centro Italia: Chiara aveva otto anni, Franca nove. Grave malattia per entrambe. Franca adorava una bambola di Chiara, spesso gliela chiedeva in prestito, Chiara gliela dava col sorriso e spesso ci giocavano insieme. I giorni passavano così. Diventarono settimane, e le bambine amiche. Sorridevano e si aiutavano. Una mattina Chiara venne dimessa, i medici avevano spiegato che nulla sarebbe più servito a salvarla. Un mese dopo ai genitori di Franca arrivò una telefonata dalla mamma e dal papà di Chiara: «Domani c’è il funerale di nostra figlia. Vorremmo tanto che veniste, dobbiamo dare una cosa alla vostra». Chiara, poco prima di morire, aveva preparato con cura una scatola, vi aveva messo dentro quella bambola e aveva chiesto ai genitori di regalarla a Franca. Sono passati alcuni anni. Franca è grandicella, ha subito undici interventi, alcuni dei quali considerati quasi disperati. I medici non capiscono del tutto come sia possibile, ma ora sta bene. Conserva con tenerezza la bambola di Chiara, la tiene sempre con sé. E a chi gliene chiede il motivo, risponde che è il suo angelo custode. Io sono certo, proprio certo, che lo sia Chiara. Pag 3 A Cuba vecchi timonieri per la nuova “revoluciòn” di Lucia Capuzzi L’evoluzione politica dell’isola passa sottotraccia Tutto è pronto per lo storico viaggio inaugurale del primo maggio. Quel giorno, gli oltre 700 passeggeri della scintillante nave Adonia della Carnival sbarcheranno all’Avana direttamente da Miami. È la prima crociera fra le due sponde dell’Atlantico dopo oltre mezzo secolo di blocco. Organizzarla non è stato facile. All’ultimo – e non senza polemiche e recriminazioni – il governo cubano ha dovuto eliminare l’obsoleta proibizione, in vigore dal luglio 1999, che impediva ai cittadini nati sull’isola e successivamente espatriati di rientrarvi via mare. Il primo maggio, dunque, i vacanzieri statunitensi – esuli cubani inclusi – potranno sbarcare sulla più grande delle Antille. A poca distanza dal porto, nelle stesse ore, la Revolución celebrerà non con la solita scenografia magniloquente e “orgoglio socialista” la Giornata internazionale dei lavoratori. La coincidenza costringerà ad incontrarsi, almeno per un momento, i vari fusi orari che, di norma, scorrono paralleli sull’isola. Quello del rigido discorso ufficiale, ancorato agli ingranaggi di un orologio politico abituato a scandire il tempo a rallentatore. E quello del cambiamento incombente, sostenuto dalla normalizzazione con Washington del 17 dicembre 2014 e perennemente accelerato dall’urgenza economica. Nello spazio fra i due, Cuba si muove, ad un ritmo tutto suo. Per questo, è tanto difficile per gli osservatori esterni adeguarsi al passo e intuirne la direzione. L’ isola marcia con l’andatura ondulata della “sua” salsa. Emblema di tale cammino tortuoso è il VII Congresso del Partito comunista cubano (Pcc), unico ammesso e cuore del sistema politico nazionale. La riunione, prevista ogni cinque anni, si è svolta all’Avana tra il 16 e il 19 aprile. Nonostante la segretezza ufficiale – i giornalisti stranieri non erano ammessi ai lavori –, i discorsi e i risultati sono subito rimbalzati sui media internazionali, che li hanno definiti «deludenti». Il Congresso è stato liquidato come un cedimento del presidente Raúl Castro all’ala più oltranzista dell’esecutivo. In tal senso si leggono i toni degli interventi, infarciti di retorica anti-yankee ed enfasi sul ruolo del partito unico. A inquietare gli osservatori è stata, però, soprattutto la riconferma per altri cinque anni di Castro, 84 anni, al vertice del Partito. Rieletti pure i principali esponenti del Bureau (il “cervello” della formazione), in primis il numero due, José Ramón Machado Ventura, 85 anni, uno degli ultimi reduci della Sierra Maestra e dei più strenui difensori della Rivoluzione. Una batosta per quanti – soprattutto nelle file del dissenso – attendevano il ritiro della vecchia guarda. Al contrario, alla cerimonia finale del Congresso, ad applaudire i “confermati” è arrivato pure Fidel Castro. Eppure il fratello e attuale leader, in un’arringa di più di due ore, aveva sostenuto, nella stessa sala, la necessità di porre

