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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 5 ottobre 2016 SOMMARIO “Con Bebe per il bene di tutti” è il titolo dell’editoriale di oggi di Alessandro Russello sulla prima pagina del Corriere del Veneto: “Parliamo di malattie, alcune delle quali erano ormai estinte, come la poliomelite, il tetano, la difterite e l’epatite B. Vaccinazioni obbligatorie nel resto d’Italia ma non in Veneto. Ma il problema non è solo o tanto quello dell’obbligatorietà. Se la quasi totalità dei medici è perfettamente consapevole e convinta del fatto che i vaccini salvano milioni di bambini (e adulti), il punto di caduta è nella «cultura del rifiuto» sempre maggiore alla copertura sanitaria. Non solo per disinformazione generale o sciatteria dei genitori legata al fatto che nessuno obbliga più nessuno, quanto per un’avversione ideologica alla prevenzione. Dove gli anti-vaccino, alcuni dei quali con figli colpiti dagli effetti collaterali della profilassi e quindi rispettabili nelle loro rivendicazioni, sostengono che le vaccinazioni non sono che un modo per arricchire le industrie farmaceutiche. Ora, di fronte a questo dobbiamo metterci d’accordo. E fare una scelta. Decidere se vogliamo stare con i numeri e con la scienza medica ufficiale (che qualcuno pronuncia con odio anti- sistemico a prescindere) o con i percorsi che con un eufemismo potremmo definire «molto laterali». Per questo, ricorriamo ai dati divulgati dall’unica regione italiana ad aver introdotto la non obbligatorietà (il Veneto appunto). Secondo i quali – a proposito dei danni collaterali di cui parlavamo - dal 1993 al 2015, su 31 milioni 982 mila dosi somministrate, sono emerse 533 reazioni gravi, nella maggior parte guarite completamente. Mentre i pazienti che hanno presentato conseguenze a distanza sono 17 e in ventidue anni di osservazione non sono stati segnalati decessi correlabili. Insomma, sempre credendo ai dati e nella medicina ufficiale - e noi ci crediamo - è un fatto che i vaccini continueranno a salvarci da malattie e morte. Più difficile salvarsi dal medioevo delle pur rispettabilissime «controculture» non corroborate dai numeri e dalla verifica dei fatti. Con un’appendice oltremodo civica. Ovvero il riverbero dei comportamenti singoli (chi non fa vaccinare i propri figli) nella qualità della vita e della sanità collettiva. È il famoso «effetto gregge» illustrato sempre in questi giorni dal professor Giorgio Palù, ordinario e direttore del laboratorio di Microbiologa dell’Università di Padova e presidente della Società Europea di Virologia. Testuale: «In Veneto siamo sotto la soglia del 95 per cento per quel che riguarda le vaccinazioni pediatriche contro polio, epatite b ma anche rosolia e morbillo. Le conseguenze di questa fotografia sono preoccupanti perché viene meno la cosiddetta immunità di gregge, cioè la presenza di un numero sufficiente di anticorpi contro i patogeni e quindi in grado di proteggere anche chi non è vaccinato». A noi, intanto, che crediamo nell’informazione corretta e nel contagio culturale, piace pensare a quanto servirà quella straordinaria immagine di Bebe scattata dalla fotografa Anne Geddes per la campagna mondiale WinForMeningitis. Lei, giovane donna dal volto da ragazzina - menomata dall’amputazione dei quattro arti per una meningite contratta da piccola perché il suo pediatra sconsigliò alla famiglia la profilassi a quell’età - che tiene in braccio il piccolo Vincent. Vita che chiama vita. La sua bellezza al servizio del mondo. Un capolavoro di coscienza e di coraggio. Un capolavoro anche fotografico, di fronte a tanta arte «concettuale» da gettare nel cestino. La forza della realtà dove il volto e il corpo di una ragazza sono più potenti di millanta seminari scientifici, assolutamente necessari ma difficilmente traducibili nell’educazione orizzontale che dovrebbe essere, questa sì, compito della «politica». Un’opera d’arte come la vita e la coscienza civica di Bebe e della sua famiglia. Noi stiamo tutti con Bebe, per il bene di tutti. E per prima dovrebbe starci la Regione, ripristinando l’obbligo vaccinale sospeso nel 2008”. Curioso confronto di titoli a proposito delle dimissioni a Venezia di un’esponente della giunta Brugnaro. Il Gazzettino così sintetizza: Guzzon, mail al sindaco: “Accordi

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 5 ottobre 2016

SOMMARIO

“Con Bebe per il bene di tutti” è il titolo dell’editoriale di oggi di Alessandro Russello sulla prima pagina del Corriere del Veneto: “Parliamo di malattie, alcune delle quali

erano ormai estinte, come la poliomelite, il tetano, la difterite e l’epatite B. Vaccinazioni obbligatorie nel resto d’Italia ma non in Veneto. Ma il problema non è

solo o tanto quello dell’obbligatorietà. Se la quasi totalità dei medici è perfettamente consapevole e convinta del fatto che i vaccini salvano milioni di bambini (e adulti), il

punto di caduta è nella «cultura del rifiuto» sempre maggiore alla copertura sanitaria. Non solo per disinformazione generale o sciatteria dei genitori legata al fatto che

nessuno obbliga più nessuno, quanto per un’avversione ideologica alla prevenzione. Dove gli anti-vaccino, alcuni dei quali con figli colpiti dagli effetti collaterali della

profilassi e quindi rispettabili nelle loro rivendicazioni, sostengono che le vaccinazioni non sono che un modo per arricchire le industrie farmaceutiche. Ora, di fronte a

questo dobbiamo metterci d’accordo. E fare una scelta. Decidere se vogliamo stare con i numeri e con la scienza medica ufficiale (che qualcuno pronuncia con odio anti-sistemico a prescindere) o con i percorsi che con un eufemismo potremmo definire

«molto laterali». Per questo, ricorriamo ai dati divulgati dall’unica regione italiana ad aver introdotto la non obbligatorietà (il Veneto appunto). Secondo i quali – a proposito dei danni collaterali di cui parlavamo - dal 1993 al 2015, su 31 milioni 982 mila dosi

somministrate, sono emerse 533 reazioni gravi, nella maggior parte guarite completamente. Mentre i pazienti che hanno presentato conseguenze a distanza sono

17 e in ventidue anni di osservazione non sono stati segnalati decessi correlabili. Insomma, sempre credendo ai dati e nella medicina ufficiale - e noi ci crediamo - è un fatto che i vaccini continueranno a salvarci da malattie e morte. Più difficile salvarsi dal medioevo delle pur rispettabilissime «controculture» non corroborate dai numeri e dalla verifica dei fatti. Con un’appendice oltremodo civica. Ovvero il riverbero dei comportamenti singoli (chi non fa vaccinare i propri figli) nella qualità della vita e

della sanità collettiva. È il famoso «effetto gregge» illustrato sempre in questi giorni dal professor Giorgio Palù, ordinario e direttore del laboratorio di Microbiologa

dell’Università di Padova e presidente della Società Europea di Virologia. Testuale: «In Veneto siamo sotto la soglia del 95 per cento per quel che riguarda le vaccinazioni pediatriche contro polio, epatite b ma anche rosolia e morbillo. Le conseguenze di questa fotografia sono preoccupanti perché viene meno la cosiddetta immunità di gregge, cioè la presenza di un numero sufficiente di anticorpi contro i patogeni e

quindi in grado di proteggere anche chi non è vaccinato». A noi, intanto, che crediamo nell’informazione corretta e nel contagio culturale, piace pensare a quanto servirà quella straordinaria immagine di Bebe scattata dalla fotografa Anne Geddes

per la campagna mondiale WinForMeningitis. Lei, giovane donna dal volto da ragazzina - menomata dall’amputazione dei quattro arti per una meningite contratta da piccola

perché il suo pediatra sconsigliò alla famiglia la profilassi a quell’età - che tiene in braccio il piccolo Vincent. Vita che chiama vita. La sua bellezza al servizio del mondo. Un capolavoro di coscienza e di coraggio. Un capolavoro anche fotografico, di fronte a tanta arte «concettuale» da gettare nel cestino. La forza della realtà dove il volto e il corpo di una ragazza sono più potenti di millanta seminari scientifici, assolutamente

necessari ma difficilmente traducibili nell’educazione orizzontale che dovrebbe essere, questa sì, compito della «politica». Un’opera d’arte come la vita e la

coscienza civica di Bebe e della sua famiglia. Noi stiamo tutti con Bebe, per il bene di tutti. E per prima dovrebbe starci la Regione, ripristinando l’obbligo vaccinale sospeso

nel 2008”.

Curioso confronto di titoli a proposito delle dimissioni a Venezia di un’esponente della giunta Brugnaro. Il Gazzettino così sintetizza: Guzzon, mail al sindaco: “Accordi

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traditi, lascio. Impossibile lavorare”. Sul Corriere del Veneto il titolo è invece: L’assessore Guzzon si dimette. Mail di due righe: “Troppo stress”… Parliamo della

stessa mail? O che abbia scritto (e inviato) due mail diverse? (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 2 Missione giovani, futuro semplice di Francesco Ognibene La Chiesa “in uscita” affidata ai ragazzi CORRIERE DELLA SERA Pag 2 La preghiera di papa Francesco nella zona rossa di Gian Guido Vecchi La visita (in utilitaria) nelle aree colpite dal terremoto Pag 2 Il battesimo dei frammenti dove ricresce la speranza di Paolo Di Stefano IL GIORNALE Finalmente Habemus Papam. Così Francesco onora la Chiesa di Vittorio Sgarbi IL GAZZETTINO Pag 9 Il Pontefice tra le macerie: “Vi sono vicino e prego” di Franca Giansoldati Bergoglio visita a sorpresa i paesi devastati dal terremoto: “Ho aspettato a venire perché non volevo dare fastidio” IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXV Il buon esempio di tanti preti (lettera di Rossetta Brinis – Venezia) Chiesa e matrimoni 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pagg 8 – 9 Stipendi bassi, voglia di autonomia. La generazione dei coinquilini forzati di Dario Di Vico Oggi è costretto a convivere anche chi lavora. Per lasciare la famiglia servono 2mila euro al mese IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag II La speculazione sui buoni lavoro di Vettor Maria Corsetti L’Inps accusa le imprese: “Tre milioni di voucher nel Veneziano, chiaro abuso” 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag III Guzzon, mail al sindaco: “Accordi traditi, lascio. Impossibile lavorare” di Michele Fullin L’assessore lascia la Giunta spiazzando anche il Carroccio Pag XXVII Icone tra Oriente e Occidente Festa della Madonna del Don, a Mestre l’inaugurazione dell’esposizione CORRIERE DEL VENETO Pag 11 L’assessore Guzzon si dimette. Mail di due righe: “Troppo stress” di Monica Zicchiero e f.b. Vallotto: “Motivi personali, i rapporti tra Lega e sindaco non c’entrano”. Ma il Carroccio vuole un incontro. Dall’accordo al referendum, l’alleanza difficile: 2 addii in 15 mesi 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO

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Pag 1 Con Bebe per il bene di tutti di Alessandro Russello La scienza e i dati Pag 5 Vaccini, Roma chiede il ritorno all’obbligo. L’Ordine: “Radiazione per chi li sconsiglia” di Michela Nicolussi Moro Sanità e prevenzione in Veneto … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Referendum, trappola per le élite di Aldo Cazzullo Loro (e noi) Pag 15 Ma la Germania Est fa parte dell’Europa? di Danilo Taino A Dresda e nella regione orientale dilagano nazionalismo e xenofobia: complici il calo demografico e la mancata rielaborazione del passato Pag 19 Droga e vigilantes, la strage di Duterte di Guido Olimpio e Guido Santevecchi Il neopresidente filippino ha fatto uccidere 3.300 persone Pag 29 Il dilemma dell’Italia in una Europa frammentata di Antonio Armellini LA REPUBBLICA Pag 1 L’atto di fede del premier di Massimo Giannini LA STAMPA Il cuore malato del Capo e le due linee di Forza Italia di Marcello Sorgi AVVENIRE Pag 1 Nel tempo del “noi” di Marco Impagliazzo Per una grammatica senza confini Pag 3 La ragione da sola non vince la paura dell’immigrazione di Massimiliano Valerii La vera domanda è: quale società vogliamo costruire? IL GAZZETTINO Pag 1 Legge elettorale, una riforma per i cittadini di Massimo Teodori Pag 23 Referendum, il Nord tra (molti) dubbi e qualche certezza di Paolo Gurisatti

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 2 Missione giovani, futuro semplice di Francesco Ognibene La Chiesa “in uscita” affidata ai ragazzi C’è modo e modo per proporre le cose: la stessa idea vestita con parole differenti da quel che ci si attende ha molte più chance di essere capita e accolta, e non è solo questione di marketing. Va trovata la strada della ragione e del cuore, e da lì mettere in movimento una risposta umana autentica. Con i giovani, poi, la scelta del 'come' è determinante già solo per ottenerne ascolto, non parliamo del riuscire a farli sentire coinvolti e mobilitati. Lo sa fin troppo bene chi – genitori, insegnanti, educatori, sacerdoti... – cerca di schiudere l’orizzonte di una vita cristiana più convinta,

