Rassegna stampa 13 marzo 2017 - patriarcatovenezia.it · Pag 18 Vicario di Roma, le primarie di...

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 13 marzo 2017 SOMMARIO “Il clochard è un uomo che dorme, proprio come noi – scriveva Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera di domenica -. Il bianco e nero, lo scenario surreale, l’ombra dell’assassino che si allunga sul pavimento e sulla parete. Elementi che farebbero pensare a un epigono di Hitchcock. Invece è tutto vero. Se qualcuno, davanti a quei trenta secondi filmati, vi avesse detto che si trattava della sequenza di una fiction, non avreste dubitato. Non poteva che essere una finzione (per quanto verosimile), una delle tante scene violente e gratuite che si possono vedere nei film pulp. Il bianco e nero, il gioco di contrasti, lo scenario surreale, l’ombra dell’assassino che si allunga sul pavimento e sulla parete potrebbero anche essere elementi registici pensati da un epigono di Hitchcock. Invece è tutto vero. Così reale da non farci credere ai propri occhi. Per quante volte si possa guardare e riguardare quel video, è difficile farsene una ragione: un tipo incappucciato avanza tranquillo tenendo un secchio nella mano destra, sa dove andare, infatti quando arriva a un metro dal giaciglio scuro svuota il bidone in tre lanci successivi mirati verso l’alto: nei pochi secondi in cui si allontana di qualche passo, le coperte si muovono, si intravede anche la testa del senzatetto fare capolino, probabilmente assonnata, incredula, ignara, ma non ha il tempo di verificare quel che accade perché l’assassino ha già recuperato il fiammifero o l’accendino e con un balzo si sta scagliando contro di lui per dargli fuoco, scatenare una luce bianca abbagliante, e poi saltare fuori, mettersi in salvo e fuggire. Sia detto quasi sottovoce: un vagabondo che dorme è un vagabondo che dorme, ma soprattutto è un essere umano che dorme, ovunque dorma, all’aperto o in casa, e chiunque egli sia. Nessuno potrebbe mai lucidamente pensare che uccidere un clochard (un vagabondo, un senzatetto, un «barbone» che non è necessariamente peggiore della parola francese clochard , letteralmente «zop-picante»), che si chiami Marcello Cimino o che non abbia nome e età, sia meno grave che uccidere un qualunque altro essere umano. Il rischio però è che il «poveretto», l’aggettivo con cui in genere si reagisce di fronte alla sciagura di uno «zoppicante», contenga una impercettibile dose di paternalismo (compati-mento più che autentica compassione) verso l’auto-escluso dalla società, andato incontro a un destino di cui lui stesso era in qualche modo almeno un po’ involontariamente corresponsabile. Il sospetto è che il fuoco dato a un clochard finisca per riguardarci un po’ meno del furto subìto da un comune signore chiuso a chiave dentro la propria casa. Perché se quel signore potremmo essere noi, il barbone mai e poi mai” (a.p.) 1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Fidanzati a San Marco: “Un momento profondo” di Tullio Cardona A San Marco 150 coppie ricevute dal Patriarca: “Il matrimonio in chiesa è qualcosa di più” LA NUOVA Pag 10 Il Patriarca ha incontrato i futuri sposi di Nadia De Lazzari La cerimonia alla basilica marciana IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 12 marzo 2017 Pag VIII Il patriarca Moraglia incontra i fidanzati in basilica a San Marco 3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La “simpatia” evangelica di un Papa missionario di Andrea Riccardi

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 13 marzo 2017

SOMMARIO

“Il clochard è un uomo che dorme, proprio come noi – scriveva Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera di domenica -. Il bianco e nero, lo scenario surreale, l’ombra

dell’assassino che si allunga sul pavimento e sulla parete. Elementi che farebbero pensare a un epigono di Hitchcock. Invece è tutto vero. Se qualcuno, davanti a quei trenta secondi filmati, vi avesse detto che si trattava della sequenza di una fiction, non avreste dubitato. Non poteva che essere una finzione (per quanto verosimile),

una delle tante scene violente e gratuite che si possono vedere nei film pulp. Il bianco e nero, il gioco di contrasti, lo scenario surreale, l’ombra dell’assassino che si allunga sul pavimento e sulla parete potrebbero anche essere elementi registici pensati da un

epigono di Hitchcock. Invece è tutto vero. Così reale da non farci credere ai propri occhi. Per quante volte si possa guardare e riguardare quel video, è difficile farsene una ragione: un tipo incappucciato avanza tranquillo tenendo un secchio nella mano destra, sa dove andare, infatti quando arriva a un metro dal giaciglio scuro svuota il bidone in tre lanci successivi mirati verso l’alto: nei pochi secondi in cui si allontana di qualche passo, le coperte si muovono, si intravede anche la testa del senzatetto fare capolino, probabilmente assonnata, incredula, ignara, ma non ha il tempo di verificare quel che accade perché l’assassino ha già recuperato il fiammifero o

l’accendino e con un balzo si sta scagliando contro di lui per dargli fuoco, scatenare una luce bianca abbagliante, e poi saltare fuori, mettersi in salvo e fuggire. Sia detto quasi sottovoce: un vagabondo che dorme è un vagabondo che dorme, ma soprattutto è un essere umano che dorme, ovunque dorma, all’aperto o in casa, e chiunque egli

sia. Nessuno potrebbe mai lucidamente pensare che uccidere un clochard (un vagabondo, un senzatetto, un «barbone» che non è necessariamente peggiore della

parola francese clochard , letteralmente «zop-picante»), che si chiami Marcello Cimino o che non abbia nome e età, sia meno grave che uccidere un qualunque altro

essere umano. Il rischio però è che il «poveretto», l’aggettivo con cui in genere si reagisce di fronte alla sciagura di uno «zoppicante», contenga una impercettibile dose di paternalismo (compati-mento più che autentica compassione) verso l’auto-escluso

dalla società, andato incontro a un destino di cui lui stesso era in qualche modo almeno un po’ involontariamente corresponsabile. Il sospetto è che il fuoco dato a un clochard finisca per riguardarci un po’ meno del furto subìto da un comune signore

chiuso a chiave dentro la propria casa. Perché se quel signore potremmo essere noi, il barbone mai e poi mai” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Fidanzati a San Marco: “Un momento profondo” di Tullio Cardona A San Marco 150 coppie ricevute dal Patriarca: “Il matrimonio in chiesa è qualcosa di più” LA NUOVA Pag 10 Il Patriarca ha incontrato i futuri sposi di Nadia De Lazzari La cerimonia alla basilica marciana IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 12 marzo 2017 Pag VIII Il patriarca Moraglia incontra i fidanzati in basilica a San Marco 3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La “simpatia” evangelica di un Papa missionario di Andrea Riccardi

I quattro anni Pag 20 Il governo della Curia e le nomine inattese di Luigi Accattoli Pag 20 “Mafiarsi” o “spuzzare”, ecco i nuovi bergoglismi di Valeria Della Valle Pag 21 Misericordia e migranti, la Chiesa va in periferia di Marco Ventura Pag 21 Negozi, self-service. L’uomo dei gesti semplici di Lucetta Scaraffia LA NUOVA Pag 4 La rivoluzione di Francesco compie 4 anni di Mariaelena Finessi Il Papa ieri tra i ragazzi della periferia romana. Molte sue battaglie osteggiate dalla Chiesa Pag 4 Nomine, restano i nodi della Cei per Roma e Milano di p.s. L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 12 marzo 2017 Pag 4 Nuovo Adamo e nuova Eva di Valerio Gigliotti Maria nell’incontro tra Dio e l’uomo AVVENIRE di domenica 12 marzo 2017 Pag 10 Gli angeli nascosti a fianco dei dimenticati di Alessia Guerrieri Chiesa e volontari, in tutta Italia Pag 23 Turoldo, la voce ritrovata L’inedito AVVENIRE di sabato 11 marzo 2017 Pag 19 Nuovo vicario, il Papa “consulta” la diocesi di Gianni Cardinale L’incontro con i parroci prefetti di Roma. Sarà possibile anche indicare un nome Pag 19 A Michelini: grazie per essere normale CORRIERE DELLA SERA di sabato 11 marzo 2017 Pag 27 Sacerdozio degli sposati, l’apertura del Papa. E per scegliere il vicario coinvolge tutti i fedeli di Luigi Accattoli LA REPUBBLICA di sabato 11 marzo 2017 Pag 18 Vicario di Roma, le primarie di Francesco di Paolo Rodari IL FOGLIO di sabato 11 marzo 2017 Pag I Il Dio de la revoluciòn di Matteo Matzuzzi Il catechismo dirompente di Francesco segna una svolta nella dottrina della chiesa. Una semplificazione di successo che non risponde però al dramma della modernità 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE di sabato 11 marzo 2017 Pag 6 Il 2016 del lavoro si chiude con 293mila occupati in più di Luca Mazza Segni di un rallentamento nell’ultimo trimestre tra disoccupati in salita e tanti contratti precari 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 12 marzo 2017 Pag I Sicurezza, ora Venezia non è più un’isola felice di Tiziano Graziottin Pag IV Sempre meno comunali, servizi a rischio di Elisio Trevisan

In dieci anni nei comuni della Città metropolitana pensionati 1639 lavoratori. Calano gli stipendi LA NUOVA di domenica 12 marzo 2017 Pag 35 Scene bibliche dei maestri vetrai di Maria Giovanna Romanelli Tecnica artistica, bellezza e spiritualità in esposizione nella Chiesa degli Scalzi CORRIERE DEL VENETO di domenica 12 marzo 2017 Pag 11 Isole tra sogni e fallimenti di Alberto Zorzi IL GAZZETTINO di sabato 11 marzo 2017 Pag XII Fedeli “autoconvocati” per la Marcia della Pace di Alvise Sperandio Associazioni e movimenti mobilitati il 18 marzo nonostante il passo indietro da parte della diocesi Pag XXVIII In squadra per salvare il patrimonio artistico di Daniela Ghio Beni culturali, un tavolo di lavoro di ricercatori universitari e istituzioni Pag XXIX Chiesa degli Scalzi: la Pasqua vista dai maestri vetrai, opere bibliche in mostra di M.Lamb. LA NUOVA di sabato 11 marzo 2017 Pag 22 Rimossa la pala del Tintoretto, sarà restaurata da Save Venice Chiesa di San Marziale 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO di domenica 12 marzo 2017 Pag 6 Suicida dopo il rimprovero di papà di Luca Marin e Federica Cappellato Il genitore disperato: “L’ho sgridato perché usava troppo il telefonino”. Poi Daniele si è impiccato. Lo psichiatra De Leo: “La solitudine nell’uso eccessivo di internet” CORRIERE DEL VENETO di domenica 12 marzo 2017 Pag 1 Un mondo più largo e amortale di Vittorio Filippi Il Veneto che verrà IL GAZZETTINO di sabato 11 marzo 2017 Pag 12 Turismo, Veneto primo in Italia di Alda Vanzan Ne 2016 oltre 65 milioni di presenze, 2 in più rispetto al 2015 CORRIERE DEL VENETO di sabato 11 marzo 2017 Pag 9 Spoladore, l’ex prete che ora fa il santone. Foto vietate e sentinelle e c’è chi paga 12mila euro di Nicola Zanetti In 500 a Treviso. Il guru, la Chiesa e i corsi … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Coalizioni, la grande illusione di Angelo Panebianco I conti proporzionali LA REPUBBLICA Pag 1 L’incognita alleanze e il sogno maggioritario di Stefano Folli LA STAMPA Non c’è più un uomo solo al comando di Federico Geremicca IL FOGLIO Pag 1 No reato, sì peccato. Perché dovremmo avere pietà per i suicidi di Giuliano

Ferrara IL GAZZETTINO Pag 1 L’onestà è necessaria, non sufficiente di Carlo Nordio Pag 11 “Io e miei 8mila figli senza essere mamma” di Edoardo Pittalis Intervista alla superostetrica Maria Pollacci, 92 anni e da 70 al lavoro Pag 13 Prima di morire bene sarebbe importante imparare a vivere di Alessandra Graziottin LA NUOVA Pag 1 La sinistra che gioca a perdere di Francesco Jori CORRIERE DELLA SERA di domenica 12 marzo 2017 Pag 1 Non possiamo perdere l’Olanda di Aldo Cazzullo Le elezioni e la nuova Europa Pag 1 L’uomo che dorme di Paolo Di Stefano Noi sotto quella coperta LA REPUBBLICA di domenica 12 marzo 2017 Pag 1 Demagogia e carisma, così Renzi andrà al voto nel 2018 di Eugenio Scalfari AVVENIRE di domenica 12 marzo 2017 Pag 1 La nuda guerra di Ferdinando Camon I baby kamikaze del Califfato Pag 3 La differenza vale anche nell’adozione di Carlo Bellieni IL GAZZETTINO di domenica 12 marzo 2017 Pag 1 I pericoli dell’uomo solo al comando di Romano Prodi Pag 19 Culle vuote e migranti, così l’Impero fu travolto di Carlo Nordio LA NUOVA di domenica 12 marzo 2017 Pag 1 L’Olanda va alle urne, trema la Ue di Stefano Del Re Pag 1 La svolta per essere competitivi di Franco A. Grassini CORRIERE DELLA SERA di sabato 11 marzo 2017 Pag 1 Il partito che chiede fedeltà di Massimo Franco Il leader e i Dem Pag 1 E ora nei 5 Stelle si discute (anche) delle alleanze di Francesco Verderami AVVENIRE di sabato 11 marzo 2017 Pag 1 La porta stretta di Giorgio Ferrari Geometrie e velocità d’Europa Pag 2 Questa strana Italia tra Paperoni e Paperini di Lorenzo Pecchi e Gustavo Piga Flat tax per ricchi e sazi, chiusure per giovani e affamati Pag 3 Germania, per le elezioni la Spd si rimette a sinistra di Giovanni Maria Del Re L’arrivo di Schulz rianima il partito, dopo anni di crisi IL GAZZETTINO di sabato 11 marzo 2017 Pag 1 I leader politici “prigionieri” del paradosso italiano di Marco Gervasoni

LA NUOVA di sabato 11 marzo 2017 Pag 1 La destra all’ombra di Berlusconi di Bruno Manfellotto Pag 7 Paradosso nazionalista nell’Eurozona sotto tiro di Roberto Castaldi CORRIERE DEL VENETO di sabato 11 marzo 2017 Pag 1 La vera sfida: l’Europa globale di Paolo Costa Contro i sovranismi

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Fidanzati a San Marco: “Un momento profondo” di Tullio Cardona A San Marco 150 coppie ricevute dal Patriarca: “Il matrimonio in chiesa è qualcosa di più” Invitate dall'ufficio diocesano per la pastorale degli sposi e della famiglia, circa 150 giovani coppie di fidanzati hanno ascoltato ieri pomeriggio, nella basilica di San Marco, le parole del patriarca Francesco Moraglia, dialogando con lui e ricevendo la sua benedizione finale. Ha iniziato don Danilo, spiegando il significato dei mosaici del tempio, che vanno dalla Creazione al Nuovo Testamento. «L'affetto, la simpatia e l'attrazione fisica, con il matrimonio divengono impegno - ha esordito il patriarca - è un evento che cambia la vita e sacramento particolare: il ministro della Comunione è il sacerdote, quello della Cresima è il vescovo; voi stessi siete i ministri del vostro matrimonio. Il sì che pronuncerete - ha continuato - dovrà essere un sì soprattutto verso voi stessi, facendo chiarezza nel vostro animo. Se pensate che il vostro matrimonio sarà felice per sempre, non sposatevi nemmeno. Ci sono momenti di gioia, ma anche di difficoltà ed incomprensioni; in quei momenti è necessario navigare a vista, giorno per giorno, senza pensare a grandi progetti». Il vostro sì dovrà essere libero e consapevole - ha continuato Moraglia - non fatelo per far piacere a qualcuno o perché in famiglia si usa così. Dio ci ha creato e ci vuole liberi. È anche necessario rispettare la libertà degli altri, ma questo non significa essere indifferenti. Sposatevi con la convinzione che il matrimonio in chiesa offre qualcosa di più». Poi, sono stati i fidanzati a raccontarsi. «Siamo di Mestre e ci sposeremo il 24 agosto - raccontano Luana ed Umberto - per chi vuole sposarsi in chiesa, questa benedizione del patriarca è molto importante, dal significato profondo. Per questo siamo venuti». Di Mestre anche Stefano e Linda , non più giovanissimi: «Mi ero già sposata in Comune - commenta Linda - questo è il secondo matrimonio e sono felice ora, nella mia maturità, di avvertirne la sacralità». LA NUOVA Pag 10 Il Patriarca ha incontrato i futuri sposi di Nadia De Lazzari La cerimonia alla basilica marciana «Il matrimonio va accolto come vocazione e missione. Voi che vi apprestate a dire “sì” la Chiesa vi accoglie con gioia e vi ringrazia». È il messaggio che il patriarca Francesco Moraglia ha affidato a un centinaio di coppie alla primavera della vita che, ieri alle 15, si sono incontrate nella Basilica marciana inondata di sole. Ai suoi futuri sposi il presule ha indicato strade e suggerito letture. All’atteso appuntamento, organizzato dall’ufficio diocesano per la pastorale degli sposi e della famiglia, erano presenti alcuni sacerdoti e il vicario episcopale don Danilo Barlese che è intervenuto illustrando i mosaici della Cupola della Creazione posta nel nartece di San Marco. Il patriarca Moraglia ha ascoltato con attenzione gli interrogativi posti da tre coppie su temi attuali quali le gioie e le difficoltà del matrimonio, la convivenza, l’essere mamma e papà. La prima domanda è stata posta da Debora e Daniele di Gambarare (Mira). Il presule ha risposto parlando a braccio. Sul

sacramento del matrimonio ha detto: «L’evento cambia la vita. L’affetto, la sensibilità, la simpatia, l’attrazione fisica diventano un impegno, un sì detto all’altro, alla comunità, a Dio che entra nella vostra vita». Tra i consigli pratici suggeriti dal Patriarca quello di “parlarsi in modo educato per non scavare solchi profondi e avere il coraggio di liberarsi di qualcosa”. «Iniziate un’avventura nuova, quindi i legami nei confronti della famiglia d’origine vanno rivisti pur con rispetto e gratitudine», ha raccomandato. Sulla convivenza ha precisato: «Non è bene, ma nessuno giudica nessuno. Chi entra “in ritardo” entra con energia, grazia, forza talvolta più degli altri». Nell’introdurre il tema genitori il presule ha evidenziato: «Vi auguro presto l’esperienza della maternità e della paternità. Non c’è cosa più importante della vita che darla». Senza indugiare il Patriarca ha parlato dei messaggi devastanti. «Non sono esempi positivi per i figli vedere il papà che va a lavorare in aereo, che torna in una villa bellissima dove abita una moglie bellissima». L’incontro si è concluso con un omaggio offerto dal Serra Club alle giovani coppie. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 12 marzo 2017 Pag VIII Il patriarca Moraglia incontra i fidanzati in basilica a San Marco Incontro-dialogo del patriarca Francesco Moraglia con i fidanzat oggi alle 15 nella basilica di San Marco. L'incontro è organizzato dall'Ufficio diocesano per la pastorale degli sposi e della famiglia. Dopo il saluto e il benvenuto iniziale ci sarà un momento di meditazione sui mosaici e, quindi, le domande dei fidanzati e dell'assemblea al Patriarca. Nella parte finale dell'incontro ci sarà poi la professione di fede e la benedizione dei fidanzati presenti secondo un'antica formula liturgica, risalente ai primi tempi della Chiesa, che sigilla ufficialmente la reciproca promessa e la decisione di sposarsi. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Quattro anni dopo. Il dono di un Papa “fallibile” di Gianni Valente Spunti e vie di fuga (in quattro puntate) per sfuggire alle trappole dei “bilanci provvisori” sul pontificato in corso d’opera «Quattro anni di Bergoglio basterebbero per cambiare le cose…». Così, all’inizio di marzo di quattro anni fa, un anonimo cardinale confidava a un suo amico giornalista le sue speranze per l’imminente conclave. Quando Papa Francesco si affacciò per la prima volta sulla moltitudine raccolta in piazza San Pietro, bastarono meno di dieci minuti per accorgersi che tante cose erano già cambiate. le prime parole da lui pronunciate come «vescovo di Roma», il pensiero rivolto al «vescovo emerito» Benedetto, le preghiere recitate insieme - il Pater, l’Ave e il Gloria, quelle più semplici e più usate dai poveri – e anche la richiesta al popolo di invocare sul nuovo cammino da fare insieme la benedizione di Dio: a tanti, bastarono quei pochi cenni per rincuorarsi. Per riconoscere che il Signore voleva ancora bene alla sua Chiesa, Ecclesiam Suam. Leggende sul «conclave pilotato» - L’elezione di Papa Bergoglio, per più di un aspetto, appartiene all’ordine del miracolo. Ostentano uno spietato disprezzo dell'intelligenza e della memoria altrui, i “cattivi maestri” che provano senza vergogna a avvelenare i pozzi con l’inganno del «conclave pilotato». Prima delle dimissioni di Benedetto e dell’arrivo a Roma dei cardinali per le congregazioni generali pre-conclave, Bergoglio era per quasi tutti i suoi colleghi solo un anziano arcivescovo in procinto di lasciare il governo della diocesi di Buenos Aires. Da tempo si preparava a ritirarsi nella residenza diocesana per i sacerdoti anziani, liberando armadi e distribuendo tra amici e conoscenti le sue cose. Da anni i giornali dell’ultra-destra cattolica argentina facevano macabre allusioni alla sua voce «sempre più fievole», che presto avrebbe taciuto per sempre. I tentativi di tessere soluzioni “preconfezionate” al conclave, accelerato dalla rinunzia di Papa Ratzinger, se c’erano, guardavano certo in altre direzioni. E c’era certo chi operava credendo di poter far scivolare conclave su un piano inclinato, verso una scelta “naturale” e “obbligata”. Nei giorni prima dell’extra omnes, uno stratega ruiniano aggiornava ogni sera i

vaticanisti su quanti voti “sicuri” si erano già raccolti intorno al candidato dato per vincente e tutti ricordano l'incidente del comunicato ufficiale pre-confezionato della Cei con l'intestazione sbagliata. Quella sera del marzo 2013 - Il disorientamento degli apparati, la sera del 13 marzo, fu dissimulato nelle frasi fatte e si ritrasse presto nell’ombra, per provare da lì a prendere le misure al “marziano”. Le fabbriche dei conformismi antibergoglisti e bergoglisti non erano ancora state attivate. Così, prima che si cristallizzassero le maschere e le definizioni, il Papa eletto sul crinale di un tempo finale disse nei primi passi del suo pontificato la cosa più importante: confessò alla Chiesa e al mondo che i miracoli non li fa lui, che lui era un poveretto, «un peccatore a cui Cristo ha guardato». Era, al massimo, come il dito che indica la luna. Uno coi suoi limiti, che non era andato a abitare nel Palazzo apostolico «per motivi psichiatrici». Uno che non voleva fare il Papa, perché «una persona che ha voglia di fare il Papa, non vuole bene a se stessa, e Dio non la benedice». Distese nelle pieghe del suo magistero, nelle immagini ripetitive dei suoi interventi, quello che aveva già suggerito nel breve intervento davanti ai cardinali, durante le congregazioni pre-conclave: che la Chiesa stessa, a partire dal Papa, non brilla di luce propria. Che la Chiesa rimane un corpo opaco e buio, con tutti i suoi apparati le sue prestazioni, le sue antichità gloriose e le sue scaltre modernità, se Cristo non la illumina con la sua luce. E che solo Cristo, perdonandola, può liberare/far uscire la Chiesa stessa dalla sua inerziale auto-referenzialità, dal ripiegamento su se stessa. Perché «se Dio non perdonasse tutto, il mondo non esisterebbe» (Angelus, 17 marzo 2013). Le cose di sempre - Nei primi mesi di pontificato, Le parole e i gesti più propri e più intimi del dinamismo della fede e della vita cristiana, riportate ai loro tratti minimali, (grazia, misericordia, peccato, perdono, carità, salvezza, predilezione per i poveri), irrigavano copiosi le giornate e gli interventi pubblici di Papa Bergoglio. Erano le cose e le parole di sempre, eppure per molti suonavano insolite. Dissipavano la cortina delle obiezioni, accendevano le domande di tanti. E Francesco, per farle arrivare a tanti, si affidò fin dal principio allo strumento più ordinario e consueto, da sempre utilizzato nella vicenda della Chiesa: le omelie del mattino, a Santa Marta. Spezzare ogni giorno il pane del Vangelo, e nutrirsene, insieme ai fratelli. Erano quelle che già allora certi “esperti” di politica ecclesiastica chiamano «le predichette». Per non creare ostacoli, per facilitare, per rendere più facile il possibile incontro di ognuno e di ognuna con Cristo. Il sensus fidei del popolo di Dio - Dopo tanto tempo, riapparve nell’orizzonte ecclesiale il popolo di Dio. Fragile e distratto, povero e mal curato, riconobbe subito la voce e l’odore del pastore. Riconobbe gli accenti sorprendenti e nello stesso tempo familiari, le fattezza di una promessa di umanità e felicità che accoglie ma allo stesso tempo sorprende, supera ogni attesa. Non i militanti delle sigle, gli attivisti della mobilitazione ecclesiale permanente, gli infervorati a tempo pieno delle “minoranze creative” e dei circoli culturali, ma i “dilettanti”, i battezzati “generici”, quelli che non hanno preparato il discorso. Quelli in cui si percepisce un bisogno quasi fisico di rimanere semplici. Perché essere e dirsi cristiani è già un miracolo, e non serve inventarsi altro. Loro avvertirono una consonanza istintiva con la Chiesa “elementare” proposta in maniera diretta da Bergoglio. La Chiesa di sempre, quella di Papa Benedetto e di tutti i Successori di Pietro. Non una Chiesa “nuova”, ma un nuovo inizio, sul cammino della fede degli apostoli. In una storia sempre punteggiata di ripartenze, affidata alle mani fragili di uomini e donne che annunciano il perdono e la misericordia di Dio, solo perché ne hanno fatto esperienza nella loro carne. La curiosità degli “altri” - Ma le parole e i gesti del nuovo vescovo di Roma accesero da subito di incuriosita e confidente simpatia anche tra le moltitudini che non conoscono o riconoscono più il nome di Cristo, nei tanti per cui il cristianesimo appare un passato che non li riguarda, e in quelli che hanno voltato le spalle alla Chiesa. Fu smascherato il falso dogma dei circoli ecclesiastici che negli ultimi anni quasi si compiacevano di apparire odiosi e insopportabili al mondo, spacciando quel disprezzo come una medaglia al merito, una attestazione della loro identità sbandierata senza sconti e “buonismi”, opportune et importune. Papa Francesco ricordò a tutti che il cristianesimo non funziona così. Che vince e avvince il mondo per delectatio, come diceva sant'Agostino; «per attrattiva», come anche lui ripete sempre, citando Papa Ratzinger. Che le moltitudini erano incuriosite e attirate non dalle invenzioni e dalle strategie dei preti ma da Cristo,

che già all’inizio passava nel mondo facendo il bene a tutti, ai peccatori e alle donne, ai malfattori e a quelli che non appartenevano al popolo eletto. L’interesse dei poteri del mondo - I gesti e le parole del Papa «preso quasi alla fine del mondo», e il respiro largo che essi sembravano ispirare nella Chiesa, furono avvertiti presto anche da quelli che hanno il potere. Il primo Papa americano prendeva congedo dalle linee di pensiero ecclesiastico che a partire dagli anni Ottanta, nel crollo delle ideologie secolarizzanti, avevano rilanciato le appartenenze religiose come fattori di identificazione politico-culturale, avevano puntato a riaffermare per via politica o geo-politica la centralità egemonica degli apparati religiosi nella vita collettiva. Nel contempo, la “conversione pastorale” da lui suggerita a tutta la Chiesa non era una ritirata in un mondo parallelo, il mondo “della Chiesa” separato dal mondo degli uomini. Mostrava tra i suoi tratti genetici anche la sollecitudine per l’intera famiglia umana, per i destini dei popoli e delle nazioni. Papa Francesco non era arrivato al soglio pontificio sulla base di un disegno geopolitico da implementare. Il suo Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, ha affermato che gli obiettivi della stessa diplomazia pontificia consistono nel «costruire ponti, promuovere il dialogo e il negoziato come mezzo di soluzione dei conflitti, diffondere la fraternità, lottare contro la povertà, edificare la pace. Non esistono altri “interessi” e “strategie” del Papa e dei suoi rappresentanti quando agiscono sulla scena internazionale». Un’attitudine al servizio del bene comune “globale”, senza interessi propri o “assi preferenziali” da tutelare, che spiega almeno in parte l'attenzione e l’apertura di credito accese dal papato di Bergoglio tra i soggetti geo-politici più disparati. Finora, in attesa che si disveli fino in fondo l’incognita dei rapporti con Donald Trump, l’attenzione dei leader globali e nazionali per i gesti e le parole del vescovo di Roma è apparsa costante e trasversale. Da Vladimir Putin a Barack Obama, da Angela Merkel alla Regina Elisabetta, da Benjamin Netanyahu al re del Bahrein Hamad bin Isa Al Khalifa, tutti sono voluti passare per il Palazzo apostolico o per Santa Marta, per ascoltare il Papa «preso quasi alla fine del mondo», e farsi ascoltare da lui. Il partito dei devoti - Oltre al popolo fedele, oltre alle moltitudini globali, distratte e affannate, oltre alle élite dei “decisori” e di chi ha il potere, fecero presto mente locale anche una parte delle élite ecclesial-mediatiche che negli ultimi lustri, mentre avanzava in tutto l’Occidente la deforestazione della memoria cristiana, avevano lucrato posizioni di potere anche ecclesiali sulla base dell’affiliazione alla linea ideologica muscolare-identitaria e “teo-con”, quella “vincente” quella del riscoperto “orgoglio cattolico”. I settori che avevano elaborato una chiave di lettura “organica” da applicare agli ultimi due pontificati, di taglio sostanzialmente politico-ideologico, tutta costruita sulle dicotomie conservatore-progressista, liberal-ortodosso. E nel tempo, avevano affinato strumenti e reti globali in grado di imporre i propri slogan come unità di misura dell’ortodossia cattolica, criteri di conformità rispetto alla Tradizione della Chiesa. In quei settori cominciò presto a crescere il nervosismo. E anche le operazioni mediatico-clericali confezionate e poi messe in circolo attraverso canali e agenti “fidelizzati”, secondo i tipici cliché delle lotte di potere che avevano inflitto le precedenti stagioni ecclesiali: «Lamentarsi e inveire è il loro forte. Essi brontolano, mugugnano, rimbrottano. Sono di cattivo umore e, quel che è peggio, nutrono rancore» (Charles Péguy). CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La “simpatia” evangelica di un Papa missionario di Andrea Riccardi I quattro anni Sono quattro anni dall’elezione di papa Francesco: la metà del pontificato di papa Ratzinger. Giovanni XXIII fu Papa per nemmeno cinque anni. Quello di Bergoglio è un pontificato segnato dalla «sorpresa» a partire dal nome di Francesco. Una enorme popolarità ha accompagnato questo «cristiano sul trono di Pietro», per usare l’espressione di Hannah Arendt su Giovanni XXIII. Fin dall’inizio, il Papa ha messo in primo piano il carattere attraente del cristianesimo con un linguaggio evangelico. Le battaglie per i «valori non negoziabili» sono state da lui accantonate. È convinto che affermarsi sul piano socio-politico non sia una vittoria per la Chiesa, che deve attrarre e non «combattere contro». In questo senso, il conclave del 2013, eleggendo Bergoglio, ha ribaltato il modello di cristianesimo minoritario, coeso, valoriale, espresso dalla Chiesa italiana e da altre Chiese. I cardinali si sono rivolti all’America Latina, il maggior

