Rassegna stampa 24 marzo 2017 - patriarcatovenezia.it

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RASSEGNA STAMPA di venerdì 24 marzo 2017 SOMMARIO “Non in mio nome”: così Avvenire titola oggi un ampio estratto dell’intervento che Susanna Tamaro ha tenuto ieri alla Camera dei deputati in occasione dell’incontro internazionale «Maternità al bivio: dalla libera scelta alla surrogata. Una sfida mondiale», promosso da «Se non ora quando - Libere». Ecco già qui alcuni passaggi: “La gestazione per altri è forse la più sofisticata e atroce forma di schiavismo inventata dalla modernità, uno schiavismo in cui il volto della iena è nascosto dietro il sorriso del benefattore, uno schiavismo che furbescamente si ammanta della parola “amore”. Un amore che non si riferisce in alcun modo al bene di chi nasce ma soltanto ai desideri dei singoli individui. Già perché all’ideologia marxista leninista si è sostituito un capitalismo senz’anima e questo nuovo totem idolatrico riconosce solo una legge: quella del desiderio del singolo individuo e del profitto che si può ricavare per soddisfarlo. Che la causa generatrice dei figli sia un non ben definito e onnipotente sentimento di amore è una delle grandi bufale propinate dal neosentimentalismo della società consumistica... L’idea che il fine di ogni vita sia la felicità e che tutto sia giustificato in nome dell’amore è una delle perversioni del pensiero post moderno, oltre che uno dei chiari sintomi della condizione più che crepuscolare del mondo occidentale. La vita è complessità, ingiustizia, confusione, dolore e, meno è soggetta a un progetto interiore, più viene divorata da questo intrico di forze che a tutto pensa tranne che a renderci felici. E oltre a ciò, c’è il carico pesante del destino che agisce con apparente cecità, donando magari ai non meritevoli e punendo i meritevoli... Perché alla base della vita c’è il mistero, e il mistero e l’inquietudine si alimentano costantemente l’un l’altro producendo un unico fuoco. Quel fuoco che rende ogni vita unica e degna di essere vissuta. Nel mondo dei negromanti della riproduzione questo orizzonte non compare mai. Lo spazio in cui si muovono è quello della catena di montaggio. Ottenuto l’acconto, si mette in cantiere il prodotto, se poi alla fine del processo il prodotto ha qualche difetto lo si rispedisce al mittente, come è successo alla madre surrogata indonesiana che ha avuto la sventura di fallire producendo un bambino down. Che poi quel prodotto un giorno si trasformi in una persona non è poi così importante. Basta l’amore. Ma un giorno, passata la fase festosa del cucciolo scodinzolante, quell’essere assumerà la sua natura umana e comincerà a guardarsi nello specchio e a interrogarsi. A chi appartengono questi occhi? Questo volto? Cos’è questa nostalgia che divora il mio cuore? E che cosa potrà provare quando saprà che il suo ovulo – cioè la sua vita – è stato selezionato su un catalogo come le vendite per corrispondenza? Cosa proverà per la sua madre genetica – magari una brillante studentessa di Harvard scelta per le sue elevate qualità fisiche e intellettuali – che l’ha venduto al migliore offerente, come si faceva al mercato degli schiavi? E che sentimenti potrà provare per quella povera donna che, in qualche oscura parte del mondo, l’avrà portato in grembo per nove mesi, quella donna che non ha mai potuto essere tentata da una carezza, da una frase dolce, da quell’intimità che sempre lega le madri alla creatura che cresce in loro? Quella donna di cui, per nove lunghi mesi, ha ascoltato la voce e il battito del cuore, da cui è stato nutrito, da cui ha appreso gli odori, i sapori; quella donna che ha lasciato in lui un’impronta genetica incancellabile e a cui lui ha impresso la sua, come fossero un aquilone e la mano che tiene il filo per potersi sempre inseguire e ritrovare ovunque, tra la terra e il cielo? Che cosa proverà per lei, per la voragine oscura che l’ha inghiottita nel momento stesso in cui gli ha donato la vita? Diventerà un essere umano equilibrato perché satollo dell’amore dei suoi committenti? Oppure... Come è possibile, lucidamente e scientificamente, decidere di privare una persona della propria memoria genetica – dunque della sua storia, della sua salute fisica e mentale, della sua identità – con l’infantile convinzione che l’amore possa essere la soluzione a tutto? Dov’è finito tutto il devastante dolore e smarrimento della gran parte dei

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RASSEGNA STAMPA di venerdì 24 marzo 2017

SOMMARIO

“Non in mio nome”: così Avvenire titola oggi un ampio estratto dell’intervento che Susanna Tamaro ha tenuto ieri alla Camera dei deputati in occasione dell’incontro

internazionale «Maternità al bivio: dalla libera scelta alla surrogata. Una sfida mondiale», promosso da «Se non ora quando - Libere». Ecco già qui alcuni passaggi:

“La gestazione per altri è forse la più sofisticata e atroce forma di schiavismo inventata dalla modernità, uno schiavismo in cui il volto della iena è nascosto dietro il sorriso del benefattore, uno schiavismo che furbescamente si ammanta della parola

“amore”. Un amore che non si riferisce in alcun modo al bene di chi nasce ma soltanto ai desideri dei singoli individui. Già perché all’ideologia marxista leninista si è

sostituito un capitalismo senz’anima e questo nuovo totem idolatrico riconosce solo una legge: quella del desiderio del singolo individuo e del profitto che si può ricavare

per soddisfarlo. Che la causa generatrice dei figli sia un non ben definito e onnipotente sentimento di amore è una delle grandi bufale propinate dal

neosentimentalismo della società consumistica... L’idea che il fine di ogni vita sia la felicità e che tutto sia giustificato in nome dell’amore è una delle perversioni del pensiero post moderno, oltre che uno dei chiari sintomi della condizione più che

crepuscolare del mondo occidentale. La vita è complessità, ingiustizia, confusione, dolore e, meno è soggetta a un progetto interiore, più viene divorata da questo intrico

di forze che a tutto pensa tranne che a renderci felici. E oltre a ciò, c’è il carico pesante del destino che agisce con apparente cecità, donando magari ai non

meritevoli e punendo i meritevoli... Perché alla base della vita c’è il mistero, e il mistero e l’inquietudine si alimentano costantemente l’un l’altro producendo un unico fuoco. Quel fuoco che rende ogni vita unica e degna di essere vissuta. Nel mondo dei negromanti della riproduzione questo orizzonte non compare mai. Lo

spazio in cui si muovono è quello della catena di montaggio. Ottenuto l’acconto, si mette in cantiere il prodotto, se poi alla fine del processo il prodotto ha qualche

difetto lo si rispedisce al mittente, come è successo alla madre surrogata indonesiana che ha avuto la sventura di fallire producendo un bambino down. Che poi quel prodotto un giorno si trasformi in una persona non è poi così importante. Basta

l’amore. Ma un giorno, passata la fase festosa del cucciolo scodinzolante, quell’essere assumerà la sua natura umana e comincerà a guardarsi nello specchio e a interrogarsi.

A chi appartengono questi occhi? Questo volto? Cos’è questa nostalgia che divora il mio cuore? E che cosa potrà provare quando saprà che il suo ovulo – cioè la sua vita – è

stato selezionato su un catalogo come le vendite per corrispondenza? Cosa proverà per la sua madre genetica – magari una brillante studentessa di Harvard scelta per le

sue elevate qualità fisiche e intellettuali – che l’ha venduto al migliore offerente, come si faceva al mercato degli schiavi? E che sentimenti potrà provare per quella

povera donna che, in qualche oscura parte del mondo, l’avrà portato in grembo per nove mesi, quella donna che non ha mai potuto essere tentata da una carezza, da una

frase dolce, da quell’intimità che sempre lega le madri alla creatura che cresce in loro? Quella donna di cui, per nove lunghi mesi, ha ascoltato la voce e il battito del

cuore, da cui è stato nutrito, da cui ha appreso gli odori, i sapori; quella donna che ha lasciato in lui un’impronta genetica incancellabile e a cui lui ha impresso la sua, come fossero un aquilone e la mano che tiene il filo per potersi sempre inseguire e ritrovare

ovunque, tra la terra e il cielo? Che cosa proverà per lei, per la voragine oscura che l’ha inghiottita nel momento stesso in cui gli ha donato la vita? Diventerà un essere

umano equilibrato perché satollo dell’amore dei suoi committenti? Oppure... Come è possibile, lucidamente e scientificamente, decidere di privare una persona della

propria memoria genetica – dunque della sua storia, della sua salute fisica e mentale, della sua identità – con l’infantile convinzione che l’amore possa essere la soluzione a

tutto? Dov’è finito tutto il devastante dolore e smarrimento della gran parte dei

bambini adottati? E la rabbia furibonda di chi non ha mai conosciuto il padre? Cento anni di psicanalisi, milioni di studi sul Dna e la scoperta dell’epigenetica, cancellati con un colpo di spugna. Il bambino su ordinazione viene proposto come una tabula

rasa, da plasmare a piacimento. L’importante è che il prodotto funzioni e non abbia difetti, tutto il resto è superfluo. Un fantoccio che ai baci risponda con i baci, ai sorrisi con i sorrisi, così come il cane di Ivan Pavlov sbavava sognando la pappa al suono del campanello. Non ha importanza perché, nel mondo di Ivanov e dei suoi

seguaci, la complessità umana non ha alcun diritto di cittadinanza. (...). La gestazione per altri è dunque soltanto la punta di un iceberg – la più vistosa e la più agghiacciante

– di uno slittamento della visione antropologica verso un modello ad un’unica dimensione, quella del mercato. L’amore è il cavallo di Troia attraverso il quale

vengono condizionate le coscienze. Ma di quale amore stiamo parlando? Un amore che reclama diritti. Ma un amore che reclama diritti che razza di amore è? Il concetto di

amore e quello di diritto sono assolutamente incompatibili. Non esiste il diritto di amore, così come non esiste il dovere di amare. Persino il Decalogo – oserei dire, il

codice etologico dell’umanità – ci impone di onorare il padre e la madre, non di amarli. L’amore, per essere davvero tale, non richiede una legge a cui uniformarsi,

ma piuttosto un’idea del bene, e l’idea del bene soggiace sempre a quello della reciprocità. Quale forma di reciprocità ci può essere in un rapporto di commissione della vita? Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te stesso è il principio su cui si è retta la società umana fino ad ora. Per esercitare un nostro diritto, dunque, costringiamo lucidamente una persona a venire al mondo privandola di ciò che fa di

un uomo un uomo, vale a dire la genealogia, mettendo sulla sua vita una grande ipoteca di infelicità. Non è il karma a porre questo peso, non è il destino, siamo noi con la nostra minuscola volontà individuale. D’altronde come stupirsi? Nel mondo in

cui tutto si consuma non c’è spazio per questo tipo di arcaiche finezze. Il destino è la nostra volontà, non conosciamo e non vogliamo conoscere nessun altro tipo di

orizzonte. Ma se va respinto con fermezza l’atto della maternità surrogata, non va negata la vera esigenza di donare amore che affligge tante coppie che, per ragioni fisiologiche o di genere, sono costrette alla sterilità. Si tratta solo di fare un po’ di chiarezza cominciando con il dire che l’amore, quando non è procreativo, non può

essere altro che oblativo. Che cosa vuol dire oblativo? Che si dona senza pretendere nulla in cambio. Non un cognome, non un diritto, non la proprietà ma soltanto la certezza della straordinaria forza racchiusa in questo tipo di amore. Già, perché,

seguendo la vitalità della biologia, si può dare la vita con il corpo, ma la vera generazione avviene sempre attraverso i livelli più sottili di quella che una volta

veniva chiamata anima. Nel mondo ci sono circa 170 milioni di bambini abbandonati, la grande battaglia da fare per spezzare il vertiginoso business dell’utero in affitto – la

battaglia che riporta tutto il discorso nuovamente nei confini dell’umano – è quella per leggi migliori, di più ampio respiro e di più rapida attuazione nel campo

dell’adozione e dell’affido. Adozioni e affidi, tra l’altro, grazie al diffondersi di queste pratiche e al costo esorbitante necessario per portarle a termine, sono drasticamente crollate. E comunque di bambini che hanno bisogno di noi ne incontriamo ogni giorno. Forse non siamo capaci di fermarci ad ascoltarli, di vederli, non sappiamo guardare i loro occhi per capire la loro richiesta di aiuto. Quando il cuore è pronto, di solito i bambini arrivano. Basta essere disponibili ad accoglierli, senza pedigree genetici,

senza garanzie ereditarie, senza la certezza che diventino, come da ordinazione, dei geni della matematica o dei novelli Mozart, con il rischio magari di doversi occupare anche dei loro genitori genetici, che sono molto spesso persone problematiche e che metteranno a dura prova il nostro equilibrio e la nostra pazienza. Ma l’amore oblativo

non teme i rischi perché rifugge dall’idea di possesso e da quella del rendimento. L’amore oblativo vive e prospera soltanto sotto il cielo della libertà, ed è proprio

grazie a questa libertà che offre ad ogni vita, piccola o grande che sia, la possibilità di rinascere ad ogni istante. Questo è il vero spirito di maternità, questo è l’amore che dobbiamo coltivare dentro di noi ed intorno a noi, questa è l’unica arma che abbiamo

per contrastare il sinistro business della riproduzione” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 6 Un cammino di solidarietà di Jacques Servais Nel messaggio di Fátima Pag 7 Una giornata per ascoltare Messa a Santa Marta AVVENIRE Pag 2 Senza potere senza paura di Giulio Albanese L’amore dei missionari, sino al martirio Pag 23 Francisco e Jacinta, santi i due pastorelli di Fatima di Andrea Galli e Filippo Rizzi Due vite brevissime, una scia di luce lunga un secolo Pag 24 Chiesa in Italia, l’impegno di farsi prossima ai bisognosi Il Papa aprirà l’Assemblea generale di maggio CORRIERE DELLA SERA Pag 21 Da Milano parte la svolta di Francesco per ricucire con i vescovi italiani di Massimo Franco Il tentativo di superare malintesi e resistenze. L’apprezzamento per i preparativi di Scola LA REPUBBLICA Pag 25 Colloqui a due e niente autocandidature, il metodo Bergoglio per scegliere i vescovi di Paolo Rodari Attesa per la nomina dei successori di Vallini, Scola e Bagnasco IL FOGLIO Pag 2 Astrobiologia e teologia unite alla ricerca della vita extraterrestre di Matteo Matzuzzi La Civiltà Cattolica sulle implicazioni della “nuova scienza” Pag 2 Quando i fan alla sinistra del Papa più che ai poveri pensano a Chàvez di Loris Zanatta La tradizione antiliberale del populismo latinoamericano IL GAZZETTINO Pag 24 Fatima, ecco perché il Papa proclamerà santi i bimbi veggenti di Massimo Introvigne LA NUOVA Pag 6 Bergoglio a San Vittore nel segno di don Curioni di Orazio La Rocca 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 20 L’arte non è blasfema, Biennale assolta di Roberta De Rossi La Cassazione chiude il caso del balletto sadomaso che aveva fatto arrabbiare il patriarca Scola Pag 21 “Il museo M9 darà la scossa a Mestre” di Mitia Chiarin Gianpaolo Fortunati, presidente di Polymnia: la città deve trasformarsi in una meta e l’accoglienza va vestita di cultura Pag 23 Viaggio nel “triangolo dello spaccio” di Marta Artico

Tra la stazione e la zona di via Piave e via Cappuccina si vende stupefacente e ci si droga ala luce del sole Pag 35 Pierre Rosenberg: “Venezia, il futuro è nella cultura” di Enrico Tantucci “In altre città il turismo è più aggressivo, qui c’è una vitalità nascosta da riscoprire” IL GAZZETTINO Pag 27 Nessuna censura per “Messiah Game” di Paolo Navarro Dina La Cassazione ha detto no al risarcimento danni chiesto anche dall’ex Patriarca Angelo Scola IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XI “Sarà la Disneyland della cultura” di Maurizio Dianese Museo M9: Giuliano Segre svela i progetti che si svilupperanno sui tre piani del nuovo complesso 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Migranti, il tempo della svolta di Massimiliano Melilli Dopo il caso Bagnoli Pagg 2 – 3 Uccide la ex e il figlio che porta in grembo, studente arrestato all’uscita da scuola di Milvana Citter e Renato Piva Arriva la sorella e crolla: “L’ho fatto perché voleva dire a tutti del bambino”. La mamma di Irina disperata (“Non sapevo fosse incinta”), lo choc dei compagni di classe … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Ma l’idea di Europa resta viva di Antonio Polito Dopo 60 anni Pag 3 Masood e la sua vita ai margini nella Birmingham islamista. Tra palestre, preghiere e truffe di Marco Imarisio Il ritratto dell’attentatore Pag 11 Michel Houellebecq: sono populista, non voglio rappresentanti di Stefano Montefiori LA REPUBBLICA Pag 1 Dio salvi il Parlamento di Ezio Mauro AVVENIRE Pag 1 Il tempo è adesso di Marco Tarquinio Svelare e bandire la “surrogata” Pag 3 Non in mio nome di Susanna Tamaro La sfida mondiale per dire no all’utero in affitto. Si deve respingere con fermezza l’atto della maternità surrogata. Di quale amore stiamo parlando se vengono reclamati diritti? Pag 8 Tre italiani su 4 si sentono europei Sondaggio Doxa L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Una questione di civiltà di Sylviane Agacinski No all’utero in affitto IL GAZZETTINO

Pag 1 Perché non riusciamo a prevederli di Raffaele Marchetti LA NUOVA Pag 1 Senza forza la legge è impotente di Angelo Mascolo Pag 1 L’obbligo di difendere i cittadini di Umberto Vincenti Pag 5 Confini e nazionalismi ci mettono più a rischio di Roberto Castaldi

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 6 Un cammino di solidarietà di Jacques Servais Nel messaggio di Fátima Papa Francesco ha annunciato la sua intenzione di recarsi in pellegrinaggio al santuario di Fátima il 12 e il 13 maggio prossimi, in occasione del centenario dell’avvenimento che dieci anni fa Benedetto XVI ha definito essere «la più profetica delle apparizioni moderne». Dopo l’attentato di cui fu vittima all’inizio del suo pontificato, Giovanni Paolo II ebbe la sensazione che una mano materna avesse guidato la traiettoria del proiettile, salvandolo da una morte certa. La data stessa del tentativo criminale, il 13 maggio 1981, ma anche la memoria trasmessa da suor Lucia nel 1944 - la terza parte del «segreto» di cui egli prese conoscenza immediatamente dopo - lo confermarono nella convinzione che la protezione gli era venuta dalla Vergine di Fátima. Egli affidò, come sappiamo, il proiettile rimasto incastrato nell’auto al momento dell’attentato al vescovo del luogo, che lo fece incassare nella corona della statua del santuario. E volle anche realizzare la richiesta della Vergine con un atto solenne di consacrazione del mondo al suo Cuore, il 25 marzo 1984. Nell’anno 2000, in seguito all’invito del Papa, il cardinale Joseph Ratzinger - allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede - pubblicò integralmente il messaggio, compresa la famosa terza e ultima parte, e ne presentò un commento teologico al fine di mettere fine alle congetture e alle speculazioni. Se l’attuale successore di Pietro si reca a Fátima è certamente per esprimere a Nostra Signora la riconoscenza di tutta la Chiesa per la vita santa e la missione universale di Giovanni Paolo II, ma anche, senza dubbio, per ricordarci che non esiste alcuna fatalità, e che gli avvenimenti della storia mondiale sono affidati anche alle nostre mani, in quanto con la grazia ci è richiesto di prestare il nostro concorso alla costruzione di un mondo più giusto. Ricordiamo brevemente qualche fatto. Il 13 maggio 1917, a mezzogiorno, mentre stanno giocando nella Cova da Iria, la piccola proprietà dei genitori di uno di loro, tre bambini vengono sorpresi da un lampo e, voltandosi, vedono «una Signora tutta vestita di bianco, più splendente del sole, dalla quale si propagava una luce più chiara e intensa di un bicchiere pieno di acqua pura, attraversato dai raggi di un sole ardente». Essi si sentono totalmente immersi in una luce accecante, al punto che in seguito al fatto la più grande, Lucia, non smetterà di ripetere: ella era luce, luce, luce! La Signora si mostrerà di nuovo, nei cinque mesi successivi, a intervalli regolari. Ella tiene le mani giunte sul suo seno e dirette verso l’alto, come per pregare - descriverà ancora Lucia, aggiungendo che dalla sua mano destra pende un rosario. I bambini non fanno fatica a riconoscere in lei la santa Vergine. Con tutto il suo essere, di una trasparenza totale, ella si irradia della grazia dell’Altissimo. Come la luna (Apocalisse, 21), riflette il sole i cui raggi la attraversano. Del resto, la Signora che discosta il velo che separa la terra e il cielo si presenta subito ella stessa come la «Regina del Rosario». È l’«umile serva» (cfr. Luca, 1, 48) che invita ancora a meditare i misteri del Vangelo. E si manifesta per meglio far conoscere il Figlio eterno del Padre che ha donato al mondo con il suo sì senza riserve. Attraverso la punta del suo mantello, irradiante di splendore, è il buon profumo, quasi fisico, di Cristo che ella offre ai tre pastorinhos di Fátima. Accalcandosi subito attorno a loro, la folla immensa che è

accorsa, partecipa dello stesso spirito d’infanzia, tutto soprannaturale. Stupita di fronte ai fenomeni straordinari di cui il cielo terrestre è teatro, anche se essa non vede né intende la Signora, dà docilmente credito alla testimonianza dei bambini. A un certo momento il volto, così bello, si fa serio e lascia trasparire un tocco di dolce rimprovero. Ma forse è piuttosto l’espressione di un’intensa afflizione. La Regina del cielo e della terra è sempre la Madre dei dolori che accompagna Gesù sulla via del Calvario. La beatitudine non impedisce di avere il cuore pesante alla vista dello spettacolo che offrono i peccatori: ella piange sul mondo, come aveva fatto davanti a Catherine Labouré, la giovane novizia della Rue du Bac, o sulla nuda cima della Salette. Il suo cuore, osservano i bambini, è come circondato da spine che sembrano affondare in esso. Pensiamo alla profezia di Simeone (Luca, 2, 35), ma anche alle dichiarazioni di Gesù: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo» (Giovanni, 9, 39); «Molte cose ho da dire di voi, e da giudicare» (Giovanni, 8, 26). Maria rivela ai bambini la sua inquietudine quanto al castigo del peccato che minaccia il mondo. Lei, che era rimasta totalmente silenziosa, contemplativa ed esteriormente inoperosa sulla terra, interviene ora, raccomandando con insistenza di fare penitenza e di sopportare ogni sofferenza per la conversione dei peccatori. È senza dubbio per meglio inculcare la lezione, che ella fa vedere, per un breve istante, una scena dell’inferno. I pastorinhos sperimentano così, interiormente, a cosa conduce la sregolatezza della ragione e della volontà: il castigo che minaccia l’umanità peccatrice. La visione dell’inferno, di cui provano tutto l’orrore, ha per loro la forza di una presenza reale che si impone a ciascuno dei loro sensi. Non dobbiamo abusarne, tuttavia: non si tratta di una sorta di fotografia della condizione dei dannati nell’aldilà, un’opinione che le autorità della Santa Sede hanno creduto di dover scartare formalmente. Diciamo che le immagini visive che si imprimono nel loro spirito con una dura evidenza mostrano, con un linguaggio a loro comprensibile, il rischio della perdizione e del supplizio eterno. L’istante terribile nel quale i veggenti sono esposti fa loro sperimentare l’immensa serietà di una possibile dannazione, ma li impegna soprattutto a «fare dei sacrifici» per «salvare le anime». Nessuno ha diritto di anticipare il mistero del giudizio escatologico concernente i vivi e i morti. Il cammino della salvezza, dice san Paolo, passa attraverso una «fede operosa» in Cristo, che è morto per tutti e al quale tutti partecipano, e con l’«impegno della carità», ma queste due «opere di nostro Signore» sono inseparabili dalla terza, la «fermezza della speranza» (1 Tessalonicesi, 1, 3) riguardo la salvezza delle anime, di tutte le anime (1 Timoteo, 2, 4). Questo cammino è un cammino ecclesiale, un cammino sul quale i cristiani procedono insieme, legati da una solidarietà profonda con tutti gli uomini in favore dei quali essi intercedono e per i quali fanno anche penitenza. Tramite i piccoli veggenti, Maria indica dall’alto del Cielo un mezzo per «salvare le anime dei poveri peccatori»: la devozione al suo Cuore immacolato. Ella è l’unica creatura che ha saputo rispondere con il suo sì incondizionato al sacrificio di Cristo. Intimamente unita a suo Figlio, ai misteri della sua vita, morte e risurrezione, ella partecipa spiritualmente alle sue sofferenze salvifiche. A differenza di suo Figlio, ella non è - certamente - che una semplice persona umana, ma forma un tutto con Lui: il nuovo Adamo si è unito da sempre alla nuova Eva. Gesù, al quale ella deve la sua santità, ha voluto “dipendere” da lei nella sua vita terrena e, nella sua sovrana libertà, egli continua in Cielo, a “dipendere” dai fedeli che si rifugiano sotto il suo mantello di grazia. Anche la Vergine non conosce altro mezzo più efficace che invitare a passare attraverso di lei. In una delle apparizioni, quando la Grande guerra sta volgendo alla fine, la Vergine evoca i rischi di un’altra guerra mondiale ancora peggiore. Se i cristiani allentano la loro vigilanza - avverte anche - la Russia «spargerà i suoi errori attraverso il mondo, favorendo guerre e persecuzioni verso la Chiesa. I buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, diverse nazioni saranno distrutte». Qui conviene ancora una volta afferrare bene il senso di una predizione di questo genere. Un profeta è qualcuno che ha ricevuto il dono di far conoscere alla Chiesa ciò che Dio vuole nel momento presente. La profezia, secondo la tradizione biblica, non consiste nella predizione di un futuro obbligato. «Non si subisce l’avvenire, lo si fa», diceva Bernanos. Ciò che predice il profeta ha una forma condizionata: resta avvolto dal velo di un grande “se”. La Signora mostra a Lucia ciò che secondo la volontà di Dio per il presente non dovrebbe accadere e ciò che, se gli uomini persistono nel loro accecamento e se i cristiani non fanno penitenza, avrà immancabilmente luogo. Quando il Cielo solleva leggermente, come qui, il velo del futuro, è per meglio sottolineare l’urgenza del