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un’adesione non formale, finalmente fatta propria perché nata da un incontro che apre lo sguardo. Cosa fa scattare la serratura e aprire la porta dietro la quale spesso i giovani nascondono l’indecisione sulle scelte che contano? C’è chi sa dov’è la chiave, e trova le parole per farsi intendere: «Oggi Gesù, che è la via, chiama te, te, te a lasciare la tua impronta nella storia». Il gesto col quale il Papa accompagnò questa frase durante la veglia al Campus Misericordiae di Cracovia durante l’ultima Gmg – una mano che indica, a chiamare in causa uno per uno i quasi due milioni di giovani che lo ascoltavano in un silenzio assoluto – è una di quelle immagini che, guardando Bergoglio, fanno pensare che quel momento l’abbiamo già visto da qualche parte. Non era forse nel Vangelo che i discepoli si sentirono indicati così? Tu, tu, tu... Vieni e seguimi. Vieni ed esci, sulla mia parola arriverai fino ai confini della terra, fino a quel tuo amico che ti sta sotto gli occhi ogni giorno, ma è lontano dalla gioia della vita più di un continente remoto. Perché si fa presto a parlare di missione, ma c’è una terra deserta sotto casa che attende di essere irrigata da uno sguardo, una parola, un’ora di attenzione e amicizia che fa fiorire il seme sotterrato e creduto morto. I giovani, proprio loro che pensiamo impermeabili e indifferenti, sono quelli che più di noi adulti sanno intendere come la vita trasformata da una scoperta imprevedibile (quella mano che ti indica: proprio io? Così come sono?) diventi seduta stante un’energia da condividere con gli altri. Perché Dio non posso tenerlo solo per me. «Lui, che è la vita, ti invita a lasciare un’impronta che riempia di vita la tua storia e quella di tanti altri – è sempre il Papa che parla in quel dolce tramonto di Cracovia –. Lui, che è la verità, ti invita a lasciare le strade della separazione, della divisione, del non-senso. Ci stai?». Due milioni di sì lo fecero sorridere, ma non abbastanza per impedirgli di chiederlo di nuovo: tu, ci stai? Il segreto è nel 'tu': ognuno ha sentito il suo nome, chiamato perché ritenuto forse per la prima volta capace di cose grandi, impensabili prima di quell’incontro. «Cosa rispondono adesso – voglio vedere – le tue mani e i tuoi piedi al Signore, che è via, verità e vita? Ci stai? Il Signore benedica i vostri sogni!». Le mani e i piedi: il Papa chiedeva la risposta del fare e dell’andare, il linguaggio di una decisione presa per cambiare la realtà. La missione come l’hanno vissuta generazioni di discepoli è congeniale ai giovani. Ecco perché crescono parrocchie e diocesi che affidano loro l’invito a scuotersi, cominciando dai coetanei. Se guarda questi giovani missionari, la Chiesa stessa – noi che ne siamo parte – comprende dal vivo cosa significa 'uscire', e tornare a seminare come fosse la prima volta. CORRIERE DELLA SERA Pag 2 La preghiera di papa Francesco nella zona rossa di Gian Guido Vecchi La visita (in utilitaria) nelle aree colpite dal terremoto Amatrice. Ciò che resta di corso Umberto I mostra la prospettiva d’una città bombardata. Francesco va avanti da solo, stringendosi le mani, lo sguardo assorto. Pezzi di calcestruzzo, pietre di fiume, collinette di tegole e macerie, facciate pericolanti ed interni esposti - salotti sventrati, materassi, termosifoni che pendono sul vuoto - nei pochi edifici rimasti chissà come in piedi. Si ferma lì in mezzo alla «zona rossa», china il capo e prega. La preghiera silenziosa per i morti, le parole di consolazione per chi è vivo e dice «prima», senza date. «Prima mi piaceva andare per more, la mattina», mormora un signore anziano in attesa. Poco dopo l’alba la voce ad Amatrice si era ormai diffusa, sta arrivando il Papa. E Francesco arriva su un’utilitaria, accompagnato dal vescovo Domenico Pompili, alle nove e un quarto raggiunge per prima la scuola prefabbricata ai margini del paese: «Dal primo momento ho sentito che dovevo venire da voi, semplicemente per dire che vi sono vicino, niente di più, e prego per voi. Ho pensato che nei primi giorni sarebbe stato più un ingombro che un aiuto, non volevo dare fastidio». All’Angelus del 28 agosto, quattro giorni dopo il terremoto, spiegò che sarebbe andato nelle zone colpite «appena possibile», ma in settembre ha evitato per non intralciare i soccorsi. Domenica sera, di ritorno dall’Azerbaigian, non aveva detto ai giornalisti la data della visita: «La farò in privato, da solo, come sacerdote, vescovo, Papa. Ma da solo. Vorrei essere vicino alla gente». Non voleva un viaggio annunciato con arrivo in massa dei media. Gli stessi vescovi delle diocesi colpite hanno avuto conferma al mattino. Solo un’auto anonima senza targa vaticana attraverso tre regioni - Lazio, Marche e Umbria - e sette tappe da Amatrice agli anziani di Borbona, dal campo base dei Vigili del fuoco di

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Cittareale ad Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto e San Pellegrino di Norcia, dove nel pomeriggio il Papa è arrivato dieci minuti dopo una scossa d’assestamento, magnitudo 3.6 ed epicentro a pochi chilometri. Nella scuola, al mattino, è uno dei bimbi più piccoli a sciogliere l’imbarazzo. I prefabbricati colorati, sistemati al volo dalla Protezione di Trento, ospitano centocinquanta bambini e ragazzi dalle materne alle medie, si sta preparando anche il liceo. Il Papa entra nelle aule, abbraccia e bacia uno ad uno alunni e studenti. «Erano commossi, soprattutto quelli del liceo che hanno compreso di più la tragedia, e perduto due compagni... Quasi non sapevano cosa fare, se avvicinarsi, finché un bimbo gli ha detto: ma oggi è San Francesco, è la tua festa, auguri papa Francesco!, e lo ha abbracciato», sorride la preside, Maria Rita Pitoni. I bambini intonano il canto dell’amicizia, regalano al Pontefice alcuni disegni che raffigurano i loro ricordi del terremoto. C’è anche Valerio Taddei, fornaio di Amatrice che ha perduto la moglie e i due figli. Stringe le mani al Papa, si guardano, scambiano qualche parola, «l’abbraccio fraterno di Francesco mi ha fatto sentire vicina la presenza di Dio». Fuori dalla scuola Bergoglio parla a un microfono: «Vicinanza e preghiera, questa è la mia offerta a voi. Che il Signore benedica tutti voi, che la Madonna vi custodisca in questo momento di tristezza, di dolore e di prova. Andiamo avanti, sempre c’è un futuro. Ci sono tanti cari che sono caduti qui, sotto le macerie. Preghiamo per loro, tutti insieme». Recita un’Ave Maria, una signora piange, «grazie della forza che ci dai». Ad Amatrice sono rimasti in 226, Francesco visita la tendopoli, nella zona rossa chiede una foto con i Vigili del fuoco, «sono loro che salvano la gente». Resta a pranzo tra gli anziani del «San Raffaele» di Borbona, quasi tutti sfollati. Nel percorso verso gli altri paesi si ferma tre volte a salutare gruppi di gente. La preghiera davanti alla chiesa distrutta di San Francesco ad Accumoli, un’altra scuola e la tendopoli ad Arquata. Lungo la strada fino all’Umbria il Papa incontra centinaia di persone e ripete: «I tempi cambieranno e si potrà andare avanti. Io vi sono vicino, sono con voi». Pag 2 Il battesimo dei frammenti dove ricresce la speranza di Paolo Di Stefano C’è una raccolta poetica di Mario Luzi il cui titolo sembra pensato come didascalia a questa fotografia. Il titolo è: «Per il battesimo dei nostri frammenti» e risale al 1985. Luzi alludeva ai frantumi dello spirito, probabilmente quelli, ancora fumanti, avanzati alla stagione del terrorismo, tant’è vero che il libro conteneva una poesia dedicata all’assassinio di Aldo Moro («Acciambellato in una sconcia stiva»). Ma sorprendentemente (è il dono di significati inattesi che ci regala la grande poesia), quel titolo parla anche oggi dell’oggi, a noi. Qui ci sono i frammenti e le macerie di Amatrice e c’è papa Francesco che le benedice, come a consegnarle a una nuova vita: un auspicio, una speranza di rinascita e di futuro. È il momento esatto di una fine consumata tragicamente che coincide con il desiderio di un inizio: il momento della catarsi, il chiaroscuro che tanti artisti hanno raffigurato nei secoli. Non solo i poeti. Si potrebbe pensare alla pittura: quante adorazioni dei Magi sono state dipinte dentro uno scenario di catastrofe. I capolavori di Botticelli o di Dürer, in cui le rovine sul fondo contrastano con l’immagine sacra, in primo piano, del Bambino appena nato in braccio alla Madonna. Qui purtroppo non si tratta delle rovine romane del Canaletto o di quelle nordiche di Friedrich o di Turner, ma di rovine ancora calde. E colpisce il fatto che questa fotografia non è l’elaborazione faticosa e lunga di un artista, ma il risultato di un attimo colto nella sua evidenza dolorosa e insieme epifanica: il vecchio Papa, di spalle dentro il suo abito bianco, in piedi davanti a uno scenario muto, desolato di rottami. E potrebbe dire una preghiera oppure recitare un’altra poesia di Luzi, che sembra scritta per l’occasione: «Il bulbo della speranza / che ora è occultato sotto il suolo / ingombro di macerie / non muoia, / in attesa di fiorire / alla prima primavera». IL GIORNALE Finalmente Habemus Papam. Così Francesco onora la Chiesa di Vittorio Sgarbi Habemus Papam. Per chi, di fronte alla libertà di pensiero e alla estemporanea capacità di stupire di papa Francesco, avesse dubitato della sua integra fede e della sua ortodossia cristiana (ne è esempio il paradosso sugli ortodossi), la notizia dell'avvio, davanti alla Congregazione per la dottrina della fede, della causa di beatificazione, per

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padre Jaques Hamel, è uno straordinario segnale di questo papa libero e insieme interprete fedele della religione di Cristo e di San Francesco, in favore della chiesa dei martiri. Io ne sono particolarmente lieto perché, all'indomani di quel crimine, letteralmente «in odium Fidei», scrissi una lettera aperta al Papa, per chiedergli, quasi perentoriamente (ma era evidentemente una mia presunzione) quello che temevo non avrebbe fatto: santificare padre Jacques. Erano i giorni in cui, quasi pazzeggiando, come talvolta, per celia, fa con i giornalisti, il papa, nel tentativo di sdrammatizzare le tragiche vicende di attentati e violenze da parte di fanatici musulmani, aveva più o meno dichiarato che gli assassini non erano soltanto fra gli islamici, ma anche tra i cristiani, facendo riferimento a quanti fra noi uccidono la moglie o la suocera. Anche a molti sacerdoti e pastori sembrò eccessivo e sproporzionato il paragone. Io dubitai ancora che in lui potesse emergere limpidamente il cristiano che il 3 febbraio del 2015, seguendo un impulso di papa Benedetto XVI al postulante della causa, aveva elevato alla gloria degli altari, come beato, il vescovo di San Salvador, Oscar Romero, riconoscendone il martirio «in odium fidei». E, invece, Francesco mi ha ascoltato, o meglio, senza accusarne ricevuta, ha interpretato il mio desiderio e la mia sollecitazione. Gli argomenti erano semplici: per la sua fede padre Hamel è stato ucciso durante la messa, avendo vissuto 86 anni di assoluto amore e fiducia in Dio. Fiducia nella Sua esistenza a vantaggio degli uomini. E con Dio è morto: la sua testimonianza, in chiesa, realizza compiutamente l'essenza del sacerdozio che, nella celebrazione della messa e della comunione, identifica il prete con Gesù. Propriamente, nella comunione, il sacerdote è Gesù. In questo specifico caso lo è fino al sacrificio estremo, riproducendo nella sua morte la passione di Cristo. Crocifisso Gesù, sgozzato padre Jacques. Il martirio li rende una sola persona, nel sangue comune di Cristo, per coincidenza, per sovrapposizione, non per rappresentazione liturgica. Il Papa non può soltanto pregare, deve agire, innalzare il simbolo della fede e consacrare Padre Jacques santo. Santo subito, nella più piena imitazione di Cristo. Nella chiesa di sant' Etienne è stato ucciso un uomo, un cristiano, un sacerdote, per odio religioso. E non è stato semplicemente un crimine contro la fede, ma un attentato alla libertà religiosa. E questo non vale soltanto per i cristiani, ma per tutti gli uomini che credono nelle loro idee, ma non militano in un una religione totalitaria. Con l'assassinio di padre Hamel si è tornati, in Occidente, davanti a un calvario, al tempo dei martiri. E il Pontefice ha reagito schierando contro il male, contro il diavolo, i suoi martiri, senza invocare passivamente la pace e neanche il perdono per gli assassini. Essi non devono essere perdonati. Oggi Papa Francesco riconosce il giusto davanti al mondo. Ne innalza il martirio. I cristiani devono combattere per la pace, non invocarla inerti. La Chiesa che consacra beato padre Hamel, riacquista la sua universalità, valorizza il martirio come simbolo. Perché ogni uomo ucciso, per le sue idee, come per la sua fede, è Cristo. IL GAZZETTINO Pag 9 Il Pontefice tra le macerie: “Vi sono vicino e prego” di Franca Giansoldati Bergoglio visita a sorpresa i paesi devastati dal terremoto: “Ho aspettato a venire perché non volevo dare fastidio” Panni che ballano nel vento, fantasmi di stoffa sui balconi. Sono rimasti stesi da quel giorno, ancora non è stato possibile recuperarli. All’ingresso del Bar caffè Mokambo, in piazza San Francesco, ad Accumoli, nessuno ha cancellato ancora dalla lavagnetta la scritta col gessetto: “domani mercoledì 24 agosto chiuso per riposo settimanale”. E ancora, dentro la chiesetta crollata, il grande crocifisso dondola appeso per un braccio. Quaranta giorni dopo la grande scossa, il tempo pare essersi fermato sotto effetto di un malvagio incantesimo. Papa Francesco ha potuto finalmente pregare per i morti e per i vivi, mentre la terra tremava ancora (magnitudo 3,6 a Norcia). Lo ha fatto ad Amatrice, in ginocchio davanti a cumuli altissimi di macerie, sassi, travi di cemento sbriciolate come biscotti. Lo ha fatto ad Accumoli, epicentro del terremoto, posando lo sguardo su quel Cristo ferito, piagato, la cui immagine simboleggia la tragedia collettiva. Il campanile di quella chiesetta ha schiacciato un’intera famiglia, spazzando via quattro vite e un bimbo di sei mesi. Forse Francesco avrebbe voluto pregare in silenzio. Non sempre c’è riuscito, rincorso come era da telecamere, soccorritori, vigili del fuoco, volontari, autorità varie, sacerdoti della zona, curiosi. Incurante del clamore ha

