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RASSEGNA STAMPA di venerdì 16 marzo 2018 SOMMARIO “Ogni volta che i partiti definiti populisti vincono delle elezioni - scrive Federico Fubini sulla prima pagina del Corriere della Sera di oggi -, si sente ripetere la stessa considerazione: quando andranno al potere, non faranno quello che avevano detto. Non attueranno i loro programmi, perché sarebbero incompatibili con il sistema e le sue istituzioni così come le conosciamo. Non usciranno dalla strada segnata e dall’ordine costituito. Le loro promesse radicali di spesa, taglio alle tasse, dazi e chiusura dei mercati o di mettere da parte altre regole interne e sovranazionali, tutto questo è servito agli insorti per accendere i riflettori su di sé. I loro leader sanno bene che l’esercizio del potere è un’altra cosa: un’arte che richiede una dose, se non di moderazione, almeno di prudenza. È un’analisi che torna ogni volta che si affermano forze estranee al vecchio sistema. E onestamente non avrebbe senso spiegare se sia corretta o sbagliata in assoluto, neanche fosse una legge universale. Non lo è. Anche se qualcuno preferisce illudersi che sia altrimenti, la politica, la storia e l’economia non sono come la fisica: non esistono leggi immutabili, tantomeno durante una rivolta degli elettori contro il mondo di ieri. Per farsi un’idea di come potrebbe essere il futuro, esistono solo le esperienze del passato lontano e recente. Ray Dalio, il grande investitore italo-americano, ha studiato diciotto casi di insurrezione populista degli ultimi 150 anni in Europa, Stati Uniti, America Latina e in Giappone - tutti meno gli ultimi - e ha classificato somiglianze e differenze. In diciassette casi su diciotto, dalla rivolta di Andrew Jackson negli Stati Uniti contro le élite del New England nel 1829 a quella chavista in Venezuela nel 1990, l’economia era sempre molto debole (l’eccezione è la Francia nella stagione poujadista degli anni ’50). In quattordici casi su diciotto, le diseguaglianze di redditi fra cittadini erano elevate. E in dieci casi su diciotto la crescita dei populisti aveva contribuito alla paralisi politica, che a sua volta ha alimentato l’insoddisfazione dei cittadini verso un establishment ritenuto incapace di rispondere ai loro problemi; questa frustrazione a sua volta ha rafforzato ancora di più il richiamo dell’insurrezione, in una sorta di spirale che finisce per autoalimentarsi. L’Italia del 2018 rientra in tutti questi modelli: economia debole, diseguaglianze, paralisi. Resta giusto da capire quanto i nuovi protagonisti siano assimilabili e omologabili al sistema, una volta entrati a palazzo. Anche qui non esistono risposte certe, solo esperienze durante le quali si erano sentite le solite previsioni di relativa continuità: tutto doveva cambiare, perché tutto restasse com’era. Questi anni ci dicono però che non è andata così: penetrati nella stanza dei bottoni, gli insorti hanno sempre dimostrato che facevano sul serio e hanno cercato di realizzare i loro programmi. Donald Trump ha tenuto un discorso moderato nel giorno della vittoria nel 2016 e si è circondato di prudenti consiglieri scelti dai vertici di Wall Street; poi però ha licenziato chiunque non la pensasse come lui e ha veramente messo gli Stati Uniti su una traiettoria protezionista. Anche dopo il referendum sulla Brexit si pensava che, pur di tutelare la City e gli interessi commerciali del Regno, Londra non avrebbe rinunciato a partecipare al mercato europeo anche se dall’esterno; invece il governo sta veramente cercando una rottura intransigente con l’Unione Europea. Anche nel 2015 ad Atene Alexis Tsipras ha veramente resistito alle condizioni di Bruxelles e Berlino, fino a oltre l’orlo del baratro. E pochi mesi fa gli indipendentisti di Barcellona hanno davvero cercato di portare la Catalogna fuori dalla Spagna e dalla Ue. Chiamateli populisti se volete. Ma dobbiamo tutti ammettere che, seduti ai posti di comando, non sono cambiati. La convinzione, l’orgoglio e soprattutto il rapporto con gli elettori ha imposto loro di restare fedeli a se stessi. Ovviamente Tsipras e i secessionisti catalani a un certo punto hanno dovuto fermarsi, ma questa è un’altra esperienza interessante per l’Italia del 2018: in entrambi i casi la scelta di perseguire politiche fuori dal quadro europeo alla lunga si era dimostrata impraticabile. In Grecia la fuga dei risparmi verso l’estero era arrivata al punto che

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RASSEGNA STAMPA di venerdì 16 marzo 2018

SOMMARIO

“Ogni volta che i partiti definiti populisti vincono delle elezioni - scrive Federico Fubini sulla prima pagina del Corriere della Sera di oggi -, si sente ripetere la stessa considerazione: quando andranno al potere, non faranno quello che avevano detto. Non attueranno i loro programmi, perché sarebbero incompatibili con il sistema e le

sue istituzioni così come le conosciamo. Non usciranno dalla strada segnata e dall’ordine costituito. Le loro promesse radicali di spesa, taglio alle tasse, dazi e

chiusura dei mercati o di mettere da parte altre regole interne e sovranazionali, tutto questo è servito agli insorti per accendere i riflettori su di sé. I loro leader sanno bene

che l’esercizio del potere è un’altra cosa: un’arte che richiede una dose, se non di moderazione, almeno di prudenza. È un’analisi che torna ogni volta che si affermano forze estranee al vecchio sistema. E onestamente non avrebbe senso spiegare se sia corretta o sbagliata in assoluto, neanche fosse una legge universale. Non lo è. Anche se qualcuno preferisce illudersi che sia altrimenti, la politica, la storia e l’economia

non sono come la fisica: non esistono leggi immutabili, tantomeno durante una rivolta degli elettori contro il mondo di ieri. Per farsi un’idea di come potrebbe essere il

futuro, esistono solo le esperienze del passato lontano e recente. Ray Dalio, il grande investitore italo-americano, ha studiato diciotto casi di insurrezione populista degli ultimi 150 anni in Europa, Stati Uniti, America Latina e in Giappone - tutti meno gli

ultimi - e ha classificato somiglianze e differenze. In diciassette casi su diciotto, dalla rivolta di Andrew Jackson negli Stati Uniti contro le élite del New England nel 1829 a

quella chavista in Venezuela nel 1990, l’economia era sempre molto debole (l’eccezione è la Francia nella stagione poujadista degli anni ’50). In quattordici casi su diciotto, le diseguaglianze di redditi fra cittadini erano elevate. E in dieci casi su

diciotto la crescita dei populisti aveva contribuito alla paralisi politica, che a sua volta ha alimentato l’insoddisfazione dei cittadini verso un establishment ritenuto incapace di rispondere ai loro problemi; questa frustrazione a sua volta ha rafforzato ancora di

più il richiamo dell’insurrezione, in una sorta di spirale che finisce per autoalimentarsi. L’Italia del 2018 rientra in tutti questi modelli: economia debole,

diseguaglianze, paralisi. Resta giusto da capire quanto i nuovi protagonisti siano assimilabili e omologabili al sistema, una volta entrati a palazzo. Anche qui non

esistono risposte certe, solo esperienze durante le quali si erano sentite le solite previsioni di relativa continuità: tutto doveva cambiare, perché tutto restasse

com’era. Questi anni ci dicono però che non è andata così: penetrati nella stanza dei bottoni, gli insorti hanno sempre dimostrato che facevano sul serio e hanno cercato di realizzare i loro programmi. Donald Trump ha tenuto un discorso moderato nel giorno della vittoria nel 2016 e si è circondato di prudenti consiglieri scelti dai vertici di Wall

Street; poi però ha licenziato chiunque non la pensasse come lui e ha veramente messo gli Stati Uniti su una traiettoria protezionista. Anche dopo il referendum sulla Brexit si pensava che, pur di tutelare la City e gli interessi commerciali del Regno,

Londra non avrebbe rinunciato a partecipare al mercato europeo anche se dall’esterno; invece il governo sta veramente cercando una rottura intransigente con l’Unione Europea. Anche nel 2015 ad Atene Alexis Tsipras ha veramente resistito alle

condizioni di Bruxelles e Berlino, fino a oltre l’orlo del baratro. E pochi mesi fa gli indipendentisti di Barcellona hanno davvero cercato di portare la Catalogna fuori dalla Spagna e dalla Ue. Chiamateli populisti se volete. Ma dobbiamo tutti ammettere che,

seduti ai posti di comando, non sono cambiati. La convinzione, l’orgoglio e soprattutto il rapporto con gli elettori ha imposto loro di restare fedeli a se stessi. Ovviamente

Tsipras e i secessionisti catalani a un certo punto hanno dovuto fermarsi, ma questa è un’altra esperienza interessante per l’Italia del 2018: in entrambi i casi la scelta di

perseguire politiche fuori dal quadro europeo alla lunga si era dimostrata impraticabile. In Grecia la fuga dei risparmi verso l’estero era arrivata al punto che

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dai bancomat non uscivano più soldi e dalla Catalogna migliaia di imprese si erano trasferite nel resto della Spagna, per non rimanere tagliate fuori dall’area euro. L’Italia resta lontanissima da scenari del genere, non è questo il rischio che sta

correndo adesso. Ma guardiamo alle scadenze concrete per il Paese: l’anno scorso i privati hanno dovuto finanziare appena il 51% delle emissioni di debito a medio-lungo

termine necessarie a far funzionare lo Stato, perché al resto ha pensato la Banca centrale europea. Quest’anno la parte che andrà coperta dai privati sale al 74% e

l’anno prossimo esploderà all’85% di un programma di emissioni di debito che, solo per il medio lungo-termine, aumenterà a 257 miliardi di euro. Chiunque governi,

questi numeri non possono cambiare (se non al rialzo se l’Italia farà più deficit). Siamo diversi dalla Grecia e dalla Catalogna, ma anche noi viviamo entro vincoli precisi:

dipendiamo e dipenderemo sempre dalla cortesia dei nostri creditori. Ma c’è un’ultima esperienza dei populisti di cui vale la pena prendere nota. Quando Tsipras e gli indipendentisti catalani hanno dovuto battere in ritirata sui loro programmi, i loro elettori non li hanno abbandonati. I populisti sono rimasti popolari. Forse erano stati votati per un umano desiderio di rinnovamento del ceto politico: non per fede cieca

nelle loro promesse più assurde”.

Sul Corriere del Veneto l’editoriale, invece, è “Nordest, lo scisma sommerso” di Lorenzo Fazzini e tratta il tema del voto cattolico: “Dove è finito, nel Veneto (che fu) bianco, il voto cattolico? É solo diventato il voto dei cattolici, come ha evidenziato su

queste pagine il patriarca Moraglia, e non più quello di un blocco sociale religiosamente ispirato, che per anni ha guardato alla Dc e poi, con sfumature varie, al centro? L’interrogativo non è nuovo, ma la portata del voto del 4 marzo (la Lega

salviniana, dichiaratamente anti-papa Francesco, primo partito in Veneto, 1 voto ogni 3 elettori) propone in maniera inedita la questione in una regione per anni, e lo è

ancora oggi, a più alta densità religiosa d’Italia. Forse però l’angolatura di analisi va spostata per focalizzare meglio il problema. Ben 20 anni fa venne pubblicato un saggio di Pietro Prini «Lo scisma sommerso». In esso si analizzava la distanza creatasi negli ultimi decenni tra l’insegnamento dottrinale della gerarchia cattolica e la pratica dei fedeli in materia di morale sessuale. Ebbene, due decenni dopo potremmo parlare - guardando i dati delle elezioni - di un nuovo scisma sommerso, almeno in Veneto. Ovvero. Se negli anni di papa Wojtyla le direttive ecclesiastiche si concentravano

sopratutto sulle faccende dalla «cintola in giù» (per usare un’affermazione provocatoria dell’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi), oggi la Chiesa di papa

Francesco ha posto la nuova questione sociale come cardine del proprio impegno e fulcro intorno al quale chiede ai credenti di praticare il Vangelo. Questione sociale

significa l’arrivo e l’accoglienza dei migranti, l’apertura ai poveri, l’emergenza ambientale, la precarizzazione del lavoro. E mentre nel decennio wojtyliano molto del popolo cattolico si distanziava dall’insegnamento ufficiale nelle scelte sul sesso

(rapporti extramatrimoniali, contraccezione, aborto), oggi pare che la faglia tra fedeli e gerarchia riguardi il rapporto tra fede e fatto sociale, se appunto è Matteo Salvini con il suo credo sovranista intriso di venature non inclusive il nuovo Mosè dell’ex sagrestia d’Italia. Esempi? Quanti imprenditori veneti hanno letto e preso sul serio

l’enciclica Laudato si’ sulla cura del creato? Quanti hanno iniziato a fare i conti con la «conversione ecologica» richiesta con urgenza dal pontefice argentino? Quante sono le parrocchie che, davvero, hanno avuto il coraggio di farsi carico dei migranti, non

solo nell’accoglienza ma anche in un’incisiva educazione alla diversità? Eppure il Veneto ha sempre avuto una vocazione global in tema di fede cristiana: i missionari

vicentini sparsi nel mondo sono 700, quelli veronesi 500. Quanto del mondo, dei popoli incontrati, delle tragedie toccate con mano da questi veneti ha interpellato il

ceto medio cattolico tra il Garda e l’Adriatico? E ancora. Quante aziende hanno ragionato davvero sull’invito di Bergoglio a non rendere istituzionalmente precario il lavoro dei dipendenti? Quante famiglie che si dicono cattoliche hanno aperto porte e cuore a persone con disagio, senza tetto, uomini e donne alla deriva della vita? Forse è proprio questo nuovo scisma sommerso che andrebbe scandagliato meglio per capire