messaggio. Detto questo, dobbiamo constatare che la predizione si è in parte avverata. La sollecitudine materna di Maria non ha ottenuto il frutto sperato: la conversione della famiglia umana che avrebbe dovuto risparmiarle le sofferenze degli scorsi decenni. A ogni buon conto, gli avvenimenti particolari descritti nella terza parte del “segreto” appartengono ormai al passato. Se voi pregate, se voi vi consacrate - promette la santa Vergine, a nome del Figlio - verrà un regno di giustizia e di pace nel mondo. Dopo Fátima, la Madonna è apparsa in ben altri luoghi ed ella non ha cessato di attestare che questa possibilità esiste ancora. Ella piange sul mondo perché il mondo non vuole togliersi di dosso la sua indifferenza, ma anche per condurlo, attraverso le sue lacrime, alla compassione. Ella ha bisogno del sì delle nostre labbra e delle nostre azioni per aiutare la vittoria del bene sul male. La purezza del suo fiat (cfr. Luca, 1, 38) la eleva al di sopra dei suoi fedeli, ma ella viene sempre di nuovo a noi come «mediatrice di tutte le grazie». Il “favore” (cfr. Luca, 1, 28) che Dio le ha concesso con la sua elezione e la sua (pre-)redenzione l’ha costituita di colpo come concausa della nostra salvezza. La distribuzione delle grazie (Efesini, 4, 11) da parte di Cristo passa sempre attraverso di lei. Le apparizioni sono un richiamo della sua presenza discreta ma efficace nella Chiesa che, in lei, è già «senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata» (Efesini, 5, 27). Davanti all’intorpidimento che oggi si impadronisce dei cristiani, più che mai ella li mette davanti all’ora della decisione. Ella si fa testimone del giudizio imminente, ma sempre ancora indicando una via provvidenziale, che esige da noi un impegno coinvolgente e totale. Pag 7 Una giornata per ascoltare Messa a Santa Marta Fra le tante giornate speciali che si celebrano per i più svariati motivi, sarebbe utile dedicare una «giornata per ascoltare». Immersi come siamo nella «confusione», nelle parole, nella fretta, nel nostro egoismo, nella «mondanità», rischiamo infatti di rimanere «sordi alla parola di Dio», di far «indurire» il nostro cuore, e di «perdere la fedeltà» al Signore. Occorre «fermarsi» e «ascoltare». Lo ha suggerito Papa Francesco celebrando la messa a Santa Marta giovedì 23 marzo. All’omelia, riprendendo i testi della liturgia del giorno, ha subito fatto notare: «Proprio a metà del tempo di quaresima, in questo cammino verso la Pasqua, il messaggio della Chiesa oggi è molto semplice: “Fermatevi. Fermatevi un attimo”». Ma «perché - si è chiesto - dobbiamo fermarci?». La risposta è giunta dal ritornello del salmo responsoriale (94): «Ascoltate oggi la voce del Signore: non indurite il vostro cuore». Quindi: «Fermatevi per ascoltare». Da qui è partita la riflessione del Pontefice, che ha preso poi in esame la lettura del profeta Geremia (7, 23-28) nella quale si racconta, tramite le parole di Dio stesso, «il dramma di quel popolo che non ha voluto, non ha saputo ascoltare. “Ascoltate la mia voce, e io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo”». L’invito del Signore è chiaro: «Camminate sempre sulla strada che vi prescriverò, perché siate felici». Cioè, ha spiegato il Papa, è come se il Signore avesse detto al suo popolo: «Le cose che io vi dirò sono per la vostra felicità. Non siate sciocchi. Credete a questo. Fermatevi: ascoltate». Un invito, però, caduto nel vuoto. Tanto che «poi il Signore un po’ si lamenta; è il lamento di un papà addolorato: “Ma essi non ascoltarono, né prestarono orecchio alla mia parola, anzi, procedettero ostinatamente secondo il loro cuore malvagio. Invece di rivolgersi verso di me, mi hanno voltato le spalle”». Subito Francesco ha riportato il racconto biblico alla situazione dell’uomo di oggi: «Quando noi non ci fermiamo per ascoltare la voce del Signore finiamo per allontanarci, ci allontaniamo da lui, voltiamo le spalle». Un atteggiamento, ha aggiunto, che porta delle conseguenze: «se non si ascolta la voce del Signore, si ascoltano altre voci. E di tanto chiuderci le orecchie, diventiamo sordi: sordi alla parola di Dio». Nessuno può chiamarsi fuori da questa situazione, come ha evidenziato il Papa rivolgendosi ai fedeli presenti: «Tutti noi, se oggi ci fermiamo un po’ e guardiamo il nostro cuore, vedremo quante volte - quante volte! - abbiamo chiuso le orecchie e quante volte siamo diventati sordi». Cosa comporta tale sordità? «Quando un popolo, una comunità, ma diciamo anche una comunità cristiana, una parrocchia, una diocesi - ha spiegato il Pontefice - chiude le orecchie e diventa sorda alla parola del Signore, cerca altre voci, altri signori e va a finire con gli idoli, gli idoli che il mondo, la mondanità, la società gli offrono». Ci si allontana, cioè, «dal Dio vivo». Ma non è questa

l’unica conseguenza. Il Papa ha infatti fatto notare che «voltare le spalle fa che il nostro cuore si indurisca. E quando non si ascolta, il cuore diviene più duro, più chiuso in se stesso, ma duro e incapace di ricevere qualcosa». Quindi: «non solo chiusura», ma anche «durezza di cuore». In questa situazione l’uomo, «vive in quel mondo, in quell’atmosfera che non gli fa bene», in una realtà che «lo allontana ogni giorno di più da Dio». È un processo negativo che conduce dal «non ascoltare la parola di Dio» all’allontanarsi, quindi al «cuore indurito, chiuso in se stesso», fino a perdere «il senso della fedeltà». Infatti, sempre nel brano di Geremia, si legge il lamento del Signore: «La fedeltà è sparita». Anche qui, immediato, da parte del Papa, il riferimento alla contemporaneità: è allora, ha detto, che «diventiamo cattolici “infedeli”, cattolici “pagani” o, più brutto ancora, cattolici “atei”, perché non abbiamo un riferimento di amore al Dio vivente». Quel «non ascoltare e voltare le spalle» che «ci fa indurire il cuore», porta quindi l’uomo «su quella strada della infedeltà». E non finisce qui. C’è «di più». Il vuoto interiore che creiamo con la nostra infedeltà, infatti, «come si riempie?». Si riempie, ha risposto il Pontefice, «in un modo di confusione» in cui «non si sa dove è Dio, dove non è», e «si confonde Dio con il diavolo». È proprio la situazione descritta nel vangelo di Luca (11, 14-23), nel quale si narra l’episodio in cui «a Gesù, che fa dei miracoli, che fa tante cose per la salvezza e la gente è contenta, è felice», alcuni dicono: «E questo lo fa perché è un figlio del diavolo. Fa il potere di Belzebù». Questa, ha spiegato Francesco, «è la bestemmia. La bestemmia è la parola finale di questo percorso che incomincia con il non ascoltare, che indurisce il cuore, ti porta alla confusione, ti fa dimenticare la fedeltà e, alla fine, bestemmi». Ha commentato il Papa: «Guai al popolo che si dimentica di quello stupore, di quello stupore del primo incontro con Gesù». È lo stupore descritto anche nel Vangelo - «le folle furono prese da stupore» - che «apre le porte alla parola di Dio». Perciò, ha concluso il Pontefice invitando tutti a un serio esame di coscienza, «ognuno di noi oggi può chiedersi: “Mi fermo per ascoltare la parola di Dio, prendo la Bibbia in mano, e mi sta parlando?»; e ancora: «Il mio cuore si è indurito? Mi sono allontanato dal Signore? Ho perso la fedeltà al Signore e vivo con gli idoli che mi offre la mondanità di ogni giorno? Ho perso la gioia dello stupore del primo incontro con Gesù?». Di qui l’invito: «Oggi è una giornata per ascoltare. “Ascoltate, oggi, la voce del Signore”, abbiamo pregato. “Non indurite il vostro cuore”». E il suggerimento per la preghiera personale: «Chiediamo questa grazia: la grazia di ascoltare perché il nostro cuore non si indurisca». AVVENIRE Pag 2 Senza potere senza paura di Giulio Albanese L’amore dei missionari, sino al martirio Il 24 marzo del 1980 veniva brutalmente ucciso monsignor Óscar Arnulfo Romero y Galdámez, arcivescovo di San Salvador. Ed è per questa ragione che l’odierna giornata è dedicata alla memoria di coloro che hanno dato la vita per la causa del Regno di Dio. Si tratta di uomini e di donne che, nella fede, hanno manifestato la parresìa, il coraggio di osare, nelle periferie geografiche ed esistenziali del nostro tempo. Chi più di loro ha accolto e creduto fino in fondo nell’invito di Gesù, ripetuto con insistenza dopo la Resurrezione: «Non abbiate paura». Un’espressione diretta e alquanto emblematica che quest’anno è stata scelta dalla Fondazione Missio – che rappresenta in Italia le Pontificie Opere Missionarie – come slogan per la Venticinquesima Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri. D’altronde la posta in gioco è alta se si considera che la testimonianza dei martiri, come ha detto papa Francesco, «ci aiuta a non cadere nella tentazione di trasformare la fede in potere». Si tratta di una gratuità che rende davvero intelligibile il Verbo, cioè la Parola forte di Dio. A questo proposito, merita un’attenta riflessione un apologo raccontato dallo stesso vescovo Romero, nell’omelia del funerale di padre Navarro, uno dei suoi sacerdoti, ucciso nel maggio del 1977: «Si narra che una carovana, guidata da un beduino del deserto, era disperata per la sete e andava cercando acqua nei miraggi del deserto. E la guida diceva loro: “Non di là, di qua”. E così varie volte, finché uno della Carovana, innervositosi, tirò fuori la pistola e sparò alla guida che, ormai agonizzante, tendeva ancora la mano per dire: “Non di là, ma di qua”. E così morì, indicando la strada». Questa spiritualità del “dito puntato” è espressione di un riverbero dell’anima che spinge tutt’oggi molte sentinelle del mattino a essere voci

profetiche. La “Martyria”, nella tradizione della Chiesa, comprende sia l’annuncio che la testimonianza al mondo della parola del Vangelo (cf Mt 28, 19ss.). Un indirizzo che trova il suo fondamento, stando alla teologia biblica, nell’aver visto e udito Gesù, morto e risorto, che in forza della fede viene riconosciuto come Signore e Salvatore. Ecco che allora il martirio ha un significato molto più estensivo che va ben oltre l’eroica testimonianza di colui che, di fronte alla virulenza del mysterium iniquitatis, all’opposizione ostinata del mondo, arriva fino all’effusione del sangue. In questa prospettiva, la celebrazione dei martiri riguarda dunque anche i “vivi”, cioè quegli uomini e quelle donne che hanno fatto la scelta di rimanere al fianco dei poveri, in condizioni non solo disagevoli, ma anche di grave pericolo. La loro fede – è bene rammentarlo – non è mai un sentimento dissociato dalla vita, anzi è la radice di un’umanità autentica. E se la domanda fondamentale, che interpella ognuno di noi, è quella riguardante il senso e il significato delle persecuzioni che attanagliano, ancora oggi, molte comunità, i nostri missionari e missionarie, con il loro esempio, ci aiutano a cogliere un mistero che ci sovrasta: quello del trionfo pasquale della vita sulla morte. Questo è il valore aggiunto di una missionarietà senza confini che afferma la gioia del dono. D’altronde, essere credenti, significa, innanzitutto, cogliere la certezza di una presenza, quella di Cristo, vivendo coerentemente e dignitosamente secondo il dettato evangelico. Proprio come ebbe a scrivere nel suo testamento, padre Christian de Chergé, il priore dei monaci trappisti uccisi in Algeria, a Tibhirine, il 21 maggio 1996: «Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, mi piacerebbe che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a quel Paese». Solo, allora, sperimentando questa libertà del cuore, davvero compassionevole, saremo in grado di corrispondere al Mandatum Novum di Nostro Signore, quel precetto dell’Amore di cui i nostri missionari sono paladini, fino agli estremi confini. Pag 23 Francisco e Jacinta, santi i due pastorelli di Fatima di Andrea Galli e Filippo Rizzi Due vite brevissime, una scia di luce lunga un secolo Si arricchisce l’“albo” dei santi e dei beati con i decreti di cui il Papa ha autorizzato ieri la promulgazione, ricevendo in udienza il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei santi. Ed è una santità “recente”, riguarda vite e storie che si sono dipanate tutte lungo il ’900, tranne una. L’eccezione è quella del beato Angelo Acri, cappuccino, al secolo Luca Antonio Falcone (1669-1739), che sarà canonizzato dopo il riconoscimento di un miracolo avvenuto per sua intercessione. Nato a Cosenza, l’inizio della sua vita religiosa fu travagliato – entrò e uscì dal noviziato cappuccino per due volte – ma a 31 anni fu ordinato sacerdote. Esercitò il suo apostolato come padre provinciale e soprattutto come predicatore in tutto il Mezzogiorno, per 40 anni. Conosciuto come l’«Angelo della pace», compì numerose guarigioni prodigiose. Il suo corpo è venerato nella Basilica di Acri, che è a lui dedicata. Ma nel centenario delle apparizioni di Fatima risalta in modo speciale il riconoscimento di un miracolo attribuito all’intercessione del beato Francisco Marto (1908-1919) e di sua sorella Jacinta (1910-1920), che insieme alla loro cugina Lucia Dos Santos furono protagonisti di un evento soprannaturale la cui forza riverbera da allora nella Chiesa e nel mondo. Quaranta sono i prossimi beati, di cui è stato riconosciuto il martirio. L’indiana suor Regina (Maria) Vattalil (1954-1995), della congregazione delle Clarisse francescane, fu uccisa in odium fidei, con 54 coltellate, da un giovane fanatico indù. Gli altri 39 prossimi beati vengono dalla Spagna e persero la vita nel corso della guerra civile: un abisso di violenza da cui non smettono di riemergere storie gloriose di sangue versato per Dio. Padre José María Fernández Sánchez (1875-1936), vincenziano, fu assassinato a Madrid con altri 17 sacerdoti, 16 fratelli coadiutori e sei laici dell’Associazione della Medaglia Miracolosa della Beata Maria Vergine, sempre legati ai Vincenziani. Infine tre sono i nuovi venerabili, ossia servi di Dio di cui sono state riconosciute le virtù eroiche. Si tratta del cappuccino italiano Daniele da Samarate, al secolo Felice Rossini (1876-1924) a lungo missionario in Brasile, dove operò fra i lebbrosi, contraendo lui stesso la malattia che lo portò alla morte; di suor Macrina (Elena) Raparelli (18931970), nata a Grottaferrata e

morta a Palermo, fondatrice della congregazione delle Suore Basiliane Figlie di Santa Macrina, istituto di rito bizantino; e di Daniela Zanetta (1962-1986), nata a Maggiora, in provincia di Novara: fin dalla nascita dovette convivere con una rarissima ma-lattia, l’epidermolisi bollosa distrofica, a 11 anni incontrò la spiritualità del Movimento dei Focolari e morendo lasciò un diario che testimonia il suo profondo cammino spirituale. Sempre ieri il Papa ha approvato i voti favorevoli della sessione ordinaria dei cardinali e vescovi membri della Congregazione circa «la canonizzazione dei seguenti beati: Andrea de Soveral e Ambrogio Francesco Ferro, sacerdoti diocesani, e Matteo Moreira, laico, nonché 27 compagni, martiri, uccisi in odio alla Fede in Brasile il 16 luglio 1645 e il 3 ottobre 1645; Cristoforo, Antonio e Giovanni, adolescenti, Martiri, uccisi in odio alla fede in Messico nel 1529». È il 13 maggio 1917: Francisco e Jacinta Marto, due pastorelli di 8 e 7 anni, stanno badando a un piccolo gregge a Cova da Iria (letteralmente conca della pace), località nei pressi di Fatima, in Portogallo, insieme alla cugina Lucia Dos Santos, che di anni ne ha 10. Vedono ad un tratto una nube scendere dal cielo e, al suo diradarsi, apparire la figura di una donna vestita di bianco con il Rosario in mano: «Non abbiate paura» dice ai ragazzi, «recitate il Rosario tutti i giorni». La Madonna dà loro appuntamento il 13 del mese successivo, appuntamento che si rinnoverà fino al 13 ottobre (solo in agosto apparirà il giorno 19). La Chiesa ha riconosciuto le apparizioni di Fatima nel 1930. Il 13 maggio del 1967 Paolo VI è stato il primo Pontefice a recarsi nel Santuario portoghese, divenuto una meta di pellegrinaggi da tutto il mondo. I pastorelli riferirono che la Madonna aveva rivelato loro la morte prematura di Francisco e Jacinta, aggiungendo che Lucia sarebbe rimasta a lungo sulla Terra. Così fu. Francisco si ammalò di “influenza spagnola” nel dicembre 1918. Rimase sereno per tutta la durata della malattia, conservando intatta la sua forte fede e facendo in quel periodo la Prima Comunione. Morì il 4 aprile 1919. Anche Lucia fu colpita dal virus della spagnola nel dicembre 1918. La sua malattia fu più lunga e dolorosa di quella del fratello, venne anche ricoverata, inutilmente, all’ospedale di Lisbona, dove morì il 20 febbraio 1920. I processi di canonizzazione di Francisco e Jacinta furono avviati nel 1952. Nel 1979 gli atti giunsero a Roma. Dopo un lungo dibattito sulla possibilità che la spiritualità di un bambino raggiungesse la maturità della fede – fino ad allora erano stati canonizzati solo bambini martiri – la Congregazione delle Cause dei santi emise un parere favorevole sull’«idoneità degli adolescenti all’esercizio eroico delle virtù e del martirio». Dopo quella decisione le positio su Francisco e Jacinta furono redatte e presentate al medesimo dicastero nel 1988. Il 22 giugno 1999 venne riconosciuto un miracolo attribuito all’intercessione dei due pastorelli, che aprì la strada alla loro beatificazione attraverso un unico processo. Beatificazione che avvenne il 13 maggio 2000 a Fatima. In quell’occasione, nell’omelia della Messa, disse Giovanni Paolo II: «Francesco sopportò le grandi sofferenze causate dalla malattia, della quale poi morì, senza alcun lamento. Tutto gli sembrava poco per consolare Gesù; morì con il sorriso sulle labbra. Grande era, nel piccolo, il desiderio di riparare per le offese dei peccatori, offrendo a tale scopo lo sforzo di essere buono; i sacrifici, la preghiera. Anche Giacinta, la sorella più giovane di lui di quasi due anni, viveva animata dai medesimi sentimenti». E aggiunse il Pontefice santo: «Il messaggio di Fatima è un richiamo alla conversione, facendo appello all’umanità affinché non stia al gioco del “drago”, il quale con la “coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra” (Ap 12,4). L’ultima meta dell’uomo è il Cielo, sua vera casa dove il Padre celeste, nel suo amore misericordioso, è in attesa di tutti». «Grazie a questa documentazione si scopriranno i tratti di santità ordinaria di suor Lucia, la sua concretezza di contadina ma anche di contemplativa e soprattutto affiorerà la profonda umiltà per come visse tra le sue consorelle il suo essere l’ultima custode e testimone vivente delle visioni mariane». È quanto assicura il postulatore della causa di beatificazione dell’ultima veggente di Fatima il carmelitano scalzo, il trentino, classe 1970, Romano Gambalunga. Spetterà infatti al religioso presentare ufficialmente a Roma nella sede della Congregazione delle cause dei santi il dossier scaturito dalla fase diocesana del processo svoltasi a Coimbra in Portogallo di suor Maria Lucia de Jesus – al secolo Lucia dos Santos – vissuta tra il 1907 e il 2005. Il 13 febbraio scorso –

esattamente a dodici anni esatti dalla sua morte avvenuta a 98 anni– si è chiusa infatti solennemente a Coimbra nella chiesa del monastero carmelitano (il luogo dove è spirata) la fase diocesana del processo della serva di Dio. A presiedere la cerimonia è stato il vescovo di Coimbra Virgílio Antunes. «Questa indagine – argomenta padre Gambalunga – ha permesso di prendere in esame migliaia di lettere e scritti attorno alla pastorella, l’audizione di 61 testimoni e la redazione finale di un documento di oltre 15mila pagine: sarà questo il materiale che ci permetterà di dimostrare non solo la fama di santità di suor Lucia ma anche di quanta prudenza sia stata usata in questi anni per evitare inutili sensazionalismi e strumentalizzazioni sulla vita di questa consacrata. Già ora posso testimoniare che sono avvenute delle guarigioni inspiegabili e attribuite all’intercessione di suor Lucia». Con padre Gambalunga chi ha seguito dal 2012, passo dopo passo, la causa è stata la vice postulatrice suor Angela de Fatima Coelho. «Essendo lei la postulatrice delle cause degli altri due pastorelli mi ha affiancato in questo lavoro – spiega – dove soprattutto è emersa la cura con cui la diocesi di Coimbra ha voluto esaminare l’esistenza dell’ultima veggente di Fatima dal punto di vista storico e teologico, avendo una particolare cura per gli aspetti documentali e delle testimonianze». Testimonianze, – a giudizio di padre Gambalunga – che confermano aspetti inediti sulla vita di suor Lucia. «Oltre ai rapporti con i Pontefici in particolare con Giovanni Paolo II a cui era legata da una particolare sintonia spirituale, mi ha colpito il fitto carteggio e l’amicizia che seppe coltivare con il cardinale argentino e servo di Dio Eduardo Pironio o ancora i grandi gesti di carità che seppe mostrare a tanta gente comune che le chiedeva aiuto». In queste 19 casse che custodiscono la vita di suor Lucia e la sua “fama di santità” – è la confidenza di padre Gambalunga – «si scoprirà soprattutto il forte senso di obbedienza quasi “parallela” e molto prudente che questa religiosa seppe mantenere verso il vescovo locale e la Santa Sede. Affiorerà l’umiltà e lo stile veramente dimesso con cui mai si inorgoglì di fronte alla sue consorelle del Carmelo di Coimbra ». Una documentazione che consentirà di mostrare particolari sconosciuti del carattere di suor Lucia e non solo. «Certamente la sua arguzia, la sua autoironia – sorride padre Gambalunga – ma si evincerà anche con quale stile di normalità da “semplice monaca” visse tra le mura del suo convento i doni particolari mistici di cui beneficiò nella sua lunga esistenza ». Una cifra di santità ordinaria che non deve stupire. «Leggendo queste pagine – è la riflessione – si rimane edificati soprattutto dall’itinerario di santificazione di suor Lucia: da autentica testimone del Novecento sperimentò spesso in circostanze difficili le stesse tribolazioni, – delle vere “notti oscure” – vissute molti secoli prima e con la stessa abnegazione da due grandi mistici carmelitani come Giovanni della Croce e Teresa d’Avila». Padre Gambalunga si dice convinto che la causa dimostrerà anche lo stile di autentica carmelitana. «Spero ovviamente che suor Lucia – è la confidenza – venga presto proclamata santa ma mi piacerebbe anche che tutto questo ci aiuti a rivivere con gli stessi suoi sentimenti – a noi carmelitani scalzi della Beata Vergine del Carmelo – la grande venerazione mariana in “stile domestico” di cui fu testimone suor Lucia. Una contemplativa che era solita con la “semplice” recita del Rosario sostare in preghiera di fronte alla statua delle Vergine nel chiostro del suo monastero e così rendere il suo perenne grazie alla Madre di Gesù». Pag 24 Chiesa in Italia, l’impegno di farsi prossima ai bisognosi Il Papa aprirà l’Assemblea generale di maggio Un clima fraterno e cordiale ha animato i lavori del Consiglio permanente, riunito a Roma dal 20 al 22 marzo 2017, sotto la guida del cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei. La sessione primaverile, oltre che preparare la prossima Assemblea generale (Roma, 22-25 maggio 2017), è stata occasione per un ampio confronto tra i vescovi: la ripresa di alcuni temi della prolusione - lavoro, giovani, famiglia, fine vita, adozioni, criminalità organizzata, migranti, Unione Europea - ha portato a una lettura delle dinamiche essenziali che attraversano la cultura odierna e che impegnano la Chiesa a partire dall’esperienza umana per proporre a tutti il messaggio di vita di cui è portatrice. Con forza è stata ribadita la volontà e l’attenzione della comunità cristiana a farsi prossima a quanti sono nella prova, in uno spirito di condivisione che nasce da una precisa visione della persona e della società. Il dibattito ha portato anche all’approvazione delle Linee di preparazione alla 48ª Settimana sociale