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abbracciato, consolato, concesso selfie, foto di gruppo davanti alle macerie. A Norcia, dalla sua auto, si è fermato a discorrere con tre suore incrociate per strada. A PRANZO - Si è fermato a mangiare con gli anziani ospitati nella struttura di Borbona. Un piatto di riso in bianco. Niente amatriciana. È stata una improvvisata per tutti. Una signora in carrozzella per l’emozione ha preso a piangere. Una dei tanti che nella notte del terremoto hanno perso per sempre punti di riferimento importanti delle loro vite. Familiari, la casa, gli amici, le abitudini, la fisionomia del proprio paese, in cui si era cresciuti, in cui si abitava da sempre. I coniugi Elio e Clara, 87 anni lui e 86 anni lei, hanno raccontato a Francesco di come si sono salvati nel buio, mano nella mano. Della loro casa non c’è più nulla, anzi solo una pergamena incorniciata, ricevuta proprio da Papa Francesco due anni fa, in occasione delle loro nozze di diamante. IL PELLEGRINAGGIO - Per i terremotati come per il Papa è stata una giornata intensa, indimenticabile. Francesco è partito di buon’ora, poco dopo la messa a Santa Marta. Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto, Pescara del Tronto, San Pellegrino di Norcia. Tre vescovi, Pompili, D’Ercole e Boccardo, di volta in volta lo hanno accolto e accompagnato. Sei ore cariche di emozioni, di tristezza, di speranza, di gioia, di pena condivisa. Il sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, ha sintetizzato il significato di questa visita in una inusuale lezione di teologia: «Ho visto negli occhi della mia gente la speranza. Il cristianesimo ci insegna non solo che c’è la vita dopo la morte, ma ci insegna a sperare nella Resurrezione, a guardare con fiducia anche questo momento terribile». Il Papa è rimasto colpito soprattutto dai bambini, con i quali si è fermato a lungo. Il trauma non li ha ancora abbandonati e sui loro volti si scorgono le ombre della esperienza fatta. «Io prego per voi, voi fatelo anche per me». LA TENDOPOLI - Il vescovo di Rieti, monsignor Pompili ha raccontato: «Il Papa mi ha chiesto se andavo nelle tendopoli tutti i giorni. Gli ho risposto di sì, che lo facevo». Tutti i giorni, ecco cosa si aspetta, non un giorno sì e due no. La Chiesa vicina alla gente. Francesco ha anche parlato con il commissario per la ricostruzione, Vasco Errani. Gli unici rimasti un po’ delusi sono stati gli sfollati che ora risiedono a San Benedetto del Tronto, circa trecento persone, che hanno aspettato invano di vedere sbucare la golf blu targata SCV dai vetri oscurati, scortata da un van nero pieno di gendarmi. Non c’era tempo. Tutto preparato all’ultimo minuto. «Volevo venire prima ma non potevo. Non volevo darvi troppo fastidio». IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XXV Il buon esempio di tanti preti (lettera di Rossetta Brinis – Venezia) Chiesa e matrimoni Buongiorno, perché si continua a scrivere sia sul Gazzettino sia sui settimanali di attualità di gossip? Ancora dell’ex parroco (Marco Scarpa) di S. Pantalon, Venezia. Io ho 71 anni mi ricordo che quando frequentavo il patronato partecipavo alla messa domenicale del fanciullo, sentivo già delle vocine sui preti. Poi crescendo andavo a messa delle 12 uscendo si stava un po’ in campo e già sentivi: hai visto non manca mai va tutte le sere in chiesa - la domenica - spesso si confessa per me si sono innamorati il parroco e la signora. Poi ancora questo vocio e comari che andavano a messa solo per curiosare ma non certo per pregare. Il parroco che mi ha dato la Comunione, la Cresima, Confessione si è sposato con una mia compagna di scuola. Hanno 2 figli maschi e sono felicemente sposati dando buon esempio ai tanti cristiani. Quindi ne ho 71 fate voi il conto di quanti anni sono passati e già succedevano queste cose. Nella mia parrocchia si capiva quante donne cercavano il parroco. Ora basta, lasciate in pace questo "Marco". Ci sono preti, come i pedofili, che fanno più male che bene. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pagg 8 – 9 Stipendi bassi, voglia di autonomia. La generazione dei coinquilini forzati di Dario Di Vico

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Oggi è costretto a convivere anche chi lavora. Per lasciare la famiglia servono 2mila euro al mese C’è un sito decisamente provocatorio sin dal titolo che vanta 600 mila contatti e serve a mettere alla berlina i propri coinquilini «per sensibilizzare la società sul dramma della convivenza tra estranei». Ha avuto successo perché documenta fotograficamente le nefandezze dei giovani conviventi, ha generato già un libro ed è una dissacrante metafora di una generazione a metà del guado. Che vorrebbe conquistare autonomia residenziale ma è obbligata a dividere le spese con dei semi-sconosciuti. Il coinquilino diventa quindi una sorta di capro espiatorio à la Pennac, appena incappa in qualcosa di sbagliato viene messo alla gogna via Internet. Le accuse sono di tutti i tipi: non lava i piatti, non tira lo sciacquone, lascia aperto il gas, non pulisce niente proprio niente, porta a casa tizi improbabili, non vuota la pattumiera, non usa le cuffie per la musica e addirittura fa lo/la gnorri quando si tratta di pagare l’affitto. L’utente-delatore in realtà vorrebbe liberarsi al più presto del suo coinquilino e quando ci riesce finisce per alimentare un turn over accelerato in cui la stanza può cambiare anche tre ospiti in un anno. Le condivisioni «miste» - Un appartamento con due camere da letto costa a Milano 800-900 euro, idem a Roma, a Padova 500, a Catania 360, cifra alla quale vanno aggiunti in media altri 100 euro per bollette varie e spese di condominio, 25 per il wi-fi. Per sostenere quest’impegno ogni mese ci vorrebbe uno stipendio rotondo (che non c’è) e dividere le spese è la conditio sine qua non. Questa giostra di ingressi e porte sbattute è popolata da maschi e femmine nelle stesse proporzioni, la modernità si esprime con il fatto che un ragazzo convive tranquillamente con una ragazza semisconosciuta senza alcun coinvolgimento affettivo ma l’equipaggio misto deve mettere in conto più differenze e più recriminazioni. Le foto del sito ritraggono di tutto, l’imbarazzo del bucato in comune e i turni di utilizzo del bagno fanno il resto. Le ragazze comunque sono più apprezzate dai padroni di casa perché considerate, a smentita di tutti i luoghi comuni, interlocutori più razionali. Le App e le tipologie - Il fenomeno dell’appartamento condiviso è così diffuso che sono già spuntate diverse app - BeRoomers, Uniplaces e Roommates - per «matchare» (si dice così) le diverse esigenze e tentare di trovare il coinquilino ideale in anticipo grazie a un sistema di recensioni come Tripadvisor (età, fumatore/non fumatore, amante degli animali o meno). A dimostrazione dell’interesse che il test del coinquilino rappresenta per monitorare l’universo giovanile esiste una ricerca sul tema realizzata dal Politecnico di Milano, dai due urbanisti Massimo Bricocoli e Stefania Sabatinelli e pubblicata sull’International Journal of housing policy. L’indagine si appunta sulle carenze del modello di welfare italiano «non amichevole nei confronti dei giovani» ed esamina le strategie di sopravvivenza. L’assenza di rilevazioni generali rende difficile quantificare il fenomeno e anche i censimenti nazionali che pure fotografano la situazione abitativa non scendono così nel dettaglio. I ricercatori hanno comunque diviso il campione dei coinquilini forzati in tre gironi: il primo è quello classico degli studenti fuori sede, il secondo è di ragazzi milanesi che lasciano la famiglia per conquistare autonomia e privacy, il terzo sono giovani che vengono da fuori - altre regioni d’Italia o estero - per lavoro. La ricerca conferma come analizzando gli stili di vita si capisca molto delle spinte all’autonomia, la responsabilizzazione e gli slittamenti di personalità dei giovani di questa età. «Vivere sotto lo stesso tetto non è facile, specialmente quando i bisogni e le esigenze legati all’uso degli spazi e alla gestione del tempo differiscono in modo sostanziale - dicono i due urbanisti -. L’organizzazione del quotidiano tra chi studia e chi lavora, ad esempio, genera priorità differenti e può portare a scontri. Ma l’esperienza di condivisione di un appartamento può anche dare vita a pratiche virtuose, la capacità di mediare prima di tutto». Le liti: disordine e pagamenti - Ed è proprio questo il tema più delicato (come dimostra il successo del sito), perché la mediazione è passaggio assai complicato. Certo, esistono anche storie esemplari come quella di Corrado che di fronte alle difficoltà di pagamento dell’affitto del coinquilino gli fa da banca. In realtà però prevalgono i conflitti, le esasperazioni caratteriali e il sogno di poter mandare via il convivente e restare da soli. Secondo un sondaggio di Easystanza, un altro sito che affitta stanze ai coinquilini, i motivi di conflitto principali arrivano da «punti di vista e abitudini differenti» per il 41%,

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da poca collaborazione nella faccende domestiche per il 31%, disordine e poca igiene per il 30%, ritardo nel pagare le spese per il 13,5 e portare gente sconosciuta per il 13%. Le aree fisiche dove si litiga di più sono la cucina, bagno e balcone. Chi resta con i genitori - Un recente studio dell’Istat ci dice che gli under 35 non sposati che condividono lo stesso tetto con mamma e papà sono 6,8 milioni e il 62,5% dei celibi/nubili di quella fascia di età. Al loro interno i mammoni forzati sono per un terzo studenti, un terzo disoccupati e un terzo hanno un lavoro. Dando per scontato che le prime due tipologie non hanno molta scelta e sono obbligati a restare con i genitori è interessante approfondire le strategie di vita dell’ultimo terzo. Quanti di loro hanno uno stipendio sufficiente per prender casa fuori e mollare gli ormeggi? Non ci sono numeri precisi ma si può stimare che serva uno stipendio di 2 mila euro nelle grandi città per poter traslocare definitivamente. Di paghe di questo tipo non ce ne sono molte in giro (neanche un ingegnere riesce ad arrivarci nei primi anni di lavoro) e quindi viene fuori la tattica di cercare un coinquilino. Anche la ricerca di Acli e Cisl che ha segnalato l’avanzare di un sentimento di «arrendevolezza» tra i ventenni romani segnala come in una grande città la maggioranza (il 58,5%) degli intervistati indichi nelle «risorse materiali» la condizione necessaria per andare a vivere da soli. Chi fa questa scelta a suo modo è un piccolo eroe perché non si perde d’animo e in nome dell’autonomia e della crescita personale decide di fare almeno un passo e provare a tagliarsi i ponti dietro. Non tutti sono ugualmente coraggiosi, ma come dice l’Istat c’è chi resta in famiglia magari con l’idea di mettere da parte i soldi e prendere il largo solo in un secondo tempo. Il confronto con l’estero - Come si usa in questi casi viene da paragonare la nostra situazione a quella degli altri Paesi europei ed è sempre un esercizio utile. Vediamo. Gli scandinavi vanno fuori di casa in media a 22 anni, in Francia - nonostante che il loro Tanguy cinematografico sia diventato il simbolo dei mammoni dell’Occidente - tra i 23 e i 24, in Spagna - che ha tassi di disoccupazione doppi dei nostri - a 29 anni come gli italiani. Questo ritardo ha un effetto domino su tutte le scelte di vita successive (matrimonio, figli) e crea un trentenne che non ha preso decisioni significative, non sa gestire un budget economico e quindi rinvia forzosamente la propria maturazione. Il nostro coinquilino è come se con il suo coraggio volesse almeno dimezzare tutti questi effetti negativi, parte senza sapere perfettamente quando arriverà alla meta della piena autonomia ma intanto si fa le ossa. Sapendo che, ancora peggio di sopportare un convivente odioso, c’è il ritorno nella casa dove si è cresciuti mettendo in bilancio un fallimento. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag II La speculazione sui buoni lavoro di Vettor Maria Corsetti L’Inps accusa le imprese: “Tre milioni di voucher nel Veneziano, chiaro abuso” «Nel mese di luglio il ricorso ai voucher rispetto al 2015 è aumentato del 36,2%. E in base a un calcolo puramente matematico di proiezione su dati storici, a Venezia e nel territorio della Città metropolitana ne circolerebbero più o meno 3 milioni all'anno». A denunciare un uso dei voucher, che in moltissimi casi si sta trasformando in abuso, è stato Ettore Vittiman, presidente del Comitato provinciale Inps. La precisazione del responsabile dell'organo di controllo dell'Istituto è giunta a margine della presentazione dei dati pensionistici 2015, resi noti ieri dal direttore provinciale Beniamino Ferrari. Dove la preoccupazione di Vittiman si è concentrata non solo su una sede che può contare su un singolo dirigente, su due medici anziché quattro e su un personale diminuito di anno in anno dell'8%, ma sull'esame e l'analisi del fenomeno voucher. Specie in relazione all'uso improprio dei cosiddetti "buoni lavoro", in una regione che per utilizzo si colloca al secondo posto a livello nazionale, anche comunque per l’elevato impiego di stagionali legati al turismo (soprattutto le spiagge). «L'abuso del voucher - ha spiegato Vittiman - è dannoso per l'Italia, perché di fatto non dà diritto a una pensione a persone che, una volta in quiescenza, dovranno essere sostenute dalla fiscalità generale. Per le aziende corrette, vittime di una concorrenza illecita. Per i lavoratori privi di tutela contrattuale. Per le casse dell'Istituto e per l'Inail, che con un contributo di 70 centesimi deve coprire tutte le garanzie in caso d'infortuni». «Questo sistema pensato per i lavoratori agricoli - ha aggiunto - è applicato sempre più impropriamente per dipendenti che nulla hanno di

