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RASSEGNA STAMPA di martedì 13 febbraio 2018 SOMMARIO “Toccare il mistero. Lourdes e la vita cambiata” è l’editoriale di apertura per Avvenire di oggi che, con Luciano Moia, commenta il 70esimo miracolo accertato (e riconosciuto dalla Chiesa) nella cittadina francese. Ecco le sue considerazioni: “Il soprannaturale fa parte della nostra vita. Interroga il nostro razionalismo. Sgretola le nostre convinzioni di autosufficienza. Ci sollecita all’umiltà. Ci induce a sospendere il giudizio. Ci spinge a considerare il fatto che esista qualcosa che va al di là della nostra pretesa di controllare, di prevedere, di pianificare tutto. Per qualcuno è un pensiero disturbante, il sospetto inquietante di un Mistero che si fa presente e che scombina i nostri piani. Per altri è la conferma di una speranza, un lieto presagio che, definendo la nostra finitezza, ci regala un raggio di infinito. Ecco perché dovremmo essere grati di fronte al messaggio che arriva dal Bureau médical di Lourdes: Una suora, Bernadette Moriau, per oltre 40 anni ha camminato a grande fatica, reggendosi in piedi solo con l’aiuto di un tutore. Ma dieci anni fa, dopo una visita a Lourdes, è guarita dalla sua malattia in modo «improvviso, istantaneo, completo, duraturo e inspiegabile», che sono le condizioni perché la Chiesa possa riconoscere il miracolo. La scienza si ferma, non ha più parole, dichiara la sua impossibilità di comprendere quello è capitato. Ma come? Abbiamo conoscenze per costruire un uomo in laboratorio, clonarne il Dna, replicare la sua mappa genetica ma non riusciamo a comprendere come si possa guarire in modo radicale, da un istante all’altro, da una malattia invalidante. E le persone di fede alzano lo sguardo sulla maternità divina, eppure umanissima, della Signora di Lourdes. Perché proprio lì? Perché proprio Lei? Perché questi eventi, che sfuggono alla nostra possibilità di comprendere e di razionalizzare, càpitano da 160 anni nel Santuario delle apparizioni? Anche in questo caso non c’è una spiegazione ragionevole, né scientifica né teologica. Può essere che la Madonna offra una 'corsia preferenziale' solo a chi ha la possibilità di raggiungere la 'sua' grotta ai piedi dei Pirenei? Evidentemente no. Ogni santuario mariano, ogni chiesa, ma anche ogni casa abbracciata dalla grazia ordinaria di Dio – se è vero che per il Vaticano II ogni famiglia cristiana è chiesa domestica – non è preclusa all’evento del soprannaturale. Ma, per accorgercene dobbiamo aprire il cuore al mistero quotidiano della bellezza che troppo spesso non riesce a scalfire il naturalismo immanentista in cui siamo immersi. Lourdes, come Fatima, Loreto e tutti gli altri luoghi attraversati dalla luce della Vergine, non sono aree 'fuori controllo', spazi in cui le leggi della natura possono essere arbitrariamente sospese. Ma un richiamo ricorrente alla possibilità di Amore straordinario, una paternità e una maternità che superano la nostra possibilità di comprensione e ci ricordano il nostro essere sempre e comunque figli in attesa di conforto e di tenerezza” (a.p.) 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Spezzare le catene della schiavitù Il Papa chiede responsabilità e volontà politica per sconfiggere la tratta La pazienza è il contrario della rassegnazione Messa a Santa Marta AVVENIRE Pag 1 Toccare il mistero di Luciano Moia Lourdes e la vita cambiata Pag 14 Il Papa: ci rende impuri il peccato non la malattia All’Angelus la denuncia dei mali del cuore: “Sono l’egoismo, la superbia, la corruzione”.

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RASSEGNA STAMPA di martedì 13 febbraio 2018

SOMMARIO

“Toccare il mistero. Lourdes e la vita cambiata” è l’editoriale di apertura per Avvenire di oggi che, con Luciano Moia, commenta il 70esimo miracolo accertato (e riconosciuto dalla Chiesa) nella cittadina francese. Ecco le sue considerazioni: “Il

soprannaturale fa parte della nostra vita. Interroga il nostro razionalismo. Sgretola le nostre convinzioni di autosufficienza. Ci sollecita all’umiltà. Ci induce a sospendere il giudizio. Ci spinge a considerare il fatto che esista qualcosa che va al di là della nostra pretesa di controllare, di prevedere, di pianificare tutto. Per qualcuno è un pensiero disturbante, il sospetto inquietante di un Mistero che si fa presente e che scombina i nostri piani. Per altri è la conferma di una speranza, un lieto presagio che, definendo la nostra finitezza, ci regala un raggio di infinito. Ecco perché dovremmo essere grati

di fronte al messaggio che arriva dal Bureau médical di Lourdes: Una suora, Bernadette Moriau, per oltre 40 anni ha camminato a grande fatica, reggendosi in piedi solo con l’aiuto di un tutore. Ma dieci anni fa, dopo una visita a Lourdes, è guarita dalla sua malattia in modo «improvviso, istantaneo, completo, duraturo e

inspiegabile», che sono le condizioni perché la Chiesa possa riconoscere il miracolo. La scienza si ferma, non ha più parole, dichiara la sua impossibilità di comprendere

quello è capitato. Ma come? Abbiamo conoscenze per costruire un uomo in laboratorio, clonarne il Dna, replicare la sua mappa genetica ma non riusciamo a

comprendere come si possa guarire in modo radicale, da un istante all’altro, da una malattia invalidante. E le persone di fede alzano lo sguardo sulla maternità divina,

eppure umanissima, della Signora di Lourdes. Perché proprio lì? Perché proprio Lei? Perché questi eventi, che sfuggono alla nostra possibilità di comprendere e di

razionalizzare, càpitano da 160 anni nel Santuario delle apparizioni? Anche in questo caso non c’è una spiegazione ragionevole, né scientifica né teologica. Può essere che la Madonna offra una 'corsia preferenziale' solo a chi ha la possibilità di raggiungere la

'sua' grotta ai piedi dei Pirenei? Evidentemente no. Ogni santuario mariano, ogni chiesa, ma anche ogni casa abbracciata dalla grazia ordinaria di Dio – se è vero che per il Vaticano II ogni famiglia cristiana è chiesa domestica – non è preclusa all’evento del soprannaturale. Ma, per accorgercene dobbiamo aprire il cuore al mistero quotidiano della bellezza che troppo spesso non riesce a scalfire il naturalismo immanentista in cui siamo immersi. Lourdes, come Fatima, Loreto e tutti gli altri luoghi attraversati dalla luce della Vergine, non sono aree 'fuori controllo', spazi in cui le leggi della natura possono essere arbitrariamente sospese. Ma un richiamo ricorrente alla

possibilità di Amore straordinario, una paternità e una maternità che superano la nostra possibilità di comprensione e ci ricordano il nostro essere sempre e comunque

figli in attesa di conforto e di tenerezza” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Spezzare le catene della schiavitù Il Papa chiede responsabilità e volontà politica per sconfiggere la tratta La pazienza è il contrario della rassegnazione Messa a Santa Marta AVVENIRE Pag 1 Toccare il mistero di Luciano Moia Lourdes e la vita cambiata Pag 14 Il Papa: ci rende impuri il peccato non la malattia All’Angelus la denuncia dei mali del cuore: “Sono l’egoismo, la superbia, la corruzione”.

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Un clic sul tablet e l’invito ai ragazzi: dobbiamo prepararci IL FOGLIO Pag 3 Benedizione delle coppie gay? Vescovi Usa contro la chiesa tedesca di Matteo Matzuzzi 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 2 Ormai tanti genitori più a rischio dei figli di Daniele Novara Scuola e famiglia, i casi di scontro che si ripetono Pag 3 Il lavoro muta ma è centrale. Non è il reddito a includere di Francesco Riccardi Cambiano le modalità, non il fine per l’uomo LA NUOVA Pag 1 Il caso Italo e i benefici del mercato di Giancarlo Corò 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ LA NUOVA Pag 22 San Camillo a Villa Salus: “Urge il piano industriale” di Eugenio Pendolini Le richieste dei sindacati sulla vendita della clinica del Lido alle Suore Mantellate IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag X Villa Salus e San Camillo, la Cgil vuole garanzie 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 20 Pietro, vogatore con la protesi: “Bebe Vio mi ha dato energia” di Andrea Pasqualetto Venezia, il liceale terzo alla Regato Storica: “Cerco l’aiuto della tecnologia” LA NUOVA Pagg 2 – 3 Scandalo Mose. Errori nei progetti, lavori fatti male: “Ridateci i soldi” di Alberto Vitucci Lettere di diffida e messa in mora alle imprese e ai tecnici per 35 milioni. I comitati vanno all’attacco, nuovo esposto ai magistrati Pag 18 Beni culturali, la Codello si è dimessa di Enrico Tantucci L’ex soprintendente ha lasciato la guida del Segretariato regionale, possibile nuovo incarico alla Fondazione Cini IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XIV Volontariato senza giovani. Allarme del Centro servizi di Filippo Baracchi Associazioni della provincia sorrette dagli “over 50” e dai pensionati. L’analisi: “Il mondo è cambiato, i ragazzi ora cercano attività a tempo” 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 9 “L’amore al centro anziani. Il nostro San Valentino” di Elena Filini La storia di Ferruccio, 89 anni, e della sua Valmira, 83 … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA

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Pag 1 L’impresa rimossa dai partiti di Dario Di Vico Economia e voto Pag 24 Il vizio di destra e sinistra: etichettare morti e feriti di Goffredo Buccini IL GAZZETTINO Pag 1 Pene più certe unico antidoto contro la rissa sulla sicurezza di Carlo Nordio LA NUOVA Pag 1 La lezione della Große Koalition di Vincenzo Milanesi