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dei limiti di età per la nomenklatura del Pcc: 60 e 70 anni per entrare, rispettivamente, nel Comitato centrale e nel Bureau Politico, i massimi organi decisionali. Non solo. Raúl – come lo chiamano i cubani – ha ribadito, di fronte agli oltre mille congressisti, la ferma decisione di lasciare la guida del Paese nel 2018. Perché, allora, continuare per altri tre anni a tenere le redini del partito, creando una sorta di “diarchia”? L’apparente paradosso si può spiegare solo addentrandosi nelle pieghe del “moto ondulatorio” di Cuba verso il futuro. «Il fatto è che il VII Congresso non è stato così immobilista come vari analisti sostengono. Tutt’altro…», spiega ad Avvenire Rafael Hernández, direttore e fondatore di Temas, rivista finanziata dal ministero della Cultura eppure indipendente. Tanto che vi scrivono anche esponenti tutt’altro che castristi. Il punto di vista di Hernández è, dunque, utile per orientarsi nel labirinto cubano. «Prima di tutto, concentriamoci sulla nuova composizione degli organi centrali del Pcc», aggiunge. Dal Bureau, sono usciti due importanti esponenti delle Forze Armate: il generale Abelardo Colomé e il ministro dei Trasporti Abel Yzquierdo. Al loro posto, sono entrati cinque civili, di cui tre donne: tutti intorno ai 50 anni e con un curriculum professionale di grande spessore. Il peso dei militari, «guardiani dell’ortodossia rivoluzionaria», è stato dunque ridimensionato. L’iniezione di energie fresche, inoltre, ha fatto calare l’età media dei vertici da 68 a 63 anni. Nessuno dei “rampolli” Castro – in particolare Alejandro e Mariela, entrambi figli di Raúl, e attivi in politica – infine, è stato insediato nel Bureau, a prova della volontà di interrompere la “dinastia” politica. Ancora maggiore, il “ringiovanimento” del Comitato centrale, arrivato a quota 142 esponenti: come nota l’economista cubano statunitense Carmelo Mesa-Lago, il 66 per cento di loro è nato dopo il 1959 e l’età media è inferiore a 55 anni. Il nuovo, dunque, si insinua nei centri nevralgici del sistema senza, però, scalzare il vecchio. E non solo per la determinazione di quest’ultimo di auto-perpetuarsi al potere. «Raúl Castro e un’esigua cerchia di anziani rivoluzionari sono gli unici ad avere la legittimità sufficiente per garantire la transizione senza mettere in pericolo la stabilità del sistema. Non può essere una new entry a parlare di apertura: non avrebbe la forza politica per farlo. Il sostegno di Raúl e dei suoi è fondamentale perché la transizione si compia. Solo un’alleanza tra la nuova e la vecchia guardia può far procedere il Paese sulla via delle riforme», sottolinea Hernández. Del resto, come sostengono Roberto Veiga e Lenier González, creatori del “laboratorio di idee” Cuba Posible, il governo – e i suoi capi storici – può agevolare enormemente il percorso di cambiamento «perché ha una capacità organizzativa e di mobilitazione che nessun altro attore possiede». Nei prossimi 21 mesi, a dispetto dell’immobilismo retorico, il Paese dovrà affrontare un’intensa maratona politica: la modifica della legge elettorale in vista delle legislative di inizio 2017 e della Costituzione. Poi, il 28 febbraio 2018 il momento della verità: Castro lascerà la presidenza nelle mani, probabilmente, anche se il tema resta tabù, del vice Miguel Diaz Canel. Nel frattempo, Cuba dovrà procedere all’«attualizzazione economica del modello» ovvero la progressiva apertura al mercato e, al