continente cattolico, dov’era maturata la visione della conferenza dei vescovi ad Aparecida. Questa, sotto l’influenza del cardinale e dei teologi di Buenos Aires (ma non solo loro), ha proposto una visione di cristianesimo di popolo, senza confini, sulla dimensione della città globale, non difensivo. Per Francesco, la Chiesa deve inaugurare una stagione di simpatia, nel senso profondo e evangelico del termine. Dal 2013, Bergoglio, da Papa, è «missionario», come intendeva esserlo da giovane e come lo interpreta in modo complesso il suo pensatore di riferimento, Michel de Certeau: comunica il Vangelo con un linguaggio vissuto, rifugge quello ecclesiastico, incontra persone e mondi altri, non si trincera verso la diversità e l’alterità, anzi ne è attratto. È sereno, più allegro di com’era a Buenos Aires, a suo agio nel «mestiere impossibile» di Papa, come lo definisce. Ha imposto all’attenzione, come mai nella Chiesa, i poveri e i fragili. I critici dicono che miete più consensi fuori dalla Chiesa che dentro. È un mito. Lo segue invece un popolo vasto di fedeli. Il suo pontificato scuote la Chiesa, ridandole vitalità, ma le critiche interne non mancano tra preti, vescovi, curiali. Anche perché esige cambiamenti. Ha creato un clima di maggiore libertà: così volano le critiche e il blog impazza, specie se tradizionalista. «L’obbedienza non è più una virtù» - scriveva don Milani in altri tempi -. È vero oggi soprattutto negli ambienti conservatori e tradizionali. Una delle contraddizioni evidenti di un cattolicesimo tradizionale, che dovrebbe essere papale, è che non ama o attacca il Papa. Così, tra i cattolicesimi dell’Est, quelli di Visegrad, esplodono perplessità, specie quando il Papa parla di famiglia o di migranti. In varie Chiese africane, il suo messaggio è filtrato da vescovi preoccupati che si perdano l’identità cattolica e il prestigio dell’autorità in un mondo assediato dai movimenti settari e dalla teologia della prosperità. Mai si sono viste tante opposizioni al Papa, nemmeno ai tempi di Paolo VI. Tuttavia la leadership papale è forte. Non si tratta di tracciare un bilancio. Certo, Francesco è un riferimento nel mondo internazionale. La cancelliera Mer-kel lo considera un grande leader. Tanti capi di governo lo visitano a Roma, dopo che la diplomazia ha trascurato il Vaticano prima di lui. L’Irlanda, dopo aver chiuso l’ambasciata in Vaticano nel 2011, l’ha riaperta con Francesco. In questo momento, il Papa è preoccupato per il clima di tensione internazionale. Non è un segreto come tema una guerra più vasta e come noti che il mondo vada accettando come normale l’idea di combattere, anche se per ora solo «a pezzi». Francesco non crede a un progetto riformatore da attuare nella Chiesa. Quello, limitato, dei cambiamenti della Curia fatica ad attuarsi. Il Papa governa con decisione ma, allo stesso tempo, è aperto ai suggerimenti. Il ruolo della Segreteria di Stato, vicina al Papa, ha ripreso vigore. Alcune procedure, come la nomina dei vescovi, vengono spesso aggirate dal Papa, perché non lo convincono per il carattere «di cordata» (come dice). Per la nomina del Vicario di Roma, ha promosso una vasta consultazione tra preti e laici. Pulsa in lui il senso di responsabilità personale del superiore gesuita, ma anche l’impegno (sempre gesuita) della consultazione. Non si tratta ancora di nuove istituzioni stabili. Francesco guida la Chiesa in una transizione delicata dentro la globalizzazione inoltrata, in cui vede prepotente il primato dell’economia e preoccupante l’involuzione del religioso nel culto della prosperità o dell’identità bellicosa. Non vuole il rifugio dietro i muri del sovranismo cattolico, che si presenta protettore di qualche nazione cristiana. Crede nella navigazione in mare aperto, convinto che le coscienze dei cristiani e la fede degli umili abbiano la bussola del futuro. Illuso o addirittura presuntuoso rispetto ai predecessori? Papa Bergoglio ricorda che venne a Roma quattro anni fa con il biglietto per tornare a Buenos Aires e la prospettiva della pensione. Non era il candidato della grande stampa. Lui fa capire che, se è stato scelto, un motivo «superiore» ci sarà stato. Così affronta il futuro pacificamente a ottant’anni, con un denso programma, tra cui viaggi in Egitto e in Colombia. Le sorprese non sono finite. Temute dagli uni e auspicate dagli altri. Pag 20 Il governo della Curia e le nomine inattese di Luigi Accattoli Francesco diffida della Curia e non ha formato una sua «squadra»: conduce un governo della Curia e della Chiesa tutto suo, non delega un reale potere a nessuno. Non ha un segretario personale che tenga la sua agenda, come l’avevano gli altri Papi. La novità forte che ha introdotto è il Consiglio dei cardinali che lo aiutano nel governo della Chiesa universale: è il primo Papa ad avere un tale strumento. Sono nove più un segretario e tre sono gli italiani: i cardinali Pietro Parolin (Segretario di Stato) e Giuseppe Bertello

(presidente del Governatorato), il vescovo Marcello Semeraro (segretario). Questi tre sono in prima fila tra chi lo aiuta. I curiali che erano già nell’organigramma al momento della sua elezione, e dei quali più si fida, sono i cardinali Joao Braz de Aviz, Dominique Mamberti, Peter Turkson, Gianfranco Ravasi, Francesco Coccopalmerio; gli arcivescovi Angelo Becciu, Pio Vito Pinto, Rino Fisichella, Vincenzo Paglia. Tra coloro che ha chiamato lui a incarichi di Curia vanno segnalati i cardinali Beniamino Stella e Lorenzo Baldisserri; l’arcivescovo Kevin J. Farrell. Due incarichi sensibili li ha affidati a sacerdoti milanesi: Dario Viganò (presidente della Segreteria per la comunicazione) e Pierangelo Sequeri (preside dell’Istituto di studi su matrimonio e famiglia). Il prete lodigiano Paolo Braida, sconosciuto all’opinione pubblica, è un capo ufficio della Segreteria di Stato di prima importanza: dirige la squadra che si occupa dei discorsi del Papa. Pag 20 “Mafiarsi” o “spuzzare”, ecco i nuovi bergoglismi di Valeria Della Valle Tra gli aspetti imprevedibili e nuovi del linguaggio usato dal Papa ci sono i numerosi neologismi. Il verbo più originale creato da Bergoglio è «giocattolizzare», con riferimento a chi si prende gioco, a chi ridicolizza una cosa seria e importante come la religione; altro caso notevole è il verbo «nostalgiare», cioè «rimpiangere, provare nostalgia», o «mafiarsi», cioè «comportarsi malissimo, come i mafiosi», e «schiaffare», cioè «trattare male, senza riguardo». Ma papa Francesco ha inventato anche aggettivi e sostantivi: da «memorioso», cioè «pieno di memoria», riferito alla preghiera, a «martalismo», per indicare l’eccesso di attivismo, l’atteggiamento di chi fa come Marta, la sorella di Lazzaro, che si dava tanto da fare ma finiva per perdere la cosa più importante, cioè le parole di Gesù. La parola che ha destato più critiche è «spuzzare», usata a Napoli in un discorso contro la corruzione: «La corruzione spuzza, la società corrotta spuzza e un cristiano che fa entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano, spuzza». Molti hanno commentato che si tratta di un errore. Invece questo verbo esiste: significa «mandare un odore cattivo, come quello che viene da qualcosa che è andato a male, che è corrotto», ed è usato non solo in Piemonte (la regione d’origine della famiglia Bergoglio), ma anche in vari dialetti settentrionali (nel milanese, nel ligure, nel veneziano). Le parole nuove inventate o riutilizzate dal Papa sono così numerose che gli studiosi hanno già dato loro un nome: bergoglismi. Pag 21 Misericordia e migranti, la Chiesa va in periferia di Marco Ventura Ha chiesto al pilota dell’elicottero di avvicinarsi alla Statua della Libertà, di ruotare attorno a Ellis Island, l’isola simbolo di migrazione e speranza. Si è poi presentato alla Casa Bianca come figlio di emigranti, e ha voluto che i poliziotti gli recassero la bambina messicana bloccata oltre il cordone di sicurezza. Nel bacio a quella bimba, nei gesti dei quattro anni di pontificato, c’è il Francesco pastore. Anzitutto colui che va in cerca delle sue pecore, che si sposta con esse; il Papa venuto d’oltreoceano per una Chiesa in cui i fedeli europei, 65% del totale mondiale cento anni fa, sono oggi ridotti a meno di un quarto. Francesco è poi il pastore che diffida di una dottrina cui tributare sacrifici umani: il pontefice per il quale la realtà è più importante della teoria, il tutto della parte, l’unità del conflitto. Ancora, Francesco è il pastore che odora di pecore, che sa di terra e di popolo, che dedica un’enciclica alla cura del pianeta, casa comune; che beve il mate e sa far festa. La misericordia pastorale dà forma alla Chiesa di Francesco. Chiesa non autoreferenziale ma in uscita verso le periferie materiali ed esistenziali; Chiesa sempre da riformare per fedeltà al Vangelo. Chiesa dei ponti e non dei muri, impegnata a collegare isole: incontrando il Patriarca di Mosca a Cuba e quello di Costantinopoli a Lesbo, sorvolando la memoria del viaggio verso la libertà a Ellis Island. Abbracciando i migranti di Lampedusa, primo viaggio di Francesco, quattro anni fa. Pag 21 Negozi, self-service. L’uomo dei gesti semplici di Lucetta Scaraffia Francesco è uomo di sostanza che però, in un mondo in cui si comunica con l’immagine, ha saputo far passare il suo messaggio attraverso immagini forti. Anche se la rivoluzione che ha impresso alla Chiesa con il suo Pontificato vuole essere soprattutto interiore, riesce a comunicarla con nuovi gesti, nuovo linguaggio, nuove abitudini. La croce

semplice di sempre, le scarpe nere usate da anni, la vecchia borsa portata personalmente nei viaggi si accompagnano infatti a gesti inconsueti per un Papa: vivere in mezzo agli altri in un albergo, mangiare con loro al self-service, mettere spesso da parte il discorso preparato e parlare con il cuore, rispondendo alle domande con semplicità. Il Giubileo della misericordia ha assunto tutto il suo significato quando è stato aperto nella povera cattedrale di Bangui, in uno dei Paesi più devastati del mondo. Non si era mai visto un pontefice uscire dal Vaticano per andarsi a comprare personalmente gli occhiali o le scarpe, tra lo stupore dei negozianti e dei presenti, e questo ne ha cambiato radicalmente l’immagine. Il Papa oggi non è più visto tanto come un simbolo istituzionale e di potere, depositario della legge divina, ma piuttosto uomo come noi, che ha solamente bisogno - e ancora più di noi - di preghiere. Come non si stanca di ricordare, fin dal primo momento. E il rovesciamento più importante sta proprio in questo: non promettere di pregare per gli altri dall’alto della sua carica, ma chiedere ai fedeli di aiutarlo nel sostenerla. LA NUOVA Pag 4 La rivoluzione di Francesco compie 4 anni di Mariaelena Finessi Il Papa ieri tra i ragazzi della periferia romana. Molte sue battaglie osteggiate dalla Chiesa Città del Vaticano. «Si paga per diventare Papa? Non si paga». «Di cosa ho paura? A me spaventa la malvagità. Quando una persona sceglie di essere cattiva mi spaventa perché può fare tanto male, in famiglia, sul posto di lavoro, anche in Vaticano quando c’è il chiacchieraggio». Bergoglio risponde così ai bambini della Borgata Ottavia, a Roma, incontrati ieri in occasione della sua 14esima visita alle parrocchie della capitale. Francesco si è lascia intervistare dai piccoli, curiosi di sapere come si fa ad essere eletti alla guida dei cattolici di tutto il mondo. La stessa domanda era stata posta al pontefice proprio di recente e sempre dai bambini che, con occhi colmi di meraviglia, scorgono nel Papa argentino un supereroe. Forse non molto diverso da quello dipinto sui muri di Borgo Pio, nel gennaio 2014, dall’artista di strada Maupal, al secolo Mauro Pallotta: Francesco nel gesto di Clark Kent, pugno destro al cielo e nell’altra mano una ventiquattrore con la scritta “valores” pronto a spiccare il volo. Subito rimosso, quel murales ha avuto però un enorme successo e soprattutto un seguito: a gennaio di quest’anno sempre Maupal ha raffigurato il Papa in versione graffitaro, in cima ad una scala, a dipingere sui muri mentre una Guardia Svizzera gli fa da palo. In fondo, Francesco è questo per la gente: un papa talmente simile all’uomo comune da essere speciale. Arrivando in Vaticano 4 anni fa, il 13 marzo 2013, si ebbe subito la sensazione di trovarsi dinanzi ad un Pontefice diverso: Francesco chiese alla folla dei fedeli radunati in piazza San Pietro di pregare per lui, invertendo così i ruoli in una Chiesa millenaria. Da lì in poi è stato un susseguirsi di gesti, prima ancora che di parole, rivoluzionari. Il Papa «venuto dalla fine del mondo» è il principale testimone di quella carità cristiana che si traduce negli aiuti ai poveri, nell’installazione di docce in Vaticano per i clochard della zona, in ambulatori medici su ruote che girano la Capitale per dare assistenza sanitaria a coloro che vivono sulla strada, in corridoi umanitari per i profughi siriani e persino in biglietti di ingresso gratuito al circo per gli anziani soli. Francesco - che prende l’autobus come un comune cittadino per andare a saldare il conto dell’albergo in cui ha alloggiato nei giorni precedenti il conclave - è però anche il Papa più osteggiato dalla sua stessa Chiesa, maldisposta a rinunciare a molti dei privilegi conquistati nel tempo. Il malumore dapprima strisciante si palesa al momento della pubblicazione, l’8 aprile del 2016 - nel pieno del Giubileo straordinario della Misericordia -, dell’esortazione apostolica “Amoris Laetitia”, in cui Francesco compendia alcuni precetti di pastorale familiare. A quelle pagine, in particolare, affida la sua apertura rispetto al tema, molto discusso, dei sacramenti ai divorziati risposati, rimuovendo di fatto nella prassi il vecchio divieto. Bergoglio suggerisce ai vescovi, in rapporto con i confessori, di decidere caso per caso attraverso il necessario «discernimento» nel segno, appunto, della misericordia. Un’innovazione che scatena reazioni durissime da parte dei prelati più conservatori tanto da arrivare ad un vero scontro aperto con quattro anziani cardinali (Burke, Caffarra, Brandmueller e Meisner) che a settembre scorso dapprima scrivono al Papa i loro “dubia” su quelli che ritengono suoi alla dottrina cattolica e poi lo minacciano di un atto

formale di “correzione”. Tra proteste vivaci e dissensi non velati, Francesco - che più di una volta ha confessato di non lasciarsi togliere il sonno dalle critiche - continua però nell’attuazione della sua idea di cattolicesimo e colleziona successi storici: l’incontro a Cuba col patriarca di Mosca Kirill e l’attuazione della riforma della giustizia e dello Ior per liberare la Chiesa dalla «sporcizia». Pag 4 Nomine, restano i nodi della Cei per Roma e Milano di p.s. Da qui a maggio potrebbero mutare molte cose nella Chiesa italiana. I cambiamenti interesseranno alcune diocesi che sono un vero snodo nell’azione pastorale di Francesco: Roma, Milano, ma anche i vertici della Conferenza Episcopale. Per la sua diocesi, quella appunto della Capitale, Bergoglio ha avviato una consultazione tra i parroci della città. L’attuale vicario, il cardinale Agostino Vallini, ha 77 anni e già da due anni ha raggiunto l’età del pensionamento. Tra un mese o poco più sapremo i risultati del sondaggio. Nei giorni scorsi, per quell’incarico, era circolato il nome di Rino Fisichella, già responsabile degli eventi religiosi del Giubileo della Misericordia ed ex cappellano di Montecitorio. Sotto Benedetto XVI, Fisichella era stato ridimensionato ma l’Anno Santo gli ha portato un ruolo operativo, e soprattutto la stima di Francesco. Sempre per Roma, potrebbe farcela l’attuale vescovo di Rieti, Domenico Pompili. Ha qualche chance anche Angelo Becciu, sostituto per gli Affari Interni della Segreteria di stato vaticana, uomo fondamentale per il buon funzionamento di quell’organismo e che il pontefice potrebbe quindi premiare inviandolo appunto al Laterano. Per Milano da mesi si fa il nome di Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del patriarcato di Gerusalemme. Ma Bergoglio guarderebbe con favore anche a Francesco Breschi, ora vescovo di Bergamo. Più complicata la partita per la presidenza della Conferenza Episcopale Italiana, la Cei. Le nuove regole dicono che l’assemblea di maggio deve proporre al pontefice una terna di nomi, dalla quale Francesco dovrà scegliere il successore del cardinale Bagnasco. Fino a poche settimane fa, i pronostici davano per favorito il vescovo di Perugia, il cardinale Gualtiero Bassetti. Da non sottovalutare nemmeno Bruno Forte, vescovo di Chieti-Vasto, tra i maggiori sostenitori durante l’ultimo Sinodo per la Famiglia di un’apertura ai divorziati risposati. In odore di promozione pure l’attuale segretario della Cei, Nunzio Galantino, anche se il suo essere diretto e poco curiale non piace a tutti i vescovi. L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 12 marzo 2017 Pag 4 Nuovo Adamo e nuova Eva di Valerio Gigliotti Maria nell’incontro tra Dio e l’uomo Cristianesimo è, per sua natura, teologia nella storia, insieme annuncio e proposta di salvezza. Ma è anche storia teologica dell’uomo: ne motiva le origini, ne spiega la condizione presente, interpreta i segni per la sua evoluzione a venire. Il mistero di Cristo precede la storia e, allo stesso tempo, ne illumina i metodi, le conquiste, i fini: il reale umano prende forma alla sua luce. Ma il binario che guida la storia è duplice, ed è inversamente percorso da Dio e dall’uomo: l’uomo distrugge, Dio riedifica, ma sulla stessa linea e con gli stessi mezzi. L’uomo pecca e genera morte - fisica, spirituale, sociale, culturale -, Dio salva e porta la vita. Come? Meglio: con Chi? E qui la risposta immediata della teologia cristiana è ovviamente la persona e il mistero di Cristo. Ma a ben leggere, la storia cristiana non può prescindere da un’altra complementare risposta, mediata alla luce dell’Incarnazione: Dio salva e porta la vita nella storia e per la storia per mezzo di una donna: Maria. Anche l’uomo introdusse il peccato e le morti per mezzo di una donna. Per tramite di Eva cade l’uomo, Adamo il Protoplasto; per tramite di Maria nasce l’Uomo, il Cristo Primogenito. Fu già dell’apologeta Giustino - II secolo dell’era cristiana - la sottolineatura ulteriore che coglie, si noti, non da Genesi, 3, ma dall’Annunciazione (Luca, 1, 26-38) per cui non solo la condizione di donna (guné) ma quella ulteriore di vergine (parthènos) accomuna l’antitesi figurale delle corresponsabili della storia teologica dell’umanità: Eva nella morte, Maria nella vita: «Si fece uomo dalla Vergine, affinché per quella stessa via per la quale - cagionata dal serpente - ebbe principio la disobbedienza, per la medesima via venisse similmente distrutta» (Dialogo, 100, Patrologia Graeca, 6, 709). L’intuizione di Giustino è ripresa in filigrana dallo stesso Ireneo di Lione che presenta Maria come nuova Eva: come Cristo ricapitola Adamo,

annullando con la grazia il peccato primigenio, così Maria ricapitola Eva, annullando con la sua obbedienza la di lei disobbedienza. Le due scene, Eden e Annunciazione, divengono luogo iconico antitetico dell’incontro delle due protagoniste della storia umana, unite nel progetto di salvezza ma non sul piano ontologico: come Cristo non è al livello di Adamo, così Maria non è sul piano di Eva: Adamo è infatti tipo di Cristo come Eva è figura di Maria. Tra esse la Natività di Betlemme, punto di congiunzione tra la storia e l’eternità. La curiosa narrazione dell’apocrifo vangelo dell’infanzia armeno (probabilmente di ispirazione nestoriana) presenta Eva, «la nostra prima madre» che si reca con Giuseppe alla mangiatoia, prende tra le braccia il Bambino e lo adora, per ritrovare nel parto verginale di Maria la propria redenzione: «Benedetto sia tu, o Signore, Dio dei nostri padri, Dio d’Israele, che oggi con questo avvenimento hai operato la redenzione dell’umanità e mi hai riabilitata, sollevandomi dalla mia caduta, e mi hai reintegrata nella mia antica dignità! Ora il mio animo si sente fiero ed esulta nella speranza di Dio salvatore». Quasi un Magnificat minor tutto umano. Ed ecco quindi resi più comprensibili gli effetti permanenti nella storia: quelli della disubbidienza di Eva che dureranno quanto la storia dell’uomo sulla terra, quelli dell’obbedienza di Maria dall’oggi all’eternità. Questa prospettiva di lettura iconica e figurale del ruolo di Maria ha solcato non solo la storia, talora incarnata nelle figure dei santi, ma anche le più alte opere dell’espressione umana: dalle arti figurative alla musica alla letteratura e oggi ci viene restituita in un’alta sintesi parenetica da un importante libro di Carlo Maria Ossola, Viaggio a Maria (Roma, Salerno Editrice, 2016, pagine 80, euro 7,90), non già saggio ma meditazione posta a chiave di volta tra la chiusura del giubileo della misericordia indetto lo scorso anno da Papa Francesco e il Sinodo dei giovani che si aprirà nel 2018, per una rilettura integrale della presenza dell’umano nella storia e nelle singole storie individuali. Così, se il mistero di Cristo precede e illumina la storia «il mistero di Maria cammina nella storia: il dibattito teologico - con i suoi corollari di eresie e di definizioni conciliari - dei primi secoli cristiani ha principalmente toccato la persona del Cristo, la natura della Trinità; la storia della Chiesa ne è stata profondamente segnata. La memoria di Maria si è lentamente sviluppata, dalla sua culla orientale e ortodossa, sino a divenire il centro della pietà popolare romana: la liturgia, il canto devoto, le invocazioni e i riti, e persino il teatro ne sono stati informati». L’universalità del messaggio e dell’exemplum storicamente sensibile, di Maria, è dato - il saggio lo sottolinea con acume - dalla sua ossimorica (ma non è forse cifra di tutto il cristianesimo?) maternità verginale: «Maria - negli Evangeli - è voce di tutti, abbraccia una comunità, un gruppo, una classe sociale; è madre, sin dall’inizio, dell’umanità e stende il suo manto, spesso stellato, a coprire (come nelle pitture medievali) il proprio popolo senza nome e la terra tutta». Come può dunque Maria (l’etimo stesso del nome, di origine ebraica, indica altezza, eccellenza) essere causa di salvezza, per sé e per tutti? La risposta che, attraverso il viaggio “a Maria” ma direi anche “in Maria” proposto da Ossola, ci viene fornita parrebbe essere: perché anche lei è una salvata da Cristo, anch’ella è figlia. La sua azione nella storia non raggiunge direttamente e immediatamente l’umanità e neppure se stessa, come tutti anche lei ha bisogno della salvezza e dipende in tutto da Cristo: per mezzo di Cristo, con adesione piena alla sua volontà, il suo agire raggiunge la terra tutta. E questa vocazione universalistica della figuralità mariana si riscontra bene - nota ancora Ossola - nella sobrietà con cui Maria parla nelle narrazioni degli evangeli: dal ritrovamento di Gesù al tempio quando, sulla strada del rientro, «Maria conservava dentro di sé tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (Luca, 2, 19), alla sublimità vertiginosa del Magnificat, alla sapienza misurata e premurosa del suggerimento offerto al Figlio alle nozze di Cana (Giovanni, 2, 1-12): «Non hanno più vino», in seguito colta e resa canto da Dante: «Più pensava Maria onde / fosser le nozze orrevoli e intere» (Purgatorio, XXII, 142-143). Ma a Cana, a voler ben leggere la raffinatissima e non casuale esegesi giovannea, Maria non è, come nel resto delle narrazioni evangeliche, appellata parthènos, vergine, bensì apostrofata dal Figlio guné: «Che vuoi da me, o donna?»: la vergine-figlia che diviene donna-sposa nell’istante stesso in cui il Figlio si manifesta nella sua divinità iniziando, con il primo miracolo, la vita pubblica. Questa dimensione di kénosis mariana, per così dire, presente già nei Padri della Chiesa, latini e orientali, viene diffusa nell’Occidente medievale da quella ricchissima Biblia pauperum che furono le laude e i sermoni (si pensi a quelli, preziosissimi, di Bernardino da Siena) i quali attingevano i grandi contenuti della fede dalle immagini della Scrittura, dei Padri,

dei vangeli apocrifi, della liturgia, accanto ovviamente ai cicli pittorici, scultorei e musivi. Dalle riprese del saluto angelico di san Francesco d’Assisi («Ti saluto, Signora santa, regina santissima, / Madre di Dio, Maria, sempre Vergine, / eletta dal santissimo Figlio diletto / e con lo Spirito Santo consacrata. / Tu in cui fu ed è ogni pienezza di grazia e ogni bene. / Ti saluto, suo palazzo, / Ti saluto, sua tenda, / Ti saluto, sua casa, / Ti saluto, suo vestimento / Ti saluto, sua ancella, / Ti saluto, sua Madre») alla sottolineatura della sua umanissima misericordia nella lauda anonima dei servi della Vergine («fontana de sapientia, donna de clementia») o di Guittone d’Arezzo («Madre del mio Signore e donna mia (...) / Chi se non tu misericordiosa?»). Sarà però la Commedia di Dante a rivelare il vero itinerarium ad Mariam: è l’unità spirituale dell’intero poema a riposare sull’ideale concreto della Vergine. Maria in realtà è presente fin dalla prima cantica sia pure mediatamente: è la «donna gentile» (Inferno, II, 93) che attraverso Lucia e Beatrice si fa carico di liberare il poeta dal suo smarrimento; la sua presenza, viva e plastica, attraverserà poi con efficacia tutte e sette le balze della montagna del Purgatorio, offrendosi come modello di vita e di riscatto alle anime che sono in procinto di purificarsi in preparazione alla visio Dei e divenendo così vero compendio dell’esemplarità di Maria lungo il pellegrinaggio di santità. Ma sarà ovviamente nella sublime Preghiera alla Vergine di san Bernardo, nella terza cantica, che il genio di Dante, «poeta-teologo, e filosofo, che non si contenta dell’allegoria dei poeti» sigillerà nell’eternità non la «sublime retorica del paradosso cristiano», come bene argomenta Ossola, ma una lettera che è vera: veramente divina e veramente umana: «ogni termine di “Vergine Madre, figlia del tuo figlio” è lettera di verità; non già paradosso, ma identità della formula al suo essere nell’ “è”». Rovesciando così «nell’ordine tutto “comico” del “fantolin” di cui narra il Paradiso» il «paradigma semantico dell’innologia» e ponendo in rilievo il «registro della maternità» Vergine madre, figlia del tuo figlio si rinnovella sul piano ermeneutico e storico diventando «lettera dell’icona». E l’immagine da innografica diventa iconica, come dimostra la lettura di Carlo Ossola, nell’ispirazione del lessema composto figlia del tuo figlio alla «stupenda tradizione bizantina che associa, spesso su pareti o archi affrontati, la doppia letterale verità degli apici estremi della vita del Figlio nella vergine e della Vergine nel Figlio: la nascita del Cristo in fasce, l’ascesa in cielo dell’animula in fasce della Vergine, oltre il mistero della dormitio Virginis». Così i mosaici absidali raffiguranti la Dormitio di Pietro Cavallini (1291 o 1296) a Santa Maria in Trastevere e quelli dell’Incoronazione di Maria di Iacopo Torriti in Santa Maria Maggiore, insieme alla gloriosa intronizzazione della Maestà di Duccio di Buoninsegna sull’altare maggiore del duomo di Siena possono sicuramente essere stati fonte per la resa poetica e teologica di una preghiera a Maria, inveratasi in versi e icona testuale del «Dante bizantino». La lettura della novità teologico-figurale della canzone dantesca fa scuola evidentemente tra XIV e XV secolo, dagli echi più evidenti di Antonio Beccari da Ferrara («Tu se’ de’ peccator fermo consiglio, / tu se’ benigna madre di mercede… / fontana viva di misericordia») alle riprese teologiche del Poliziano («Vergine santa, immaculata e degna, / Amor del vero Amore, / che partoristi il Re che nel ciel regna, / creando il Creatore / nel tuo talamo mondo») mediate dalla stilistica petrarchesca (Canzoniere, 366, «Vergine bella, che di sol vestita»). E ancora tra Quattrocento e Cinquecento saranno tre donne a farsi testimoni dell’eredità dantesca che la «lettera di verità» di Maria consegnava alla storia: Batista da Montefeltro, sposa di Galeazzo Malatesta, signore di Pesaro, divenuta poi suor Girolama, clarissa, nel 1447, nella lauda «Vergine madre immaculata sposa» rilegge figlia del tuo Figlio con una simmetria speculare: «Vergine, di pietà regina e matre, / mira quanta miseria in me consiste / che al dolce sposo tuo, figliuolo e patre, / a cui nulla potenza mai resiste, / offrir non posso se non cose triste, / se non supplisse con la sua larghezza». E ancora Vittoria Colonna, duchessa di Pescara, pone l’accento sul momento dell’Incarnazione per definire il rapporto di maternità/paternità tra Dio e Maria: «Immortal Deo, nascosto in uman velo / l’adorasti Signor, figlio ‘l nutristi, / l’amasti sposo ed onorasti padre….» e altrove, sempre con accenti bizantineggianti e danteschi, sulla gloriosa incoronazione «Veggio ‘l figliuol di Dio nudrirsi al seno / d’una Vergine Madre, ed ora insieme / risplender con la veste umana in cielo». E infine Domenica Gambara cantando l’Incarnazione del Verbo, esprime in rime dotte la fede nell’umanità mediatrice e corredentrice di Maria: «O gran misterio, e sol per fede inteso / Fatto è il bel corpo tuo tempio di Dio, / Vergine santa, e in quello umile e pio / è per