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stagionale. L'attività ispettiva per la prevenzione degli abusi? Sempre più intensa, con una percentuale di verbali di contestazione andati a buon fine nel 77,9% dei casi». Nella medesima circostanza, il presidente del Comitato provinciale Inps ha posto l'accento sulle attività di contrasto dell'evasione ed elusione contributiva, «nonostante la marcata diminuzione degli ispettori rimasti in servizio». Che, nel 2015, hanno portato alla scoperta nel Veneziano di 14 milioni 509mila euro di contributi omessi: un numero pari a quello dell'anno precedente. Ad approfondire i dati di produzione del 2015 e l'andamento dei primi otto mesi del 2016, invece, è stato il direttore Ferrari. L'anno scorso, le pensioni hanno chiuso a quota 10.327, cui vanno ad aggiungersi le 4.281 per la pubblica amministrazione, le 1.126 da convenzioni internazionali, 709 fondi speciali e 8.709 pensioni per invalidità civile. Dati tutto sommato stabili, contrariamente alla disoccupazione in aumento: 47.886 casi tra Aspi, Naspi e mini Aspi, 2.500 domande di mobilità, 2.641 Tfr e 9.290 tra Tfr/Tfs e previdenza complementare. «È positivo l'andamento dei tempi soglia delle pensioni - ha sottolineato Ferrari - Nel 2015, licenziate per il 94,2% entro 30 giorni, e in 120 nel 98,99% dei casi. L'invalidità civile entro 120 giorni, infine, è al 43,67%. Il 2016? Nella prima casistica siamo già al 90%, la seconda è stabile e la terza ha superato il 55%». Domenica prossima si svolge a Venezia la 66. Giornata nazionale per le vittime degli incidenti sul lavoro. La manifestazione, come di consueto, prevederà due momenti: la cerimonia religiosa in ricordo delle vittime del lavoro, celebrata alle 8.30 nella chiesa di San Salvador dal patriarca Francesco Moraglia, e la cerimonia civile in programma dalle 10 alle 13 al teatro Goldoni. Dopo i saluti della presidente del Consiglio comunale, Ermelinda Damiano, seguirà una tavola rotonda, a cui parteciperanno tra gli altri il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Giuliano Poletti, il sottosegretario all’Economia e alle Finanze Pier Paolo Baretta, il presidente della Commissione Lavoro del Senato Maurizio Sacconi, il presidente della Commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano, il commissario straordinario dell’Inail Massimo De Felice, il direttore Lavoro e welfare di Confindustria Pierangelo Albini, il segretario generale della Cgil Susanna Camusso, il segretario confederale della Cisl Gigi Petteni. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag III Guzzon, mail al sindaco: “Accordi traditi, lascio. Impossibile lavorare” di Michele Fullin L’assessore lascia la Giunta spiazzando anche il Carroccio Ha aspettato mesi in silenzio, in attesa che qualcosa cambiasse nel gelo politico che da prima dell’estate contraddistingue i rapporti tra il sindaco Luigi Brugnaro e la Lega. Ieri, l’assessore al Commercio Francesca Guzzon, ha preso la decisione di dimettersi dall’incarico con una mail al primo cittadino. Una decisione difficile, per una giovane leva su cui il Carroccio aveva deciso di puntare, che dimostra quanto complicata da sopportare fosse la sua situazione: in Giunta, ma senza il potere di incidere sulle decisioni. Le dimissioni, comunque, per essere effettive dovranno essere protocollate in Segreteria Generale. Per questo il sindaco ha ritenuto non commentare, almeno per il momento. L’IMPEGNO - «Io non intendo la carica pubblica come obiettivo di potere o denaro - dice affranta - ma come servizio per tutti, anche quelli che non mi hanno votata. La parola data e il rispetto degli impegni pubblicamente assunti con gli elettori, per me vengono prima dei calcoli di convenienza personale o della poltrona da assessora. La mia scelta è rinunciare a quest'ultima piuttosto che tradire la fiducia dei cittadini. È con grande rammarico che lascio questo importante incarico». LE MOTIVAZIONI - Una scelta maturata nell’ambito personale, dunque, e probabilmente non condivisa a pieno dai vertici del Carroccio, visto che non più di due giorni fa avevano ribadito - con il segretario provinciale Sergio Vallotto - il fatto che nessuno l’avrebbe allontanata da Ca’ Farsetti. Questo perché nelle ultime settimane la Guzzon era stata al

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centro delle chiacchiere poiché agli incontri con le categorie (l’ultima è stata a Mestre sui mercatini) si presentavano altri assessori e alle commissioni che riguardavano il suo referato almeno in parte (come le sale giochi e il supermercato del Lido) non era neppure stata invitata a partecipare. Il sindaco Luigi Brugnaro ha sempre affermato di essere «onorato di avere in Giunta assessori della Lega», ma nei fatti la Lega è rimasta ai margini, come denunciato a metà settembre sul Gazzettino dallo stesso Vallotto. Va ricordato poi che esattamente un anno fa (il 2 ottobre) si era dimessa la precedente assessora al Commercio Rossana Pavan, sempre in quota Lega. Allora, la scelta fu motivata da ragioni personali e professionali, ma già allora si parlava di scarsa autonomia nell’esercizio delle deleghe. IL DISAGIO - «Il mio disagio, in quanto espressione del partito Lega nord - prosegue Francesca Guzzon - è aumentato nel corso di questi mesi, e mi sono più volte domandata che senso poteva avere restare all’interno di una maggioranza dove le politiche del mio partito e le relative priorità non avevano ascolto alcuno. Al punto che decisioni importanti, riguardanti anche le mie deleghe, non venivano discusse prima e concordate, in quello che dovrebbe essere un normale gioco di squadra nel gestire problemi delicatissimi in una città delicatissima come Venezia. In questa situazione - aggiunge - è ovvio che un grande partito come la Lega non può che prendere atto che non esiste collegialità né collaborazione nel prendere importanti decisioni all’interno della Giunta, sia per i temi generali, ma soprattutto per quelli facenti parte del programma politico della Lega per Venezia». Quali siano questi temi è noto, poiché è stato più volte denunciato dal Carroccio e dall’ex alleato Gianangelo Bellati. PATTI TRADITI - «Per quanto mi riguarda - ricorda Guzzon - non posso che confermare che, a livello di programma e degli impegni presi in occasione del ballottaggio, la posizione del sindaco si è allontanata via via da quella originaria, mettendomi personalmente in difficoltà anche nei rapporti col partito che rappresento in Giunta. Negli accordi che a suo tempo erano stati presi, era chiaro che per la Lega i principali obiettivi erano la sicurezza, il decoro, l’elezione democratica del sindaco metropolitano, l’indizione del referendum per la creazione dei due comuni di Venezia e Mestre. Con varie scuse per le più diverse ragioni tali impegni, in particolare gli ultimi due, sono stati disattesi. Ma a ciò si aggiungano - conclude - le diverse valutazioni fra il Comune e la Regione guidata dalla Lega, sia con riferimento a temi come la viabilità, sia con riferimento al tema delle Grandi navi e dello scavo di nuovi canali, sia all’apertura di nuovi centri commerciali». Pag XXVII Icone tra Oriente e Occidente Festa della Madonna del Don, a Mestre l’inaugurazione dell’esposizione Questo pomeriggio, alle 17 nella Provvederia in via Torre Belfredo, l’assessore comunale alla Gestione del Patrimonio, Renato Boraso, interverrà all’inaugurazione della mostra “Icone. La madre di Dio tra Oriente e Occidente”. Si tratta di un’iniziativa organizzata dal Comune di Venezia, in collaborazione con l’associazione Amici dei presepi di Spinea, l’Associazione Nazionale Alpini e il Banco San Marco, nell’ambito del programma “Le città in festa”, per il cinquantesimo anniversario della Festa della Madonna del Don. Saranno esposte opere di Michela Giordani, Clizia Bruno, Giuliana Rosada, Linda Bordin, Liubov Pogadina, Nicoletta Bustreo, Rita Martini, Iulia Tarciniu Balan, Elisa Baraldi e provenienti dalla collezioni private della famiglia Orler e di Tiziana De Porti. La mostra rimarrà aperta tutti i giorni fino al 19 ottobre, dalle 10 alle 12 e dalle 15.30 alle 18.30. Una seconda sede espositiva, che aprirà però il 10 ottobre, è il Banco di San Marco in via Verdi. Gli orari sono: dalle 8.30 alle 13.30 e dalle 14.45 alle 16.05, chiuso sabato e domenica. Interverranno Alessandro Cuk, presidente dell’associazione Amici dei presepi Spinea, Remigio Battel, superiore del Convento dei Cappuccini di Mestre, Alberto Bonfiglio, capogruppo Alpini Mestre, Franco Munarini, presidente della Sezione ANA di Venezia. Dopo l’inaugurazione, nella sala consiliare del Municipio di Mestre in via Palazzo, il giornalista Gianni Montagni, presenterà il libro “1966 – 2016 Madonna del Don, una Festa e una Città”, realizzato dall’Associazione Alpini di Venezia, sezione di Mestre. CORRIERE DEL VENETO Pag 11 L’assessore Guzzon si dimette. Mail di due righe: “Troppo stress” di Monica Zicchiero e f.b.

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Vallotto: “Motivi personali, i rapporti tra Lega e sindaco non c’entrano”. Ma il Carroccio vuole un incontro. Dall’accordo al referendum, l’alleanza difficile: 2 addii in 15 mesi Venezia. Alla fine non ce l’ha fatta più e ha mollato la giunta. Per «questioni personali» ieri sera alle otto e mezza l’assessora al Commercio Francesca Guzzon ha presentato le sue dimissioni. «Stress, le incombenze di un assessorato a Venezia non sono cosa lieve e lei è giovane e deve pensare alla sua vita», spiega Sergio Vallotto, segretario della Lega. Le dimissioni di Guzzon non sono state protocollate perché a quell’ora non c’era personale a Ca’ Farsetti per poterle vidimare e bollare. Una mail di due righe ha informato uffici e politici e la notizia si è propagata. Stamattina le dimissioni saranno protocollate e ci sarà anche giunta, già convocata per altri motivi; gli assessori attendono dal sindaco Luigi Brugnaro una riflessione sulla defezione della Guzzon e sul futuro politico della maggioranza fucsia e dei rapporti con la Lega, essenziali per la Città Metropolitana e nel dialogo con la Regione. Guzzon dai «pianini» al regolamento sulle sale giochi ha visto spesso il sindaco o i dirigenti illustrare in esecutivo le delibere al suo posto. Le motivazioni personali furono anche il tema delle dimissioni della prima assessora al Commercio, sempre in quota Lega, Rossana Pavan. Radio Ca’ Farsetti parlò allora di uno scontro duro e ad alta voce nelle aule del palazzo. Lacrime se ne versano in politica e le urla si mettono alla voce «franco confronto». La Guzzon ha scelto la strada dell’assenza e per settimane non si è vista in giunta né nelle ultime commissioni, quella sui giochi o sul nuovo supermercato Alì al Lido. Per mettere spazio di riflessione tra la responsabilità assunte nei confronti del partito e quelle prese col governo della città sui temi più controversi nel rapporto politico tra i fucsia e la Lega: quinto referendum sulla separazione in primo luogo, ma anche laguna, scavo di nuovi canali per le grandi navi, richiesta di status speciale per Venezia. Ma non è una questione politica tra Carroccio e sindaco, assicura il segretario della Lega Vallotto. «È una questione personale – scandisce –. Forse attiene alla difficoltà di non riuscire a reggere lo stress di un assessorato a Venezia, ma nulla c’entra col discorso aperto dalla Lega con Brugnaro ed è avulsa dal tentativo di dialogo in corso». Il tentativo di dialogo lo ha lanciato il segretario Veneto del Carroccio Gianantonio Da Re, che proprio ieri ha chiesto a Brugnaro un confronto sugli argomenti spinosi (Venezia, la Città metropolitana, il referendum), confidando di poter ritrovare l’armonia dei primi tempi. «Adesso è il momento per fare il punto – aveva detto - Di sedersi al tavolo, capire le sue priorità, le nostre idee e trovare la quadra comune». Tra gli attriti che separano il sindaco civico di centrodestra dal partito che è al governo in Regione c’è il referendum sulla separazione: la Lega lo vuole e nell’accordo in vista del ballottaggio Brugnaro aveva firmato l’impegno a favorirne lo svolgimento. Ma adesso lo ostacola. «Non è facile reggere un incarico a Venezia alla prima esperienza amministrativa e ringrazio moltissimo Francesca Guzzon, che è una brava ragazza preparata che ha dato molto – dice Vallotto – Di Piani B ne abbiamo molti, molte donne dalla solida formazione da proporre per il ruolo. Ma tutto ruota intorno all’incontro che prima o poi ci sarà tra Brugnaro e la Lega. Ritengo che ci siano spazi di manovra», annuncia. Venezia. La foto con il leone di San Marco alle spalle ormai è solo un lontano ricordo. Erano i giorni della conquista di Ca’ Farsetti, dei proclami e delle promesse. I giorni in cui l’altro alleato, Forza Italia, si lamentava della presenza leghista in giunta, con due assessori (Pavan e Colle) e un delegato (Giusto). I giorni in cui Gian Angelo Bellati, alleato al secondo turno con la sua Coesione Popolare, gli aveva voltato le spalle. La Lega no, Brugnaro difendeva il Carroccio, il Carroccio sosteneva il sindaco-imprenditore da cui si aspettava molto. Anche l’appoggio al referendum sulla separazione di Venezia da Mestre, che ha invece portato alla frattura di questi giorni, anche se è prematuro parlare di un «divorzio». L’irruenza di Luigi Brugnaro e il suo essere «One man show» ha infatti nascosto fin da subito l’anima leghista della sua maggioranza. Non è un caso che le due assessore al Commercio (prima Pavan e poi Guzzon) si siano dimesse per gli identici motivi: lo stress e l’impossibilità di conciliare la vita personale con il lavoro da assessore. «Di lei mi è piaciuto l’atteggiamento di umiltà e voglia di lavorare in squadra, con umiltà, determinazione e coraggio», aveva detto il sindaco nel presentare Francesca Guzzon. Timida, taciturna, non è mai stata un assessore di molte parole. E nemmeno di molti atti, a vedere le delibere presentate e le iniziative costruite con le associazioni di