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Spezzare le catene della schiavitù Il Papa chiede responsabilità e volontà politica per sconfiggere la tratta Occorre «una presa di responsabilità comune e una più decisa volontà politica» per sconfiggere definitivamente la piaga del traffico di esseri umani. Lo ha ribadito Papa Francesco lunedì mattina, 12 febbraio, ricevendo in udienza nella Sala Clementina i partecipanti alla giornata mondiale di riflessione contro la tratta di persone. L’incontro si è svolto sotto forma di dialogo tra il Pontefice e alcuni dei presenti. [Joy Monday, in inglese] Prima di tutto desideriamo ringraziarla per la sua incessante e benevola attenzione e preoccupazione per tutti i migranti e le vittime della tratta. Noi abbiamo sperimentato tante difficoltà e sofferenze prima di arrivare in Italia. Arrivati in Italia facciamo fatica a integrarci e trovare un lavoro dignitoso è quasi impossibile. Vorrei farle una domanda: lei pensa che il sorprendente silenzio sulle vicende di tratta sia dovuto all’ignoranza del fenomeno? Sicuramente sul tema della tratta c’è molta ignoranza. Ma a volte pare ci sia anche poca volontà di comprendere la portata del problema. Perché? Perché tocca da vicino le nostre coscienze, perché è scabroso, perché ci fa vergognare. C’è poi chi, pur conoscendolo, non ne vuole parlare perché si trova alla fine della “filiera del consumo”, quale utilizzatore dei “servizi” che vengono offerti sulla strada o su internet. C’è, infine, chi non vuole che se ne parli, in quanto coinvolto direttamente nelle organizzazioni criminali che dalla tratta traggono lauti profitti. Sì, ci vuole coraggio ed onestà, «quando, nella quotidianità, incontriamo o abbiamo a che fare con persone che potrebbero essere vittime del traffico di esseri umani, o quando dobbiamo scegliere se acquistare prodotti che potrebbero essere stati realizzati attraverso lo sfruttamento di altre persone».1 Il lavoro di sensibilizzazione deve cominciare da casa, da noi stessi, perché solo così saremo capaci poi di coscientizzare le nostre comunità, stimolandole ad impegnarsi affinché nessun essere umano sia più vittima della tratta. Per i giovani questo pare un compito più facile, dato che sono meno strutturati nel pensiero, meno offuscati dai pregiudizi, più liberi di ragionare con la propria testa. La voce dei giovani, più entusiasta e spontanea, può rompere il silenzio per denunciare le nefandezze della tratta e proporre soluzioni concrete. Adulti che siano pronti ad ascoltare possono essere di grande aiuto. Da parte mia, come avrete notato, non ho mai perso occasione per denunciare apertamente la tratta come un crimine contro l’umanità. È «una vera forma di schiavitù, purtroppo sempre più diffusa, che riguarda ogni Paese, anche i più sviluppati, e che tocca le persone più vulnerabili della società: le donne e le ragazze, i bambini e le bambine, i disabili, i più poveri, chi proviene da situazioni di disgregazione familiare e sociale».2 Ho anche detto che «occorre una presa di responsabilità comune e una più decisa volontà politica per riuscire a vincere su questo fronte. Responsabilità verso quanti sono caduti vittime della tratta, per tutelarne i diritti, per assicurare l’incolumità loro e dei familiari, per impedire che i corrotti e i criminali si sottraggano alla giustizia ed abbiano l’ultima parola sulle persone».3

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[Silvia Migliorini, liceo di via Dalmazia, Roma] Tanti di noi giovani vogliamo comprendere meglio la tratta, le migrazioni e le loro cause. Sì, vogliamo impegnarci per rendere questo mondo più giusto. Ci piacerebbe affrontare temi come questo con i giovani della nostra società, anche utilizzando i social network, vista la loro notevole potenzialità di comunicazione. Caro Papa Francesco, nei gruppi parrocchiali, nei movimenti giovanili, nelle istituzioni educative cattoliche talvolta non ci sono spazi adeguati e sufficienti per affrontare questi temi. Inoltre, sarebbe bello che si organizzassero attività per promuovere l’integrazione sociale e culturale con coloro che sono vittime della tratta, affinché sia per loro più semplice superare il loro dramma e ricostruirsi una vita. Che cosa possiamo fare noi giovani? Che cosa può fare la Chiesa? I giovani ricoprono una posizione privilegiata per incontrare i sopravvissuti alla tratta di esseri umani. Andate nelle vostre parrocchie, in un’associazione vicino casa, incontrate le persone, ascoltatele. Da lì, cresceranno una risposta e un impegno concreti da parte vostra. Vedo infatti il rischio che questo diventi un problema astratto, ma non è astratto. Ci sono segni che potete imparare a “leggere”, che vi dicono: qui potrebbe esserci una vittima di tratta, uno schiavo. Abbiamo bisogno di promuovere la cultura dell’incontro che porta sempre in sé una ricchezza inaspettata e grandi sorprese. San Paolo ci dà un esempio: in Cristo, lo schiavo Onesimo non è più uno schiavo ma molto di più, è un fratello carissimo (cfr. Filemone 1, 16). La speranza, voi giovani, la potete trovare in Cristo, e Lui lo potete incontrare anche nelle persone migranti, che sono fuggite da casa, e rimangono intrappolate nelle reti. Non abbiate paura di incontrarle. Aprite il vostro cuore, fatele entrare, siate pronti a cambiare. L’incontro con l’altro porta naturalmente a un cambiamento, ma non bisogna avere paura di questo cambiamento. Sarà sempre per il meglio. Ricordate le parole del profeta Isaia: “Allarga la tua tenda” (cfr. 54, 2). La Chiesa deve promuovere e creare spazi di incontro, per questo motivo ho chiesto di aprire le parrocchie all’accoglienza. Bisogna riconoscere il grande impegno in risposta al mio appello, grazie! Chiedo a voi qui presenti oggi di operare a favore dell’apertura all’altro, soprattutto quando è ferito nella propria dignità. Fatevi promotori di iniziative che le vostre parrocchie possano ospitare. Aiutate la Chiesa a creare spazi di condivisione di esperienze e integrazione di fede e di vita. Anche i social network rappresentano, soprattutto per i ragazzi, un’opportunità di incontro che può apparire sconfinata: internet può offrire maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti, e questa è una cosa buona, è un dono di Dio. Tuttavia per ogni strumento che ci viene offerto, è fondamentale la scelta che l’uomo decide di farne. L’ambiente comunicativo può aiutarci a crescere o, al contrario, a disorientarci. Non bisogna sottovalutare i rischi insiti in alcuni di questi spazi virtuali; attraverso la rete tanti giovani vengono adescati e trascinati in una schiavitù dalla quale poi diventa oltre le proprie capacità liberarsi. In questo ambito gli adulti, genitori ed educatori - anche i fratelli e cugini un po’ più grandi - sono chiamati al compito di sorvegliare e proteggere i ragazzi. Voi dovete fare lo stesso con i vostri parenti e compagni, percepire e segnalare vulnerabilità particolari, casi sospetti sui quali si debba far luce. Usate dunque la rete per condividere un racconto positivo delle vostre esperienze di incontro con i nostri fratelli nel mondo, raccontate e condividete le buone pratiche e innescate un circolo virtuoso. [Faith Outuru, in inglese] Sono una delle tante giovani provenienti da un paese lontano, con cultura diversa, con condizioni di vita ed esperienza di Chiesa diverse. Adesso sono qui e desidero costruire qui il mio futuro. Ma penso al mio paese, a tanti giovani che vengono illusi con false promesse, ingannati, schiavizzati, prostituiti. Come potremmo aiutare questi giovani a non cadere nella trappola delle illusioni e nelle mani dei trafficanti? Come tu hai detto, bisogna fare in modo che i giovani non cadano “nelle mani dei trafficanti”. E com’è orribile rendersi conto che molte delle giovani vittime sono state prima abbandonate dalle loro famiglie, considerate come scarto dalla loro società! Molti poi sono stati indotti alla tratta dai loro stessi parenti e dai cosiddetti amici. È accaduto anche nella Bibbia: ricordate che i fratelli maggiori vendettero il giovane Giuseppe come schiavo, e così fu portato schiavo in Egitto! Anche in condizioni di estremo disagio, l’educazione si rivela importante. Essa è strumento di protezione contro la tratta, infatti aiuta a identificare i pericoli e a schivare le illusioni. Un sano ambiente scolastico, come