dei cattolici in Italia (Cagliari, 26-29 ottobre 2017). Tra i temi all’ordine del giorno, ampio spazio è stato dedicato alle comunicazioni sociali, nella volontà dei pastori di affrontare tale ambito con una prospettiva educativa e formativa. La riflessione sui media diocesani ha dato voce all’esigenza di potersi confrontare con un progetto editoriale organico e integrato, secondo criteri che contemperino investimenti e sostenibilità. Il Consiglio permanente ha deciso la predisposizione di una Lettera agli insegnanti di religione cattolica per trasmettere loro un messaggio di incoraggiamento e di fiducia e, nel contempo, ribadire alcune convinzioni e segnalare questioni nuove. Ha, inoltre, autorizzato la preparazione di un testo che accompagni la recezione dell’Istruzione Ad resurgendum cum Christo della Congregazione per la Dottrina della fede. Infine, ha rilanciato la Colletta per la Terra Santa. Fra gli adempimenti amministrativi è stata approvata la proposta di ripartizione - tra carità, sostentamento del clero ed esigenze di culto e pastorale da sottoporre all’approvazione della prossima Assemblea generale dei fondi dell’otto per mille che perverranno nel 2017. Il Consiglio permanente ha anche approvato un testo relativo all’aggiornamento delle Norme circa il regime amministrativo dei Tribunali ecclesiastici italiani in materia matrimoniale: anche questo sarà approfondito e votato in Assemblea. Infine, sono stati presi in esame una serie di adempimenti in vista della prossima Assemblea generale; si è provveduto ad alcune nomine; ed è stato approvato il calendario delle attività della Conferenza episcopale Italiana per il prossimo anno pastorale. Nel corso dei lavori di Presidenza è stata approvata anche una Lettera all’Azione cattolica italiana in occasione del 150° anniversario di fondazione. UNA CULTURA ALTERNATIVA - Lavoro, giovani, famiglia, fine vita, adozioni, criminalità organizzata, migranti, Unione Europea: i temi sui quali il cardinale Presidente ha intessuto la prolusione, sono stati ampiamente ripresi nel confronto che ha animato il Consiglio permanente. I vescovi si sono ritrovati nella preoccupazione per la deriva antropologica, che impregna la cultura del Continente. Al riguardo, hanno condiviso la necessità di approntare una riflessione che muova dall’esperienza umana per riuscire a proporre a tutti il messaggio di vita di cui la Chiesa è portatrice; un approccio laico, non confessionale, attento a sviluppare un’antropologia integrale, che valorizzi alcuni punti essenziali: la natura relazionale della persona, la cui libertà ’chiama’ all’incontro; la sua unicità, che non diventa però mai possibilità incondizionata di disporre di sé; la fragilità intrinseca dell’uomo, destinata a rivelarsi la condizione che interpella prossimità, cura, condivisione dei momenti della malattia come di quelli della festa. Su questa via, la Chiesa avverte la possibilità di accompagnare alla responsabilità della testimonianza personale una chiara opera educativa e missionaria, che aiuti la gente a non subire passivamente la cultura dominante. In un contesto che assolutizza il principio di autodeterminazione - è stato evidenziato - chi sostiene il rispetto della vita rischia paradossalmente di non venire compreso o di essere considerato come incapace di rispetto per l’altro; ma una società che accettasse di essere coinvolta nella volontà eutanasica di alcuno, condannerebbe se stessa al suicidio. Mentre a Roma ci si appresta a celebrare il 60° anniversario dell’Unione Europea in un clima appesantito da movimenti populisti e spinte disgreganti, il Consiglio permanente si è ritrovato concorde nel rilanciare il cammino intrapreso. Ne ha indicato l’anima nell’ispirazione originaria - spirituale - dei padri fondatori e la condizione nel concepirsi come casa dei popoli e delle Nazioni, evitando omologazioni di pensiero e di tradizioni. È un’Unione Europea dai vescovi richiamata a ritrovarsi nella cultura del Mediterraneo e, quindi, a prestare più attenzione a chi cerca di attraversarlo. La Chiesa italiana tale responsabilità continua a viverla in prima fila: nelle migliaia di progetti di formazione e sviluppo sociale che - grazie ai fondi dell’otto per mille - sostiene nei Paesi impoveriti; nella politica dei corridoi umanitari, che intende incrementare con il coinvolgimento di parrocchie, diocesi, congregazioni religiose, Caritas e Migrantes; nell’accoglienza e nell’integrazione di quanti dimostrano di voler coniugare domanda di futuro e impegno a operare per il bene comune. Su questo fronte, il Consiglio Permanente ha espresso la volontà di costruire rapporti più significativi e continuativi con le Chiese del Nord Africa e, più in generale, dei Paesi di provenienza dei migranti. I vescovi hanno espresso particolare vicinanza ai pastori e alle comunità delle regioni maggiormente interessate da fenomeni mafiosi: nella consapevolezza che questi non conoscono frontiere, ribadiscono l’impegno per la

giustizia e la legalità, patrimonio comune che porta a rigettare ogni forma di malavita organizzata. MEDIA, UN APPROCCIO EDUCATIVO - Un progetto editoriale coordinato, unitario, capace d’integrare e valorizzare i media diocesani; una proposta rispettosa, che possa accompagnare il discernimento delle Chiese particolari. Questa la consegna emersa dal Consiglio permanente, nella volontà di affrontare l’ambito delle comunicazioni sociali in prospettiva pastorale, con attenzione privilegiata alla dimensione educativa. L’analisi dei vescovi ha preso le mosse dalla situazione di difficoltà che interessa il settore nel suo complesso e che, di conseguenza, coinvolge settimanali diocesani di ampia e preziosa tradizione, come pure emittenti radiofoniche e televisive riconducibili alla famiglia dei media ecclesiali. Attraverso di essi passa in filigrana la vita, la cronaca e la storia delle comunità e del territorio, della Chiesa e del Paese. Una presenza significativa è assicurata anche dalle Sale della Comunità, autentici presidi pastorali e culturali che favoriscono l’aggregazione e l’integrazione. Nel confronto in Consiglio permanente è emersa la consapevolezza dell’importanza di poter disporre, in un contesto di pluralismo ideologico e religioso, di strumenti con cui assicurare voce e chiavi di lettura autorevoli, al fine di contribuire alla formazione dell’opinione pubblica. È avvertita la necessità di attraversare questa stagione di transizione riorganizzando le proprie forze, secondo criteri che coniughino 'il campanile e la Rete', come pure investimenti e sostenibilità. Con fiduciosa attesa si guarda al Decreto attuativo della recente Legge 198, che introduce il Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione, destinato al sostegno dell’editoria e dell’emittenza radiofonica e televisiva locale. Nel decennio dedicato dalla Chiesa italiana all’educazione, i vescovi hanno sottolineato il valore di riscoprire e attualizzare il Direttorio sulle comunicazioni sociali nella missione della Chiesa. Con convinzione è stata ribadita la necessità di percorsi formativi che aiutino - non soltanto i ragazzi a crescere nel tempo degli schermi digitali: si avverte come momenti di approfondimento su questi temi possano rivelarsi significativi anche nel rapporto tra la Chiesa e il mondo. LAVORO, QUESTIONE DI DIGNITÀ - Nei toni della prolusione prendeva la forma dell’affanno, della sofferenza insopportabile, del grido drammatico di chi non sa come mantenere la propria famiglia e di quanti - privi di stabilità - si ritrovano senza dignità personale, sicurezza sociale, possibilità di costruire progetti di futuro. Il tema del lavoro, nella sua centralità per il Paese, è stato ampiamente ripreso nei lavori del Consiglio permanente, anche in vista della 48ª Settimana sociale dei cattolici in Italia (Cagliari, 26 29 ottobre 2017). La volontà della Chiesa di farsi prossima a quanti soffrono la disoccupazione e le sue conseguenze, di alzare la voce contro gli ostacoli all’accesso dei giovani, il lavoro nero e le vittime del lavoro, si unisce all’impegno per l’apertura di processi che si traducano in proposte e soluzioni per il mondo del lavoro. Interessano sia il rapporto tra il momento formativo e quello lavorativo, sia il ruolo e la condizione della donna; a far da sfondo, il cambiamento continuo veicolato dalla rivoluzione tecnologica ed espresso in stili di vita e modelli etici. Il cammino verso Cagliari - che nella prospettiva del Comitato scientifico e organizzatore persegue un metodo attivo e partecipativo - si articola su quattro registri comunica-tivi: la denunciadelle troppe zone di discriminazione, disagio e sfruttamento; l’ascolto e la narrazione dell’esperienza lavorativa contemporanea; la raccolta e la condivisione di buone pratiche, che già oggi creano nuove occasioni occupazionali; la formulazione di proposte capaci di incidere sui contesti giuridici, istituzionali e organizzativi, tanto a livello locale che nazionale. Con questo sguardo, il Consiglio Permanente ha approvato la pubblicazione delle Linee di preparazione all’appuntamento di ottobre (settimanesociali.it). VARIE - Nel corso dei lavori, il Consiglio permanente ha approvato l’ordine del giorno dell’Assemblea generale, che si svolgerà in Vaticano, nell’aula del Sinodo, da lunedì 22 a giovedì 25 maggio prossimo; il primo giorno sarà qualificato dall’intervento del Santo Padre e dal dialogo con i vescovi. Il tema principale (Giovani, per un incontro di fede) persegue un duplice obiettivo: aiutare i gruppi di studio a confrontarsi sulla questione educativa e sull’azione pastorale in riferimento all’universo giovanile; agevolare l’approfondimento a cui sono chiamate le Conferenze episcopali regionali attorno al Documento preparatorio all’Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi (Roma, ottobre 2018) e ai temi del relativo Questionario. In Assemblea la relazione centrale sarà affiancata dall’intervento di alcuni giovani, che riprenderanno il contributo emerso dai

gruppi di studio al Convegno ecclesiale nazionale (Firenze, 9-13 novembre 2015). L’appuntamento assembleare di quest’anno assume una particolare rilevanza con l’elezione della terna relativa alla nomina del presidente della Cei. Sarà anche eletto il vice presidente per l’area sud, in quanto monsignor Angelo Spinillo concluderà a maggio il proprio mandato quinquennale: a lui è il Consiglio permanente ha espresso la propria gratitudine. In una fase caratterizzata da profonda trasformazione legislativa e organizzativa della scuola, il Consiglio permanente ha autorizzato la predisposizione di una Lettera agli insegnanti di religione cattolica, innanzitutto, per trasmettere loro un messaggio di attenzione, incoraggiamento e fiducia, perché credano nel loro compito e lo affrontino con professionalità e passione educativa. Nel contempo, la Lettera - la cui efficacia è legata a un suo prosieguo organico - è vista quale occasione per ribadire alcune convinzioni e segnalare questioni nuove: dai criteri di idoneità al rapporto con la comunità ecclesiale, dalla formazione permanente alla responsabilità testimoniale. La stesura del testo è affidata alla Commissione Episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università. Nel corso dei lavori è stata anche disposta la preparazione di un testo che accompagni la recezione dell’Istruzione Ad resurgendum cum Christo della Congregazione per la Dottrina della fede, circa la sepoltura dei defunti e la conservazione delle ceneri in caso di cremazione. Nell’accogliere l’appello della Congregazione per le Chiese Orientali, i vescovi invitano tutte le comunità ecclesiali a partecipare alla Colletta del Venerdì Santo per la Terra Santa e a continuare la tradizione dei pellegrinaggi, anche come forma di sostegno per i cristiani che vivono in Medio Oriente. Il Consiglio permanente ha accolto la proposta di ripartizione dei fondi otto per mille per l’anno in corso; un testo relativo all’aggiornamento delle Norme circa il regime amministrativo dei Tribunali ecclesiastici italiani in materia matrimoniale; alcune misure di sostegno all’edilizia di culto. Proposta, testo e misure saranno sottoposti all’approfondimento e all’approvazione della prossima Assemblea generale. Infine, ha approvato il calendario delle attività della CEI per l’anno pastorale 2017-2018. Nel corso dei lavori il Consiglio episcopale permanente ha provveduto alle seguenti nomine: - membro della Commissione episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi: - monsignor Marcello Semeraro vescovo di Albano, amministratore apostolico di Santa Maria di Grottaferrata. - membro della Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali: monsignor Vincenzo Pelvi, arcivescovo di Foggia-Bovino. - direttore della Caritas italiana: monsignor Francesco Antonio Soddu (Sassari). - membro del Collegio dei revisori dei conti della Caritas italiana: diacono, dottor Mauro Salvatore, economo della Cei. - membro del Collegio dei revisori dei conti della Fondazione Migrantes: diacono, dottor Mauro Salvatore, economo della Cei. - assistente ecclesiastico centrale dell’Azione cattolica italiana per il Settore giovani: don Tony Drazza (Nardò Gallipoli). Nella riunione del 20 marzo 2017, la Presidenza ha proceduto alla nomina di un membro del Consiglio nazionale della scuola cattolica: fr. Gabriele Di Giovanni. Ha approvato una lettera all’Azione cattolica italiana in occasione del 150° anniversario di fondazione. CORRIERE DELLA SERA Pag 21 Da Milano parte la svolta di Francesco per ricucire con i vescovi italiani di Massimo Franco Il tentativo di superare malintesi e resistenze. L’apprezzamento per i preparativi di Scola Lo spazio temporale sarà brevissimo, poco più di dieci ore. Eppure, la visita di domani a Milano potrebbe segnare uno spartiacque nel pontificato di Francesco. Promette di inaugurare la ricucitura, o il riavvicinamento, comunque la riduzione delle distanze e il ritorno al dialogo tra un episcopato italiano disorientato e umiliato dal Conclave del marzo 2013, e Jorge Mario Bergoglio, il primo Pontefice non europeo. Da Casa Santa Marta filtra la sensazione che il Papa abbia apprezzato molto le parole e le iniziative con le quali l’arcivescovo Angelo Scola ha preparato l’accoglienza; e che abbia speso le ultime ore a limare personalmente i discorsi previsti nelle sue tappe in città. Qualcuno

aveva accreditato maliziosamente che Francesco si fosse deciso a andare a Milano quasi come un dovere. C’è molto di più. La scelta esalta il riconoscimento della metropoli come cuore del cattolicesimo non solo lombardo ma italiano e europeo. E forse come punto di partenza di una nuova fase del pontificato. Il fatto che si troverà di fronte quello che è stato indicato come il suo «rivale» nel Conclave, il cardinale Scola, appunto, è stato sottolineato come un ulteriore elemento di interesse e di curiosità. Tutto fa pensare, però, che quell’aspetto peserà assai poco; che quanto farà e dirà il Papa tenderà a superare i malintesi e perfino le forzature di chi ha voluto vedere nella sua elezione anche un’operazione ostile a un episcopato italiano diviso; e, di fatto, accusato di avere contribuito con le sue lotte interne alle dimissioni di Benedetto XVI. In qualche modo, Milano è il vero inizio del «viaggio in Italia» di Francesco: almeno nei rapporti col suo stato maggiore ecclesiastico. È una tappa brevissima e insieme densa di simbologia, perché promette di inaugurare una stagione di rapporti più stretti con una filiera di vescovi finora, in molti casi, ubbidiente e leale, più che convinta dei suoi metodi di governo della Chiesa. Si tratta di un episcopato che si è sentito ora spiazzato, ora poco coinvolto, ora scavalcato da nomine percepite come eccentriche rispetto alla tradizione italiana; e spesso, anche, è apparso incapace o refrattario all’idea di mettersi in sintonia con un Papa argentino che ha archiviato l’eurocentrismo della Chiesa cattolica; e ancora di più il primato italiano. Questa incomprensione si è depositata nei primi quattro anni di pontificato come una polvere sottile ma persistente. E ha inceppato i rapporti tra la residenza papale di Casa Santa Marta e alcune diocesi-chiave, oltre che i vertici della Conferenza episcopale. Un Francesco instancabile nel sottolineare le resistenze che il suo pontificato incontra nella Roma vaticana, con l’ombra incombente della corruzione e le riforme incompiute della Curia, si rende conto sempre di più di quanto sia importante coinvolgere chi è chiamato a tradurre e trasmettere i suoi insegnamenti. Da questo punto di vista, Milano è probabilmente più vicina di altre grandi città al suo modello di Chiesa «in uscita», attenta anche alle realtà periferiche. E, insieme, è «un po’ l’emblema del travaglio in cui è immersa l’Europa», ha sottolineato il cardinale Scola. La Roma papale viene identificata, a torto o a ragione, con il Vaticano: dunque governo, istituzione, amministrazione, burocrazia ecclesiastica. Milano è altro: economia, finanza, servizi, imprenditoria, proiezione verso l’Europa. E, sul piano religioso, popolo, con tutte le gradazioni, le sfide e le contraddizioni, oltre che le opportunità, che questa parola racchiude. È anche significativa la decisione papale di visitare la città prima di nominare il successore di Scola: un avvicendamento che probabilmente non avverrà prima dell’autunno. Anche su questo punto Francesco sa di dovere valutare con attenzione le candidature: per il riflessi italiani ed europei. Sia Milano, sia il vertice della Cei saranno le controprove del «nuovo inizio» del pontificato nei confronti dell’Italia. Il 2 aprile Bergoglio andrà a Carpi. E il 27 maggio visiterà Genova, della quale è arcivescovo Angelo Bagnasco, in uscita dopo un decennio di presidenza della Cei ma prorogato fino a maggio. Bagnasco, tra l’altro, da ottobre del 2016 è alla guida degli episcopati di tutta Europa. E anche lui, come Scola, ha avuto con Francesco rapporti altalenanti, in parte per il protagonismo e la vicinanza al Papa, di certo non nascosta, del segretario della Cei, monsignor Nunzio Galantino. Si parla di una certa irritazione dei vescovi nei confronti di Galantino. E ora che la Cei dovrà offrire a Bergoglio una terna di candidati alla successione di Bagnasco, la preoccupazione è che riemerga una scarsa sintonia con Francesco. Per questo, negli ultimi giorni sarebbe emersa come soluzione di buonsenso la candidatura di Gualtiero Bassetti, cardinale e arcivescovo di Perugia: rispettato nella Cei, e promosso cardinale nel 2014 proprio da Francesco. La controindicazione dell’età, 75 anni, sembra possa essere superata sull’altare dell’unità. E comunque, se davvero la scelta cadrà su di lui, si creerebbero le premesse per un rapporto più chiaro e fluido tra Casa Santa Marta e i vescovi del nostro Paese. Ma il punto di partenza è Milano. Sarà dal capoluogo della Lombardia che partirà l’«effetto domino» destinato a cambiare la fisionomia e gli umori del cattolicesimo italiano; e a modificare l’approccio dello stesso papato argentino, consapevole dell’importanza di andare verso logiche da dopo Conclave. LA REPUBBLICA Pag 25 Colloqui a due e niente autocandidature, il metodo Bergoglio per scegliere i vescovi di Paolo Rodari

Attesa per la nomina dei successori di Vallini, Scola e Bagnasco Città del Vaticano. Roma, Milano e la presidenza della Cei. Sulle tre prossime importanti nomine per la Chiesa italiana sono usciti tanti nomi, ipotesi e suggestioni, ma la verità è che tutti brancolano nel buio. Merito di papa Bergoglio e del suo metodo tutto ignaziano, fino a oggi infallibile: ascoltare più voci, in incontri sempre uno a uno - «in tre o quattro diventa chiacchiericcio», ha detto recentemente ai preti di Roma - , lasciar passare il tempo necessario e poi decidere da solo, a volte senza avvisare il diretto interessato. «Le mie scelte - disse nella sua prima intervista a Civiltà Cattolica - sono legate a un discernimento che risponde a un'esigenza che nasce dalle cose, dalla gente, dalla lettura dei segni dei tempi». In questo modo blocca il nascere di correnti e cordate, l'avanzare di pressioni e self promoters. Così è capitato nei recenti concistori. I cardinali hanno saputo di essere stati scelti in diretta, mentre Bergoglio annunciava i loro nomi durante l' Angelus in piazza san Pietro. C'era chi stava dicendo messa, chi era in procinto di pranzare, chi, chiamato al telefono da un parente o dal segretario, stentava a crederci. Le consultazioni che la Congregazione dei vescovi apre di volta in volta nelle diocesi non sono abolite. Tuttavia, il fatto che fino all'ultimo non si sappia quale sia la decisione papale, lascia tutti sul chi va là. Bergoglio ha tanti informatori sul campo. Li invita a Santa Marta, pranza o prende un tè con loro. Li ascolta, chiede pareri. Spesso capita che chi esce di lì sia convinto che Francesco la pensi come lui, di averlo in qualche modo persuaso che la sua opinione è quella giusta. Salvo poi ricredersi quando, tempo dopo, la decisione finale viene annunciata. Come avviene nel conclave per eleggere il capo dei gesuiti, Bergoglio accetta e favorisce il confronto personale. Ma fino all'ultimo regna l'incertezza. Tanto che a nessuno viene in mente di "lavorare" per favorire un proprio candidato o, al contrario - in passato capitava - per bloccare l'ascesa di un altro. La prima nomina ad arrivare dovrebbe essere Roma. Per la sua diocesi, Francesco ha dato il via a una sorta di primarie. Entro il 12 aprile tutti, laici compresi, potranno scrivere al Vicariato e indicare un profilo di vescovo vicario ideale, perfino facendo, se necessario, un nome. Qui, come a Milano e come in generale avviene in tutte le diocesi, il profilo adatto per Bergoglio sarebbe quello di un presule umile, di forte caratura spirituale, vicino ai poveri e agli ultimi. In queste settimane sui media i nomi si sono sprecati. Dagli ausiliari Gianrico Ruzza e Angelo De Donatis fino ai curiali Rino Fisichella e Angelo Maria Becciu. Ma nulla è ancora deciso. E non è escluso che all' ultimo non sia un semplice parroco ad assumere il delicato incarico. Le primarie sono reali e servono a Francesco per chiarirsi le idee. A fine maggio, invece, sarà la volta del nuovo presidente della Cei. Nessuno ne parla in questi termini, ma la nomina di Roma potrebbe avere ripercussioni anche sul successore del cardinale Bagnasco. Prima di lui, infatti, presidenti furono Ugo Poletti e Camillo Ruini, entrambi vicari di Roma. Non è escluso che avvenga lo stesso oggi: per il vicario, infatti, è più semplice guidare la Cei; vicino al Vaticano può essere più facilmente consultato dal Papa. In ogni caso, tutti i vescovi residenziali sono candidati: «Io no», ha detto ieri Nunzio Galantino, ricordando che ai sensi del diritto canonico chi come lui non guida una diocesi non può fare il presidente. E sul nome di Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia dato da alcuni «in pole position » per essere stato appena ricevuto dal Papa, ha detto: «Mah, il Papa riceve tanta gente...». A maggio i cardinali eleggeranno una terna. Sui nomi da votare qualche vescovo ha provato a sondare il terreno nella stessa segreteria Cei per capire se qualche nome fosse gradito, ma da via Aurelia ha ricevuto soltanto un secco «no comment». I vescovi, una volta a Roma, inizieranno a votare subito. Chi prenderà più voti diverrà per forza di cose un candidato vero. Se dopo tre votazioni nessuno avrà raggiunto la maggioranza assoluta, sarà sufficiente quella relativa. La terna finale sarà consegnata al Papa che, quando vorrà, annuncerà la sua decisione che dovrebbe assecondare (ma la cosa non è automatica) i nomi dell'assemblea. Le conferenze episcopali - ha in ogni caso spiegato Galantino -, già in queste settimane potrebbero confrontarsi per valutare eventuali candidati. Oggi, per quanto queste anticipazioni siano labili, tra i tanti nomi circolano quelli dell'arcivescovo di Modena, Erio Castellucci, dell'arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori e di Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento. La visita di domani del Papa a Milano potrebbe essere decisiva per fissare la data della nomina del successore di Scola. Nel senso che Francesco potrebbe chiedere a lui quale sia il momento migliore per lasciare. Anche qui regna l' incertezza: oltre alle figure dei vescovi vicari, già interni alla

diocesi, potrebbe prendere piede l'ipotesi di un outsider, come fu il cardinale Ildefonso Schuster che arrivò a Milano da Roma dove era abate a San Paolo Fuori le Mura. IL FOGLIO Pag 2 Astrobiologia e teologia unite alla ricerca della vita extraterrestre di Matteo Matzuzzi La Civiltà Cattolica sulle implicazioni della “nuova scienza” Roma. "Quale ricerca astrobiologica potrebbe promuovere una comprensione teologica della creazione e della vita umana fondata sull'Incarnazione e animata da essa?". E ancora, "come possono sostenersi a vicenda teologia e astrobiologia?". Sono le due domande che il gesuita Andrea Vicini, docente al Boston College, pone in un lungo articolo che compare nell'ultimo numero della Civiltà Cattolica. Prima di dare una risposta ai quesiti, è utile spiegare cosa sia l'astrobiologia e già qui sorge il primo problema, visto che essa "sta ancora definendo la propria specificità scientifica, i propri ambiti di ricerca, il proprio statuto disciplinare". A ogni modo, si può convenire con la definizione di David Catling, secondo cui "l'astrobiologia studia l'origine e l'evoluzione della vita sulla Terra e la possibile varietà della vita altrove". Precisava l'astrobiologo e teologo Lucas Mix che "l'astrobiologia non studia la vita aliena", anche se è del tutto contemplata l'esistenza della vita "in un contesto cosmico". A complicare la questione, osserva Vicini, ci s'è messa la Nasa, la quale nel 2008 sosteneva che "l'astrobiologia include la ricerca di pianeti potenzialmente abitati oltre il nostro sistema solare, l'esplorazione di Marte e dei pianeti più distanti, gli studi di laboratorio e le investigazioni per indagare l'origine e l'evoluzione iniziale della vita e gli studi sulla capacità potenziale della vita di adattarsi alle sfide future, sia sulla Terra sia nello spazio". Insomma, il campo di ricerca è amplissimo e ancora in gran parte inesplorato. Proprio per questo è necessario considerare le implicazioni sociali e politiche di questa "scienza nuova", attraverso una regolamentazione che, possibilmente, dovrebbe richiamarsi ai princìpi propri della dottrina sociale della chiesa, e cioè la democratizzazione, la trasparenza, l'accessibilità e la diffusione. Lucas Mix invitava a non confondere l'astrobiologia con la ricerca di intelligenza extraterrestre, anche se - ammetteva - "esiste un'enorme sovrapposizione tra i due ambiti di ricerca". Non che la chiesa sia chiusa all'ipotesi di considerare l'esistenza di forme di intelligenza extraterrestri. Tutt'altro. Il direttore della Specola vaticana, l'astronomo statunitense Guy Consolmagno, spiegava qualche anno fa che "l'idea che nello spazio ci siano altre forme di vita intelligente non è in contrasto con il pensiero tradizionale cristiano. Per noi credenti, lo studio dell'universo è una meravigliosa avventura che ci riempie di stupore. Non possiamo pensare che Dio sia così limitato da aver creato esseri intelligenti solo sulla Terra. L’universo potrebbe benissimo contenere altri mondi con esseri creati dal suo stesso amore". Risposta che fa il paio con quella che dà Vicini, quando ricorda che secondo alcuni "se l'astrobiologia scoprisse altre forme di vita nello spazio, l'esistenza stessa delle attuali religioni ne risulterebbe gravemente minacciata". Il punto è di chiarirsi su quale sia questa religione. Infatti, "nel cristianesimo, il mistero dell'Incarnazione, avvenuto in Gesù Cristo in un momento preciso del tempo e in un luogo determinato dello spazio, manifesta l'ospitalità accogliente e inclusiva del divino nei confronti della creazione e dell'umanità". E' chiaro dunque che - scrive ancora la Civiltà Cattolica - "niente e nessuno è escluso dall' abbraccio amorevole di Dio in Gesù e con lo Spirito Santo". Dunque, nessuna contraddizione. Alla fine, a risolvere la questione è ancora Consolmagno, che commentando sull'Osservatore Romano la scoperta di sette nuovi pianeti extrasolari scriveva: "Credete che ci sia vita in qualche altra parte dell' universo? E' una domanda che agli astronomi viene posta in continuazione. Ed è la domanda giusta: la vita nell' universo è, finora, una questione di fede. Non abbiamo dati a indicare che una tale vita esista. Ma la nostra fiducia nel fatto che la vita esiste è abbastanza forte da renderci disponibili a fare lo sforzo di cercarla". Pag 2 Quando i fan alla sinistra del Papa più che ai poveri pensano a Chàvez di Loris Zanatta La tradizione antiliberale del populismo latinoamericano