propria virtù dal ciel disceso». Così, sempre con lo sguardo rivolto all’umano, la Mater misericordiae ancora nella contemporaneità più prossima, proclamata nei dogmi dell’Immacolata Concezione (Papa Pio IX, nel 1854) e dell’Assunzione (Papa Pio XII, nel 1950) attraversa la storia, la fine di una certa forma storica dell’Ecclesia Dei e gli orrori disumanizzanti e annichilenti dei due conflitti mondiali, appare all’illetterata Bernadette a Lourdes per riconfermare la lettera di Verità tutta carne, teologia della storia. La stessa materna misericordia ricordata in chiusura del saggio di Ossola dall’evocazione del discorso pronunciato da Piero Calamandrei del 15 settembre 1944 in occasione della riapertura dell’ateneo fiorentino: il giurista accademico sceglie di richiamare la Madonna del parto di Duccio di Buoninsegna come simbolo di grazia e «meditazione sul destino di pena dell’uomo, nello svelare - nelle premure della misericorde - la coscienza vissuta della mater dolorosa». Maria: dall’eternità all’eternità, attraverso la storia, ci dice Ossola, mediante la maternità e la grazia: «come già nel poema dantesco, in lei finisce il nostro respiro, esala il nostro fiato, pulsa il nostro “qui”, si ritmano gli atomi di tempo e di misericordia». La consacrano tale gli inobliabili capitoli che la Lumen gentium dedica a Maria: «immagine e inizio della Chiesa che dovrà avere il suo compimento nell’età futura, così sulla terra brilla ora innanzi al suo peregrinante Popolo di Dio quale segno di sicura speranza e consolazione, fino a quando non verrà il giorno del Signore». Maria, la Vergine Madre, la Sposa Figlia del Figlio, responsabilmente inserita nel piano unitario di Dio che vuole il suo Verbo partecipe e redentore nella e della storia umana, costituisce icona e punto di congiuntura tra il decaduto e il redento, tra il presente e l’eterno: il viaggio di Dio a Maria per farsi uomo tra gli uomini. AVVENIRE di domenica 12 marzo 2017 Pag 10 Gli angeli nascosti a fianco dei dimenticati di Alessia Guerrieri Chiesa e volontari, in tutta Italia Arrivano, come angeli ogni notte, quando il caldo d’estate fiacca le gambe degli 'invisibili' ancor più se si vive in strada e, d’inverno, quando il gelo punge fino a spaccare la pelle del volto se si passa la notte raggomitolati sul ciglio di un portone. Gente qualunque che diventa voce amica e mani calde, per porgere coperte e minestre, come pure per offrire il tepore di un letto per la notte. Sono i volontari di associazioni, enti e parrocchie che stanno accanto ai migliaia di senzatetto che abitano le nostre città. Diventati, loro, invece visibili per i più soprattutto nelle settimane di dicembre e gennaio quando l’emergenza freddo ha spinto addirittura ad aprire chiese, stazioni ferroviarie e metro per aggiungere posti ai dormitori pubblici, delle Caritas e di altri enti caritativi. Come pure Papa Francesco ad intensificare le opere nei confronti dei clochard, mettendo a disposizione oltre ai sacchi a pelo anche delle macchine dell’Elemosineria Apostolica per poter dormire al riparo. In realtà, Bergoglio sin dall’inizio il suo pontificato ha compiuto gesti di attenzione verso i senzatetto con l’inaugurazione della barberia, delle docce e dell’ambulatorio medico sotto il colonnato di San Pietro gestite dall’Unitalsi e un nuovo dormitorio a pochi passi dal Vaticano. Anche aprendo durante il Giubileo una Porta Santa proprio all’interno dell’ostello della Caritas di via Marsala, invitando loro al circo, in visita alla Cappella Sistina, al cinema nell’aula Paolo VI o ad un concerto per farli distrarre qualche ora. Ma è la Chiesa tutta e le associazioni di volontariato che da nord a sud cercano di non lasciare soli i senza fissa dimora negli angoli più nascosti delle strade. A Roma, ad esempio, la rete Caritas ha in media 700 posti per i clochard a cui si aggiungono le diverse mense; la comunità di Sant’Egidio oltre a distribuire coperte e pasti caldi nella mensa di via Dandolo, a gennaio ha aperto anche la chiesa di San Callisto messa a disposizione della Santa Sede per accogliere con brandine e piumoni 30 barboni. L’Unitalsi ha potenziato la distribuzione di pasti caldi nelle periferie e cinque parrocchie hanno messo a disposizione i loro spazi, arrivando ad ospitare una sessantina di senza casa. A Milano e in Lombardia la macchina della solidarietà va a pieno regime con il progetto portato avanti tutto l’anno dalla Caritas ambrosiana La città dimenticata, che offre molti servizi ai senza dimora. A questo si aggiunge il progetto Arca con centri di accoglienza aperti h24 e unità di strada attivi 7 giorni su 7; le mense dell’Opera San Francesco aperte con orario prolungato, i dormitori del Comune e le strutture della Croce Rossa operative qui come nel resto d’Italia. A Varese è in funzione Casa San Carlo con una ventina di posti letto, come pure a Lecco Casa Vincenza per 25 emarginati.

Continuando il viaggio per i mille campanili italiani, si nota come si moltiplicano gli interventi in favore di chi dorme in strada. A La Spezia, così, i dormitori sono aperti tutta la notte e gli operatori Caritas effettuano uscite notturne per rispondere ai bisogni di chi non vuole andare nelle strutture d’accoglienza. A Trieste è attiva la rete del Progetto emergenza freddo; a Torino una ventina di parrocchie hanno accolto i senza dimora nelle notti più fredde di gennaio, per aumentare i posti dei dormitori Caritas e Sermig. Ancora, a Rimini sono operative squadre per distribuire coperte e pasti, a cui si sono aggiunti anche alcuni albergatori che nelle notti più fredde hanno spalancato le camere dei loro hotel ai clochard. A Genova la Caritas ha aumentato i posti letto nel suo dormitorio, mentre un parroco ha persino distribuito scaldamani e cuscini termici ai senzatetto. A Udine sono disponibili un centinaio di posti letto in due strutture Caritas e alcuni volontari si occupano di monitorare le situazioni più sensibili della città con le unità di strada notturne. A Modena, poi, tanto per fare altre esempi, l’associazione di volontariato Porta Aperta si occupa di sfamare i senza dimora, di curarli con un ambulatorio medico che effettua 1600 visite l’anno e di dargli un tetto nel dormitorio da 25 posti letto. Matera, Piacenza, Pescara, Napoli – dove la diocesi ha aumentato i posti nel centro La Tenda – Ancona, Campobasso, Firenze – dove la rete dei dormitori è aumentata fino a contenere quasi mille persone –, Puglia e Calabria. Impossibile citare tutte le gocce di solidarietà per chi non ha una casa nel nostro Paese, un’Italia che continua ad avere un cuore grande nei confronti degli emarginati. Fa meno rumore, forse, ma è una foresta di bene che cresce silenziosa. Pag 23 Turoldo, la voce ritrovata L’inedito Si intitola Le stelle in cammino (pagine 88, euro 8,50) la raccolta di inediti di padre Maria Turoldo con la quale Edb inaugura la collana “Le ispiere”, dedicata ai nuovi classici della spiritualità. Il libro raccoglie gli appunti per la predicazione dettati da Turoldo nei primi anni Sessanta a un giovane professo servita, Carlo Santunione. «I commenti esegetici li improvvisava lì per lì e io li trascrivevo sotto dettatura, emozionato e nel contempo estasiato», scrive oggi Santunione nell’introduzione a Le stelle in cammino. Mai pubblicate finora, le notazioni nascevano dalla consuetudine che si era stabilita fra Turoldo e Santunione, che per lui ricopiava a macchina la sceneggiatura del film Gli ultimi. Dal volume – accompagnato da una prefazione di Alessandro Zaccuri – anticipiamo la meditazione sulla carità datata 7 marzo 1964, nella quale, come in diversi altri brani, sono anticipati gli elementi cruciali del pontificato di Francesco, primo fra tutti l’appello per una Chiesa “in uscita”. La pubblicazione si inserisce nelle celebrazioni comprese tra il centenario della nascita di Turoldo (16 novembre 1916) e il venticinquesimo anniversario della morte (22 febbraio 1992). La virtù della carità s. Tommaso la definisce (nella questione 65 dell’art. quinto) in questo modo: carità non solo significa amore verso Dio, ma anche una certa amicizia verso «qualcuno»; in questo rapporto sussiste una «mutua» comunicazione. Con questa relazione nasce una società di individui che nella loro attività cercano l’armonia con Dio e con gli uomini. L’amore, come passione, non ha un carattere determinato; è pluriforme: nel superbo diventa esigente e tirannico, nel sensuale diventa bizzarro ed incostante, nell’egoista diventa materiale e volgare, nel geloso diventa cupo e sospettoso, nel sensibile diventa timido e delicato. Questo nel suo aspetto estrinseco ed intrinseco. Tutti abbiamo amato, amiamo ed ameremo; ciò avverrà affinché ci saranno sulla terra due esseri che cammineranno verso un unico ideale. Un giorno cercavamo il bacio della mamma, ora il sorriso di un confratello, domani forse… l’abbraccio col Signore magari nell’atteggiamento paterno come appare nella parabola del «figliol prodigo»; sì, con le braccia aperte ai figli della luce e… delle tenebre. [...] L’unica persona che poteva esistere senza associarsi a qualcuno, ha amato l’umanità; s’è lasciata crocifiggere e, ciò nonostante, ha continuato ad amare. Ora, perché non credere all’amore? Cerchiamo di accostarci a questo che è stato il primo amore e proviamo ad assorbire tensionalmente quel bene che ci perfeziona. Questi beni, guardati con una concezione

armonica del mondo, non li concepiamo su un piano orizzontale, ma l’uno si sovrappone all’altro con una perfetta gerarchia di valori, come nell’ordine dell’essere finito, così anche dell’amore. La grande realtà: Dio è in noi e noi siamo in Lui; di questa universale relazione ne segue uno sviluppo che viene a comprendere anche colui che è periferico a noi stessi: il prossimo. Sono tre direzioni di carattere tridimensionale: altezza, profondità, latitudine. La sintesi di esse è l’amore che esige coordinamento e conformità all’Amore, quello del « mandatum novum…» (Gv 13,34ss). Viene spontaneo rifugiarci in un cuore amico; l’incalzare dei nostri affetti, come una valanga, desiderano riversarsi in qualcosa d’altro che rispecchi un po’ il nostro modus vivendi, il nostro ideale. Per questo che l’amico fedele diventa una «forte protezione», una salutare medicina della vita e dell’immortalità (Eccl 6,14). Si trova allora una corrispondenza: non è egoistica, ma si tratta di due inclinazioni naturali che si incontrano (spesse volte senza calcolo umano) e che, dopo l’iniziale sondaggio della comprensione vicendevole, scavano in profondità, fino a capire il quid che li ha fatti incontrare, amare, e li ha fatti sentire «fratelli », amici. Come ho già detto, la sorgente dei due amori li porta a volere il bene comune; il bene è ciò che perfeziona; ora, avendo trovato un amico, ho trovato uno che mi arricchisce ed insieme ci sentiamo depositari di un autentico tesoro. Mi domando: chi è l’amico? Colui che sa assorbire la mia gioia, il mio dolore, sul quale potrò rovesciare la mia bisaccia, col quale potrò dividere l’ultima goccia della mia borraccia: un altro «me». Mi scaricherò volentieri in lui, mi aprirò… e gli parlerò con un linguaggio semplice e sereno, con la confidenza generosa dei nostri comuni sentimenti. La glacialità dell’odio e del rancore non devono sussistere, anche se a volte un desiderio implacabile di vendetta ci suggerirebbe un’azione che però è contraria al vero comandamento (Mt 22,39). Spesso viviamo nel deserto della vita e non riusciamo a dargli un palpito; ecco, l’amico che mi gravita intorno per dirmi una parola, per darmi da bere, per cercarmi un’ombra… E poi dicono che non c’è nessuno che ascolti il nostro lamento, che ci comprenda! Dunque, è accostandoci fraternamente che la Carità vive in noi: è questo il leitmotiv di tutta l’azione liturgico-missionaria della Chiesa. Purtroppo il nostro non è un «realismo » che viviamo giorno per giorno, ma un «idealismo» appena abbozzato: sì, vogliamo amare il fratello «in Cristo», ma solo col sentimento, con le parole; manca in noi il gesto vigoroso che sopprima questa illusione sensoriale. Ecco l’etica messianica: il cammino armonioso delle anime, dei popoli; niente colored, niente white, niente segregazionisti, niente sbarre, posti di blocco, cortine di ferro, barriere! Superiamo le ideologie personali, di carattere sentimentale, politico e religioso: amiamoci con coraggio attraverso Gesù con la nostra carne, con le nostre forze, con il nostro spirito; impariamo dal «Suo» stile! Perché fatichiamo ad amarci? Perché siamo degli egoisti. Non sappiamo seguire con sincronia la Sua azione nel modo che Lui ci ha insegnato: cingerci i fianchi con un grembiule e versare acqua in un catino e lavare i piedi agli altri viandanti. Dobbiamo scioglierci, non indurirci; vivere la dolcezza evangelica. Personalmente direi che la carità si sviluppa nell’entusiasmo, ma stando all’inno paolino essa si trova nella pazienza, ed allora: scusa tutto, crede tutto, spera tutto, sopporta tutto (1Cor 13). Perché (è questa l’ultima domanda) siamo tristi? Perché non abbiamo perdonato, non abbiamo amato: niente lacrime coccodrilline, ma il marchio cristiano fatto di bontà e di violenza; amore che sa perdonare anche all’adultera (Gv 8,10ss). Per questo dobbiamo uscire da noi stessi, eliminare i ripiegamenti per metterci in orbita intorno all’amico. Realizzeremo così l’ultima preghiera sacerdotale di Gesù: … che essi siano una cosa sola, o Padre, come noi siamo una cosa sola! Attueremo anche il detto dell’Apostolo delle Genti: l’unità dello Spirito nel vincolo della pace (Ef 4,3). Non viviamo come fratelli, ma «siamo» fratelli. Gesù, dacci del tuo amore, così potremo amare! Mi ridesto e nel tramonto di questa sera ascolto un canto lontano… nei secoli, incominciato all’alba della vita: Amate!

AVVENIRE di sabato 11 marzo 2017 Pag 19 Nuovo vicario, il Papa “consulta” la diocesi di Gianni Cardinale L’incontro con i parroci prefetti di Roma. Sarà possibile anche indicare un nome Roma. Papa Francesco ha concluso ieri mattina gli Esercizi spirituali ad Ariccia tenuti da padre Giulio Michelini e nel pomeriggio ha incontrato, privatamente, i parroci prefetti della diocesi di Roma. Una nota della vicedirettrice della Sala Stampa vaticana, Paloma Garcia Ovejero ha informato che il Pontefice è rientrato alle 11.30 in Vaticano dopo che in mattinata aveva celebrato nella Casa del Divin Maestro una Messa per la Siria e mandato 100mila euro ai poveri di Aleppo, grazie anche al contributo della Curia Romana. Nella stessa nota poi si è annunciato che alle 17 il Papa si sarebbe recato al Vicariato di Roma «per incontrare i parroci prefetti della diocesi». Un incontro, quest’ultimo, «assolutamente privato, che rientra nella normale prassi della vita della Chiesa». Prendendo la parola dopo la nona e ultima meditazione di padre Michelini sul tema de “La tomba vuota e la Risurrezione” secondo il Vangelo di Matteo, il Pontefice ha ringraziato il frate per essere «'normale' » e «preparato», augurandogli «soprattutto » di continuare ad «essere un buon frate». Come riferito dalla Radio Vaticana è stata la pagina finale di Matteo, quella della Risurrezione, al centro dell’ultima meditazione di padre Michelini. Una pagina che svela il mistero cristiano perché dopo il dolore e la Passione non c’è la fine, ma c’è un nuovo inizio. «La Risurrezione – ha spiegato il francescano – indica una novità reale del Cristo rispetto al Gesù storico, certo; il suo corpo è un corpo post-pasquale. Ma una novità che è anticipata nei segni storici del Gesù pre-pasquale. E dove voglio arrivare, con questo mio tentativo di risposta? Che quando sentiamo dire che è risorto, possiamo ripartire dall’uomo Gesù, da quello della Galilea, il cui messaggio è un messaggio di liberazione dell’uomo». Nella sua meditazione finale padre Michelini ha anche ricordato che le parole di Matteo mettono in chiaro anche un’altra dimensione della Resurrezione, il perdono. Gesù Risorto infatti vuole incontrare gli undici discepoli e li chiama 'fratelli', li ha perdonati per averlo abbandonato; e li incontra in Galilea, 'prostrati' ma allo stesso tempo 'dubbiosi'. Eppure Gesù si fa loro vicino, e la narrazione di Matteo si conclude con le parole: «Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo». È davvero questo, ha concluso quindi padre Michelini, il «modo di fare di Dio» la cui Parola è «capace di illuminare i nostri limiti e trasformarli in opportunità». Infatti «il Padre di Gesù Cristo si è avvicinato a noi attraverso la sua Parola e il suo Figlio che infatti nel Vangelo di Matteo è chiamato “Immanuel”, il Dio-con-noi». E «il Vangelo di Matteo finisce così: “Io sono con voi, Immanuel, fino alla fine dei tempi”. Si tratta della risorsa più grande che abbiamo, nonostante i nostri dubbi e la parte cattiva di noi e i nostri peccati». Come già detto dopo essere rientrato in Vaticano il Papa, ieri pomeriggio, si è recato in Laterano per incontrare i parroci che rappresentano le 36 prefetture in cui è divisa la diocesi di Roma. A tal riguardo nulla è stato aggiunto ufficialmente rispetto a quanto detto nella nota della vicedirettrice della Sala Stampa vaticana. Come è noto il Papa è il vescovo di Roma e, secondo le norme in vigore, governa la sua diocesi attraverso la figura del cardinal vicario, carica attualmente ricoperta da Agostino Vallini che compirà 77 anni il prossimo 17 aprile. Secondo quanto riferito dall’Ansa, il Pontefice per la scelta del successore ha chiesto il coinvolgimento di tutti «clero e popolo di Dio», innanzitutto «nella preghiera » e volendo anche - con una procedura inedita in questi termini - scrivendo una lettera al Vicariato indirizzata al Papa per indicare problemi ed esigenze della diocesi, per delineare un profilo dell’ecclesiastico da scegliere ed, eventualmente, indicare anche un nome. Le lettere sono attese in Vicariato entro il mercoledì santo, 12 aprile, mentre la nomina del nuovo vicario - che dovrebbe conservare la dignità cardinalizia - sembra prevista per giugno. Pag 19 A Michelini: grazie per essere normale Pubblichiamo il ringraziamento del Papa al predicatore padre Giulio Michelini al termine degli Esercizi spirituali per la Curia Romana svoltisi dal 5 al 10 marzo ad Ariccia.

Voglio ringraziarti per il bene che hai voluto farci e per il bene che ci hai fatto. Prima di tutto, per il tuo mostrarti come sei, naturale, senza “faccia da immaginetta”. Naturale. Senza artifici. Con tutto il bagaglio della tua vita: gli studi, le pubblicazioni, gli amici, i genitori, i giovani frati che tu devi custodire… Tutto, tutto. Grazie per essere “normale”. Poi, secondo, voglio ringraziarti per il lavoro che hai fatto, per come ti sei preparato. Questo significa responsabilità, prendere le cose sul serio. E grazie per tutto questo che ci hai dato. È vero: c’è una montagna di cose per meditare, ma sant’Ignazio dice che quando uno trova negli Esercizi una cosa che dà consolazione o desolazione, deve fermarsi lì e non andare avanti. Sicuramente ognuno di noi ne ha trovate una o due, tra tutto questo. E il resto non è spreco, rimane, servirà per un’altra volta. E forse le cose più importanti, più forti, a qualcuno non dicono niente, e forse una parolina, una [piccola] cosa dice di più… Come quell’aneddoto del grande predicatore spagnolo, che, dopo una grande predica ben preparata, gli si è avvicinato un uomo – grande peccatore pubblico – in lacrime, chiedendo la Confessione; si è confessato, una cateratta di peccati e lacrime, peccati e lacrime. Il confessore, stupito – perché conosceva la vita di quest’uomo – ha domandato: «Ma, mi dica, in quale momento Lei ha sentito che Dio Le toccava il cuore? Con quale parola?...» – «Quando lei ha detto: “Passiamo a un altro argomento” ». [ride, ridono] Alle volte, le parole più semplici sono quelle che ci aiutano, o quelle più complicate: a ognuno, il Signore dà la parola [giusta]. Ti ringrazio di questo e ti auguro di continuare a lavorare per la Chiesa, nella Chiesa, nell’esegesi, in tante cose che la Chiesa ti affida. Ma soprattutto, ti auguro di essere un buon frate. Francesco CORRIERE DELLA SERA di sabato 11 marzo 2017 Pag 27 Sacerdozio degli sposati, l’apertura del Papa. E per scegliere il vicario coinvolge tutti i fedeli di Luigi Accattoli Città del Vaticano. Le novità bergogliane non finiscono mai e così ne sono arrivate altre due: il preannuncio di una «riflessione» sull’ordinazione a preti di uomini sposati e l’annuncio di una consultazione per la scelta del nuovo vicario di Roma. Si tratta di due novità di segno riformatore, seppure non clamorose: sull’ordinazione di uomini sposati per comunità che non hanno sacerdoti celibi si riflette da tempo e il fatto nuovo è solo che ne parla il Papa, mentre la consultazione per la scelta del vicario - che non c’è mai stata - estende a Roma quanto già si fa, più o meno, in tutte le diocesi. La disponibilità a studiare l’ordinazione degli sposati Francesco l’ha detta in un’intervista al settimanale tedesco Die Zeit : «Dobbiamo riflettere se i “viri probati” (uomini maturi viventi nel matrimonio) siano una possibilità e dobbiamo anche stabilire quali compiti possano assumere, ad esempio in comunità isolate. La Chiesa deve riconoscere il momento giusto nel quale lo Spirito chiede qualcosa». «La crisi delle vocazioni sacerdotali rappresenta un problema enorme» - ha detto ancora il Papa al settimanale - e «la Chiesa dovrà risolverlo», ma «il celibato libero non è una soluzione», né lo è aprire le porte dei seminari a persone che non hanno un’autentica vocazione. «Il Signore ci ha detto: pregate. È questo che manca, la preghiera. E manca il lavoro con i giovani che cercano orientamento». Il tono delle parole bergogliane non è di entusiasmo per l’ordinazione degli sposati, ma piuttosto di disponibilità a far fronte a situazioni di bisogno. Già da cardinale Bergoglio si era detto contrario al superamento del celibato obbligatorio: «Per il momento - aveva detto nel libro a due con l’ebreo argentino Abraham Skorka - io sono a favore del mantenimento del celibato, perché sono dieci secoli di esperienze positive più che di errori. È una questione di disciplina e non di fede. Si può cambiare». Per intendere la «novità» della riflessione prospettata dal Papa occorre ricordare che l’ordinazione degli sposati c’è da sempre nelle Chiese cattoliche orientali e che Benedetto XVI l’ha accordata anche alle comunità anglicane che passano alla Chiesa Cattolica. Quanto alla mancanza di preti celibi, il caso più drammatico è il Brasile, dove in alcune zone i cattolici vedono un prete solo un paio di volte all’anno. La consultazione per la scelta del nuovo vicario di Roma non è un progetto da mettere allo studio, ma è già in atto, dopo l’annuncio dato da Francesco in un incontro a San Giovanni in Laterano con i «parroci prefetti», che sono una trentina: preti e laici della diocesi, a partire da oggi ed entro il 12 aprile, possono scrivere al Papa indicando

esigenze, profilo e nomi per quell’incarico. Il cardinale Agostino Vallini, l’attuale vicario, compirà tra un mese 77 anni e il Papa intende nominare il successore entro la primavera. LA REPUBBLICA di sabato 11 marzo 2017 Pag 18 Vicario di Roma, le primarie di Francesco di Paolo Rodari Città del Vaticano. Francesco spariglia le carte. E in barba a chi, anche in questi giorni, si è esercitato a ipotizzare i nomi del futuro vescovo vicario di Roma al posto del cardinale Agostino Vallini, non solo comunica di non aver ancora deciso in merito, ma insieme chiede a tutta la diocesi, clero e fedeli, di aiutarlo nella scelta. È quanto emerso dall' incontro a porte chiuse avvenuto ieri sera in Vicariato fra il Papa e i parroci prefetti della "sua" diocesi. La scelta del nuovo vicario è uno snodo decisivo per la Chiesa "in uscita" del pontificato in corso. E Bergoglio non vuole agire da solo: chiunque, preti e fedeli laici, potranno scrivere in Vicariato i propri "desiderata", finanche il profilo del nuovo vescovo, magari proponendo un proprio candidato. E poi, lui, il Papa, deciderà. A due mesi dalle consultazioni che daranno alla Chiesa italiana un nuovo presidente della Cei, Francesco con una decisione inedita chiede per Roma l'aiuto di tutti, vuole sentire la voce di più persone. Fino a oggi la prassi diceva che le consultazioni dovevano essere portate avanti soltanto con alcune figure ritenute significative: i rettori dei seminari, i responsabili del Vicariato, parroci in rappresentanza di altri, gruppi e movimenti ecclesiali. Da oggi, a Roma, tutto cambia: Bergoglio vuole un parare che nasca dal basso. Tutti hanno diritto di parola, anche chi di solito di fatto non ce l'ha. Le lettere dovranno pervenire in Vicariato entro il 12 aprile, segno che la decisione finale non dovrebbe tardare molto e arrivare probabilmente entro l'estate. In queste settimane sono stati fatti tanti nomi: dal presidente della Nuova Evangelizzazione Rino Fisichella al Sostituto della Segreteria di Stato Angelo Becciu, fino al vescovo vicario Angelo De Donatis. Ma le verità è che nessuno sa nulla. Francesco, da buon gesuita, deciderà da solo, ma soltanto dopo aver portato a termine questa ampia consultazione. Sinodale, così è la Chiesa frutto maturo del Concilio. E così è la Chiesa che vuole Francesco: una comunità che cammina insieme, nessuno escluso. IL FOGLIO di sabato 11 marzo 2017 Pag I Il Dio de la revoluciòn di Matteo Matzuzzi Il catechismo dirompente di Francesco segna una svolta nella dottrina della chiesa. Una semplificazione di successo che non risponde però al dramma della modernità Testo non disponibile Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE di sabato 11 marzo 2017 Pag 6 Il 2016 del lavoro si chiude con 293mila occupati in più di Luca Mazza Segni di un rallentamento nell’ultimo trimestre tra disoccupati in salita e tanti contratti precari Quasi 300mila occupati in più, un lieve calo del tasso di disoccupazione, una sensibile diminuzione della quota dei cosiddetti scoraggiati (specie tra le donne) e un ritorno prepotente dei contratti a termine a discapito di quelli a tempo indeterminato nell’ultima parte dell’anno in seguito al boom di assunzioni stabili dovuto soprattutto gli sgravi. Il bilancio 2016 del mercato del lavoro, in fin dei conti, presenta più luci che ombre. A fornire un quadro completo è l’Istat. La fotografia scattata dall’istituto nazionale di statistica certifica un aumento – per il terzo anno consecutivo – del numero di coloro che hanno un impiego, riportando la quota ai livelli del 2009: 22.758.000. Quindi, il ritorno allo status antecedente alla Grande Crisi ancora non c’è – anche perché comunque i danni causati dalla lunga spirale recessiva sono stati ingenti – ma almeno adesso si inizia a vedere il traguardo del totale recupero. Tanto che il premier Paolo Gentiloni