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un sano ambiente parrocchiale, consente ai giovani di denunciare i trafficanti senza vergogna e di diventare portatori dei giusti messaggi per altri giovani, affinché non finiscano nella stessa trappola. Tutti coloro che sono stati vittime di tratta sono fonte inesauribile di supporto per le nuove vittime e importantissime risorse informative per salvare molti altri giovani. Sono spesso false notizie, pervenute tramite passaparola o filtrate dai social media, che intrappolano gli innocenti. I giovani che hanno incontrato la criminalità organizzata possono giocare un ruolo chiave nel descriverne i pericoli. I trafficanti sono spesso persone senza scrupoli, senza morale né etica che vivono sulle disgrazie altrui, approfittando delle emozioni umane e della disperazione della gente per soggiogarla al loro volere, rendendola schiava e succube. Basti pensare quante donne africane giovanissime arrivano sulle nostre coste sperando di iniziare una vita migliore, pensando di guadagnarsi da vivere onestamente, e vengono invece rese schiave, obbligate a prostituirsi. Per i giovani è fondamentale costruire passo dopo passo la propria identità e avere un punto di riferimento, un faro-guida. La Chiesa da sempre vuole essere al fianco delle persone che soffrono, in particolare dei bambini e dei giovani, proteggendoli e promuovendo il loro sviluppo umano integrale. I minori sono spesso “invisibili”, soggetti a pericoli e minacce, soli e manipolabili; vogliamo, anche nelle realtà più precarie, essere il vostro faro di speranza e supporto, perché Dio è sempre con voi. «Il coraggio e la speranza sono doti di tutti ma in particolare si addicono ai giovani: coraggio e speranza. Il futuro certamente è nelle mani di Dio, le mani di un Padre provvidente. Questo non significa negare le difficoltà e i problemi, ma vederli, questi sì, come provvisori e superabili. Le difficoltà, le crisi, con l’aiuto di Dio e la buona volontà di tutti possono essere superate, vinte, trasformate». [Antonio Maria Rossi, liceo di via Dalmazia, Roma] Noi giovani italiani ci confrontiamo con un contesto segnato ogni giorno di più dalla pluralità di culture e religioni. Si tratta di una sfida aperta. Spesso la mancanza di rispetto per il diverso, la cultura dello scarto e la corruzione, dalle quali scaturisce la tratta, sembrano normali. Papa Francesco, per favore, continui ad incoraggiare i nostri governanti affinché contrastino la corruzione, la vendita di armi e la cultura dello scarto; incoraggi anche tutti i leader religiosi a garantire spazi dove le diverse culture e religioni possano conoscersi e valorizzarsi mutuamente, così che tutti condividano la medesima spiritualità di accoglienza. Vorrei chiederle: cosa possiamo fare noi qui, affinché sparisca definitivamente la piaga della tratta? Quando i Paesi sono in preda a povertà estrema, violenza e corruzione, l’economia, il quadro normativo e le infrastrutture di base sono inefficienti e non riescono a garantire sicurezza, beni e diritti essenziali. In tali contesti, gli autori di questi crimini agiscono impunemente. La criminalità organizzata e il traffico illegale di droghe e di esseri umani scelgono le prede tra le persone che oggi hanno scarsi mezzi di sussistenza e ancor meno speranze per il domani. La risposta è quindi creare opportunità per uno sviluppo umano integrale, iniziando con un’istruzione di qualità fin dalla prima infanzia, creando successivamente opportunità di crescita attraverso l’occupazione. Queste due modalità di crescita, nelle diverse fasi della vita, rappresentano gli antidoti alla vulnerabilità e alla tratta. Quella che ho più volte indicato come “la cultura dello scarto” è alla base di comportamenti che, nel mercato e nel mondo globalizzato, portano allo sfruttamento degli esseri umani, a tutti i livelli. «La povertà, i bisogni, i drammi di tante persone finiscono per entrare nella normalità».4 Alcuni Stati promuovono, all’interno della comunità internazionale, una politica particolarmente aspra nel voler sconfiggere il traffico di esseri umani; tale atteggiamento è di per sé fuorviante perché, a causa di interessi economici retrostanti, non si vogliono affrontare le cause profonde. Inoltre non sempre la posizione a livello internazionale è coerente con le politiche interne. Spero davvero che possiate inviare un messaggio ai leader ad ogni livello di governo, del mondo degli affari e della società, chiedendo l’accesso a un’istruzione di qualità e quindi a un’occupazione giusta e sostenibile. Una strategia che comprenda una maggiore conoscenza del tema della tratta, a partire da una terminologia chiara e da testimonianze concrete dei protagonisti, può essere certamente di aiuto. La consapevolezza reale sul tema investe tuttavia l’attenzione alla “domanda di tratta” che sta dietro l’offerta (filiera del consumo); siamo tutti chiamati a uscire dall’ipocrisia e affrontare l’idea di essere parte del problema piuttosto che girarci dall’altra parte

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proclamando la nostra innocenza. Lasciatemelo dire, se ci sono tante ragazze vittime della tratta che finiscono sulle strade delle nostre città, è perché molti uomini qui - giovani, di mezza età, anziani - richiedono questi servizi e sono disposti a pagare per il loro piacere. Mi chiedo allora, sono davvero i trafficanti la causa principale della tratta? Io credo che la causa principale sia l’egoismo senza scrupoli di tante persone ipocrite del nostro mondo. Certo, arrestare i trafficanti è un dovere di giustizia. Ma la vera soluzione è la conversione dei cuori, il taglio della domanda per prosciugare il mercato. [Maria Magdalene Savini] Papa Francesco, in un Suo messaggio rivolto ai sindaci di grandi città riuniti in Vaticano, Lei ha detto che «per essere davvero efficace, l’impegno comune per la costruzione di una coscienza ecologica e per il contrasto alle schiavitù moderne - traffico di esseri umani e di organi, prostituzione, lavoro nero - deve partire dalle periferie».5 Anche noi giovani ci troviamo spesso nella periferia e soffriamo l’esclusione, l’insicurezza per non aver lavoro e accesso all’educazione di qualità, per vivere in situazioni di guerra, di violenza, per essere obbligati a lasciare le nostre terre, per appartenere a minoranze etniche e religiose. Soprattutto noi donne siamo penalizzate e principali vittime. Quale spazio sarà dato nel Sinodo dei giovani alle giovani e ai giovani che provengono dalle periferie dell’emarginazione provocata da un modello di sviluppo ormai superato, che continua a produrre degrado umano? Come fare in modo che siano queste ragazze e ragazzi i protagonisti di cambiamento nella società e nella Chiesa? Desidero, per coloro che sono i testimoni reali dei rischi della tratta nei propri Paesi di origine, che possano trovare nel Sinodo un luogo per esprimere sé stessi, dalla quale richiamare la Chiesa all’azione. Perciò, è mio grande desiderio che giovani rappresentanti delle “periferie” siano protagonisti di questo Sinodo. Auspico che possano vedere il Sinodo come un luogo per lanciare un messaggio ai governanti dei paesi di provenienza e di arrivo per richiedere protezione e sostegno. Mi auguro che questi giovani lancino un messaggio globale per una mobilitazione giovanile mondiale, per costruire insieme una casa comune inclusiva e accogliente. Mi auguro che si facciano esempio di speranza per chi attraversa il dramma esistenziale dello sconforto. La Chiesa Cattolica intende intervenire in ogni fase della tratta degli esseri umani: vuole proteggerli dall’inganno e dall’adescamento; vuole trovarli e liberarli quando vengano trasportati e ridotti in schiavitù; vuole assisterli una volta liberati. Spesso le persone che sono state intrappolate e maltrattate perdono la capacità di fidarsi degli altri, e la Chiesa risulta essere spesso l’ultima ancora di salvezza. È assolutamente importante rispondere in modo concreto alle vulnerabilità di coloro che sono a rischio, per poi accompagnare il processo di liberazione cominciando a mettere in salvo le loro vite. I gruppi ecclesiali possono aprire spazi di sicurezza laddove necessario, nei luoghi di reclutamento, sulle rotte del traffico e nei Paesi di arrivo. La mia speranza è che il Sinodo sia anche un’opportunità per le Chiese locali di imparare a lavorare insieme e diventare “una rete di salvezza”. Vorrei infine concludere citando Santa Josefina Bakhita. Questa grande Sudanese «è anche oggi testimone esemplare di speranza per le numerose vittime della schiavitù e può sostenere gli sforzi di tutti coloro che si dedicano alla lotta contro questa “piaga nel corpo dell’umanità contemporanea, una piaga nella carne di Cristo”».6 Possa ispirarci a realizzare gesti di fratellanza con coloro che si trovano in uno stato di sottomissione. A lasciarci interpellare, a lasciarci invitare all’incontro. Preghiamo: Santa Giuseppina Bakhita, da bambina sei stata venduta come schiava e hai dovuto affrontare difficoltà e sofferenze indicibili. Una volta liberata dalla tua schiavitù fisica, hai trovato la vera redenzione nell’incontro con Cristo e la sua Chiesa. Santa Giuseppina Bakhita, aiuta tutti quelli che sono intrappolati nella schiavitù. A nome loro, intercedi presso il Dio della Misericordia, in modo che le catene della loro prigionia possano essere spezzate. Possa Dio stesso liberare tutti coloro che sono stati minacciati, feriti o maltrattati dalla tratta e dal traffico di esseri umani. Porta sollievo a coloro che sopravvivono a questa schiavitù

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e insegna loro a vedere Gesù come modello di fede e speranza, così che possano guarire le proprie ferite. Ti supplichiamo di pregare e intercedere per tutti noi: affinché non cadiamo nell’indifferenza, affinché apriamo gli occhi e possiamo guardare le miserie e le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della loro dignità e della loro libertà e ascoltare il loro grido di aiuto. Amen. 1 Messaggio per la XLVIII Giornata Mondiale della Pace 2015, “Non più schiavi, ma fratelli”, n. 6. 2 Discorso ad un gruppo di nuovi ambasciatori in occasione della presentazione delle lettere credenziali, 12 dicembre 2013. 3 Ibid. 4 Catechesi, Udienza Generale del 5 giugno 2013. 5 Discorso ai partecipanti al Workshop “Modern slavery and climate change: the commitment of the cities”, promosso dalle Pontificie Accademie delle scienze e delle scienze sociali, 21 luglio 2015. 6 Messaggio per la XLVIII Giornata Mondiale della Pace 2015, “Non più schiavi, ma fratelli”, n. 6. La pazienza è il contrario della rassegnazione Messa a Santa Marta «I nostri fratelli perseguitati nel Medio oriente, cacciati via per essere cristiani - e loro ci tengono a essere cristiani - sono “entrati in pazienza” come il Signore» nella momento della sua passione: con questo pensiero a quanti stanno vivendo sulla loro pelle il dramma della persecuzione il Papa ha celebrato lunedì mattina, 12 febbraio, la messa a Santa Marta. Un pensiero accompagnato da un consiglio spirituale molto pratico: vivere «la perfetta letizia». Perché quando si cede all’impazienza e si alza la voce, bisogna ricordare piuttosto la «pazienza che Dio ha con noi»; o pensare a quei «genitori che accolgono figli disabili o malati con una pazienza» che è esattamente il contrario della «rassegnazione». «L’apostolo Giacomo ci dice che è “perfetta letizia” quando subiamo ogni sorta di prove» ha fatto subito presente Francesco riferendosi, appunto, al passo della lettera di Giacomo (1, 1.11): «Sapendo che la vostra fede, messa alla prova, produce pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla. Se qualcuno di voi è privo di sapienza - e si capisce di pazienza, pure - la domandi a Dio». Per Giacomo, ha affermato il Papa, «perfetta letizia» è «quando subite ogni sorta di prove». E, ha rilanciato il Pontefice, «l’apostolo ripete l’ultima delle beatitudini nell’elenco di Matteo: “Beati voi quando vi insulteranno, quando vi perseguiteranno e diranno ogni sorta di cose contro di voi per causa mia”. Beati. “Beati voi”». Dunque, «“perfetta letizia quanto subite ogni sorta di prove”, sapendo che quella fede, nella prova, produce pazienza». «Non è facile capire - ha riconosciuto il Papa - cosa sia la pazienza, cosa sia essere paziente nella vita, cosa significa essere paziente davanti alle prove: possiamo dire che la pazienza non è un atteggiamento degli sconfitti, la pazienza cristiana non va per la strada della sconfitta, è un’altra cosa». Perciò, ha spiegato Francesco, «quelli che pensano che avere pazienza è portare nella vita una sconfitta sbagliano e invece di pazienza hanno rassegnazione». E magari dicono: «Nella lotteria della vita mi è capitato questo e lo porto avanti». Ma «questa non è pazienza, questa è rassegnazione» ha insistito il Pontefice. E «della rassegnazione non parla l’apostolo, parla della pazienza». «La pazienza è una virtù della gente che è in cammino, non di quelli che sono chiusi, fermi» ha fatto notare il Papa. E «quando si va in cammino capitano tante cose che non sempre sono buone: a me dice tanto sulla pazienza come virtù in cammino l’atteggiamento dei genitori quando viene un figlio ammalato o disabile, nasce così», ed essi dicono «“Ma grazie a Dio che è vivo!”: questi sono i pazienti». E «portano tutta la vita quel figlio con amore, fino alla fine: non è facile portare per anni e anni e anni un figlio disabile, un figlio ammalato; ma la gioia di avere quel figlio dà loro la forza di portare avanti. E questo è pazienza, non è rassegnazione:

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cioè, è la virtù che viene quando uno è in cammino». «Nella sua etimologia - ha spiegato Francesco - la parola significa “portare su”, “portare sulle spalle”». Un atteggiamento che «stanca, è vero: ma il paziente porta su, non lascia il problema, non lascia il limite, non lascia la sofferenza, la porta su» e lo fa anche «con gioia, letizia, “perfetta letizia” dice l’apostolo». Pazienza, dunque, «significa “portare su” e non affidare a un altro che porti il problema, che porti la difficoltà: “La porto io, questa è la mia difficoltà, è il mio problema. Mi fa soffrire? Eh, certo! Ma lo porto”». Pazienza è perciò «portare su». E «pazienza - ha proseguito il Pontefice nella sua meditazione - è anche la sapienza di saper dialogare con il limite: ci sono tanti limiti nella vita ma l’impaziente non li vuole, li ignora perché non sa dialogare con i limiti». Forse «c’è qualche fantasia di onnipotenza o di pigrizia, non sappiamo». Invece «il paziente sa dialogare con i limiti: la pazienza è una beatitudine, è la virtù di quelli che camminano, non dei fermi o chiusi; è sopportare, portare sulle spalle le cose non piacevoli della vita, anche le prove; è capacità di dialogare con i limiti». «La pazienza non è un consiglio che dà l’apostolo a noi cristiani» ha detto ancora il Pontefice. «Se noi guardiamo la storia della salvezza - ha spiegato - possiamo vedere la pazienza di Dio, di Dio Padre, nostro Padre: quanta pazienza con questo popolo testardo, con questo popolo che non sapeva riconoscere le cose buone e che, quando si annoiava, dimenticava Dio e faceva un idolo e andava da una parte all’altra». Ma «il Signore con pazienza lo condusse, lo portò avanti». E «possiamo anche fare il paragone», ha rilanciato Francesco, con «la pazienza che Dio ha con me, ognuno di noi: la pazienza di Dio nell’accompagnare, nell’aspettare i tempi». «Ci farà bene pensare che noi abbiamo un Padre che è paziente con noi» ha suggerito il Papa. E «poi questo Dio, alla fine, invia suo Figlio per “entrare in pazienza”: Gesù “entra in pazienza”, soprattutto nella passione». Nel suo Vangelo, «Luca dice che il Signore andò decisamente verso Gerusalemme: la decisione di prendere la missione, “entrò in pazienza”: patì». Certamente, ha riconosciuto Francesco, «non è facile “entrare in pazienza”. E qui penso ai nostri fratelli perseguitati nel Medio oriente, cacciati via per essere cristiani e loro ci tengono a essere cristiani: sono “entrati in pazienza” come il Signore è “entrato in pazienza». «Con queste idee - ha concluso il Pontefice - forse possiamo oggi pregare per il nostro popolo: “Signore, dà al tuo popolo pazienza per portare su le prove”». E «anche pregare per noi: tante volte siamo impazienti, quando una cosa non va, sgridiamo». Ma ecco il suggerimento di Francesco: «Fermati un po’, pensa alla pazienza di Dio Padre, “entra in pazienza” come Gesù». Per questo è necessario chiedere al Signore la pazienza che «è una bella virtù». AVVENIRE Pag 1 Toccare il mistero di Luciano Moia Lourdes e la vita cambiata Il soprannaturale fa parte della nostra vita. Interroga il nostro razionalismo. Sgretola le nostre convinzioni di autosufficienza. Ci sollecita all’umiltà. Ci induce a sospendere il giudizio. Ci spinge a considerare il fatto che esista qualcosa che va al di là della nostra pretesa di controllare, di prevedere, di pianificare tutto. Per qualcuno è un pensiero disturbante, il sospetto inquietante di un Mistero che si fa presente e che scombina i nostri piani. Per altri è la conferma di una speranza, un lieto presagio che, definendo la nostra finitezza, ci regala un raggio di infinito. Ecco perché dovremmo essere grati di fronte al messaggio che arriva dal Bureau médical di Lourdes: Una suora, Bernadette Moriau, per oltre 40 anni ha camminato a grande fatica, reggendosi in piedi solo con l’aiuto di un tutore. Ma dieci anni fa, dopo una visita a Lourdes, è guarita dalla sua malattia in modo «improvviso, istantaneo, completo, duraturo e inspiegabile», che sono le condizioni perché la Chiesa possa riconoscere il miracolo. La scienza si ferma, non ha più parole, dichiara la sua impossibilità di comprendere quello è capitato. Ma come? Abbiamo conoscenze per costruire un uomo in laboratorio, clonarne il Dna, replicare la sua mappa genetica ma non riusciamo a comprendere come si possa guarire in modo radicale, da un istante all’altro, da una malattia invalidante. E le persone di fede alzano lo sguardo sulla maternità divina, eppure umanissima, della Signora di Lourdes. Perché proprio lì? Perché proprio Lei? Perché questi eventi, che sfuggono alla nostra possibilità di comprendere e di razionalizzare, càpitano da 160 anni nel Santuario delle apparizioni? Anche in questo caso non c’è una spiegazione ragionevole, né scientifica né teologica.

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Può essere che la Madonna offra una 'corsia preferenziale' solo a chi ha la possibilità di raggiungere la 'sua' grotta ai piedi dei Pirenei? Evidentemente no. Ogni santuario mariano, ogni chiesa, ma anche ogni casa abbracciata dalla grazia ordinaria di Dio – se è vero che per il Vaticano II ogni famiglia cristiana è chiesa domestica – non è preclusa all’evento del soprannaturale. Ma, per accorgercene dobbiamo aprire il cuore al mistero quotidiano della bellezza che troppo spesso non riesce a scalfire il naturalismo immanentista in cui siamo immersi. Lourdes, come Fatima, Loreto e tutti gli altri luoghi attraversati dalla luce della Vergine, non sono aree 'fuori controllo', spazi in cui le leggi della natura possono essere arbitrariamente sospese. Ma un richiamo ricorrente alla possibilità di Amore straordinario, una paternità e una maternità che superano la nostra possibilità di comprensione e ci ricordano il nostro essere sempre e comunque figli in attesa di conforto e di tenerezza. Pag 14 Il Papa: ci rende impuri il peccato non la malattia All’Angelus la denuncia dei mali del cuore: “Sono l’egoismo, la superbia, la corruzione”. Un clic sul tablet e l’invito ai ragazzi: dobbiamo prepararci A partire dall’episodio evangelico di Gesù che guarisce un lebbroso, la riflessione del Papa domenica scorsa all’Angelus. Al termine Francesco salutando la comunità congolese di Roma, ha ricordato la Giornata di preghiera e digiuno indetta per il 23 febbraio. Quindi il richiamo al capodanno lunare festeggiato il 15 febbraio, nell’Estremo Oriente e in varie parti del mondo e un pensiero ai malati che – ha sottolineato il Pontefice – oltre alla mancanza della salute, soffrono spesso la solitudine e l’emarginazione. «La Vergine Santa, Salus infirmorum, aiuti ciascuno a trovare conforto nel corpo e nello spirito, grazie a una adeguata assistenza sanitaria e alla carità fraterna che sa farsi attenzione concreta e solidale». Molto affettuoso anche il saluto alle parrocchie italiane presenti in piazza San Pietro e ai tanti ragazzi del dopo-Cresima, della professione di fede e del catechismo. Di seguito le parole del Papa prima della preghiera mariana. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! In queste domeniche il Vangelo, secondo il racconto di Marco, ci presenta Gesù che guarisce i malati di ogni tipo. In tale contesto si colloca bene la Giornata Mondiale del Malato, che ricorre proprio oggi, 11 febbraio, memoria della Beata Vergine Maria di Lourdes. Perciò, con lo sguardo del cuore rivolto alla grotta di Massabielle, contempliamo Gesù come vero medico dei corpi e delle anime, che Dio Padre ha mandato nel mondo per guarire l’umanità, segnata dal peccato e dalle sue conseguenze. L’odierna pagina evangelica (cfr Mc 1,4045) ci presenta la guarigione di un uomo malato di lebbra, una patologia che nell’Antico Testamento veniva considerata una grave impurità e comportava la separazione del lebbroso dalla comunità: vivevano da soli. La sua condizione era veramente penosa, perché la mentalità del tempo lo faceva sentire impuro anche davanti a Dio non solo davanti agli uomini. Anche davanti a Dio. Perciò il lebbro- so del Vangelo supplica Gesù con queste parole: «Se vuoi, puoi purificarmi!» (v. 40). All’udire ciò, Gesù sente compassione (cfr v. 41). È molto importante fissare l’attenzione su questa risonanza interiore di Gesù, come abbiamo fatto a lungo durante il Giubileo della Misericordia. Non si capisce l’opera di Cristo, non si capisce Cristo stesso, se non si entra nel suo cuore pieno di compassione e di misericordia. È questa che lo spinge a stendere la mano verso quell’uomo malato di lebbra, a toccarlo e a dirgli: «Lo voglio, sii purificato!» (v. 40). Il fatto più sconvolgente è che Gesù tocca il lebbroso, perché ciò era assolutamente vietato dalla legge mosaica. Toccare un lebbroso significava essere contagiati anche dentro, nello spirito, cioè diventare impuri. Ma in questo caso l’influsso non va dal lebbroso a Gesù per trasmettere il contagio, bensì da Gesù al lebbroso per donargli la purificazione. In questa guarigione noi ammiriamo, oltre alla compassione, la misericordia, anche l’audacia di Gesù, che non si preoccupa né del contagio né delle prescrizioni, ma è mosso solo dalla volontà di liberare quell’uomo dalla maledizione che lo opprime. Fratelli e sorelle, nessuna malattia è causa di impurità: la malattia certamente coinvolge tutta la persona, ma in nessun modo intacca o impedisce il suo rapporto con Dio. Anzi, una persona malata può essere ancora più unita a Dio. Invece il peccato, quello sì che ci rende impuri! L’egoismo, la superbia, l’entrare nel mondo della corruzione, queste sono malattie del cuore da cui c’è bisogno di essere purificati, rivolgendosi a Gesù come il