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come l’ascesa della Lega di Salvini non è un’eccezionalità scandalosa e incomprensibile nella regione che ha le Caritas più attive d’Italia, i comboniani battaglieri araldi di pace presenti in mezzo mondo, il Cuamm di Padova fiore

all’occhiello della cooperazione allo sviluppo. E forse convincersi anche che la traversata del deserto non è solo compito di un Pd veneto ridotto al lumicino, ma pure

la vocazione costitutiva di chi ha un Dio crocifisso come modello” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Faccia a faccia con Dio Messa a Santa Marta AVVENIRE Pag 11 Senegal, un sentiero per due fedi di Giorgio Agnisola Nel paese africano, dove la miseria è angosciante, islam e cattolicesimo convivono seguendo il motto della “religione dell’unità” LA REPUBBLICA Pag 49 Il Vangelo dalla parte della Maddalena di Vito Mancuso IL GIORNALE Record: un film sulla Maddalena senza (quasi) una parola di Gesù di Luca Doninelli L'opera di Garth Davis con le star Mara-Phoenix vivacchia in zona Dan Brown. Nessun afflato metafisico. Solo cliché IL FOGLIO Pag 1 Corte papale di Matteo Matzuzzi La reazione al pasticcio della lettera di B-XVI dà’ l’idea di un Vaticano ridotto a fortino assediato 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO IL GAZZETTINO Pag 1 La Vigilanza della Bce salva le banche non le imprese di Osvaldo De Paolini 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VIII Ex monastero, proposta ai “Trecento Campi” di Fulvio Fenzo La storico società di Carpenedo discuterà sull’immobile religioso Pag XVII Cerimonia in casa di riposo per ricordare suor Armanda di L.Gia. 8 – VENETO / NORDEST LA NUOVA Pag 1 Autonomia, l’impulso dal Veneto di Mario Bertolissi Pag 11 Il trionfo della Lega, il boom a Nordest “divora” Forza Italia di Francesco Jori Nella regione guidata da Zaia il miglior risultato di Salvini. Il M5S invece arretra dell’1 per cento rispetto al 2013 CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Nordest, lo scisma sommerso di Lorenzo Fazzini Il voto cattolico

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… ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 I populisti e le inutili illusioni di Federico Fubini Lezioni dal passato Pag 1 Le vittime di terza categoria di Claudio Magris Il caso Moro Pag 6 Se i vincitori rischiano di parlare solo ai loro elettori di Massimo Franco LA REPUBBLICA Pag 30 Pd e Berlusconi, lo sconquasso del centro di Stefano Folli AVVENIRE Pag 2 L’uomo imprigionato che ci ha spinto lontano di Ferdinando Camon Hawking, la vittoria sulla malattia e molto di più Pag 3 Il triste primato romeno dei bambini abbandonati di Mihaela Iordache Cresce il Pil, ma metà dei minori è rischio miseria Pag 9 “Noi, disarmate, 40 anni dopo via Fani” di Antonio Maria Mira Il sequestro e la strage. Agnese Moro: basta rabbia. Adriana Faranda: fu atroce IL GAZZETTINO Pag 5 Lega e M5S in crescita. Fi cade, Pd giù dello 0,7 di Enzo Risso La formazione di Salvini drena consensi da tutto il centrodestra. I penta stellati acquistano elettori berlusconiani ma ne cedono il 2% ai dem LA NUOVA Pag 1 Dazi, Trump alla guerra commerciale di Maurizio Mistri

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Faccia a faccia con Dio Messa a Santa Marta Quante volte accade che a un cristiano venga chiesto: “Prega per me”? E quante volte ci si impegna a farlo, consapevoli di cosa ciò davvero significhi? Per mettersi di fronte a Dio, «faccia a faccia» con Lui, per «bussare al suo cuore» ci vogliono, infatti, grande «coraggio» e altrettanta «pazienza». E una «libertà» interiore che non si può dare per scontata. È quanto ha sottolineato Papa Francesco, durante l’omelia della messa celebrata a Santa Marta giovedì 15 marzo, prendendo spunto dalla prima lettura del giorno (Esodo 32, 7-14). Il Pontefice ha ripercorso con grande attenzione, punto per punto, il brano biblico nel quale viene presentato un «dialogo fra Dio e Mosè» che discutono di «un problema che Mosè doveva risolvere»: il fatto cioè che il popolo di Israele si fosse costruito un vitello d’oro per adorarlo. Ha sottolineato il Papa: «Il Signore era un po’ impaziente: si è adirato contro il suo popolo e alla fine ha detto: “Ma tu stai tranquillo, questo lo risolvo io, perché il tuo popolo si è pervertito. E questo popolo è un popolo dalla dura cervice”, dice il Signore. “Ora, lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione”». Ci si trova quindi di fronte a una posizione dura del Signore che «vuole risolvere questo problema della apostasia del popolo». Francesco ha fatto notare che innanzitutto Mosè è colpito dalle «due proposte» di Dio: «Distruggerò il popolo: ma tu stai tranquillo. Di te, invece,

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farò una grande nazione». Una situazione per lui assolutamente particolare. A tale riguardo il Pontefice, per facilitare la comprensione ha suggerito un esempio tratto dalla «vita quotidiana». Può infatti accadere che «a un dirigente, a una persona che ha responsabilità in un’impresa, in un governo, in una ditta», di fronte a una situazione negativa venga prospettata la punizione per molti, e che questo immaginario dirigente accetti in cambio di qualcosa per se stesso («Ma va bene: quanto è per me?»). È, ha spiegato il Papa, la «logica della tangente», lasciar fare qualcosa pur di avere un tornaconto. Nel dialogo con Mosè, il Signore gli propone un’alternativa: «Lasciamo fare questo e a te pago con questo: ti farò capo di un grande popolo!». Utilizzando un’iperbole, Francesco ha detto: «...quasi una tangente!», per sottolineare la presa di posizione spiazzante per Mosè che, però, ha una reazione illuminante. Quest’ultimo infatti, ha evidenziato il Pontefice, «amava il Signore: dice la Bibbia che parlava faccia a faccia, come un uomo con il suo amico». E ha sottolineato quanto sia «bello sentire questo!» perché fa comprendere che egli «aveva libertà davanti al Signore». Una libertà che gli consente di «reagire»: egli infatti «supplicò» Dio, fece cioè «una preghiera di intercessione». Proprio su questo tipo di preghiera si è soffermato il Papa, consapevole che la preghiera «per gli altri, non è facile farla. E ha spiegato che a chi chiede «Per favore, preghi per me che ho questo...», non si può promettere preghiera e risolvere il tutto con «un Padre Nostro e un’Ave Maria» e poi dimenticarsi. «No: se tu dici che vai a pregare per l’altro, la preghiera di intercessione ti coinvolge, come Mosè è coinvolto con il suo popolo». Addirittura Mosè con coraggio - ma, ha detto Francesco, «ci vuole coraggio, eh? Ma la preghiera di intercessione richiede coraggio! Dire in faccia a Dio le cose...» - «rinfresca la memoria a Dio» e obbietta: «Signore, ascolta un po’: si accenderà la tua ira contro il tuo popolo... Tu, che lo hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente»; e gli dice: «Ma tu hai fatto tutto questo, e adesso distruggerai tutto quello che tu hai fatto? Ma, Signore, non va, questo!». Va innanzitutto notato come Mosè porti delle «argomentazioni». Francesco ha così sintetizzato il discorso fatto al Signore: «Pensa alla brutta figura che Tu farai: perché dovranno dire gli egiziani: “Con malizia li hai fatti uscire per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla terra?”», e ancora: «Ma tu sei il Dio della bontà e farai una brutta figura davanti agli egiziani... Eh no, Signore, questo non va!». E cerca di convincerlo. Poi insiste: «Desisti, Signore, dall’ardore della tua ira; abbandona questo proposito di fare del male al tuo popolo». Ovvero: «Non fare questa brutta figura: ricordati che sei stato tu a liberare il popolo». E, come se avesse «paura che le argomentazioni non fossero sufficienti», aggiunge: «Signore, anche ricordati: ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso, hai detto “renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo e tutta questa terra di cui ho parlato la darò ai discendenti e la possederanno per sempre”. Ricordati di questo!». Mosè, ha spiegato il Pontefice, si «appella alla memoria di Dio» e, è importante notarlo, si «coinvolge». Tanto che - è narrato in un altro passo dell’Esodo (32, 32) - dice: «E alla fine, Signore, se Tu vuoi cancellare questo popolo dalla terra, cancella anche me». Proprio questa è la caratteristica della «preghiera di intercessione: una preghiera che argomenta», che ha il coraggio di dire le cose «in faccia al Signore»; una preghiera che è «paziente». Infatti, ha aggiunto il Papa, «ci vuole pazienza: noi non possiamo promettere a qualcuno di pregare per lui e poi finire la cosa con un Padre Nostro e un’Ave Maria e andarcene. No. Se tu dici di pregare per un altro, devi andare per questa strada. E ci vuole pazienza». Si tratta della «stessa pazienza della cananea»: la donna può infatti anche «sentirsi insultata da Gesù», ma «va avanti, lei vuole arrivare a quello e va avanti». Ed è la stessa pazienza insistente della donna che «che andava dal giudice iniquo e un giorno il giudice si stancò e disse: “Ma a me non importa niente di Dio né degli uomini, ma per togliermi questa sì, farò la cosa”, e ha vinto, ha vinto la vedova». Ci vuole, ha concluso Francesco aggiungendo un altro esempio, «la costanza. La pazienza di andare avanti. La pazienza di quel cieco all’uscita di Gerico: gridava e gridava e gridava, e volevano farlo tacere... Ma gridava! E alla fine, il Signore lo ha sentito e lo ha fatto venire». Quindi, riassumendo, «per la preghiera di intercessione ci vogliono due cose: coraggio, cioè parresìa, coraggio, e pazienza. Se io voglio che il Signore ascolti qualcosa che gli chiedo, devo andare, e andare, e andare, bussare alla porta, e busso al cuore di Dio», e farlo «perché il mio cuore è coinvolto con quello! Ma se il mio cuore non si coinvolge con quel bisogno, con quella persona per la quale devo pregare, non sarà capace neppure del

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coraggio e della pazienza». Naturalmente, ha continuato Francesco, è necessario avere una «grande libertà», come quella che si permette Mosè. Tant’è che si potrebbe pensare: «Ma, Mosè è stato maleducato» nel rifiutare la proposta di Dio. Mosè invece, pur rispettando Dio, non viene meno al «suo amore al popolo. E questo piace a Dio». Accade allora che «quando Dio vede un’anima, una persona che prega e prega e prega per qualcosa, Lui si commuove» e «concede la grazia». Da tutto questo scaturisce il consiglio per ogni cristiano che si trova in una situazione simile. Sarebbe bene domandarsi: «Quando a me chiedono di aiutare con la preghiera a risolvere un problema, una situazione difficile, un dolore in una famiglia, io mi coinvolgo con quello?». Perché se non si è capaci di coinvolgersi, è meglio dire «la verità» e confessare: «Non posso pregare: dirò soltanto un Padre Nostro». Se invece ci si impegna e si dice «io pregherò», ha suggerito il Pontefice, la «strada della preghiera di intercessione» è ben chiara: «coinvolgiti; lotta; vai avanti; digiuna; pensa a Davide, quando il bambino si ammalò: digiuno, preghiera per ottenere la grazia della guarigione del bambino. Ha lottato con Dio. Non ha potuto vincere, ma il suo cuore era tranquillo: ha giocato la propria vita per il figlio». Occorre perciò, ha concluso il Papa, chiedere al Signore «la grazia di pregare davanti a Dio con libertà, come figli; di pregare con insistenza, di pregare con pazienza. Ma soprattutto, pregare sapendo che io parlo con mio Padre, e mio Padre mi ascolterà». AVVENIRE Pag 11 Senegal, un sentiero per due fedi di Giorgio Agnisola Nel paese africano, dove la miseria è angosciante, islam e cattolicesimo convivono seguendo il motto della “religione dell’unità” I musulmani sono il 90% della popolazione, i cattolici meno del 10%. Eppure in Senegal le due confessioni non coabitano ma convivono. «La nostra è la religione dell’unità» dice padre Paul Marie Mandika nell’omonimo documentario di Nicola Tranquillo dell’associazione Formazione Solidale. Nella stesso nucleo familiare vi sono islamici e cattolici e tra loro c’è rispetto e spesso gli uni sono presenti alle manifestazioni religiose degli altri. La scelta confessionale è propiziata dalle circostanze, ma sovente è il genitore che pone la domanda, lascia la libertà di decidere. Ciò è conseguenza del modo di vivere sociale e delle tradizioni e della sensibilità comune della gente e altresì della storia recente del Paese, segnata a fondo da Léopold Sédar Senghor, grande poeta e primo presidente del Senegal indipendente, cattolico in un Paese musulmano. Bello e povero (il suo emblema è il baobab, albero secolare e vero spettacolo della natura africana), il Senegal è terra di pace e di dolore. Qui, nell’isola di Gorée, patrimonio dell’umanità, fino al 1848 sono stati ammassati per tre secoli milioni di neri, strappati alle terre d’origine per essere trasportati da schiavi nelle Americhe. Visitare La Maison des Esclaves è entrare in un museo dell’orrore: piccoli ambienti a volte senza aperture, in cui povera gente veniva divisa per età, sesso e persino per peso, segregata e torturata, collocata in centinaia in uno stesso vano per giorni, per settimane, per mesi, prima di essere imbarcata per un viaggio senza ritorno, passando per un angusto corridoio affacciato alla scogliera atlantica. Il popolo senegalese possiede uno spirito sapienziale; è mite, accogliente, ma la miseria, nonostante i progressi compiuti dal Paese negli ultimi anni, è talora disarmante. La capitale, Dakar, è una metropoli bella e caotica, ma nel cuore dei villaggi dove scarseggia l’acqua, aperti alla campagna rossa e arsa, ti imbatti di frequente in frotte di bambini abbandonati a se stessi, scalzi, laceri, in cerca di elemosina. Sono i Talibé, creature di cui spesso neppure si conoscono nome, data di nascita, provenienza. Vengono affidati ai Marabout, autoproclamati santoni che promettono di assumersi la loro cura educativa. In realtà il più delle volte i bambini sono ridotti all’accattonaggio. Per essi è sorto il centro Les enfants d’Ornelle a una quarantina di chilometri dalla capitale. «Per aiutarli, per salvarli bisogna lottare con le complessità del tessuto sociale, intervenire senza prevaricare, rispettare gli usi locali – dice Severino Properzio, italiano, fondatore del centro –. E non bastano l’aiuto economico e l’intervento umanitario. Bisogna promuovere in prospettiva iniziative di riscatto sociale: corsi di recupero e di formazione, per avviarli all’acquisizione di abilità e competenze». Pure la miseria, come è spesso nel continente nero, si accompagna ad una grande serenità, alla gioia del vivere quotidiano, alla cordialità, all’amicizia. In questo clima il dialogo