esterna soddisfazione: «Sono stati fatti passi avanti». Venendo a cifre e percentuali, l’anno scorso il tasso di occupazione è salito di 0,9% punti al 57,2%, con 293.000 occupati in più. L’aumento riguarda soltanto il lavoro alle dipendenze (1,9%, +323.000) ed è concentrato tra i dipendenti a tempo indeterminato (+281.000), ma con un significativo indebolimento del trend positivo nella seconda metà dell’anno. L’aumento degli occupati, dice l’Istat, coinvolge oltre agli over 50 anche i giovani tra i 15 e i 34 anni. In particolare, le statistiche del quarto trimestre destagionalizzate – diffuse anch’esse ieri insieme al consultivo 2016 – mostrano un incremento di 32.000 occupati tra ottobre e dicembre rispetto al trimestre precedente, dovuto al contributo del lavoro a termine (+22.000) e indipendente (+28.000), mentre diminuiscono gli occupati a tempo indeterminato (-17.000). Proprio la ripresa del precariato rappresenta il principale elemento di criticità sottolineato da alcuni addetti ai lavori, preoccupati dal fatto che d’ora in poi l’occupazione permanente non potrà contare sulla spinta fiscale garantita – con vari livelli d’intensità – nell’ultimo triennio. Passando alla percentuale dei disoccupati nell’anno si scende a 11,7 (due decimali in meno), ma relativamente all’ultimo trimestre si risale a 11,9. Quanto ai volumi, i disoccupati 2016 sono 3.012.000 (-21.000 in dodici mesi). Particolarmente significativa la riduzione degli inattivi: -410.000 unità (-2,9%). Nel periodo ottobre-dicembre, tuttavia, si vede che l’aumento dell’occupazione ha escluso i giovani: nel quarto trimestre l’Istat registra 68.000 occupati su base annua tra i 15 e i 34 anni, -111.000 tra 35 e 49 anni, mentre ci sono 431.000 occupati in più tra gli over 50. Sulla dinamica incide sicuramente la permanenza al lavoro dei più anziani, dovuta alla recente stretta sulle regole per l’accesso alla pensione. Fattore che spiega, inoltre, una partecipazione al mercato del lavoro al top dall’inizio delle serie storiche (2004) con il 64,9% delle persone tra i 15 e i 64 anni 'attive'. Restano marcate le differenze territoriali, con un tasso di occupazione del 65,9% al Nord (uomini al 73,6% e donne al 58,2%) e una quota complessiva nel Mezzogiorno del 43,4%. Il dato del Sud è tuttavia in miglioramento rispetto al 42,5% del 2015. Quanto al tasso di disoccupazione nelle regioni del Settentrione cala dall’8,1% al 7,6%, mentre in quelle meridionali sale lievemente dal 19,4% al 19,6%. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 12 marzo 2017 Pag I Sicurezza, ora Venezia non è più un’isola felice di Tiziano Graziottin C'è o no un problema sicurezza nelle notti veneziane? Va posta o meno la questione del presidio serale di calli e campi del centro storico? Per chi affronta il ragionamento osservando che la vera emergenza sicurezza è a Mestre ovviamente la risposta è no e quel che succede a Venezia è acqua fresca rispetto alla situazione vissuta dai residenti in terraferma. Ma, così come l'emergenza ordine pubblico nel tempo è stata certo non risolta ma almeno presa di petto nel territorio mestrino e di Marghera (i lettori più attenti ricorderanno però che all'epoca della Giunta Orsoni qualche assessore si inalberò di fronte alle nostre inchieste in proposito), ora l'escalation di fatti di criminalità soprattutto nell'area realtina e marciana impone un paio di riflessioni. La prima considerazione è che l'isola felice non c'è più: la città d'acqua che non conosceva episodi ascrivibili ad aspetti di scarsa sicurezza, dove si parlava per un mese di un fatto di cronaca nera e già la notizia di un furto correva veloce di bocca in bocca, ecco quella Venezia sembra in ritirata. E' un fatto che anche in centro storico nelle calli isolate e negli ormai troppi rioni in cui non si vede anima viva fin dalle prime ore della sera la sensazione di sicurezza assoluta si sta sgretolando. Ripetiamo, giusto per non essere fraintesi, che le dinamiche spesso violente di Mestre e hinterland sono altra storia, ma tornando alla domanda iniziale la questione si pone eccome a braccetto della seconda considerazione: un diverso presidio serale in laguna si rende necessario per ragioni che si allargano oltre la dimensione più strettamente legata all'ordine pubblico. Intendiamo dire che a Venezia di sera bisogna cominciare a vedere qualche divisa in più, non solo alla luce degli episodi di criminalità che descriviamo in questa pagina ma anche perchè c'è un bisogno più largo di presenza di vigili, agenti di pubblica sicurezza e soldati. La

città-monumento nottempo abbandonata a se stessa oggi si offre senza difese alle azioni dei writers, degli abusivi invadenti, dei maleducati che urlano e fanno i loro bisogni per strada, dei vandali che offendono le mille e mille bellezze disseminate in ogni angolo, dei turisti che si macchiano di comportamenti che mai terrebbero a casa loro. E i padroni maleducati di cani circolano impunemente senza che i regalini dei loro beneamati siano almeno episodicamente sanzionati: a Bari, per dirne una, il Comune manda in giro a pie' sospinto perfino una task force di vigili in borghese che pedina, fotografa e multa (300 euro in caso di mancata raccolta della deiezione). L'occhio attento di un rappresentante della legge in sostanza può (potrebbe) intercettare varie facce del degrado, a maggior ragione nella bella stagione alle porte. «Abbiamo ben altre priorità», ebbe a dire qualche anno fa il comandante dei vigili urbani Agostini. Ecco, forse il problema di Venezia è proprio questo: le priorità da affrontare sono sempre altre. Pag IV Sempre meno comunali, servizi a rischio di Elisio Trevisan In dieci anni nei comuni della Città metropolitana pensionati 1639 lavoratori. Calano gli stipendi Sempre meno dipendenti pubblici nei Comuni della Città metropolitana (oggi 5630), sempre meno pagati e sempre più vecchi. E tra i più anziani, entro i prossimi dieci anni ne andranno in pensione talmente tanti che molti servizi salteranno o, come minimo, verranno privatizzati. «Perciò, a maggior ragione, il sindaco Brugnaro avrebbe dovuto evitare di licenziare personale precario» afferma la Cgil Funzione Pubblica che si è studiata i dati della ragioneria generale dello Stato del Conto annuale della spesa per il personale nelle pubbliche amministrazioni. Per i Comuni, sul versante anagrafico, emerge un dato drammatico: nei prossimi 10 anni andranno in pensione, a regole vigenti, almeno 1639 lavoratori, ben il 30,16% di tutti gli addetti». I sindacalisti portano gli esempi più gravi, di Cavarzere in cui le cessazioni arriveranno al 54,55%, Fossalta di Piave al 50%, Pramaggiore al 57%, Torre di Mosto al 41,67%, e la stessa Venezia perderà il 32,51% della forza lavoro. E quel che è peggio è che, secondo la Cgil, solo un 25% potrà essere sostituito da nuove assunzioni. I Comuni della Città metropolitana, in definitiva, sono destinati a perdere 1639 dipendenti in dieci anni; solo dal 2013 al 2015 ne hanno persi 169, e i lavoratori rimasti si sono visti gli stipendi tagliati di 298 euro l'anno. In media, chiaramente, perché se si scende nel particolare a Venezia i comunali hanno perso 2440 euro l'anno, quindi 203 euro al mese, per effetto dello sforamento del Patto di Stabilità e delle decisioni conseguenti delle Giunte che si sono succedute: «Quindi perdita di potere d'acquisto e minore capacità di contribuire al rilancio della spesa privata per favorire la ripresa economica». Un calo delle retribuzioni che, secondo la Cgil, è in contrasto con le aziende private che, «seppur moderati, hanno visto aumenti contrattuali». Forse perché, in settori come turismo, grande distribuzione, molti servizi, la paga è talmente bassa che è difficile diminuirla. Contro il luogo comune secondo il quale le amministrazioni pubbliche sono state riempite all'inverosimile di dipendenti, la Cgil sostiene che, se non si riuscirà a modificare il decreto Madia in discussione nelle prossime settimane in Parlamento (per questo si appella ai comuni della Città metropolitana), i cittadini perderanno servizi pubblici, e la qualità di quelli che si salveranno peggiorerà. Perché verranno privatizzati e, anche se resteranno pubblici, perché ci sarà sempre meno personale a disposizione che avrà sempre più incombenze da assolvere e sarà mediamente più anziano: l'età media dal 2013 al 2015 è passata da 46,63 anni a 48,12. Inoltre dovrà lavorare di più dato che i numeri sugli straordinari vedono incrementi notevoli, «una voce importante che incide sulla retribuzione complessiva, e fa emergere la carenza di personale per far fronte ai servizi». LA NUOVA di domenica 12 marzo 2017 Pag 35 Scene bibliche dei maestri vetrai di Maria Giovanna Romanelli Tecnica artistica, bellezza e spiritualità in esposizione nella Chiesa degli Scalzi Coniugare tecnica artistica, bellezza e spiritualità è la sfida raccolta dai Padri Carmelitani Scalzi di Venezia grazie all’Associazione Murano Viva con il patrocinio del Comune di Venezia. “Murano Glass Easter - Scene bibliche dei Maestri vetrai” è il titolo dell’esposizione che è stata inaugurata sabato 11 presso la chiesa di Santa Maria di

Nazareth, adiacente alla ferrovia, grazie al generoso apporto dei maestri vetrai Dino Rosin, Paolo Crepax, Franco e Mauro Panizzi, Dario Frare, Matteo Seguso, Rossetto Deborah, Mario e Francesco Badioli e Mattia Nasta, Pietro, Andrea e Nicola Barbini, Marco e Michele e Giorgio Giuman, Lucia Santini, Lucio Bubacco e lo staff della Scuola Abate Zanetti. La mostra rimarrà aperta al pubblico fino al 5 giugno 2017 con entrata libera dalle ore 9.30 alle 17, permettendo la visione di opere realizzate attraverso tecniche tradizionali e innovative. Presenti, in una cappella, anche opere di maestri dell’arte vetraia ora scomparsi. Una forma originale di presentare un percorso catechetico dove i temi biblici posizionati in una sequenza ben precisa, propongono una riflessione sui contenuti teologici della Pasqua e della mistica teresiana. Per agevolare la lettura, ad ogni opera sarà abbinata una scheda informativa sull’artista e un versetto biblico. L’architettura barocca della Chiesa degli Scalzi è ricca di marmi pregiati che sono soggetti ad un grave e continuo deterioramento sia nella facciata che sui pavimenti. Gli organizzatori della mostra hanno perciò deciso di destinare le offerte libere per il restauro in corso. La chiesa di Santa Maria di Nazareth, o chiesa degli Scalzi, eve la sua origine all'insediamento dei Carmelitani scalzi nella città lagunare. Fu edificata da Baldassarre Longhena in un'unica navata, con due cappelle laterali, venne consacrata nel 1705, ma subì un importante restauro fra il 1853 e il 1862 da parte del governo austriaco. Al suo interno l'11 febbraio 1723 venne tumulato Ferdinando II Gonzaga, quinto e ultimo principe di Castiglione. Oggi è monumento nazionale. Al suo interno marmi colorati e sfarzosi corinzi danno una sensazione di opulenza e di meraviglia al visitatore. CORRIERE DEL VENETO di domenica 12 marzo 2017 Pag 11 Isole tra sogni e fallimenti di Alberto Zorzi Venezia. L’ultima ad essere passata di mano è Carbonera, per la cui storia non basterebbe un romanzo. Basti pensare che nel 2011 l’asta bandita per un debito fu poi revocata perché si scoprì che il presunto proprietario in realtà non lo era. O che un imprenditore livornese era stato accusato (poi assolto) di aver tentato di venderla senza titolo. I rumors veneziani dicono che sarebbe stata comprata da un inglese. Ci sono poi le grandi isole-albergo finalmente ripartite dopo anni travagliati: San Clemente, ora di proprietà dei turchi di Permak e gestita dal marchio del lusso Kempinski, dopo la crisi di Thi e la gestione St. Regis; o Sacca Sessola, che da un paio d’anni è gestita da Marriott, dopo che è stato terminato il maxi-hotel da 260 stanze rimasto incompiuto per un decennio per il crac della Cit. Ma non è tutto rose e fiori per chi cerca l’affare d’oro con le isole della laguna e questo lo sanno bene anche i vertici di Difesa Servizi, che giovedì scorso a Milano, presenti tre ministri e il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, hanno lanciato l’«asta» sulla caserma Miraglia sull’isola delle Vignole (foto piccola) . L’obiettivo è un investitore che la prenda in concessione per mezzo secolo, facendone un resort con darsena. Anche perché lo Stato ha già in portafoglio altre isole: il faro Spignon e Poveglia (l’asta vinta da Brugnaro nel 2014 fu revocata, anche sotto la spinta dei comitati, ritenendo troppo basso il prezzo di 513 mila euro) con l’Agenzia del Demanio, Sant’Angelo e San Giacomo in Paludo con la Cassa depositi e prestiti. Sul fronte dei privati, da anni è in vendita Crevan, ora trattata da agenzie internazionali con sede in centro storico come Sotheby e Engels&Volkers (costo di circa 9 milioni) o siti stranieri come il tedesco Vladi, specializzato in isola: è della famiglia di Giorgio Panto, che proprio lì vicino morì in un incidente aereo nel 2006, e in attesa di venderla è affittata su AirBnb a 1786 euro a notte. Su diversi siti internet è in vendita anche l’ottagono degli Alberoni per 8 milioni. Sono invece fermi due progetti ambiziosi che risalgono ormai a qualche anno fa: quello della società Poveglia Srl a Santo Spirito (70 appartamenti legati al settore della nautica) e quello della famiglia Marinese all’isola di Tessera, ceduta dai fratelli Poletti nell’ambito di una serie di crediti. «Aspettiamo momenti migliori per il real estate », spiega Adriana Marinese, che voleva fare un resort di lusso. Vede forse la luce l’isola della Grazia, comprata da Giovanna Stefanel nel lontano 2007, ma invischiata per un decennio in una serie di contenziosi con l’Usl 12 (l’ultimo era su chi dovesse pagare le spese di rimozione dei rifiuti) e la Soprintendenza. Si è invece aperta al pubblico l’isola di Santa Cristina, dove Renè Deutsch (che fa parte della grande famiglia allargata Swarovski) e la moglie Sandra hanno creato un luogo destinato alla meditazione e allo

yoga. «C’è un po’ di movimento, sia con fini ricettivi, ovviamente, che agricoli», dice Luca Segalin, presidente di Confedilizia, colui che intermediò l’acquisto da parte di Arrigo Cipriani di Sant’Antonio di Torcello, dove il patron dell’Harry’s Bar coltiva i carciofi. «Il sindaco Brugnaro sta giustamente promuovendo questo tipo di recupero delle isole, che è un po’ quello che voleva fare lui a Poveglia - continua - Servono strumenti urbanistici e incentivi, anche Ue, perché l’alternativa è il degrado. I comitati? Quello che è successo a Poveglia è sotto gli occhi di tutti. Loro sono spariti e il degrado è rimasto». IL GAZZETTINO di sabato 11 marzo 2017 Pag XII Fedeli “autoconvocati” per la Marcia della Pace di Alvise Sperandio Associazioni e movimenti mobilitati il 18 marzo nonostante il passo indietro da parte della diocesi La diocesi ha cancellato la Marcia della pace proprio nell'anno in cui la Giornata mondiale per la pace è stata celebrata per la cinquantesima volta con il tradizionale messaggio al mondo del Papa? Bene, le associazioni e i movimenti, d'ispirazione cristiana e laiche si va addirittura dal Consiglio delle chiese cristiane all'Unione atei agnostici razionalisti hanno deciso di fare da sé e stanno organizzando una grande manifestazione pensata dal basso in programma per sabato 18 marzo. «Un giorno scelto non a caso, perché a ridosso del 21 in cui ricorre sia la Giornata in memoria delle vittime della mafia che il Capodanno del popolo curdo spiega uno dei promotori Così metteremo a fuoco il cancro della corruzione che tutto logora e uno dei conflitti più devastanti ad opera dei poteri». L'evento si chiamerà In marcia per la pace e sta mettendo assieme una cinquantina di realtà socialmente impegnate tra cui compaiono gli scout dell'Agesci, le Acli, Emergency, Amnesty International, l'Anpi, la Cgil, la Legacoop, l'Ecoistituto, Libera, La Fondazione Casa dell'ospitalità, la Comunità bengalese, ma anche i Comuni di Noale, Spinea, Salzano e Mirano. L'iniziativa si articolerà in due momenti. Dalle 16.30 alle 18.30 ci saranno le botteghe della non violenza, una ventina di luoghi d'incontro con laboratori, testimonianze e attività di vario genere in diversi posti del centro, già individuati: in piazza Ferretto; in corte Marin Sanudo; in Duomo; al Laurentianum; all'Officina del gusto in via Sarpi; nella sede del gruppo di lavoro di via Piave; al centro Cittàperta di via Col Moschin; al centro civico di via Sernaglia; alla Cgil di via Ca' Marcello; al teatro Kolbe; alla Mag di via Tasso; nel negozio di commercio equo solidale El Fontego all'incrocio tra via Aleardi e via Paruta; nelle chiese dei Cappuccini e di San Girolamo; alla cooperativa Gea tra via Miranese e via Verdi; alla Casa dell'ospitalità di via Santa Maria dei Battuti; e nella sede degli Amici delle arti in via Spalti. Alle 19, da tutti questi luoghi tutti i partecipanti convergeranno in piazzale Candiani dove è previsto l'intervento del vescovo ausiliare di Sarajevo Pero Sudar e del presidente nazionale del Movimento Nonviolento Mao Valpiana (non potrà esserci per altri impegni, invece, il patriarca Francesco Moraglia). Per chi lo vorrà, seguirà un momento di preghiera ecumenica a San Girolamo con il gruppo di Taizè e il Consiglio delle chiese. In questi giorni gli organizzatori, coordinati da Bernardino Mason, stanno predisponendo gli ultimi dettagli, tra cui il logo che avrà il simbolo della colomba e il proposito di far adottare ad ogni gruppo diretto al Candiani un colore diverso per poi comporre tutti assieme la bandiera della pace. Pag XXVIII In squadra per salvare il patrimonio artistico di Daniela Ghio Beni culturali, un tavolo di lavoro di ricercatori universitari e istituzioni Un tavolo di lavoro di ricercatori universitari e istituzioni per salvaguardare l'immenso patrimonio culturale di Venezia e la città stessa, con l'uso di tecnologie innovative, da sviluppare, testare e mettere all'opera su palazzi e opere d'arte. È il primo risultato del workshop La promozione della ricerca scientifica per i Beni culturali a Venezia che si è svolto all'Auditorium Campus Scientifico di Ca' Foscari a Mestre. Presenti, oltre ai gruppi di ricerca cafoscarini, molte istituzioni veneziane, tra cui Museo Ebraico, Fondazione Musei Civici di Venezia, Soprintendenze, segretariato regionale del Ministero dei beni e della attività culturali e del turismo per il Veneto, Curia patriarcale, Fondazione Cini, Fondazione Ligabue, Fondazione Querini Stampalia, Peggy Guggenheim Collection, Archivio di Stato, Ateneo Veneto. «È la prima volta che tutte le istituzioni preposte alla

conservazione del patrimonio pubblico veneziano e Ca' Foscari si sono incontrate condividendo esigenze - ha affermato Elisabetta Zendri, professoressa di Chimica del restauro e organizzatrice dell'incontro - La ricerca sui beni culturali è tra le priorità del piano nazionale delle ricerche: un ambito di ricerca che può avere grande impatto per la società, ma che ha bisogno di finanziamenti adeguati e che deve mettere in rete tutte le competenze, scientifiche e umanistiche. Ora questo sarà possibile grazie alla collaborazione con le istituzioni mediante progetti che salvaguardino e valorizzino il patrimonio veneziano. Insieme sarà più facile accedere ai fondi europei e faremo cantieri aperti al pubblico». Primo risultato: entro l'anno il Campus Scientifico di Ca' Foscari sarà dotato di una camera climatica per studiare gli impatti dei cambiamenti sui materiali dei beni culturali e sugli ecosistemi. Il laboratorio, dal costo di circa 60mila euro, sarà realizzato anche grazie a un contributo di 10mila euro da parte del Rotary Club Venezia Mestre. Il fisico Franco Gonella, ha anche annunciato lo studio in corso sul vetro, in collaborazione con l'associazione di giovani vetrai InMurano per la colorazione del vetro in sostituzione di arsenico e cadmio (giallo, marrone e rosso), metalli altamente inquinanti. Elisabetta Barisoni, responsabile di Ca' Pesaro, ha sottolineato l'importanza dell'università per l'individuazione degli interventi da eseguire nel museo, magari con l'aiuto di privati, e ha annunciato l'arrivo del primo bonus art di 100mila euro per il restauro della scala Meduna, donato da Chanel. Ugualmente don Gianmatteo Caputo ha ribadito l'importanza di una stretta collaborazione con Ca' Foscari per il monitoraggio conservativo del vasto patrimonio della Curia di Venezia, puntando a mantenere le opere nel luogo dove sono nate. Pag XXIX Chiesa degli Scalzi: la Pasqua vista dai maestri vetrai, opere bibliche in mostra di M.Lamb. La Pasqua vista dai maestri vetrai di Murano. Sarà inaugurata stasera alle 18, nella chiesa degli Scalzi di Venezia, la mostra Murano glass easter. Dopo il successo dei presepi di Natale in vetro, l'associazione Murano Viva, con il patrocinio del Comune organizza una mostra di prestigiose opere in vetro a tema biblico visitabile dalle 9.30 alle 17 fino al 5 giugno. Esporranno Dino Rosin, Paolo Crepax, Franco e Mauro Panizzi, Dario Frare, Matteo Seguso, Rossetto Deborah, Mario e Francesco Badioli e Mattia Nasta, Pietro, Andrea e Nicola Barbini, Marco e Michele e Giorgio Giuman, Lucia Santini, Lucio Bubacco e lo staff della scuola Abate Zanetti. Le opere, una quindicina, ritrarranno delle scene bibliche e saranno realizzate attraverso tecniche tradizionali e innovative, tutte personalizzate in modo originale. Oltre ai cenni sull'artista, ognuna sarà accompagnata dal riferimento a un versetto sacro e seguirà un ordine ben preciso: ci saranno riferimenti ad Adamo ed Eva nel giardino dell'Eden, all'albero della conoscenza, all'ariete nei rovi, a Mosè che apre il mar Rosso, alla colomba, a Cristo, all'ultima cena, alla crocifissione, al sacro volto, alla passione, al cuore della misericordia, allo Spirito Santo, al rosario. Per l'occasione, l'associazione ha voluto omaggiare e ricordare i maestri vetrai scomparsi che hanno segnato la storia del vetro di Murano, con una selezione di opere esposte in una delle cappelle della chiesa, una per ciascuna tipologia di lavorazione. Le offerte che saranno raccolte saranno devolute al restauro della chiesa. LA NUOVA di sabato 11 marzo 2017 Pag 22 Rimossa la pala del Tintoretto, sarà restaurata da Save Venice Chiesa di San Marziale Venezia. La monumentale pala d’altare di Jacopo Tintoretto raffigurante “San Marziale in gloria e Santi Pietro e Paolo” (1549) è stata staccata in questi giorni dall’omonima chiesa di Cannaregio per portarla nei laboratori di restauro, dove per i prossimi 12 mesi sarà sottoposta a un delicato intervento di ripulitura e sistemazione. L’intervento è finanziato da Save Venice, il comitato straniero più attivo in città. Prosegue in particolare l’intervento sulla chiesa di San Sebastiano - il tempio dedicato alla grande pittura di Paolo Veronese - che ha di fatto “adottato”, con il restauro sistematico dei suoi dipinti. Tra gli ultimi restauri quello che riguarda l'organo della chiesa e i dipinti con cui il grande artista rinascimentale lo decorò. Un’impresa quasi ciclopica quella del comitato a San Sebastiano, ma che si sta avvicinando ormai alla sua conclusione. Due vere da pozzo

saranno restaurate presto sempre da Save Venice, quella di Corte seconda del Milion (a Cannaregio) e di Corte Perina (a Castello). Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO di domenica 12 marzo 2017 Pag 6 Suicida dopo il rimprovero di papà di Luca Marin e Federica Cappellato Il genitore disperato: “L’ho sgridato perché usava troppo il telefonino”. Poi Daniele si è impiccato. Lo psichiatra De Leo: “La solitudine nell’uso eccessivo di internet” «C'è stato un banale litigio, Daniele non aveva fatto i compiti e continuava a giocare con il cellulare. Una normale sfuriata, nulla più. Niente che facesse pensare a una tragedia». Papà Lino ha la testa bassa, parla con un filo di voce, lo sguardo disperato di chi non può dare un perché alla morte del proprio figlio di quindici anni. Daniele venerdì sera si è impiccato a un albero, in un terreno di proprietà della famiglia, a poche decine di metri da casa. È stata mamma Michela, che insieme ai famigliari lo stava cercando, a trovarlo ormai senza vita, appeso a un ramo, con la corda che passava sotto il mento. Inutile l'arrivo dei soccorsi. Daniele non respirava più. Lino Sottana è davanti alla sua casa di via Bardugo, un'abitazione spersa nella campagna tra Fossalta di Trebaseleghe e Cappelletta di Noale, nell'Alta Padovana. Poche anime, si conoscono tutti. Il dramma si è consumato in un paio d'ore, un tempo breve ma sufficiente per far precipitare nel buio un'intera famiglia e un intero paese. «Venerdì sono tornato a casa dal lavoro alle sette di sera - ricorda tra le lacrime il papà -. Io e Daniele abbiamo litigato, e lui è uscito di casa. Quando non lo abbiamo visto rientrare, ci siamo preoccupati e siamo andati a cercarlo. Verso le nove mia moglie lo ha trovato: era appeso a un albero in un campo che costeggia la linea ferroviaria». Non c'è più orizzonte negli occhi di Lino Sottana. Solo incredulità, senso di impotenza, sgomento davanti a un dolore insopportabile. «Non riusciamo a capire quello che è successo, in famiglia non c'era nessun problema. Con gli adolescenti è sempre più difficile comunicare, forse lo abbiamo stressato un po' con la scuola ma nulla di particolare. Forse si è arrabbiato più del solito, ma neppure questo basta a spiegare. Non c'entra nulla il bullismo, non c'è nessun episodio strano. Daniele non ha lasciato biglietti, il suo diario e il suo cellulare ora sono al vaglio dei carabinieri». Nella casa di via Bardugo arrivano uno dopo l'altro parenti e conoscenti per stringersi alla famiglia. Il quindicenne frequentava la prima dell'Itis Meccatronica all'istituto Newton di Camposampiero, era portiere nella squadra dei giovanissimi dell'Ambrosiana di Trebaseleghe e tifava per la Juventus. Una vita normale in una famiglia normale. Il papà è un uomo molto stimato, titolare di un'officina meccanica in paese, mamma Michela lavora come infermiera all'ospedale di Camposampiero, la sorella più grande frequenta anche lei l'istituto Newton, indirizzo liceo scientifico. «Io e mia moglie Michela non abbiamo mai alzato le mani su Daniele. Era un ragazzo allegro, sportivo, amante del calcio. Non riusciamo a capire cosa possa essergli passato per la testa. È vero, usava spesso il cellulare ma solo per giocare. Ogni tanto controllavo personalmente le sue chat e i messaggi, era sempre tutto nella normalità». Un intero paese sgomento per la tragica e incomprensibile notizia del suicidio del quindicenne studente di Trebaseleghe che si è tolto la vita senza lasciare alcuna spiegazione ai famigliari e agli amici. Gli insegnanti e i compagni di classe di Daniele Sottana, che frequentava il primo anno dell'indirizzo di Meccattronica al Newton di Camposampiero, ieri erano sconvolti. «I docenti non si sanno dare pace - ha detto la dirigente scolastica dell'istituto, Mariella Pesce - Daniele era un ragazzo tranquillo, andava bene a scuola e giovedì, al ritorno in pullman, scherzava e rideva con i compagni di classe. I suoi amici non riescono a comprendere il motivo del gesto estremo. Daniele non aveva mai avuto nessun screzio con i professori o con qualche compagno. Come scuola, abbiamo deciso di iniziare un percorso con i compagni di classe per aiutarli a superare questo tragico momento». Anche all'Ambrosiana Trebaseleghe, ambiente calcistico che Daniele frequentava dall'età di cinque anni, c'è il più totale sconforto. «Era il nostro portiere nella squadra dei giovanissimi classe 2002 - lo ha ricordato Giovanni