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lebbroso: «Se vuoi, puoi purificarmi!». E adesso, facciamo un attimo di silenzio, e ognuno di noi – tutti voi, io, tutti – può pensare al suo cuore, guardare dentro di sé, e vedere le proprie impurità, i propri peccati. E ognuno di noi, in silenzio, ma con la voce del cuore dire a Gesù: «Se vuoi, puoi purificarmi». Lo facciamo tutti in silenzio. «Se vuoi, puoi purificarmi». «Se vuoi, puoi purificarmi». E ogni volta che ci accostiamo al sacramento della Riconciliazione con cuore pentito, il Signore ripete anche a noi: «Lo voglio, sii purificato!». Quanta gioia c’è in questo! Così la lebbra del peccato scompare, ritorniamo a vivere con gioia la nostra relazione filiale con Dio e siamo riammessi pienamente nella comunità. Per intercessione della Vergine Maria, nostra Madre Immacolata, chiediamo al Signore, che ha portato agli ammalati la salute, di sanare anche le nostre ferite interiori con la sua infinita misericordia, per ridonarci così la speranza e la pace del cuore». Francesco Domenica scorsa dopo l’Angelus il Papa di è reso protagonista di un gesto molto simpatico. Nel giorno, l’11 febbraio appunto, in cui si aprivano le iscrizioni alla Giornata mondiale della gioventù, che si svolgerà a Panama nel gennaio 2019. Francesco ha confermato simbolicamente la sua partecipazione alla Gmg. Per questo ha digitato sul tablet iscrivendosi via Internet come primo pellegrino al raduno. «Dobbiamo prepararci!– ha detto Bergoglio –. Invito tutti i giovani del mondo a vivere con fede e con entusiasmo questo evento di grazia e di fraternità sia recandosi a Panama, sia partecipando nelle proprie comunità». Il tablet è stato portato al Papa da due giovani (foto Ansa) – un ragazzo di Panama e una ragazza romana – che lo hanno raggiunto dopo la catechesi. Ad accompagnarli – come riferisce Vatican news – padre Joao Chagas, responsabile del settore giovani del Dicastero vaticano per i laici, la famiglia e la vita. Dieci ore dopo il clic del Papa – ha detto lo stesso Chagas – «avevamo già 234 gruppi che avevano iniziato le iscrizioni, per un totale di quasi 9.000 pellegrini». Come noto la XXXIV Giornata mondiale della gioventù si terrà a Panama dal 22 al 27 gennaio 2019. Sarà la terza Gmg vissuta da Bergoglio come Pontefice, dopo Rio de Janeiro nel 2013 e Cracovia nel 2016. IL FOGLIO Pag 3 Benedizione delle coppie gay? Vescovi Usa contro la chiesa tedesca di Matteo Matzuzzi Roma. "Una condizione generale di base è questa: parlare chiaro. Nessuno dica 'questo non si può dire'. Bisogna dire tutto ciò che si sente con parresia e ascoltare con umiltà". Erano le parole d'ordine del Papa in apertura del Sinodo straordinario sulla famiglia celebrato in Vaticano nel 2014, che avrebbe in un biennio reso manifesta la spaccatura profonda - è sufficiente consultare le tabelle con i voti dei singoli paragrafi della Relazione finale - della chiesa su questioni quali la morale sessuale e familiare. Chi oggi discute con franchezza è la chiesa tedesca, già capofila delle aperture poi confluite nell'esortazione Amoris laetitia. Il tema è diverso, solo lambito dalla doppia assise sinodale, ma che ciclicamente torna a farsi spazio nel dibattito non solo a porte chiuse: la benedizione delle coppie omosessuali. A riportare sotto la lente la questione era stato il vicepresidente della Conferenza episcopale di Germania, mons. Josef Bode vescovo di Osnabrück, il quale s'era domandato se non fosse venuto il momento di "essere più giusti, visto che c'è molto di positivo, buono e corretto" in questo tipo di relazioni. Da qui la proposta, peraltro già avanzata alla vigilia del Sinodo, e cioè di "considerare qualcosa, magari una benedizione". A dare manforte a mons. Bode era subito intervenuto il vescovo di Münster, mons. Dieter Geerlings: "Non sono per il 'matrimonio per tutti', ma se due omosessuali danno vita a una relazione omosessuale, se vogliono prendersi cura l'uno dell'altro, allora io posso benedire questa mutua responsabilità. E' una relazione preziosa e lodevole, anche se non in completo accordo con la chiesa". A tentare di raffreddare aspettative e speranze di quanti vorrebbero che la chiesa benedicesse le unioni gay, si esprimesse favorevolmente sul diaconato femminile e ponesse fine al celibato dei sacerdoti, è stato però il numero uno della Conferenza episcopale, il cardinale Reinhard Marx. Lo stesso che tre anni e mezzo fa diceva ai giornalisti che i

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vescovi tedeschi erano uniti nel sostenere le proposte del cardinale Walter Kasper sul riaccostamento alla comunione dei divorziati risposati e che "Roma non potrà mai dirci cosa fare e cosa no in Germania". Stavolta Marx non vuole essere il vessillifero d'una nuova campagna d'aggiornamento dottrinario-pastorale della chiesa, e spiega che a proposito delle benedizioni per gli omosessuali proposte da qualche suo confratello "non ci sono soluzioni generali". "Penso - ha detto in un testo diffuso dalla Conferenza episcopale - che non sarebbe neppure giusto che ci fossero soluzioni generali, perché stiamo parlando di cura pastorale per casi individuali e ciò vale anche per altri campi che non possiamo regolare. Ci sono cose - ha aggiunto - che non possono essere regolate". L'arcivescovo di Monaco e Frisinga non esclude la possibilità che si arrivi a un rito di benedizione, ma preferisce non cavalcare il tema come invece fa il suo numero due, mons. Bode, rischiando di squassare un equilibrio quanto mai instabile con petizioni contro e a favore del Papa, correzioni più o meno filiali, richieste d'abiura. Che poi Reinhard Marx la pensi come Geerglings e Bode non è un mistero, visto che nel 2016, in un'intervista all'Irish Times, aveva osservato che "la chiesa e la società avrebbero dovuto scusarsi per come avevano trattato gli appartenenti alla comunità Lgbt". La proposta, ancora una volta lanciata dalla chiesa tedesca, benché smorzata ha però rinfocolato uno degli scontri più accesi che si ebbero nell'Aula Nuova del Sinodo nel 2014 e 2015, quello con i vescovi americani. Subito a Marx ha risposto infatti l'arcivescovo di Philadelphia, il combattivo Charles Chaput: "Qualsiasi cosiddetto rito di benedizione sarebbe parte di un atto moralmente proibito", ha scritto sul periodico diocesano. "L'imprudenza di tali dichiarazioni pubbliche è - o dovrebbe essere - causa di gravi preoccupazioni. Richiede una risposta poiché ciò che accade in una realtà locale della chiesa globale risuona inevitabilmente altrove. Un simile rito - ha aggiunto Chaput - minerebbe la testimonianza cattolica sulla natura del matrimonio e della famiglia. Confonderebbe e indurrebbe in errore i fedeli. E ferirebbe l'unità della nostra chiesa". Mons. Bode richiamava la bontà di tali unioni e allora ci si potrebbe domandare perché un atto apparentemente misericordioso quale sarebbe una benedizione può porre problemi. "Benedicendo le persone nella loro particolare forma di vita le si incoraggia in modo efficace a rimanere in questo stato", ha sottolineato l'arcivescovo di Philadelphia: "In tutta la storia cristiana si applica un detto semplice e saggio, lex orandi, lex credendi. Stabilire un nuovo rito insegnerebbe e farebbe avanzare una nuova dottrina con il suo effetto vissuto, cioè la pratica". Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 2 Ormai tanti genitori più a rischio dei figli di Daniele Novara Scuola e famiglia, i casi di scontro che si ripetono L’episodio di Foggia ha solo un nome: violenza. Un’aggressione vergognosa ai danni di un insegnante che non può trovare nessuna giustificazione, come ha giustamente commentato Valeria Fedeli, ministra dell’Istruzione. Un episodio drammatico che, ancora una volta e forse definitivamente, porta alla luce del sole una grave situazione: i genitori, più dei ragazzi, manifestano una fragilità che nelle generazioni precedenti non si era mai riscontrata. Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che oggi sono più a rischio tanti genitori rispetto ai loro figli. Un’emergenza educativa a 360 gradi, senza precedenti. Prevalgono atteggiamenti di totale immedesimazione emotiva nei figli. Una vera novità storica. I padri e le madri si sono sempre identificati nel loro ruolo, mantenendo la giusta distanza, senza scendere in confidenze eccessive, restando sufficientemente in disparte. Oggi non è più così. Spesso e volentieri i genitori non si chiedono che cosa serve per la crescita dei figli dal punto di vista educativo, ma si chiedono che cosa servirà per renderli felici, che cosa creerà più benessere, partendo dal presupposto che vadano rimossi gli ostacoli per rendere più facile la loro vita. Finisce così che troviamo bambini di 6, 7, 8 anni ancora nel lettone; che l’uso dello smartphone di notte venga deciso da ragazzini di 12, 13 anni; che si preferisca fare il genitore-bancomat piuttosto che consegnare agli adolescenti una limitata e giusta paghetta