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interreligioso è profondo, concreto, vitale. Spesso i cimiteri sono comuni, come quello di Joal Fadiouth. Su di un isolotto quasi interamente ricoperto di conchiglie, nella luce indimenticabile dei tramonti afri- cani, brillano le croci dei cristiani e le mezzelune delle tombe musulmane, unite nel comune viaggio verso l’infinito. Sempre a Joal Fadiouth si trova uno dei santuari cattolici più importanti del Paese, la chiesa di Saint François Xavier. La messa è una festa di colori e di suoni, di cori e di invocazioni. Durante la processione cattolica che da molti anni in primavera porta al santuario della Madonna nera di Popenguine, migliaia di fedeli provenienti da Dakar e da vari centri del territorio, attraversando a piedi lungo la costa decine e decine di villaggi battuti dal vento, all’altezza di Toubab Dialaw li accoglie Assane ’Ndiaye, musulmano: «I primi anni giungevano in pochi, stanchi e affamati – racconta l’anziano –. Dissi alla mia famiglia di accoglierli e di preparare loro da mangiare e da bere. Poi i pellegrini crebbero in numero. Allora pregai altre famiglie del villaggio di unirsi a me e di partecipare alla festa per i nostri ospiti. Nessuno ha messo mai in discussione la mia iniziativa. Oggi i pellegrini sono migliaia. Per noi sono fratelli e noi li accogliamo come fossero la mia famiglia. Quando senti la stanchezza, che tu sia cattolico o musulmano, hai bisogno di aiuto. Ciascuno non può che augurare all’altro la pace». Accade così anche nelle altre feste del Paese. Come in quella del Sacrificio di Abramo, la festa musulmana del Tabaski. Vi partecipano anche i cattolici e quello che c’è da mangiare è per tutti. «Noi siamo per la religione dell’unità» è scritto nuovamente sulle pareti del cattolico Collége de la petite côte a Joal Fadiouth; sul muro di cinta sono rappresentati i simboli delle tre religioni monoteiste. Anche nelle confraternite sincretiste, come quella di Layene, di fede musulmana sufi, fondata da Sedyna Limamou Laye, prevale non la riassunzione dei credi, ma la loro coabitazione basata sulla comune umanità. Le scuole, infine, sono miste. Quelle cattoliche sono in gran parte frequentate da bambini musulmani. «Siamo sereni nell’accoglienza e nella formazione. Per noi sono bambini e basta – dice Bernadette Madi, direttrice della scuola elementare di Popenguine –. Il lunedì facciamo Educazione morale, lavoriamo su principi comuni e universali, solo nei giorni successivi si diversificano le preghiere, ma il cammino educativo è lo stesso. Come è giusto che sia». Alto, asciutto, tunica bianca e copricapo senegalese di lana bianca e nera, il passo sicuro nonostante gli 84 anni, Jacques Seck, già parroco della cattedrale di Dakar, è il principale sostenitore del dialogo interreligioso nel Paese. Figura carismatica, uomo di grande umanità e accoglienza, costituisce il punto di riferimento per gli stessi musulmani che credono in una fede vissuta nel calore della convivialità: «Nella VII sura il Corano afferma che Dio non ha dato agli uomini una sola confessione – dice l’anziano prete, formatosi in Italia presso i gesuiti della Gregoriana –, ma ha voluto dare il dono del pluralismo delle confessioni, e cioè del confronto, nel senso positivo della parola. E nel Vangelo è scritto “Siate uno”, con un significato non solo attuativo del messaggio di amore, ma anche con un valore profetico. Perché Dio abbia voluto così non sappiamo. Ce lo dirò alla fine dei tempi. Ma il senso che deriva da questa suo volere credo risieda nella infinita circolarità dell’amore, che se non è dinamismo e compartecipazione al mistero divino non è amore». Su cosa fonda il dialogo? «Sulla comune umanità, sulla religione del cuore. Noi siamo innanzitutto uomini. Importante non è la religione, la razza, l’etnia ma l’umanità. Dio crea l’essere umano a sua immagine e somiglianza, questo è l’importante. Ed è importante per tutti gli uomini. La religione è un bonus, ciò che conta è l’umanità. Tutti gli uomini sono miei fratelli. Sei un musulmano? Continua per la tua strada. Sei un cristiano? Prosegui senza timore. Il fine è l’unità, nel suo nome, dei popoli e delle comunità. Del resto solo sul cuore, sull’amore, si può fondare una autentica fede. Essere una famiglia, essere comunità è più importante della stessa fede, anzi è l’espressione stessa della fede». Come esercitare dunque il pluralismo confessionale? «Dio ha voluto che rivaleggiassimo nelle buone opere. Le porte sono diverse, ma aprono ad uno stesso cielo». Come si esplicano la tolleranza e la condivisione? «Innanzitutto rispettando e coltivando la differenza. Sarebbe un errore pensare alle omologazioni. Rispettare significa accogliere. L’evangelizzazione è spesso confusa con il

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proselitismo. Il vero proselitismo è nella speranza, nella testimonianza, è farsi piccolo nella propria identità e grande nell’accoglienza. Non si può imporre ad un figlio o ad un fratello che si sente immesso nella fede islamica di non andare in moschea, anzi bisogna dirgli di andare in moschea, perché ciò che conta è unirsi a Dio, è trovare la pace in lui. Solo così ne deriverà una pace tra gli uomini. Del resto Gesù è morto per tutti gli uomini, per quelli che lo conoscono e per quelli che non l’hanno conosciuto. Tutti gli uomini beneficeranno del suo cammino di salvezza. Più siamo aperti a riconoscere le differenze più siamo in cammino verso di Lui». Come interpreta dunque attentati e guerre in nome della religione? «Gli islamici che lanciano bombe contro i fratelli non sono tali. E i cristiani che fanno altrettanto, magari in nome di una legittima rivalsa, non sono cristiani. La vera fede non può che testimoniare la pace». LA REPUBBLICA Pag 49 Il Vangelo dalla parte della Maddalena di Vito Mancuso La simpatia del cardinal Martini per Maria Maddalena appare evidente dalla prima all'ultima parola degli esercizi spirituali da lui tenuti in Israele tra la fine del 2006 e l'inizio del 2007, come evidente è la sua simpatia per le consacrate dell'Ordo Virginum della diocesi di Milano per le quali aveva preparato gli esercizi e alle quali diceva: «Vi riconosco nella vostra bellezza interiore ed esteriore, perché quando l'anima rimane nella sua costante proposta di servizio a Dio, rimane bella e questa bellezza si diffonde». Io penso sia proprio così, e penso che Martini sia stato a sua volta un esempio di questa misteriosa connessione tra etica ed estetica avvertita già dagli antichi greci con l'ideale della kalokagathía, perché il morbo di Parkinson contro cui già allora combatteva, e che l'avrebbe portato alla morte il 31 agosto 2012, non giunse mai a privarlo della sua originaria e nobile bellezza. Cosa siano gli esercizi spirituali lo spiega lo stesso Martini dicendo che non sono un corso di aggiornamento, né una lettura spirituale della Bibbia, né un'occasione di preghiera; sono invece "un ministero dello Spirito Santo", nel senso che "è lo Spirito Santo che parla al mio cuore per dirmi ciò che vuole da me adesso". Gli esercizi spirituali sono quindi un tempo di ascolto e di raccoglimento per capire la propria situazione qui e ora, e come tali prevedono «un silenzio assoluto a tavola e anche negli altri momenti», perché, avverte Martini, «soltanto una parola detta qua e là disturba tutti». Maria Maddalena è «il segno dell'eccesso cristiano, il segno dell' andare al di là del limite, il segno del superamento»: nell'eccedere della sua vita travagliata ma sempre dominata dall'amore, si dà per Martini la chiave privilegiata per «essere introdotti nel cuore di Dio». Il cuore di Dio. Mediante la storia della Maddalena, Martini giunge a parlare di Dio, e parlando di Dio giunge a illuminare la logica e il ritmo dell'essere, cogliendo nell'amore il suo segreto più profondo: «Dio è tutto dono, è tutto al di là del dovuto e questo è il segreto della vita». Individuare "il cuore di Dio" significa quindi per Martini individuare "il segreto della vita". In questa prospettiva egli illumina magistralmente il paradosso dell'esistenza segnalando la dinamica profonda secondo cui ci si compie superandosi, ci si arricchisce svuotandosi, si raggiunge l'equilibrio perdendolo. È la pazzia evangelica. La quale però, in quanto verità dell'essere, è universale, e quindi è avvertita anche al di là del cristianesimo, per esempio già da Platone che coglieva la medesima logica di eccedenza scrivendo che «la mania che proviene da un dio è migliore dell'assennatezza che proviene dagli uomini» (Fedro 244 d). Maniaca in senso platonico, la Maddalena è definita da Martini "amante estatica", cioè letteralmente "fuori di sé" e in questo modo è indicata quale via privilegiata per accedere al cuore di Dio. Per lui è infatti evidente che «non può comprendere Dio chi cerca solo ragioni logiche», mentre lo può comprendere «chi vive qualche gesto di uscita da sé, di dedizione al di fuori di sé, al di fuori del dovuto», perché Dio, simbolo concreto del mistero dell'essere, "è uscita da sé", "dono di sé". In questa prospettiva la Maddalena, perfetta esemplificazione della logica evangelica, fa capire che "solo l'eccesso salva". Per "eccesso" Martini intende "uno squilibrio dell'esistenza". E proprio questo è il punto: che la vita si alimenta di tale squilibrio. Il nostro universo non viene forse da un eccesso, cioè dalla rottura di simmetria all'origine del Big Bang? E la vita non è a sua volta squilibrio, essendo la morte, come disse Erwin Schrödinger nelle lezioni al Trinity College di Dublino, "equilibrio termico"? E cosa sono l'innamoramento e le

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passioni di cui si nutre la nostra psiche, se non, a loro volta, squilibrio? Afferma Martini: «Quando definisco me stesso, mi definisco di fronte al mistero di Dio e mi definisco come qualcuno che è destinato a trovarsi nel dono di sé e tutto questo si dà perché Dio è dono di sé». Prosegue dicendo che molti non capiscono Dio perché non lo collegano a questa dinamica di uscita da sé, visto che «soltanto quando accettiamo di entrare in questa dinamica della perdita, del dare in perdita, possiamo metterci in sintonia con il mistero di Dio». In questa prospettiva Martini giunge a parlare di Dio secondo una teologia della natura che avrebbe fatto felice il confratello gesuita Pierre Teilhard de Chardin, riferendosi a «quella forza che potremmo dire trascendente, perché è in tutta la natura fisica, morale, spirituale ed è la forza che tiene insieme il mondo... la forza che si può concepire come una lotta continua contro l'entropia e il raffreddamento». Anche il voto di verginità delle consacrate alle quali rivolgeva i suoi esercizi appare a Martini un segno di quell'eccesso di amore che fa sì che nel mondo non vi sia solo la forza di gravità che tira verso il basso, ma anche «una forza che tira verso l'alto, verso la trasparenza, la complessità e anche verso una comprensione profonda di sé e degli altri fino ad arrivare a quella trasparenza che è la rivelazione di ciò che saremo». Ovvero, conclude Martini, "la vita eterna". IL GIORNALE Record: un film sulla Maddalena senza (quasi) una parola di Gesù di Luca Doninelli L'opera di Garth Davis con le star Mara-Phoenix vivacchia in zona Dan Brown. Nessun afflato metafisico. Solo cliché La parola «apocrifo» serve di solito a indicare uno scritto la cui origine è oscura e incerta. Oscura non solo nel senso del suo autore, ma nella difficoltà a riferire il suo contenuto a qualcosa di storicamente verificabile. Per me, apocrifi sono tutti i testi che trattano la storia senza prospettiva, che attribuiscono a figure storiche pensieri e concezioni tipiche, per esempio, del tempo corrente. Il cinema ci ha già presentato un Achille belloccio, un'Elena top model e tutta una galleria di fakes alla quale ci siamo assuefatti al punto che potremmo definire apocrifa tout court l'epoca in cui viviamo. Oggi la chiamano post-verità, o fake news. Il film Maria Maddalena di Garth Davis uscita ieri nelle sale, con un certo rimbombo mediatico, è un prodotto di questo tipo. L'intento dichiarato è quello di rivalutare una figura che in realtà la Chiesa ha rivalutato già da molto tempo ma che, nella vulgata, mantiene talvolta i contorni di un personaggio volgare, e a nulla serve che il Vangelo la ponga tra i primissimi testimoni della Resurrezione. In realtà, il culto popolare della Maddalena è molto antico. La donna viene identificata (senza che vi siano riscontri certi) come la prostituta che unge di profumo i piedi di Gesù, perciò l'iconografia la rappresenta sempre con i capelli sciolti sulle spalle. Ricordo che, al mio paese, negli anni Sessanta, le ragazze un po' disinvolte venivano spesso ribattezzate «maddalene» (che sarebbe come dire svergognate). Ben venga perciò un po' di giustizia per questa figura di santa. A patto però che non si usi la storia come una tavola a fumetti da riempire con le parole che ci piacciono di più. Quella che vediamo sullo schermo è una Maddalena femminista (nulla in contrario, ce ne fossero di più...) che, destinata al matrimonio, si ribella e, incontrato Gesù, lo segue per diventare suo apostolo o meglio suo alter ego, prendendo pressappoco il posto di Giovanni Evangelista, di cui il film non reca tracce. Siamo insomma in area Dan Brown. Qui di religioso c'è ben poco, ma questo ci può stare. Assistiamo piuttosto a una celebrazione del mondo femminile, tanto sensibile, dolce, fragile e insieme energico contrapposto, come vuole il cliché, a un mondo maschile violento, possessivo, oppure un po' ottuso, anche quando schietto. In mezzo a questi due mondi Gesù appare come una sorta di mediatore, secondo il filone gnostico: in lui convergono l'uomo e la donna. Lei è bella anche se non seducente (Rooney Mara), lui (Joaquin Phoenix) è un Gesù un po' vecchiotto e spesso imbelle, con qualche fiammata che subito si spegne. Qui tra attore e regista qualcosa non deve aver funzionato. Gesù non parla quasi mai: meglio, perché quando parla dice frasi vuote, paroloni. Qui la debolezza del film è palese: lo sceneggiatore non è riuscito a salvare, a parte il Padre Nostro, nemmeno una delle parole dette da Gesù e riportate nei Vangeli. Gesù è un ingombro, un fastidio, qualcosa di cui il regista si sarebbe sbarazzato volentieri. E mi spiace molto per Phoenix. Ecco la