contempo, agli Usa. Finora, come lo stesso Partito ha ammesso, delle riforme annunciate nel precedente appuntamento, nel 2011, poco più del 20 per cento è stato attuato. «Dal VII Congresso è emersa la volontà di proseguire in tale direzione. Era questo il dato fondamentale, al di là della retorica», conclude Hernández. Anzi, il governo ha anche, di recente, voluto mettere mano a un’altra questione spinosa troppo a lungo accantonata. All’Avana, come riporta Il Sismografo, è cominciato, nella massima discrezione, il dialogo tra esecutivo ed episcopato per definire lo status giuridico della Chiesa nell’isola, come auspicato dal Papa e dai vescovi locali. Dopo gli anni dell’ateismo di Stato, la Costituzione attuale riconosce la libertà religiosa. Non solo. La Chiesa è stata un attore fondamentale nel sostenere il riavvicinamento tra Washington e l’Avana, anche grazie al ruolo di primo piano dell’arcivescovo della capitale, il cardinale Jaime Ortega. Quest’ultimo ha svolto, per quasi vent’anni, un’azione gigantesca e silenziosa per “gettare ponti” e promuovere la riconciliazione all’interno dell’isola. Stavolta, però, il cardinale Ortega non partecipa al colloquio con l’esecutivo. Due giorni fa, papa Francesco ha accettato le sue dimissioni per raggiunti limiti di età: compirà infatti 80 anni a ottobre. Al suo posto, il Pontefice ha nominato monsignor Juan de la Caridad García Rodríguez, arcivescovo di Camagüey, pastore dal forte impegno missionario e uomo di dialogo, il quale ha subito dichiarato: «Spero di riuscire a portare avanti la sua opera». Il momento per la Chiesa è importante: a questa manca una cornice giuridica definita per svolgere la propria missione. L’obiettivo del negoziato è, dunque, quello di

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eliminare qualunque possibile intralcio burocratico o amministrativo che limiti l’azione evangelizzatrice. I nodi sono tanti: dall’accesso della Chiesa ai media alla presenza di scuole cattoliche all’interno del sistema d’istruzione nazionale. Il percorso sarà, dunque, lungo anche se Raúl sembra determinato a compierlo prima di terminare il mandato. Ventun mesi non sono tanti. Però a Cuba il tempo scorre su fusi paralleli. Che, di tanto in tanto, si incontrano. IL FOGLIO Pag 2 Il ministro belga che vede l’Europa islamizzata: “Colpa dei cristiani” di Matteo Matzuzzi Roma. "Molto presto, in Europa ci saranno più musulmani che cristiani. L'Europa non si rende conto di questo, ma questa è la realtà". A dirlo è stato, davanti alla commissione per la Giustizia e gli affari interni del Parlamento europeo, Koen Geens, che della Giustizia in Belgio è ministro. E ci saranno più musulmani, ha aggiunto, non perché "ce ne sono troppi, ma perché i cristiani sono sempre meno praticanti". Dove Geens abbia preso i dati declamati nell'organismo comunitario di Bruxelles, nessuno lo sa. Il suo stesso portavoce si è rifiutato di spiegare su cosa si basino le riflessioni del ministro: "I suoi commenti sono stati molto chiari, non dirò nulla di più". Eurostat, l'unico ufficio statistico legittimato a fornire stime del genere, fa sapere che non ha prodotto alcuno studio sulle religioni, e quindi non è in grado di sostenere se quella del politico fiammingo sia una profezia o una previsione basata su dati empirici. Quel che si sa, dicono dal Berlaymont, è che una rilevazione della Commissione europea del 2012 indicava che il 72 per cento della popolazione continentale si dichiarava cristiana, a fronte del 2 per cento di musulmani. In Belgio, i numeri non si discostavano poi di molto: 65 per cento contro 5. Che poi tra i cristiani i praticanti siano una risibile minoranza (Polonia esclusa), è un altro discorso e non rende più plausibile la prospettiva delineata da Geens. Secondo una stima ritenuta attendibile i musulmani in Europa