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settimanale. Quando poi non ce la fa più, il genitore emotivo ricorre alle urla che diventano pertanto inevitabili nel momento in cui la funzione educativa ha perso credibilità. Si spinge sempre di più l’acceleratore dell’emotività finché non arriva a deflagrare violentemente, come nel caso di Foggia e purtroppo in molti altri casi. Incontro spesso genitori che pensano di 'andare a scuola' al posto dei figli. Manca un’alfabetizzazione pedagogica per buona parte delle generazioni uscite dal ’68, una vera e propria rivoluzione antropologica che ha azzerato il senso dell’autorità costruito in millenni di storia, senza dare alle nuove famiglie un libretto di istruzione per gestire i propri bambini e ragazzi. Esiste un antidoto a tutto questo, al di là della riproposizione della pura e semplice 'famiglia tradizionale' che rischia di diventare quasi un mantra retorico e nostalgico? Dobbiamo aiutare i genitori. Ammettere questa necessità è il grande cambiamento che può permettere di affrontare le nuove sfide. Ci sono iniziative – e di alcune, da pedagogista, mi sto occupando personalmente – come le Scuole Genitori e gli sportelli di sostegno pedagogico alla genitorialità, che possono rappresentare una risposta importante e concreta. Occorre creare luoghi riconosciuti a livello istituzionale dove i genitori possano trovare le adeguate risposte per educare i figli. Le Scuole Genitori hanno proprio questo obiettivo: dare risposte serie e attendibili che nella confusione attuale sono sempre più difficili da trovare. Da tempo sogno che la questa competenza educativa diventi qualcosa di tangibile e reale anche nei reparti di maternità. Sogno che ogni mamma esca dall’ospedale con il suo piccolino, il suo 'cucciolo' non solo con un pacco di cremine, ciucci, salviettine, latti artificiali di ogni tipo, ma anche con un kit pedagogico/educativo che offra tutte le informazioni basilari che garantiscano ai genitori le informazioni essenziali che permetteranno loro di fare le scelte giuste. Pag 3 Il lavoro muta ma è centrale. Non è il reddito a includere di Francesco Riccardi Cambiano le modalità, non il fine per l’uomo Con un lungo post pubblicato sabato 10 febbraio sul suo sito, Beppe Grillo spiega e difende la filosofia sottesa al 'Reddito di cittadinanza', che rappresenta sostanzialmente il cuore del programma del Movimento 5 Stelle. Lo fa intuendo bene quale potrà essere l’evoluzione del lavoro determinata dal progresso tecnologico, compresi alcuni esiti assai auspicabili, ma finisce per contraddirsi sullo strumento da utilizzare per raggiungerli, rischiando così di spingere fuori strada la riflessione sul significato stesso del lavoro per l’uomo. «Il reddito di cittadinanza – scrive Grillo – è previsto solo per chi è in un momento di bisogno e solo a condizione di accettare un lavoro proposto dai centri per l’impiego. Dopo un massimo di 3 proposte rifiutate, il reddito non viene più erogato. Il reddito di cittadinanza esiste già nella maggior parte dei Paesi Europei e non ha senso chiedersi se possa funzionare. Già funziona». Lasciando qui da parte la valutazione dei costi della proposta di M5S e le relative coperture, è interessante soffermarsi sulle motivazioni sottolineate dal fondatore del MoVimento. «Molti posti di lavoro non hanno più senso di esistere e oggi, invece, si chiede agli Stati di aumentare la produttività, per uscire dalla crisi e diminuire il debito. Ma proprio dove si aumenta la capacità produttiva, si aumenta anche la disoccupazione. Non abbiamo più bisogno di lavorare così tanto. Le ore lavorative dovrebbero diminuire almeno a 5 ore al giorno», sostiene ancora Grillo. In realtà, bisognerebbe essere assai cauti nel demonizzare la produttività – che è cosa diversa dalla semplice quantità di lavoro o di produzione – non fosse altro perché è proprio il costante incremento della produttività dell’uomo che ci ha permesso di arrivare fin qui, a moltiplicarci fino a 7 miliardi di persone potendo sfamarci (quasi) tutti, e oggi a essere in grado di costruire macchine che ci permetteranno di lavorare per meno ore e con sempre minor fatica fisica. Questi ultimi sono obiettivi certamente auspicabili – assieme a una maggiore sostenibilità ambientale delle produzioni – ma sono determinati proprio dagli incrementi di produttività che non vanno quindi bloccati, semmai meglio indirizzati e i relativi frutti redistribuiti non solo al profitto. Grillo, però, si spinge più in là: «In realtà non dovremmo parlare del lavoro. Si tratta di capire che il concetto di lavoro e, più in generale, il concetto sociale di vita, è cambiato. Andiamo verso un’epoca in cui il salariato non avrà più ragion d’essere». A caratteri cubitali, il fondatore di M5S sottolinea un punto che gli è caro da tempo: « Molte persone sono convinte di avere un

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posto di lavoro ma hanno solo un posto di reddito. Perché è il reddito che ti include nella società, non il lavoro. Abbiamo l’idea che l’uomo non possa far altro che lavorare, che la sua finalità ultima su questa terra sia avere un lavoro. Niente di più sbagliato. Siamo abituati ad andare al lavoro, a pensare la nostra vita in termini di cosa facciamo... ma la metà (se non tutti) dei cosiddetti lavori manuali ripetitivi e quelli da scrivania, o a bassa creatività, possono essere sostituiti già oggi con la tecnologia esistente. La tecnologia ci sta liberando da molti lavori e sta facendo emergere un tempo diverso: il tempo libero. (...) È incredibile come possiamo immaginare una vita passata a lavorare, a fare qualcosa che non ci piace, magari agli ordini di qualcuno con cui non andiamo d’accordo, ma non riusciamo a pensare di fare qualcosa che semplicemente ci diverte. Magari anche con le persone che amiamo». L’ idea postulata da Grillo che sia il reddito e non il lavoro a includere nella società è vera se si considera che anche chi non ha capacità lavorativa – ad esempio per età o per impossibilità fisica – ha tutto il diritto di vedere riconosciuta la propria dignità attraverso un sostegno anzitutto monetario, ma rivela la sua insufficienza se si guarda all’esigenza di essere incluso e al complesso delle persone. E infatti proprio il progetto di 'Reddito di cittadinanza' presentato dal Movimento 5 Stelle e ricordato all’inizio da Grillo prevede che esso sia subordinato all’accettazione di offerte di lavoro e addirittura che ne venga interrotta l’erogazione dopo 3 rifiuti. Colpisce che il fondatore del MoVimento si contraddica da un lato dicendo che è solo il reddito e non il lavoro a includere nella società – e vagheggiando addirittura il superamento definitivo del lavoro stesso – ma dall’altro lato preveda di togliere il reddito a chi non accetta di lavorare. S ul piano pratico appare più equilibrato e completo il progetto di 'Reddito di inclusione sociale' elaborato dall’Alleanza contro la povertà e in buona parte realizzato con il 'Reddito di inclusione' (Rei) varato dal governo Gentiloni. Perché il Rei con il contributo monetario (oggi ancora a livelli insufficienti) garantisce la sopravvivenza, individuando però proprio nel lavoro lo strumento per l’inclusione nella società e l’uscita dalla povertà. Così che, grazie all’accompagnamento dei servizi pubblici e del volontariato, la persona caduta in povertà sia soggetto attivo e non passivo del riscatto dalla condizione di bisogno attraverso lo studio, la riqualificazione e il reingresso nel mercato del lavoro. Il lavoro, appunto. Certo è destinato a mutare profondamente già dal prossimo futuro: potrà essere svolto prevalentemente a distanza, sempre più da casa propria, con meno fatica e per meno ore, lasciando auspicabilmente maggior spazio alle attività di cura, alle relazioni sociali, al godimento della bellezza. Ma è impossibile immaginarne la fine completa e soprattutto negarne la centralità nel contesto sociale dell’uomo. Per far nascere una società senza lavoro e senza 'salariati' come prefigura Grillo, senza nuove differenze tra élite e sfruttati, tra dominatori e dominati, sarebbe necessario che al posto dell’uomo lavorassero solo macchine guidate da intelligenze artificiali. Una società in cui l’entità statale – governata non si sa da chi, forse un algoritmo o un’intelligenza artificiale sopra le parti – fosse la proprietaria di tutti i mezzi di produzione per poter redistribuire in maniera egualitaria i benefici agli esseri umani. Uno scenario che non sapremmo se definire semplicemente fantascientifico o utopico oppure, più propriamente, distopico. E che non dovrebbe piacere molto neppure a Grillo. Perché il lavoro è connaturato all’uomo. Al di là della fatica e della ripetitività, è il modo con cui non solo ci si 'guadagna' il vivere per sé e per i familiari, ma si realizza se stessi, si interviene nel mondo mettendoci del proprio, modificandolo, trasformandolo. Per i credenti, è lo strumento con cui si diventa co-creatori, si continua a collaborare alla creazione di Dio. E ancora, assieme alla famiglia, rimane il principale mezzo di comunicazione e relazione con gli altri. Di più: il lavoro è la migliore occasione che ognuno di noi ha a disposizione per costruire il bene comune, cioè il bene per tutti e per ciascuno. Perciò l’obiettivo non può essere la sostituzione del lavoro con un reddito, ma far sì che a nessuno manchi l’indispensabile e che il lavoro sia sempre più libero, creativo, partecipativo e solidale (non caso gli aggettivi chiave nelle riflessioni e nelle proposte delle Settimane Sociali dei cattolici italiani che a fine ottobre 2017 hanno avuto il loro culmine a Cagliari). Un lavoro migliore sì, assieme a più equità distributiva, non un puro reddito senza lavoro. Perché lavoriamo – dovremmo ricordarcelo – non solo per noi stessi e neppure solo per passione, ma appunto per contribuire a un bene più grande, che significa cercare di portare tutti e ciascuno a perfezione. Una fatica benedetta, che arriva a essere atto di amore verso gli altri. C’è qualcosa di più importante? Che conferisca maggiore dignità? Che possa meglio includere nella società?