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conversazione più bella del film. Gesù si è ritirato in solitudine a pregare (o a «parlare con gli angeli», come dice Giuda nel film), Maria lo raggiunge. Gesù: «A volte è come se io non fossi qui». Maria Maddalena: «Si prova questo quando si è uniti a Dio?». Gesù: «Nessuno mi ha mai chiesto cosa si provi». Su questo punto sono d'accordo con Gesù: nessuno (per fortuna) gli ha mai chiesto che emozioni si provano a stare uniti a Dio. Questa identificazione del modo femminile con la fake news dell'emozione, del «cosa si prova», è in effetti qualcosa a cui le donne dovrebbero ribellarsi con tutte le loro forze, un recinto ideologico rispetto al quale il vecchio «io sono mia» è Shakespeare. Resta infine il problema dei problemi: che non si capisce, dalla prima all'ultima inquadratura, cos'abbia di interessante, quale attrattiva eserciti questo Gesù che Phoenix ha accettato - sbagliando - di interpretare. Solo un colpo al cuore, capace di passare dallo schermo alla sala, può ottenere quella sospensione dell'incredulità cui il pubblico pagante ha diritto. Se manca la fascinazione a che serve mai un film? A «far passare» questo o quel discorso? Dio mio, ma non abbiamo già i politici per questo? Non abbiamo già Fabio Fazio? IL FOGLIO Pag 1 Corte papale di Matteo Matzuzzi La reazione al pasticcio della lettera di B-XVI dà’ l’idea di un Vaticano ridotto a fortino assediato Roma. Francesco le corti non le ama, dice di non tollerare i pappagalli e men che meno i pavoni che svolazzando attorno alla sua persona sperano di entrare nelle sue grazie e di ottenere così qualche incarico, magari una croce pettorale da esibire o un posticino in qualche ufficio pubblicando libercoli su periferie e povertà, rilasciando interviste su ospedali da campo e uscite in missione. Forse non le ama perché sa che possono creare solo danni, a lui e alla chiesa. E' un po' sempre accaduto così, dopotutto: cortigiani più o meno autorizzati si sono presentati come portavoce del Papa, interpreti non autorizzati del pensiero del vicario di Cristo. Sia che si dovesse decidere la qualità dell'ermellino sintetico da applicare al cappellino da imporre sul capo del povero Pontefice, sia che si tratti ora di mazzolare per bene i dissenzienti veri o immaginari sui social network. O, magari, di lodare giustamente il quinquennio di Francesco rimproverando i soliti tradizionalisti che non rispettano né la chiesa né il Papa e al contempo irridendo con buona dose di veleno altri cardinali - vedasi il recente commento del professor Alberto Melloni su Repubblica di qualche giorno fa. Il caso della lettera di Benedetto XVI inviata al prefetto della segreteria per le Comunicazioni, mons. Dario Viganò è emblematico di quanto lo zelo possa trasformarsi in un pasticcio che nessuno - al di là del Tevere - sa più come controllare. Non si è trattato solo di rammendare il messaggio del Papa emerito, emendandolo qua e là perché si riteneva improprio far sapere tramite comunicato stampa che Joseph Ratzinger non aveva alcuna intenzione di leggere, neanche "in un prossimo futuro", gli "undici volumetti" (così nel paragrafo "incriminato") sulla teologia del successore, ma si è anche pensato di oscurare con un banale effetto grafico quel passaggio della lettera dalla foto diffusa ai media. Se si fosse divulgato il tutto come peraltro aveva fatto già mons. Viganò leggendo la lettera integrale, il caso non sarebbe scoppiato. Ma l'operazione ha avuto il classico effetto boomerang. Il fronte complottardo non aspettava altro: ecco la prova che la nuova gestione vaticana prima chiede a Benedetto XVI di legittimare teologicamente il successore con una "breve e densa pagina teologica" e poi - essendosi sentita rispondere picche - sbianchetta (verbo usato dalla Stampa di ieri, non certo da un sito sedevacantista) la parte poco gradita del messaggio ratzingeriano. La slavina era assicurata e davanti a ipotesi scombiccherate e assurde sulla presunta inautenticità del messaggio inviato dal monastero del Papa emerito - come se Benedetto XVI non fosse in grado di usare l'aggettivo "stolto" -, si è scelto di percorrere la strada della minimizzazione: che volete che sia, non era utile stampare sui comunicati l'integrale della lettera. Bastava la prima parte elogiativa. Però l'Associated Press - che è autorevole e non ha bisogno di troppe genuflessioni finalizzate a qualche captatio benevolentiae -ha tirato in ballo l'etica giornalistica, domandandosi se sia normale manipolare una foto da inviare agli operatori dei media senza che poi accada nulla, che non vi siano conseguenze di sorta. Le reazioni degli autoproclamatisi portavoce vaticani anziché far calmare le acque altro non hanno fatto che portare acqua

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al mulino di quanti vanno predicando l' im magine del Vaticano ridotto a fortino sempre più assediato. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO IL GAZZETTINO Pag 1 La Vigilanza della Bce salva le banche non le imprese di Osvaldo De Paolini L'impatto sulle banche dell'Addendum Bce, il documento che detta le aspettative della Vigilanza sulla svalutazione delle sofferenze, sarà «modesto e gestibile», ha precisato Sharon Donnery, vice governatore della Banca d'Irlanda. Una dichiarazione rassicurante, se si considerano i timori della vigilia. E tuttavia, poiché la Donnery guida la task force Bce sugli Npl, la sua valutazione è sembrata più ispirata al ruolo che a una situazione realistica. Invece, per una volta la valutazione era oggettiva: non a caso il presidente dell'Europarlamento, Antonio Tajani, ha subito parlato di vittoria della politica sulla burocrazia. Effettivamente, del capitolo più temuto dalle banche italiane, che probabilmente avrebbe messo in ginocchio il 70% del sistema, non vi è traccia nell'Addendum Bce : le nuove regole per lo smaltimento degli Npl non riguardano cioè lo stock, vale a dire le sofferenze che attualmente figurano nei bilanci delle aziende di credito, ma solo quelle che si formeranno a partire dall'aprile di quest'anno. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VIII Ex monastero, proposta ai “Trecento Campi” di Fulvio Fenzo La storico società di Carpenedo discuterà sull’immobile religioso Mestre. La questione dell'ex monastero di Carpenedo messo in vendita finisce sul tavolo della Società dei 300 Campi. E intanto nel quartiere c'è chi teme che il complesso possa diventare un centro per richiedenti asilo. Come anticipato nei giorni scorsi, il mandatario dell'Ordine delle Serve di Maria Addolorata-Eremitane Scalze per conto del Vaticano ha fissato il prezzo a 3 milioni di euro per l'edificio religioso: complessivamente quasi 18mila metri cubi e un parco immenso nel pieno centro di Carpenedo. «Pare che nessuno si sia fatto ancora avanti, ma c'è fra la gente di Carpenedo la crescente preoccupazione sul destino dell'area» commenta don Gianni Antoniazzi, parroco della chiesa dei santi Gervasio e Protasio, nonché ispettore della Società dei 300 Campi che è una delle testimonianze più antiche della comunità: il primo atto che la riguarda risale al novembre del 1326, quando il vescovo di Treviso - dal quale dipendeva anche Mestre - concesse l'investitura del Bosco a favore degli abitanti del Colmello di Carpenedo. Da allora la Società - laica e indipendente dal Patriarcato di Venezia - ha gestito un numero consistente di terreni del quartiere che, nonostante la crisi, continuano a valere oro. E prosegue don Antoniazzi: «Molti si sono mossi esprimendo moderata attenzione e parecchie perplessità circa il ruolo della Sovrintendenza. Qualcuno ha iniziato anche a fare passi più decisi: il Consiglio della 300 Campi ha ricevuto una lettera con l'invito a riflettere su quest'area. La Società vanta 700 anni di storia e gode di assoluta stabilità. Il Consiglio, equilibrato, esprimerà il proprio orientamento con libertà». La riunione del direttivo dei 300 Campi è fissata per mercoledì prossimo e, per ora, non trapela nulla sui contenuti di quella lettera il cui mittente sarebbe molto influente. «Di certo - scrive don Gianni sul prossimo bollettino Lettera aperta - vogliamo testimoniare l'umore della gente di Carpenedo. C'è preoccupazione che l'area abbia solo fini speculativi a scapito della vita di Carpenedo. C'è il timore che il monastero possa restare per molti anni uno scheletro al centro del quartiere, mentre altri si chiedono se davvero ci sia stato un qualche progetto per un luogo di richiedenti asilo. E gli stessi Servi di Maria, al momento, non possono proporre

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una vendita senza prima aver sanato alcune questioni amministrative sullo stato dei beni presenti nell'area». Pag XVII Cerimonia in casa di riposo per ricordare suor Armanda di L.Gia. Il ricordo di Suor Armanda, religiosa molto amata a Oriago e per diversi anni direttrice della scuola San Domenico Savio, si terrà nella residenza dedicata a lei e ad Adele Zara, Giusta delle Nazioni. Domani, sabato, alle 10, nel salone della casa di riposo di Mira Porte si terrà la premiazione del concorso letterario Due grandi donne per un piccolo paese, che ha impegnato centinaia di ragazzi delle medie di Mira e Oriago. All'incontro interverrà Paolo Dalla Bella, presidente della cooperativa che gestisce la struttura. A seguire don Cristiano Bobbo, parroco di Oriago, benedirà le formelle realizzate dallo scultore Franco Murer. Nel corso della cerimonia interverranno anche l'ex sindaco Michele Carpinetti, l'attuale sindaco Marco Dori, l'assessore al Sociale Chiara Poppi e il presidente dell'associazione Suor Armanda, Ugo Semenzato. Alle 20.30, nella chiesa di S. Maria Maddalena a Oriago, si terrà il Concerto per un'amica che vive, dedicato a suor Armanda e organizzato dall'omonima associazione in collaborazione con l'Upstream-musica ensamble. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST LA NUOVA Pag 1 Autonomia, l’impulso dal Veneto di Mario Bertolissi Raggiunto un risultato, non certo mediocre, quale è la pre-intesa con lo Stato, la Regione Veneto - sintesi tra ente e comunità di elettori - non deve trascurare lasciti enormi di cultura istituzionale, cui attingere per districarsi tra i problemi, che dovrà affrontare con il nuovo Governo. Che sarà, comunque, nuovo. È vero che la storia, il più delle volte, non è affatto maestra. Tuttavia, è bene che lo sia proprio in questo caso, il quale, se darà buoni frutti, rappresenterà un evento unico nel suo genere, perché, da quando è entrata in vigore la Costituzione, un territorio non è mai riuscito nell'impresa di dare impulso al rinnovamento del Paese. Certo, molti riterranno queste idee frutto di un'utopia. Ma sono state proprio l'assenza di utopie, la prevalenza di interessi biecamente di parte e la rinuncia al sapere, che nasce dall'esperienza, a ridurre un proposito astrattamente serio in un risultato più che mai mediocre in concreto. Ciò di cui si deve essere consapevoli, infatti, è che la politica velleitaria, dedita al compromesso, cede; si dimostra, comunque, impotente, quando ignora le dinamiche carsiche del potere; è destinata a fallire se trascura che il comando effettivo tende a rimanere nelle mani dei "Burocrati di Stato. Mandarini. Boiardi... che comanderanno con qualsiasi governo" (come ha scritto Emiliano Fittipaldi, su L'Espresso di domenica, 4 marzo 2018, 31). Tuttavia, può essere che la previsione di un futuro non proprio radioso convinca, anche i più recalcitranti, a un cambio di prospettiva: che consiste, in estrema sintesi, in una valutazione prognostica, circa quel che potrà accadere all'intero Paese, se non si porrà rimedio a rendite di posizione intollerabili; al parassitismo; a una insufficienza così diffusa, da rendere scarsamente concorrenti persone, famiglie, imprese, territori. Su tutto, grava un'ipoteca: un sistema giuridico-istituzionale, che opprime le coscienze e inibisce la libertà, quale categoria dello spirito. Da quando sono riuscito a liberarmi - consigliato dall'insegnamento di Salvatore Satta - di tutti "i trucioli di cui mi hanno imbottito il cranio" i giureconsulti, mi sono reso conto che quel che si fa è condizionato da quel che si pensa; e quel che si pensa reca in sé l'impronta di una tradizione, di cui non si riesce a liberarsi. Nonostante tutto, anche oggi prevale l'ottica del potere, che si fa comando impersonale, imperativo, che non si risolve, mai o quasi mai, in funzione. In decisioni, che hanno di mira quello che si definisce - comunemente, con il linguaggio cristiano e caritatevole - il prossimo. All'apparenza, tutto questo è ovvietà. Al pari di questo pensiero di Niccolò Machiavelli: "Se li tempi e le cose si mutano, (il Principe) rovina, perché non muta modo di procedere". Per l'ennesima volta - ricordate che fine ha fatto il cosiddetto federalismo? -, le istanze dei territori saranno risucchiate nel