sarebbero circa il 5 per cento del totale. Cifre, insomma, di gran lunga più basse (e meno allarmistiche) rispetto a quelle fornite tempo fa dall'autorevole Pew Research Institute, che intravedeva una crescita del numero di fedeli all'islam tale da quasi pareggiare quello dei cristiani nel 2050. Il ministro si è subito attirato le critiche delle associazioni che combattono l'islamofobia. Una di queste, Tell Mama, ha reso noto all'Independent tutto il suo sdegno: "I commenti del ministro della Giustizia belga sono non solo sbagliati, ma anche irresponsabili, considerata la sua posizione", ha spiegato Fiyaz Mughal, che di Tell Mama è il direttore. Eppure, il ministro in questione è lo stesso che, poche settimane prima degli attacchi di Bruxelles, si vantava della "nostra filosofia per un islam più integrato". Spiegava, Geens, che "per combattere la radicalizzazione è importante che i giovani non entrino nelle moschee dove si proclama una fede radicalizzata". Il ministro non ha ancora fatto retromarcia, dal suo ufficio si conferma ogni sua singola parola. Quasi a rimarcare la differenza con la performance del collega dell'Interno, Jan Jambon, che solo una decina di giorni fa accusava "una parte considerevole della comunità islamica" di aver "danzato dopo gli attentati" che insanguinarono la capitale belga lo scorso 22 marzo. Jambon, inoltre, aveva osservato come "i residenti musulmani di Molenbeek avessero attaccato gli agenti di polizia" durante le operazioni messe in campo per arrestare Salah Abdeslam: "Tiravano pietre e bottiglie, e questo è il problema principale", sottolineava. Subissato dalle polemiche, Jambon cambiava opinione, parlando di "fraintendimenti" e chiarendo che "in Belgio abbiamo 600-700 mila musulmani e la grande maggioranza di essi condivide i nostri valori", compresi quelli di Molenbeek e Schaerbeek. L'errore che non si può commettere, aggiungeva il titolare dell' Interno, è "rendere l'islam un nemico. Questa è la cosa peggiore che noi potremmo fare". IL GAZZETTINO Pag 1 Debito greco, il rigore tedesco penalizza la Ue di Giulio Sapelli L'Europa è ormai una vecchia casa che vede a poco a poco sgretolarsi parti delle sue mura. Oggi la gran questione che tutti colpisce è la tragedia dei migranti e la perdita della virtù della Misericordia: si alzano mura, si armano polizie speciali, si sollevano venti

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di odio nazionale che ricordano gli anni più tristi tra le due guerre mondiali. Del resto l'Europa si disvela ora per quel che è: una questione non di condivisione, ma piuttosto di sottrazione di sovranità a favore del più forte. E se entra in gioco la forza, la Misericordia finisce, ma non vi è neppure posto per la ragione. La Grecia è al crocevia di tutte le contraddizioni europee. Se dovesse lasciare l'Ue solleverebbe un grave problema geostrategico che andrebbe a incrociarsi pericolosamente con i già difficili rapporti della Turchia con la Nato. Una Turchia protesa a un dominio neo-ottomano dalle forti tinte turcofone e militaristiche con il presidente Erdogan a capo di un disegno repressivo sia contro le minoranze curde, sia contro i liberi pensatori all'interno. E poi ai confini della Grecia, la Russia preme. Si è già fatta sentire con Cipro e potrebbe, con i cinesi che ora posseggono il porto del Pireo, scardinare qualsivoglia processo di ulteriore unificazione economica tra Europa e Usa, come ha ben presente Obama che non per nulla ha visitato la Merkel nel suo ultimo viaggio in Europa sotterrando inaspettatamente l'ascia di guerra dopo il caso Volkswagen. L'accordo tra Usa e Ue è troppo importante e si possono per ora dimenticare le differenze profonde tra la volontà deflazionistica tedesca e la politica espansiva americana. La cosa che può unire tutti di nuovo è la minaccia