Ormai è ufficiale: Papa Francesco è il leader della sinistra italiana, europea, mondiale. Com' è possibile? Sarà un equivoco? Le ragioni accampate dalle nutrite legioni pontificie suonano convincenti: poiché la sinistra laica ha smarrito la via e tradito gli ideali abbandonando "gli ultimi" della cui protezione dovrebbe occuparsi, è normale che cessi di rappresentarli. Ancor più normale, in tale ottica, è che gli orfani sociali, che sono tanti, e gli orfani intellettuali, ancor più numerosi, si rivolgano speranzosi al Papa argentino, al suo costante appello agli scartati, alle periferie, alle sue bordate contro il mercato, i potenti, le banche. Lui sì che scalda i cuori! Per molti è una nuova gioventù: l'anticapitalismo è tornato! Tutto ciò non dovrebbe sorprendere: molto prima che il comunismo trasformasse il verbo anticapitalista e antiliberale in un'ideologia secolare, era stata la chiesa cattolica ad agitare con furia quel vessillo; e quella latina più di qualsiasi altra, in nome del popolo cristiano minacciato nelle sue virtù dalle nuove idee. Non sarà un caso se il comunismo ha attecchito nel mondo latino e cattolico assai più che altrove; se il comunismo vi ha assunto spesso il profilo di una chiesa secolare: lo dico con cognizione di causa, da figlio di operaio comunista cresciuto coi santini di Lenin sui comodini di casa. Con Bergoglio, dunque, l'atavica ostilità al liberalismo economico e politico ritrova le sue ragioni e chi non ha elaborato il lutto del crollo del mondo comunista, può ritornare alle origini evangeliche dell'antiliberalismo nei paesi latini. Ciò è del tutto coerente con la traiettoria del Papa, che incarna la tradizione antiliberale del populismo latinoamericano, nemico della "razionalità illuminista" e dei ceti medi, in quanto "ceti coloniali" estranei alle radici cattoliche del "popolo". La distinzione tra destra e sinistra è importante, ma talvolta superficiale: c'è una destra liberale e una destra populista; c'è una sinistra liberale e una sinistra populista; e c'è assai più affinità ideale tra le anime liberali e tra quelle populiste di quanto non ve ne sia tra destra e sinistra. E’ questione di visioni del mondo le cui radici si perdono in epoche remote. Quella liberale propone una visione disincantata del mondo; affronta la vita sociale come un esercizio pragmatico e imperfetto che rifugge le utopie redentive, perché foriere di fanatismi fratricidi. Quella populista vede il mondo come un'eterna lotta tra bene e male; non le importa analizzare il mondo nella sua complessità per apportarvi modifiche, migliorie, riforme; le importa giudicarlo in termini etici: assolverlo o condannarlo. Su questo piano, il populismo non ha rivali: la sua portentosa forza è la stessa che da secoli alimenta le grandi religioni; e su ciò, infatti, sulla semplificazione dei grandi problemi della nostra epoca, il Papa non ha rivali. Tuttavia, gli argomenti di chi si arruola nella sinistra pontificia sono più deboli di quanto sembri. Si può criticare finché si vuole la sinistra liberale, ma il suo presunto "abbandono" degli ultimi è frutto di una riflessione storica che, prima o poi, anche la sinistra pontificia dovrà fare. Nasce cioè dall'ovvia considerazione, del tutto estranea al Papa, che il terribile mercato ha fatto e può fare per emancipare gli ultimi e le periferie assai più degli ideali agitati con indignazione contro di esso; che il mercato va governato e ben governato, non combattuto; che la competitività e la produttività non sono brutte parole inventate per sfruttare gli indifesi, ma le chiavi per rendere più inclusivi i sistemi produttivi e sociali. La sinistra bergogliana guardò nel decennio scorso ai populismi dell' America latina come la nuova via: quelli sì che bastonavano il mercato, che pompavano spesa pubblica, che inneggiavano al popolo e ai poveri! Oggi che il Venezuela chavista langue nella miseria e nella disperazione in mezzo a un mare di macerie istituzionali, tutti guardano altrove: regna il silenzio. Eppure era già accaduto e ancora accadrà: quelle belle idee producono simili disastri. Non sarà che le milizie del Papa amino più i loro antichi e gloriosi ideali che il destino dei poveri? IL GAZZETTINO Pag 24 Fatima, ecco perché il Papa proclamerà santi i bimbi veggenti di Massimo Introvigne L'annuncio del Pontefice secondo cui, nel prossimo viaggio a Fatima per il centenario delle apparizioni della Madonna del 1917, che cadrà il 13 maggio, proclamerà santi i due più giovani veggenti di cento anni fa, Francesco e Giacinta Marto, smentisce una certa immagine di Papa Francesco, di cui si dice che non amerebbe le rivelazioni private. Le canonizzazioni sono frequenti nella Chiesa, ma questa è diversa dalle altre per tre motivi, e apre una nuova fase nella storia del complesso rapporto della Chiesa con

Fatima. Anzitutto, il Papa proclama santi un bambino di undici anni e una bambina che non ne aveva ancora compiuti dieci. È possibile, da bambini, essere già santi? Va chiarito che Francesco non canonizza Francesco e Giacinta perché hanno visto la Madonna. Essere veggenti non significa automaticamente essere santi. La Chiesa ha riconosciuto le apparizioni francesi di La Salette, del 1846, ma non ha mai canonizzato i due veggenti Melania e Massimino. Il Papa scioglie dunque un dubbio antico e dichiara che sì, a nove anni è già possibile essere santi. In secondo luogo, il Papa risponde implicitamente ma chiaramente alle tante fantasie che circolano in questo anno del centenario su presunti segreti di Fatima che non sarebbero ancora stati rivelati. Ci sono giornalisti che continuano a sfornare libri e articoli che attaccano il Vaticano, accusato di nascondere segreti che magari parlano della crisi della Chiesa e consentirebbero di criticare Papa Francesco. Il terzo messaggio che viene dalla canonizzazione è che il Papa non è ostile a Fatima. Ci crede anche se per nessun cattolico è obbligatorio credere alle rivelazioni private e ci è anche affezionato. Ma la versione di Fatima che piace a Papa Francesco è quella ridotta all'essenziale. Durante una guerra terribile, la Prima guerra mondiale, la Madonna è apparsa a tre bambini poveri e lì ha invitati a pregare, ricordando che la pace si ottiene con la preghiera, la penitenza e la conversione. LA NUOVA Pag 6 Bergoglio a San Vittore nel segno di don Curioni di Orazio La Rocca Francesco, primo papa a visitare il carcere di SanVittore. Evento storico per Milano e per i milanesi. Ma difficilmente, quando domani entrerà nella casa di pena meneghina, saprà che tra i tanti detenuti che vi sono stati imprigionati, in passato c’è stato anche un noto teologo, ex docente alla Pontificia Università Lateranense, scrittore e giornalista. Si tratta di Gianni Gennari, da una ventina d’anni editorialista del quotidiano cattolico Avvenire, dove firma, tra l’altro, la rubrica “Lupus in pagina” dedicata all’informazione religiosa dei media nazionali e internazionali. Gennari vi fu incarcerato, ma per “finta”, verso la metà degli anni Settanta con la complicità dell’allora cappellano don Cesare Curioni, figura storica della pastorale dedicata al mondo dei carcerati, scomparso nel 1996, all’età di 73 anni, dopo essere stato anche Ispettore Capo dei cappellani delle carceri italiane. Si trattò di un escamotage concordato tra Gennari e don Curioni, e con l’autorizzazione delle autorità giudiziarie, per far trascorrere al teologo un po’ di giorni in una cella a contatto con gli stessi carcerati, per prepararsi a una serie di incontri che avrebbe tenuto in seguito con le donne incarcerate a San Vittore. Un aneddoto che i protagonisti non hanno mai rivelato, ma che in occasione della visita di papa Francesco, Gennari per la prima volta rende pubblico, anche come segno di omaggio all’intelligenza e all’intraprendenza pastorale di don Curioni, «prete e cappellano esemplare», una figura sempre rispettata e quasi venerata dai carcerati per il suo tratto umano, paterno e comprensivo. «Ero stato invitato da don Cesare a parlare in conferenza nella sezione femminile di San Vittore; ma in un primo momento ebbi qualche perplessità perché - ricorda Gennari - non mi sentivo di parlare a persone ferite dalla vita e costrette dentro celle anguste, private della libertà. Come avrei potuto parlare loro senza conoscere almeno un po’ della loro quotidianità di recluse?». Perplessità condivisa da don Curioni che pensò subito di organizzare un finto arresto per Gennari, che sotto falso nome fu messo in una cella con altri detenuti. «Fu un’esperienza molto importante e capii tante cose», racconta il teologo che dopo tre giorni uscì di cella e tenne gli incontri con le detenute. Papa Francesco domani non ne sarà messo a conoscenza, anche a causa del fitto calendario della visita. Ma sarebbe auspicabile che qualcuno gli ricordasse che tra quelle mura ha operato per 30 anni un cappellano, don Cesare Curioni, il prete amico di tutti i carcerati, pietra miliare dell’assistenza pastorale al mondo carcerario, che fece anche da tramite per Paolo VI nel tentativo di trovare uno spiraglio per la liberazione di Aldo Moro rapito dalle Br e ucciso il 9 maggio 1978. Francesco, comunque, domani a San Vittore riprende il cammino pastorale tra i carcerati rilanciato nel 1958 da Giovanni XXIII con la visita a Regina Coeli, un secolo dopo una analoga iniziativa fatta al carcere di Civitavecchia da Pio IX che volle incontrarvi i prigionieri politici. Ancora a Regina Coeli hanno fatto visita il 9 aprile 1964 Paolo VI, e in seguito nel Grande Giubileo del 2000 Giovanni Paolo II, già colpito dalla malattia, che il 27 dicembre 1983 aveva incontrato a Rebibbia il suo attentatore Alì Agca. Benedetto XVI, il 18 marzo 2007 visita i ragazzi di

Casal del Marmo e il 18 febbraio 2011 va a Rebibbia, carcere già visitato nel 2015 da papa Francesco, che nel 2013 appena eletto andò a Casal del Marmo il Giovedì Santo per celebrarvi il rito dell’Ultima Cena. Per la prima volta l’importante funzione dell’Eucarestia fu tenuta da un Papa fuori dal Vaticano e, per di più, in un carcere minorile dove lavò i piedi a 12 giovani di differenti nazionalità e differenti religioni, anche musulmani. Bergoglio, inoltre, spesso telefona ai detenuti delle carceri argentine. E ha presieduto lo scorso anno la giornata dei carcerati nella basilica di San Pietro per il Giubileo della Misericordia, ammonendo, in particolare, che è «bene chiederci sempre perché quelli, i carcerati, sono caduti e non noi?». Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 20 L’arte non è blasfema, Biennale assolta di Roberta De Rossi La Cassazione chiude il caso del balletto sadomaso che aveva fatto arrabbiare il patriarca Scola Venezia. Un balletto non è blasfermo: in uno Stato laico, l’arte è «espressione di una libertà garantita dalla Costituzione» e non si possono «inibire» le manifestazioni artistiche, anche se «sospettate di offendere il sentimento religioso di qualcuno». La Cassazione ha così respinto la richiesta di risarcimento per danni morali avanzata dall’avvocato veneziano Ivone Cacciavilani nei confronti della Biennale, “rea” di aver messo in scena - nel 2007 - il balletto “Messiah Game”, lettura in chiave sadomaso della Passione di Cristo, firmata dal coreografo tedesco Felix Ruckert. Uno spettacolo il cui solo annuncio aveva fatto arrabbiare l’allora patriarca Angelo Scola, che aveva chiesto fosse ritirato. Naturalmente la Biennale proseguì con la sua programmazione, replicando in una nota che l'annullamento avrebbe minato «alle radici il principio di autonomia e di libertà d'espressione: ogni giudizio di tipo etico, morale o religioso è pertanto lasciato alla coscienza del pubblico» . Ma l’avvocato Cacciavillani ci mise del suo, chiedendo oltre 13 mila euro di risarcimento, per una performance che riteneva gravemente offensiva «del comune sentire medio del cittadino cattolico, oltre che lesivo del diritto di libertà religiosa garantito dall'articolo 19 della Costituzione e del suo personale sentimento religioso». Ci aveva già provato nel 1988, denunciando per blasfemia Martin Scorsese e “L’ultima tentazione di Cristo”, presentato alla Mostra del Cinema: ma - oggi come allora - i giudici hanno ribadito che in Italia vige la libertà di espressione. Nel caso di “Messiah Game” - riporta l’Ansa citando stralci della sentenza - la Cassazione ha escluso che «l'organizzazione di uno spettacolo artistico possa, di per sé sola, costituire violazione del personale sentimento religioso di un singolo cittadino», «essendo la programmazione di una manifestazione artistica espressione di una libertà garantita dalla Carta costituzionale». Secondo i giudici, «il principio di laicità dello Stato, comporta equidistanza e imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose, e, dunque il dovere di garantire (...) l'esercizio delle diverse religioni, culti e credenze e di assicurare la tolleranza anche nelle relazioni tra credenti e non credenti». Solo pochi giorni fa, il Tribunale di Venezia ha “assolto” un’altra opera presentata alla Mostra del Cinema, per una scena nella quale la protagonista del film di Ulrich Seidl "Paradies - Faith” (Gran premio della Giuria) si masturbava con un crocifisso. A qualcuno può non piacere, ma non è un reato: caso archiviato. Pag 21 “Il museo M9 darà la scossa a Mestre” di Mitia Chiarin Gianpaolo Fortunati, presidente di Polymnia: la città deve trasformarsi in una meta e l’accoglienza va vestita di cultura «Le nuove strutture alberghiere previste a Mestre aumenteranno il flusso dei turisti che pernottano in terraferma. Persone che di giorno vanno a Venezia e di sera, dalle 18 in poi, vivranno Mestre. Quello che potrebbe divenire un problema per l’effetto dormitorio che potrebbe indurre, deve essere trasformato invece in risorsa da capitalizzare attraverso la promozione di una cultura dell'accoglienza che può veramente costituire

una delle componenti future dell'identità di Mestre». Gianpaolo Fortunati, presidente di Polymnia, la società strumentale della Fondazione di Venezia che sta seguendo, passo passo, il cantiere da 100 milioni di euro per la nascita del museo M9, che aprirà nel 2018, non nasconde che una Mestre che si apre al turismo (con i nuovi 1.900 posti letto in via Ca’ Marcello previsti dai quattro nuovi alberghi e dal nuovo ostello all’ex Vempa) è una opportunità. Anche per ampliare la platea di spettatori del museo. Il museo quindi sarà aperto anche la sera? «Certamente e ci stiamo lavorando. Noi confidiamo molto anche sull’arrivo del turismo che di giorno visita Venezia. Ma Mestre deve saper cogliere quella che può essere davvero una opportunità. La sfida è riconvertire la massa di coloro che pernottano in città in abitatori della città, trasformare la città in meta. Per ottenere questo, l'accoglienza deve essere vestita di contenuti, da quello culturale a quello di un intrattenimento intelligente. Diventa essenziale disegnare una geografia della cultura e dell’intrattenimento che possano avere autonoma spinta attrattiva». E il museo M9 punta ad essere elemento trainante di questo cambiamento? «Il polo M9, sia per l’iconicità dell’edificio museale, sia per i suoi contenuti culturali, sia per il progetto di rigenerazione urbana supportato da un esperimento di fusione di commercio e cultura, sia per il respiro internazionale che può emanare, può rivelarsi come elemento trainante di una visione complessiva della città. Simile all’operazione culturale fatta a Bilbao». Ma ci sono tante preoccupazioni sul risultato finale. Anche del sindaco di Venezia. «Noi siamo stati preoccupati fin dall’inizio. Ma siamo anche fiduciosi di realizzare una cosa davvero bella. Ma pochi sanno quanto è complesso questo cantiere». Con l’impresa Maltauro un accordo è stato raggiunto e i temporali sembrano passati. «Una costruzione così complessa porta inevitabilmente a letture degli accadimenti di cantiere non sempre coincidenti, ma altrettanto fisiologica è la ricomposizione del tutto sul piano di una comune e soddisfacente convergenza, come è avvenuto con la ICM. Importante è che i lavori siano eseguiti a regola d’arte rispettando la qualità dell’impronta architettonica del progetto degli architetti Sauerbruch e Hutton che costituirà, da sola, elemento culturale di forte attrattività. L’accordo prevede la consegna del cantiere M9 entro la fine del 2017 e quella del Convento, che ospita l’area commerciale, per l’estate del 2017. Date dalle quali potranno partire i percorsi per i collaudi e per gli allestimenti». Un aspetto fondamentale è l’accessibilità al polo museale che nasce senza parcheggi. A che punto siete? «La rete dei collegamenti che debbono facilitare l’accesso al polo culturale è un tema nodale per la frequentazione. Le preoccupazioni del sindaco sono giustificate e hanno portato all’apertura di un tavolo tecnico con Vela che entra ora nella fase operativa di confronto. Disponiamo di una buona rete di parcheggi intorno a M9: il park di via Costa; il parcheggio Candiani, quello di Piazzale Leonardo Da Vinci, il New parking di via Lazzari, il garage Europa, oltre a quelli in prossimità della stazione ferroviaria, come il Gregory, quello di Ferrovie e il Saba con cui siamo già convenzionati. Stiamo pensando anche ad un punto di approdo degli autobus che scaricheranno gli studenti o i viaggi organizzati in piazza XXVII Ottobre. Poi ci sono i mezzi pubblici e il tram. C’è da pensare alla segnaletica. Confidiamo anche sui collegamenti ferroviari anche se i cantieri Sfmr sono fermi. Questi collegamenti assieme a quelli via porto e aeroporto, saranno affrontati dal tavolo di lavoro che, per una ammirevole preveggenza del sindaco, gli uffici comunali hanno organizzato per assumerne direttamente il coordinamento». Torniamo alle aspettative della città. «Credo che questa attesa, condita oggi da critiche, piuttosto che elogi si esaurirà con l’apertura. Su cosa pecchiamo? Sulla comunicazione ma ci stiamo dando da fare anche su questo. Il primo e secondo piano ospiteranno l’esposizione permanente sul Novecento; il terzo piano ospiterà esposizioni temporanee, con 1.500 metri quadri di spazi liberi da pilastri. E noi abbiamo assoluta necessità di aprirci al territorio: ogni proposta sarà valutata attentamente nel rispetto di una doverosa programmazione di qualità. Con il museo, l’area retail, i nuovi percorsi pedonali, il rifacimento del cortile interno ci apriremo alla città puntando a divenire il distretto culturale e sociale che darà la scossa a Mestre». L’ultimo piano, il terzo, dell’edificio del museo M9 è stato poggiato la scorsa settimana. La fine lavori nel grande cantiere tra via Poerio e via Brenta Vecchia è previsto entro la fine del 2017. Il convento di via Poerio, che diventerà l’area commerciale che con gli affitti garantirà la sostenibilità economica del progetto finanziato interamente dalla Fondazione di Venezia, sarà ultimato per l’estate 2017. Ma non aprirà subito al pubblico.