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categoria che hanno denunciato fin da subito la mancanza di dialogo con l’amministrazione. Delega difficile quella del commercio, sia per il centro storico dov’era in discussione il piano dei plateatici, che in terraferma dove invece i negozi stanno chiudendo uno dopo l’altro. I rapporti sempre più tesi tra la Lega e il sindaco hanno fatto il resto, ingessando il lavoro di Guzzon, molto vicina al segretario provinciale del Sergio Vallotto. La frattura è arrivata dopo il voto contrario di giunta al referendum sulla divisione. «Io non ho problemi», ripeteva da giorni Brugnaro. La Lega sì. L’alleanza si gioca adesso sul nome del sostituto. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Con Bebe per il bene di tutti di Alessandro Russello La scienza e i dati Parliamo di malattie, alcune delle quali erano ormai estinte, come la poliomelite, il tetano, la difterite e l’epatite B. Vaccinazioni obbligatorie nel resto d’Italia ma non in Veneto. Ma il problema non è solo o tanto quello dell’obbligatorietà. Se la quasi totalità dei medici è perfettamente consapevole e convinta del fatto che i vaccini salvano milioni di bambini (e adulti), il punto di caduta è nella «cultura del rifiuto» sempre maggiore alla copertura sanitaria. Non solo per disinformazione generale o sciatteria dei genitori legata al fatto che nessuno obbliga più nessuno, quanto per un’avversione ideologica alla prevenzione. Dove gli anti-vaccino, alcuni dei quali con figli colpiti dagli effetti collaterali della profilassi e quindi rispettabili nelle loro rivendicazioni, sostengono che le vaccinazioni non sono che un modo per arricchire le industrie farmaceutiche. Ora, di fronte a questo dobbiamo metterci d’accordo. E fare una scelta. Decidere se vogliamo stare con i numeri e con la scienza medica ufficiale (che qualcuno pronuncia con odio anti-sistemico a prescindere) o con i percorsi che con un eufemismo potremmo definire «molto laterali». Per questo, ricorriamo ai dati divulgati dall’unica regione italiana ad aver introdotto la non obbligatorietà (il Veneto appunto). Secondo i quali – a proposito dei danni collaterali di cui parlavamo - dal 1993 al 2015, su 31 milioni 982 mila dosi somministrate, sono emerse 533 reazioni gravi, nella maggior parte guarite completamente. Mentre i pazienti che hanno presentato conseguenze a distanza sono 17 e in ventidue anni di osservazione non sono stati segnalati decessi correlabili. Insomma, sempre credendo ai dati e nella medicina ufficiale - e noi ci crediamo - è un fatto che i vaccini continueranno a salvarci da malattie e morte. Più difficile salvarsi dal medioevo delle pur rispettabilissime «controculture» non corroborate dai numeri e dalla verifica dei fatti. Con un’appendice oltremodo civica. Ovvero il riverbero dei comportamenti singoli (chi non fa vaccinare i propri figli) nella qualità della vita e della sanità collettiva. È il famoso «effetto gregge» illustrato sempre in questi giorni dal professor Giorgio Palù, ordinario e direttore del laboratorio di Microbiologa dell’Università di Padova e presidente della Società Europea di Virologia. Testuale: «In Veneto siamo sotto la soglia del 95 per cento per quel che riguarda le vaccinazioni pediatriche contro polio, epatite b ma anche rosolia e morbillo. Le conseguenze di questa fotografia sono preoccupanti perché viene meno la cosiddetta immunità di gregge, cioè la presenza di un numero sufficiente di anticorpi contro i patogeni e quindi in grado di proteggere anche chi non è vaccinato». A noi, intanto, che crediamo nell’informazione corretta e nel contagio culturale, piace pensare a quanto servirà quella straordinaria immagine di Bebe scattata dalla fotografa Anne Geddes per la campagna mondiale WinForMeningitis. Lei, giovane donna dal volto da ragazzina - menomata dall’amputazione dei quattro arti per una meningite contratta da piccola perché il suo pediatra sconsigliò alla famiglia la profilassi a quell’età - che tiene in braccio il piccolo Vincent. Vita che chiama vita. La sua bellezza al servizio del mondo. Un capolavoro di coscienza e di coraggio. Un capolavoro anche fotografico, di fronte a tanta arte «concettuale» da gettare nel cestino. La forza della realtà dove il volto e il corpo di una ragazza sono più potenti di millanta seminari scientifici, assolutamente necessari ma difficilmente traducibili nell’educazione orizzontale che dovrebbe essere, questa sì, compito della «politica». Un’opera d’arte come la vita e la

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coscienza civica di Bebe e della sua famiglia. Noi stiamo tutti con Bebe, per il bene di tutti. E per prima dovrebbe starci la Regione, ripristinando l’obbligo vaccinale sospeso nel 2008. Pag 5 Vaccini, Roma chiede il ritorno all’obbligo. L’Ordine: “Radiazione per chi li sconsiglia” di Michela Nicolussi Moro Sanità e prevenzione in Veneto Venezia. Comincia a preoccupare anche la comunità scientifica il crollo della copertura vaccinale del Veneto, nel giro di tre anni scesa dal 95,5%(il limite di sicurezza è del 95%) al 90%-91% per difterite, tetano, poliomelite ed epatite B. Ovvero le quattro patologie per le quali nel resto d’Italia vige l’obbligo di immunizzare i bambini, sospeso dalla nostra Regione nel 2008, quando la copertura era al 98%. Oggi, recita l’ultimo report redatto dai tecnici di Palazzo Balbi, il livello di protezione contro poliomelite (ricomparsa in Europa), difterite e tetano (l’anno scorso in Veneto se ne sono registrati diversi casi) si è abbassata al 91,3%, mentre l’anti-epatite B segna un indice del 90,6%. Sono bassi anche i parametri delle vaccinazioni raccomandate: per il morbillo la copertura è dell’87% (la soglia di guardia è l’85%), per lo pneumococco è dell’84,6%, per il meningococco di tipo C del 90,5%, per l’Haemophilus influenzae b è al 90,6%, per la parotite all’87%, per la pertosse al 91,3% e per la rosolia al 87,1%. A questo punto gli esperti si stanno seriamente interrogando sull’opportunità di reintrodurre l’obbligo e l’Istituto superiore di sanità esorta una riflessione immediata. «Il Veneto si è potuto permettere di sospendere l’obbligo delle vaccinazioni perché regione virtuosa - ricorda il professor Giovanni Rezza, direttore del Dipartimento malattie infettive dell’ISS - ma se adesso il calo della copertura è accentuato, deve stare attento. Tassi del 90%-91% sono tanto sotto il livello di guardia, qualcosa che non va comincia a esserci, quindi bisogna agire. Se crollano le vaccinazioni, l’allarme va dato e un invito a rifletterci è imprescindibile da parte nostra. L’obbligatorietà scarica il genitore dalla responsabilità della scelta, perciò tende a vaccinare i figli. Il Veneto pensi almeno a reintrodurla per l’iscrizione a scuola». Quest’ultima opzione sarà al vaglio della riunione di oggi, a Roma, tra i tecnici delle Regioni e quelli del ministero della Salute. Intanto trova il sostegno della Federazione regionale degli Ordini dei medici. «Non siamo d’accordo nel reintrodurre l’obbligo vaccinale in generale, perché è giusto concedere la possibilità di scelta alle famiglie - dice il presidente, Roberto Mora - ma riteniamo opportuno imporlo come condizione per l’iscrizione dei bambini alle scuole pubbliche, dal Nido in poi. L’obbligo di certificato tutela non solo chi ricorre alla prevenzione ma anche i piccoli che, per patologie o condizioni di salute incompatibili con i vaccini, non possono immunizzarsi e sono quindi a rischio. Ricordo che i vaccini hanno debellato tragedie dell’umanità come il vaiolo, gravato da un indice di mortalità del 70%». Preoccupata la Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici, il cui vicepresidente Maurizio Scassola, veneziano, avverte: «Vale la pena reintrodurre l’obbligo, soprattutto in questa fase emergenziale: dobbiamo recuperare il terreno perso. E’ giusto lasciare libertà di scelta quando c’è contestualmente un’informazione ricca e corretta sui benefici della profilassi, ma qui è evidentemente mancata. E allora si deve porre l’accento sulla responsabilità civile e penale di chi, non ricorrendo alla protezione da malattie pandemiche, mette a repentaglio la collettività». Al momento però la Regione non pare intenzionata a fare dietrofront rispetto alla legge 7 approvata nel 2007 dal parlamentino di Palazzo Ferro Fini e che, a partire dal primo gennaio 2008, ha sospeso l’obbligo vaccinale e relative sanzioni, cioè la segnalazione dei genitori al Tribunale dei Minori e una multa. Il tutto fatta salva la possibilità del governatore di reintrodurlo a fronte di una situazione epidemiologica compromessa o di una copertura, per polio, tetano, diferite ed epatite B, palesemente inadeguata rispetto all’esigenza di tutela della salute pubblica, ovvero sotto l’85%. Entrambi fattispecie che oggi non si configurano. Però la commissione regionale sui vaccini, presieduta dalla dottoressa Francesca Russo, a capo della Prevenzione, e composta da virologi, igienisti e altri specialisti, sta affrontando il tema. «La scelta del 2008 era un’idea di civiltà e liberalità che puntava a rendere più consapevole la popolazione - spiega il professor Giorgio Palù, presidente della Società italiana di virologia e componente della commissione -. Purtroppo però ciò non è avvenuto, perché si sono recepiti solo i diritti e non i doveri e quindi la sospensione dell’obbligo è diventata

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un’arma in mano ai contrari ai vaccini. In commissione si sta discutendo se non sia il caso di tornare sui nostri passi e io penso che lo sia». Ma perché, otto anni fa, l’allora giunta Galan si imbarcò in questa difficile decisione? «Per rispondere a una direttiva europea - ricorda Flavio Tosi, oggi sindaco di Verona e all’epoca assessore regionale alla Sanità - l’Italia, la Grecia e il Portogallo erano rimasti gli unici a mantenere l’obbligo vaccinale e la Ue raccomandò che si adeguassero. Le altre Regioni non lo fecero perché non vantavano un livello di copertura alto come il nostro, mentre in Veneto la legge passò per un solo voto e in maniera trasversale. Cioè con l’appoggio di parte dell’opposizione e senza quella di diversi consiglieri di maggioranza. Fu una decisione scientifica più che politica, cioè appoggiata dai medici, e della quale non mi pento. Andava però supportata da una costante campagna di informazione e sensibilizzazione necessaria a non abbassare il livello di copertura, che chiaramente non c’è più stata. La Regione a un certo punto dev’essersi rilassata, però tornare indietro sarebbe sbagliato». Ad aggravare il problema, come ha denunciato la campionessa paraolimpica Bebe Vio, sono i camici bianchi, non pochi, che sconsigliano le vaccinazioni. «Contro di loro saremo inflessibili - assicura Mora - li radieremo. Chi crea pregiudizio alla salute pubblica dando false informazioni, non deve più fare il medico». «Abbiamo avviato indagini interne in tutta Italia - rivela Scassola - i colleghi assertori di posizioni antiscientifiche incorreranno in provvedimenti disciplinari gravi, fino alla radiazione». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Referendum, trappola per le élite di Aldo Cazzullo Loro (e noi) Qualsiasi governo che oggi sottopone la propria linea ai cittadini con un referendum si sente rispondere di no. Hanno cominciato gli inglesi, licenziando Cameron e la sua scelta di restare in Europa. Hanno continuato ungheresi e colombiani. Eppure le domande bocciate domenica scorsa potevano sembrare retoriche. Più che referendum, erano plebisciti. «Gli immigrati non li vogliamo, siete d’accordo, vero?». «Pace fatta con i guerriglieri, giusto?». Come si fa a essere contro la pace? Eppure l’insoddisfazione popolare e il rigetto verso i leader sono stati più forti: a Budapest la maggioranza è rimasta a casa, vanificando la prova di forza di Orbán; a Bogotà la maggioranza si è schierata contro. Ancora una volta, il fenomeno travalica le categorie storiche di destra e sinistra. In Ungheria la destra è uscita ridimensionata nella sua ambizione di ergersi a regime e ritagliarsi uno spazio al di fuori dalle leggi europee; ma in Colombia la destra ha vinto, denunciando l’accordo con gli ex terroristi come un cedimento all’ondata postcastrista e chavista che ha percorso l’America Latina lasciando disastri dal Venezuela al Brasile. La mancanza di lavoro e le difficoltà economiche aiutano a capire il malcontento, ma non spiegano tutto: mentre il mondo si piegava nella crisi, la Colombia cresceva al ritmo del 4% l’anno. La prevalenza del no ai referendum non è un fenomeno inedito. In Italia ad esempio, sino alle grandi vittorie di Segni, gli elettori avevano sempre votato no (in particolare all’abrogazione del divorzio e dell’aborto). Dopo l’esplosione del Maggio 1968, De Gaulle sciolse l’Assemblea nazionale e stravinse le elezioni; ma quando l’anno dopo sottopose ai francesi il suo progetto di riforma costituzionale, all’insegna del regionalismo e della partecipazione, fu sconfitto e si ritirò a vita privata, esprimendo l’intenzione di morire il prima possibile (fu accontentato l’anno dopo). E se è accaduto a un gigante della storia essere rifiutato dal popolo che aveva salvato, figurarsi alle figure ovviamente più modeste che calcano ora la scena mondiale ed europea. Complicata da un altro fattore. A Londra, dove il sistema bipolare ha retto - con l’eccezione delle politiche 2010 -, Cameron ha pagato il proprio azzardo con le dimissioni e l’addio alla politica. E in tutto il resto d’Europa i poli ormai sono tre o quattro. Il risultato è evidente: arrivare al 51% in una votazione secca è molto difficile; decisamente più facile per le opposizioni coalizzarsi contro chi comanda, scontrandosi con questioni più grandi di lui. In Francia il presidenzialismo a doppio turno crea una torsione per cui un candidato dal 30% o anche meno prende tutto, e diventa