russa. Ma per vincerla, la minaccia, bisogna, come nell'immediato secondo dopoguerra, avere con sé la Grecia. Ma ecco che una nuova precipitante scossa tellurica si genera. Ecco che i creditori che vogliono veder onorati i loro debiti nei confronti della Grecia non sono riusciti a formulare un accordo sui tagli necessari a sbloccare la nuova tranche di aiuti nell'ambito del piano di salvataggio da 86 miliardi. Circa il 60% del debito è detenuto dai Paesi dell'Eurozona. La classifica vede la Germania al primo posto con oltre 68 miliardi di euro, seguita dalla Francia (quasi 44) e dall'Italia (38,5). Solo l'accordo con i creditori può consentire alla Grecia di avere tre anni di stabilità e riavviare il rimborsi degli stessi debiti. Per quanto riguarda le quote restanti del debito greco, il Fondo monetario internazionale (i cui azionisti sono ancora una volta gli Stati) detiene un altro 8%, pari a oltre 21 miliardi di euro. Stesso discorso per la Banca centrale europea, la cui esposizione ammonta a oltre 18 miliardi. Ma il dottor Schauble, ordo-liberista ministro delle Finanze tedesco per il quale il debito è una colpa, e per Jeroen Dijsselbloem, della moratoria del debito è proibito addirittura parlare. L'Eurogruppo richiesto da Tsipras "non ci sarà". E questo perché del debito greco, l'Eurogruppo ha già discusso il 22 aprile nel contesto del programma di aggiustamento macroeconomico. Ma se ne è discusso in un verso niente affatto rassicurante. L'Eurogruppo ha esortato le autorità greche a concordare con le istituzioni il pacchetto di riforme e il fatto che tale discussione si sia svolta nel contesto dei colloqui tematici sui regimi nazionali di insolvenza non fa presagire che si prospetti l'unica soluzione possibile: il condono definitivo del debito greco. Senza questo atto la Grecia non si risolleverà più e l' Europa andrà incontro a una crisi irreversibile. Invece di aprire una discussione su ciò il nostro Dijsselbloem ha dato la parola al presidente del meccanismo di vigilanza unico, Danièle Nouy, aggiornando i ministri sui lavori in corso in materia di armonizzazione delle possibilità di intervento sul piano della vigilanza e delle discrezionalità nazionali nel settore bancario della zona euro al fine di "garantire una maggiore parità di condizioni". Ma se la parità di condizioni investe come un ciclone le nazioni in difficoltà, tutto si avvia verso una divaricazione crescente. Non a caso Alexis Tsipras ha chiesto un summit Ue per provare a sbloccare la situazione e mettere la mordacchia alla ex Troika. Tsipras voleva provare a convincere i partner comunitari che la Grecia, mantenendo gli impegni presi la scorsa estate con la firma del nuovo memorandum affrontava ora il vero ostacolo: l'intesa finale con i creditori, così da non dover dar vita a nuove misure d'austerità non previste dagli accordi precedenti. I creditori sono degli stati, non dei privati, e quindi possono ben rinunciare a vedere onorati i propri crediti in osservanza di una superiore "ragione europea di stato", che dovrebbe ancor più farsi sentire ora che si sta avvicinando la tempesta del referendum sulla cosiddetta Brexit, ossia sulla permanenza o meno del Regno Unito in Europa. LA NUOVA Pag 1 Al Brennero una partita costosa di Francesco Morosini Brennero: qui, al confine tra Italia ed Austria, è destinata a finire l’Europa? Il rischio c’è perché il Brennero, simbolo di tanti altri “confini blindati” che balcanizzano l’Unione