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LA NUOVA Pag 1 Il caso Italo e i benefici del mercato di Giancarlo Corò La cessione della società ferroviaria privata Italo-NTV al fondo americano d'investimento Global Infrastructure Partners costituisce uno straordinario caso di successo per l'economia italiana. Un caso sul quale è opportuno riflettere per i tanti insegnamenti che può portare al dibattito politico di un Paese che appare spesso intimorito dai mercati globali, quando dovremo invece capire che sviluppo e prosperità saranno sempre più legati alla capacità di essere protagonisti su questi mercati, vendendo non solo beni e servizi - cosa che sappiamo fare bene attraverso l'export - ma anche asset produttivi - capitali, infrastrutture, imprese - dove invece siamo ancora indietro rispetto alle economie più avanzate. Quando una società estera acquisisce il controllo di un'impresa italiana, sorge sempre il dubbio se sia un bene o un male. Se da un lato ci sono i vantaggi generati da un flusso di investimenti internazionali sul nostro territorio, dall'altro c'è tuttavia il timore che il passaggio del controllo in mani straniere porti una perdita di capacità produttiva e di occupazione. In genere l'opinione pubblica tende a sopravalutare i rischi e sottovalutare i vantaggi. Al contrario, la maggior parte delle analisi economiche mostra che l'acquisizione estera si associa a uno sviluppo dell'impresa e una qualificazione dell'occupazione, consentendo in diversi casi di superare crisi aziendali incipienti a causa di carenze finanziarie, manageriali o di mercato. Non che i rischi siano assenti, ma dipendono da condizioni che sono in buona misura sotto la nostra responsabilità. Il caso Italo-NTV è a tal proposito esemplare. Sarebbe infatti assurdo se il fondo GIP, che detiene in tutto il mondo asset per 40 miliardi di dollari in reti di trasporto, ambiente ed energia, avesse deciso di spendere due miliardi per il controllo completo di Italo-NTV senza puntare alla crescita del business ferroviario in Italia e in Europa. Dobbiamo dunque aspettarci che Italo-GIP voglia valorizzare l'investimento incrementando i servizi e, semmai, estendendoli alle tratte internazionali dove l'alta velocità è destinata ad avere un ruolo crescente. L'investimento è arrivato in Italia perché il nostro Paese ha avviato per primo nel continente la regolazione dell'accesso alle reti ferroviarie di operatori privati, rendendo possibile lo sviluppo di un'impresa come NTV che ha creato valore non solo per i suoi azionisti, ma anche per i consumatori, i fornitori, il territorio. L'esperienza di Italo-NTV è dunque la dimostrazione concreta dei benefici della concorrenza. Benefici tangibili in termini di qualità dei servizi e ribasso dei prezzi che hanno interessato i clienti di Italo come quelli di Trenitalia, ex-monopolista pubblico che si è finalmente destato dal lungo letargo grazie alla pressione competitiva di un nuovo operatore. Questa esperienza dimostra tuttavia che il mercato può funzionare solo attraverso buone regole, il cui governo deve essere il più possibile indipendente dagli interessi in gioco. Siamo ancora lontani da un quadro regolativo perfetto. Tuttavia, dopo la separazione societaria del gruppo FS in due entità distinte - da un lato RFI, responsabile della rete ferroviaria, dall'altro Trenitalia, gestore del servizio di trasporto - e da quando ha iniziato a funzionare l'Autorità di regolazione dei trasporti, abbiamo fatto capire di volerci muovere nella giusta direzione. Se dunque vogliamo che Italo-GIP cresca in Italia dobbiamo consolidare questo quadro regolativo, completare la rete dell'alta velocità e ampliare il campo di azione dei privati anche agli altri servizi ferroviari. Una domanda in attesa di risposta è semmai dove finiranno i due miliardi intascati dagli azionisti NTV. Perché non incentivare il loro reinvestimento nel trasporto ferroviario regionale, dando vita a un nuovo operatore privato su un mercato in forte crescita? Su questo fronte c'è davvero molto da fare e anche da disfare, come l'accordo fra Regione Veneto e Trenitalia che prolunga oltre ogni ragionevole termine la concessione in monopolio sui servizi pendolari. Sono queste decisioni politiche miopi, non gli investimenti esteri, di cui dovremo davvero preoccuparci se abbiamo in mente la modernizzazione dei servizi e lo sviluppo del territorio. Torna al sommario 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ

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LA NUOVA Pag 22 San Camillo a Villa Salus: “Urge il piano industriale” di Eugenio Pendolini Le richieste dei sindacati sulla vendita della clinica del Lido alle Suore Mantellate Lido. Prima si chiude la vendita del San Camillo e meglio è, a patto che ci sia un piano industriale serio alle spalle. Questo, in sintesi, il commento dei sindacati il giorno dopo l'apertura del patriarca Moraglia all'intesa tra Villa Salus e il San Camillo del Lido. L'ospedale religioso è stato messo in vendita dalla fondazione opera San Camillo e, dopo l'iniziale interessamento dell'imprenditore veronese Giuseppe Puntin (a capo delle cliniche Pederzoli), a spuntarla dovrebbe essere proprio la Congregazione delle Suore Mantellate, proprietarie della clinica sul Terraglio. Un passaggio di consegne auspicato dal patriarca di Venezia, in linea con il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin, a capo della commissione vaticana voluta dal Papa per aiutare gli ospedali religiosi in difficoltà. Stesso auspicio anche dei sindacati, a patto di mettere nero su bianco alcuni punti inamovibili. La Cgil chiede, innanzitutto, che dietro l'acquisto del San Camillo ci sia un progetto economico credibile. Secondo Daniele Giordano (segretario Fp-Cgil) servono garanzie contrattuali per i 300 lavoratori attualmente impiegati nella struttura lidense (sia operatori sanitari che impiegati amministrativi), investimenti strutturali (almeno 4 milioni di euro, la somma quantificata dal sindacato) e nella ricerca. I soldi servirebbero a garantire l'alta professionalità dei servizi offerti dall'Ircss (Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico) del Lido. L'altro punto fermo è la territorialità: nessuno spostamento della struttura in terraferma. «Oltre ai livelli occupazionali», dichiara Giordano, «dev'essere garantita l'offerta socio-sanitaria del territorio. Se il Lido perdesse anche il San Camillo, ci sarebbe un danno in termini economici e di insediamenti».In più, la Cgil chiede chiarezza anche sullo Stella Maris: a chi finirà la casa di riposo degli anziani, di proprietà dei camilliani? «Questa situazione di incertezza, che perdura da troppo tempo, indebolisce l'intera struttura. Se la trattativa dovesse procedere - conclude Giordano - chiediamo di aprire immediatamente un tavolo di confronto con i soggetti interessati». L'apertura del patriarca Moraglia è accolta con soddisfazione anche dalla Uil. Il segretario Pietro Polo considera l'eventuale acquisto da parte di Villa Salus una soluzione ottimale sotto vari punti di vista: per la permanenza al Lido della struttura, per l'affidabilità dell'ospedale in via del Terraglio e per il mantenimento di un ospedale d'eccellenza in ambito ecclesiastico, così come richiesto dal patriarca. «Siamo stati i primi a caldeggiare Villa Salus - conclude Polo - a breve ci sarà un incontro tra tutti gli interlocutori, sindacati compresi. Auspichiamo una chiusura entro giugno». IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag X Villa Salus e San Camillo, la Cgil vuole garanzie Mestre. «Aprire subito un confronto sulle prospettive in vista dell'acquisizione del San Camillo del Lido da parte di Villa Salus». Non si è fatta attendere la risposta dei sindacati dopo l'annuncio, dato in occasione della visita del Patriarca all'ospedale del Terraglio, dell'offerta messa nero su bianco per la struttura del Lido. «Non possiamo che salutare positivamente le considerazioni del Patriarca Francesco Moraglia quando auspica che la proposta di Villa Salus per l'acquisizione del San Camillo avvenga a fronte della presentazione di un piano industriale credibile che salvaguardi i livelli occupazionali e la presenza territoriale della struttura - dichiara Daniele Giordano, segretario generale della Funzione pubblica della Cgil -. Abbiamo sempre chiesto una discussione pubblica e trasparente sul futuro dell'ospedale San Camillo e della residenza per anziani Stella Maris, che non vorremmo venisse dimenticata in questa discussione. Auspichiamo quindi che vi sia l'immediata apertura di un confronto per fare finalmente chiarezza sul futuro della struttura che, ormai da diversi mesi, vive una grave situazione di incertezza che rischia di compromettere la qualità sino ad oggi garantita ai cittadini». La Cgil chiede quindi garanzie per il mantenimento della totalità del personale in servizio, sia per i profili sociosanitario, tecnici e che per quello amministrativo, e un confronto sui lavoratori occupati nei servizi esternalizzati dalle due strutture. «In questi mesi - conclude Giordano - la proprietà ha sempre avuto un atteggiamento poco chiaro nei confronti dei lavoratori e dei sindacati e, ad oggi, anche gli investimenti annunciati non sono ancora stati messi concretamente in campo».