Mariani, responsabile del settore giovanile della società - Non ha mai dato problemi. A volte era un po' introverso, non era esplosivo come altri ragazzi, ma riflessivo. Non abbiamo mai notato niente di anomalo o strano. Siamo distrutti». La società di calcio di Trebaseleghe ha deciso di annullare tutte le gare delle squadre del settore giovanile di ieri e oggi. «Il suicidio è sempre una catastrofe, particolarmente choccante quanto capita a un individuo che non si è ancora confrontato con la profondità dell'esistere. E' sempre una sconfitta per la società, è la peggior tragedia umana che possa capitare tanto più che non si limita all'individuo, ma si espande ai sopravvissuti. Alla fine, quello di cui tutti noi abbiamo veramente bisogno è saper chiedere aiuto, riuscendo a comunicare le nostre incertezze, le nostre paure e vulnerabilità, e ottenendolo questo aiuto nei modi più efficienti e produttivi». Lo psichiatra Diego De Leo è uno dei massimi esperti internazionali in ricerca e formazione nella prevenzione dei suicidi. «I giovani che si tolgono la vita evocano sempre profondissima disperazione, le onde di choc purtroppo si ripercuotono su chi rimane: i genitori - riflette il prof. De Leo - rimangono a chiedersi esterrefatti perché è accaduto, dove ho sbagliato, quali segni ho mancato di interpretare, cosa avrei potuto fare, domande che si aggiungono al dolore per la perdita della persona fisica. Il suicidio è più di un lutto, si accompagna anche a vergogna, senso di colpa, paura di poter trasmettere il togliersi la vita come fosse un virus, sensazioni che rendono ancora più penoso il sopravvivere». E in epoca digitale la commistione tra reale e virtuale può lenire la solitudine. «Le relazioni via internet e smartphone sono in generale da considerarsi un'opportunità in più rispetto a un tempo, ma è facile rimanervi invischiati, maturare una dipendenza che può risultare dannosa per il tempo sottratto ad altre attività, come la scuola e lo sport. E possono interagire - sottolinea Diego De Leo - anche con quelli che sono le relazioni con gli altri se sono rapporti intessuti in modo anonimo o superficiale. Insomma, io posso avere mille contatti social ma neanche uno vero, fatto di pelle, odori, sapori, quella fisicità che preserva la dimensione umana ed è foriera di stabilità. E i pericoli con un uso particolarmente intenso di internet spesso crescono specie per le persone che stanno maturando, che sono ancora inesperte di vita. Di qui, le emozioni possono risultare estreme, conducendo a catastrofi irreversibili». CORRIERE DEL VENETO di domenica 12 marzo 2017 Pag 1 Un mondo più largo e amortale di Vittorio Filippi Il Veneto che verrà Guardando al futuro con occhio divertito, il Veneto che verrà (tra non molto, a dire il vero) sarà senz’altro più largo, molto più largo. Inoltre sarà un Veneto amortale, anche se non proprio immortale. Infine sarà un Veneto con sempre meno stranieri, alla faccia della sgradita percezione dell’«invasione» in corso. Innanzitutto molto più largo non perché si amplino i confini (come magari spera nel sogno della Serenissima qualche indipendentista), ma semplicemente perché saremo in meno. Saremo più larghi perché staremo più larghi. Anzi, lo stiamo già divenendo: secondo gli ultimi dati dell’Istat nel 2016 il Veneto ha perso quasi 10 mila abitanti. E’ già il secondo anno che lo spopolamento, in modo lento e dolce, desertifica la demografia regionale, dopo una crescita ininterrotta che correva dal 1960. Il motivo è semplice e sta nel numero ormai asfittico delle nascite: con nemmeno 1,4 figli per donna ed una età media al parto che ormai raggiunge i 32 anni, la natalità assomiglia ad una fiammella sempre più esile e debole. La realtà è che il numero di figli oggi è sotto di un buon terzo al numero che servirebbe per mantenere in equilibrio la popolazione. La vitalità sembra aver proprio cambiato campo, passando ad un mondo anziano sempre più numeroso, longevo e perfino giovanile. Dove le stesse parole anziano o – peggio ancora – vecchio sono ormai poco appropriate e per nulla gentili. Meglio parlare di amortali, come indica il fatto che nel 2016 la mortalità si è contratta nonostante l’invecchiamento della popolazione, segno di una longevità di massa che trascina all’insù la vita media. La speranza di vita tocca gli 81 anni per gli uomini e sfiora gli 86 per le donne mentre i centenari sono in Veneto circa 1.600, un numero che raddoppia ogni nove anni. Infine gli stranieri. Sempre meno. Perché il Veneto è divenuto meno appetibile per i migranti ed anzi qualcuno ha già fatto le valige. Ma soprattutto perché sempre più stranieri sono divenuti

ex-stranieri acquisendo la cittadinanza italiana. Segno di processi migratori entrati ormai nella fase della maturità con le seconde generazioni che troviamo nelle nostre scuole. La cura anti-age che gli immigrati fanno alla invecchiata società locale è evidente: un quarto di loro è fatto di trentenni, il 15% ha meno di dieci anni, gli anziani stranieri sono appena il 3%, più di un bambino su cinque nasce da madri straniere. Ma tutto ciò non riesce ad impedire l’invecchiamento, lo spopolamento e gli squilibri generazionali: con tutto ciò che ne consegue. Vendetta di una demografia da sempre trascurata. IL GAZZETTINO di sabato 11 marzo 2017 Pag 12 Turismo, Veneto primo in Italia di Alda Vanzan Ne 2016 oltre 65 milioni di presenze, 2 in più rispetto al 2015 2016, un anno record per il turismo in Veneto. Quasi 18 i milioni di visitatori arrivati e registrati, cioè quelli che hanno pernottato in alberghi o in strutture dove, giusto per capirsi, si paga la tassa di soggiorno. Il che significa che quei 18 milioni di pernottanti possono essere stati molti di più, stante un sommerso fatto di case e camere affittate abusivamente. Se poi si va a vedere le presenze, cioè il numero di notti trascorse in Veneto, si arriva all'altro record di 65 milioni. Due milioni in più rispetto al 2015. Un turismo che muove 12 miliardi di euro, pari all'8% del Pil regionale. Quanto ai turisti mordi e fuggi, quelli che arrivano e partono in giornata - ma questa è una stima - si sfiorano i 14 milioni. PRIMI IN ITALIA - I dati, presentati ieri a Palazzo Balbi dall'assessore regionale al Turismo Federico Caner, dicono anche che il Veneto - ma qui il dato è riferito al 2015 perché le altre regioni non hanno ancora i numeri ufficiali del 2016 - con 63 milioni di presenze, è sempre primo in Italia, seguito da Trentino Alto Adige (46), Toscana (44), Lombardia (38). «Un successo costruito negli anni», dice Caner indicando la curva della crescita dal 2000 al 2016, con la striscia rossa degli stranieri che quasi raddoppia il numero degli arrivi (da 7 a 12 milioni). L'unico dato negativo è quello delle presenze degli italiani: dai 23 milioni del 2000 si è scesi a 21,4, comunque con un leggero aumento sul 2015. «È l'effetto della crisi interna - commenta l'assessore - ma anche di un nuovo modo di intendere le vacanze: meno giorni, meno mare, più città d'arte». QUARTI IN EUROPA - A livello globale il turismo muove 1,3 miliardi di persone che per il 51% se ne vanno a vedere l'Europa. Della quota europea di tutti questi arrivi internazionali (quindi italiani esclusi), il nostro Paese si prende il 16% (55 milioni) e della quota italiana il Veneto ha il 20% (11 milioni). «A livello europeo - dice Caner - siamo quarti per arrivi dopo Ile de France, Catalogna, Andalusia». Le prospettive sono di crescita, si parla di 2 miliardi di visitatori in tutto il mondo nel 2030. Il che significa che bisogna investire e pianificare. BOOM SCALIGERO - In Veneto sono in crescita tutti i territori, dal +0,1% di Rovigo al +8% di Belluno, anche se i record li hanno registrati Verona con 4,4 milioni di arrivi (la metà di Venezia), Padova, Treviso. Sono in crescita tutti i comprensori turistici e in particolare il lago (+7,2%) e la montagna (+12,4% di arrivi stranieri) mentre una flessione l'ha registrata il mare e soprattutto da parte degli italiani: «Non è un crollo, siamo sulla stessa linea dell'anno scorso, influiscono fattore meteorologici e, come detto, la crisi interna. Ma questo dato - dice Caner - deve anche far riflettere gli imprenditori turistici a diversificare l'offerta, a non limitarsi a spiaggia, mare, ombrellone». Un'opportunità arriva dai bandi Por-Fesr, 30 milioni di euro per l'innovazione dei prodotti e delle strutture ricettive. TEDESCHI UBER ALLES - Da dove vengono i nostri turisti stranieri? Per la maggior parte sempre dalla Germania che nel 2016 segna il record di 15 milioni di presenze (+4,9%). Da registrare il crollo dei cinesi (0,8 milioni, -22,5%), ma una motivazione c'è: il picco del 2015 era stato motivato dall'Expo. Nella classifica dei primi undici non figurano i russi, anche se rispetto al 2015 sono aumentati dell'1,7%: «Hanno una pesante crisi interna, ma noi non li molliamo e continuiamo - unici in Italia con la Puglia - a investire sulla promozione. Perché quando si riaprirà il mercato, i turisti russi li vogliamo qui». CORRIERE DEL VENETO di sabato 11 marzo 2017 Pag 9 Spoladore, l’ex prete che ora fa il santone. Foto vietate e sentinelle e c’è chi paga 12mila euro di Nicola Zanetti

In 500 a Treviso. Il guru, la Chiesa e i corsi Quinto di Treviso. «La vostra vita può cambiare, vostra suocera no». Risata generale. Altro giro, altra battuta. «Gli uomini hanno una resistenza mostruosa, possono sopportare persino Renzi». Il copione si ripete, uno showman sa come spezzare la monotonia. Camicia fuori dai pantaloni, capelli e barba lunghi, microfono auricolare e costante movimento in mezzo ai presenti. Un cocktail fra un guru e Beppe Grillo, con spruzzate di Natalino Balasso quando è il caso di sbracare in dialetto veneto. Ma gli sketch sono piccole pause, prima di modulare voce e sguardo per lanciare i messaggi più intensi. «Non si può colpire un no, si può solo sostituire con un sì. Il no vi scorre nelle vene come sterco e vi avvelena la vita, bisogna dire: adesso si riparte, cazzo». Grida se c’è da gridare, sussurra per farsi profondo. Ed i presenti, tanti, restano ipnotizzati. Come quando Paolo Spoladore aveva la tonaca e registrava omelie da tutto esaurito. Metti una sera a Quinto, nella cornice del centro congressi BHR, sala da 500 posti riempita senza problemi per la presentazione dei Corsi «PPS», Pneumopsicosoma», conoscere l’orientamento dei pensieri per modificarlo, dice la brochure. Traduzione: un mix di psicologia, autostima e spiritualità ai confini con la medicina alternativa. Evento imperdibile, perché il gran maestro di cerimonie è un personaggio difficile da avvicinare per la stampa, nonostante sia seguito da un esercito infinito di simpatizzanti. Oggi il 57enne si presenta come «esperto ricercatore e tecnico del sistema percettivo», ma fino al 2015 era ancora un sacerdote. «Lo sono stato per trent’anni, fin tanto che me l’hanno fatto fare», sibila lui. Ma già cinque anni prima a lasciare la guida della parrocchia di San Lazzaro a Padova. Passando il testimone nientemeno che a don Andrea Contin, il prete delle orge indagato per violenza privata e sfruttamento della prostituzione, recentemente sospeso «a divinis». I riflettori erano toccati, eccome, anche al suo predecessore. «Don Rock» come lo chiamarono i giornali, «Donpa» per i parrocchiani. Scriveva canzoni di successo per la Chiesa, sfornava libri, ammaliava per la vitalità. Finché una donna lo indicò come il padre del proprio figlio. Scandalo e polemiche, prima della sentenza del Tribunale del minori che certificò la paternità, mentre la Curia ribolliva pure a causa della scoperta del suo fiorente business parallelo, i corsi di formazione interiore. Una miniera d’oro per Usiogape, la società che gestisce gli interessi di Spoladore (come si legge nel box a fianco). È l’unica cosa rimasta intatta del passato. Perché la tonaca non c’è più da quando la Chiesa lo ha mollato, riducendolo allo stato laicale due anni fa, ma gli affari restano: quindici fra corsi e laboratori, una piramide a quattro livelli con spese da 120 a 2.400 euro. Chi fa il percorso completo sborsa 12 mila euro. Eppure vi partecipano sempre in centinaia, mi racconta una compagna occasionale della serata di presentazione. Iscrizione gratuita, d’altronde questo è solo un antipasto. Un team di collaboratori all’ingresso prepara il terreno all’arrivo del protagonista, al quale i riflettori danno evidentemente ancora l’orticaria. «Prima di cominciare, vi avvertiamo che sono vietate foto e video, grazie» dice uno della squadra sorridendo ai presenti, singoli e coppie, anziani e giovani, per lo più neofiti, nonostante non manchino i veterani dei corsi. «Sta funzionando?», chiedo ad un distinto signore di mezza età. «Mi sento bene, vediamo come va. Certo, se costasse meno…». Poi il proscenio è tutto per l’ex «Don Rock»: spunta dal fondo della sala e attacca. «Non siamo qui a vendervi pentole, ma un sistema per cambiare la vostra vita». Il concetto è chiaro: gli shock dell’esistenza provocano tensioni e stress che si ripercuotono sul corpo con malattie e disturbi. E allora: «Bisogna capire cosa c’è dietro al trauma, non intervenire sul segnale ma sulla causa, sui blocchi. Accettare i colpi e ripristinare la fiducia». Così, si fa intendere, il dottore può non essere sempre necessario. Ma Spoladore sa farsi prudente. «Non è un’alternativa, bensì un modo per integrare le soluzioni». D’altronde, al suo fianco per confermare tutto, c’è proprio un medico: il collaboratore di sempre Lorenzo Migliorini, già nel 2010 sotto la lente di ingrandimento dell’Ordine dei Medici, che aprì un’istruttoria su di lui proprio per le partecipazioni ai corsi. Dopo quasi due ore, è tempo dei saluti. È stato un assaggio, la vera strada per cambiare la vita resta racchiusa in quei corsi, titoli come «Forza della risonanza», «Guarire il dialogo interiore» o «Pneumomeditazione». Si parte con 300 euro, e mentre i presenti chiedono informazioni su orari e luogo, Spoladore è già uscito di scena senza farsi avvicinare. Uno showman sa fare anche questo.

Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Coalizioni, la grande illusione di Angelo Panebianco I conti proporzionali Grande coalizione o grande confusione? Le prossime elezioni, quasi certamente, non ci daranno stabilità di governo. A causa della riesumazione della legge elettorale proporzionale. La classe politico-parlamentare, perle convenienze personali (di tutti) e i calcoli sbagliati (di alcuni), sta per consegnarci a un futuro di ingovernabilità. Le convenienze personali sono chiare. Conviene a tutti la proporzionale. Conviene ai singoli parlamentari che sanno di avere più probabilità di rielezione. E conviene ai partiti: con la proporzionale è difficile che un partito (anche piccolo) possa essere spazzato via. Si resta in gioco comunque, con buone probabilità di influenzare la formazione del prossimo governo o, nel peggiore dei casi, di avere voce in capitolo nella futura attività parlamentare. Con la proporzionale, infatti, grazie alle divisioni sempre presenti nelle coalizioni di governo, anche chi resta all’opposizione dispone, per lo più, di un potere di ricatto e di influenza. Fin qui le convenienze. Poi ci sono i calcoli. Quando si varano nuovi sistemi elettorali alcuni attori immaginano scenari futuri in funzione dei quali scelgono l’uno o l’altro sistema. Per lo più, tali scenari non si realizzano. Tra tutte le idee balzane che circolano sul dopo elezioni, la più balzana di tutte è quella che immagina la formazione di una «grande coalizione» (sic) fra Forza Italia e Partito democratico (più cespugli vari) imposta dalla forza dei numeri, dal fatto che potrebbe essere l’unica combinazione di governo in grado di fermare i Cinque Stelle. In sostanza, secondo questo brillante ragionamento, Partito democratico e Forza Italia dovrebbero fare più o meno come i «ladri di Pisa», nemici di giorno e complici di notte. Botte da orbi in campagna elettorale, e poi un accordo di governo a elezioni avvenute imposto dalla necessità. Il tutto favorito dal fatto che con la proporzionale si torna all’epoca in cui le coalizioni di governo si formano dopo il voto, mai prima. L’idea è assurda per tre ragioni. Per formare una «grande coalizione» occorre, prima di tutto, che i partiti coinvolti rappresentino, insieme, almeno il settanta o l’ottanta per cento del Parlamento. Tenuto conto della frammentazione in atto, l’ipotizzata grande coalizione, nella più rosea delle ipotesi, non potrebbe superare di molto la soglia del cinquanta per cento. La seconda ragione è che una grande coalizione può durare solo se i partiti che le danno vita sono organizzazioni solide, coese e con un forte insediamento sociale. Ciò è necessario perché i leader possano imporre ai propri seguaci un’alleanza di governo «innaturale» che, inevitabilmente, diffonde malumori e risentimenti fra militanti ed elettori. Occorrono partiti forti (come la Cdu e la Spd tedesche) o, in subordine, un assetto costituzionale (il semi-presidenzialismo francese) che costringa a tali innaturali connubi. In mancanza di queste condizioni la grande coalizione non può funzionare. I partiti italiani, tutti, sono troppo deboli e internamente divisi, e i loro legami con gli elettori sono troppo fragili, perché siano in grado di impegnarsi nell’impresa. Anche il partito un tempo più forte, il Pd, è oggi debole. Per inciso, ridefinendo, al Lingotto, la struttura della leadership (ticket con Martina), Renzi punta a recuperare parte della forza perduta. Si vedrà poi se il tentativo avrà successo. La terza ragione è che la stessa possibilità che si formi tale grande coalizione diventa un atout propagandistico formidabile nella campagna elettorale delle forze contrarie. Farebbero un fuoco di sbarramento tale da provocare la sconfitta dei ladri di Pisa. La proporzionale (contro il calcolo sbagliato di Berlusconi e di altri) potrebbe favorire proprio i Cinque Stelle. I quali, giustamente, cominciano a preoccuparsi delle future alleanze di governo. La storia è imprevedibile ma, al momento, fra le varie combinazioni del dopo elezioni - governo di sinistra a guida Pd, governo di centrodestra, grande coalizione, governo a guida Cinque Stelle - l’ultima sembra la più probabile. Destinata a non durare, naturalmente. Poiché la combinazione di proporzionale e di partiti deboli garantisce al Paese solo un futuro di instabilità. Dobbiamo prendercela con la classe politica che non riesce a fare nulla per scongiurare un simile esito? Solo fino a un certo punto. Ci sono in giro responsabilità anche più gravi. Quelle, per esempio, di potenti corporazioni interessate a che la politica resti per

sempre debole: una politica debole, infatti, non è in grado di metterle in riga. Ci sono poi le responsabilità di chi perpetua certi aspetti deteriori della nostra tradizione culturale. Dobbiamo augurarci che l’Europa non si sfasci perché se ciò accadesse, mentre altre democrazie reggerebbero, la nostra sarebbe a rischio. Anche per colpa di alcune indistruttibili (e false) idee di senso comune propagandate da certa «cultura alta». Mi riferisco alla cultura costituzionale italiana, e alla colpa di molti dei suoi più illustri esponenti: avere avallato l’idea secondo cui le democrazie non avrebbero bisogno di governi forti (secondo questa concezione il governo forte sarebbe l’anticamera di un regime autoritario). Una falsità: le democrazie muoiono, quando arrivano i momenti davvero difficili, se i governi sono troppo deboli per fronteggiare la sfida. LA REPUBBLICA Pag 1 L’incognita alleanze e il sogno maggioritario di Stefano Folli È senz’altro una buona notizia che le giornate del Lingotto si siano chiuse con il netto sostegno del Pd al governo Gentiloni. Peraltro non è una notizia inaspettata: avendo finalmente riconosciuto la realtà, ossia che non esisteva lo spazio e nemmeno la convenienza per anticipare le elezioni, il supporto all'esecutivo era l'unica opzione rimasta al gruppo dirigente. S'intende che a questo punto alle parole dovranno seguire i fatti: sostenere Gentiloni e Padoan vuol dire per il partito di maggioranza farsi carico delle scelte che il governo dovrà compiere in politica economica di qui alla fine dell'anno, scelte che si prevedono impopolari, forse molto impopolari. Saranno discusse prima di ogni decisione, è ovvio, e il leader del Pd farà valere il suo peso. Ma difficilmente le misure potranno essere edulcorate o stravolte per ragioni elettorali. Si andrà alle elezioni dopo il varo di questi provvedimenti e non prima, il che dovrebbe significare una campagna all'insegna del realismo, un'obbligata "operazione verità". Non è detto che gli italiani reagiscano male. Può darsi, al contrario, che reagiscano molto bene, come è accaduto altre volte nella storia recente del Paese. In fondo, meglio la verità che essere trattati come bambini immaturi. C'è un secondo punto, meno chiaro e convincente del primo. Nessuno, tanto meno il segretario, ha spiegato se il nuovo Pd avrà una politica delle alleanze e in quale direzione. Si è solo capito, ma lo si sapeva già, che Franceschini avrebbe voluto, e forse vorrebbe ancora, collocare il partito al centro di intese comprendenti la sinistra, da un lato, e i moderati di Alfano e Casini, dall'altro. E viceversa che i Martina e gli Orfini privilegiano l'attenzione verso i progressisti di Pisapia. Ma nessuno sembra avere realmente a cuore il problema, salvo il ministro dei Beni Culturali a cui però manca la forza politica per imporre una soluzione - le alleanze aperte a sinistra e a destra - che il resto del Pd non vuole. Quanto a Renzi, l'unico da cui ci si attendeva un'indicazione netta, ha preferito volare al di sopra delle questioni pratiche. Ma il suo tentativo tattico - che pure c'è stato - di allargare l'orizzonte del partito verso sinistra e di dargli un respiro nuovo, meno ripiegato sull'egocentrismo del leader, non può sottrarsi al tema delle alleanze. Si obietta: Renzi non parla di alleanze perché non ha perduto la sua "vocazione maggioritaria". Vale a dire che ragiona ancora come se avessimo una legge elettorale maggioritaria, l'Italicum. Al massimo lascia ai suoi collaboratori più vicini di lanciare una passerella verso Pisapia, l'ex sindaco di Milano con il quale i renziani sperano di sostituire gli scissionisti dalemian-bersaniani. Ma a questo punto la contraddizione si è già aggrovigliata oltre il punto di non-ritorno. Non è un caso che i contendenti di Renzi, vale a dire Orlando ed Emiliano, si propongano ognuno a suo modo come coloro che metteranno fine alla guerra fra le varie sinistre, ricomponendo il tessuto lacerato. Hanno un progetto, certo discutibile, orientato in senso socialdemocratico. E accettano che il sistema sia tornato proporzionale, al punto da rendere indispensabili le intese. Prima e dopo le elezioni. A maggior ragione se il Parlamento non riuscirà, come sembra, a rimetter mano alle sentenze della Corte se non per aspetti marginali. Invece Renzi, come si è detto, vive tuttora dentro l'illusione maggioritaria. Del resto, è consapevole che gli scissionisti («quelli che volevano distruggere il Pd», secondo le sue parole) non farebbero mai accordi con lui. E forse prevede - come tanti, del resto - che il prossimo Parlamento sarà del tutto paralizzato, senza vinti né vincitori, e allora servirà rifare la legge elettorale prima di tornare di nuovo alle urne. In ogni caso, è pericoloso non vedere la realtà, magari perché si è convinti di raggiungere da soli la maggioranza, ossia la mitica soglia del 40 per cento.

Così come è azzardato dare per scontata l'alleanza con Pisapia, il quale ha l'ambizione di federare un mondo disperso, quasi un altro Ulivo, e non gradisce essere descritto come la stampella di Renzi. Finora ha dimostrato di non esserlo affatto. LA STAMPA Non c’è più un uomo solo al comando di Federico Geremicca «L’uomo che sogna a occhi aperti» (definizione di un applauditissimo Marco Minniti) esce dalla tre giorni del Lingotto più forte di come ci era entrato: e già questo è un risultato non scontato, se si ripensa a certi fuorionda e a certe tensioni serpeggiate nelle settimane scorse nello stesso campo renziano. Nessuno dei problemi che il Pd si ritrova di fronte, naturalmente, può esser considerato risolto: ma gli interventi con i quali l’ex segretario ha aperto e chiuso l’happening torinese per il lancio della sua ricandidatura, possono rappresentare - se non traditi dai fatti - un incoraggiante punto di partenza. Matteo Renzi, infatti, ha tratteggiato il profilo di un partito che non intende mettere nelle vele il vento del populismo e della paura (ma su questo, sull’immigrazione in particolare, è già sfidato da Andrea Orlando); che non rinuncia a difendere il «sogno europeo»; che si promette più inclusivo, anche rispetto ad un recente passato; e che, infine, annuncia di voler sostituire una leadership assai personale - il famoso «io» - con una direzione più collegiale (lo sconosciuto «noi»). Certo: più che un vero e proprio programma - per il quale bisognerà attendere la mozione congressuale – si tratta di una sorta di dichiarazione d’intenti; intenti che però appaiono, nell’enunciazione, in larga misura condivisibili. Una convention, dunque, non inutile: né per gli osservatori di processi politici e nemmeno per Matteo Renzi (pur solitamente refrattario a riti e liturgie). Anzi. Al Lingotto, infatti, è andata in scena una notevolissima prova di forza dell’ex premier nei confronti non solo di chi ha deciso di sfidarlo alle primarie (Orlando ed Emiliano) ma della sua stessa area di riferimento. Con Paolo Gentiloni in prima fila ad ascoltarlo, mezzo governo alla tribuna e una copertura mediatica ancora da segretario-premier, l’happening torinese è servito - se non altro - a mettere in chiaro ad amici e avversari quanto potere rimanga intatto nelle mani dell’ex rottamatore. E veniamo appunto a lui, Renzi, «l’uomo che sogna ad occhi aperti» o anche il Maradona del Pd (citazione dal solitamente sobrio Delrio). Vinse le sue prime importanti primarie - a Firenze - nel febbraio di 8 anni fa e poi - nel dicembre 2013 - quelle che lo hanno portato alla guida del Pd. È stato per quasi tre anni, contemporaneamente, presidente del Consiglio e segretario dei democratici: il dominus assoluto, insomma. Ricordiamo queste date solo per annotare come la semplice idea - ammesso che esista - di riproporre in queste primarie o alle prossime elezioni politiche stile, toni e argomenti dell’era della “rottamazione” non potrebbe che rivelarsi perdente (oltre che difficilmente comprensibile). La sensazione è che Matteo Renzi lo sappia perfettamente, ma fatichi a trovare un’altra cifra, un’altra via. È una difficoltà comprensibile, e da affrontare - per di più - in uno scenario del tutto trasformato dalla sconfitta nel referendum del 4 dicembre: cambiate le regole del gioco (dal maggioritario al proporzionale); cambiati e aumentati i giocatori in campo (dall’Mpd a un M5S ingigantito rispetto a cinque anni fa); cambiato, inevitabilmente, il suo stesso appeal. Di fronte all’ex rottamatore, insomma, ci sono due sfide (primarie e poi elezioni) che non potrà affrontare con le innovazioni, le battute e le promesse con le quali è arrivato fino a palazzo Chigi. Nella storia repubblicana, solo due uomini – Berlusconi e Craxi – hanno governato più a lungo di lui. A volerla dire tutta, si tratta di una circostanza che sarebbe meglio valorizzare, piuttosto che tentare di occultare dietro toni che, a volte, ancora lambiscono il populismo. Un Renzi “di governo”, un Renzi “in doppiopetto” potrebbe, forse, non funzionare. Ma la tre giorni del Lingotto, però, dice che in fondo ci si può almeno provare… IL FOGLIO Pag 1 No reato, sì peccato. Perché dovremmo avere pietà per i suicidi di Giuliano Ferrara Testo non disponibile IL GAZZETTINO

Pag 1 L’onestà è necessaria, non sufficiente di Carlo Nordio Su un punto le conclusioni della convention del Lingotto sono chiare: la giustizia non può e non deve essere strumento di lotta politica. Non è un'affermazione nuova , ma è un'affermazione chiara e solenne. Per l'autorevolezza di chi l'ha enunciata, e la vastità del consenso ottenuto, possiamo ritenere, o almeno sperare, che sia ormai un patrimonio acquisito del Partito Democratico. Tenuto conto che il centrodestra ne ha sempre fatto una questione di principio, e che il leader in pectore della nuova sinistra, Giuliano Pisapia, ne ha sempre sostenuto la validità, potremmo auspicare che, almeno in questo ambito, si trovino, nel prossimo futuro, fruttuose convergenze. I punti potrebbero essere i seguenti. Primo. Posto che l'informazione di garanzia è un atto dovuto, finalizzato a tutelare le prerogative difensive del destinatario, esso è politicamente neutro, e non può compromettere in alcun modo né le funzioni presenti né le aspirazioni future di chi lo riceve. Tutti i passaggi successivi di un eventuale procedimento penale, dalla richiesta di rinvio a giudizio fino alla sentenza definitiva, dovrebbero essere valutati caso per caso, tenendo presente la presunzione di innocenza e i tempi della nostra giustizia penale. La pretesa di un passo indietro in attesa del chiarimento finale futuro e incerto - non può costituire un espediente per liberarsi di un avversario. Secondo. La statistica dimostra che le probabilità di essere indagati aumentano in modo esponenziale per chi esercita cariche pubbliche. I maligni possono leggervi una tendenziale attitudine della magistratura a condizionare l'attività politica o amministrativa dello Stato. In realtà si tratta solo della sciagurata combinazione di leggi contraddittorie, formulate in modo tecnicamente imperfetto, con l'obbligatorietà dell'azione penale. I reati di abuso d'ufficio e di traffico di influenze, ad esempio, sono così generici e onnicomprensivi da legittimare un'indagine preliminare contro qualsiasi sindaco, assessore o ministro. Quindi, o si smette di far politica o ci si rassegna a questo inevitabile rischio giudiziario. Ma almeno finiamola con la sua strumentalizzazione. Terzo. Il presenzialismo elettorale di magistrati che hanno acquisito notorietà per aver condotto indagini nei confronti di politici ha ormai raggiunto livelli incompatibili con il principio della separazione dei poteri. Si aggiunga che questi signori, attualmente in aspettativa, potrebbero un giorno reindossare la toga. Questo vulnera il buon senso, più ancora che l'immagine della stessa giustizia. La loro risposta è che la legge lo consente. Verissimo. Allora si cambi la legge. Ultimo. L'effetto più perverso di questa selezione per via giudiziaria, consiste nella convinzione che l'onestà sia il requisito essenziale per accedere alle cariche pubbliche. No. L'onestà è necessaria, ma non è affatto sufficiente. Un amministratore efficiente e capace, ancorché di costumi chiacchierati, può perseguire l'interesse pubblico meglio di un onestissimo cretino dissipatore. Non è una conclusione simpatica, ma è certamente realistica. Se l'onesta vera o autocertificata - costituisse titolo esclusivo a governare - diventerebbe un alibi per tutti gli inetti con la fedina penale immacolata. E questo sarebbe il più colossale degli errori, perchè la politica, a differenza della morale, non guarda alle buone intenzioni della coscienza, ma ai risultati utili per la collettività. Pag 11 “Io e miei 8mila figli senza essere mamma” di Edoardo Pittalis Intervista alla superostetrica Maria Pollacci, 92 anni e da 70 al lavoro Maria Pollacci è la prima ostetrica superstar nella storia della tv italiana. Che effetto fa salire sul palco del teatro Ariston di Sanremo, in pieno Festival della Canzone? «Dovevo soltanto raccontare quello che sono, la vita di un'italiana normale. Al di là dell'emozione, che ci sta tutta anche alla mia età, dovevo essere me stessa. Li aveva colpiti questa storia che avevo fatto nascere quasi ottomila bambini. Sono venuti a prendermi e mi hanno riaccompagnata. Ero soprattutto preoccupata di rientrare in tempo per la nascita del mio nuovo figlio vicino a Cortina. È stato bravo, ha aspettato che io fossi ritornata». Sembra una cosa facile a 92 anni? «Non mi sento la mia età. Quando mi ricordano gli anni, ho l'impressione che non mi appartengano. Giro il numero, così anzichè 92 sono 29, un po' pochi vero? Faccio ancora quello che facevo una volta. Vado a Modena in macchina a trovare i fratelli e i nipoti, guido io, conosco le strade».