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europea, mostra la crisi profonda del “modello Schengen” centrato sulla libera circolazione all’interno dello spazio da esso delimitato. È ben vero che il relativo Trattato prevede che l’assenza delle barriere doganali interne all’Unione avrebbe dovuto portare, come conseguenza, la creazione di controlli al limes esterno dell’Europa; ma così, purtroppo, non è stato; ed oggi si pagano le conseguenze. Ed è anche vero che lo stesso Trattato prevede delle sue temporanee sospensioni per situazioni d’emergenza; e, va detto, già attuate nel passato. Tuttavia, la decisione di Vienna di blindare il confine del Brennero con l’Italia ha un valore diverso. Il motivo è che la crisi geopolitica innestata dall’immigrazione - e considerata, in una memorabile intervista del settembre 2015, di durata ventennale dal generale Dempsey, al tempo capo dei capi di stato maggiore degli Usa - tende a dare alla decisione austriaca (ma molti altri paesi ne stanno prendendo di analoghe) un aspetto di sostanziale stabilità. La qualcosa, se letta da un punto di vista economico, è destinata ad avere conseguenze piuttosto pesanti. In specie se essa fosse il prodromo della fine di Schengen. Senza pensare al peggio, comunque la volontà di Vienna divarica tra le necessità della sua politica interna e le utilità dell’economia. E questo vale pure se tutto ciò, radicalizzandosi la situazione, aprisse ad un’escalation di misure protezioniste veramente capaci di grandi danni. Che, ad ogni conto, immancabilmente ci saranno. Il motivo è semplice: così il Brennero diverrà un imbuto che rallenterà pesantemente il traffico; e già questo di suo porterà a dei costi. Per comprenderlo bastano poche considerazioni su dati noti. Il ragionamento è semplice: se all’incirca il 40% dell’import/export da e per il Belpaese deve passare per il Brennero, è evidente che è sufficiente la semplice decisione di Vienna di ripristinare i controlli alle frontiere per alterare in negativo quantomeno l’economia dell’autotrasporto. Come? Semplicemente allungando i tempi di entrata ed uscita dei mezzi dal valico di confine tra Italia ed Austria: perché questo, per banali considerazioni di economia aziendale, è più che sufficiente per fare impennare i relativi costi. D’altra parte, se un terzo delle merci che transitano per il Brennero va sui Tir, allora la rilevanza del danno economico è facilmente intuibile. Attenzione: i danni sono calcolati in miliardi di euro; la qualcosa, necessariamente, metterà prima in difficoltà molte aziende dell’autotrasporto; poi, alla fine, il prezzo sarà pagato dalle famiglie consumatrici sulle quali sarà traslato l’incremento dei prezzi (o parte di esso, se il cerino resterà in mano anche agli autotrasportatori) derivante dai costi generati dalle file, per controlli di sicurezza, al Brennero. Pertanto, quale sia il giudizio sulle decisioni di Vienna, è indubitabile che l’economia ne è la vittima. Ma molto peggio andrebbero le cose, come detto prima, se per questa via si arrivasse al collasso definitivo del Trattato di Schengen. Il motivo è semplice; ed è che le problematiche sopra elencate verrebbero implementate radicalmente. Se si assume, come si dovrebbe nel caso, la scala geoeconomica continentale, sarebbe inevitabile dedurne conseguenze negative da allarme rosso. Senza dimenticare che questo è un gioco politico/economico che si presta facilmente alla rappresaglia e, quindi, all’escalation. Per farsi un’idea di quello che potrebbe succedere basta riandare agli anni ’30 del ’900 e alle loro immediate conseguenze negli anni ’40. Insomma, quella delle frontiere chiuse è una partita pericolosa; e dagli esiti incerti. Cioè, potenzialmente, una pericolosa avventura. Pag 6 Se i clan scalano i “democrat” di Andrea Sarubbi Venerdì 4 aprile 2008, Salerno: Veltroni, candidato premier del Pd, cita il sogno di Martin Luther King per ribadire che «annientare la camorra, la mafia, la ’ndrangheta» è possibile. Poi annuncia i provvedimenti del suo eventuale governo, che invece non vedrà mai la luce: guerra al pizzo, rafforzamento degli uffici giudiziari, niente difensore d’ufficio e gratuito per i boss, stop ai contributi