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rapidamente impopolare: è accaduto a Sarkozy e a Hollande, domani accadrà forse a Juppé. La Spagna è senza governo da quasi un anno. In Germania la «Grosse Koalition» è di fatto un centrosinistra, con il centro che traballa e la sinistra che affonda. In Italia Renzi ha creduto di rafforzare il sì offrendo la propria testa all’elettorato, e ha ottenuto il risultato contrario. Basta leggere il sondaggio di Nando Pagnoncelli per il Corriere: nel merito il sì prevale nettamente, punto per punto, dal Senato al Cnel al titolo V; ma quando si tratta di dare un’indicazione netta, l’istinto popolare tende a orientarsi sul no. La campagna è ancora lunga, gli indecisi sono troppi per fare previsioni serie; ma la vittoria del sì, che non molto tempo fa appariva quasi scontata, si trova a dover rimontare la corrente della storia. Pag 15 Ma la Germania Est fa parte dell’Europa? di Danilo Taino A Dresda e nella regione orientale dilagano nazionalismo e xenofobia: complici il calo demografico e la mancata rielaborazione del passato Non fatevi ingannare dall’edificio con le cupole arrotondate e le torri alte e strette, vicino alla sponda del fiume Elba, a Dresda. Non è una moschea e non sono minareti quelli che si stagliano sul cielo nuvoloso. Era una fabbrica di sigarette, Yenidze, che all’inizio del secolo scorso un imprenditore ebreo fece costruire nella capitale cosmopolita della Sassonia. Oriente e Islam facevano buona pubblicità. Oggi, l’edificio segna il passare del tempo: Dresda appare molto meno aperta di una volta; e l’idea della moschea è difficile da vendere. All’improvviso, la città è diventata il cuore tedesco dell’opposizione agli immigrati. Al punto che c’è una domanda che nessuno pone esplicitamente ma è nella mente di molti. Dresda, così come i cinque Stati che una volta erano l’Est socialista del Paese, sono Germania? Com’è possibile che tra l’Ovest, tutto sommato aperto e disponibile ad accettare i rifugiati, e l’Est, dove il partito illiberale Alternative für Deutschland fa messe di voti e gli attacchi ai profughi sono quotidiani, ci sia un nuovo muro? Lunedì scorso, 3 ottobre, era l’anniversario della riunificazione tedesca del 1990. Dresda era la città scelta per tenere la celebrazione maggiore. E’ finita sui giornali per una contestazione ad Angela Merkel: cento militanti di estrema destra, su una manifestazione di diecimila, duri e puri contro l’apertura della cancelliera, un anno fa, a chi fuggiva dalla guerra in Siria. Percentuale bassa. Contestazione però nata e legittimata nel clima che si è creato nella città della Sassonia e nelle regioni che la circondano. E’ a Dresda che il movimento di destra, anch’esso anti-immigrati, Pegida è nato e ha tenuto manifestazioni ogni lunedì contro i musulmani. E’ nei cinque Länder un tempo Germania dell’Est (Ddr) che si concentrano i maggiori attacchi xenofobi. E’ in uno di questi Stati, il Meclemburgo-Cispomerania, che a inizio settembre Alternative für Deutschland è arrivata seconda nelle elezioni del Land, davanti alla Cdu di Frau Merkel. Ed è in un’altra regione dell’Est, il Brandeburgo, che - dicono i sondaggi - succederebbe lo stesso se si votasse oggi. Sì, lo Stato è uno e la convergenza economica non è fallita. Ciò nonostante, quando si viene al nazionalismo e all’approccio con gli stranieri, soprattutto i musulmani, le Germanie sono due. Quindici giorni fa, il governo ha reso pubblica l’analisi sullo Stato dell’Unità Tedesca. Nonostante che all’Est la quota di immigrati sia inferiore a quella della parte occidentale del Paese, i servizi di sicurezza hanno stabilito che nella Germania Ovest ci sono stati in media 10,5 casi di attacchi xenofobi ogni milione di abitanti; nel Meclemburgo-Cispomerania 58,7; nel Brandeburgo 51,9, in Sassonia 49,6. E quote alte anche negli altri due Land della ex Ddr, Turingia e Sassonia-Anhalt. Attacchi contro profughi, centri di accoglienza dati alle fiamme, violenze contro i politici vicini ai rifugiati. Non è che, dal punto di vista sociale ed economico, le due parti del Paese non convergano. Differenze rimangono. Ma il Pil per persona era di 21 mila euro (al tempo c’erano i marchi) contro 9.500 nel 1991 ed è passato a 37 mila contro 27 mila nel 2014. La disoccupazione a Est ha avuto un picco al 20% nel 2005 e oggi è sotto al 10%. Le case con riscaldamento nel 1991 erano il 90% nella Germania di Bonn e il 60% in quella di Berlino Est; oggi siamo 97 a 96. Strade e infrastrutture sono state realizzate soprattutto nei nuovi Länder. Cosa c’è, dunque, alla base del maggiore nazionalismo dell’Est? Naturalmente molte ragioni. Il calo della popolazione, per dire: tra il 1989 e il 2013, cresciuta del 4% in Occidente, caduta del 14% a Oriente (di oltre il 20% in Sassonia-Anhalt). Molte città e soprattutto le campagne hanno vissuto una vera e propria fuga: soprattutto delle ragazze, che hanno

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lasciato i loro coetanei a confrontarsi spesso con birra e gagliardetti nazisti. Ma c’è anche qualcosa di più strutturale. La filosofa ungherese Ágnes Heller ha spiegato, durante una conferenza alla «Fondazione Corriere della Sera», che un motivo forte sta nel modo in cui il nazismo è stato narrato e affrontato a Ovest e a Est nel dopoguerra. Dalla fine degli Anni Settanta, la Germania occidentale ha condotto un’analisi profonda e senza precedenti delle sue responsabilità, nelle scuole, nelle istituzioni, nella società. Che in una certa misura l’ha immunizzata dal nazionalismo. A Est, durante il socialismo reale, il Terzo Reich fu solo spiegato come frutto dell’imperialismo, criticato «al più perché uccideva i comunisti», ha detto Heller. A Ovest, il 1968 aprì l’età dell’autoanalisi impietosa. A Dresda, «lo spirito del ‘68» è in gran parte vissuto come un tradimento della Germania. La convergenza, qui, avrà tempi lunghi. Pag 19 Droga e vigilantes, la strage di Duterte di Guido Olimpio e Guido Santevecchi Il neopresidente filippino ha fatto uccidere 3.300 persone L’altro giorno si è paragonato a Hitler. «Hitler ha massacrato tre milioni di ebrei... Ci sono tre milioni di tossicodipendenti da noi, sarei felice di massacrarli». Di fronte alle proteste internazionali Rodrigo Duterte, l’uomo che dal 30 giugno è presidente delle Filippine, si è scusato solo per l’errore sul numero delle vittime dell’Olocausto, che furono sei milioni. La promessa di eliminare fisicamente spacciatori e tossicodipendenti resta e la sta mantenendo, anche perché piace ai suoi elettori. È in carica da meno di 100 giorni e sono già 3.300 gli uccisi nella sua guerra alla droga: caduti sotto i colpi della polizia e di vigilantes privati, organizzati in squadroni della morte. Sono risultati rivendicati con orgoglio. Come sono agli atti le testimonianze in Parlamento a Manila di ufficiali di polizia e membri delle squadre speciali che per anni, fin da quando Duterte era sindaco di Davao nell’isola di Mindanao, hanno eseguito i suoi ordini di ripulire le strade dai «trafficanti di droga», definizione che nella sua interpretazione ha confini molto ampi. In campagna elettorale, questo ex avvocato di 71 anni, promise di far fuori tanti criminali che «i pesci diventeranno grassi» grazie ai resti umani sparsi nella baia di Manila. Uno degli esecutori, Edgar Matobato, 57 anni, davanti al Senato ha raccontato di persone sequestrate, eliminate e date in pasto ai coccodrilli; di altre sventrate e buttate in mare. Dichiarazioni in parte corrette ma che cambiano la sostanza. Perché è il metodo adottato attorno al 1998 quando Matobato entrò nei «Lambada Boys» di Davao, gruppo per le liquidazioni extragiudiziali creato dal sindaco Duterte, nel quale sono in seguito confluiti dei poliziotti, tutti uniti dalla comune missione di cancellare i narcos. Un altro ufficiale ha raccontato al Guardian di aver partecipato in questi tre mesi a 87 «neutralizzazioni» (termine caro alla polizia speciale): «Noi siamo solo angeli ai quali Dio ha dato il talento di mandare in cielo le anime dei cattivi e di purificarle». Il suo presidente sostiene di voler salvare i tossicodipendenti «dalla perdizione» sterminando i criminali. Nelle retate e negli omicidi mirati sono finiti quasi sempre dei disperati, dei piccoli pusher, mentre capibanda importanti e personaggi più noti del giro sono stati risparmiati. Ad alcuni è stato anche permesso di rifugiarsi all’estero. Una giustizia sommaria strabica, dunque. I portavoce del presidente hanno negato gli addebiti e respinto la versione di Matobato, definendolo un calunniatore manipolato dagli avversari politici del leader. Difesa d’ufficio indebolita da altre esternazioni di Duterte in persona: «Mi chiamate la Squadra della morte? Giusto, è la pura verità», ha enunciato, fiero della sua strategia e dei soprannomi, compreso quello di «Duterte Dirty Harry», come l’Ispettore Callaghan dei film violenti interpretati da Clint Eastwood armato di 44 Magnum. Quando gli Stati Uniti, storico alleato, hanno espresso critiche sulla violazione dei diritti umani nelle Filippine, la reazione è stata scandalosa: Barack Obama è solo «un figlio di p...», ha sbottato Duterte, «che vada al diavolo». Ai governi europei ha consigliato di «fottersi» se non apprezzano la sua lotta al crimine e ha invitato l’Unione Europea a scegliere il purgatorio «perché l’inferno è al completo». Epiteti grevi li ha riservati al Papa così come a una suora australiana violentata durante una rivolta in una prigione filippina. Ma dietro il linguaggio volgare, il presidente filippino sta giocando una partita internazionale spregiudicata: ha chiesto armi a Pechino e Mosca per la lotta contro il crimine e il terrorismo interno, ha detto agli americani di ritirare i consiglieri militari dall’isola di Mindanao sostenendo che la loro presenza danneggia gli sforzi di pacificazione con i ribelli musulmani; ha annunciato la fine (in futuro) delle manovre

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militari congiunte con gli Usa. Ieri sono iniziate esercitazioni in comune con gli americani che a suo dire saranno le prime e le ultime del suo mandato. Con il suo linguaggio politicamente scorretto Duterte ha sottolineato: «Non voglio che le Filippine finiscano in mezzo a uno scontro Pechino-Washington, se il campo di battaglia sarà San Francisco o la Cina per me va bene». Quindi, non più giochi di guerra simulata con gli americani ma gioco di sponda con Pechino. Un salto da acrobata della geopolitica, visto che l’espansionismo della Cina nel Mare del Sud aveva provocato nel 2012 il ricorso di Manila di fronte alla Corte per gli arbitrati internazionali dell’Aia. Il governo di Benigno Aquino, predecessore di Duterte, aveva ritenuto inaccettabile l’occupazione cinese di Scarborough, un banco di scogli e secche a sole 150 miglia nautiche dalle coste filippine. In estate i cinesi sono usciti sconfitti e umiliati dal giudizio dell’Aia, pronunciato proprio mentre Duterte si insediava. Ma il nuovo presidente ora parla di come migliorare i rapporti con la Repubblica popolare cinese ed è atteso a Pechino. La Cina esulta di fronte alla prospettiva di staccare le Filippine da Washington e dalla politica «Pivot to Asia» di Obama, che fu ispirata da Hillary Clinton quando era Segretario di Stato. «Le nubi si stanno diradando, il sole sta sorgendo all’orizzonte e splenderà radioso su una nuova era nelle nostre relazioni bilaterali», ha appena detto l’ambasciatore cinese a Manila. In cambio, sembra che i cinesi abbiano fermato i lavori per la costruzione di un’isola artificiale alle Secche di Scarborough e Duterte annuncia di voler discutere con Pechino sui diritti di pesca nella zona. A Washington cercano di separare le sortite propagandistiche da atti concreti, contano sull’influenza dei militari filippini, però non nascondono i timori sul futuro di uno scacchiere chiave. Pag 29 Il dilemma dell’Italia in una Europa frammentata di Antonio Armellini Fra il proposito di «andare avanti da soli se gli altri non ci ascoltano», e quello di rilanciare l’Europa partendo da Ventotene, c’è una bella differenza, da cui traspare la fragilità di una politica guidata troppe volte dall’effetto di annuncio. Passi che l’Europa di cui si è discusso sull’isola pontina fosse lontana da quella delineata da un Manifesto che pochi avevano letto, e dalla visione di Altiero Spinelli; l’idea era buona per sottolineare mediaticamente la centralità dell’iniziativa italiana. Non c’è stato bisogno di Bratislava per vederne i limiti, che sono apparsi di tutta evidenza già qualche giorno prima, quando Francia e Germania hanno presentato a Federica Mogherini un documento congiunto sullo sviluppo della difesa europea senza l’Italia. La nostra proposta è arrivata un po’ di giorni dopo: come mai? Sembrerebbe quasi che all’attivismo di francesi e tedeschi non abbia corrisposto una analoga tempestività italiana e che i primi, stanchi di aspettare, abbiano deciso di procedere da soli senza attendere oltre. Il documento italiano è ben argomentato e contiene spunti interessanti, ma non bastano definizioni accattivanti (visto come vanno le cose oggi, forse anche un po’ iettatorie) come «Schengen della difesa» per recuperare un ruolo. Renzi ha avuto ragione a reagire a Bratislava alla sordità di partners che si rifiutano nei fatti di comportarsi come tali ma, aldilà delle proteste, vi sono alcune lezioni da trarre. Per quanto possiamo trovare la cosa sgradevole, non vi è eguaglianza di peso politico in Europa fra noi e Francia e Germania, per mille evidenti ragioni storiche, di immagine, psicologiche. Abbiamo la possibilità di inserirci costruttivamente nell’asse franco-tedesco sfruttando una caratteristica che ci distingue dagli altri, e sulla quale abbiamo giocato più volte con successo in passato: la capacità di elaborare politiche europee prive di suggestioni egemoniche e perciò stesso attente a cogliere con pragmatismo i margini del possibile nel processo di integrazione. Farlo significa dedicare una attenzione non casuale, approfondendo le implicazioni e, soprattutto, elaborando una strategia coerente di medio periodo su cui far convergere gli altri. Cosa questa che al momento mi pare difficile vedere. La scelta delle alleanze non può essere episodica. Abbiamo lanciato i sei Paesi fondatori del Mercato Comune come «nucleo duro» della nuova Europa: un’idea suggestiva ma priva di sostanza politica in una Europa profondamente diversa da quella del 1957. A Ventotene, ci siamo fatti promotori di un nuovo e più ristretto gruppo di testa. Qualche giorno dopo, ad Atene, abbiamo proposto un asse mediterraneo con Tsipras, puntando sulla copertura politica di Hollande. L’idea che il Presidente francese potesse farsi agganciare in formati che in qualche modo mettevano in ombra il rapporto privilegiato con Berlino, non poteva andare lontano. La Francia è oggi il vero malato d’Europa e, perciò, ha più necessità di