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vortice dell'agire giuridico formale e dalla logica distruttiva - perché fine a se stessa - del diritto speciale dei soggetti pubblici: dal diritto amministrativo. Competenze, procedure, procedimenti, atti presupposti e atti consequenziali, istruttorie, pareri... In poche parole, un insieme infinito, senza tempo e fuori dal tempo, di sequenze, che Alessandro Manzoni definiva "proposizioni in aria", destinate a minare in radice il più rigoroso dei proponimenti. Ma, da qualche parte, si deve pur cominciare. Non dal tutto, ma da una sua parte, "provando e riprovando", secondo l'ottica baconiana. Che coincide con il buon senso; col procedere per gradi, misurando le proprie forze, oltre che le altrui; avendo in mente la realtà e non le chimere. E ben ficcato in testa un limpido, inossidabile e vincente motto di Henry Ford: "Mettersi insieme è un inizio, rimanere insieme è un progresso, lavorare insieme è un successo". Questa è la declinazione corretta del principio costituzionale di leale collaborazione, necessaria per ridare vigore - dal Veneto, se si è intellettualmente onesti - a un'Italia ricca di energie, mutilate dalla rassegnazione. Pag 11 Il trionfo della Lega, il boom a Nordest “divora” Forza Italia di Francesco Jori Nella regione guidata da Zaia il miglior risultato di Salvini. Il M5S invece arretra dell’1 per cento rispetto al 2013 "E in Lega ci mettiamo...". Un secolo dopo, il vecchio canto delle mondine padane nato a cavallo tra Ottocento e Novecento trasloca dall'area socialista a quella salviniana, e trova a Nordest il suo epicentro. L'approfondimento di Demos (l'istituto di ricerca guidato da Ilvo Diamanti) sui risultati elettorali del 4 marzo propone una vera e propria marcia trionfale del Carroccio nelle regioni nord-orientali, col Veneto trainante: qui la Lega ottiene il suo miglior esito, anche rispetto al Nordovest a trazione lombarda, con il 29,3 per cento contro il 25,7 del comparto nord-occidentale; e pure il maggior incremento percentuale rispetto alle politiche del 2013 (più 20,4, contro un più 16,2). Da rimarcare anche il dato significativo ottenuto nell'ex zona rossa (18,4%) e nel centro-sud (13,2). Speculare alla marea verde è il riflusso azzurro: Forza Italia porta a casa il suo risultato peggiore proprio a Nordest, con il 10,1 per cento, pari all'esito fornito dall'ex zona rossa, e un calo del 7,4%. Un tonfo clamoroso, se si tiene conto che questa è la patria politica del plenipotenziario azzurro Niccolò Ghedini (non a caso contestato dalla base forzista dopo i magri risultati elettorali), e di quel Renato Brunetta che alla vigilia proclamava sfracelli e si autoassegnava l'incarico di ministro dell'economia. E' grazie al Carroccio (in piccola quota-parte anche al buon andamento di Fratelli d'Italia) che il centrodestra ha nel Nordest la sua roccaforte principale, con il 44,7% e un incremento di quasi 16 punti percentuali sul 2013, sopravanzando sia pure di qualche decimale il Nordovest, e collocandosi 7 punti al di sopra della media nazionale. Nel complesso nazionale, la Lega sorpassa Forza Italia grazie a un aumento di oltre 13 punti, mentre i forzisti ne perdono più di 7.Sul versante opposto, il Pd a Nordest mantiene mestamente il ruolo di parente povero, rimanendo sotto il 17% , quattro punti in meno rispetto al Nordovest e due punti al di sotto della media nazionale, con un calo del 4,5% rispetto al già deludente 2013; solo sud e isole riescono a far peggio. Un ulteriore calo che va a scapito anche della coalizione: il centrosinistra a Nordest arriva al 21 per cento, anche qui quattro punti in meno del confinante Nordovest. E per rimanere a sinistra, Liberi e Uguali si allinea alla scarna media nazionale del 3%: fa meglio solo l'ex zona rossa, che sale sopra il 4.Gli altri vincitori delle elezioni assieme alla Lega, e cioè i 5Stelle, vanno in controtendenza proprio a Nordest, la sola area in cui perdono voti, sia pure di poco: il calo sul 2013 è dell'1% (più o meno come il Nordovest, dove c'è un sia pur leggerissimo incremento), ma è vistosa la distanza dalla media nazionale, che si attesta sui nove punti, e che è trainata da sud e isole, dove la crescita sfiora addirittura il 47%. Rimane saldamente ai grillini la posizione del partito più votato in Italia, con il 32,7%, seguito dal Pd con il 18,7, dalla Lega con il 17,4 e da Forza Italia con il 14; i soli quattro con una percentuale a doppia cifra. La mappa elettorale nazionale vede prevalere i 5Stelle in ben 143 collegi uninominali; seguono la Lega con 57 e il Pd con 28. Nel quadro generale del voto, colpisce in particolare il vero e proprio terremoto che ha devastato la proverbiale zona rossa del centro Italia, tra Emilia, Toscana, Umbria e Marche: guardando ai collegi uninominali, il centrosinistra risulta vincente solo in 16, rispetto ai 36 del 2013; il

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centrodestra sale da 1 solo a ben 19; i 5Stelle da 3 a 5.Un'ultima annotazione interessante che risulta dall'analisi di Demos riguarda il bacino socio-professionale dell'elettorato dei due partiti vincitori, dal quale emergono alcune novità rilevanti, peraltro riferite a prima del 4 marzo, quando si misuravano le intenzioni di voto: da cui si potevano già trarre delle linee di tendenza. Entrambi vedevano incrementare i propri consensi nella classe operaia, ma i 5Stelle in particolare, con un aumento di 8 punti contro i 5 della Lega. Il rapporto si rovesciava nell'area del settore pubblico, con un più 6 per la Lega e un più 3 per i 5Stelle; e diventava vistoso nel comparto privato, dove a un aumento dei leghisti (più 4) corrispondeva un calo dei grillini (meno 5). Entrambi perdevano consensi nel mondo delle libere professioni, e la Lega in particolare vedeva un'emorragia tra gli studenti (meno 6) che invece facevano il tifo per i 5Stelle (più 1). Sostanzialmente invariata la presa sulle casalinghe, colpiva invece l'abissale scarto tra i disoccupati: con un aumento di ben 25 punti tra l'elettorato grillino, e un calo di 1 punto in quello leghista. Pari disillusione infine tra i pensionati, con un calo più netto per i 5Stelle: meno 13 punti, rispetto ai meno 3 del Carroccio. CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Nordest, lo scisma sommerso di Lorenzo Fazzini Il voto cattolico Dove è finito, nel Veneto (che fu) bianco, il voto cattolico? É solo diventato il voto dei cattolici, come ha evidenziato su queste pagine il patriarca Moraglia, e non più quello di un blocco sociale religiosamente ispirato, che per anni ha guardato alla Dc e poi, con sfumature varie, al centro? L’interrogativo non è nuovo, ma la portata del voto del 4 marzo (la Lega salviniana, dichiaratamente anti-papa Francesco, primo partito in Veneto, 1 voto ogni 3 elettori) propone in maniera inedita la questione in una regione per anni, e lo è ancora oggi, a più alta densità religiosa d’Italia. Forse però l’angolatura di analisi va spostata per focalizzare meglio il problema. Ben 20 anni fa venne pubblicato un saggio di Pietro Prini «Lo scisma sommerso». In esso si analizzava la distanza creatasi negli ultimi decenni tra l’insegnamento dottrinale della gerarchia cattolica e la pratica dei fedeli in materia di morale sessuale. Ebbene, due decenni dopo potremmo parlare - guardando i dati delle elezioni - di un nuovo scisma sommerso, almeno in Veneto. Ovvero. Se negli anni di papa Wojtyla le direttive ecclesiastiche si concentravano sopratutto sulle faccende dalla «cintola in giù» (per usare un’affermazione provocatoria dell’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi), oggi la Chiesa di papa Francesco ha posto la nuova questione sociale come cardine del proprio impegno e fulcro intorno al quale chiede ai credenti di praticare il Vangelo. Questione sociale significa l’arrivo e l’accoglienza dei migranti, l’apertura ai poveri, l’emergenza ambientale, la precarizzazione del lavoro. E mentre nel decennio wojtyliano molto del popolo cattolico si distanziava dall’insegnamento ufficiale nelle scelte sul sesso (rapporti extramatrimoniali, contraccezione, aborto), oggi pare che la faglia tra fedeli e gerarchia riguardi il rapporto tra fede e fatto sociale, se appunto è Matteo Salvini con il suo credo sovranista intriso di venature non inclusive il nuovo Mosè dell’ex sagrestia d’Italia. Esempi? Quanti imprenditori veneti hanno letto e preso sul serio l’enciclica Laudato si’ sulla cura del creato? Quanti hanno iniziato a fare i conti con la «conversione ecologica» richiesta con urgenza dal pontefice argentino? Quante sono le parrocchie che, davvero, hanno avuto il coraggio di farsi carico dei migranti, non solo nell’accoglienza ma anche in un’incisiva educazione alla diversità? Eppure il Veneto ha sempre avuto una vocazione global in tema di fede cristiana: i missionari vicentini sparsi nel mondo sono 700, quelli veronesi 500. Quanto del mondo, dei popoli incontrati, delle tragedie toccate con mano da questi veneti ha interpellato il ceto medio cattolico tra il Garda e l’Adriatico? E ancora. Quante aziende hanno ragionato davvero sull’invito di Bergoglio a non rendere istituzionalmente precario il lavoro dei dipendenti? Quante famiglie che si dicono cattoliche hanno aperto porte e cuore a persone con disagio, senza tetto, uomini e donne alla deriva della vita? Forse è proprio questo nuovo scisma sommerso che andrebbe scandagliato meglio per capire come l’ascesa della Lega di Salvini non è un’eccezionalità scandalosa e incomprensibile nella regione che ha le Caritas più attive d’Italia, i comboniani battaglieri araldi di pace presenti in mezzo mondo, il Cuamm di Padova fiore all’occhiello della cooperazione allo sviluppo. E forse convincersi anche che

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la traversata del deserto non è solo compito di un Pd veneto ridotto al lumicino, ma pure la vocazione costitutiva di chi ha un Dio crocifisso come modello. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 I populisti e le inutili illusioni di Federico Fubini Lezioni dal passato Ogni volta che i partiti definiti populisti vincono delle elezioni, si sente ripetere la stessa considerazione: quando andranno al potere, non faranno quello che avevano detto. Non attueranno i loro programmi, perché sarebbero incompatibili con il sistema e le sue istituzioni così come le conosciamo. Non usciranno dalla strada segnata e dall’ordine costituito. Le loro promesse radicali di spesa, taglio alle tasse, dazi e chiusura dei mercati o di mettere da parte altre regole interne e sovranazionali, tutto questo è servito agli insorti per accendere i riflettori su di sé. I loro leader sanno bene che l’esercizio del potere è un’altra cosa: un’arte che richiede una dose, se non di moderazione, almeno di prudenza. È un’analisi che torna ogni volta che si affermano forze estranee al vecchio sistema. E onestamente non avrebbe senso spiegare se sia corretta o sbagliata in assoluto, neanche fosse una legge universale. Non lo è. Anche se qualcuno preferisce illudersi che sia altrimenti, la politica, la storia e l’economia non sono come la fisica: non esistono leggi immutabili, tantomeno durante una rivolta degli elettori contro il mondo di ieri. Per farsi un’idea di come potrebbe essere il futuro, esistono solo le esperienze del passato lontano e recente. Ray Dalio, il grande investitore italo-americano, ha studiato diciotto casi di insurrezione populista degli ultimi 150 anni in Europa, Stati Uniti, America Latina e in Giappone - tutti meno gli ultimi - e ha classificato somiglianze e differenze. In diciassette casi su diciotto, dalla rivolta di Andrew Jackson negli Stati Uniti contro le élite del New England nel 1829 a quella chavista in Venezuela nel 1990, l’economia era sempre molto debole (l’eccezione è la Francia nella stagione poujadista degli anni ’50). In quattordici casi su diciotto, le diseguaglianze di redditi fra cittadini erano elevate. E in dieci casi su diciotto la crescita dei populisti aveva contribuito alla paralisi politica, che a sua volta ha alimentato l’insoddisfazione dei cittadini verso un establishment ritenuto incapace di rispondere ai loro problemi; questa frustrazione a sua volta ha rafforzato ancora di più il richiamo dell’insurrezione, in una sorta di spirale che finisce per autoalimentarsi. L’Italia del 2018 rientra in tutti questi modelli: economia debole, diseguaglianze, paralisi. Resta giusto da capire quanto i nuovi protagonisti siano assimilabili e omologabili al sistema, una volta entrati a palazzo. Anche qui non esistono risposte certe, solo esperienze durante le quali si erano sentite le solite previsioni di relativa continuità: tutto doveva cambiare, perché tutto restasse com’era. Questi anni ci dicono però che non è andata così: penetrati nella stanza dei bottoni, gli insorti hanno sempre dimostrato che facevano sul serio e hanno cercato di realizzare i loro programmi. Donald Trump ha tenuto un discorso moderato nel giorno della vittoria nel 2016 e si è circondato di prudenti consiglieri scelti dai vertici di Wall Street; poi però ha licenziato chiunque non la pensasse come lui e ha veramente messo gli Stati Uniti su una traiettoria protezionista. Anche dopo il referendum sulla Brexit si pensava che, pur di tutelare la City e gli interessi commerciali del Regno, Londra non avrebbe rinunciato a partecipare al mercato europeo anche se dall’esterno; invece il governo sta veramente cercando una rottura intransigente con l’Unione Europea. Anche nel 2015 ad Atene Alexis Tsipras ha veramente resistito alle condizioni di Bruxelles e Berlino, fino a oltre l’orlo del baratro. E pochi mesi fa gli indipendentisti di Barcellona hanno davvero cercato di portare la Catalogna fuori dalla Spagna e dalla Ue. Chiamateli populisti se volete. Ma dobbiamo tutti ammettere che, seduti ai posti di comando, non sono cambiati. La convinzione, l’orgoglio e soprattutto il rapporto con gli elettori ha imposto loro di restare fedeli a se stessi. Ovviamente Tsipras e i secessionisti catalani a un certo punto hanno dovuto fermarsi, ma questa è un’altra esperienza interessante per l’Italia del 2018: in entrambi i casi la scelta di perseguire politiche fuori dal quadro europeo alla lunga si era dimostrata impraticabile. In Grecia la fuga dei risparmi verso l’estero era arrivata al