Ottomila la chiamano mamma, ma lei non si è mai sposata? «Ho avuto un grande amore ma a un mese dal matrimonio il mio fidanzato è morto di incidente stradale. Un altro fidanzato è morto di malattia, allora ho pensato che non fosse il caso di insistere e ho detto basta. Mi è mancato di essere mamma, ma sono mamma di tanti bambini che mi vengono a trovare, che portano i loro figli a salutarmi. Capita che quando vado in giro qualcuno esca fuori da un negozio gridando: Ecco la mia seconda madre'. È da 72 anni che faccio nascere bambini». Si ricorda il primo? «C'era la guerra, la famiglia era sfollata nell'Appennino modenese, io ero freschissima di diploma. Sono stata chiamata per il parto, avevo paura, ero sola, dovevo arrangiarmi, ma il bambino è stato intelligente, ha capito che era meglio non fidarsi e che doveva nascere in fretta. Dopo 25 anni sono tornata in quel paese per la festa del patrono, ballavano in piazza, quando si è avvicinato un bel giovanotto: Posso avere l'onore di ballare con l'ostetrica che mi ha aiutato a nascere?'. Ci troviamo ogni anno, quando vado in vacanza. Adesso anche lui è nonno». Voleva fare l'ostetrica? «Eravamo quattro fratelli, una famiglia di mezzadri. Un fratello ha studiato medicina ed è diventato chirurgo estetico, una sorella dalle suore per imparare a ricamare, un'altra per fare la parrucchiera. Mi sono iscritta alla scuola di ostetricia a Modena e lì ho capito che era la professione più bella del mondo, che aiutare a venire alla vita non ha paragoni. Da anni mi chiamano a insegnare all'Università di Verona per raccontare le mie esperienze alle future laureate che hanno tanta teoria e poca pratica». È cambiata molto la professione? «Anche le donne sono cambiate. Forse prima sopportavano di più il dolore. Una volta sono andata per assistere una signora che era al quindicesimo figlio. Più che del dolore, si preoccupava di preparare il pranzo a tutti i bambini. A un certo punto mi fa: Adesso signorina penso sia ora'. E, infatti, un attimo dopo ha partorito». Dall'Emilia al Trentino e poi al Veneto «Nel 1955 avevo vinto il posto all'ospedale di Cles dove nascevano 600 bambini all'anno, ho seguito anche parti di tre gemelli. Le donne stavano ricoverate due settimane, non era come oggi. Poi, nel 1964, ho vinto la condotta a Pedavena e mi sono trasferita. Era un altro mondo, mi spostavo in bicicletta, in montagna sempre a piedi. Il medico stava a venti chilometri di distanza, era giovane e si intendeva poco di ostetricia. C'era povertà, le donne si scambiavano la biancheria; feci mandare da mia madre lenzuola e asciugamani per distribuirli. Le donne partorivano in stanzette fredde, con i vetri che avevano il fiore di ghiaccio. Il bagno era fuori della casa, anche l'acqua. Si faceva il primo bagnetto al bambino accanto al camino. Ma non si è ammalato nessuno. Vittorio, il primo nato a Pedavena, oggi ha 52 anni. Il benessere in queste zone ha tardato ad arrivare, è stato negli anni dopo il Vajont, la tragedia ha portato anche il cambio del lavoro e una maggiore sicurezza quando la gente ha incominciato ad andare nelle fabbriche. Molti a Pedavena lavoravano già in birreria». L'esperienza più singolare? «Ero in ospedale a Cles, nel 1961, venne a prendermi il padrone del circo che era in paese per gli spettacoli, la moglie doveva partorire ma voleva farlo nel suo carrozzone. Il bambino nacque alle tre di notte, pesava 6 chili e tre etti. Gli artisti aspettavano fuori, alla notizia della nascita stapparono bottiglie di champagne. La nonna disse: Sarebbe bello se domani sera la signorina entrasse nella gabbia dei leoni e presentasse il bambino al pubblico. Pensai che scherzasse, invece per tutta la giornata girarono la zona con l'altoparlante annunciando che l'ostetrica sarebbe entrata nella gabbia degli animali feroci. Quando vennero a prendermi, avevo ripetuto a me stessa che non avrebbero mai messo in pericolo il bambino e, quindi, nemmeno me. Così la sera, al primo spettacolo, sono entrata col bambino in braccio nella gabbia dei leoni. Accanto al domatore, che era il padre, mi sentivo tranquilla. Al brindisi la vecchia leonessa salta giù inquieta dallo sgabello, in sala si alza un mormorio. Non si muova mi intima il domatore. E chi si muoveva? Finì tutto bene. Ma mio fratello mi telefonò per chiedermi se ero diventata matta». Ha più visto il piccolo ercolino del circo?

«Dopo 50 anni l'ho rintracciato con Internet, faceva il domatore di tigri in Svizzera. Mi aspettavo un pezzo d'uomo, invece non era cresciuto più di tanto. Ci siamo trovati a Tessera, vicino all'aeroporto di Mestre, il fratello era lì col suo circo». Una passione? «I viaggi. Ho viaggiato molto con mio fratello, siamo stati nelle Americhe, in Africa. In Alaska c'erano distese di ghiaccio. Con l'idrovolante siamo passati in mezzo alle balene che erano in amore e si chiamavano l'una con l'altra». Il suo piatto? «I tortellini alla modenese e le tagliatelle. Naturalmente li preparo io». Pag 13 Prima di morire bene sarebbe importante imparare a vivere di Alessandra Graziottin L'attuale dibattito sul come e quando morire dovrebbe poggiare su una riflessione condivisa ancora più essenziale: come vivere perché questa esperienza, unica e senza vite di scorta, possa essere la più compiuta, significativa e appagante. Il diritto di scegliere un addio consapevole, dormendo, quando la malattia abbia chiuso ogni minimo spiraglio di autonomia e gioia, può essere ancora più radicato nella coscienza collettiva se tutti riusciamo a vivere in modo più consapevole e assaporato. Alcuni ingredienti per il saper vivere, gustando ogni secondo, sono a disposizione di (quasi) tutti, se i bisogni fondamentali sono soddisfatti. Se ci sono salute, affetti, anche con i nostri dolci animali, e non solo di famiglia o di grandi amori, un lavoro o una pensione che diano indipendenza economica e un po' di soddisfazione, i fondamentali ci sono. Eppure se ci ascoltiamo, se ci guardiamo intorno con attenzione, sentiamo che molti di noi non sono consapevoli di ciò che hanno, e del privilegio di poterlo assaporare. Anzi, si lamentano continuamente per quello che non hanno o che non c'è.Da medico, parto dalla prima condizione di felicità: la salute. Siamo (più) felici quando il corpo sta bene, e in particolare quando il nostro sistema neurovegetativo, che regola i fondamentali della vita, lavora in modo armonioso. Come si fa a sapere se questo sistema funziona bene? Basta ascoltarsi: come respiro? In modo lento e profondo, o teso e superficiale? Come dormo? Con un bel sonno quieto e ristoratore, o in modo superficiale, inquieto, agitato? Come mangio e che rapporto ho col cibo? Ho un sano appetito, gusto e assaporo con piacere, in sobria quantità, o compenso nel cibo frustrazioni, irritazioni e infelicità? Quanto peso? E dove accumulo l'adipe? Se sull'addome, l'allarme rosso sul cuore è già acceso, anche se la sirena non suonerà domani... ma forse un po' più in là. Com'è il mio tono di voce? Luminoso, vibrante, gentile, profondo? So accarezzare con la voce? So calmare? Oppure è aggressivo, sferzante, duro, rozzo, irritante? La voce ci dà una sintesi formidabile dello stato di salute e del livello di energia vitale, oltre a dire subito il nostro livello di savoir vivre, di educazione, di cultura. Ed ecco il check-up sul sistema motorio. Come è il mio passo, quando cammino? Elastico, tonico, veloce e allegro, quasi un passo di danza, o è lento e faticoso? La velocità del passo, a tutte le età, correla con la longevità in salute e con la qualità della performance mentale. Meglio darsi una registrata... Mi dà gioia fare attività fisica o sento solo la fatica? Sorrido, mentre cammino? Osservo e assaporo la bellezza del mondo? In questi giorni di marzo così luminosi e allegri, quando alle nostre latitudini la natura sorride alla vita con un tripudio di gemme, di erba scintillante e di fiori profumati, sappiamo fermarci, e soffermarci, per sorridere noi stessi alla vita? Il Dio delle piccole cose protegge chi sa fare ogni giorno una provvista di minute felicità, chi le assapora come un privilegio raro. E benedice con uno sguardo luminoso chi le sa condividere. Chi regala un sorriso in più, un carezza con lo sguardo o con la voce, un abbraccio di conforto a chi, in quel momento, è meno fortunato o sta soffrendo. E se abbiamo sofferto, per malattia o lutti, per cattiverie o difficoltà, se le abbiamo conosciute, quei periodi neri ci servano di monito e stimolo, per riassaporare più a fondo i giorni di sole. Si può accettare la morte, in pace, se ci siamo accorti di essere felici, quando era la vita a sorriderci gentile, e l'abbiamo gustata ogni giorno, con emozione struggente. LA NUOVA Pag 1 La sinistra che gioca a perdere di Francesco Jori

Sconfitte elettorali “stultitiae causa”. Insuperabile da tempo nel farsi del male da sola, da Roma a Padova la sinistra sta attrezzandosi per introdurre nell’atipico dizionario della politica italiana questa inedita quanto demenziale categoria: come perdere non per meriti dell’avversario, ma per demeriti propri. “Stultitia”, l’avrebbero chiamata appunto i nostri padri latini: da “sciocchezza” a “stupidità”, la si può tradurre in modi diversi, ma sempre deteriori rimangono. Al centro: vincano i Grillo o i Salvini, purché sia Renzi a perdere. In periferia: vinca perfino un Bitonci, purché non sia uno di noi. Semplicemente grottesco. Lo è a livello nazionale, perché non è da oggi che la sinistra si rivela subalterna a una pur opaca destra nelle sue diverse varianti; e perfino quelle rare volte (due in vent’anni…) che era riuscita a vincere, si è affrettata a rottamarsi da sola. Lo è perché il suo maggior azionista di riferimento, il Pd, ha utilizzato tutti i suoi segretari come un bersaglio su cui esercitarsi nel tiro a segno; mentre gli azionisti minori si sono affannati a rimescolarsi le quote tra loro, senza peraltro mai farle salire nel valore elettorale neppure di un’oncia. Lo è perché si è cementata solo nell’accanirsi su un Renzi buttato giù dal piedestallo come la statua di Saddam a Baghdad; poi un minuto dopo si è di nuovo dedicata a coltivare le parrocchiette. Alle prossime elezioni si potrebbe correre il rischio perfino di vincere? Non sia mai! Piuttosto si lasci spazio al Savonarola dei comici e alla sua rumoreggiante tribù, o a quell’arlecchinata di destra che sta mettendo su una compagnia di giro piena pur sempre di guitti. Ma lo è anche a livello locale, anzi peggio: sarà perché Padova vuol dimostrare di riuscire a battere almeno una volta Roma; sta di fatto che la sinistra indigena sta allestendo una replica dell’identico miserando spettacolo andato in scena neanche tre anni fa, col risultato di darsi politicamente all’ippica: vale a dire far vincere un cavallo su cui un qualsiasi allibratore avrebbe caldamente sconsigliato di investire se non gli spiccioli. Quel cavallo ha vinto per mancanza di avversari; poi ha messo a nudo i propri limiti perdendo pezzi significativi dei suoi stessi sostenitori; eppure si ripresenta ai nastri, e i rivali anziché organizzarsi per batterlo cominciano a scalciarsi tra di loro ancor prima che la corsa abbia inizio. Oltretutto già dedicandosi pubblicamente a spargere veleni reciproci a futura memoria, e a esibirsi in sonanti dichiarazioni ispirate al famigerato quanto fallimentare “vinceremo!”. Digiuni non solo di politica, ma perfino del comune senso del ridicolo. Non è il caso di perdere tempo nello stucchevole esercizio di chi ha torto e chi ha ragione: come in ogni rapporto che salta, ciascuno ci ha messo del suo. Il punto vero è un altro. E cioè che questi partiti o gruppi, di loro, a prescindere dalle dimensioni, sono manifestamente minoritari; eppure pretendono di farsi interpreti della volontà autentica dei loro potenziali elettori. I quali invece già nel 2014 hanno dato una fragorosa prova del “not in my name”, non a nome mio, disertando in modo massiccio le urne e azzoppando così il loro stesso portacolori. Peccato che a pagarne le spese non siano gli autoproclamati rappresentanti della base, ma l’intera città: prigioniera, in questo scorcio di legislatura abortita, di una maggioranza sbrindellata e di un’opposizione scalcinata. E che, lentamente ma inesorabilmente, sta scivolando nelle posizioni di coda del Veneto anche nei campi dove un tempo vantava l’eccellenza: a cominciare dalla sanità, ma non solo. Riuscire a concedersi un bis, in queste condizioni, non è solo autolesionismo. È anche e soprattutto “stultitia”. “Repetita iuvant”, suggerivano i latini: sarà. Ma a cosa giovano i ripetenti? Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di domenica 12 marzo 2017 Pag 1 Non possiamo perdere l’Olanda di Aldo Cazzullo Le elezioni e la nuova Europa Cosa succede se l’Europa perde l’Olanda? La patria di Erasmo e di Spinoza, la terra della tolleranza e della libertà? Nel Rinascimento e nell’età barocca, gli ebrei e i perseguitati trovavano nelle Province unite, nella borghesia mercantile e nella casa degli Oranje un porto sicuro. Chi non poteva stampare i suoi libri o manifestare le sue idee in casa, metteva vela verso Rotterdam o partiva per Amsterdam. Ancora oggi il Giorno del Re, che da quando è salito al trono Guglielmo cade il 27 aprile, è una straordinaria prova d’integrazione: vecchi e nuovi immigrati, indonesiani e comunitari, i discendenti dell’antico impero coloniale e gli espulsi dalla crisi del Sud Europa si mescolano

uniformati dalla maglietta arancione (quest’anno si annuncia una festa speciale: il sovrano compie cinquant’anni). Amsterdam, del resto, è con Londra la metropoli più internazionale d’Europa (Parigi è una città francese e maghrebina con forti comunità da altre parti del mondo più o meno integrate, Madrid è soprattutto una capitale spagnola e latinoamericana). Eppure l’Olanda è stata anche il primo Paese europeo a conoscere l’intolleranza della modernità. A vivere le tragedie e i pericoli che il mondo globale porta con sé, insieme con le occasioni. Il 2 novembre 2004, alle 8 del mattino, Theo van Gogh - nome caro a chiunque ami le arti e la libertà: discendente del fratello del pittore e di un altro Theo van Gogh caduto nella Resistenza al nazismo -, il regista di Sottomissione, un film critico verso l’Islam, veniva assassinato con otto colpi di pistola da un integralista dalla doppia cittadinanza, marocchina e olandese, che gli ha poi tagliato la gola. Le sue ultime parole furono: «Ma non ne possiamo parlare?». Theo van Gogh era stato amico di Pim Fortuyn, il fondatore dell’estrema destra olandese, come i media la definiscono per comodità. Ma Fortuyn non era un parruccone reazionario. Era un gay orgoglioso sino all’esibizione, oltre che un dandy celebre per la sua eccentricità. Insegnava Sociologia all’università di Groeningen. Era molto duro verso l’immigrazione islamica perché, diceva, «in quanto omosessuale non sopporto essere considerato un cane rognoso». Il 6 maggio 2002, nove giorni prima delle elezioni, venne assassinato da un estremista, non islamico ma «verde» (Fortuyn adorava le pellicce e aveva promesso di abolire la legge che vieta di allevare ermellini e visoni). Il suo corpo fu esposto in frac e papillon nella cattedrale cattolica di una Rotterdam annichilita dallo sgomento. «Verbijstering» titolarono i giornali: stupore. Il Feyenoord vinse la Coppa Uefa e la dedicò alla sua memoria, il suo partito prese un milione e 600 mila voti e 26 deputati (su 150). Pim Fortuyn è sepolto in un Paese che amava: l’Italia, a Provesano, in Friuli, dove aveva casa. Sulla sua tomba è scritto: «Loquendi libertatem custodiamus», difendiamo la libertà di parola. Questo forse aiuta a capire perché nei sondaggi il partito antisistema di Geert Wilders - che non è Fortuyn - è in testa o tallona i liberali del premier Mark Rutte (si vota mercoledì). Le sue idee sono discutibili. I suoi tweet spesso odiosi. La sua proposta di mettere al bando il Corano e chiudere le moschee contraddice l’essenza dell’anima olandese. Gli altri partiti sono divisi su tutto, tranne che su un punto: mai un’alleanza con lui. Eppure non va sottovalutata l’ascesa della destra antieuropea e antislamica appunto nel Paese più tollerante d’Europa. Non lo si capirebbe se non si considerasse che nel suo successo, accanto alla componente xenofoba, c’è anche un aspetto identitario che, essendo in Olanda, assume pure un carattere libertario, sia pure espresso con parole distorte: il diritto degli omosessuali di vivere la loro vita alla luce del sole; il diritto delle donne di uscire con chi vogliono e vestite come vogliono. Il fatto stesso che Wilders preferisca i social ai comizi, anche per salvaguardare la propria sicurezza, indica che c’è un problema reale; e ovviamente lui è pronto a sfruttarlo. Non era stato detto che ci si deve battere per consentire agli avversari di esprimere le proprie idee in pubblico, a maggior ragione se non le si condivide? Wilders è isolato e non riuscirà a fare un governo. Questa è una buona notizia. Il 2017 che si annunciava come l’anno dei populismi, dopo le grandi vittorie di Brexit e di Trump, potrebbe rivelarsi l’anno della loro sconfitta, dall’Olanda alla Francia dove Macron si rafforza ogni giorno. E se dovessero essere confermati i sondaggi che danno in crescita i socialdemocratici di Schulz - ma è un esito tutto da dimostrare -, potrebbe uscire ridimensionata anche l’austerity della Merkel, che ha avuto nel governo dell’Aia l’alleato più intransigente. Eppure sarebbe sbagliato negare la rilevanza di un Geert Wilders. Se persino gli olandesi perdono lo spirito d’apertura e di convivenza, il resto d’Europa deve tenere gli occhi vigili e la mente sgombra dai pregiudizi ideologici, aperta alla libera discussione delle idee; anche a quelle che non ci piacciono. Pag 1 L’uomo che dorme di Paolo Di Stefano Noi sotto quella coperta Il clochard è un uomo che dorme, proprio come noi. Il bianco e nero, lo scenario surreale, l’ombra dell’assassino che si allunga sul pavimento e sulla parete. Elementi che farebbero pensare a un epigono di Hitchcock. Invece è tutto vero. Se qualcuno, davanti a quei trenta secondi filmati, vi avesse detto che si trattava della sequenza di una fiction, non avreste dubitato. Non poteva che essere una finzione (per quanto

verosimile), una delle tante scene violente e gratuite che si possono vedere nei film pulp. Il bianco e nero, il gioco di contrasti, lo scenario surreale, l’ombra dell’assassino che si allunga sul pavimento e sulla parete potrebbero anche essere elementi registici pensati da un epigono di Hitchcock. Invece è tutto vero. Così reale da non farci credere ai propri occhi. Per quante volte si possa guardare e riguardare quel video, è difficile farsene una ragione: un tipo incappucciato avanza tranquillo tenendo un secchio nella mano destra, sa dove andare, infatti quando arriva a un metro dal giaciglio scuro svuota il bidone in tre lanci successivi mirati verso l’alto: nei pochi secondi in cui si allontana di qualche passo, le coperte si muovono, si intravede anche la testa del senzatetto fare capolino, probabilmente assonnata, incredula, ignara, ma non ha il tempo di verificare quel che accade perché l’assassino ha già recuperato il fiammifero o l’accendino e con un balzo si sta scagliando contro di lui per dargli fuoco, scatenare una luce bianca abbagliante, e poi saltare fuori, mettersi in salvo e fuggire. Sia detto quasi sottovoce: un vagabondo che dorme è un vagabondo che dorme, ma soprattutto è un essere umano che dorme, ovunque dorma, all’aperto o in casa, e chiunque egli sia. Nessuno potrebbe mai lucidamente pensare che uccidere un clochard (un vagabondo, un senzatetto, un «barbone» che non è necessariamente peggiore della parola francese clochard , letteralmente «zop-picante»), che si chiami Marcello Cimino o che non abbia nome e età, sia meno grave che uccidere un qualunque altro essere umano. Il rischio però è che il «poveretto», l’aggettivo con cui in genere si reagisce di fronte alla sciagura di uno «zoppicante», contenga una impercettibile dose di paternalismo (compati-mento più che autentica compassione) verso l’auto-escluso dalla società, andato incontro a un destino di cui lui stesso era in qualche modo almeno un po’ involontariamente corresponsabile. Il sospetto è che il fuoco dato a un clochard finisca per riguardarci un po’ meno del furto subìto da un comune signore chiuso a chiave dentro la propria casa. Perché se quel signore potremmo essere noi, il barbone mai e poi mai. LA REPUBBLICA di domenica 12 marzo 2017 Pag 1 Demagogia e carisma, così Renzi andrà al voto nel 2018 di Eugenio Scalfari Bisogna chiedersi soprattutto due cose dopo aver letto ciò che Matteo Renzi ha detto venerdì al Lingotto di Torino: la validità della linea politica da lui esposta e la sua capacità, e la sua volontà di attuarla. La mia terza domanda è la seguente: se sarà Renzi a vincere le primarie o uno dei suoi avversari: Emiliano e Orlando. La risposta a questa terza domanda dà la vittoria di Renzi a dir poco al 60 per cento. Quanto alle altre precedenti sono da affrontare con molta attenzione avendo ben chiara la personalità del protagonista, i suoi precedenti, la compattezza del gruppo dirigente del Pd. Accingiamoci dunque a questo lavoro. L'esordio riguarda il luogo storico dove il Partito democratico è nato: dieci anni fa con la guida di Walter Veltroni che a distanza di pochi mesi affrontò le elezioni e ottenne quasi il 35 per cento dei voti, una cifra leggermente maggiore di quella avuta a suo tempo da Enrico Berlinguer dopo il suo distacco definitivo dal potere sovietico. Veltroni aveva fondato un partito che con il comunismo non aveva più niente a che vedere e lo definì un partito riformatore che è diverso dal termine riformista perché non riforma l'esistente ma fonda una realtà politica diversa e nuova, aggiungendo a quella definizione l'aggettivo di maggioritario come vocazione. Renzi ha ben presente la globalizzazione che ormai è in pieno sviluppo e condiziona quindi il mondo intero. Non solo quello occidentale che ci riguarda più da vicino. Il vero problema di questo mondo è il recente arrivo al potere negli Stati Uniti d'America di Donald Trump, un personaggio tutto anomalo nella politica Usa, conseguenza del crescente mutamento della società del maggior impero attualmente esistente che con Trump democraticamente eletto ha messo in luce l'odio di massa contro l'establishment, contro le crescenti diseguaglianze sociali ed economiche e perfino contro l'immigrazione che è stata da cinque secoli il fenomeno che ha creato le Americhe, sia quella del Nord sia quella del Sud. Un fenomeno del tutto diverso ma di analoga importanza è avvenuto in Europa, che è stata la culla della civiltà: l'Europa - che ha creato ed esportato la civiltà occidentale - ha vissuto in continue lotte e guerre da millecinquecento anni: interessi diversi e contrapposti tra le nazioni, diversi linguaggi, diverse etnie, diverse culture; un continente diviso al suo interno e tuttavia madre degli imperi occidentali: quello inglese, quello francese, quello germanico, quello spagnolo. Imperi militari, economici, culturali.

Per quanto riguarda l'Italia, non è più stata, dopo la caduta di quello romano, un impero militare e coloniale, ma culturale sì, lo è stato sempre, e perfino nel costume. Questa è la nostra storia e quella del continente di cui facciamo parte ma che è l'unico che non abbia ancora realizzato la sua unità. La sua attuale imperfezione consente ad una sorta di contropotere di guadagnare terreno a vantaggio del populismo che anche da noi odia l'establishment (che peraltro se lo merita) ma che è un populismo retrogrado, antiliberale e antidemocratico, derivante tuttavia dal malanno reale dell'aumento delle diseguaglianze sociali ed economiche. Ovviamente Renzi su questo antefatto storico non poteva diffondersi, sicché non è certo che ne sia consapevole, ma della realtà che esso ci ha lasciato sì, è consapevole ed è la materia prima che ha delineato. Sull'Europa si è intrattenuto fin dall'inizio, sostenendo che occorre assolutamente rafforzarla soprattutto nella politica economica che deve molto più puntare sulla crescita ed anche sulla struttura economica affinché sia contemporaneamente unitaria e flessibile, contando soprattutto sull'eurozona con l'introduzione di un ministro delle Finanze unico (auspicato ancor prima di lui da Mario Draghi) che peraltro non ha mai nominato nel suo discorso. Poi si è soffermato sull'immigrazione, chiedendo anche qui una politica europea unitaria sia per le quote di accoglienza sia per il contenimento dei flussi migratori nelle terre d'origine dove occorre riportarli o evitare che fuggano, trattando con i governi africani le condizioni sociali ed economiche dei fuggitivi che affrontano la morte pur di sottrarsi ad una vita impossibile da sostenere. Ha esposto il ruolo italiano di Paese fondatore che come tale va considerato principalmente nella sua situazione di Paese mediterraneo che fronteggia la costa africana e mediorientale, sconvolta dalle guerre in Siria e da una Turchia sempre meno europea e sempre più dittatoriale. Infine ha rimpianto Obama con grande affetto per la sua politica. Della politica di Trump non ha parlato ma il rimpianto per Obama è significativo in proposito. Fin qui la politica internazionale ma il nucleo del discorso è stato la situazione interna del nostro Paese. "Bisogna dare una linea al nostro partito" ha detto, "una linea e una strategia". La linea è quella di passare dall'io al noi. La strategia è quella di far crescere l'occupazione. "Non assistenza ma lavoro". Naturalmente l'assistenza dei poveri va ampiamente praticata, per i meno abbienti anche, ma per loro si entra nella politica fiscale contro le diseguaglianze. Sono necessari investimenti pubblici e privati, italiani ma anche europei, di adeguata intensità. Infine il partito. Aveva già detto di voler passare dal tu al noi. Li ha chiamati compagni, ma queste sono novità formali anche se non prive di un voluto significato. La struttura deve basarsi sull'aspetto territoriale, sui circoli, sulla base del partito e tenerne conto. Insomma un partito profondamente democratico come lo è nel nome, ma ancora poco nella realtà. Credo che su questo punto avrebbe dovuto ammettere che la responsabilità è pienamente sua, ma di questo suo errore non ha fatto alcuna ammissione. Il nucleo del discorso è però un altro: il partito deve avere la natura di una forza politica di centrosinistra dove la parola sinistra abbia di gran lunga prevalenza. La sinistra nel suo complesso è variamente rappresentata anche da piccole formazioni, ma quella vera che ne è il cuore deve essere ed è il Partito democratico che deve rappresentare i bisogni, i diritti, le speranze del popolo. È il popolo che costruisce il partito e il Pd lo rappresenta, ma non è un partito di pochi che rappresentano i molti, al contrario è o deve essere un partito di molti che lo sostengono e lo votano perché ne sono la struttura portante. La formula dal tu al noi vale all'interno del partito ma anche, anzi soprattutto, all'esterno tra partito e popolo sovrano. Ci sono molte altre cose nel discorso di Renzi ma questi mi sembrano i punti fondamentali. Ad alcuni osservatori e colleghi il discorso non è piaciuto o hanno avanzato molte riserve pensando soprattutto al passato di Renzi, a cominciare dallo "Stai sereno" il giorno stesso in cui pugnalò Enrico Letta suo predecessore. E poi ai tre anni durante i quali fece molti interventi politici ed economici alcuni dei quali profondamente sbagliati. Molte di queste critiche le ho condivise e in alcuni casi sono stato il primo a formularle. La principale si è poi vista allo scorso referendum, non tanto perché puntava sul sistema monocamerale che anzi era da condividere ma per la legge elettorale che configurava una Camera "nominata" più che eletta e quindi un trasferimento del potere effettivo nelle mani dell'Esecutivo cioè nelle mani di Renzi e del suo "Giglio" di berlusconiana memoria. Questo è il passato e la natura di solito non cambia. Del resto in molti Paesi europei (quasi tutti) il monocamerale è in atto ed anche chi comanda è il Capo dell'esecutivo. In una società ormai pienamente globale i problemi sono estremamente complessi e debbono essere rapidamente risolti. La democrazia è