Poi inizieranno le opere di collaudo e di allestimento. Per il museo, che punterà molto sulla tecnologia, cinque aziende italiane specializzate sono state chiamate a lavorare. Appuntamento con l’inaugurazione, quindi, nel 2018, conferma Fortunati. Al complesso del convento, l’area retail- commerciale, si è ggiunto anche l’edificio di via Meucci, acquisito per essere in parte modificato e destinato a spazio commerciale con l’apertura di un percorso pedonale verso corte Legrenzi. E lo spazio M9, oggi sede di mostre e convegni, rimarrà aperto ad eventi cittadini. «Il museo, le corti interne ed esterne, le aree retail vanno a comporre un mosaico di elementi attrattivi che generano aggregazione comunitaria. Vorremmo che questo spazio diventasse il grande palcoscenico della città», dice Fortunati. Ma quali marche e catene commerciali arriveranno nel l convento restaurato? ora Fortunati non si sbilancia: contatti ci sono «senza la volontà di entrare in concorrenza con la realtà commerciale attorno». E continua: «Riempire l’area solo di negozi sarebbe facile, nonostante la crisi. Il nostro sogno è invece che quest’area retail rappresenti un aggregante sociale, anche per gli eventi». Il confronto sulla mobilità è confermato dall’assessore alla Mobilità Renato Boraso. «Ci hanno chiesto di opzionare una parte dei posti auto del parcheggio di via Costa e la pratica è ora all’esame di Avm che ha la proprietà del parcheggio», dice l’assessore che sta lavorando per portare in questo park, poco utilizzato, la prima ora di sosta ad un euro, mantenendo le successive a due euro. Ieri il progetto M9 è stato tra quelli discussi al Vega in un convegno sull’edilizia sostenibile come esempio di cantiere che punta alla certificazione ambientale Leed Gold. Pag 23 Viaggio nel “triangolo dello spaccio” di Marta Artico Tra la stazione e la zona di via Piave e via Cappuccina si vende stupefacente e ci si droga ala luce del sole Il triangolo della droga e dello spaccio in città ha diversi focolai che ruotano attorno alla stazione, si diramano nelle strade più calde - via Monte San Michele angolo via Trento, via Rampa Cavalcavia, via Dante, piazzale Baisnizza (le zone dove si compera) via Sernaglia - e poi rimbalzano tra i parchi dedicati a scambio e acquisto. I sottopassi servono per drogarsi e trovare veloci vie di fuga. Gli agenti operativi della polizia municipale presidiano, eseguono controlli quotidiani, ma la lotta è impari, anche per via della normativa che non aiuta. Tour dello spaccio e sottopassi. I cittadini denunciano un’escalation di spaccio, degrado e criminalità nei sottopassi della stazione. Il primo, il sottopasso di via Dante, è quello che mette più a dura prova gli uomini del Nucleo di Polizia giudiziaria e antidegrado del Comune. Ci passano tutti i giorni, ma dovrebbero stare lì 24 h. Ieri pomeriggio gruppetti di spacciatori stazionavano all’ombra del sottopasso, andavano su e giù, controllavano la ciclabile. Nel mentre alcune rom importunavano i pendolari - che tiravano via velocemente- chiedendo la carità. Quello di via Dante, è usato per “farsi”. Mattina, pomeriggio, sera, si trovano consumatori intenti a drogarsi, braccia e gambe all’aria, siringa tra le mani. Il sottopasso che da via Giustizia sbuca in via Ulloa, è usato per transitare verso l’area del cavalcavia dell’Amelia dopo aver acquistato la droga nelle retrovie della stazione, le laterali di via Cappuccina, in via Monte San Michele. Ieri pomeriggio giovani e sbandati, percorrevano via Trento verso il sottopasso. Appena imboccato, tracce di sangue fresco su alcune salviette, siringhe abbandonate, segno evidente che qualcuno si era appena bucato. «Ogni giorno è così», racconta un signore che passa di fretta, «oggi (ieri, ndr) è anche meglio del solito, a volte è molto peggio. Quando puliscono? Mai». «Sembra di essere tornati agli anni Settanta», dice a denti stretti un uomo sulla sessantina, «mai visto tante siringhe da allora». Lungo via Trento, il giro è il medesimo. C’è chi barcolla, anche giovanissimi, dicendo frasi senza senso, e cammina spedito verso l’ex falegnameria rossa di via Giustizia, dove va a farsi in tranquillità. Una processione continua. Appena sbucati dal sottopasso, in via Ulloa, una recinzione e un’area verde, dove due uomini e una donna si bucavano alla luce del sole. Controlli. All’angolo tra via Monte San Michele e via Trento, gli agenti antidroga con Kuma. Sono riusciti a far allontanare per qualche ora i ragazzotti di colore che una volta erano i padroni della via, adesso sono molti meno, salvo la notte, dopo le 22.30, quando la strada torna loro. Mostrano la droga appena sequestrata, i bilancini, perquisiscono giovani che conoscono per nome, raccontano una situazione difficile. Sequestri. Nel pomeriggio di mercoledì e ieri gli operatori della polizia giudiziaria

comunale, con le unità cinofile antidroga, sono intervenuti tra le vie Monte San Michele, Trento, piazzale Bainsizza e Sernaglia. Complessivamente è stato sequestrato oltre un etto di varie sostanze stupefacenti e due uomini sono stati denunciati a piede libero all’autorità giudiziaria. In via Trento, alcuni agenti in borghese che avevano notato movimenti sospetti nei sottoportici dove un uomo di colore stava armeggiando intorno ad una bicicletta, hanno scoperto, nascosti dentro al cestino, 11 involucri di eroina e oltre mezzo etto di marjiuana frazionato in dosi. Il pusher, un cittadino di nazionalità nigeriana, è stato ripreso dalle telecamere di sorveglianza e verrà denunciato. Tra le vie Monte San Michele e Trento gli agenti grazie al fiuto di Kuma hanno trovato altre dosi di marijuana nascoste nei punti più disparati; intorno a un cestino delle immondizie in Piazzale Bainsizza, sono state trovate altre confezioni di eroina che erano state seppellite nel terreno. Infine, dosi di eroina sono state recuperate nei giardinetti di via Sernaglia, proprio dietro la fermata del tram. Denunciato un marocchino di 32 anni. Pag 35 Pierre Rosenberg: “Venezia, il futuro è nella cultura” di Enrico Tantucci “In altre città il turismo è più aggressivo, qui c’è una vitalità nascosta da riscoprire” La sciarpa rossa che porta sempre al collo è ormai il suo segno distintivo e la sfoggia anche quando cala a Venezia, una settimana al mese. C’era anche pochi giorni fa, quando ha partecipato al museo Correr alla presentazione e all’inaugurazione della magnifica mostra di disegni francesi della Collezione Prat, organizzata dalla Fondazione Musei Civici, di cui è stato il curatore. Perché Pierre Rosenberg, 81 anni portati con la stessa ironica leggerezza con cui formula i suoi giudizi, già direttore e presidente del Louvre oltre che famoso storico dell’arte, a Venezia è di casa. A Dorsoduro, per la precisione, nella casa in cui Wagner scrisse il secondo atto del Tristano. E ogni mattina la sosta in un bar della tradizione veneziana come Tonolo, per una meringa e un caffè, è una tappa obbligata. Per questo una conversazione con lui offre anche uno sguardo diverso su una Venezia comunque vissuta da vicino. Professor Rosenberg, lei è anche da diversi anni presidente dell’Alliance Française di Venezia, l’Associazione che promuove la cultura francese nel mondo. A Venezia i francesi sono sempre di più. «È vero, hanno ormai preso il posto degli inglesi come frequentatori privilegiati di Venezia. Se si va in aeroporto e se si osserva il numero dei voli tra Parigi e Venezia, si vede che è impressionante. Il ruolo dell’Alliance è anche quello di rendere sempre più strette le relazioni tra Venezia e la Francia e da parte mia è sempre un piacere collaborare con il direttore della Fondazione Musei Civici Gabriella Belli, come per la mostra dei disegni della Collezione Prat, molto stimata anche in Francia. Ma ci sono altri francesi che fanno molto per Venezia, come Jerome Zieseniss, che con il Comitato di Salvaguardia francese ha prima contribuito al restauro del Palazzo reale e ora del Ducale». Da quando frequenta Venezia? «Da sempre. Ho cominciato nel ’61, quando a Parigi ho curato una mostra sulla Venezia del Settecento nella cultura francese. Da allora ho sempre dedicato più tempo a Venezia, tanto da venirci più o meno una settimana al mese e a prendere anche casa qui con mia moglie». Cosa trova a Venezia che non ha a Parigi? «La pace. A Parigi ho troppe distrazioni, qui invece posso lavorare con tranquillità ai miei libri. Venezia è per me la città ideale per questo. Inoltre io amo molto la musica e la città è cresciuta molto sotto profilo in questi anni». Ma non la disturba progressiva l’“invasione” dei turisti? Cosa ne pensa? «Penso che da questo punto di vista Venezia stia meglio di altre città d’arte italiane, perché almeno qui il turismo è concentrato in alcune zone della città come Rialto e San Marco, mentre a ad esempio a Firenze la città è completamente occupata. Venezia ha bisogno del turismo e a mio avviso sbaglia a demonizzarlo.Certo, la città ha i suoi problemi, ma credo che il suo futuro sia legato soprattutto alla cultura. Ad esempio credo molto nella collaborazione tra le Gallerie dell’Accademia e la Fondazione Musei Civici, con alla direzione delle due istituzioni due donne di grande valore come Paola Marini e appunto Gabriella Belli. Ma penso anche al lavoro importante sulla valorizzazione del vetro artistico che David Landau sta compiendo con il ciclo di mostre organizzato dalla Fondazione Cini. Anche se Murano oggi è un po’ in crisi, il vetro è un altro dei punti di forza di Venezia, oltre che una mia passione». È un collezionista? «Si, di animaletti di vetro, anche da pochi euro. Ne ho ormai migliaia, distribuiti tra la casa di Venezia e quella di Parigi. Tutto è cominciato molti anni fa, quando ero a pranzo in un noto ristorante veneziano, che metteva in vendita anche questi animaletti di vetro.

Al momento di pagare, mi sono accorto che erano meno cari del conto del locale, e così ne ho comprato uno e ho cominciato la mia collezione». Oltre che presidente dell’Alliance, lei è socio dell’Ateneo Veneto e dell’Istituto Veneto. Eppure a Venezia i suoi interventi pubblici sono rari. «Quando me lo fanno notare, racconto sempre la barzelletta di quel villaggio mesopotamico di duemila anni fa, tormentato da un feroce leone. Per liberarsene, gli abitanti gli mandano contro il più robusto di loro, ma viene ucciso. Stessa sorte per altri “campioni” mandati ad affrontarlo. Gli abitanti sono ormai rassegnati, quando un tipo mingherlino chiede di provare anche lui ad affrontare il leone. Scettici, gli abitanti lo lasciano comunque provare. E lui si avvicina al leone, gli dice qualcosa e lo fa scappare spaventato. Sollevati ma increduli, gli abitanti del villaggio gli chiedono: “Come hai fatto a farlo scappare?”. E lui: «Gli ho detto che avrei fatto un discorso...». Mi sembra di capire che lei non è pessimista sul futuro di Venezia. «Per me sono i veneziani a essere troppo pessimisti. Io ho diversi amici veneziani, anche se vorrei averne di più, e cerco quelli “nascosti”, che testimoniano comunque la vitalità di questa città e dei suoi abitanti, che resiste. Penso ad esempio a un grande artista del vetro a lume, come Fabio Amadi, che lavora a San Polo e che magari in molti non conoscono. Questa Venezia nascosta esiste, bisogna solo riscoprirla e valorizzarla». Rimpiange gli anni del Louvre? «Assolutamente no, anche perché il ruolo del direttore di quel museo è molto cambiato, anche per la nascita dei musei “satelliti” come quello di Abu Dabhi. Inoltre il direttore del Louvre attuale non dorme per il problema della sicurezza, che è diventata una questione veramente impegnativa per i musei. A Venezia, da questo punto di vista, tutto è affrontato con molta leggerezza. Bene così, finché dura». A proposito di Venezia e della sua cultura artistica, oggi si parla più di arte contemporanea che di arte antica. Cosa pensa a questo proposito del suo connazionale François Pinault e della sua Fondazione che ha preso in gestione Palazzo Grassi e la Punta della Dogana? «Non dimenticherei il ruolo della Collezione Guggenheim, ma per quanto riguarda Pinault, Palazzo Grassi e Punta della Dogana sono certamente molto importanti per la città nell’ambito del contemporaneo. Come lo è naturalmente la Biennale, anche se non sono sicuro che i veneziani la sentano come un’istituzione propria». Qual è il “segreto” della sua sciarpa rossa? Perché la indossa sempre e non se ne separa mai? «L’ho indossata molti anni fa per puro caso e poi non l’ho più tolta. È diventata una civetteria, senza alcun significato particolare» Pierre Rosenberg è nato a Parigi nel 1936. Conservatore generale del patrimonio, è stato presidente-direttore del Museo del Louvre dal 27 ottobre 1994 al 2001. Specialista della pittura e del disegno del XVII e XVIII secolo francesi e italiani, ha organizzato numerose mostre in Francia e in Usa. Le più importanti per le quali ha curato anche il catalogo: “Chardin”, Parigi, Cleveland, Boston 1979; “Watteau”, Parigi, Washington, Berlino 1984-85; “Subleyras”, Parigi, Roma 1987. “Fragonard”, Parigi, New York 1987-88; “La Hyre”, Grenoble, Rennes, Bordeaux 1988; “Poussin”, Parigi, Londra 1994. È Accademico di Francia e a Venezia presidente dell’Alliance Française. IL GAZZETTINO Pag 27 Nessuna censura per “Messiah Game” di Paolo Navarro Dina La Cassazione ha detto no al risarcimento danni chiesto anche dall’ex Patriarca Angelo Scola Nessun risarcimento per danni morali. La Biennale ha agito nella piena libertà di espressione garantita dalla Costituzione. Lo ha stabilito la Cassazione che ieri ha depositato la sentenza 7468 della Prima sezione civile respingendo con condanna al pagamento di 13.200 euro di spese giudiziarie, il ricorso di un cittadino, l'avvocato veneziano Ivone Cacciavillani che chiedeva il risarcimento dei danni morali patiti per la partecipazione alla sezione danza della Biennale di Venezia del 2007, (allora diretta da Ismael Ivo) del balletto Messiah Game, una rilettura in chiave sadomaso della Passione di Gesù, ideato dal coreografo tedesco Felix Ruckert. Allora in un clima di polemiche, e con manifestazioni di piazza da parte di alcuni movimenti cattolici, intervenne anche l'allora patriarca di Venezia, Angelo Scola che chiese la sospensione dello spettacolo. Ora la decisione della Suprema Corte che difende l'autore e regista dalle accuse mosse direttamente da Cacciavillani (che peraltro nel ricorso ammette di non aver visto lo

spettacolo). Già in Appello, a Venezia, nel 2014, e anche in primo grado, i magistrati avevano espresso un no al risarcimento dei danni morali. Ora arriva la Cassazione con toni molto chiari. «Il direttore (della Biennale ndr) - si sottolinea nella sentenza - ha carta bianca nella scelta degli artisti e, dato che siamo in uno Stato laico, nessuno può chiedergli di inibire le rappresentazioni sospettate di offendere il sentimento religioso di qualcuno». E ancora. «È da escludere - afferma la Cassazione che - «l'organizzazione di uno spettacolo artistico possa, di per sè sola, costituire violazione del personale sentimento religioso di un singolo cittadino ed essere sanzionata dall'ordinamento col riconoscimento di un credito risarcitorio». Questo, proseguono i giudici «non solo perché è insussistente un collegamento oggettivo e diretto» tra spettacolo e sentimento religioso «ma anche perché non è ravvisabile il requisito del danno ingiusto essendo la programmazione di una manifestazione artistica espressione di una libertà garantita dalla Carta costituzionale». Ma è nella parte finale che la Cassazione ribadisce i criteri generali sottolineando come «il principio di laicità dello Stato - chiarisce comporta equidistanza e imparzialità della legislazione rispetto a tutte le confessioni religiose, e, dunque il dovere di garantire, rimanendo neutrale ed imparziale, l'esercizio delle diverse religioni, culti e credenze e di assicurare la tolleranza anche nelle relazioni tra credenti e non credenti». In quell'occasione delle decisioni prese in Corte d'appello e di fronte ad una sentenza contraria anche della Cassazione, così come ora è avvenuto, Cacciavillani aveva ribadito che si sarebbe rivolto al Tribunale per i diritti umani di Strasburgo come ultima istanza di giudizio. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XI “Sarà la Disneyland della cultura” di Maurizio Dianese Museo M9: Giuliano Segre svela i progetti che si svilupperanno sui tre piani del nuovo complesso Il Grand Hotel Mestre si allarga. Nel 2000 la Regione Veneto contava 120 strutture ricettive, nel 2015 erano già 451. E adesso arrivano altri 4 mila, forse 6 mila posti letto, senza contare i B&B, le case vacanza, i posti letto offerti su Airb&b. Insomma se finora solo il 30 per cento dei turisti che si fermava a Venezia, decideva di dormire a Mestre, la percentuale è ormai in crescita esponenziale. Ma che cosa è in grado di offrire Mestre a questi 3 milioni di visitatori che ogni anno passeranno almeno una notte in città? Del pericolo concreto che porta l'assenza di strategia, parla Giuliano Segre, l'uomo che ha scommesso su Mestre e sul suo nuovo museo ben 100 milioni di euro. Segre oggi è presidente della Fondazione Venezia 2000, che si deve occupare della gestione dell'M9, una volta finito. «Fin dall'inizio abbiamo pensato ad un museo che potesse contare su un primo bacino di interesse di almeno un paio di milioni di persone. Offriremo un museo che per ora non ha eguali al mondo e che sarà interessante visitare anche più volte». Segre parla di museo per le famiglie, magari un po' in stile Disneyland, più piccolo ma maggiore come apporto culturale, in grado di rinnovarsi intorno al tema centrale della storia italiana del Novecento. Quindi un museo liquido o, meglio, adattivo, che impara e si trasforma. «Avremo a disposizione tre piani da 1.500 metri quadri ciascuno, un auditorium da 250 posti e una dotazione tecnologica sempre al passo con i tempi e con investimenti di lungo periodo limitati perché oggi la tecnologia si noleggia e talvolta semplicemente arriva via cavo, che si tratti di materiali in 3D o di dispositivi per creare ologrammi. Faccio qualche esempio: ci potrebbe essere una cabina armadio davanti alla quale ci si potrà provare, virtualmente, i vestiti che utilizzavano i nostri bisnonni. Saremo davanti ad uno specchio magico che ci trasforma in un attimo in uomini o donne degli inizi del 900, facendoci perdere quei 5-6 centimetri che abbiamo guadagnato in 100 anni. Oppure utilizzeremo un ologramma per portare il visitatore dentro uno di quei comizi o adunate che hanno cambiato il mondo. L'M9 creerà un nuovo polo di aggregazione dove prima era deserto e piccioni, tra una ex caserma di carabinieri e un ex convento, adesso concepito luogo aperto alla cultura e al divertimento, al commercio e agli eventi, all'artigianato e alla moda: sempre però nel nome di Venezia perché di questa M9 è figlio». Vi aspettate 150 mila visitatori all'anno... «Su un bacino di 2 milioni e mezzo più altri 3 milioni di turisti che passano per Mestre non mi sembra un obiettivo irraggiungibile. Certo, ci vuole un investimento notevole nel marketing. Mi ricordo che, quando aprì palazzo Grassi, ogni vaporetto, pullman, aereo o treno era tappezzato dalla

pubblicità del nuovo museo. Dobbiamo fare lo stesso, ovviamente tenendo conto che oggi valgono di più i social media del cartellone pubblicitario. La comunicazione sarà l'ovvia dimensione di M9, museo di emozioni e luogo della modernità. Dove si va per poi tornarvi perché non si smette mai di cercare nuove emozioni». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Migranti, il tempo della svolta di Massimiliano Melilli Dopo il caso Bagnoli Ora deve cambiare qualcosa. Per forza. Altrimenti il rapporto fra Veneto e immigrazione rischia una deriva fatale con tanto d’implosione. Intanto un paradosso. Ventiquattro ore dopo la visita del ministro dell’Interno Marco Minniti - che ha annunciato la chiusura dei centri di accoglienza di Bagnoli e Cona - la notizia di quindici nuovi migranti da aggiungere ai circa 800 ospiti nell’ex base di San Siro, dove tre giorni fa è stato arrestato il 27enne nigeriano accusato della tentata violenza ad una donna. Poi le scuse del ministro al sindaco Roberto Milan. Che rivela: «Minniti mi ha detto che questa scelta infelice è stata fatta dalla Prefettura di Padova. E mi ha assicurato che immigrati da noi non ne arriveranno più». Risultato. Prefetti contro sindaci, primi cittadini contro Governo, governatori contro l’Esecutivo, Palazzo Chigi contro l’Europa, Bruxelles contro Roma: il caos che fa cortocircuito. Ancora. A Padova ieri proteste e sit-in davanti Palazzo Moroni di quindici migranti sgomberati da Casa Don Gallo. Settimane fa, a macchia di leopardo, le rivolte di migranti contro sistemazioni precarie, vitto e alloggi giudicati di scarsa qualità, rapporti conflittuali con la popolazione. Tutti fotogrammi di comportamenti ormai «borderline» fra noi e i migranti. Deleteria anche la strumentalizzazione bipartisan. Al tavolo di confronto dei sindaci con il ministro dell’Interno, fortemente voluto dall’Anci Veneto, si sono presentati 56 primi cittadini su 576. Parliamo di sindaci sia della Lega che del Pd. Assente il governatore Luca Zaia. Così è impossibile anche tentare di affrontare un fenomeno epocale come l’immigrazione. Poco importa se si chiudono i centri di Bagnoli e Cona e poi si riaprano in altre città del Veneto: il problema si sposta altrove ma non si risolve. Vero è che il Governo punta ad aprire altri siti da 100-120 posti dove redistribuire i richiedenti asilo. Allo studio anche rimpatri forzati. In cantiere anche numerosi accordi con i Paesi di provenienza: il punto vero. Ma è difficilissimo. E ci vuole tempo. E l’emergenza va in qualche modo gestita. Un’emergenza che il Veneto e l?Italòia tutta vivono da mesi un’emergenza e che non ha scalfito l’Europa. Bruxelles vede la pagliuzza dello 0,1% del patto di stabilità ma non la trave di una tragedia globale. Il Veneto è fra le regioni che paga il prezzo più salato dell’attuale scenario geopolitico. Secondo l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati oggi nel mondo ci sono 244 milioni di migranti, il 41 % in più dal 2000. Risultato: una massa di profughi umanamente non gestibile. Il Viminale, dopo il caso Bagnoli, ha per il momento sospeso nuovi arrivi nella nostra Regione. Ma il problema è solo rinviato. Pagg 2 – 3 Uccide la ex e il figlio che porta in grembo, studente arrestato all’uscita da scuola di Milvana Citter e Renato Piva Arriva la sorella e crolla: “L’ho fatto perché voleva dire a tutti del bambino”. La mamma di Irina disperata (“Non sapevo fosse incinta”), lo choc dei compagni di classe Vittorio Veneto. Nel buio della notte si sono ritrovati lì, in quella radura che probabilmente tante volte aveva protetto il loro giovane amore. Ma domenica sera, tra i vigneti illuminati dalla luna, Mihail e Irina, moldavi da tempo in Italia, non si sono scambiati abbracci o coccole da fidanzati. Solo parole dure, minacce. E poi, in un crescendo di follia,una mano maschia e violenta ha soffocato due vite: quella di una ragazza diventata scomoda e del figlio che portava in grembo. Mihail si è accanito su di lei con odio, sfondandole il cranio con un masso e strangolandola per finirla. Subito dopo, come fosse un rifiuto da buttare, l’ha trascinata in fondo a un boschetto coprendola di foglie. E l’ha lasciata lì, tornando a vivere la sua vita di giovane studente,

tra gli impegni di scuola, Facebook e le uscite con gli amici. Mihail Savciuc, studente diciannovenne di Godega Sant’Urbano, ha agito da killer spietato mettendo così fine alla vita della sua ex Irina Bacal, 20 anni, di Conegliano, e del bimbo che lei aspettava da circa 6 mesi. Suo figlio. Proprio quel bambino è il movente di un delitto che gli investigatori hanno definito «di crudeltà efferata». Perché a 19 anni e con una nuova storia d’amore, lui quel bambino non lo voleva e non voleva neppure che lei lo partorisse. E’ l’ennesimo femminicidio quello che si è consumato domenica 19 marzo, in una zona isolata tra i vigneti che ricamano le colline di via Manzana a Formeniga, borgo di Vittorio Veneto. Commesso da un ragazzo che messo di fronte alle responsabilità della vita diventa un assassino. Eliminando la fidanzatina che in un passato recente diceva di amare con foto e cuoricini postati su Facebook. Lo ha fatto durante una discussione, l’ennesima, su quel bambino in arrivo. Lo ha confessato lui stesso, mercoledì notte, agli investigatori del commissariato di Conegliano che da ore lo stavano interrogando. Poi, freddo e distaccato, li ha accompagnati a Manzana e ha mostrato loro la tomba di foglie e rami dove aveva nascosto Irina. Ora è in stato di fermo nel carcere di Santa Bona in attesa dell’interrogatorio di convalida che si terrà questa mattina. Si erano lasciati a settembre Irina e Mihail. Lui si era fidanzato con un’altra. Lei, che viveva da sola a Conegliano e si guadagnava da vivere lavorando come cameriera, si era scoperta incinta e aveva provato a riannodare i fili di quella relazione. Perché lo amava e perché voleva far nascere quel bambino. Lui no. Fin da subito le aveva chiesto di abortire. L’aveva convinta, così credeva, ma lei ci aveva ripensato e stava portando avanti la gravidanza di nascosto. Neppure sua madre lo sapeva. Il pancione cominciava a vedersi e anche per questo lei e Mihail si erano dati appuntamento domenica per quello che doveva essere un incontro chiarificatore. Con l’auto di lui sono andati a Formeniga, in quel posto che già conoscevano, rifugio dei loro incontri d’amore quando stavano insieme. Sono scesi dall’auto e hanno iniziato a litigare. Lei ferma nella sua intenzione di tenere il bambino, lui determinato a farla abortire. Poi l’epilogo, improvviso e imprevedibile per Irina, con lui che afferra un grosso masso e la colpisce alla testa e al volto: «Colpi così violenti da sfondarle il cranio e la mandibola» ha spiegato il dirigente della squadra mobile Claudio Di Paola. Lei si è accasciata a terra, ma era ancora viva. E allora l’ha strangolata fino a quando quella ragazzina minuta col suo timido pancione ha smesso di opporre resistenza. Subito dopo, con freddezza, l’ha trascinata per una quindicina di metri, dentro un boschetto. Le ha tolto i gioielli che portava, una collanina con un ciondolo e degli orecchini, le ha preso il telefono e ne ha nascosto il cadavere sotto un tappeto di foglie, rami e rovi. Poi è tornato alla sua vita. Le lezioni a scuola, all’istituto Ipsia Pittoni a Conegliano. Le uscite con gli amici e i post su Facebook. Tutto normale fino a lunedì sera, quando ha commesso l’errore fatale. E’ andato in un Compro Oro di Conegliano a rivendere i gioielli della ragazza che aveva ammazzato. Ne ha ricavato qualche decina di euro che, secondo fonti Ansa, avrebbe poi giocato al videopoker. E mentre lui viveva come se Irina e quel figlio indesiderato non fossero mai esistiti, la madre della giovane, disperata, dopo due giorni di silenzio della figlia, è andata in commissariato a Conegliano a denunciarne la scomparsa. Martedì mattina sono iniziate le ricerche, sulla base della descrizione minuziosa fornita dalla mamma che aveva parlato anche dei monili indossati dalla ventenne. Così è arrivata l’intuizione degli investigatori di controllare i Compro Oro dove sono stati trovati i gioielli e il nome di chi li aveva venduti. Mihail è stato fermato in tarda mattinata a Conegliano, mentre usciva da scuola. Ha confessato solo a tarda notte: «Senza mostrare un minimo segno di pentimento e di pietà» dicono gli inquirenti. Conegliano (Treviso) «Non lo sapevo! Non sapevo che Irina aspettava un figlio! L’avrei fatto crescere! L’avrei fatto crescere io, da sola, come ho fatto con mia figlia! Era sangue del mio sangue!». La madre di Irina Bacal e chi ci offre il contatto con lei chiedono di non nominarla. Sono le cinque del pomeriggio. La voce ha toni alti ma regala solo frasi spezzate. Piange, si blocca, ascolta e riprende. Questa donna dell’Est, che a Conegliano vive assistendo persone anziane, da poche ore sa di aver perduto una figlia. Irina, per come descrive il rapporto mamma-figlia chi è (era) vicino a entrambe, era anche una sorella. Eppure questa madre giura: la gravidanza avanzata della «sua bambina» le era sfuggita. «Invece lui lo sapeva, al cento per cento! Avevano parlato. Il 5 marzo lui ha accompagnato Irina a Treviso. Lei doveva tornare a casa, in Moldavia, e l’ha portata in auto...». Lui è Mihail Savciuc, 19 anni, in carcere con l’accusa di aver ucciso la ragazza