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punto che dai bancomat non uscivano più soldi e dalla Catalogna migliaia di imprese si erano trasferite nel resto della Spagna, per non rimanere tagliate fuori dall’area euro. L’Italia resta lontanissima da scenari del genere, non è questo il rischio che sta correndo adesso. Ma guardiamo alle scadenze concrete per il Paese: l’anno scorso i privati hanno dovuto finanziare appena il 51% delle emissioni di debito a medio-lungo termine necessarie a far funzionare lo Stato, perché al resto ha pensato la Banca centrale europea. Quest’anno la parte che andrà coperta dai privati sale al 74% e l’anno prossimo esploderà all’85% di un programma di emissioni di debito che, solo per il medio lungo-termine, aumenterà a 257 miliardi di euro. Chiunque governi, questi numeri non possono cambiare (se non al rialzo se l’Italia farà più deficit). Siamo diversi dalla Grecia e dalla Catalogna, ma anche noi viviamo entro vincoli precisi: dipendiamo e dipenderemo sempre dalla cortesia dei nostri creditori. Ma c’è un’ultima esperienza dei populisti di cui vale la pena prendere nota. Quando Tsipras e gli indipendentisti catalani hanno dovuto battere in ritirata sui loro programmi, i loro elettori non li hanno abbandonati. I populisti sono rimasti popolari. Forse erano stati votati per un umano desiderio di rinnovamento del ceto politico: non per fede cieca nelle loro promesse più assurde. Pag 1 Le vittime di terza categoria di Claudio Magris Il caso Moro Quarant’anni dopo il rapimento e la morte di Aldo Moro si torna pure a discutere sulla tragica scelta tra salvarlo, cedendo ai rapitori, oppure difendere la legge e lo Stato, ossia l’intera comunità civile, sacrificando la vita di un uomo, lasciandolo morire per mano dei suoi criminali carcerieri. Salvare ad ogni costo una vita umana — cosa cui del resto, in generale, non si bada sempre molto, non solo in guerra, ma anche sul posto di lavoro — o difendere con fermezza la legalità, difesa anch’essa talora trascurata o esercitata chiudendo un occhio. C’è un elemento rivoltante che colpisce in questa certo drammatica scelta tra fermezza e pietà, legge generale garante di ogni convivenza e caso individuale, anche al di là delle oscure manovre politiche celate dietro quell’incertezza. I carcerieri di Moro non erano, in quel momento, soltanto i suoi rapitori, con i quali eventualmente trattare. Erano già anche gli assassini dei cinque agenti della sua scorta, ammazzati come cani e subito dimenticati quasi non fossero esseri umani. Moro era certo politicamente e socialmente più «importante», così come pure tra le vittime dell’Isis e anche di Auschwitz ci sono personalità più e meno pubblicamente «importanti», ma non perciò il loro assassinio può essere preso sottogamba. Questo oblio, inconsciamente insensibile e indifferente al valore di ogni vita umana, è ripugnante. Trattare con i terroristi significava cancellare l’assassinio di cinque persone, quasi non fosse avvenuto o fosse irrilevante. Nemmeno nelle lettere di Moro si fa menzione di loro, morti per difenderlo, ma ovviamente erano i carcerieri a decidere cosa potesse e dovesse venir detto o no in quelle lettere. Proprio per questo esse non potevano e non dovevano essere prese in considerazione, così come un matrimonio non è valido se il sì viene pronunciato con una pistola puntata alla schiena. Non a caso in quei giorni Sandro Pertini dichiarò che, se eventualmente egli fosse stato rapito, da quel momento qualsiasi sua parola detta o scritta avrebbe dovuto essere ignorata e cestinata. Persone diverse, tempre diverse. Anche diversi sentimenti di umanità. I tre poliziotti e i due carabinieri scannati, e come loro innumerevoli uomini e donne senza nome bestialmente massacrati, non trovano posto nella mente, nel cuore, nella memoria, quasi non fossero uomini come chi ha un nome o un ruolo un po’ più noti. Ogni tanto si ricordano quegli agenti ma assai flebilmente; ad esempio non ho sentito alcuna loro menzione in una delle recenti trasmissioni televisive su quegli eventi. Restano vittime di terza classe. Qualche tempo dopo l’assassinio di Moro, una sua strettissima congiunta inviò, a Natale, dei panettoni ai suoi uccisori. Le chiesi pubblicamente, sul Corriere , se si era ricordata di mandarne pure alle vedove dei poliziotti assassinati, anche considerando che, per chi vive con la pensione vedovile di un agente di pubblica sicurezza, un panettone, oltre ad essere un segno di affetto, può essere anche un piccolo aiuto per il pranzo di Natale. Non ci aveva pensato. Pag 6 Se i vincitori rischiano di parlare solo ai loro elettori di Massimo Franco

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Lo schema prevede la presidenza della Camera al Movimento 5 Stelle, e il Senato alla Lega. Sarebbe la consacrazione dei due vincitori delle elezioni al vertice delle istituzioni: terza e seconda carica dello Stato. Ma è lo schema di partenza, non il punto di arrivo di una trattativa cominciata nel segno di colloqui interlocutori, quasi di assaggio: tanto che per adesso non ci sono nomi di candidati. Si tratta di rivendicazioni di principio, «di diritto», come conferma che si vuole rispettare la volontà popolare. La sottolineatura che queste cariche sono slegate dalla formazione di un futuro governo e dunque di eventuali alleanze, ha un’eco altrettanto tattica. È chiaro, infatti, che le maggioranze in grado di eleggere i presidenti dei due rami del Parlamento, potrebbero diventare il nucleo di una coalizione di partenza. Potrebbero, perché si vide nel 2013 che il tentativo dell’allora segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, di coinvolgere i Cinque Stelle nelle prime votazioni poi non approdò a nulla. Bersani dovette gettare la spugna senza mettere piede a Palazzo Chigi. Ora il Movimento, forte del 32 per cento dei voti e del 36 per cento dei deputati, azzarda una strategia a parti invertite. Ma si trova di fronte un Pd esacerbato dalla sconfitta, di fatto acefalo, e diviso tra chi vuole trattare e chi cerca di ancorarsi all’opposizione. Sono irrigidimenti comprensibili: le ferite elettorali sono ancora troppo fresche e dolorose. L’ipotesi di un esecutivo tra Cinque Stelle e Lega nasce quasi di rimbalzo, come epilogo inevitabile di fronte ai «no» altrui. Ma si tratta di un’altra soluzione improbabile. Il vero patto tra i due partiti vittoriosi il 4 marzo non è tanto sul governo. Semmai, è sulla prospettiva di tornare d’accordo alle urne di qui a un anno, se la legislatura non riesce davvero a partire. Per entrambi, significherebbe fare il pieno dei voti e trasformare l’attuale tripolarismo in un bipolarismo di fatto: i Cinque stelle a presidiare una sorta di nuovo centrosinistra sui generis, e la Lega un centrodestra ridisegnato senza Silvio Berlusconi. Di mezzo, però, ci sono dodici mesi da riempire per non trasformare il successo in ulteriore frustrazione e protesta dell’elettorato. Per questo Di Maio vuole chiudere con un primo risultato la sfida sul vertice delle Camere. Il problema è che per farlo deve anche mostrare di sapere cambiare i toni verso gli avversari di ieri. Sia i Cinque stelle sia la Lega non hanno ancora preso atto fino in fondo di non avere i numeri per governare; e dunque di non poter pretendere l’incarico automaticamente. Dovranno scegliere se fare i conti con la realtà e affidarsi al Quirinale; o continuare a parlare all’elettorato ma non al Paese: col rischio che questo comporterebbe. LA REPUBBLICA Pag 30 Pd e Berlusconi, lo sconquasso del centro di Stefano Folli Un grande classico, la riforma della legge elettorale, ha fatto il suo reingresso sul palcoscenico romano. Beninteso, la riforma "deve essere fatta in fretta, in poche settimane", così da consentire un immediato ritorno alle urne. E deve essere semplicissima nel suo meccanismo: si lascia il Rosatellum così com'è, salvo che per un premio di maggioranza assegnato alla coalizione vincente. È sempre il capo della Lega a esporre il suo piano, rivolgendosi ai Cinque Stelle rivali. Ora, lasciando per un attimo sullo sfondo la questione del governo, ci sono tutte le premesse per ingarbugliare la matassa della legislatura appena cominciata. È chiaro infatti che il premio alla coalizione vincente costituisce un abito su misura per il triangolo Lega-Forza Italia-Fratelli d'Italia. Non solo: è addirittura il meglio che Salvini possa augurarsi, volendo completare il progetto di sottomettere l' intero centrodestra alla sua "leadership". Viceversa il M5S, che non ha intenzione di coalizzarsi con qualcuno, deve correre da solo per ottenere il premio che la Lega può far suo dividendo lo sforzo con quel che resta di Forza Italia e con la pattuglia di Giorgia Meloni. Per cui, ad esempio, il 4 marzo Di Maio sarebbe stato sconfitto con il 32% laddove Salvini avrebbe vinto con il 17 (vanno aggiunti il 14 di Berlusconi e il 4,5 di FdI). Posta in questi termini, è difficile, per non dire impossibile, che l'operazione riesca e soprattutto che si realizzi secondo lo stile cesarista: veni, vidi, vici. Quel che tuttavia va notato è che per la prima volta nella storia d' Italia e forse d'Europa, il tema della riforma elettorale è nelle mani di forze che provengono dall'anti-politica e come tali sono entrate sulla scena. Forze che hanno usato toni radicali per opporsi all'establishment, benché oggi li abbiano già parecchio annacquati, almeno nella versione Di Maio/Cinque Stelle (Salvini è in apparenza più intransigente). Le leggi