dunque ormai relegata ma tutelata dalla separazione dei poteri. Queste riflessioni assolverebbero Renzi, pur restando ferme le riserve su alcuni aspetti della sua politica. Ma ci sono altre riserve da formulare. Le mie riguardano soprattutto la demagogia. La natura di Renzi contiene una dose notevole di demagogia, che si accompagna spesso al carisma. Quest'ultimo d'altra parte è pressoché indispensabile per far emergere una leadership, perfino nelle attività ed opere culturali di vario genere, ma in politica è pressoché indispensabile. Questa comunque è la mia riserva, ma complessivamente il discorso lo considero positivo. Vedremo ora come si svilupperà, fermo restando una buona notizia: il governo Gentiloni resterà in carica fino alla scadenza della legislatura l'anno prossimo. Di voto a breve termine non si parla più e questo è un risultato molto positivo per il Paese. AVVENIRE di domenica 12 marzo 2017 Pag 1 La nuda guerra di Ferdinando Camon I baby kamikaze del Califfato Il Daesh combatte una guerra totale, in cui non è nemmeno pensabile la ritirata e la sconfitta. Non è ammesso che il nemico entri nel territorio che adesso è tuo, lo occupi, vi stabilisca i suoi comandi, e vi faccia una storia diversa da quella che volevi fare tu. Perciò tutte le guerre totali, nel momento della sconfitta, toccano l’apice della crudeltà. Nel tentativo d’impedire o rallentare la sconfitta, usano soldati di età sempre più bassa, fino ai ragazzi, fino ai bambini. Li usano come scudi umani, nella convinzione che il nemico non sparerà contro di loro, e si fermerà. Schierano intere famiglie in lunghe file a destra e a sinistra delle loro colonne in ritirata, lungo le strade, per scongiurare i mitragliamenti e i bombardamenti degli aerei nemici, che sono l’arma che loro temono di più. Quando si asserragliano in una città, mettono i soldati al centro, disponendo intorno le famiglie con donne e bambini. Minano le strade che portano a loro, perché il nemico non vi passi né a piedi né su automezzi. Le mine sono sentinelle mute, cieche e insonni. Ogni tanto i miliziani escono per attacchi suicidi. O, ecco la tecnica che stanno usando adesso per difendere Mosul, mandano all’attacco bambini, addestrati a uccidere e a morire. Li chiamano 'leoncini', sono i loro piccoli eroi, che sanno farsi uccidere o uccidere, anche per giustiziare, anche prigionieri. Il nostro primo pensiero è: così distorcono il dna dei loro bambini, lo rendono maligno e crudele, trasformano dei piccoli innocenti in precoci criminali di guerra. No, loro non fanno così, fanno peggio di così: loro trasformano in precoci criminali di guerra non i loro figli ma i figli di quanti hanno dichiarato 'nemici', eredi delle civiltà e delle religioni che loro, i combattenti del Daesh, hanno sottomesso. Rieducano e convertono questi bambini e li scaraventano a combattere e morire contro la coalizione che difende i loro padri e le loro madri. Han fatto così, nei mesi scorsi, con circa trecento bambini yazidi, usati come kamikaze per difendere Mosul. Le forze della coalizione che adesso stanno entrando faticosamente in Mosul, liberando un quartiere alla volta, sanno che possono trovarsi davanti anche queste squadre di bambini, e che sparare su quei bambini non sarà uccidere figli del nemico, che già sarebbe inammissibile per qualsiasi morale anche militare, ma sarà sparare sui propri stessi figli, il che dà un’idea della stortura morale che la guerra crea, e questa questa guerra grida. La guerra è uno scardinamento, prima ancora che dei confini fisici di uno Stato o di un’area geografica, dei confini morali dell’umanità. Giorno dopo giorno, la guerra peggiora l’uomo. Tutti gli uomini. Non soltanto il soldato che combatte, ma anche il civile che vede o sente le operazioni di guerra a migliaia di chilometri di distanza. Non si dichiara guerra contro un nemico, ma contro l’umanità, a insulto di tutti. Il Daesh che usa come kamikaze figli yazidi di quattordici-quindici anni, usa come volontari della morte ragazzini che non sanno ancora cos’è la vita. È questo che rivela definitivamente che cos’è il Califfato, che cosa vuole, che idea ha della vita e della società: quando un’idea si disgrega si vede meglio cosa conteneva. Pag 3 La differenza vale anche nell’adozione di Carlo Bellieni Un uomo e una donna hanno identiche funzioni e attitudini dal punto di vista psicologico e biologico, in particolare all’interno di una famiglia? E’ una domanda di stringente attualità e medicina e biologia sono d’accordo: c’è qualcosa che nella profonda fisiologia

umana distingue l’uomo dalla donna. Domanda pressante e risposta non superflua, dato che oggi si sta parlando del miglior interesse del bambino nell’affidarlo a coppie di genere unico o di genere differente. Iniziamo spiegando che la diversità comportamentale che tutti notano tra uomini e donne non dipende solo dall’ambiente o dal vissuto individuale, dunque un uomo si può industriare a fare entrambi i ruoli, così come una donna; ma il risultato non sarà pari a quello di una diade uomodonna. Questa differenza, dovuta ai geni e ai differenti ormoni (i maschi hanno alto il testosterone mentre le femmine hanno alti livelli di estrogeni) determina le differenze attitudinali tra uomini e donne come constata, sull’autorevole rivista American Scientific, Doreen Kimura, psicologa: «Uomini e donne mostrano differenze comportamentali e cognitive che riflettono la differenza di influenze strutturali e ormonali». La professoressa Amber Ruigrok di Cambridge recentemente ha condotto un’analisi di tutti gli studi esistenti in merito e ha mostrato che certe aree importanti nella elaborazione delle sensazioni e della memoria come l’ippocampo e l’amigdala hanno dimensioni diverse nei due sessi. Gregory Jantz riporta su Psychology Today dei dati interessanti: oltre al già citato diverso formato di amigdala e ippocampo, c’è un centro del linguaggio localizzato bilateralmente nelle donne a differenza di quello maschile piazzato solo nell’emisfero sinistro, con oltretutto minori connessioni neurali tra questo centro e i centri delle emozioni. Questa differente connessione tra zone della memoria, del linguaggio e della emotività è annotata anche dalla professoressa Ashley Hill sulla rivista Biological Psychology e spiegherebbe le differenze sessuali in questi campi di comportamento. Una rivista specialistica, Biology of Sex Differences si concentra nel merito queste differenze e le spiega: sono differenze comportamentali, fisiologiche e di salute. Margareth MacCarty sul Journal of Neurosciences analizza le differenze comportamentali tra maschi e femmine delle varie specie, e annota che sono di tre generi: definite sin dall’inizio, progressive e in risposta a stimoli particolari, tra cui annovera la differente risposta al dolore, le differenze nell’accoppiamento, la differente risposta allo stress. Anche un nostro gruppo di studio ha riscontrato in uno studio sui bambini una diversa reazione al dolore tra maschi e femmine sin dalla nascita (Journal of Fetal, Maternal and Neonatal Medicine, 2014), ed è bel noto agli addetti ai lavori che alla nascita i bambini maschi hanno maggior fragilità rispetto alle bambine se vanno incontro a gravi malattie, probabilmente perché hanno un diverso sistema di reazione ai radicali liberi dell’ossigeno. Insomma, il sesso che abbiamo può non piacerci, ma c’è; è legato al fatto che ogni cellula del nostro corpo se è maschile ha un cromosoma Y, e femminile ha al suo posto un ben più grosso cromosoma X, e questo non può cambiarlo nessuno, nessun condizionamento, nessuna scelta. E il sesso determina la differenza in alcuni tratti della salute, del comportamento e della fisiologia. Ovviamente le differenze trovano delle eccezioni, ma queste non invalidano la legge generale e le sue manifestazioni nella media della popolazione. Quello che oggi si deve discutere invece è se la varietà di genitori in un’adozione sia migliore o peggiore della monotonia: sinora si è data una risposta prevalente e motivata, preferendo non affidare un bambino a un genitore single, non perché non sia in grado di accudirlo (ce ne sono di bravissimi), ma perché mancherebbe al bambino proprio questa varietà psicobiologica. Ma se la complementarietà sessuale è un 'di più' per un consiglio di amministrazione (vedi la costante richiesta di quote rosa anche per portare un apporto bilanciato di attitudini di genere), perché dovrebbe essere negata nel caso della famiglia che adotta un bambino, omologando famiglia monoparentale, quella con genitori di ugual sesso, e quella di genitori di sesso diverso? Dalla diversità e dalla complementarietà sessuale tutti hanno da arricchirsi, in particolare il figlio, che al trovarsi con due genitori di sesso diverso ha due attitudini psicobiologiche diverse, cioè viene educato ad una ampia gamma di comportamenti e anche a un rispetto 'del diverso', che vedrà attuato nel rispetto che un genitore di un sesso ha verso l’altro di sesso differente. IL GAZZETTINO di domenica 12 marzo 2017 Pag 1 I pericoli dell’uomo solo al comando di Romano Prodi Per qualche decennio abbiamo vissuto nella convinzione che il progresso della democrazia fosse inarrestabile. Nei Paesi che già adottavano un sistema democratico si pensava che i diritti e i poteri del cittadino fossero destinati a crescere, insieme alla

crescita di un sempre più stretto legame fra i cittadini stessi e i loro governi. Quando poi riflettevamo sugli Stati a regime autoritario o dittatoriale pensavamo che, in un tempo non infinito, si sarebbero anche loro incamminati verso un regime democratico, con una progressiva estensione dei processi elettorali. Osservando quanto sta accadendo oggi, questa sembra essere più la descrizione del secolo scorso che di questo in cui viviamo: la politica mondiale si orienta quasi ovunque verso un aumento e non una diminuzione della concentrazione del potere. E sempre più spesso con un crescente consenso e sostegno popolare. Vediamo come stanno le cose in giro per il mondo. In Cina tutti gli osservatori concordano sul fatto che il presidente Xi Jinping ha accentrato in sé una somma di poteri superiore a quella che nessuno dei suoi predecessori aveva accumulato negli ultimi trent'anni. Un'evoluzione simile si è verificata in Russia dopo la fine dell'Unione Sovietica. Parallelo è il cammino della politica turca, mentre la concentrazione del potere si fa strada anche in India e in molti altri paesi asiatici. Lo stesso avviene nel continente africano, indipendentemente dall'esistenza di formali consultazioni elettorali. Molti di noi hanno seguito con interesse e approvazione le statistiche dell'Onu che plaudivano all'aumento del numero di nazioni africane che finalmente avevano adottato un sistema di competizione elettorale, salvo poi accorgerci che le elezioni sono sempre più spesso servite per autorizzare il vincitore (o presunto tale) ad esercitare un potere personale assoluto sull'intero Paese. Tanto è vero che i conflitti politici più frequenti nel continente africano riguardano capi di Stato formalmente eletti che non vogliono scendere dal trono dopo la fine del mandato previsto dalla Costituzione. Negli Stati Uniti e in Europa le cose stanno diversamente ma il cammino procede nella stessa direzione, cioè verso l'accentuazione della delega del potere ad una singola persona e quindi verso una crescita della prospettiva autoritaria. Pag 19 Culle vuote e migranti, così l’Impero fu travolto di Carlo Nordio L'ultimo bollettino è allarmante: gli italiani fanno sempre meno bambini, le morti superano le nascite, la popolazione invecchia e il calo demografico sembra irreversibile. Dal primo dopoguerra in poi la popolazione era progressivamente aumentata: da 40 milioni a 50, poi a 60. Ora il trend si è invertito: è la fine di un inizio, o e l'inizio della fine? Perché il primo sintomo della decadenza di una civiltà è proprio questo saldo negativo. Come insegna l'esempio dell'Impero Romano. Edward Gibbon, il più famoso e autorevole storico del settore, addebitò al cristianesimo la colpa principale della sua rovina. In realtà l'illustre erudito fece un'analisi molto più complessa, dove anche la crisi delle nascite teneva una parte importante. Tuttavia il suo disappunto verso una Religione che aveva rammollito (così sosteneva) l'energia vitale dei romani con il suo pacifismo rinunciatario e asociale, era tale da ispirargli questa requisitoria severa e ingiustificata. Egli trascurò il fatto che il cristianesimo si inserì in un vuoto morale determinato proprio dal tramonto dell'austera religione pagana. Il suo trionfo fu l'effetto, non la causa della disgregazione dell'impero, che si consumò in una lenta agonia cui posero fine le invasioni barbariche. Invasioni che tre secoli prima sarebbero state respinte con facilità: ma ormai i romani non erano più romani. Rinunciando ai figli, avevano rinunciato a Roma. Questa tesi fu esposta l'anno scorso da Michel de Jaeghere, direttore del Figaro Histoire, in un lungo saggio sui Derniers jours dell'Impero. Era una tesi controcorrente, che smentiva non solo le conclusioni di Gibbon, ma tutta quella letteratura vagamente marxista che, nel suo limitato orizzonte ideologico, non riusciva a svincolarsi dai fattori economici come criterio interpretativo di ogni evento umano. Tuttavia non era affatto una tesi nuova. Will Durant, nel suo terzo volume sulla Story of civilisation, l'aveva esposta 50 anni prima con la sua consueta efficacia, indicando anche le cause del declino demografico: le pratiche anticoncezionali, la riduzione e i ritardi dei matrimoni, l'omosessualità dilagante, l'aborto e l'infanticidio. «Il carattere virile scrisse - che si era formato alle durezze della vita semplice e a una religione che era stata un valido sostegno morale, andava rilassandosi nello splendore della ricchezza e nella licenza della miscredenza». Il linguaggio è solenne, ma la diagnosi è amara. SCETTICO - Durant era uno scettico orientato all'agnosticismo, ma riconosceva l'enorme importanza della religione come vincolo di idee, di speranze e di valori. E, come altri prima e dopo di lui, pensava che fosse l'unico vero collante di una società organizzata. Questo a noi può sembrare assurdo, perché la secolarizzazione ha colpito tutti, anche la stessa Chiesa. Ma

a ben vedere siamo sempre lì. Oggi forse l'unica religione vitale è l'islamismo, e noi ci stupiamo della sua aggressività. Ma in realtà non c'è niente da stupirsi. Duemila anni fa i cristiani, a parte gli attentati terroristici, avevano davanti alla morte lo stesso atteggiamento dell'Isis. Molti si autodenunciavano per poter testimoniare con il martirio la propria fede. FLUSSO - Ma torniamo alla crisi demografica dell'Impero. La sua conseguenza più immediata fu la progressiva sostituzione del popolo romano con una pletora incontrollata di immigrati da ogni dove. Questa invasione era cominciata molto prima, con il flusso ininterrotto di schiavi frutto delle vittorie militari; tuttavia non aveva mai costituito un problema ( a parte qualche rivolta) perché sin trattava di elementi estranei al corpo sociale. Per quanto numerosi, i medici greci, i lavoratori traci, via via fino alle le bajadere siriache erano un po' come le loro divinità: a Roma c'era posto per tutti, purché si rendesse omaggio all'Imperatore. Tuttavia, quando i romani, affaticati dal benessere, smisero di fare i lavori che ritenevano umili, o comunque stressanti, questo flusso aumentò, e portò con sé gli usi, i costumi, le superstizioni e i riti delle rispettive culture. A poco a poco queste novità minarono l'identità romana, fino a sostituirla con un vuoto ideale dove germinarono gli atteggiamenti più nichilisti. Fu in questa atmosfera di decadenza estetizzante e di debauche baudelairiana che l'Impero si privò della sua economia, del suo esercito, delle sue energie e dei suoi bambini. Un po' come la snervata Venezia davanti a Napoleone, anche Roma aprì le porte ai barbari perché nessuno aveva voglia di difenderle. Naturalmente questa tesi potrebbe essere letta in modo simmetrico: nel senso che la crisi demografica fu l'effetto delle altre patologie di quell'elefantiaco organismo: le pestilenze, le guerre civili, il cambiamento ambientale, la pressione burocratica e fiscale ecc. Tutte circostanze che avrebbero scoraggiato i potenziali genitori. Ma non è così. Le difficoltà economiche e sociali non hanno mai ostacolato le nascite. Al contrario: i poverissimi paesi dell'Africa hanno moltiplicato la popolazione proprio perché la mortalità è diminuita e la prolificità è rimasta inalterata nonostante le guerre, la siccità e la fame. E tra le macerie della seconda guerra mondiale i nostri padri e nonni incrementarono la popolazione più di ogni altro periodo storico. In realtà i bambini non nascono più quando i genitori pensano al proprio presente, e rinunciano a sperare nell'avvenire. Può darsi che sia una legge di Natura, in fondo nulla al mondo è eterno. Ma trovarcisi dentro non è un affare piacevole. Questo dubbio ci ispira l'ultima domanda: è possibile evitare questo tracollo? O dobbiamo limitarci ad assistere, con rassegnato scetticismo, al suo compimento? Naturalmente una risposta non c'è, perché le vicende dello spirito umano sono libere, e quindi imprevedibili. Tuttavia, vedendo i precedenti, possiamo almeno limitare gli errori, o comunque comprenderne le conseguenze. L'errore, ovviamente, non sta nel crollo demografico in quanto tale: nessuno può costringere i genitori a procreare contro la propria volontà. Occorre risalire alle cause, e queste sono, a nostro avviso, essenzialmente ideali. Sono l'attitudine subalterna alle altre culture, la resa contrabbandata come tolleranza, il relativismo autodistruttivo dell'indifferenza delle scelte, e infine la rassegnazione codarda a non difendere la nostra storia. Una volta abbandonato questo retroterra culturale e civile non c'è sussidio statale, non ci sono asili nido, né incentivi fiscali che tengano; anche i romani ci provarono con gli alimenta alle famiglie riluttanti, e non funzionò. L'impulso generoso alla perpetuazione della specie si affievolisce e poi si spegne, quando non si crede più nel patrimonio del passato, e nei suoi frutti futuri. Così finiscono, o si trasformano, le nostre civiltà. LA NUOVA di domenica 12 marzo 2017 Pag 1 L’Olanda va alle urne, trema la Ue di Stefano Del Re Mercoledì prossimo 15 marzo gli olandesi andranno alle urne. Un evento quasi sempre passato inosservato nel resto del mondo, oggi diventa il primo atto di un dramma che in pochi mesi deciderà la sorte dell’Europa e il futuro dell’Unione. «Per decenni le elezioni olandesi sono state l’evento più noioso di tutto il continente Europa», ha scritto sul “Guardian” il politologo olandese Cas Mudde che insegna Affari internazionali negli Usa all’Università della Georgia. Oggi il voto alle legislative di mercoledì 15 aprile, «qualunque sia il risultato», diventa il prologo di elezioni decisive per tutta l’Europa, a cominciare da quelle francesi del 23 aprile prossimo e per finire con quelle tedesche (e forse italiane) del prossimo autunno. Dopo lo choc della Brexit, in Olanda può accadere

che un partito populista e xenofobo, il Pvv o Partito della Libertà, ferocemente anti Islam e anti Europa - ora testa a testa col Vvd, il partito liberale al governo del premier Mark Rutte - possa diventare primo partito. Il suo leader Geert Wilders, 53 anni, dai capelli biondi ossigenati a mascherare - dicono i suoi detrattori - lontane origini indonesiane e addirittura una nonna musulmana - è in realtà un Trump ante-litteram, anzi per il sito americano Politico «è l'uomo che ha inventato Trump». In effetti, molto prima del presidente Usa ha dominato la politica olandese a colpi di tweet, molto prima di lui ha attaccato l’Islam... Il Corano? «È il Mein Kampf». I figli degli immigrati? «Terroristi di strada». Le moschee? «Palazzi dell’odio». Insieme all’Islam, Wilders non tollera l’Europa, contro la quale chiede un referendum. Wilders interpreta un one man show permanente, più di Grillo. E molto meglio del comico genovese ha risolto ogni problema di leadership all’interno del suo partito: un partito che ha l’appoggio di un olandese su sei e 12 deputati. E un unico membro: lui. Che cosa è successo all’Olanda felice, tollerante ed ospitale di una volta? L’economia sembra la risposta più ovvia. Eppure gli olandesi sono ancora uno dei paesi occidentali più ricchi: hanno il terzo reddito pro capite dell’Unione europea e hanno un invidiabile tasso di disoccupazione poco sopra il 5 per cento. Parte della colpa del disincanto olandese, è certamente dovuta all’austerità: anche gli olandesi hanno dovuto sacrificare il proprio bilancio pubblico sull’altare del Fiscal Compact tagliando il Welfare. Colpa dell’Europa insomma. È in questo ambito che si è inserito Wilders. Che vuole un referendum per abbandonarla. Per decenni gli olandesi hanno votato tutta la vita per lo stesso partito, dividendosi tra i cristiano democratici (Cda), i social democratici (PvdA) e i conservatori (Vvd). Fino al 2001 quando lo choc dell’attacco alle Torri gemelle di New York provocò l’ascesa di un politico gay provocatore e populista, Pym Fortuyn, che fece campagna contro l’Islam e finì assassinato da un militante animalista. Il messaggio di Fortuyn e la sua morte violenta cambiarono per sempre il panorama politico della tranquilla Olanda. Per fortuna il sistema elettorale olandese impedirà quasi certamente a Wilders, anche se dovesse vincere, di andare al governo. In Olanda si vota con il proporzionale puro. I partiti in lizza sono diciotto - c’è perfino, amenità della democrazia, un partito del non voto. I partiti storici sono in caduta libera. In forte ascesa, oltre al Pvv i Verdi condotti dal giovane Jesse Klaver. Per ottenere la maggioranza dei 150 seggi è dunque obbligatoria una coalizione. Secondo i sondaggi Wilders potrebbe ottenere 26 seggi, Rutte 25. Tutti gli altri partiti hanno solennemente annunciato che non si coalizzeranno mai con gli xenofobi. Ma in politica, mai dire mai. Pag 1 La svolta per essere competitivi di Franco A. Grassini In un mondo che è molto globalizzato e che molto probabilmente, non ostante Trump e Salvini, continuerà a rimanere tale, essere competitivi è una necessità. Per questo è di grande interesse che ogni anno l’Istat pubblichi un lungo rapporto in materia. Quello uscito giorni addietro mette in luce una serie di fatti molto importanti. Quello spesso ignorato è che la nostra posizione nel settore manifatturiero non è da disprezzare, nei servizi oltre ad essere deboli arretriamo. Nel primo di questi comparti la quota italiana sulle esportazioni mondiali, che nel 2013 era scesa al 2,7%, lo scorso anno pare aver sfiorato il 3%. Nel secondo, invece, dove la nostra quota era nel 2005 del 3,9% , nel 2015 era diminuita al 2,1% e siamo stati superati dalla Spagna. Secondo l’Istat una possibile spiegazione di tale diversità è probabilmente da attribuire alla diversa partecipazione alle catene internazionali del valore. Queste paiono superabili quando il prodotto ha peculiari caratteristiche, come mostra il successo delle nostre esportazioni di prodotti alimentari da parte di aziende piccole. Si tratta, per altro, di casi particolari. Di norma la dimensione è un fattore importante nel senso che in quasi tutti gli ambiti ve ne è una minima al di sotto della quale non si può dar vita a quelle che Vittorio Merloni definì multinazionali tascabili. Non a caso le esportazioni sono andate meglio nei settori ove sono presenti economie di scala, elevato contenuto tecnologico e maggiori propensioni all’export. Molto, tuttavia, dipende dalle scelte aziendali. E qui veniamo all’essenza del problema. L’Istat ha stimato che nel 2014, il primo anno di parziale ripresa, il 32% del valore aggiunto italiano fosse stato prodotto da imprese sane, il 47% da imprese fragili ed il 21% da imprese a rischio. Se vogliamo restare competitivi è necessario rafforzare le aziende delle prime due categorie ed evitare la scomparsa di

quelle dell’ultima. Le misure di industria 4.0 portate avanti dai governi Renzi e Gentiloni sono molto positive, ma non bastano. È quasi impossibile che quelle fragili si risanino da sole, perché sono diventate tali per gli errori di chi le governa. In un’economia di mercato non si possono espropriare i proprietari, ma è possibile dire alle banche di chiedere, in un periodo ragionevole, di restituire i prestiti concessi e contemporaneamente dare incentivi fiscali e finanziari a chi le rilevasse. Non tutte ovviamente potrebbero essere risanate, ma anche assumendo che metà lo sia dimezzeremmo i pericoli di riduzione della produzione e dell’occupazione e accresceremmo la nostra competitività. Certo occorre molto coraggio, ma senza questo non si va lontano. Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di sabato 11 marzo 2017 Pag 1 Il partito che chiede fedeltà di Massimo Franco Il leader e i Dem Il Lingotto di Torino ieri è stato il palcoscenico della metamorfosi del Pd, prima ancora che del suo rilancio. Ha rispecchiato lo sforzo di un partito che tenta di aprirsi ai problemi dell’Italia ma sembra condannato a scaricare all’esterno le contraddizioni e i limiti della propria azione; e a far coincidere la propria identità e la propria strategia con quella di un leader colpito dalla sconfitta referendaria del 4 dicembre, eppure tuttora insostituibile e vincente: almeno all’interno dei giochi congressuali. Il risultato, almeno per quanto si sta vedendo, è quello di una cavalcata senza ripensamenti del segretario uscente. L’ambizione, lodevole, rimane quella di discutere di tutto, di «fare le pulci» agli ultimi tre anni, e di iniettare un po’ di collegialità nelle decisioni. Ma è difficile che sia soddisfatta pienamente. Le parole dette ieri pomeriggio da Matteo Renzi tendono a riproporre la vittoria ormai lontana alle Europee del 2014 come biglietto da visita. Attaccano il Pd dei predecessori, da Walter Veltroni a Pier Luigi Bersani, teorici del «partito leggero» e del «partito pesante», opposto al renziano «partito pensante». Il tentativo è di riscrivere la storia politica recente liquidando anche i predecessori a Palazzo Chigi come subalterni a un’Unione Europea tratteggiata con severità: in parte una conseguenza dell’amarezza per il peggioramento dei rapporti con la Commissione negli ultimi mesi dell’ex premier al governo. Ne viene fuori un’analisi molto orgogliosa e avara di spunti autocritici: forse perché altrimenti obbligherebbe a una disamina impietosa degli errori commessi. Ma è un approccio comprensibile: una nomenklatura sulla difensiva, proiettata sulle elezioni amministrative di primavera e su quelle politiche del 2018, non può concedere più di tanto agli avversari. Dovrebbe rivoluzionare la propria strategia, mentre finora lo schema è stato quello della «linea giusta» guastata da qualche errore e dall’ostilità della minoranza . Per questo, è bene seguire la tre giorni torinese con occhi freddi; e capire che si inizia un’altra fase di passaggio, per il Pd. Bisogna dunque contemplare la possibilità di assistere a un dibattito calibrato sul «modello Leopolda»: su logiche di adesione quasi acritica alle indicazioni del leader. Non bastano i «tavoli di lavoro» sugli argomenti più disparati e suggestivi a cancellare questa sensazione di fedeltà a una politica che non consente deviazioni. È possibile perfino un indurimento di fronte alle critiche, dal momento che secondo Renzi «chi spara contro il Pd indebolisce l’argine del sistema democratico» . Che il partito di maggioranza lo sia è indubbio. Ma la scissione e la difficoltà a capire quanto è accaduto col referendum, e l’appoggio altalenante a Paolo Gentiloni e al suo governo, rischiano di infragilire questo argine: sebbene ieri l’appoggio al premier sia apparso più convinto e determinato del solito. Per il momento in cui cade la kermesse renziana, non si può chiedere molto di più. La frattura tra i Dem, le inchieste della magistratura che lambiscono la cerchia dell’ex premier, l’asprezza della discussione con gli altri due candidati alla segreteria, non sono le premesse ottimali di un dibattito aperto . Quasi per forza di inerzia non può che prevalere il «serriamo le fila», e un attacco agli avversari comprensibile per la fase convulsa che il renzismo vive. Risultato: più che un’«Arca di Noè» inclusiva e aperta, si delinea un Pd incline a imitare la «testuggine romana». Si tratta di una formazione di fanti magari non troppo grande ma compatta e pronta alla mischia. Rimane il dubbio che tutto questo possa ricostruire il ruolo del Pd di qui alle urne come perno politico del