da cui, tra pochi mesi, avrebbe avuto un figlio. Alla madre della vittima chiediamo se abbia mai cercato di favorire un riavvicinamento tra i due ragazzi, per quanto non fosse a conoscenza del futuro parto. Ancora una volta la cesura è netta: «No, no. Non sapevo! Si sono lasciati perché lui non voleva far crescere il bambino. Se me lo avesse detto ci avrei pensato io!». «Încă nu cred...» scrive un’amica di Irina, Pisina, su Facebook: «Non ci credo, non è possibile». La ventenne bella, tanto bella e, forse, altrettanto consapevole della propria bellezza, non c’è più. «La conosco da cinque mesi - dice Costel, romeno, vent’anni -. Abitava nella casa di mia madre, con me, mia sorella piccola e altre due ragazze, tutte moldave». Com’era? «Bella, tranquilla. Hobby? Andava a... Come si dice? Running? Andava a correre, la sera...». Il rapporto con Mihail? «Non voleva stare con lui». Un dettaglio inquietante, se fosse confermato: «Stai con me o con nessuno, aveva detto lui». Come fai a saperlo? «Me lo aveva detto lei. Venerdì, appena tornata, era nervosa e le ho chiesto perché. Ha detto che aveva litigato con l’ex ragazzo...». Costel è qui con Dionisi. Il secondo è moldavo: sono amici, coetanei e amici di Irina, per quanto la parola amicizia qui risulti piuttosto «stirata». Passavano molte ore assieme nel piccolo appartamento condiviso da una famiglia resa tale dall’emigrazione. La vostra amica era al sesto mese. Come potete non aver notato qualcosa? «Non si vedeva. Quando ho saputo che era incinta, stamattina, sono rimasto così. Ho visto che era un po’ ingrassata. Di recente le avevo chiesto: “Irina, hai bevuto un po’? Stai mangiando tanto?”. Penso fosse appena dopo il ritorno dalla Moldavia... Non mi ha detto nulla». Anche la madre di Dionisi conferma: la gravidanza non si notava, per quanto avanzata. «Lei - dice la donna - ultimamente aveva paura, non voleva tornare con lui. Non aveva un fidanzato da parecchio tempo, eppure era bella... Cosa faceva nella vita? Lavorava. Cameriera all’hotel città di Conegliano, in centro». Aveva anche portato in giro qualche curriculum: una parrucchiera, negozio a due passi da casa della vittima, ricorda di non averla potuta richiamare. Da qui in poi il quadro cambia colori. In hotel troviamo un ex collega di Irina: «Avevamo un buon rapporto. Parlavamo, spesso...». Sapeva del figlio in arrivo? «No. Si vedeva qualche chilo in più, null’altro». Può descriverla? «Una ragazza deliziosa, molto semplice, con dei valori...». Cosa intende per valori? «Era molto innamorata del suo ragazzo...». Irina e Mihail, la dinamica dei sentimenti si inverte: «Tre mesi fa mi aveva detto che lui voleva tornare con lei...». Irina arriva all’albergo in estate. Lavora a chiamata, serve le colazioni del mattino e, qualche volta, rigoverna anche le stanze: «Le sarebbe servito un contratto di un anno, continuativo...». Che intende? «Forse non aveva grandissima capacità ma la bellezza, quella era tanta. Magari nel suo Paese passava inosservata, ma qui no. La notavano, si notava. Mi aveva detto che qualcuno la seguiva, anche qui, nel corso principale...». Questo amico, preoccupato per la scomparsa della ragazza, dice di aver cercato l’ex fidanzato: «Non sai niente? Non sei preoccupato? Mi ha risposto a monosillabi: “Mi sono lasciato sei mesi fa...”. Ma ti pare possibile?». Del ragazzo in cella per omicidio, in paese dicono quanto segue: «Studiava all’Ipsia, aveva come amici alcuni compagni di classe...». Sport, qualche passione? «Non che si sappia. Sere in qualche locale del centro, Facebook e social. Uno tranquillo, però...». É più o meno la versione degli investigatori. I Savciuc di sono trasferiti da Conegliano alla vicina Godega Sant’Urbano poco prima di Natale. L’asse del tempo di Mihail, da poco maggiorenne, è rimasto nel comune maggiore: la scuola di giorno, i pub di via XX settembre, nobile vetrina di Conegliano, al calar della notte. Un ragazzo come tanti, uno come tanti... A scuola, quarta A Ipid, trova solo difensori. All’uscita, verso l’una, i ragazzi sanno da poco quanto è successo. «Non ci sta, basta così... Cosa dovete scrivere? Un articolo è già uscito. Cosa importa sapere chi era?». Perché era? E’ in carcere, non è morto... «No, non ci sta questa cosa». Un’insegnante invita a non parlare con i giornalisti in nome della privacy. Più di qualcuno invita a lasciar perdere. Volano tutti dentro i bus in attesa sul piazzale. Allora si fa avanti una ragazza, sedicenne o giù di lì. Anfibi, leggings, maglia e giubbotto: nero su nero. «Conosco lui e un po’ anche lei. Con lei stavamo facendo la patente. Non è stato lui. Lei lo cercava, gli mandava messaggi...». E’ in arresto. Ha confessato, ci sono indizi pesanti... «Siete sicuri? Domenica hanno visto un’auto fermarsi di fronte a casa di lei. Ci è salita, è andata via...». Insieme, un passo alla volta, ragioniamo su quel che pare sia successo. «Si potrà visitare in carcere?». Non subito, comunque decide il giudice. Qualcosa in lei cambia, comincia a capire... «Lui ha un’altra ragazza, la mia migliore amica...». Quanti

anni ha? «Tra i sedici e i diciotto». Sa quel che è successo? «No, adesso devo andare a dirglielo». Grazie. «Ciao...». Conegliano (Treviso) «Non vuoi tuo figlio? Allora lo dirò alla tua nuova ragazza e ai tuoi genitori che uomo da niente sei». Queste parole, pronunciate con la rabbia di una donna innamorata e respinta, sono state la molla che ha fatto scattare nella testa di Mihail Savciuc l’istinto omicida. Lo ha ammesso il 19enne, con la felpa col cappuccio, il cappellino da rapper calato sulla testa e lo sguardo sprezzante e duro, anche dopo ore di interrogatorio serrato. Mihail, con i suoi 19 anni di ragazzino che non è ancora un uomo, è apparso così agli investigatori che mercoledì lo hanno torchiato fino a notte fonda. Ma lui ha reagito tirando su un muro di risposte vaghe, depistaggi e freddezza. «Irina non la vedo da settimane», ha assicurato, e subito dopo: «Sì l’ho vista, ma poi lei se n’è andata via con qualcun altro». Anche di fronte all’evidenza di quei gioielli venduti al «Compro Oro»: «Me li aveva dati lei perché li vendessi». Un reticolo di bugie e contraddizioni che il giovane ha tenuto in piedi per ore. Fino a quando in commissariato a Conegliano è arrivata sua sorella. Quando lui l’ha vista, la durezza di quelle ore si è sciolta in un pianto, lei lo ha accarezzato e rassicurato e solo allora il 19enne ha confessato: «L’ho uccisa perché mi aveva minacciato di raccontare a tutti del bambino». Era ormai tarda sera quando la sorella, di qualche anno più grande, ha raggiunto Mihail in commissariato. Sono nati entrambi in Moldavia, ma ormai da molti anni vivono in Italia, a Godega di Sant’Urbano (Treviso). Una famiglia normale, almeno fino a ieri. Lei gli è sempre stata accanto, facendogli quasi da mamma, e lo ha fatto anche nel momento nel quale le hanno detto che il suo «fratellino» era sospettato di essere implicato nella sparizione di una ragazza, la sua ex fidanzata Irina Bacal. E che due giorni prima Mihail era andato a vendere i gioielli della giovane che dalla domenica non dava più notizie di sé. La sorella allora si è avvicinata al 19enne, lo ha abbracciato e gli ha parlato piano. Solo allora sul viso di Mihail sono scese le lacrime, le uniche versate dal ragazzo. Con le sue carezze e le sue parole dolci, la giovane è riuscita ad aprire un varco in quel muro e a convincerlo a confessare: «Stai tranquillo Mihail, tutto si risolve, ma devi parlare, devi raccontare quel che è successo». E lui alla fine ha ceduto e ha parlato. Prima agli investigatori del commissariato e della Squadra mobile di Treviso e poi, assistito dall’avvocato Daniele Panico, al sostituto procuratore Mara Giovanna De Donà. Con loro è salito lungo via Manzana a Formeniga, dove i vigili del fuoco hanno illuminato a giorno i vigneti deserti e silenziosi. Mihail li ha condotti dentro la vegetazione, fino al punto in cui aveva lasciato il corpo della sua ex fidanzata. Mostrandolo agli inquirenti è tornato a essere freddo, quasi distaccato. Anche nel racconto nel quale ha spiegato che Irina non ne voleva sapere di abortire e che da settimane discutevano di questo. Lui quel bambino non lo voleva, aveva un’altra storia d’amore, la scuola, il divertimento. Un futuro ancora da costruire. Quel bambino era un ostacolo. Ma Irina lo voleva a tutti i costi e rivoleva anche lui. Così, domenica sera sono andati in quel luogo isolato di Formeniga, per parlare. Hanno discusso, lui ha provato a convincerla, lei si è mostrata determinata e di fronte al rifiuto di Mihail lo ha minacciato di raccontare a tutti di quel bambino che stava arrivando. Una minaccia insostenibile. Se avesse parlato, tutti avrebbero saputo che aspettava un figlio da lei. I suoi genitori e la sua nuova ragazza. Così rischiava di perdere tutto e di doversi assumere una responsabilità che non voleva. Per questo l’ha uccisa. L’autopsia, che sarà eseguita nelle prossime ore, stabilirà quanto brutale è stata la violenza usata per stroncare la vita di Irina e del suo piccolo. «E’ stato un omicidio d’impeto - spiega il suo avvocato - nella sua mente c’è stato un blackout totale che ha portato alla tragedia. Un delitto del quale il ragazzo si è chiaramente pentito». Quel che ha fatto dopo, come ha vissuto i giorni seguenti però, non mostrano pentimento. Mihail ha ripreso la sua vita come se nulla fosse successo. I suoi amici dicono che, in classe o al bar, era sempre lo stesso. Il ragazzo col cappello da rapper, la fidanzatina e un terribile segreto nascosto sotto un tappeto di foglie e rovi. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA

Pag 1 Ma l’idea di Europa resta viva di Antonio Polito Dopo 60 anni Una ragazza spagnola, nata in Inghilterra, figlia di un cipriota, sposata con un portoghese. Un’architetta romena. Una scolaresca francese. Un turista americano. Un pugile italiano. Tre cittadini greci. Erano tutti su quel marciapiede di Londra. Ci sono momenti in cui è più facile sentirsi affratellati, dovunque si sia nati. Avviene sempre di fronte a un pericolo comune. Allora siamo tutti americani, o siamo tutti Charlie Hebdo , o siamo tutti londinesi, per un giorno. Ma che ne è del più grande esperimento di cooperazione tra popoli diversi che sia mai stato tentato sulla faccia della Terra, cominciato ormai sessant’anni fa a Roma? L’Unione Europea non gode di buona fama, di questi tempi. Eppure il paradosso è che l’Europa, con tutti i suoi problemi, è al centro del dibattito pubblico in tutte le nazioni d’Europa. Qualche giorno fa, il 17 marzo, si è celebrato il compleanno dell’Italia unita. N on si può dire che l’evento abbia suscitato neanche un po’ della passione politica, speriamo non violenta, che scatenerà la celebrazione europea di domani (forse anche perché il maggiore dei partiti neo nazionalisti nostrani in realtà nacque per opporsi all’unità nazionale, e con un programma secessionista, al punto che si chiama ancora oggi Lega Nord). Per una sorta di eterogenesi dei fini, invece, sia la minaccia esterna (terrorismo, immigrazione) sia la guerra interna scatenata contro Bruxelles dai partiti cosiddetti populisti, stanno creando ciò che era sempre mancato: una sfera pubblica comune, l’abbozzo di un demos europeo, un’arena politica in cui in ogni Paese si discute contemporaneamente delle stesse cose. In tutta Europa si parla di Europa. Forse come mai prima d’ora, quella che era nata come l’idea di pochi illuminati e si era sviluppata come la pratica di troppi burocrati è entrata nei discorsi delle famiglie e nei bar, molto spesso per essere maledetta, ma altrettanto spesso anche per essere invocata. Succedono così cose che mal si accordano con la narrazione sulla «morte dell’Europa». Martin Schulz, da vent’anni nelle istituzioni europee, apparentemente ascrivibile alla classe dei mandarini ben pasciuti e molto odiati di Bruxelles, sta invece avendo in Germania tanto successo da minacciare addirittura la primazia di Angela Merkel. Non meno «europeista» di lui è del resto Emmanuel Macron, anch’egli in corsa per un successo in Francia. Ed è curioso che i più fieri nemici dell’Europa, gente come Marine Le Pen, Nigel Farage, Matteo Salvini, siano in realtà parlamentari europei e non nazionali (nel caso della francese e dell’inglese perché i rispettivi sistemi parlamentari, di cui decantano la superiorità democratica, non ne hanno mai consentito l’elezione nonostante l’evidente consenso di cui godono). In Italia, poi, è interessante notare come il maggior partito di opposizione, il Movimento Cinque Stelle, nella sua corsa al governo abbia silenziosamente espunto la proposta di fuoriuscita dall’Europa, e procrastinato alle calende greche il referendum sull’euro, visto che per farlo bisogna prima cambiare la Costituzione. Qualsiasi forma di autocompiacimento europeista è ovviamente vietata. La Ue vive tuttora un rischio mortale. E dopo il maggio francese (si vota il 7 per l’Eliseo, il secondo turno), potrebbe davvero non esistere più. Ma è l’unico show in città, come direbbero gli inglesi, che le hanno perfino dedicato uno storico referendum. Che fare, dunque? È probabile che non basteranno altri sessant’anni perché i popoli europei sentano davvero l’Europa come la loro patria. Ma perché si possa anche solo sperare che un giorno i confini interni si dissolvano davvero, con tutto il loro portato storico e «sacro» di sangue, identità, lingua e pregiudizi, bisogna cominciare a sostituirli con nuovi confini esterni che definiscano che cos'è la nuova patria europea. Perché, per definizione, senza confini non c’è patria. Frontiere fisiche, ideali e culturali; aperte sì, ma certe, sicure e presidiate. Forse il danno peggiore arrecato all’europeismo è stato confonderlo con il cosmopolitismo, con una visione irenica e ingenua della convivenza tra popoli in un’epoca di grandi migrazioni e di grandi crisi. E la sensazione di paura e di smarrimento è oggi accentuata dal pericolo terrorista, dalla sfida che ci viene da un altro mondo che vive nelle nostre città. Come ci si può sentire sicuri quando non ci si sente più a casa propria? Pensiamo alle elezioni olandesi: i partiti europeisti hanno prevalso, ma per vincere hanno dovuto alzare un confine contro il governo turco, definire il perimetro identitario della loro nazione. È una piccola prova che la partita è ancora aperta e che niente è perduto; ma anche che salvare il sogno europeo ha un prezzo, richiede coraggio, azione, decisione. Forse i

popoli stanno rigettando classi dirigenti europee che considerano imbelli, più che l’idea di Europa. Se così fosse, basterebbe cambiarle. Pag 3 Masood e la sua vita ai margini nella Birmingham islamista. Tra palestre, preghiere e truffe di Marco Imarisio Il ritratto dell’attentatore «Adesso tocca a loro». La faccia segnata da tanti anni di boxe e il pitbull al guinzaglio che ringhia non permettono di capire se a Chris Boyce dispiaccia oppure se in fondo è contento. L’ex pugile irlandese, ormai cinquantenne, ciabatte e lattina di birra in mano, assiste allo spettacolo di un ometto grande la metà di lui che spiega, arranca, gesticola, si giustifica davanti a telecamere e microfoni giunti da tutto il mondo. Si chiama Farahad Makanvahd, fuggito dal suo Paese nel 1979. Ha fatto fortuna come ristoratore qui a Birmingham, arrivando a comprare anche l’appartamento accanto allo Shiraz, il suo locale. «Non lo conosco, non sapevo neppure chi fosse». L’ultimo inquilino del signor Farahad si chiamava Khalid Masood, anche se aveva almeno un’altra decina di nomi a disposizione con i quali negli anni ha mascherato se stesso e la sua famiglia. Ai vicini della villetta in mattoni rossi di Quayside 4 dove ha abitato fino a dicembre aveva raccontato di avere origini giamaicane. Ci viveva con una donna di origine asiatica. Prima di diventare l’ennesimo lupo solitario o presunto tale, prima che come agli altri gli scattasse dentro qualcosa, l’uomo che ha dato l’assalto al Parlamento inglese era un padre di famiglia cinquantaduenne, con tre figli e una moglie che lo aspettano da qualche parte nel Kent, dove era nato. Non ci tornava da molto tempo. Il presunto Masood non era certo un modello di virtù. Dicono che abbia insegnato inglese ai figli degli immigrati pachistani, lui stesso si è definito insegnante con l’addetto che gli ha noleggiato la Hyundai 4x4 alla filiale Enterprise di Birmingham North. Ma non ha mai esercitato in scuole pubbliche inglesi. Viveva di espedienti, di piccoli crimini, e i suoi numerosi alias stanno rendendo complicato a Scotland Yard il compito di quantificare i suoi reati. Sotto questo nome figurano la prima condanna, nel 1983, aveva 19 anni, per rapina a mano armata, e l’ultima, nel 2003, per detenzione di un coltello da guerra. Ma non è neppure sicuro che sia quello di nascita. In mezzo, risse, truffe, riciclaggio di materiale rubato. Religioso, uomo di moschea. Una indagine di tanti anni fa per «estremismo violento», caduta nel nulla. «Viveva ai margini della zona grigia» è scritto nel comunicato ufficiale della polizia inglese. La moglie e le altre sue donne portano il velo, i suoi figli vestono secondo la tradizione araba. Lui pregava, così sostengono i vicini. Ma ascoltava gruppi rock occidentali, frequentava discoteche dove talvolta lavorava come buttafuori. Era ossessionato dal proprio corpo, a ogni cambio di indirizzo corrisponde l’iscrizione a palestre di body building. I suoi ultimi domicili conosciuti tracciano una mappa precisa dei luoghi considerati culle dell’islamismo più radicale e delle maggiori tensioni sociali, i posti dove si nasconde «il nemico interno», per dirla con i titoli dei tabloid popolari di ieri mattina. Ha vissuto nelle zone di Dagenham e Havering, le polveriere londinesi. Ha trascorso lunghi periodi a Luton, la città con il più alto tasso pro capite di aspiranti martiri del jihad. «Qui siamo tutti emigrati, non troverai un vero inglese neanche a pagarlo». Ai tempi degli attentati dell’Ira, che a Birmingham fece più volte strage, gli irlandesi come Boyce divennero ospiti non graditi. La casa dove Masood ha vissuto le sue ultime sei settimane si affaccia sul marciapiede di Hangley road. Alla sinistra dell’ingresso c’è un ristorante indiano e quello di cucina persiana del signor Makanvahd. A destra un Sicilian pizza gestito però da Saed Raeisi, un ragazzo iraniano. «Veniva qui ogni sera a prendere da mangiare. Gentile, affabile. Si guardava sempre intorno. Aveva paura, oppure fuggiva da qualcosa». Ladywood, il sobborgo di Birmingham che contiene i quartieri a maggiore densità islamica, era il nascondiglio ideale. La città delle Midlands si porta come una croce sulle spalle il soprannome di «piccolo califfato», frutto della battuta infelice di una presentatrice di Fox news che fece però il giro del mondo. Ci sono aree, proprio come questa, dove 8 abitanti su 10 sono di religione islamica. È la città che ha accolto e curato Malala, il premio Nobel per la Pace del 2014, la ragazza pachistana sopravvissuta alle violenze dei talebani. Ma è anche il posto dove pochi mesi fa è stato scoperto un complotto per islamizzare le scuole pubbliche a colpi di predicatori salafiti. I due estremisti condannati per aver finanziato Mohamed Abrini, l’uomo con il cappello che il 22 marzo 2016 si fece esplodere a

Bruxelles, abitavano a due isolati di distanza dall’appartamento del ristoratore iraniano. «In questi posti abbiamo perso la bussola» dice il serafico ex pugile irlandese prima di rientrare a casa. Chissà cosa è davvero successo a Masood. Nel pomeriggio di martedì ha ritirato la Hyundai. Due ore dopo ha richiamato dicendo che non ne aveva più bisogno. Lo aspettavano, non è mai arrivato. Invece ha guidato fino al ponte di Westminster, dove ha ucciso e si è fatto uccidere. Si può raccontare il contesto, descrivere i luoghi. Ma ci sono cose dell’animo umano che non capiremo mai. Pag 11 Michel Houellebecq: sono populista, non voglio rappresentanti di Stefano Montefiori Seduto sul divano del suo appartamento, nel quartiere cinese di Place d’Italie, Michel Houellebecq riflette su un momento cruciale nella storia d’Europa. A Roma nel fine settimana si celebrano i 60 anni dei Trattati europei, occasione di rilancio o possibile epitaffio di una Unione che non è decollata. Tra un mese si tengono in Francia le elezioni presidenziali più importanti degli ultimi anni, perché il destino del continente cambierà radicalmente a seconda che il vincitore sia l’europeista Emmanuel Macron o la nazionalista anti Ue Marine Le Pen. Lo scrittore francese vivente più celebre nel mondo, una sigaretta dopo l’altra, affida al Corriere il suo sguardo, come sempre duplice: immerso nella realtà e pronto a superarla. Nei suoi romanzi ha descritto o anticipato alcuni tra i grandi temi del nostro tempo: l’estensione della logica capitalistica ai rapporti sentimentali, il terrorismo, le biotecnologie, la stanchezza dell’Europa tentata dalla sottomissione all’Islam. Oggi Houellebecq intravede la fine della democrazia per come l’abbiamo conosciuta finora: «Il sistema politico non funziona più, Macron sarà il presidente centrista di un Paese mai così a destra. Io non voglio essere rappresentato. Voglio essere consultato, di continuo, su ogni argomento. Auspico la democrazia diretta». Pensa che i giochi per l’Eliseo siano fatti? «Sì, credo. In testa al primo turno arriveranno Emmanuel Macron e Marine Le Pen, e al ballottaggio vincerà Macron». Il candidato della destra François Fillon non ha più chance? «Era il favorito ma ormai è stato travolto dallo scandalo. La storia lo giudicherà severamente, ha deluso in modo grave sul piano personale». Alle passate elezioni lei non è andato a votare, giusto? «No infatti». E stavolta che farà? «Mi asterrò con particolare entusiasmo». Non vuole essere un’imbeccata, ma Marine Le Pen propone cose non lontane dalle sue idee: l’uscita della Francia dalla Nato e dalla Ue, e anche più referendum. Che cosa la trattiene dal votarla? «Ma Marine Le Pen parla del referendum per uscire dall’Unione Europea, cioè un tema che è lei a sottoporre ai cittadini. La democrazia diretta significa un’altra cosa: sono i cittadini a proporre dei progetti di legge da approvare tramite referendum. Quanto all’Europa, non penso che i francesi siano pronti a uscirne». Perché? «La Brexit è riuscita perché gli inglesi si sentono superiori, diciamo la verità. Sono convinti che la City non abbia paragoni, che la sterlina reggerà sempre, in fondo sono convinti che riusciranno meglio da soli. Mentre i francesi hanno un vero complesso di inferiorità rispetto alla Germania.Temono di non potercela fare senza l’Europa. Se venisse indetto un referendum sulla Frexit io credo che la risposta sarebbe no. Anche se difendo un’idea diversa». Quale? «Nella Carta e il Territorio dico che la Francia farebbe meglio a rassegnarsi alla nuova realtà economica, rinunciare all’industria e dedicarsi al turismo, alla gastronomia, al lusso. L’Italia mi sembra il solo Paese europeo che abbia gli stessi interessi, forse un’unione Italia-Francia potrebbe funzionare. Gli altri Paesi hanno vocazioni diverse. Non credo all’Unione Europea». Ma gli europei non sono uniti dalla cultura, da secoli?