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elettorali vengono fatte di solito per "tagliare" le ali estreme e obbligare i partiti intermedi a convergere verso il centro. Per la prima volta avremmo invece una riforma che premia chi vuole radicalizzare il confronto, lasciando al centro un buco dove si aggirano persone smarrite e in cerca di ruolo. È chiaro che il fenomeno della scomparsa del centro - al quale Angelo Panebianco ha appena dedicato un'analisi sul Corriere - è stato accelerato dal fallimento del "partito di Renzi", cioè il Pd nella sua ultima versione. Tuttavia oggi il vuoto si fa sentire. Esiste un modo per porvi rimedio? A breve, non sembra proprio. Per riassorbire le spinte centrifughe, Dario Franceschini ha proposto l'avvio di una "legislatura costituente", ma pochi ritengono che ci siano le condizioni. E la domanda è: per quanto tempo il Pd riuscirà a mantenersi unito, se viene stritolato dai due interpreti del nuovo bipolarismo? Probabilmente non a lungo. È solo un'ipotesi, ma tutt'altro che campata per aria. Anche perché all'affanno del Pd fa riscontro l'analogo malessere della berlusconiana Forza Italia. Berlusconi sta provando a controllare Salvini, ma se non ci riesce è improbabile che il partito da lui fondato subisca l'opa ostile del leghista. In quel momento sarà opportuno controllare la fisionomia della legge elettorale in vigore. Il modello maggioritario che piace a Salvini e Di Maio renderebbe poco utile la nascita di una forza intermedia che si richiama ai principi liberali. Altrimenti, a Rosatellum invariato, tutto è possibile. Compreso uno sconquasso della scena politica. AVVENIRE Pag 2 L’uomo imprigionato che ci ha spinto lontano di Ferdinando Camon Hawking, la vittoria sulla malattia e molto di più La mia prima reazione alla morte di Stephen Hawking è aprire il cellulare e ascoltare il rumore delle onde gravitazionali: fu messo in rete al tempo della sua prima registrazione, l’ho scaricato sul telefonino, e lo ascolto quando ho bisogno di sapere da dove veniamo e dove andiamo. Non è il cuore del sistema di Hawking, il cuore sono i buchi neri. Ma le onde gravitazionali sono prossime ai buchi neri, ne sono figlie. Le onde che ho registrato hanno avuto origine un miliardo virgola 300 milioni di anni fa, per la reciproca attrazione di due galassie che si son fatte sempre più vicine fino a danzare una intorno all’altra, in un giro che s’è fatto vorticoso e, alla fine, incontenibile: le galassie si son gettate una in braccio all’altra, fondendosi e distruggendosi, e le onde giunte fino a noi, scorrendo lungo l’autostrada dello spazio-tempo, sono il rumore di questa reciproca distruzione. Per il sistema di Einstein e di Hawking, quello è il rumore della fine. E com’è questo rumore, cosa sentiamo? Uno sfrigolìo, come la scarica elettrica di due cavi che si toccano e si fulminano. Nelle rappresentazioni grafiche le due galassie sono due vortici, due masse che ruotano intorno al proprio asse, raffigurato come un buco, e ruotando si avvicinano finché i due buchi diventano un solo buco, poi nulla. È il Dies irae dell’universo. Quello che solvet saeclum in favilla. Mai espressione fu più precisa. Noi siamo transeunti. E non saremo sempre qui. Hawking ci ammoniva: dovete spostarvi su altri pianeti. Diceva anche – frase oscura per me che in queste cose brancolo nel buio come un cieco nel mezzogiorno – che saranno quelli di altri mondi a venire da noi per primi, e questo incontro «non sarà una bella cosa per l’umanità». Che significa? Gli abitanti di altri mondi sono nostri nemici? Hanno ragione le saghe delle galassie? Dobbiamo potenziarci? Per potenziarci creiamo l’intelligenza artificiale, ma questa finirà per dominarci, saremo schiavi dei computer e dei robot. Lo siamo già. Il primo computer che ho avuto era un piccolo Macintosh, che portava installato dentro di sé un gioco, una dama cinese, col quale sfidava l’utente: ho fatto tante partite contro il mio computer e ha sempre vinto lui, e a ogni vittoria apriva una finestra e scriveva: «Un’altra tacca sul calcio del mio fucile». Finirà così? Non lo so, ma so che con la sua vita Hawking c’insegna un’infinita resistenza. Hawking era malato di Sla, ma ha vissuto una vita lunga e piena. Fin da giovane era impedito nella parola, nella comunicazione e nello spostamento, ma per tutta la vita ha comunicato. S’è costruito un computer che gli dava perfino la voce. E la sua non era comunicazione, cioè un parlare di massa, era espressione, cioè un parlare da genio. Nel suo campo era il primo scienziato al mondo, anche se non ha avuto il Nobel. Era paralizzato ma andava ovunque ci fosse qualcuno con cui parlare, a cui dire, da cui ascoltare. È stato a Roma dal Papa. L’uomo è composto di anima e di corpo, e la sua attrazione, l’interesse che suscita, diciamo – con termine da letteratura rosa – la sua amabilità, vien dalla somma delle due componenti. Hawking era

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altamente amabile, aveva amici, estimatori, moglie, anzi mogli. Una lo definisce «un tiranno», segno che nel rapporto dare-avere il marito riteneva di dare di più, e quindi pretendeva di più. Il miracolo di Hawking è questo: aver patito tutti gli ostacoli che volevano paralizzargli la vita, e aver vissuto tutta la vita nella pienezza creativa e inventiva. La sua lezione scientifica è alta, ma la sua lezione umana è più alta ancora. Vinta la battaglia d’Inghilterra, Churchill ringraziò i piloti della Raf con queste parole: «Mai tanti dovettero così tanto a così pochi». Potremmo ricordare Hawking con una parafrasi: «Mai un uomo si spinse così lontano da una condizione così imprigionata». Pag 3 Il triste primato romeno dei bambini abbandonati di Mihaela Iordache Cresce il Pil, ma metà dei minori è rischio miseria Quali parole si possono usare per esprimere la sofferenza dei bambini? Sarebbe inutile cercarle: non si trovano in nessun dizionario perché la sofferenza non dovrebbe mai essere accostata ai bambini. Il dolore innocente però esiste e resta tra i massimi misteri dell’esistenza. E tra i bambini vittime delle guerre, dell’indifferenza, degli abusi, ci sono anche loro: i bambini abbandonati, i bambini degli orfanotrofi, i bimbi 'istituzionalizzati'. I bambini abbandonati dai propri genitori non potranno mai capire perché sono stati abbandonati, perché i loro genitori non li hanno amati, se lo chiederanno sempre. E proprio «perché noi abbiamo avuto questa sorte? Perché? Quale senso ha?», ha chiesto a papa Francesco un ex ospite di un orfanotrofio romeno arrivato in gennaio in Vaticano con un gruppo di altri giovani. La verità è che ci sono 'perché?' che non hanno risposta, ha risposto il Papa, facendo esattamente l’esempio dei bambini che soffrono. «Chi può rispondere a questo? Nessuno. Il tuo 'perché?' è uno di quelli che non hanno una risposta umana, ma solo divina», ha spiegato Francesco, aggiungendo tuttavia che il Signore guarisce sempre. La Romania è il primo Paese dell’Unione Europea per casi di abbandono: vi sono circa 57mila bambini abbandonati, 20mila vivono negli orfanotrofi, altri 37mila sono affidati a famiglie. Solo nel periodo luglio 2016-giugno 2017 sono stati abbandonati oltre 10mila bambini, secondo le statistiche dell’Autorità Nazionale preposta alla loro tutela e al processo di adozione. Un recente studio realizzato da Unicef, Banca Mondiale e Autorità locali ha individuato quattro principali cause dell’abbandono e della sottrazione dei figli alle famiglie di origine: la povertà (36%), la disabilità, l’abuso e la negligenza. Benché la Romania stia registrando una crescita economica da record (tirata dai consumi), superando persino la Cina, il Paese resta tra i più poveri dell’Unione. Il divario tra ricchi e meno abbienti aumenta e a farne le spese sono soprattutto i bambini. La maggior parte dei piccoli che si trovano in un sistema di protezione speciale provengono da famiglie molto povere che non sono in grado di offrire cibo e condizioni abitative adeguati. Sui tre milioni di bambini che vivono in Romania, metà è a rischio miseria, il dato peggiore della Ue. Vivono soprattutto in campagna, soffrono spesso la fame e il freddo. Si calcola che siano circa 225mila i bambini che vanno a dormire affamati con l’unica speranza di sognare una cena buona e sostanziosa. Uno studio realizzato nel 2014 da World Vision România notava che la situazione dei bambini nelle campagne peggiora da un anno all’altro. I bambini vittime di abbandono oppure delle difficili situazioni economiche arrivano in orfanotrofi che sulla carta dovrebbe essere accoglienti sia dal punto di vista materiale sia da quello umano. Era infatti questa una delle condizioni poste da Bruxelles per l’ingresso di Bucarest nella Ue: migliorare la situazione dei bambini senza famiglia, riuscire a integrarli in un ambiente adatto. Gli orfanotrofi sono stati ammodernati, il personale ha svolto corsi di aggiornamento. Spesso, però, restano un mondo chiuso, dominato da una vecchia mentalità, in cui difficilmente possono entrare i giornalisti per documentare la situazione, se non dopo precise e insistenti richieste. Di conseguenza, è difficile controllare il sistema di assistenza. Ogni tanto, tuttavia, i media riescono a segnalare abusi. Nel 2016 a Costanza, città sul Mar Nero, alcuni bambini tra i 7 e i 12 anni ospiti di un orfanotrofio hanno raccontato di essere picchiati e sedati tutti i giorni. I piccoli provenivano da una famiglia molto povera. Ma i genitori li potevano saltuariamente visitare. Così il padre e venuto a sapere dei maltrattamenti. La direttrice dell’orfanotrofio aveva negato le accuse e minacciato di chiamare a sua volta la polizia. Ma il padre continuò la sua protesta per tutelare i propri figli finché ottenne ascolto. Pochi mesi fa, nel novembre 2017, sulla stampa romena viene pubblicato un appello disperato da parte di un medico e due

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infermiere dalla sezione pediatrica dell’Ospedale Santa Maria di Iasi: 57 bambini abbandonati (da un mese a due anni) hanno bisogno di genitori e di amore. «Non sono mai usciti dalla struttura, non hanno giocatoli, non ricevono affetto. Non possono stare seduti, né girarsi a la pancia in giù poiché il letto è troppo piccolo. Almeno 1000 bambini vengono abbandonati alla nascita ogni anno in tutto il Paese. E il sistema di protezione non regge: nessun bambino sfortunato come loro dovrebbe stare così a lungo immobilizzato in un ospedale». La storia ci riporta così a 28 anni fa, nei giorni della Rivoluzione romena, con la caduta di Nicolae Ceausescu, le immagini choc degli orfanotrofi, orfanotrofi lager dove bambini con disabilità o un piccolo ritardo (spesso recuperabile) erano lasciati in camere buie senza finestre, senza riscaldamento, prede dei ratti, a volte fino alla morte. Esistevano strutture gigantesche, alcune ben nascoste e protette da filo spinato. I circa 100mila 'bambini di Ceausescu' divennero subito 'merce di scambio' per stranieri che li volevano adottare. Si stima che dal 1990 al 2001 siano stati adottati circa 30mila minori, soprattutto negli Usa e in Canada. L’adozione è stata per la maggior parte di essi un’opportunità di riprendersi, di avere una famiglia e condurre una vita normale, anche se lontano dai loro luoghi di nascita. Ora, da adulti, attraverso Internet provano a rintracciare i loro genitori naturali. Nel 2001, sotto le pressioni della Ue, la Romania ha bloccato le adozioni internazionali per mancanza di trasparenza. La maggior parte delle adozioni registrate sono state fatte nel 2000, e parliamo di circa 3.000 bambini. Ultimamente, si registra un forte calo delle adozioni anche sul fronte interno. L’anno scorso 3.250 bambini sono stati dichiarati adottabili e 1.881 famiglie avevano pronti i documenti relativi. In Romania si lamenta anche un nuovo tipo di 'orfani', i figli di genitori emigrati. Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica, ogni ora nove romeni lasciano il Paese. Anche i dati dell’Onu indicano che negli ultimi dieci anni circa 3,4 milioni di cittadini hanno varcato le frontiere, il che significa che la Romania è al secondo posto nel mondo, dopo la Siria, per quanto riguarda il tasso di migranti rispetto alla popolazione. Un vero esodo. La gente non fugge dalla guerra, ma dalla corruzione, dalla povertà e dalla mancanza di prospettive, in un Paese che registra il più alto indice di disuguaglianza tra stipendi nell’Unione Europea. Circa 95mila bambini in Romania hanno almeno un genitore emigrato all’estero. Sono invece quasi 19mila i minori che hanno entrambi i genitori espatriati, e 17mila sono stati affidati a parenti fino al quarto grado, senza alcuna protezione sociale. Si parla infatti di 'orfani bianchi', che crescono parlando con i genitori su Skype, che forse comprendono il sacrificio compiuto dagli adulti, ma che non riescono a capire perché devono essere loro a venire sacrificati. Difficile trovare una parola giusta che spieghi cosa significa per un bambino la mancanza di una carezza o un abbraccio del proprio genitore che vive lontano. Non c’è un dizionario al mondo abbastanza ricco per trovare il termine giusto. La sofferenza dei bambini rimane un marchio negativo per la Romania che cresce e aspira a diventare un Paese più ricco e moderno. Pag 9 “Noi, disarmate, 40 anni dopo via Fani” di Antonio Maria Mira Il sequestro e la strage. Agnese Moro: basta rabbia. Adriana Faranda: fu atroce 16 marzo 1978: in via Mario Fani a Roma si scrive una delle pagine più buie della nostra storia, la parte più tragica della «notte della Repubblica». In un agguato le Brigate Rosse sequestrano Aldo Moro uccidendo i 5 uomini della sua scorta. Il rapimento si concluderà drammaticamente dopo 55 giorni di prigionia con l’uccisione dell’allora presidente della Democrazia Cristiana. Oggi il presidente della Repubblica Sergio Mattarella assisterà alla cerimonia commemorativa in via Fani, durante la quale il sindaco di Roma Virginia Raggi scoprirà una lapide in memoria degli agenti trucidati, alla presenza di una rappresentanza dei loro familiari. Prevista anche la visita di una delegazione del Pd. Nel pomeriggio presso L’Altro Spazio di via Tiburno si svolge l’evento 'Via Fani 16 marzo 1978', durante il quale viene presentato il cortometraggio 'Valeria' di Matteo Pizziconi e Valerio Schiavilla, che racconta la storia, vera o verosimile, della fidanzata di Francesco Zizzi, uno dei poliziotti uccisi. In programma anche la mostra fotografica 'I particolari della cronaca' dello stesso Pizziconi e un incontro con Gero Grassi, membro della commissione parlamentare su Moro.