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chiunque altro dell’abbraccio protettivo di Angela Merkel, cui può offrire una sponda politica acciaccata ma ancora spendibile. L’Italia deve risolvere la contraddizione, sempre più evidente, fra la tentazione di una rinazionalizzazione strisciante della sua politica europea, espressa da Matteo Renzi dopo Bratislava, e la tradizionale linea europeista riaffermata, sia pure a parole, con lo «spirito di Ventotene». Indignarsi per esclusioni ingiustificate va bene, a condizione di avere una linea di ricambio credibile. Abbiamo ragione da vendere in tema di flessibilità e di immigrazione ma - per chi avesse dei dubbi - ci ha pensato la presentazione del Def a chiarire che è assai rischioso indebolire ulteriormente un tessuto europeo del quale continuiamo ad avere fondamentalmente bisogno. La Brexit ha aperto la stagione della frammentazione dell’Ue in una molteplicità di piccoli gruppi: Visegrád, i Balcani, gli scandinavi, sono la spia di un malessere potenzialmente rovinoso per l’Europa. Da soli difficilmente riusciremmo ad andare oltre la provocazione, magari intelligente, e gli spazi di manovra ci sono. La Germania sente scricchiolii sinistri (vedi Deutsche Bank) e prima o poi dovrà convincersi che una gestione dogmatica della zona euro può ritorcersi pesantemente a suo danno. Il «gruppo di Visegrád» (o «Asburgo light» come lo chiama qualcuno dopo l’adesione dell’Austria) non può erigere muri contro gli immigrati e allo stesso tempo reclamare piena libertà di movimento per i suoi cittadini. Al pari degli scandinavi, devono capire che il tema dei rifugiati non è solo umanitario, ma tocca l’equilibrio di una costruzione da cui traggono non pochi vantaggi. L’importante è «pensare lungo» e non farsi sedurre troppo dalla provocazione impressionistica; con l’UE ridotta a poca cosa, i primi perdenti saremmo noi. LA REPUBBLICA Pag 1 L’atto di fede del premier di Massimo Giannini Ha ragione il ministro del Tesoro Padoan: il programma economico del governo Renzi "non è una scommessa". Purtroppo, allo stato attuale, è qualcosa di ancora più incerto e ipotetico. È un vero e proprio "atto di fede". Ma purtroppo o per fortuna viviamo in terra di infedeli. E dunque bisogna rassegnarsi all'evidenza: i numeri che l'esecutivo ha scritto nella Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza per i prossimi tre anni sono scritti sull'acqua. È scritta sull'acqua la previsione di una crescita all'1% per il prossimo anno, come confermano da settimane tutti i maggiori istituti di ricerca italiani (l'ufficio studi di Confindustria ci assegna un misero 0,5%) e da ieri anche il Fondo monetario internazionale (che prevede uno scarso 0,9%). E non è questione di sfiducia nelle misure della legge di bilancio, che secondo Padoan sarà talmente potente da stimolare un aumento del Pil di quella portata. È che quella previsione tanto rosea non regge alle prove empiriche del passato. Lo ha denunciato l'Upb, Ufficio parlamentare di bilancio: perché mai una riduzione del deficit dello 0,5% o il disinnesco delle clausole di salvaguardia Iva dovrebbero far lievitare il Prodotto interno lordo? È scritta sull'acqua la previsione di una stabilizzazione del debito pubblico, che invece lo stesso Fmi prevede in crescita al 133,4% nel prossimo anno, e che non siamo riusciti a scalfire neanche grazie al bazooka di Draghi, grazie al quale paghiamo un rendimento sui Btp allo 0,55%, evento mai accaduto nella storia, che in un anno ci ha fatto risparmiare 10 miliardi di interessi. È scritta sull'acqua la stima di 3,5 miliardi di spending review, che continuiamo a spacciare per "taglio selettivo della spesa improduttiva", mentre finisce sempre per essere taglio semi-lineare al Fondo sanitario. E sono scritte sull'acqua anche le previsioni di aumento degli investimenti (quelli pubblici addirittura dall'1,5 al 3,4%). Forse è l'effetto-Ponte sullo Stretto, che fa già miracoli solo a parlarne? La verità è che ci stiamo giocando l'osso del collo, con noi stessi e con la Ue (l'Upb sostiene ad esempio che Bruxelles non ci concederà ulteriore flessibilità). Sappiamo ancora poco o nulla della prossima manovra, che dovrà vedere la luce entro il 15 ottobre. Ma è chiaro a tutti che in un'Europa "sotto scacco elettorale" (sono parole del premier), anche noi stiamo facendo la nostra parte, per illudere i cittadini-elettori che i soldi ci sono, e che se non ci sono ce li prenderemo lo stesso spezzando le reni alla perfida Albione, al momento non più la Gran Bretagna ma la Germania. La legge di stabilità rischia di essere rinunciataria e poco ambiziosa. Servirebbe una vera scossa (concentrata sul cuneo fiscale) e invece rischiamo di ritrovarci la solita pioggerellina di mancette pre-elettorali, mascherate con qualche buona intenzione apparentemente egualitaria (vedi la quattordicesima sulle

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pensioni più basse). Renzi ha ancora una decina di giorni per rimediare. Il sentiero è sempre più stretto, ma le scorciatoie contabili o diplomatiche possono portarci in un vicolo cieco. C'è da vincere un referendum costituzionale, e questo per il presidente del Consiglio può giustificare qualunque forzatura. Ma c'è da chiedersi qual è il prezzo da pagare. È grottesco che Brunetta gridi al "falso in bilancio", da braccio armato del Cavaliere (forse il massimo esperto della "materia") ed ex ministro nel governo berlusconiano delle cartolarizzazioni. Ma è un fatto che l'Ufficio parlamentare di bilancio non ha validato il nuovo Def perché non lo ritiene "credibile", e questo non era mai accaduto. È un altro fatto che per la prima volta dal 2014 la Spagna, senza governo da mesi e con una crescita del 3,2%, ha da ieri uno spread migliore del nostro. È ancora un ancora un altro fatto che la Banca centrale di Finlandia (come Bloomberg o Credit Suisse) ha rivisto al ribasso tutte le stime in Europa "a causa della Brexit e della situazione delle banche italiane". Ed è infine un ultimo fatto che il Financial Times, Bibbia della finanza internazionale, che giudicava Renzi "l'ultima speranza dell'Italia" nel gennaio 2015, ieri ha scritto che le sue riforme "sono un ponte sospeso nel vuoto". Tanti indizi, che tuttavia riflettono un dubbio crescente, e convergente, sulla tenuta del Paese. Quasi a prescindere dall'esito del referendum del 4 dicembre. Tocca al premier impedire che diventino una prova. LA STAMPA Il cuore malato del Capo e le due linee di Forza Italia di Marcello Sorgi Il brusco richiamo dei medici americani a Berlusconi e ai doveri della sua delicata convalescenza, dopo l'operazione al cuore e l'estate di forzata inattività, ha rimesso in ebollizione il suo partito senza pace. L'idea della successione affidata a Stefano Parisi, candidato sconfitto a sindaco di Milano ma aspirante una rivincita sul piano nazionale, s'era scontrata, non solo con i timori della vecchia classe dirigente di Forza Italia, per nulla disponibile a farsi rottamare, ma contro il desiderio dello stesso ex-Cavaliere di tornare in campo. Tal che, malgrado la promessa fatta ai figli e agli amici più fidati di prendersela con tranquillità, Berlusconi aveva fatto filtrare la possibilità di un suo ritorno in scena in occasione del compleanno, il 29 settembre degli ottant'anni che per la prima volta dopo molto tempo gli avevano fatto recapitare qualche riconoscimento insperato anche dagli avversari. E all' idea che la parentesi Parisi fosse servita solo a riempire il vuoto dell'immediata convalescenza post-operatoria, i colonnelli di Forza Italia, mugugnanti ad ogni affermazione di Parisi, e assenti, anche per volere del leader, alla sua convention milanese, improvvisamente si erano tacitati, convinti che alla fine tutto sarebbe cambiato per non cambiare nulla e il partito sarebbe rimasto quell' insieme anarchico che è sempre stato. Invece il contrordine dei medici riapre tutti i problemi. Con una conseguenza immediata sulla campagna per il referendum. Il ritorno di Berlusconi alla politica attiva sarebbe servito subito a capire, al di là del "No" ufficiale pronunciato per tenere unito il centrodestra, se nel partito sarebbe stata destinata a prevalere la linea più prudente di Letta e Confalonieri, aperta, anche per ragioni aziendali del gruppo che fa capo alla famiglia dell'ex-presidente del consiglio, alla possibilità di un riavvicinamento con Renzi stile patto del Nazareno, per concordare, se non proprio cogestire, il percorso finale della legislatura fino alla scadenza del 2018 in chiave anti-5 stelle, o quella più movimentista di Brunetta, votata a uno scontro senza esclusione di colpi con il premier per l'oggi e per il domani. Adesso, con la prospettiva del prolungarsi della forzata assenza di Berlusconi, la sensazione è che le due linee siano destinate a coesistere. E per capire quale delle due sia destinata a prevalere nel breve e nel medio termine occorrerà misurare lo spazio che le tv Mediaset daranno alle ragioni del "Si" e del "No", prima che scatti la par-condicio. AVVENIRE Pag 1 Nel tempo del “noi” di Marco Impagliazzo Per una grammatica senza confini Il nostro tempo conosce un’evidente accelerazione della storia: il disordine globale, il terrorismo, la tumultuosa crescita dell’Asia, l’interconnessione crescente delle informazioni e dei trasporti, la crescita delle migrazioni, la sfida climatica... Un mondo

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nuovo si profila all’orizzonte, ma non abbiamo ancora imparato a collocarci in esso, a comprenderlo pienamente e a padroneggiarlo. Quest’avventura che ci è toccata in sorte necessita di una nuova grammatica, di una bussola che ci orienti. Bisogna riflettere e riflettere ancora sul discorso pronunciato qualche giorno fa ad Assisi, durante l’incontro internazionale per i 30 anni dello 'spirito di Assisi', da Zygmunt Bauman: «La storia dell’umanità può essere riassunta in molti modi, uno dei quali è la progressiva espansione del pronome 'noi'». Un 'noi' – continuava il grande sociologo – che si è contrapposto per secoli agli 'altri', a un 'loro'. Ma, concludeva Bauman, «ci troviamo oggi di fronte alla necessità ineludibile di una nuova tappa di questa espansione, di un salto verso l’abolizione del pronome 'loro'. Viviamo in una realtà cosmopolita, che cerchiamo di gestire con mezzi sviluppati da antenati che si muovevano su territori limitati, e questa è una trappola! Siamo tutti dipendenti gli uni dagli altri e non si può tornare indietro. C’è bisogno di promuovere una cultura del dialogo, di una vera e propria rivoluzione culturale». C’è, è vero, una rivoluzione culturale da affrontare perché il 'noi' si è espanso in modo considerevole. Il 'noi' di mio nonno era la Sardegna, il mio l’Europa. Ma quello dei nostri nipoti sarà sempre più il mondo. Ciò rappresenta una sfida per tutti, ma per i credenti assume un valore particolare. Per i cristiani significa credere di più nella grande intuizione delle origini, quella prima globalizzazione della storia espressa in modo chiaro e sorprendente dall’apostolo Paolo, figlio di due culture e capace già allora di andare oltre entrambe: «Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28). Significa, in altre parole, rendersi conto che non c’è alternativa. Perché è vero quanto dice Bauman, vale a dire che non si può più tornare indietro: i popoli, le culture, le religioni, i continenti o andranno alla deriva, con le terribili conseguenze che possiamo immaginare, o dovranno convergere in un’unità che non è superamento delle differenze, ma consapevolezza di quanto siamo tutti interdipendenti gli uni dagli altri. L’alternativa al 'noi' non è l’indipendenza, ma la dipendenza dai 'demoni' della divisione e dello scontro, il moltiplicarsi incontrollato dei 'loro' che può solo portare a una pericolosa crescita degli estremismi e delle rivalità. Lo ha scritto ieri Ban Ki-moon, segretario generale dell’Onu, sul 'Corriere della Sera' «gli estremisti ci obbligano a decidere da quale parte stare usando la dicotomia 'noi contro loro'». Dove sceglieremo di vivere? In città abitate dal 'demone' dei 'loro', in conflittualità permanente, o in città la cui cifra è il 'noi', pur con tutti i piccoli e meno piccoli problemi che nascono dalla convivenza? Per fare un esempio concreto: avremmo preferito vivere nella Sarajevo di alcuni decenni fa o ci va bene quella di oggi? L’anno scorso papa Francesco, proprio a Sarajevo, incontrando i giovani diceva: «Voi siete la prima generazione dopo la guerra. Fiori di primavera che vogliono andare avanti e non tornare a quel che ci rende nemici gli uni gli altri. Voi non volete essere nemici l’uno dell’altro. Volete camminare insieme, come ha detto Nadežda. E questo è grande! Non siamo 'loro e io', siamo 'noi'. Vogliamo essere un 'noi', per non distruggere la patria, per non distruggere il Paese. Tu sei musulmano, tu sei ebreo, tu sei ortodosso, tu sei cattolico… ma siamo 'noi'. Questo è fare la pace! Una vocazione grande: mai costruire muri, soltanto ponti». Sì, la grammatica di questo tempo e quella della pace ha bisogno di un 'noi', di ognuno di noi. Solo così saremo più sicuri e più felici, non costruendo nuovi muri di mattoni, di reti o di diffidenza. E nemmeno – secondo la nota metafora di Hegel – prendendo il volo all’imbrunire, come la civetta di Minerva, cioè quando ormai è troppo tardi per comprendere il nostro tempo. Pag 3 La ragione da sola non vince la paura dell’immigrazione di Massimiliano Valerii La vera domanda è: quale società vogliamo costruire? Il più grande hot spot nella storia delle migrazioni moderne è un isolotto nella baia di New York, a un miglio dalla punta di Manhattan. In un quarto di secolo a Ellis Island sbarcarono 12 milioni di persone provenienti dall’Europa. Molti si fermavano, altri proseguivano il viaggio. Dei 7 milioni di abitanti che la città contava nel 1930, 3 milioni erano nati all’estero: venivano dall’Italia e dall’Irlanda, dalla Germania e dai Paesi scandinavi, erano polacchi, ungheresi, russi, tantissimi gli ebrei in cerca di un luogo sicuro in cui ricominciare. All’inizio dovevi farti il purgatorio di Ellis Island, dove ti scaricava la nave al termine della lunga traversata dell’Atlantico. Poi c’era lo squallore