Paese. È come se il partito faticasse ancora a vedere quanto negli ultimi mesi gli sia diventato difficile espandersi e attirare elettori; e quanto, invece di unire, rischi di chiudersi a riccio e di dividersi ancora, anche al proprio interno. C’è da sperare in un cambio di passo tale da non farlo diventare terreno di caccia dei movimenti populisti, e serbatoio dell’astensionismo. Al di là delle parole d’ordine ufficiali, dal Lingotto potrebbe riemergere un Pd che non segue una logica maggioritaria e aggregante . Diventa invece il campione involontario del ritorno al sistema proporzionale, che pure critica. Eppure, Renzi e i suoi non hanno rinunciato all’idea di una vittoria sul Movimento 5 Stelle. Né si può pensare che si preparino solo a arrivare in Parlamento con una forza omogenea e fedele, decisa a trattare e a far pesare i suoi deputati e senatori, tanti o pochi che siano. Sarebbe ingiusto imputare questo minimalismo a un Renzi tuttora corazzato di certezze. Molti lo hanno assecondato e continuano a seguirlo perché non riescono a vedere un’alternativa, e ritengono che sia l’unico segretario in grado di garantire loro la sopravvivenza, se non nuove vittorie. Il virus della divisione, tuttavia, è insidioso. Sarebbe un dramma se da Torino arrivasse la vulgata che l’unico Pd è quello ubbidiente a Renzi. Significherebbe incubare, presto o tardi, altre fratture; e ridurre la «testuggine romana» a un guscio sottile: in termini di contenuti, prima che di voti. Sicuramente, non è l’obiettivo che il gruppo dirigente si prefigge. Pag 1 E ora nei 5 Stelle si discute (anche) delle alleanze di Francesco Verderami Per quanto siano l’unica forza a vocazione maggioritaria, i Cinquestelle sanno che per guidare il Paese non basterà un programma, un candidato premier e una squadra di governo. Non basterà nemmeno vincere le elezioni. Perciò preparano la svolta. È tutto in divenire, è un processo lento, è la maturazione di un ragionamento dopo discussioni accese nel Movimento. È una frase che Di Maio ripete da qualche tempo alle riunioni: «Se arriveremo primi, dovremo dimostrare di essere una forza di governo capace di coalizzare in Parlamento». Un concetto rivoluzionario per chi ha difeso in questi anni l’identità con l’isolamento. Ma l’isolamento potrebbe essere sinonimo di fallimento nella prossima legislatura, se i Cinquestelle vincessero nelle urne e poi non riuscissero a varcare il portone di palazzo Chigi. È quindi necessario che il nodo delle alleanze venga sciolto, siccome non può essere tagliato. «Coalizzare» altre forze in Parlamento sarà inevitabile per il Movimento, uno stato di necessità dettato dal sistema tripolare e dai due modelli elettorali di Camera e Senato che - questa è la previsione dei grillini - non verranno riformati e forse nemmeno armonizzati. A quel punto, senza una maggioranza autosufficiente «dovremmo assumerci la responsabilità di ricercare un’intesa per evitare il vuoto», sostiene Di Maio, che per superare ostilità e scetticismo scarta «le logiche di transazione del passato» e assicura che «sperimenteremmo nuovi strumenti di dialogo parlamentare». «Avverrebbe tutto alla luce del sole», «non faremmo accordi sui ministeri», «verificheremmo solo se c’è la compatibilità di altri gruppi con il nostro programma», ripete il vice presidente di Montecitorio: parole d’ordine che servono a tutelare l’identità, ad attutire il colpo e ad esorcizzare la nemesi. Perché c’è il rischio che i grillini subiscano ciò che subì Bersani per mano loro nel 2013, sebbene quella proposta sia stata sempre derubricata come «un generico tentativo di far partire un modesto governo». E alla sfida di governo i Cinquestelle si stanno preparando, così da essere pronti in autunno: l’approssimazione con cui si è gestita la vittoria a Roma ha offerto un’immagine di inaffidabilità che pesa e che andrà cancellata. Perciò, oltre al nodo delle alleanze, andranno risolti alcuni aspetti del programma: dal rapporto con l’Europa alla moneta unica, fino all’immigrazione. Temi sensibili, sui quali i Cinquestelle sono stati agevolati dal fatto che non ci sono state le elezioni anticipate: in quel caso avrebbero dovuto assumere una linea sull’Unione e sull’euro e uscire dalle loro evidenti contraddizioni. Invece le urne in Italia si dovrebbero aprire dopo che sono state chiuse in Germania e soprattutto in Francia. È a Berlino e Parigi che si deciderà il destino dell’Europa, dalla quale peraltro il Movimento non intende uscire. Anzi i grillini guarderebbero con favore al modello delle «due velocità», e sull’immigrazione punterebbero al rispetto degli accordi sulla redistribuzione dei profughi. Quanto al referendum sull’euro resterebbe un manifesto propagandistico, dato che servirebbe una legge costituzionale per poter avviare la consultazione popolare. Per redigere il programma i Cinquestelle starebbero facendo affidamento sulla collaborazione di

personalità che - secondo fonti accreditate - avrebbero «un rilievo in Italia e in Europa». I loro nomi vengono preservati dalla pubblicità e dalle polemiche, anche perché potrebbero far parte della squadra di governo. E proprio la presenza di questi personaggi agevolerebbe la strategia delle «mani tese» in Parlamento, perché sarebbero figure in grado di «parlare» alle altre forze politiche, rendendo meno complicato il tentativo grillino di «coalizzare» e di costruire così una maggioranza per la fiducia. È in questo quadro, contando sull’operato del Quirinale per evitare il fallimento della legislatura e scommettendo sullo spirito di sopravvivenza dei parlamentari, che i Cinquestelle sembrano approssimarsi alla svolta. Per quanto la dialettica tra l’ala governista e l’ala movimentista continui, non c’è dubbio che Casaleggio abbia preso posizione. E forse lo stesso Grillo. Lo spostamento dell’orizzonte elettorale aiuta a costruire la svolta, che sarà inevitabile. O la vittoria nelle urne potrebbe rivelarsi la più cocente delle sconfitte. AVVENIRE di sabato 11 marzo 2017 Pag 1 La porta stretta di Giorgio Ferrari Geometrie e velocità d’Europa L’Europa a due velocità esiste già da molto tempo. L’importante – per lo meno fino a ieri – era negarne l’evidenza mascherandone la fisionomia dietro l’elegante espressione di 'Europa a geometria variabile'. Oggi, alla vigilia delle celebrazioni per il sessantesimo anniversario dell’Unione e dei Trattati di Roma che nel 1957 istituirono la Comunità Economica Europea e la Comunità Europea dell’Energia Atomica e all’indomani del summit a quattro di Versailles fra François Hollande, Angela Merkel, Mariano Rajoy e il premier italiano Paolo Gentiloni, la nozione sta per guadagnarsi una sorta di salvacondotto, se non ancora un vero e proprio diritto di cittadinanza. Del resto, come dovremmo definire un club di nazioni che annovera fra i suoi membri Paesi che hanno adottato l’euro mentre altri (la Bulgaria, la Croazia, la Danimarca, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Romania, la Svezia e il Regno Unito) hanno preferito conservare la propria valuta nazionale, membri che aderiscono alla Convenzione di Schengen ed altri (Irlanda e Regno Unito) che non l’hanno applicata, mentre altri ancora vi hanno aderito (Croazia, Cipro, Romania, Bulgaria) pur non avendo tutte le carte in regola? Le stesse 'cooperazioni rafforzate' – procedure decisionali che consentono a gruppi minoritari di Stati membri di integrare politiche di comune interesse senza coinvolgere gli altri partner europei – sono, a loro modo, una variante dell’Europa a due velocità. Accettarne l’ineluttabilità è un sano esercizio di realismo, ma non illudiamoci: non tutti sono d’accordo e con molte buone ragioni. Se 'a due velocità' significa separare l’Europa dei forti da quella dei deboli, quella dei ricchi da quella dei poveri, quella dei Paesi più avanzati rispetto a quella dei meno dotati siamo già sulla strada sbagliata. L’Unione Europea già sovrabbonda di divisioni, di spinte centrifughe e di chimere separatiste: la Brexit britannica, l’insorgenza epidemica dei populismi vissuti come la reazione dell’anticorpo popolare nei confronti delle élite e dell’Europa à la carte, la rancorosa disputa sui migranti, i tanti muri che s’innalzano in nome degli egoismi nazionali e di un malinteso senso della purezza etnica (quanti richiami al Blut und Boden – 'sangue e suolo', di cupa reminiscenza germanica – si sono uditi in questi mesi in troppe contrade d’Europa!) bastano a indicarci che la l’unica via di sopravvivenza dell’Unione Europea è quella dell’unità, non delle divisioni. «La scelta di proseguire nella strada di una Ue a più velocità – dice bene Gentiloni – è una direzione di marcia necessaria, perché consente, laddove ci sia un’intesa tra singoli Paesi, di fare dei passi avanti e non obbliga ad evitare i passi avanti perché anche un solo Paese è contrario. Ma questa scelta la si fa nell’ambito dei Trattati, senza scegliersi i Paesi, ma consentendo a tutti di aderire a questi esempi di cooperazione più forte e strutturata e tantomeno con una logica di esclusione». I timori, è chiaro, ci sono. Sono quelli dei piccoli Paesi, del gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia: essi stessi, di fatto, un roccioso quartetto di cooperanti in campo economico, scientifico e culturale), di chi teme che l’Unione che verrà dopo l’uscita del Regno Unito sia un affare fra quattro o cinque grandi nazioni a scapito di tutte le altre. «Non si tratta – dice Hollande – di escludere chicchessia: tuttavia su sicurezza, difesa, occupazione, gioventù e cultura alcuni Paesi hanno il diritto di camminare più rapidamente». Gli stessi 'grandi' – Francia, Germania e Italia più Spagna e Polonia – non sono affatto d’accordo su tutti i capitoli. La strada

stessa che porta a Roma, a sessant’anni da quella firma che celebrò la vera nascita dell’Europa uscita dalla Seconda guerra mondiale, è lastricata di rinunce. Ciascuno teme di perdere quote significative di sovranità, di mettere mano al sistema bancario, di dover ridurre drasticamente il proprio debito pubblico. Ma è solo passando per quella porta stretta che si potrà disegnare l’Europa di domani, con le sue quattro grandi priorità: gestione dei flussi di migranti, difesa comune, sviluppo (e fisco) sostenibile, politiche del lavoro. Un’Europa, cioè, finalmente dei cittadini. Pag 2 Questa strana Italia tra Paperoni e Paperini di Lorenzo Pecchi e Gustavo Piga Flat tax per ricchi e sazi, chiusure per giovani e affamati E così arriva anche in Italia la flax tax per le persone fisiche straniere e anche per i cittadini italiani che sono residenti all’estero in Stati fiscalmente privilegiati che decidono di trasferire la loro residenza in Italia. In contropartita sarà sufficiente che versino al fisco italiano 100mila euro. Un Paperone che ha un patrimonio di 100 milioni all’estero che gli frutta 3 milioni l’anno potrà risiedere in Italia con una aliquota fiscale pari al 3,3% l’anno (100.000 su 3 milioni), quando ogni cittadino paga sugli stessi redditi da capitale un’aliquota del 26%. C’è chi viene, c’è chi va. Il 24 agosto dello scorso anno l’Italia ha rispedito 48 “irregolari” nel Sudan di al–Bashir, ritenuto una delle peggiori dittature esistenti al mondo. Su al–Bashir pende un mandato di cattura emesso dalla Corte Penale internazionale per genocidio e crimini contro l’umanità nel conflitto in Darfur. Nonostante questo le autorità italiane non sembrano vergognarsi di negoziare e fare accordi con personaggi di queste specie pur di rimpatriare i cosidetti “irregolari”. Cinque cittadini sudanesi rimpatriati e provenienti dal Darfur hanno fatto ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. L’Italia rischia ora un’altra condanna come accadde nel 2012 per i respingimenti verso la Libia. Per i cinque sudanesi l’Italia avrebbe violato il principio di non–refoulement per cui nessuno Stato può respingere rifugiati verso territori dove la loro vita o libertà sarebbero minacciate per motivi di razza, religione o opinioni politiche. Sfortunati Paperini. Viviamo dunque in uno Stato dove i milionari che si nascondo nei paradisi fiscali vengono premiati ed attratti mentre persone che cercano una speranza di vita, che fuggono dalla miseria e dalla tirannia, vengono penalizzate e respinte. Forse lo facciamo per i 100mila euro del Paperone. Eppure a pensarci bene basterebbero poco più di 20 Paperini, 20 immigrati impiegati principalmente in lavori che in questo Paese nessun vuol più fare, per far entrare nelle casse dello Stato 100mila euro l’anno. Ma non porterebbero solo soldi al fisco italiano, porterebbero le loro storie, le loro diversità, la loro imprenditorialità, la loro voglia di fare e di futuro in una società che sta sempre più invecchiando. Migliorerebbero la nostra claudicante demografia, con tanti Qui, Quo, Qua. Le loro prospettive ed esperienze diverse non potrebbero che generare nuove idee. I più grandi inventori, Archimedi Pitagorici, sono quasi sempre i figli di immigrati. I loro contatti creerebbero nuovi ponti e opportunità per il commercio. Ed invece a quei cento immigrati preferiamo un vecchio milionario che fugge solo come un Pluto braccato per proteggere il suo patrimonio e che al più spenderà qualche spicciolo in via Monte Napoleone o in Via Condotti. Cosa possiamo aspettarci per il futuro? Pag 3 Germania, per le elezioni la Spd si rimette a sinistra di Giovanni Maria Del Re L’arrivo di Schulz rianima il partito, dopo anni di crisi Per la socialdemocrazia tedesca il 2017 potrebbe essere un anno di svolta. Certo è che con l’arrivo di Martin Schulz come candidato alla cancelleria, lo storico partito che fu di Willy Brandt e Helmut Schmidt – considerati i più grandi politici tedeschi insieme a Konrad Adenauer e, in parte, Helmut Kohl – appare percorso da un brivido nuovo, dopo troppi anni in cui languiva in uno stato di depressione e costante perdita di consensi. Una crescente debolezza unita a una crisi di identità, favorita da otto anni di «abbraccio mortale» nella grande coalizione con la Cdu della cancelliera Angela Merkel, giunta al dodicesimo anno al potere. Se alle politiche del prossimo 24 settembre dovesse vincere e ottenere altri quattro mandati, Merkel raggiungerebbe il record dei sedici anni di Helmut Kohl. Nonostante le critiche interne e la perdita di consensi per la politica

migratoria, fino all’arrivo dell’ex presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz, in effetti la vittoria di Merkel appariva scontata: la Spd guidato dal vice cancelliere Sigmar Gabriel era intorno al 22%, oltre dieci punti sotto la Cdu di Merkel, un divario incolmabile. Al punto che vari commentatori si sono chiesti se la Spd possa esser ancora definito Volkspartei, l’espressione tipicamente tedesca per indicare i «partiti del popolo», che noi chiameremmo partiti di massa. Solo che Gabriel, controverso e poco popolare presidente del partito, ha capito che in gioco era il futuro della socialdemocrazia tedesca, e anche molto di più, visto che l’unica vera alternativa alla Merkel appariva o l’estrema destra di AfD, o l’estrema sinistra di Die Linke. Ed ecco il colpo di scena, Gabriel si fa da parte, arriva Schulz, un signore che qualche giornale scherzosamente ha definito «una rock star con la barbetta, la pelata e gli occhiali». Nel giro di pochi giorni la Spd è schizzato di dieci punti, qualche giorno fa era dato addirittura al di sopra della Cdu, negli ultimissimi sondaggi è alla pari. E’ il «miracolo» di Schulz, anche se nessuno sa quanto - e se - durerà fino al 24 settembre. Il punto è che l’ex presidente del Parlamento Europeo, 61 anni, con un passato da alcolizzato, libraio, sindaco della sua piccola Würselen (cittadina di 36.000 abitanti in Vestfalia), figlio di un semplice poliziotto, è riuscito a ridare al suo partito qualcosa che la Spd aveva perso da anni: entusiasmo e mobilitazione. Certo, l’aiuta la paura per l’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump (e del suo consigliere dell’ultra destra nazionalista Steve Bannon). Conta però anche la passione che emana nei suoi discorsi come la sterzata a sinistra che sta cercando di dare alla Spd, in (parziale) rottura con la linea degli ultimi anni. La parola chiave: giustizia sociale, il cuore della socialdemocrazia tedesca (e non solo). Per molti iscritti è un ritorno alle radici, un recupero dell’identità perduta. La crisi della Spd parte da lontano, già nell’era di Kohl il partito si era indebolito. Per molti, però, il «colpo di grazia» - paradossalmente - è arrivato proprio dall’uomo che riporto la Spd in cancelleria, Gerhard Schöder (cancelliere dal 1998 al 2005). È un vecchio adagio che solitamente sono i partiti di sinistra a dover fare politiche «di destra», ed è stato un po’ il caso con l’Agenda 2010 lanciata da Schröder nel 2003 e cui un po’ tutti attribuiscono il merito di aver rilanciato l’occupazione, mentre nel 1998 la Germania era definita «il malato d’Europa» con quasi sei milioni di disoccupati. A giudicare dalla situazione attuale, con appena il 4,1% di disoccupati, l’agenda ha funzionato. Solo che è stata drastica: riduzione dei sussidi di disoccupazione con la limitazione a soli 12 mesi, maggiore severità con i disoccupati (con abbassamento della soglia di accettabilità dell’offerta di nuovi posti di lavoro, che possono essere di livello molto inferiore a quello precedentemente avuto). E poi riduzione della protezione dai licenziamenti, liberalizzazione di molti mestieri prima regolati da appositi ordini con tanto di titolo. Già nel 2002 era partita la riforma firmata, su incarico di Schröder, dell’ex manager della Volkswagen Peter Hartz che prevede integrazioni salariali per spingere i disoccupati soprattutto di lunga data ad accettare lavori di pubblica utilità. Il punto è che l’Agenda 2010 è stata percepita come durissima soprattutto dai ceti medio bassi, e la Spd ha perso enormemente consensi soprattutto nel suo elettorato storico, a cominciare da disoccupati e operai, molti dei quali si sono rivolti da ultimo alla destra nazionalista e anti-Ue dell’AfD (Alternative für Deutschland) o hanno scelto l’astensione. La politica riformatrice di Schröder provocò anche violenti liti interne al partito, quasi subito si dimise dalla Spd e dalla carica di ministro delle Finanze Oskar Lafontaine, poi vi fu la clamorosa scissione del gruppo della Wasg (un gruppo creato da transfughi della Spd in disaccordo con Schröder), tutti poi confluiti con la Pds, erede dei comunisti della Germania Est, a creare il partito di estrema sinistra Die Linke. Non stupisce che Schulz abbia preso di mira proprio l’Agenda 2010. Ad esempio garantendo un allungamento del versamento del sussidio di disoccupazione, la riduzione della possibilità di ricorso ai posti di lavoro a tempo determinato, o ancora il rafforzamento della protezione dal licenziamento. «Fare errori - ha tuonato Schulz non è una vergogna. Importante è riconoscerli, e correggerli». «Una scelta che gli porterà vantaggi commenta il politologo Oskar Niedermeyer su NTv - una parte del partito era ostile fin dall’inizio all’Agenda 2010, allora la Spd perse i sindacati e molti elettori». Sul tema insiste Schulz a ogni piè sospinto, «dobbiamo rafforzare la tassazione dei grandi patrimoni - ha detto di recente - la gente che guadagna i suoi soldi con duro lavoro non può esser svantaggiata rispetto di chi semplicemente lascia lavorare il suo capitale». U na cosa è chiara: la Spd ha urgente bisogno di differenziarsi dalla Cdu, dopo anni di grande coalizione. E soprattutto dopo che Angela Merkel ha fatto propri tanti temi del

centro-sinistra: dall’accoglienza per i migranti all’abbandono del nucleare, dal salario minimo (introdotto, a onor del vero, grazie alle pressioni Spd), al sostegno all’occupazione delle donne, più asili e altri. «Se la signora Merkel - ha commentato Schulz - fa politica con una profonda impronta socialdemocratica, va benissimo. Ma allora i cittadini dovrebbero preferire l’originale, e questo sono io». Schulz, dice Rudolf Korte, politologo dell’Università di Duisburg-Essen a Ard, «tocca temi che preoccupano tantissime persone, lascia pensare che si occupa davvero della gente, a differenza di tanti altri politici». Altri candidati socialdemocratici, Frank-Walter Steinmeier prima, Peer Steinbrück poi, hanno perso anche perché erano percepiti come troppo legati all’establishment, troppo distaccati dal cittadino comune. Schulz, a parte la parentesi di sindaco di Würselen, non ha mai fatto politica in Germania, e dunque è percepito come «uomo nuovo». Con una sterzata a sinistra, il ritorno ai «valori storici» della Spd. Se questo gioverà o meno al paese, è un’altra storia. IL GAZZETTINO di sabato 11 marzo 2017 Pag 1 I leader politici “prigionieri” del paradosso italiano di Marco Gervasoni Quando Emmanuel Macron era «semplice» ministro dell'Economia del governo di Manuel Valls, il conservatore «Le Figaro», per strizzargli l'occhio e esaltarne il coraggio rispetto all'arcaismo di Hollande, lo chiamava il «Renzi francese». Un giudizio interessante, conoscendo la proverbiale ritrosia d'Oltralpe nel riconoscere l'originalità di influenze esterne. Senza spingersi a dire, come certi «ultrarenziani», che l'attuale candidato, favorito a varcare le porte dell'Eliseo, avrebbe avuto come modello Renzi, l'ex premier è stata certo una fonte di ispirazione per il francese. Per l'età innanzitutto, ma soprattutto per la capacità di lanciare un'offerta politica capace di andare oltre le stratificazioni della destra e della sinistra ormai sempre meno dotate di senso. Ma questo è appunto il passato, benché molto recente. Oggi la situazione si è ribaltata. Da quando la candidatura di Macron è lievitata, al punto di rendere probabile la sua elezione, Renzi lo ha trasformato in un punto di riferimento, fino a imitare velatamente la denominazione del suo movimento, «En Marche», trasfuso nel renziano «in cammino». Già nel discorso di apertura di ieri, ha fatto intendere che fosse francese voterebbe lui e non il socialista Hamon. Peccato che Renzi, facendo in passato il Macron prima di Macron, ora non potrà più permetterselo, e temiamo si limiterà a dover fare l'Hollande: cioè un leader mediatore, rotto alle «sintesi», costretto a inglobare all'interno del suo progetto tutti, dagli ultra riformisti agli ultra nostalgici. A Hollande non ha portato bene, con tutto che i suoi poteri istituzionali erano ben altri rispetto a quelli di un «mero» presidente del consiglio italiano. Che cosa è successo? Nulla dal punto di vista delle intenzioni di Renzi: come si è sentito ieri, con l'insistenza sul «futuro» e contro la «nostalgia», è rimasto un genuino riformatore della sinistra e della famiglia progressista italiana. La quale però è sempre molto prudente nell'intraprendere le strade dell'innovazione: da qui il ritorno nel Pd a slogan redistributivi e diciamo pure statalistici, fin dall'indomani del 4 dicembre, come a dire siamo stati troppo arditi nel nostro modernismo. Ma la vera ragione per cui Renzi sembra destinato a portare in scena un format più classico, sul modello socialdemocratico - già intuibile in alcuni passaggi di ieri - è ancora una volta la sconfitta al referendum. Il 4 dicembre e la bocciatura dell'Italicum da parte della Consulta hanno chiarito che gli italiani sembrano non gradire un leader politico maggioritario direttamente investito e paiono preferire una forma di governo più consensuale; e l'opposto del maggioritario si chiama proporzionale. Principio della leadership condivisa (cioè debole) e ritorno al proporzionale obbligheranno Renzi, se rieletto alla guida del Pd, a disporsi nell'ottica di governi di coalizione, grande o piccola a secondo del risultati. Al contrario Macron potrà fare Macron perché in Francia, grazie a De Gaulle, a reggere il sistema v'è il principio dell'investitura diretta del presidente. La maggioranza si coagula attorno a lui, il giorno dell'elezione: ed è la maggioranza dei francesi. Poi certamente Macron non avrà vita facile, se eletto, ad avere i numeri in Parlamento, visto che non dispone di un vero partito: ma anche se dovesse ricorrere, per formare il governo, a una sorta di «grande coalizione» alla francese, con pezzi di gollisti, di centristi e di socialisti, il leader sarà lui. La morale, ancora una volta, è che il vulnus politico italiano non sta nella carenza di capi: di quelli ne produciamo, forse persino in sovrabbondanza. Ma

quando vincono, noi elettori lillipuziani li incateniamo subito per poi, delusi dal loro «immobilismo», cacciarli a gambe all'aria. LA NUOVA di sabato 11 marzo 2017 Pag 1 La destra all’ombra di Berlusconi di Bruno Manfellotto Che fine ha fatto Silvio Berlusconi? Niente paura, vive e lotta assieme a noi. Un giorno incontra i cinesi per il closing delle trattative per la cessione del Milan, un altro sorseggia un’aranciata a un tavolino di McDonald’s, ma ieri oggi e domani si muove nelle retrovie per mettere a punto il piano di rilancio del centrodestra. E sogna che la Corte di Strasburgo lo liberi dagli impedimenti della legge Severino e dalla condanna definitiva per frode fiscale nel processo diritti tv Mediaset. B. è sempre B., e a destra c’è un solo capo: lui. E questo fa la differenza con una sinistra che si dilania tra pizzini, veleni e primarie. La destra si riorganizza. E lo stato dei fatti aiuta. Si voterà solo a febbraio 2018 - ma qualcuno già azzarda uno slittamento a maggio… - quasi certamente con una legge proporzionale (con ingresso vietato a chi non raggiunga il 3 per cento). Che questo parlamento abbia la voglia e la forza di scrivere una nuova legge elettorale, B. non ci crede proprio. Anche perché il primo a volere che si vada alle urne con le norme fissate dalla Consulta, è lui, convinto che un qualunque sistema maggioritario, magari accompagnato dal ballottaggio, finirebbe per premiare solo Beppe Grillo. Se le cose stanno così, ragiona B., è quasi sicuro che non vinca nessuno, cioè che le Camere uscite dalle urne non possano esprimere subito una maggioranza. Per non parlare del premio che toccherebbe alla lista che sfondasse quota 40 per cento, vetta davvero inarrivabile per tutti. E allora? Allora, dice Berlusconi, non resterebbe che un governo di larghe intese, un accordone centrosinistra-centrodestra: del resto, dice, così è stato in Germania (dove si vota a fine settembre), non possiamo fare altrettanto noi? Con un’alleanza tenuta insieme dalla comune volontà di arginare la valanga populista. Fin qui Berlusconi. Ma i suoi alleati? Si agitano, ma molti indizi legittimano il sospetto che la realtà sia un’altra. In apparenza, dunque, Matteo Salvini e Giorgia Meloni conducono la danza per conto loro, guardando più a Marine Le Pen che ad Angela Merkel, criticando il Cav e sognando di lanciare un’Opa sulla destra intera. Berlusconi, invece, si è detto, pensa a una grande intesa che coinvolga anche il Pd di Renzi, prospettiva che non piace a Lega e Fratelli d’Italia (e spaventa anche un pezzo di Pd, per non dire degli scissionisti di Mdp). Ma poi né l’uno né l’altro taglia del tutto i ponti. Perché ciascuno ne ha il suo tornaconto. A Berlusconi, per esempio, fa comodo un nemico-alleato alla sua destra che presidi il campo della protesta, faccia concorrenza a Grillo e contribuisca a offrire all’elettore di centrodestra un piatto ricco di pietanze diverse. D’altra parte, al ticket Salvini-Meloni occorre un punto di riferimento forte, specie se - com’è probabile - non dovessero raccogliere tanti voti da diventare seriamente competitivi. È il solito gioco, caro a B., del “poliziotto buono-poliziotto cattivo” (che a sinistra proprio non riesce). Anche perché sono tutti convinti, anche chi vorrebbe sbarazzarsene, che il capo del centrodestra è ancora lui, Berlusconi, e che una sua presenza in campagna elettorale farebbe la differenza, sia per ragioni di carisma che di denaro. Certo, la strada da fare è ancora molta. Berlusconi giudica possibile mettere di nuovo insieme tutte le forze della destra; alcuni intorno a lui immaginano invece un unico partitone, come i conservatori inglesi o i repubblicani americani, per la cui leadership si competa di volta in volta (peraltro difficile al tempo del proporzionale); altri si interrogano sul ruolo e sull’esperimento di Stefano Parisi, apparso e scomparso come una meteora, ma tuttora presente nel firmamento berlusconiano. C’è infine l’ultima incognita: e se l’abbraccio Salvini-Meloni si estendesse fino al movimento 5Stelle? Mah, Beppe Grillo non sembra uomo di alleanze, preferisce ballare da solo. Ma un dato è certo: che si concretizzi questa ipotesi estrema o che si viaggi verso larghe intese, il centrodestra sta per occupare di nuovo un posto centrale nello scacchiere politico. E con esso l’ottantenne Berlusconi. Pag 7 Paradosso nazionalista nell’Eurozona sotto tiro di Roberto Castaldi Il Consiglio europeo ha mostrato ancora una volta gli insostenibili paradossi cui porta il nazionalismo. L’unica e irriducibile opposizione alla riconferma come presidente del

Consiglio europeo del polacco Donald Tusk è venuta dal governo nazionalista conservatore polacco. Che pensa di sostenere gli interessi nazionali silurando l’unico polacco al vertice di un’istituzione europea e dotato di una forte credibilità internazionale. Che ha presentato un candidato alternativo con un profilo assolutamente inadeguato, che non era mai stato un capo di Stato o di governo (a differenza di Tusk che è stato premier dal 2007 al 2014). La Polonia si è isolata e messa contro tutti gli altri Paesi membri, solo per giochi politici interni di corto respiro. Perché al dunque l’unico interesse che i nazionalisti cercano davvero di tutelare è il proprio interesse elettorale. La ripicca polacca di non approvare le conclusioni del Consiglio ha sortito il paradossale effetto di farle rilasciare sotto forma di Dichiarazioni del riconfermato presidente Tusk. La Polonia ha così costretto ad applicare le norme del Trattato di Lisbona, che consentono la nomina dei presidenti delle istituzioni a maggioranza qualificata, così come avvenuto con il presidente della Commissione Juncker contro l’opposizione britannica. Tutto ciò mostra l’importanza di avere buone regole - ovvero di non prevedere l’unanimità, che implica il diritto di veto e di conseguenza la paralisi - per poter procedere, e la necessità di approfondire l’integrazione a partire dall’Eurozona, senza farsi frenare dalle fobie dei governi nazionalisti. L’Europa è unita non quando è unanime, ma quando dispone di adeguate procedure e poteri per decidere e agire insieme, anche quando qualcuno non è d’accordo. Va superata l’idea che il Consiglio europeo - la riunione dei capi di Stato e di governo degli Stati membri - possa essere l’organo di governo dell’Unione e decidere all’unanimità. Nessuna persona dotata di senno proporrebbe per il proprio Paese un sistema analogo: l’assemblea dei presidenti di Regione che decide all’unanimità al posto del governo. Per far fronte alle sfide economiche e geopolitiche attuali serve un vero governo europeo, pienamente democratico. Che può avere forma parlamentare, con la trasformazione della Commissione in un vero governo responsabile di fronte al Parlamento europeo eletto direttamente dai cittadini; o presidenziale, con la fusione delle presidenze della Commissione e del Consiglio europeo e la sua elezione diretta. La democrazia europea è anche la condizione per la salvezza della democrazia liberale a livello nazionale. Perché solo a livello europeo è possibile provare a rilanciare investimenti e crescita, a stabilizzare l’area di vicinato e conseguentemente gestire e ridurre i flussi di rifugiati e migranti, ad affrontare la sfida del terrorismo e la minaccia che la politica russa pone all’integrità territoriale degli Stati europei che confinano con essa. Cresce nella società europea la consapevolezza che nessuno Stato membro da solo ha la forza da solo per far fronte a questi problemi, e che il nazionalismo in salsa populista non è la ricetta per il futuro, ma la scorciatoia verso un passato che vorremmo esserci messi alle spalle per sempre. Per questo la Marcia per l’Europa (www.marchforeurope2017.eu) il 25 marzo a Roma rappresenta un appuntamento fondamentale e irrinunciabile per la maggioranza silenziosa che ha a cuore il futuro dell’Europa e della democrazia liberale, e vuole fermare il nazionalismo populista che cerca di sfruttare l’inerzia della Brexit e di Trump. Nei momenti di crisi Spinelli e il Manifesto di Ventotene vengono sempre richiamati, come nel Libro bianco sul futuro dell’Europa della Commissione Europea. Perché è il pensiero più limpido e democratico su cui costruire il futuro. CORRIERE DEL VENETO di sabato 11 marzo 2017 Pag 1 La vera sfida: l’Europa globale di Paolo Costa Contro i sovranismi Testo non disponibile

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