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Agnese e Adriana. La vittima e il carnefice. Eppure quando le vedi, le senti, è la prima ad apparire la più forte. Come quando Agnese Moro accarezza Adriana Faranda, quasi per sostenerla, per sostenere parole difficili. La figlia del presidente della Dc, rapito dalle Brigate rosse quaranta anni fa e l’ex brigatista fianco a fianco. L’occasione è un incontro nella chiesa romana di San Gregorio al Celio, per raccontare l’esperienza del gruppo sulla giustizia riparativa, promosso da padre Guido Bertagna, del quale Agnese e Adriana fanno parte, assieme ad altre vittime e altri ex esponenti della lotta armata. Si parla del loro incontro, del loro dialogo. Ma il dramma di quei 55 giorni del 1978 emerge continuamente. Agnese ricorda «l’uccisione di cinque brave persone che proteggevano mio padre, il suo rapimento, un lungo periodo di angoscia, di disumanità non solo in coloro che avevano commesso questi atti ma anche in coloro che avrebbero dovuto aiutare mio padre ad uscire da quella situazione. E poi la sua morte e tutto quello che è seguito. Alla fine c’è una grande assenza, una persona per te cara, indispensabile, che non c’è più». Anche Adriana ricorda. «Quando è stato ucciso il papà di Agnese, mi sono sentita responsabile in pieno di quella morte ma ero assolutamente contraria al fatto che venisse ucciso e l’ho vissuta come una delle cose più atroci che stavano avvenendo». Poi il carcere e un percorso per un’altra forma di giustizia. «Per me Agnese era il suo avvocato di parte civile che voleva dimostrare che io ero la persona più orribile che fosse mai nata sulla terra. Non potevo in quel momento e in nessun modo arrivare ad Agnese, era assolutamente impossibile perché dovevo solo difendermi e cercare di affermare la dignità di un percorso che avevo scelto. Quando poi alla fine riconquisti la libertà, ti rendi conto che quella del carcere è una forma di giustizia ma incompleta. A me non bastava. Quello che sentivo come dovere e anche come desiderio era affrontare fino in fondo il problema della giustizia ritrovando le persone che erano state colpite, andando a cercare l’altro che avevamo negato». È lo stesso cammino di Agnese cominciato proprio 40 anni fa. «La mia vita è rimasta bloccata tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978, sei sempre lì. E non perché te lo ricordi, ma perché ogni giorno risuccede. E questa dittatura del passato ti isola perché pensi che nessuno ti potrebbe mai capire. Hai dentro un urlo che non riesce a uscire, ti soffoca. Alla fine tutto fa sì che i morti abbiano più spazio dei vivi, di quelli che stanno intorno a te, di quelli che ami. E ti accorgi drammaticamente che il male non rimane lì. Va avanti finché qualcuno non lo fermerà, perché crea altre situazioni di sofferenza. E tutto si accompagna a sentimenti di rancore, di rabbia, anche di senso di colpa perché mio padre non è stato abbattuto un giorno uscendo di casa. È stato lì tanti giorni e io non sono riuscita a salvarlo. E assieme c’è un desiderio di giustizia». Che non sono gli anni di carcere. «Non si sta meglio. È un’illusione. Potevano dargli 100mila anni di carcere e non si sarebbe risolto il problema perché tu hai bisogno di avere una giustizia che riguardi anche le ferite che hai ricevuto. E che non sono facilissime da curare». E allora, Agnese, la giustizia sta provando a costruirla proprio insieme ai responsabili della morte del padre. «Sono stati una sorpresa perché nella mia mente loro sono dei mostri senza cuore, senza pietà. E lo sono anche stati». Ma, aggiunge, «le persone non rimangono uguali, non è che se tu hai fatto delle cose orrende poi per sempre dovrai essere una persona orrenda. Dentro queste persone c’è qualcosa di diverso da quello che io pensavo». In particolare scoprire «un dolore infinitamente peggiore del mio, perché è quello di chi l’ha fatta grossa e non può rimediare. E che li fa essere totalmente disarmati nei nostri confronti. Per me Adriana è l’emblema della persona disarmata (le sorride e l’accarezza, ndr) perché io avrei potuto fare o dire qualsiasi cosa e l’avrebbe accettata, non perché sono delle pecore ma perché sono disarmate di fronte a me. E imparare a disarmarsi è stata per me la grande lezione di questo stare insieme. Ho imparato da loro che se tu vuoi ascoltare qualcuno e poi parlare ti devi disarmare da pregiudizi e rabbia». E Adriana conferma, piegata sul microfono e dai ricordi. «Io sono sempre disarmata rispetto a qualunque parola, al tocco di Agnese che nel momento in cui sembra spaccarti in due il cuore costruisce un ponte, ti tende sempre la mano. Questa è una delle cose più importanti che ho vissuto in questo percorso estremamente duro in cui ci siamo messi a nudo gli uni nei confronti degli altri». Con una certezza. «Che quelle cose che venivano dette con forza nei momenti di maggiore emotività e dolore non erano per tagliarti fuori ma per stimolare una maggiore profondità, intensità, autenticità dell’incontro che stavamo vivendo». In «un’atmosfera di quotidianità, come se fosse naturale che persone vittime di tragedie così irreparabili potessero convivere lavando i piatti insieme a chi aveva prodotto questo

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disastro». E così, sottolinea Agnese, «il passato arretra e viene sostituito da un presente che è fatto dai loro volti, delle nostre discussioni e tu sei più libero. Così quel male che ti ha portato via qualcuno, e di cui delle persone sono state interpreti ma che esiste a prescindere da loro, non ha l’ultima parola perché le loro vite sono ritornate delle vite buone perché c’è la possibilità di ricostruire. Per me è l’unica forma di vera giustizia: tu male che hai preso mio padre in maniera così terribile, non vincerai per sempre perché oggi siamo qui insieme, siamo amici, ci occupiamo gli uni degli altri e questo guarirà qualcosa». Un’esperienza che Adriana cala nel presente. «Se siamo riusciti a dialogare noi, può riuscirci chiunque e può riuscirci prima che sia necessario perché altrimenti ci ritroveremo con altre espressioni di violenza che non saranno paragonabili a quelle dei nostri anni, ma potranno assumere altri volti». Ma, avverte Agnese, «bisogna recuperare nella vita quotidiana, nella politica, la fiducia nella forza della parola. Noi non abbiamo fatto altro che accettare di stare seduti in una stanza e parlarci, anche dirci cose odiose. Le parole cambiano le vite, cambiano le persone». IL GAZZETTINO Pag 5 Lega e M5S in crescita. Fi cade, Pd giù dello 0,7 di Enzo Risso La formazione di Salvini drena consensi da tutto il centrodestra. I penta stellati acquistano elettori berlusconiani ma ne cedono il 2% ai dem Dieci giorni dopo il voto, i sommovimenti politici all'interno del Paese proseguono. Le dinamiche innescate dalla tornata elettorale non si fermano e gli assetti politici sono in evoluzione. A subire le maggiori transumanze è il centrodestra, con il passaggio consistente di voti da Forza Italia alla Lega di Salvini. Franano quasi tutti i partiti più piccoli, mentre M5s prosegue la sua crescita, anche se a scartamento ridotto rispetto alla Lega. Il Pd perde pochi decimali di consensi, mentre Leu finisce sotto la soglia del 3%. Il quadro politico complessivo si sta polarizzando sempre di più intorno ai gruppi marcatamente popolari e anti élite, mentre le forze moderato-riformiste riducono ulteriormente il loro peso (dal 40,8% del 4 marzo al 35% di oggi). IN CRESCITA - La Lega è il partito con la maggior crescita post voto. Incassa quasi cinque punti percentuali, drenando voti dal partito berlusconiano (27% di quanti avevano votato per Forza Italia) e da Fratelli d'Italia (17% degli elettori di Giorgia Meloni). Il partito di Salvini cresce un po' ovunque. Al Nord passa dal 26,9%, conquistato il 4 Marzo alla Camera dei Deputati, al 28,1%. Al Centro sale dal 16,6% al 22,2%, mentre al Sud aumenta dal 6,3% al 10,7%. Con M5s, infine, ha uno scambio di voti quasi alla pari, mentre recupera pochi consensi dai partiti minori. M5S continua la sua salita, anche se in modo più calmierato rispetto alla Lega. Cresce al Nord (dal 23,7% al 26,2%) e al Centro del Paese (dal 29,2% al 32,4%), mentre appare statico al Sud (dal 46,3% al 46,4%). Il partito di Di Maio arriva, a livello nazionale, al 34,5% dei consensi, conquistando voti da Forza Italia (che gli cede il 2,2%), dal Pd (4,5% degli elettori renziani), da Leu (11% dei votanti per la nuova formazione di sinistra) e da +Europa (5% degli elettori di Emma Bonino). Dalle sue fila, tuttavia, ritornano verso il Pd il 2% dei votanti e una quota rimane dubbiosa sul da farsi. L'EMORRAGIA - Forza Italia, per il momento, è il partito che subisce la maggior emorragia di consensi. Cede voti a Lega e M5s, mentre incassa solo da Noi con l'Italia e da +Europa. Il partito di Berlusconi subisce il maggior calo al Sud, dove scende dal 18,3% al 12,7%, mentre la fuoriuscita è più trattenuta al Nord (dal 12,5% al 10,7%) e molto limitata al Centro. Fratelli d'Italia lascia sul campo l'1,3% dei consensi, passando dal 4,4% al 3,1%. I suoi voti finiscono, in parte, alla Lega e, in parte, si sparpagliano sugli altri partiti e tra gli indecisi. In pochissimi, tuttavia, lasciano Giorgia Meloni per Luigi Di Maio. Noi con l'Italia, infine, si sta ulteriormente indebolendo, cedendo pezzi a Forza Italia e al gruppo di Lorenzin. Volgendo lo sguardo al fronte avverso, il Pd mantiene la gran parte dei propri consensi e, per ora, si stabilizza sul 18% (-0,7% rispetto al 4 marzo). Il Partito democratico perde pochi decimi di punto sia al Nord sia al Centro, mentre recupera voti al Sud (dal 13,3% preso il 4 marzo al 14,5% di oggi). Lo scambio di elettori con gli altri partiti fa registrare un'uscita del 4% a favore dei Cinquestelle (da cui, però, incassa il 2%), mentre recupera su Leu (11% di quanti avevano votato per il partito di Pietro Grasso) e su +Europa (27% di quanti avevano votato per Bonino). Leu, per parte sua, scende sotto la soglia del 3%, cedendo voti sia al

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Pd sia a M5s, mentre a sinistra cresce solo Potere al Popolo, che arriva al 2%. Gli altri partiti della coalizione di centrosinistra hanno dinamiche differenti: +Europa perde un terzo dei consensi (-0,8%), mentre Lista Insieme (Partito Socialista, Verdi e Area Civica) si dimezza (da 0,6% a 0,3%). La Lista Civica e Popolare di Beatrice Lorenzin, infine, aumenta dello 0,2%, incassando dal gruppo di Lupi, Tosi, Fitto, Sgarbi e Cesa. LA NUOVA Pag 1 Dazi, Trump alla guerra commerciale di Maurizio Mistri Conformemente agli impegni presi durante la sua campagna elettorale Donald Trump, presidente degli Usa, sta aprendo rilevanti contenziosi con i partner commerciali del suo Paese. Tra questi ci sono la Cina e molto probabilmente anche i paesi dell'Ue, Germania in testa. Le mosse di Trump sono considerate pericolose dai Paesi che sono oggetto della sua attenzione. Tutti levano grida contro una politica considerata nefasta per lo sviluppo economico del mondo o, se si vuole, soprattutto per lo sviluppo economico dei paesi esportatori netti negli Usa. Si può capire che Cina e Germania temano per le loro esportazioni, ma ci si dovrebbe mettere anche nei panni degli Usa, la cui situazione commerciale non è certo positiva. Da alcuni anni la bilancia commerciale manifesta un disavanzo enorme e in progressiva crescita. In altri termini gli Usa importano beni e servizi in una misura maggiore di quanto non ne esportino. Faccio un rapida analisi della situazione al 2015, anno di cui si hanno dati consolidati di fonte Onu Comtrade, ricordando che nel 2016 e nel 2017 l'andamento della bilancia commerciale degli Usa è ulteriormente peggiorata. Ebbene, nel 2015 gli Usa hanno importato merci per circa 2.000 miliardi di euro (rispetto ai 1.700 miliardi del 2014), mentre hanno esportato per un totale di circa 1.300 miliardi di euro. Dunque, il disavanzo commerciale degli Usa nel 2015 è stato di circa 700 miliardi di euro, rispetto ai 500 miliardi del 2014. Circa la metà del deficit commerciale degli Usa è con la Cina. Un'altra area esportatrice netta negli Usa è l'Unione Europea con circa 140 miliardi di euro. All'interno di questa cifra la quota più alta è quella della Germania. Una quota non piccola, e cioè circa 45 miliardi di euro, è quella del Messico. E' evidente che il commercio internazionale degli Usa è strutturalmente squilibrato; in condizioni di normalità il riequilibrio della bilancia commerciale degli Usa potrebbe essere garantita, almeno in una certa misura, dal meccanismo della svalutazione della moneta nazionale. Invece il dollaro rimane sopravvalutato rispetto alla capacità competitiva della economia degli Usa. Rimane sopravvalutato anche perché gli Usa continuano ad essere destinatari di cospicui investimenti esteri, sia in attività direttamente produttive che in titoli del debito pubblico. Questo flusso finanziario concorre a: 1) tenere elevato il cambio estero del dollaro; 2) tenere bassi i tassi di interesse degli Usa, alimentando una spesa pubblica e privata che in parte si riversa su acquisti dall'estero, peggiorando la bilancia commerciale; 3) a far cambiare di mano il controllo di imprese Usa, semmai acquistate da investitori di Paesi esteri grazie a risorse ottenute attraverso l'avanzo che tali Paesi hanno conseguito mediante il commercio con gli Usa. Assodato che attualmente gli Usa non possono ricorrere al meccanismo della svalutazione competitiva, rimane il fatto che la loro situazione finanziaria non è sana. Tutto ciò può rappresentare un grave rischio per la stabilità del sistema economico mondiale. Tra qualche anno una crisi strutturale dell'economia americana non sarebbe certamente utile né alla Cina, né alla Germania, né al Messico e a nessuno dei paesi oggi creditori netti degli Usa. Purtroppo Trump dalla sua ha la rozzezza delle argomentazioni e una scarsa chiarezza delle prospettive strategiche. Quello che, invece, dovrebbe fare è porre le basi per una nuova Bretton Woods nella quale chiamare soprattutto i principali Paesi creditori netti degli Usa a studiare nuovi meccanismi di governance del commercio internazionale e del mercato internazionale della valute. Ciò che a tutti dovrebbe essere chiaro è che le cose non possono più andare avanti come finora è stato e che gli Usa non possono più continuare ad avere un debito strutturale, forte ed in crescita, del loro commercio estero. Torna al sommario