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dei tenement sovraffollati, e nei bassifondi sudici della Bowery e del Lower East Side proliferavano miseria e soprusi. Intanto si stava formando quel formidabile melting pot – leggi: coesistenza di diverse comunità sulla base di valori e regole condivise – per cui New York è ancora oggi la capitale culturale e finanziaria del mondo. Noi, invece, non abbiamo ancora deciso che società vogliamo essere di qui ai prossimi vent’anni e la questione immigrazione continua a essere fortemente divisiva. Da una parte ci sono gli argomenti della ragione, dall’altra una emozione legittima e potente come la paura. Gli esodi migratori del nostro tempo rimarranno immortalati nelle immagini drammatiche di migliaia di profughi che solcano il mare su barconi di fortuna o che si ammassano lungo le frontiere europee, privati di tutto. Saranno raccontati dalle stime del numero di anonimi cadaveri risospinti sulle spiagge dalle onde o inghiottiti dalle acque. L’Acnur ha calcolato in 10mila i morti nel Mediterraneo dall’inizio del 2014 a oggi. Impossibile restare indifferenti: il 58% dei cittadini europei ora considera l’immigrazione il problema numero uno con cui la Ue deve fare i conti – una preoccupazione ancora più pressante della difficile situazione economica che stiamo vivendo (al primo posto per il 21%) e dell’occupazione (17%). Ci sono innanzitutto gli argomenti della ragione. Parlando degli sbarchi sulle nostre coste, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, getta acqua sul fuoco: «Non c’è nessuna invasione, checché ne pensino i professionisti dell’allarme sociale». E non ha torto: 131mila sbarchi a settembre dall’inizio dell’anno, 129mila nello stesso periodo dell’anno scorso, 135mila l’anno prima. La cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha detto di essere contraria all’idea di mettere un tetto all’arrivo dei rifugiati, pagando un prezzo politico per questo. Intanto in Europa si è persa tra i tanti dossier aperti la proposta italiana del Migration Compact: il piano per contenere i flussi migratori dall’Africa che prevede risorse per 8 miliardi di euro per il periodo 2016-20 da utilizzare tramite accordi con i paesi coinvolti. L a ragione ci dice anche che le diversità sono preziose per una fisiologia sociale positiva: una società che funziona bene le stempera, le valorizza, le fa diventare una ricchezza. E sta attenta a evitare il rischio che le differenze diventino distanze, disconnessioni urbanistiche e relazionali, e poi si trasformino in fratture, cadendo così nella patologia sociale. La ragione ci dice poi che a un Paese sull’orlo del default demografico come l’Italia e a un continente europeo che invecchia rapidamente gli immigrati servono, sono indispensabili, assicureranno il lavoro e le pensioni di domani. Certo, il nostro sistema di gestione delle emergenze è sottoposto a uno stress continuato: le persone ospitate nelle strutture di accoglienza sono aumentate dalle 22mila del 2013 alle 159mila di oggi – numeri destinati a crescere nelle prossime settimane. Certo, sono tutt’altro che rare le situazioni di sfruttamento e di indigenza, se pensi a quei poveri diavoli alle prese con le cassette di arance o con la raccolta dei pomodori nelle campagne del Sud per guadagnarsi qualche euro a giornata. Però esiste uno specifico modello di integrazione italiano che ci differenzia rispetto ai fenomeni di concentrazione etnica, disagio sociale e radicalizzazione identitaria che caratterizzano le banlieues parigine o le innercities londinesi. I 5 milioni di stranieri che vivono stabilmente sul nostro territorio (l’8,3% della popolazione complessiva), appartenenti a circa 200 nazionalità diverse, sono per la gran parte proiettati lungo una traiettoria di ascensione sociale, all’inseguimento della condizione di ceto medio. I titolari d’impresa stranieri sono aumentati del 49% dal 2008 a oggi (e ti vengono in mente i negozi di frutta e verdura che riempiono le nostre città, i take away, le piccole ditte edili), mentre nello stesso periodo le imprese guidate da italiani diminuivano sotto i colpi della crisi dell’11%. I cinesi all’opera nei capannoni di Prato ci ricordano gli stracciaroli pratesi che negli anni 70 del Novecento lavoravano ai telai nei sottoscala e stavano sviluppando silenziosamente il distretto del tessile, oppure gli scarpari marchigiani divenuti poi campioni del made in Italy. Abbiamo imparato che nel cuore dell’Europa, invece, l’islam radicale può diventare il veicolo del rancore di quelle seconde e terze generazioni che vivono la percezione di una promessa di ascesa sociale tradita: quella promessa che aveva spinto i loro genitori a partire dal Maghreb attratti dall’industrializzazione e dal benessere francesi. E abbiamo scoperto che quei luoghi possono diventare la piattaforma logistica per foreign fighters e terroristi arruolati che ripudiano i nostri valori e il nostro modello di convivenza. Ma gli argomenti della ragione non suonano persuasivi di fronte alla paura: la paura dell’altro come minaccia alla propria identità, la paura dello spaesamento, la paura che un bel giorno guardandoci allo specchio non ci riconosceremo più, insomma la paura di un’apocalisse culturale prossima

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ventura. Quella paura di cui si alimentano le imprese politiche populiste che hanno sempre più presa in tutta l’Europa. Quella identità che si pensa di difendere e preservare alzando muri, barriere e fili spinati, oppure invocando nuove Brexit. È per questo che lo scorso 2 ottobre i cittadini ungheresi si sono pronunciati attraverso un referendum, indetto dal premier conservatore Viktor Orbàn, sulla ripartizione delle quote di profughi e migranti decisa dall’esecutivo europeo (consultazione che non ha raggiunto il quorum richiesto, ndr). Ed è per questo che il 4 dicembre si ripeterà il voto del secondo turno delle presidenziali austriache, come chiesto dalla destra ultranazionalista, che lo scorso maggio aveva sfiorato la vittoria. Ed è per questo che la globalizzazione – con il progressivo allargamento dei confini e delle frontiere trainato dai liberi scambi – continua a dividere anche gli italiani: conserva un valore positivo solo per il 46%, il 41% ora ne dà un giudizio negativo, il 13% è incerto. Commetteremmo un grosso sbaglio se ci facessimo bastare gli argomenti della ragione e non prendessimo sul serio la paura, liquidandola come l’espressione di un razzismo ottuso cavalcato da un estremismo politico nazionalista e xenofobo. La paura è il riflesso dell’inconscio collettivo e ci sollecita a rispondere all’interrogativo fondamentale: che società vogliamo essere di qui ai prossimi vent’anni? IL GAZZETTINO Pag 1 Legge elettorale, una riforma per i cittadini di Massimo Teodori Come mai sulla legge elettorale si sta scatenando una grande agitazione, e qual è l’effetto del sistema di voto sulla politica nazionale? La scelta della modalità di elezione dei parlamentari che danno vita al governo configura il potere e fa la differenza negli interessi rappresentati. Certo, le leggi elettorali non sostituiscono la politica, i programmi e le classi dirigenti, ma contribuiscono a far funzionare più o meno bene il Paese con un effetto a breve più importante delle regole costituzionali. È probabile che il cosiddetto Italicum, approvato dal Parlamento ma mai sperimentato, sia modificato in relazione al referendum del 4 dicembre. Il pregio del sistema ora messo in discussione sta nel fatto che il principale partito ottiene al primo o al secondo turno la maggioranza assoluta dei deputati in modo da poter formare un governo con larga base parlamentare; il suo difetto è di eleggere circa due terzi dei deputati su designazione dei partiti di maggioranza e di minoranza, e di sceglierne solo 250 circa su 630 con il voto di preferenza degli elettori. Alcune forze politiche hanno annunciato sistemi elettorali alternativi: la minoranza Pd è a favore del turno unico con capilista bloccati e senza ballottaggio; i centristi vogliono il premio di maggioranza alla coalizione piuttosto che al partito; e i cinque stelle insieme a Sel sono per un proporzionale tipo prima repubblica. Anche Renzi sembra proporre una modifica dell’Italicum al fine di favorire il “Sì” alla riforma costituzionale con cui il sistema elettorale si combina nell’eventualità di una sola Camera che dà la fiducia al governo. In materia elettorale non esiste l’optimum: ogni formula per trasformare i voti in seggi parlamentari tende a esaltare un obiettivo nell’ampia gamma di possibilità che va dal massimo di governabilità al massimo di rappresentatività. Non sarebbe però conforme ai principi di una democrazia liberale un sistema elettorale che fosse ritagliato secondo la convenienza di chi in un determinato momento è al potere. Dalla nascita della Repubblica si sono avute in Italia leggi che hanno funzionato secondo diversi criteri. La proporzionale adottata nel 1946 era un sistema che tutelava il pluralismo partitico quando ancora non si conosceva chi avrebbe avuto la maggioranza. Nel 1953 la cosiddetta “legge truffa” - una sacrosanta legge per niente truffa che garantiva il 65% dei seggi alla coalizione di partiti che superava il 50% dei voti - era volta a stabilizzare la coalizione degasperiana tra cattolici liberali e democratici laici che assicurò lo sviluppo economico e civile dell’Italia del dopoguerra. La “legge Mattarella” (Mattarellum), introdotta in seguito a referendum nel 1993 con i tre quarti dei seggi attribuiti in collegi uninominali e un quarto con il sistema proporzionale, ha avuto il pregio di favorire per tre legislature (dal 1994 al 2001) l’alternanza tra centrodestra e centrosinistra. La “legge Calderoli” (Porcellum) del 2005 era un sistema ibrido proporzionale con premio di maggioranza e senza preferenze, in seguito dichiarato per alcuni aspetti incostituzionale. Qual è il sistema che, oggi, meglio serve all’Italia? A noi pare che le forze politiche che guardano all’interesse nazionale dovrebbero perseguire alcuni obiettivi: assicurare un governo stabile con solida base parlamentare

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non in preda ai sussulti di partitini e transfughi, cosa possibile con il premio di maggioranza; dare rappresentanza anche alle forze minori che esprimono idee e interessi non maggioritari; far scegliere ai cittadini i loro rappresentanti senza delegarne la selezione ai gruppi dirigenti dei partiti, obiettivo da perseguire con le preferenze o, meglio, con il collegio uninominale che avvicina l’elettore all’eletto. Molti sono i sistemi in grado di garantire gli obiettivi indicati. Ad esempio: a) un sistema uninominale a un turno o a doppio turno, con o senza una piccola quota proporzionale; b) un sistema proporzionale distribuito in collegi piccoli (4-8 candidati) in cui si possa dare la preferenza anche in combinazione con un piccolo premio di maggioranza su scala nazionale; c) un sistema alla tedesca con metà dei seggi eletti in collegi uninominali, e l’altra metà compensata in maniera proporzionale con uno sbarramento al 5. La buona fantasia elettorale non ha limiti. Purché non travolga l’ottica generale con incomprensibili barocchismi, e l’elettore possa votare con semplicità per il suo candidato. Pag 23 Referendum, il Nord tra (molti) dubbi e qualche certezza di Paolo Gurisatti Giorgio Napolitano, nei giorni scorsi, ha bacchettato Renzi, perché la sua strategia politica sta mettendo a rischio le riforme. Dobbiamo ricordare che è stato lui a scegliere Renzi, per tenere il sistema Italia lontano dal default, dopo Monti e Letta. Si capisce che è preoccupato. L’Italia ha il 10% del debito pubblico del mondo, a fronte di un PIL del 2.4%, una popolazione anziana più alta che in altri paesi, un tasso di attività più basso, grandi difficoltà a mettere i giovani talenti al lavoro e la produttività in caduta libera da oltre vent’anni. Con questi fondamentali è sull’orlo di una situazione “argentina” e per questo, dal 2011 a oggi, ha dovuto darsi governi di emergenza, quello di Renzi incluso. L’Italia è in crisi, perché ingessata da un sistema di regole cresciuto a dismisura per tutelare l’apparato amministrativo, più che i cittadini e le imprese: è una burocrazia e sempre meno una democrazia. Per questo deve cambiare verso, cambiare le istituzioni e le regole di governo. Napolitano lo sa e ha, a suo tempo, rassicurato la comunità internazionale, prima con Monti e poi con Renzi, il piè veloce. Errori di percorso non devono farci dimenticare che un’eventuale mancata conferma delle aspettative mondiali è un grosso rischio per l’Italia. Un esito negativo del referendum potrebbe indurre effetti peggiori di quelli della Brexit sull’Inghilterra, visto che non abbiamo una moneta indipendente, non siamo un polo della finanza globale e dobbiamo esportare. Questo genere di considerazioni è già presente nella testa di molti veneti, e non solo degli imprenditori di Confindustria già schierati a favore di Renzi, altrimenti i dati Demos non darebbero un vantaggio al Sì, sia pure tra mille dubbi e moltissime incertezze, in una regione dominata dalla Lega. Il Veneto e il Nord hanno molto da perdere da un fallimento di Renzi. Interpretare il referendum come un plebiscito a favore o contro questo governo di emergenza è quindi un errore. Semmai bisognerebbe criticare Renzi, perché non ha fatto interventi ancora più radicali di quelli chiesti da Napolitano. E ha rallentato il passo. Bisognerebbe condizionarne il cammino. Logica vorrebbe che nascesse un movimento di “responsabili ostili a Renzi”, capace di aprire un contenzioso con il fronte del Sì, senza negare la riforma costituzionale all’Italia. Precisando le mosse successive. Questa posizione, non facile da gestire, potrebbe conquistare consensi tra gli indecisi del Nord. Votare Sì al referendum e poi chiedere una verifica su un programma rigoroso di più intense riforme amministrative, consentirebbe di chiudere l’emergenza e richiamare Renzi al compito storico che gli è stato assegnato. Bloccarne l’iniziativa, invece, per timore di una deriva autoritaria e anti-democratica non ha proprio senso. A meno che non si voglia spaccare tutto, senza neanche curarsi di raccogliere i cocci. Al Sud. Torna al sommario