«Oggi c’è molta meno cultura europea di quanta ce ne fosse un tempo. Prendiamo la letteratura, per esempio. In Francia traduciamo soprattutto opere anglosassoni, e questo vale anche per il cinema e la tv, mentre a fine Settecento I dolori del giovane Werther elettrizzavano l’Europa intera. Nella maggior parte dei Paesi europei la gente compra libri locali e poi anglosassoni. Esiste una cultura locale legata al singolo Paese e una cultura globale anglosassone. Di cultura europea ne vedo poca». Dopo la Brexit e Trump alla Casa Bianca, eventi segnati dall’appello ai cittadini scavalcando i possibili intermediari, il clima è più favorevole alla democrazia diretta? «Non in Francia, dove restiamo fermi allo stesso schema: “Il popolo non è una cosa seria”. Eppure il solo Paese che pratica la democrazia diretta, la Svizzera, non mi sembra poco serio. Non credo affatto a questi argomenti». Neanche alla necessità di una competenza, che i cittadini per forza non possono avere su tutte le questioni? «La tesi di una presunta incompetenza dei cittadini è molto antidemocratica. Il voto del più ignorante vale quanto quello del più istruito. O siamo d’accordo su questo oppure affidiamo le decisioni agli esperti. Io preferisco la prima soluzione. Non so se dà migliori risultati, ma a quelli mi sento obbligato di aderire. Non è tanto una questione di efficacia quanto di giustizia». In Italia il Movimento Cinque Stelle, primo partito secondo gli ultimi sondaggi, punta molto sulla democrazia diretta e sulla sua piattaforma digitale Rousseau. «Non sapevo che in Italia il tema fosse centrale. Credo che sulla questione di fondo Beppe Grillo abbia ragione. La fattibilità tecnica è decisiva, adesso la tecnologia rende possibile consultare le persone in modo puntuale e l’alibi classico contro la democrazia diretta tende a cadere». La sua scelta di astenersi alle elezioni è una forma di rifiuto della democrazia rappresenta tiva? «Voto solo alle elezioni municipali. Altrimenti mi si chiede sempre un’adesione globale mentre io vorrei essere interrogato su temi specifici». Qual è quindi la sua idea di democrazia diretta? «Non ci sarebbe più un Parlamento. Montesquieu diceva che non si possono toccare le leggi senza tremare: le modifiche legislative sarebbero decise solo da referendum di iniziativa popolare. Anche la spesa pubblica sarebbe stabilita dall’insieme della popolazione. Ogni cittadino sa quanto vuole destinare più o meno all’educazione, alla sanità, ai trasporti. In terzo luogo i giudici sarebbero eletti. I cittadini sarebbero consultati sempre, dal numero dei professori nella scuola pubblica alla costruzione di un nuovo aeroporto, come in Francia per Notre-Dame-des-Landes. Io ho sempre votato ai referendum». Anche a quello del 2005 sulla Costituzione europea. Votò no, vero? «Già, e poi la scelta mia e della maggioranza dei francesi venne ignorata da Sarkozy per firmare il Trattato di Lisbona. Sono in molti a non averglielo mai perdonato, io di sicuro. La prima grande frattura mai rimarginata. Tornato in Francia dall’Irlanda dopo il 2012, mi sono accorto che il Paese era più a destra del 2007, ma aveva un presidente di sinistra, Hollande. Se anche fosse stato eccellente, quel presidente non rispecchiava la società». Pensa lo stesso della fase che si prospetta con Macron? «Sarà anche peggio, perché i francesi sono ancora più a destra rispetto al 2012. È una situazione spaventosa. Macron non ha colpe, presenta legittimamente un programma, ma la democrazia rappresentativa non funziona». La democrazia diretta è populista? «Quando sento qualcuno evocare il populismo so che in fondo quella persona è contraria alla democrazia. La parola populismo è stata inventata, o meglio recuperata, perché non era più possibile accusare di fascismo certi partiti, sarebbe stato troppo falso. Allora è stato trovato un nuovo insulto, populista. Sì, penso di essere populista. Voglio che il popolo decida su tutti gli argomenti». LA REPUBBLICA Pag 1 Dio salvi il Parlamento di Ezio Mauro

Prima i morti per strada, innocenti perché convinti di vivere in tempo di pace e in terra di democrazia. Ma subito dietro, la sagoma di un parlamento. Del parlamento, il primo al mondo, quello che nell'immagine simbolica racchiude l'idea universale dell'istituzione centrale della modernità democratica. Il primo ministro evacuato dalla scorta come nei brutti film, i deputati e i lord stesi sul pavimento dell'aula, il timore di un assalto organizzato, i poliziotti che sparano, il viceministro degli Esteri con le mani sporche di sangue che soccorre l'agente accoltellato. Tutto questo a Westminster, lo scenario mondiale d'eccellenza per lo spettacolo tragico della democrazia sotto attacco. Non scelgono per caso. Dopo aver trasformato la loro religione in un'ideologia primitiva di morte, sono ipnotizzati dai riti della nostra religione civile, nell'ambito pubblico e nello spazio privato, dal calendario gregoriano, dagli anniversari repubblicani. Ciò che unisce tutto questo insieme di simboli trasformato in cabala è esattamente ciò che vogliono colpire, la loro ossessione e il loro bersaglio. E' l'esercizio occidentale della libertà quotidiana, individuale e collettiva, il sistema di garanzie reciproche, e di riconoscimento, che ci scambiamo vivendo dentro un meccanismo abituale di regola democratica, che consente di combinare la nostra esistenza e le sue pretese con quelle altrui, la grandiosa banalità ordinaria della democrazia - non so definirla altrimenti - quando diventa obbligazione reciproca praticata ogni giorno, condivisa e liberamente accettata. È questo spettacolo ordinario della democrazia che li scandalizza attirandoli fino alla morte, proprio perché è la vita dentro la libertà, in un orizzonte di bene comune di cui siamo ogni giorno traditori infedeli, e tuttavia testimoni inevitabili. Se si ragiona così - e loro ragionano così - si capisce cosa unisce il perimetro dei loro attacchi. Le due torri, un treno o un metrò, una scuola ebraica, un caffè, una sala da ballo, uno stadio, un aeroporto, un museo, una passeggiata davanti al mare e infine un parlamento, somma e spiegazione di tutto. I rituali, i luoghi, i mezzi attraverso i quali organizziamo il nostro tempo di lavoro e il nostro spazio libero, gli affari e lo studio, gli incontri e la politica, la musica e gli amici, gli amori e la discussione. La democrazia che si fa " cosa", acquista una materialità riconoscibile e nello stesso tempo diventa quasi un'abitudine, scompare come valore ai nostri occhi perché ci sembra un fenomeno naturale, una consuetudine illimitata come una risorsa spontanea regolarmente a nostra disposizione. Qui sta l'enorme ricchezza dell'Occidente che in questo dopoguerra ha saputo trasformare la democrazia in costume, pratica abituale, forma politica di una civiltà. E sta la nostra debolezza, perché ci dimentichiamo che la regola democratica comunemente accettata, praticata e condivisa non è un dono di natura o una concessione divina ma una conquista faticosa di uomini e donne, un portato della storia per difenderci dagli orrori scatenati proprio qui un secolo fa, una correzione rispetto all'uso ideologico, criminale e totalitario degli studi e delle risorse tecnologiche, cioè del progresso. Dunque qualcosa che non è garantito, perché non è conquistato per sempre. Quindi qualcosa che dobbiamo difendere, proprio perché le democrazie hanno il dovere di garantire la sicurezza e la libertà dei cittadini, con un vincolo in più: devono farlo rimanendo se stesse, cioè senza tradire i loro valori e i loro principi. Ma devono farlo, e troppo spesso non ne siamo consapevoli. Vediamo così che la parola democrazia obbliga terribilmente. Prima di tutto obbliga a sapere ciò che accade, poi a conoscere i nostri doveri, quindi a distinguere, e a non fare di ogni erba un fascio. La democrazia funziona male, ma è il metodo sovrano che ci siamo scelti e che più garantisce la nostra libertà. Il parlamento è spesso inefficiente, e addirittura deludente come legislatore, come controllore, come rappresentante: e tuttavia è lo strumento che ha insediato la nazione sul trono del monarca, ha sostituito il conflitto privato con la discussione pubblica, ha dato un orizzonte generale agli interessi legittimi di parte, ha rimpiazzato la legge della forza con la regola della maggioranza. Questo è il moderno segreto della sacralità eterna dei parlamenti, al di là delle contingenze miserabili delle vicende politiche, delle nostre infedeltà quotidiane di cittadini, del tradimento dei leader. Di questa sacralità ci stiamo spogliando, gettando via la politica insieme con la cattiva politica, come se soltanto l'antipolitica avesse legittimità, e dunque futuro. Non si tratta di rinunciare alla denuncia e alla radicalità dell'opposizione, che spesso rappresentano un'opinione pubblica indifesa, impaurita perché infragilita e comunque diffusa. Si tratta di distinguere tra l'opposizione al sistema e l'opposizione a un cattivo uso del sistema. Perché l'inganno più tragico del popolo è la sostituzione del parlamento con la piazza. Quando la trasparenza arranca in aula, quando la democrazia stessa s'impantana, ecco i populisti

cercare il processo in strada, quasi evocando un tribunale popolare, come se l'aula dovesse essere scoperchiata perché dentro tutto è obliquo, sporco, occulto e solo l'urlo della folla può fare giustizia sommaria, soppiantando il parlamento col pronunciamento, la rappresentanza con la rappresentazione: in un'evidente impostura politica, più grave di quelle che vengono denunciate. Anche in anni di bassa marea politica, infatti, il parlamento non è un simulacro vuoto. A Westminster la regina lo sa, e per questo deve bussare tre volte alla porta dei Comuni con la corona già in testa, prima di poter pronunciare il suo discorso. Da noi troverebbe l'aula semivuota, con i leghisti sull'Aventino con felpa e ruspe, e i grillini in piazza, ad arringare i forconi. Forse è il momento di aggiornare l'invocazione: "Dio salvi il parlamento" . AVVENIRE Pag 1 Il tempo è adesso di Marco Tarquinio Svelare e bandire la “surrogata” Ci sono eventi pubblici ai quali accorrono più giornalisti che partecipanti, e la loro eco mediatica è tanto forte e pervasiva quanto inspiegabile. E ci sono eventi che rappresentano, invece, autentici momenti di svolta, in cui le parole dette e i processi compresi e avviati sono molto importanti e persino decisivi. Uno di questi è avvenuto ieri, a Roma, alla Camera dei deputati, grazie alle donne di «Se non ora quando - Libere». Qui, raddoppiando la spinta dell’iniziativa lanciata poco più di un anno fa a Parigi, all’Assemblea nazionale di Francia, si è precisato e meglio articolato il pressing che un movimento prima di tutto (ma non solo) di donne sta realizzando sull’Onu per mettere al bando la «gestazione per altri», più popolarmente chiamata «utero in affitto», e fermare così l’immenso e scandalosamente protervo libero mercato che è stato organizzato per sfruttare il grande affare della produzione di esseri umani attraverso la riduzione a macchinadei grembi materni (nonché a materiale commerciale ovociti femminili e seme maschile). Quando questioni e passaggi di questa rilevanza vengono messi a fuoco e mediati poco e male, riescono di solito a entrare nella piena consapevolezza della grande opinione pubblica soltanto a distanza di anni. E nulla conta che li accompagni una mobilitazione via via crescente e assolutamente fuori dagli schemi, capace di unire donne e uomini di diverse culture, persone credenti e non credenti, cittadini del nord e del sud del mondo. Proprio per questo non c’è tempo da perdere, ma c’è una impellente necessità di accendere luci informative e consapevolezze civili su che cosa è e significa la maternità surrogata. Un dovere che va onorato adesso, non dopodomani e neanche domani. Adesso, mentre ancora si sta dispiegando, la politica (e la logica, anche giudiziaria) del “fatto compiuto”, per cui ciò che ormai si fa anche se è terribilmente sbagliato non va denunciato come tale e impedito, va solo regolato. La cosa riguarda molto noi cronisti, che siamo ovviamente tenuti alla rigorosa sobrietà della cronaca, ma anche capire quando siamo di fronte a fenomeni che segnano la storia e tracciano il confine tra umano e disumano. Lo sappiamo: distrazioni, sottovalutazioni e silenzi non sono ammissibili quando ci si trova davanti a vere e proprie ferite nella vita e nella coscienza delle persone e dei popoli. Perché di lì a poco diventa sempre chiaro che distrazioni, sottovalutazioni e silenzi non hanno giustificazioni, ma hanno una durissima spiegazione: la mancanza di lucidità, di coraggio intellettuale, di civiltà e di amore (uso deliberatamente anche questo concetto, così delicato e spesso manipolato sino allo svuotamento). La maternità surrogata è una delle ferite aperte dell’umanità. Anzi, purtroppo già da alcuni anni, è la principale di esse, la più emblematica e dolorosa. Per questo ieri, a Montecitorio, nella Sala della Regina, è risuonato a più voci – voci della politica, della scienza, della cultura, dell’esperienza – un fermo, motivato e trasversale «no» a ogni forma di maternità surrogata, cioè a ogni cosificazione della donna-madre. Se ne è parlato e discusso con una profondità, una bellezza e una varietà e diversità di argomenti che in questi anni, e anche nei giorni scorsi, avete letto più e più volte sulle nostre pagine e che oggi potrete ritrovare in sintesi nell’articolo di Lucia Bellaspiga (a pagina 5), nel «cuore pensante» che ancora una volta Susanna Tamaro ha saputo mettere nello straordinario “racconto” che ha scritto e pronunciato per l’occasione e nel vibrante e giuridicamente inesorabile testo che sostiene la richiesta di una Raccomandazione Onu per bandire in ogni angolo del globo la maternità surrogata. Più passa il tempo e più diventa chiaro che non solo chi organizza,

ma anche chi non vede, non riconosce e non denuncia la nuda sopraffazione e la cruda violenza che caratterizzano, oggi più che mai, la colonizzazione dei corpi di donna a fini riproduttivi ne è e ne sarà considerato corresponsabile. E i giornalisti che invece di capire e di far capire avranno girato la testa o se la saranno riempita di scuse non saranno giudicati migliori dei gazzettieri di un tempo, che registravano e sostenevano le buone ragioni economiche e razziali della schiavitù degli uomini e delle donne dalla pelle scura. Pag 3 Non in mio nome di Susanna Tamaro La sfida mondiale per dire no all’utero in affitto. Si deve respingere con fermezza l’atto della maternità surrogata. Di quale amore stiamo parlando se vengono reclamati diritti? Pubblichiamo un ampio estratto dell’intervento che Susanna Tamaro ha tenuto ieri alla Camera dei deputati in occasione dell’incontro internazionale «Maternità al bivio: dalla libera scelta alla surrogata. Una sfida mondiale», promosso da «Se non ora quando - Libere». La gestazione per altri è forse la più sofisticata e atroce forma di schiavismo inventata dalla modernità, uno schiavismo in cui il volto della iena è nascosto dietro il sorriso del benefattore, uno schiavismo che furbescamente si ammanta della parola “amore”. Un amore che non si riferisce in alcun modo al bene di chi nasce ma soltanto ai desideri dei singoli individui. Già perché all’ideologia marxista leninista si è sostituito un capitalismo senz’anima e questo nuovo totem idolatrico riconosce solo una legge: quella del desiderio del singolo individuo e del profitto che si può ricavare per soddisfarlo. Che la causa generatrice dei figli sia un non ben definito e onnipotente sentimento di amore è una delle grandi bufale propinate dal neosentimentalismo della società consumistica. Da che mondo è mondo la maggior parte delle persone nasce per ragioni per lo più lontanissime dal mantra amoroso. Si può nascere da uno stupro, da un coito fugace nel gabinetto di una discoteca, dall’improvvisa e stupefacente rottura di un preservativo. La vita ha in sé una forza che non richiede, per esistere, la melassa dei nostri sentimenti. Alcuni, fortunatissimi, nascono da un vero rapporto d’amore tra un uomo e una donna che dura nel tempo ma credo si tratti ormai di una minoranza piuttosto esigua. Si nasce perché una donna ha detto il suo sì, perché – anche se il preservativo si è rotto, anche se neppure si ricorda la faccia del fecondatore – a un tratto ha sentito che quella cosa lì, quel millimetrico ammasso di cellule, in cui già dopo venti giorni si percepisce con chiarezza battere il cuore, è qualcosa di diverso da tutto quello che finora ha conosciuto e che in quella diversità è racchiusa l’ombra del mistero. Un mistero che a chi non sia completamente accecato dalla disperazione o dalle ideologie non può che provocare timore e tremore. L’idea che il fine di ogni vita sia la felicità e che tutto sia giustificato in nome dell’amore è una delle perversioni del pensiero post moderno, oltre che uno dei chiari sintomi della condizione più che crepuscolare del mondo occidentale. La vita è complessità, ingiustizia, confusione, dolore e, meno è soggetta a un progetto interiore, più viene divorata da questo intrico di forze che a tutto pensa tranne che a renderci felici. E oltre a ciò, c’è il carico pesante del destino che agisce con apparente cecità, donando magari ai non meritevoli e punendo i meritevoli. È la complessità del destino a determinarci ed è proprio dall’interrogazione su questa complessità che nascono la poesia, la musica, la filosofia, vale a dire tutto ciò che distingue gli esseri umani dalle altre forme viventi. Interrogarsi, stupirsi, intravedere un orizzonte verso il quale incamminarsi. Se ci commuoviamo ascoltando della musica è grazie a questa complessità, se i nostri bambini fanno domande nel cuore della notte mentre tutti gli altri cuccioli dormono, ancora una volta è per questo. Perché alla base della vita c’è il mistero, e il mistero e l’inquietudine si alimentano costantemente l’un l’altro producendo un unico fuoco. Quel fuoco che rende ogni vita unica e degna di essere vissuta. Nel mondo dei negromanti della riproduzione questo orizzonte non compare mai. Lo spazio in cui si muovono è quello della catena di montaggio. Ottenuto l’acconto, si mette in cantiere il prodotto, se poi alla fine del processo il prodotto ha qualche difetto lo si rispedisce al mittente, come è successo alla madre surrogata indonesiana che ha avuto la sventura di fallire producendo un bambino down. Che poi quel prodotto un giorno si trasformi in una persona non è poi così importante. Basta l’amore. Ma un giorno,

passata la fase festosa del cucciolo scodinzolante, quell’essere assumerà la sua natura umana e comincerà a guardarsi nello specchio e a interrogarsi. A chi appartengono questi occhi? Questo volto? Cos’è questa nostalgia che divora il mio cuore? E che cosa potrà provare quando saprà che il suo ovulo – cioè la sua vita – è stato selezionato su un catalogo come le vendite per corrispondenza? Cosa proverà per la sua madre genetica – magari una brillante studentessa di Harvard scelta per le sue elevate qualità fisiche e intellettuali – che l’ha venduto al migliore offerente, come si faceva al mercato degli schiavi? E che sentimenti potrà provare per quella povera donna che, in qualche oscura parte del mondo, l’avrà portato in grembo per nove mesi, quella donna che non ha mai potuto essere tentata da una carezza, da una frase dolce, da quell’intimità che sempre lega le madri alla creatura che cresce in loro? Quella donna di cui, per nove lunghi mesi, ha ascoltato la voce e il battito del cuore, da cui è stato nutrito, da cui ha appreso gli odori, i sapori; quella donna che ha lasciato in lui un’impronta genetica incancellabile e a cui lui ha impresso la sua, come fossero un aquilone e la mano che tiene il filo per potersi sempre inseguire e ritrovare ovunque, tra la terra e il cielo? Che cosa proverà per lei, per la voragine oscura che l’ha inghiottita nel momento stesso in cui gli ha donato la vita? Diventerà un essere umano equilibrato perché satollo dell’amore dei suoi committenti? Oppure... Come è possibile, lucidamente e scientificamente, decidere di privare una persona della propria memoria genetica – dunque della sua storia, della sua salute fisica e mentale, della sua identità – con l’infantile convinzione che l’amore possa essere la soluzione a tutto? Dov’è finito tutto il devastante dolore e smarrimento della gran parte dei bambini adottati? E la rabbia furibonda di chi non ha mai conosciuto il padre? Cento anni di psicanalisi, milioni di studi sul Dna e la scoperta dell’epigenetica, cancellati con un colpo di spugna. Il bambino su ordinazione viene proposto come una tabula rasa, da plasmare a piacimento. L’importante è che il prodotto funzioni e non abbia difetti, tutto il resto è superfluo. Un fantoccio che ai baci risponda con i baci, ai sorrisi con i sorrisi, così come il cane di Ivan Pavlov sbavava sognando la pappa al suono del campanello. Non ha importanza perché, nel mondo di Ivanov e dei suoi seguaci, la complessità umana non ha alcun diritto di cittadinanza. (...). La gestazione per altri è dunque soltanto la punta di un iceberg – la più vistosa e la più agghiacciante – di uno slittamento della visione antropologica verso un modello ad un’unica dimensione, quella del mercato. L’amore è il cavallo di Troia attraverso il quale vengono condizionate le coscienze. Ma di quale amore stiamo parlando? Un amore che reclama diritti. Ma un amore che reclama diritti che razza di amore è? Il concetto di amore e quello di diritto sono assolutamente incompatibili. Non esiste il diritto di amore, così come non esiste il dovere di amare. Persino il Decalogo – oserei dire, il codice etologico dell’umanità – ci impone di onorare il padre e la madre, non di amarli. L’amore, per essere davvero tale, non richiede una legge a cui uniformarsi, ma piuttosto un’idea del bene, e l’idea del bene soggiace sempre a quello della reciprocità. Quale forma di reciprocità ci può essere in un rapporto di commissione della vita? Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te stesso è il principio su cui si è retta la società umana fino ad ora. Per esercitare un nostro diritto, dunque, costringiamo lucidamente una persona a venire al mondo privandola di ciò che fa di un uomo un uomo, vale a dire la genealogia, mettendo sulla sua vita una grande ipoteca di infelicità. Non è il karma a porre questo peso, non è il destino, siamo noi con la nostra minuscola volontà individuale. D’altronde come stupirsi? Nel mondo in cui tutto si consuma non c’è spazio per questo tipo di arcaiche finezze. Il destino è la nostra volontà, non conosciamo e non vogliamo conoscere nessun altro tipo di orizzonte. Ma se va respinto con fermezza l’atto della maternità surrogata, non va negata la vera esigenza di donare amore che affligge tante coppie che, per ragioni fisiologiche o di genere, sono costrette alla sterilità. Si tratta solo di fare un po’ di chiarezza cominciando con il dire che l’amore, quando non è procreativo, non può essere altro che oblativo. Che cosa vuol dire oblativo? Che si dona senza pretendere nulla in cambio. Non un cognome, non un diritto, non la proprietà ma soltanto la certezza della straordinaria forza racchiusa in questo tipo di amore. Già, perché, seguendo la vitalità della biologia, si può dare la vita con il corpo, ma la vera generazione avviene sempre attraverso i livelli più sottili di quella che una volta veniva chiamata anima. Nel mondo ci sono circa 170 milioni di bambini abbandonati, la grande battaglia da fare per spezzare il vertiginoso business dell’utero in affitto – la battaglia che riporta tutto il discorso nuovamente nei