per gli imprenditori condannati, controllo a tappeto del voto di scambio. Proprio la lotta al voto di scambio sarà uno dei passaggi più applauditi del comizio di mercoledì 9, a Napoli: i Giovani Democratici alzano cartelli con i nomi dei clan di camorra e il segretario Pd li cita uno a uno, per dire che i voti della criminalità organizzata non saranno i benvenuti, quando - di lì a quattro giorni - si andrà alle urne per le Politiche. È un periodo caldo, quella primavera di sei anni fa, anche per Rosaria Capacchione, giornalista anticamorra del Mattino: il legale dei Casalesi - condannato per questo nel 2014 a un anno con la condizionale e a 20mila euro di provvisionale - l’attacca violentemente in tribunale, accusandola di operare al di fuori

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della legge e di esercitare pressioni indebite. «Praticamente una condanna a morte», tradurrà Saviano, finito nel mirino insieme a lei. Il Pd si mobilita per la giornalista, che l’anno dopo verrà candidata alle Europee: numero due in lista, dietro all’ex ministro De Castro e davanti all’attuale capogruppo del Pse Pittella. Prenderà 73mila voti e non ce la farà, commentando con amarezza di non essere stata sostenuta abbastanza. Quattro anni dopo, nel 2013, è Bersani a saldare il debito morale: la mette capolista al Senato, senza passare per le primarie, e la sua candidatura diviene simbolo dell’impegno contro la criminalità organizzata. Ora, nel 2016, la stessa Capacchione è impietosa: nel Pd «i rimedi che si cercano sono spesso di facciata», dichiara al Fatto Quotidiano, aggiungendo che «non c’è la capacità di leggere certi fenomeni» come «l’arrembaggio piratesco» dei clan in colletto bianco al Pd della Campania. Non è, in realtà, solo un problema di Pd: il processo a Nicola Cosentino per concorso esterno in associazione camorristica è la punta dell’iceberg di un sistema che ha visto coinvolto il centrodestra per anni, mentre la vicenda di Quarto ha dimostrato che nemmeno i Cinquestelle possono dirsi immuni da rischi. Ma è evidente che la vicenda fa più notizia, quando vede coinvolta l’unica grande forza politica italiana che conserva orgogliosamente il nome di partito e che affonda le proprie radici anche nella tradizione antimafia del Pci, simbolo di intransigenza nei confronti della criminalità organizzata, tanto da lasciare sul campo diversi esponenti - da Pio La Torre in giù - impegnati in prima linea. Si dice che l’attuale sistema di preferenze sia un terreno piuttosto fertile per le infiltrazioni: si pensi alle migliaia di candidati che ora si contendono un posto nel Consiglio comunale di Napoli, e alla difficoltà di evitare il rischio che qualcuno venga eletto con i voti dei clan. Di certo, i collegi uninominali - in cui ogni partito si gioca la faccia con il proprio candidato - garantirebbero un’efficacia maggiore. Ma poi, appunto, ti torna in mente il Pci di trenta o quarant’anni fa e ti dici che, all’epoca, si votava addirittura con le multipreferenze, eppure si riusciva ugualmente a restare puliti: perché oggi non è più possibile? La risposta, forse un po’ démodé, è che del partito di ieri non è rimasto molto, a livello di struttura e di vita interna. Nelle sezioni di una volta c’era certamente il rischio che qualcuno si infiltrasse, ma il controllo sociale era fortissimo: la prima diga erano proprio gli iscritti, che addirittura - così recitava il vecchio statuto - si facevano garanti dell’ammissione di nuovi membri. Oggi, invece, è tutti contro tutti: finito il tempo in cui il partito garantiva i propri voti ai candidati da eleggere, è iniziato quello della concorrenza interna. In cui ognuno va per sé e si cerca le preferenze da solo, anche pescandole nella melma: il vero problema dei voti, infatti, è che purtroppo non hanno odore. Torna al sommario