confini dell’umano – è quella per leggi migliori, di più ampio respiro e di più rapida attuazione nel campo dell’adozione e dell’affido. Adozioni e affidi, tra l’altro, grazie al diffondersi di queste pratiche e al costo esorbitante necessario per portarle a termine, sono drasticamente crollate. E comunque di bambini che hanno bisogno di noi ne incontriamo ogni giorno. Forse non siamo capaci di fermarci ad ascoltarli, di vederli, non sappiamo guardare i loro occhi per capire la loro richiesta di aiuto. Quando il cuore è pronto, di solito i bambini arrivano. Basta essere disponibili ad accoglierli, senza pedigree genetici, senza garanzie ereditarie, senza la certezza che diventino, come da ordinazione, dei geni della matematica o dei novelli Mozart, con il rischio magari di doversi occupare anche dei loro genitori genetici, che sono molto spesso persone problematiche e che metteranno a dura prova il nostro equilibrio e la nostra pazienza. Ma l’amore oblativo non teme i rischi perché rifugge dall’idea di possesso e da quella del rendimento. L’amore oblativo vive e prospera soltanto sotto il cielo della libertà, ed è proprio grazie a questa libertà che offre ad ogni vita, piccola o grande che sia, la possibilità di rinascere ad ogni istante. Questo è il vero spirito di maternità, questo è l’amore che dobbiamo coltivare dentro di noi ed intorno a noi, questa è l’unica arma che abbiamo per contrastare il sinistro business della riproduzione. Pag 8 Tre italiani su 4 si sentono europei Sondaggio Doxa Tre europeisti ogni quattro italiani. Oppure un antieuropeista a fronte di tre europeisti. Dipende dai punti di vista quale interpretazione dare. Di sicuro, dati alla mano, siamo tra i Paesi meno euroscettici dei 27. A confermarlo ci pensa l’ultima rilevazione Doxa. Alla vigilia del sessantesimo compleanno dei Trattati di Roma, l’Europa unita non pare in ottime condizioni di salute. Ma è proprio in questi casi che sembra scendere in campo il proverbiale 'cuore' degli italiani. Mille interviste a un campione rappresentativo di tutti i connazionali maggiorenni fanno così l’effetto di una rinfrancante pacca sulla spalla e una iniezione di fiducia alla malferma vecchia Europa. Il 76% del campione preso in esame è infatti favorevole a Bruxelles e alle sue istituzioni. Una percentuale persino più alta di quando nel 1950, sempre la Doxa, rivelò che al 71% degli italiani, ancora con le ossa rotte a cinque anni dalla fine della guerra, piaceva la coraggiosa, irrealizzata, idea degli 'Stati Uniti d’Europa'. Progetto federalista rimasto nel cassetto, a favore della più pragmatica Comunità economica europea. Ora la Doxa ci dice che sono i giovani, soprattutto i laureati, i più coraggiosi scommettitori su presente e futuro dell’Unione. L’87% degli intervistati europeisti ha infatti tra i 18 e i 34 anni. Qualcuno potrebbe vedere in questo dato la scelta del male minore, visto che l’Italia non pare offrire scenari molto allettanti e il 43,6% degli intervistati pensa in effetti che le cose andrebbero peggio se l’Italia non facesse parte dell’Unione europea. A pensarla così è soprattutto il Centro Italia (49,7%). Comunque nel complesso il 69,3% si sente molto o abbastanza 'europeo'. Anche per il futuro: il 60% vede la sopravvivenza della Ue (e l’Italia farne parte) anche tra 5 anni, mentre l’11% pensa che ne uscirà e il 12% che la Ue non esisterà più. Ma intanto, domani, l’Europa si celebra. Per rilanciarsi e ritrovare ideali e principi. L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Una questione di civiltà di Sylviane Agacinski No all’utero in affitto Si cita spesso Paul Valéry per ricordare che «noi, le civiltà, ora sappiamo che siamo mortali». Ma la storia potrebbe anche convincerci dell’ambiguità e della fragilità di ogni civiltà, al di là di questa mortalità forse fatale. Nel XX secolo, di fronte all’emergere di ideologie e di poteri statali barbari, alcuni popoli non hanno saputo resistere loro, al punto che intellettuali, medici e giuristi hanno collaborato con regimi totalitari e tradito la loro vocazione civilizzatrice. In altre epoche, alcune nazioni che si ritenevano altamente civilizzate, hanno praticato la schiavitù, perché serviva interessi economici. Questi esempi estremi dovrebbero renderci vigili di fronte alle inaudite violenze di cui la nostra stessa epoca è capace. Perciò dobbiamo tener presente l’importanza della dignità della persona umana, affermata solennemente dalle dichiarazioni internazionali e dalle

nostre costituzioni nazionali. La dignità, nozione al tempo stesso etica e giuridica, significa che ogni persona ha un valore intrinseco e che, contrariamente alle cose, contrariamente ai beni scambiabili, essa non ha equivalenti e non può aver alcun prezzo. In quanto soggetto di diritti, l’essere umano deve dunque essere rispettato nella sua integrità morale e fisica. Eppure, in troppe regioni del mondo, il corpo umano è immesso sul mercato sia per soddisfare la richiesta di organi e di tessuti destinati a curare quanti possono acquistarli, sia per soddisfare la domanda di figli che la medicina procreativa contribuisce a suscitare e a mantenere. Questa medicina è stata poco a poco introdotta in certi paesi, in una logica di “produzione” artigianale dei figli, favorita dalle innovazioni tecniche, come la fecondazione in vitro e il trasferimento di embrioni, e fondata sulla pratica sociale della “donazione” di gameti (gratuita o a pagamento). Ma un embrione non diventerà mai un figlio se non sarà un corpo femminile tutto intero a farlo nascere. Senza una madre che lo porti in grembo, che ne assicuri la lunga formazione biologica epigenetica e lo metta al mondo, non c’è figlio. Per questo gli Istituti di riproduzione umana, come vengono chiamati in California, non hanno potuto attuare fino in fondo la loro logica senza ricorrere a donne capaci di assicurare la “fase” della gravidanza e del parto, e dunque di consegnare il neonato ai suoi committenti. In questo contesto, la maternità diviene un compito ed è oggetto di un contratto, mediante il quale una donna, detta “madre surrogata”, s’impegna a consegnare il figlio che ha portato in grembo ad altri, che ne diventeranno i genitori legali. Un tale contratto è incompatibile con il rispetto della persona, nella misura in cui equipara unicamente e semplicemente la donna e il bambino a beni (ossia a proprietà, beni utilizzabili e scambiabili). Di fatto, lo stato di gravidanza e l’evento del parto riguardano l’esistenza personale nella sua totalità (biologica e biografica). Se si conferisce a questi due eventi lo status di un servizio o di un lavoro, si attribuisce alla vita della “gestatrice”, per nove mesi, un valore d’uso. La si convince anche che è una semplice “incubatrice”. Si dà così alla sua vita un valore di scambio, ossia si dà un prezzo locativo al suo corpo (in alcuni annunci non si legge forse «Womb for Rent»?). Ovunque e sempre, la “gestazione per altri” (GPA) fissa un prezzo per la gravidanza e il parto. Anche se tale prezzo è mascherato come “risarcimento ragionevole”, si sa che è la motivazione principale delle donne che accettano di alienare la loro vita intima. Ma, non dimentichiamolo, dato che l’oggetto del contratto è la consegna di un figlio, anche a lui viene attribuito un prezzo. È evidente che la pratica della maternità contrattuale, qualunque sia la sua tariffa, crea confusione tra le persone e i beni. Essa è contraria al diritto internazionale che vieta di esercitare nei confronti di una persona, e dunque del suo intero corpo, gli attributi del diritto di proprietà. Infine, una donna che deve cedere il figlio che ha partorito ad altri, cede loro al tempo stesso il suo status e il suo titolo di madre e la filiazione materna del bambino. Ebbene, questi diritti soggettivi non sono diritti cosiddetti patrimoniali: non sono beni alienabili e, per principio, non possono essere dati né venduti a terzi. Di conseguenza, la pratica della “gestazione per altri” effettua una distruzione del diritto facendo dipendere lo stato civile di un bambino da una transazione finanziaria e dunque da un diritto di proprietà. Ai giorni nostri, alcuni cittadini di paesi che, a giusto titolo, impediscono la GPA, vanno a cercare una “madre surrogata” all’esterno, sapendo che nuocciono alla filiazione del bambino secondo la legislazione del proprio paese. Al loro ritorno, pretendono di obbligare il loro paese a rinunciare ai suoi principi fondamentali e alla sua legislazione, in nome dell’“interesse del bambino” e con il sostegno della Commissione europea dei diritti dell’uomo. Anche se a quei bambini vengono offerte le migliori condizioni di vita possibili, occorre mostrare alle istituzioni europee che il bambino nato in quelle condizioni subisce a sua volta violenze specifiche (danni al suo sviluppo prenatale, separazione dalla propria madre e commercializzazione della sua filiazione, in particolare). D’altra parte è utile criticare l’ideologia su cui si fondano i sostenitori di una regolamentazione internazionale della GPA, in altre parole di una legalizzazione più o meno strisciante del mercato della maternità. Che cosa dice? Che la pratica della GPA è un dato di fatto, una realtà, di cui sarebbe inutile mettere in dubbio la legittimità. Evidenzia inoltre due concezioni inaccettabili. La prima è una concezione dualista della persona. L’individuo è ridotto alla sua volontà, mentre il suo corpo è un organismo biologico di cui disporrebbe a suo piacimento, per suo conto o per conto terzi. Questa idea è filosoficamente aberrante. Come scrive Merleau-Ponty: «Io non ho un corpo, sono il mio corpo». E Wittgenstein, da parte sua, sottolinea che sarebbe assurdo dire «vengo

e porto con me il mio corpo». La seconda è una concezione iper-liberale dell’economia e della società. Secondo tale concezione, la legittimità dei contratti poggia sul solo consenso dei contraenti e dunque sulla loro pretesa libertà individuale. Inoltre il corpo umano, organico e carnale, è un bene di cui ognuno è proprietario e che può eventualmente utilizzare come un patrimonio, e che costituisce, nella sua totalità o in parte, un insieme di risorse disponibili. È ovvio che il consenso della persona, in quanto proprietaria, giustifica allora qualsiasi contratto, e quindi qualsiasi mercato, compreso quello degli organi tra viventi. Il celebre economista americano, Gary S. Becker, dice che le componenti del corpo umano sono beni come gli altri. Sostiene che la legge - lo cito testualmente - non deve «impedire alle persone di accordarsi fra loro» per scambiarsi questi beni. Ritiene, per esempio, che il versamento di un “compenso economico” sufficiente per l’acquisizione di un rene (dell’ordine di 15.200 dollari) aumenterebbe in pratica di un 50 per cento il numero dei trapianti. Questo elogio dell’efficienza passa ovviamente sotto silenzio il fatto che le disuguaglianze economiche falsano in questo caso lo scambio. In effetti il commercio normalmente è uno scambio libero tra due partner uguali (compratore e venditore). Ma se il venditore è in una situazione di bisogno, è spinto ad acconsentire a uno scambio che pregiudica la sua salute o che consegna la sua vita al potere del compratore. È per questo che a tali concezioni pericolose si deve contrapporre il ruolo civilizzatore del diritto. Il gioco della domanda e dell’offerta, ossia la legge del mercato, non può sostituire la scelta di norme comuni. Se il diritto non dovesse proteggere la persona umana, perché ci sarebbe allora un diritto del lavoro, che impone limiti alla libertà dei contratti? Gli interessi privati (economici o altri) non possono porsi al di sopra della giustizia sociale o abolire i legami umani non economici. In un mondo civilizzato, la libertà consiste nel poter fare ciò che le leggi consentono, e queste leggi non sono autorizzate da contratti che riducono l’esistenza corporale degli esseri umani a beni. Per concludere, direi che dobbiamo, insieme, resistere e rifiutare l’ampliamento senza limiti di un mercato che s’impossesserebbe di tutto e di tutti, di un mercato totale che cancellerebbe la differenza tra un’economia di mercato e una società di mercato. È responsabilità degli Stati operare, a livello nazionale e internazionale, affinché le leggi proteggano la persona umana, e l’integrità e la dignità che le sono proprie, considerando anche le condizioni in cui si fanno nascere i figli. In tal modo resteremo fedeli allo spirito della Dichiarazione di Filadelfia, firmata nel 1944, che afferma che il fine principale di ogni politica nazionale o internazionale è la libertà e la dignità degli esseri umani. Lo ripetiamo: è una questione di civiltà. IL GAZZETTINO Pag 1 Perché non riusciamo a prevederli di Raffaele Marchetti Perché non riusciamo a prevenire gli attacchi terroristici come quello di mercoledì scorso a Londra? A livello macro, gli attentati seguono una logica intuibile. E tuttavia è a livello micro che non riusciamo a capire con precisione le dinamiche di reclutamento. Dinamiche di reclutamento e mobilitazione che sottostanno a questi fenomeni di radicalizzazione. A livello individuale, una prima difficoltà ha a che vedere con il profilo degli attentatori affiliati all'Isis, profilo che ad oggi rimane molto meno definito se lo compariamo con quello dei terroristi di Al Qaeda. Al Qaeda ci metteva 3 o 4 anni per reclutare un nuovo terrorista attraverso contatti perlopiù personali. All'Isis occorrono in media solo 6 o 7 mesi per lo stesso scopo e spesso il processo è sviluppato in un ambiente neutro come internet da reclutatori che si è scoperto in alcuni casi essere adolescenti. Essendo veloce, poco visibile e controintuitivo il processo rimane più difficilmente controllabile. Inoltre, il profilo del terrorista Isis è ad oggi ancora poco definito. Il profilo del terrorista di Al Qaeda era quello di un maschio tra i 18 e i 45 anni, proveniente dal mondo arabo o dall'Asia meridionale, con una visione panislamista e una prospettiva anti-occidentale, anti-coloniale e anti-imperiale. I terroristi dell'Isis hanno identità molto meno circoscritte. Sono sia maschi sia femmine, provengono anche dal mondo occidentale, e hanno una prospettiva ideologica poco consolidata. Possiedono inoltre una conoscenza approssimativa dell'Islam: uno dei libri più acquistati dai futuri terroristi è Islam for dummies (Islam per principianti). Il 37% dei terroristi sono recentemente convertiti, ossia soltanto 7 o 8 mesi prima del reclutamento non professavano fede islamica. In questo senso la conoscenza e la profondità religiosa non

si correlano pienamente con l'attività terroristica. Poiché la conversione avviene attraverso la prospettiva della redenzione («unisciti a noi e ti redimerai»), la categoria di persone con un passato criminale ha maggiore propensione a ritrovarsi in questa narrativa. I terroristi Isis vengono poi spesso descritti come lupi solitari, ma anche qui occorre fare chiarezza. Sono lupi solitari perché agiscono da soli, ma non perché non siano integrati in una dinamica collettiva. Prima di tutto sono stati convertiti e formati da persone appartenenti all'Isis. Inoltre, non possiamo dimenticare che le azioni seguono istruzioni e modelli definiti dal centro. Gli attacchi non hanno solo una dimensione fisica di morte, ma anche una dimensione simbolica che è, se possibile, ancora più importante. Ogni attacco terroristico mira da un lato a diffondere la paura generalizzata all'interno della società, ma dall'altro tenta anche di mettere in discussione la solidità del contesto politico-culturale del Paese. In questo senso l'attacco a Nizza fu anche contro la festa nazionale francese, l'attacco a Berlino fu anche contro il Natale, e l'attacco a Londra è anche contro il Parlamento di Westminster, luogo per antonomasia della democrazia occidentale. Allo stesso modo anche le immagini di Roma e del Vaticano sono spesso utilizzate nella propaganda Isis proprio per il loro valore simbolico. L'attacco a luoghi simbolici ci porta alla dimensione macro del terrorismo. L'Isis è in difficoltà sul terreno in Siria e Iraq. In una situazione di arretramento, il cosiddetto Stato Islamico ha bisogno di rilanciare la sua immagine per non perdere fette di mercato politico all'interno del mondo islamico e per poter continuare a reclutare con successo. È questo contesto che ci permette di capire meglio perché gli attacchi si sviluppano seguendo una logica politica ben definita. Ma anche allo stesso tempo il profilo vago dei reclutati che ci impedisce di mettere in atto misure preventive veramente efficaci. LA NUOVA Pag 1 Senza forza la legge è impotente di Angelo Mascolo Qualche sera fa, tornando da una cena, ho avuto la cattiva idea di sorpassare una Bmw. Qualcuno a bordo si è offeso, ed è cominciato un inseguimento a colpi di fari abbaglianti e di preoccupanti avvicinamenti. Direte voi: finalmente capita a un giudice la rogna! Non fino in fondo, però, perché fortuna ha voluto che raggiungessi una pattuglia di Carabinieri, che segnalassi loro i miei inseguitori e che questi, bloccati, venissero a buoni consigli, dicendo che “abbiamo seguito il signore per esprimere le nostre critiche sul suo modo di guidare”. Pensa te. Qui si pone un problema: se fossi stato armato, come è mio diritto e come sarò d’ora in poi, che sarebbe successo se, senza l’intervento dei Carabinieri, le due facce proibite a bordo della Bmw mi avessero fermato e aggredito, come chiaramente volevano fare? Se avessi sparato avrei subito l’iradiddio dei processi - eccesso di difesa, la vita umana è sacra e via discorrendo- da parte di miei colleghi che giudicano a freddo e difficilmente – ed è qui il grave errore - tenendo conto dei gravissimi stress di certi momenti. Concludendo, per bene che mi fosse andata, sarei andato incontro quantomeno alla rovina economica per le spese di avvocato: mistero dei misteri è perché non debbano essere rifuse dallo Stato le spese ai processati innocenti: un fatto che non capirò mai. Forse perché, come dice qualcuno, gli imputati non sono mai innocenti. Mah! Ma il problema della legittima difesa è un problema di secondo grado, come quello di asciugare l’acqua quando si rompono le tubature. Il vero problema sono le tubature e, cioè, che lo Stato ha perso completamente e totalmente il controllo del territorio, nel quale, a qualunque latitudine, scorazzano impunemente delinquenti di tutti i colori, nonostante gli sforzi eroici di poliziotti anziani (a Treviso l’età media è di 49 anni), mal pagati e meno ancora motivati dall’alto e, diciamolo pure, anche dallo scarso rigore della Magistratura. La severità nei confronti di questi gentiluomini - e gentildonne se no mi danno del sessista - è diventata, a dir poco, disdicevole, tante sono le leggi e le leggine che provvedono a tutelarli per il processo e per la detenzione e che ti fanno, talvolta, pensare: ma cosa lavoro a fare? E, in effetti, il lavoro di un giudice penale è, oggi, paragonabile a quello del soldato al quale, per tenerlo calmo, fanno scavare un buco e poi riempirlo. Severità, forza: argomenti obsoleti. Pascal, non Ivan il Terribile, disse che la legge, senza forza, è impotente. Se non ci fosse stata la forza, come sarebbe avvenuta la Rivoluzione Francese, pietra miliare della civiltà vera, quella occidentale e non quella dei cammellieri? Offrendo cioccolatini a Maria Antonietta? E Hitler lo avrebbero fermato le gentili parole di Chamberlain e Deladier? Il che vuol dire

che, quando ci vuole, ci vuole. Ne deriva che, a parte casi di persone – esistono, incredibilmente, anche loro, questi cuori candidi- che ci credono veramente, coloro che proclamano che il nemico, e Dio sa se ne abbiamo e quali stiano bussando alle nostre inermi porte, può essere fermato con la bontà e l’offerta di pace, sono pavidi o renitenti alla leva, e Dio sa se l’Italia non è patria di queste categorie di soggetti. Golda Meir, che qualcuno definì unico uomo nel governo di Israele, dopo i fatti di Monaco ’72 disse che ci sono dei momenti in cui uno Stato deve venire a compromessi coi suoi valori e fece inseguire e uccidere uno per uno gli attentatori. Attentatori che oggi, a parte episodi sporadici, guarda un po’, girano alla larga da Israele. E noi, quando potremo finalmente dire: l’Italia s’è desta? Pag 1 L’obbligo di difendere i cittadini di Umberto Vincenti Se molti sono stati lieti dell’assoluzione in appello di Franco Birolo, il tabaccaio di Correzzola, è perché è stato quasi automatico immedesimarsi in lui. Birolo ha avuto paura come l’abbiamo noi che non ci fidiamo più dello Stato in quanto pensiamo che si disinteressi dei suoi cittadini. Può essere che questa percezione sia errata o eccessiva: ma in una repubblica è corretto che contino anche le sensazioni dei cittadini e che chi ci governa si impegni seriamente, non per modo di dire, per assicurare la tranquillità pubblica. L’uomo della strada non capisce più come le istituzioni si conducano e ci conducano. Per esempio, perché Birolo è stato prima condannato e poi assolto? Molti lo hanno sempre ritenuto innocente e molti pensano che bisognerebbe premiarlo. Così l’uomo della strada – cioè il cittadino – se la prende con i giudici. Ma, in vicende del genere, i giudici c’entrano fino a un certo punto: la legge è una formula verbale e dipende da come è scritta se la (loro) libertà interpretativa sia più o meno ampia. Se si vuole evitare che la soggettività del singolo giudicante sia decisiva (e decisoria), occorre che il legislatore sappia fare il suo mestiere: dimetta testi non ambigui e non vaghi, in grado di delimitare con sufficiente precisione una porzione della realtà per escludere così ciò che ad essa resta estraneo. Il protocollo è questo e il legislatore italiano non lo ha – o non lo ha voluto – applicare normando in tema di legittima difesa. Ma tale è ormai la cifra di un po’ tutta la legislazione della Repubblica: sono determinanti la scarsa padronanza del linguaggio da parte di chi norma; o, anche, il prevalere di scelte opportunistiche che consigliano di non prendere posizioni chiare perché queste generano responsabilità che è meglio consegnare, astutamente, alla magistratura. In questo contesto il nostro uomo della strada apparirà sempre più propenso ad armarsi e a correre il rischio, sparando per legittima difesa, di subire lunghi, incerti e magari ingiusti processi. Però dobbiamo pure domandarci se valga la pena esporsi a pericoli di vario genere solo per difendere i propri beni materiali. E ovviamente se valga la pena uccidere. Forse ha ragione Bruce Thornton, classicista della California University, quando osserva che oggi gli occidentali sembrano pronti a combattere, uccidere e morire soprattutto per avere beni di consumo. Sia Birolo che Cattaneo (il ristoratore di Lodi) stavano dormendo a casa loro, sopra i rispettivi esercizi; hanno sentito dei rumori dabbasso e sono scesi armi alla mano. Prevedibile che poi sparassero. Potendo viaggiare a ritroso nel tempo, Birolo, con il calvario che ha passato, sparerebbe di nuovo o sceglierebbe di lasciare andar via il predone? Diamo troppa importanza alle cose, anche a quelle che valgono poco o nulla. Il consumismo ci ammalia e ci rende schiavi e non abbiamo grandi ideali. Siamo così, ora. Ma se uccidiamo per le cose (anche se sono le nostre e non le altrui), lo facciamo perché abbiamo paura e la colpa è dello Stato. Questo Stato non adempie – o adempie molto approssimativamente – all’obbligazione primaria che ha come contenuto la difesa dei suoi cittadini. L’uomo della strada si guarda intorno quando cammina per le vie delle nostre città, trasformate in empori e in luoghi di assembramento, di convergenza di persone provenienti chissà da dove, troppe sfaccendate e con atteggiamenti e posture che il cittadino non riconosce. Sicchè può accadere che a sentirsi estraneo sia proprio lui, il cittadino. Taluni (sempre più) pensano che il patto sociale sia rotto: un ritorno allo stato di natura in cui ognuno provvedeva da sé, come poteva, a difendersi. Il problema più grave, quando si discute della legittima difesa, è tutto e solo qui. Pag 5 Confini e nazionalismi ci mettono più a rischio di Roberto Castaldi

A Londra ha avuto luogo un nuovo attacco terroristico, a un anno da quello che ha colpito Bruxelles, a pochi giorni dalle celebrazioni dei 60 anni dei Trattati di Roma, ma dopo diversi anni in cui svariate crisi geopolitiche, della sicurezza ed economiche si sono abbattute sull’Unione Europea. Ma alla commozione per le vittime e allo sdegno per l’attacco non riesce a seguire un’azione politica adeguata. Tutto nel mondo indica la necessità di completare il processo di unificazione europea per far fronte alle sfide che nessuno degli Stati membri può affrontare da solo. Ma i governi nazionali tentennano e si dividono. Diversi degli attacchi terroristici di questi anni avrebbero potuto essere prevenuti. Alcuni terroristi erano noti all’intelligence di uno Stato membro, ma manca uno scambio sistematico di informazioni sensibili e un’intelligence europea. Lungi dal rendere più sicuri i cittadini, i confini e le sovranità nazionali ci mettono più a rischio. La ricetta dei nazionalisti in salsa populista semplicemente non funziona. La minaccia alla sicurezza interna è collegata a quella esterna. La sfida egemonica tra Stati Uniti d’America e Cina ha spostato il focus strategico americano sul Pacifico. Il conseguente vuoto di potere è la causa strutturale per il riemergere dell’espansionismo russo, per il crollo dell’ordine e dei regimi precedenti in Nord Africa e Medio Oriente. Finché tutta la nostra area di vicinato sarà in fiamme i flussi di rifugiati e migranti saranno inarrestabili. Quando la scelta è tra morire e fuggire è evidente che l’esodo non si fermerà con il reato di clandestinità, che serve solo a paralizzare le procure. La nostra inazione di fronte a migliaia di persone che muoiono in quelle aree e alle milioni che vivono in contesti di guerra civile è il contesto ideale per il reclutamento dei seminatori d’odio. La nostra inazione ha reso sempre più esposta a queste tensioni la Turchia, favorendo la svolta accentratrice e autoritaria di Erdogan. La pacificazione del vicinato richiede un investimento finanziario e politico-militare, per garantire la sicurezza e la stabilità dell’area. I 27 insieme hanno la 2ª spesa militare mondiale, 1,2% del Pil (più di tutto il bilancio Ue, un mero 0,9%), ma con una capacità militare ridicola. Una difesa europea è indispensabile per affrontare le sfide geopolitiche superando lo spreco di 27 inutili difese nazionali, nessuna delle quali è stata mai usata singolarmente negli ultimi decenni, ma sempre nel quadro di missioni multilaterali Ue, Nato o Onu. Per superare la crisi economica serve un grande piano di investimenti europeo, di cui il Piano Juncker è il precursore e l’apripista. In un contesto di mercato e moneta unica solo a livello europeo è possibile una politica economica e fiscale in grado di rilanciare l’economia e l’occupazione e insieme promuovere la trasformazione ecologica dell’economia. Il Presidente Mattarella ha dichiarato che il rilancio dell’Ue e la riforma dei trattati è ineludibile per salvaguardare i nostri valori di fronte alle sfide epocali che abbiamo di fronte: «Fatti gli europei è ora necessario fare l’Europa». Le crisi multiple che ci attanagliano spingono in quella direzione. La Dichiarazione di Roma non prevede decisioni, ma aprirà un percorso e un processo di ascolto e dibattito per arrivare a decisioni storiche dopo le elezioni francesi, tedesche e italiane e prima delle elezioni europee del 2019. La richiesta che sale dai cittadini, dalle associazioni e dalle personalità della cultura e della politica che daranno vita sabato a Roma alle 11:30 in Piazza Bocca della Verità alla Marcia per l’Europa (www.marchforeurope2017.eu) è proprio questa: cos’altro deve succedere per fare l’Europa. Torna al sommario