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Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 20 Pietro, vogatore con la protesi: “Bebe Vio mi ha dato energia” di Andrea Pasqualetto Venezia, il liceale terzo alla Regato Storica: “Cerco l’aiuto della tecnologia” Quando i suoi genitori l’hanno visto spuntare sul Canal Grande spingendo il remo della mascareta (un tipo di imbarcazione veneziana ndr ) con tutta la forza che aveva, si sono commossi. «È stato un gran bel giorno — ricorda con misura papà Davide —. Non tanto per il risultato sportivo ma per tutto quello che c’è dietro». Pietro Nicchetto era arrivato terzo alla Regata Storica lagunare, un po’ il campionato del mondo di voga alla veneta. Aveva vinto una grande battaglia. Perché la sua è la storia di un ragazzo nato con una menomazione: gli manca l’avambraccio sinistro. Un problema che non gli ha impedito di affermarsi in uno sport dove le braccia sono quasi tutto, potenza, forza, spinta. «Uso una protesi bioelettrica che apre e chiude la mano per stringere il remo. Ma è molto delicata e devo sempre sperare che non si rompa. E prima della regata si era rotta, così non potevo chiudere», ricorda questo sorridente e volitivo liceale di Chioggia. La «Storica» di settembre, affrontata per la sua categoria con l’amico Michele, gli ha dato grande entusiasmo. Pietro ha preso ad allenarsi con slancio vogando in laguna. Si è classificato primo e ottavo in un paio di competizioni organizzate dalle Remiere del Lido, la sua associazione. Gare minori ma per lui comunque importanti. Il suo sogno? «Diventare un bravo vogatore». Non un campione, dice con la modestia di un adulto. La stessa che trapela quando si stupisce che qualche giornale si possa interessare a lui. «Io faccio delle cose normali, mi alleno, esco con gli amici. A scuola non vado neppure tanto bene». Fa la terza liceo ma il suo mito non è Dante. No: Bepi Fongher, il «re» del remo capace di aggiudicarsi da poppiere 14 Regate Storiche con uno stile da tutti considerato magistrale. «Oggi è lui il mio esempio. Un grande uomo che ho conosciuto e mi ha aiutato. Ma domani chissà, perché io sono molto variabile. Prima mi piace una cosa, poi un’altra...». Dice di ammirare Bebe Vio, veneziana come lui e come lui disabile e sportiva. «L’ho conosciuta. Mi piacciono la sua tenacia e la sua energia», aggiunge rifiutando il paragone con lei che in molti ormai fanno. «Mi sembra un’esagerazione». Pietro rema, gioca a tennis, scia, suona la chitarra. In queste giornate d’inverno pensa anche allo sci: «Io vado senza racchette...». Naturalmente la protesi fa parte della sua vita. «Quando si rompe mi crea dei disagi, anche per fare cose semplici». Tipo? «Tipo allacciarmi le scarpe. Se succede, comunque, ci s’ingegna». Con il centro Inail di Budrio, l’azienda alla quale si rivolgono anche Bebe Vio e Alex Zanardi, sta pensando a una protesi da adattare alla voga per tenere il remo. «L’ideale sarebbe trovarne una resistente in modo da avere una presa ferma». Ma c’è un problema: tutto questo costa. E la sua è una famiglia normale: padre impiegato, mamma maestra. «Magari un giorno spunta uno sponsor...», spera papà Davide. Il primo tifoso di Pietro è Filippo, il fratellino. Fin dal giorno in cui lui, cinque anni fa, ha afferrato il remo e ha iniziato a spingere con tutta la forza che poteva. Mettendoci una straordinaria, cocciuta, infinita voglia di farcela. LA NUOVA Pagg 2 – 3 Scandalo Mose. Errori nei progetti, lavori fatti male: “Ridateci i soldi” di Alberto Vitucci Lettere di diffida e messa in mora alle imprese e ai tecnici per 35 milioni. I comitati vanno all’attacco, nuovo esposto ai magistrati Venezia. Errori progettuali e lavori fatti male. Progettisti, imprese, direttori dei lavori e collaudatori delle opere del Mose dovranno adesso risarcire i danni e restituire i soldi. Una svolta, quella avviata dai commissari straordinari del Consorzio Venezia Nuova. Che hanno inviato in questi giorni due atti di «diffida e messa in mora» per gli errori riscontrati nel progetto della conca di navigazione a Malamocco e della lunata del Lido.

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Entrambe opere danneggiate dopo due mareggiate, la prima nel febbraio 2015, la seconda nel dicembre 2012. Una svolta, perché è la prima volta che lo stesso Consorzio ammette errori progettuali e lavori sbagliati. E senza aspettare inchieste delle magistratura invia la diffida alle sue imprese e chiede la restituzione del denaro pubblico versato. Per le due opere oggetto delle diffide si tratta di circa 35 milioni di euro. 28,2 per la conca, 6 per la lunata. Trent'anni dopo il via al progetto Mose, tre anni e mezzo dopo l'inchiesta che aveva sollevato i primi veli, la verità comincia a farsi strada. Nel caso della conca, la struttura per garantire l'accesso delle navi a Malamocco, ci si è accorti che era stata pensata «troppo piccola». E adesso anche che non è in grado di resistere ad eventi meteomarini giudicati «eccezionali» da chi l'ha costruita. In realtà, come emerge dalla perizia commissionata dal Provveditorato e dal Consorzio, «le cause predisponenti dei danni subiti possono essere individuate in diverse criticità dei criteri metodologici adottati in fase di progettazione delle opere. Che non prevedevano le sollecitazioni verticali dovute al moto ondoso», si legge nell'atto di contestazione. Perciò era bastata una mareggiata per far uscire la porta dai suoi alloggiamenti sott'acqua e danneggiarla gravemente. La responsabilità, secondo i commissari, va estesa anche all'impresa affidataria «che non ha rilevato le criticità», agli incaricati della direzione lavori e ai collaudatori». Accuse pesanti, che si estendono anche alle «mancate verifiche preventive». «Non sono state fatte né sul modello fisico né con modellazione numerica sulle condizioni idrodinamiche. E le prove di laboratorio condotte dalla società Protecno per la determinazione delle forzanti marine sono risultate errate». Così, facendo propria la perizia scritta dagli esperti del Provveditorato il 17 ottobre scorso, i commissari hanno inviato le lettere di diffida e di messa in mora. «Che valgono», scrivono ad ogni buon conto, «come interruzione dei termini di prescrizione». Le diffide sono arrivate in questi giorni al progettista del Mose e della conca, l'ingegnere della Technital Alberto Scotti, alla Comar scarl, la società di proprietà delle imprese del Consorzio, alle imprese Cordioli e Elettromeccanica. Ai direttori dei lavori Lotti e Thetis e ai collaudatori, l'ex presidente dell'Anas Vincenzo Pozzi, i dirigenti del ministero Piero Buoncristiano e Maria Pia Pallavicino, Ciro Autiero. «Le perizie tecniche», scrivono i commissari, «inducono a ritenere che progettisti, imprese e collaudatori non abbiano correttamente adempiuto alle prestazioni loro richieste e remunerate». Dunque, dovranno rimborsare. La seconda diffida e messa in mora riguarda la progettazione e realizzazione della diga foranea della bocca di porto di Lido (lunata). Anche qui contenzioso in atto con le imprese sulla responsabilità di hi ha fatto i lavori o degli eventi meteo. Ma gli amministratori straordinari del Consorzio adesso accusano progettisti e imprese. «La relazione dei nostri consulenti De Marinis e Tonmasicchio», scrivono, «ha messo in luce diverse criticità nella progettazione e realizzazione delle opere». La diga sarebbe stata realizzata con criteri «poco adeguati a garantire la stabilità idraulica di un'opera soggetta a severe mareggiate». Anche qui la richiesta dei danni è a carico del progettista (Scotti) delle imprese Fip e Coedmar, dei collaudatori Alfredo Caielli. Enea Giuliani, Luigi Maniero. La somma da restituire per i lavori già pagati di ripristino è di circa 6 milioni di euro, Si annunciano ricorsi, Ma una nuova strada è stata aperta. Venezia. Riflettori e diffide puntati su due opere «complementari» del Mose, la conca di Malamocco e la lunata del Lido. Ma il panorama delle «criticità» è molto più ampio. È di qualche giorno fa il dossier inviato al ministero sulle necessità economiche per riparare i guai provocati. 94 milioni di euro, che vanno ad aggiungersi agli 80 richiesti ogni anno per la manutenzione e gestione del Mose. Un'opera da cinque miliardi e mezzo di euro che dovrebbe essere consegnata finita il 31 dicembre del 2021. Ma i problemi sono ancora tanti. E non solo di finanziamenti. Intanto i comitati che da anni si oppongono alla realizzazione dell'opera hanno inviato un nuovo esposto alla Procura e alla Corte dei Conti. Chiedono nuove indagini per far luce sui tanti aspetti dello scandalo non ancora chiariti. «Da anni denunciamo una situazione che prima dell'inchiesta penale veniva sempre negata», dicono, «adesso bisogna andare in fondo». Si vuole ultimare un'opera già vecchia, che non raggiungerà gli obiettivi per cui era stata pensata», denuncia Armando Danella, portavoce del comitato e per anni dirigente della Legge Speciale, in Comune, «completare un'opera che si sa essere sbagliata rappresenta in uno Stato di diritto un delitto punibile». «Il riscatto dallo scandalo Mose», scrive Danella nel dossier sulla grande opera, «può passare solo attraverso il riconoscimento degli errori commessi

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e la sua sostanziale messa in discussione progettuale con la rivincita di quel sapere scientifico indipendente che la storia in alcuni aspetti malavitosa della grande opera ha volutamente respinto e ignorato». I comitati chiedono confronti pubblici e soluzioni anche sulle criticità del sistema evidenziate qualche anno fa dallo studio della società canadese Principia, incaricata allora dal sindaco Massimo Cacciari. Era emerso che in caso di condizioni del tempo molto critiche le paratoie potrebbero anche non funzionare. «Non ci hanno mai risposto in termini scientifici», dice Danella, all'epoca coordinatore degli studi, «hanno voluto andare avanti comunque». Oggi, qualche anno dopo, con l'emergere di difficoltà anche tecniche non risolte, la necessità di mettere a confronto scienziati indipendenti su questi temi i è diventata secondo i comitati la vera priorità. Una battaglia non ancora vinta. Tanto che le associazioni hanno ribadito la loro richiesta alla Commissione Europea e alla Corte dei Conti per verificare «la possibilità di mettere vincoli cautelativi sulla disponibilità dei beni di tutti coloro tecnici, politici che con il loro ruolo e le loro firme apposte sui documenti hanno concretamente contribuito alla realizzazione di un'opera costosa ed inefficiente, e ciò pur in presenza di alternative meno costose e più funzionali».Una battaglia che adesso gli oppositori intendono riaprire. Soprattutto alla luce di tutte le criticità e inefficienze denunciate da parte degli stessi che dovrebbero realizzarla, cioè il Provveditorato alle Opere pubbliche e il Consorzio Venezia Nuova. «Uno scandalo infinito», dice Danella, «solo in parte venuto alla luce con le inchieste penali». Indagine a tutto campo sulla gestione dei finanziamenti della salvaguardia. Ministero e Anticorruzione hanno insediato da qualche giorno il «Gruppo di Lavoro interistituzionale» che dovrà verificare le modalità di spesa dei soldi per il Mose. Un lavoro che si affiancherà a quello dei commissari e del Provveditorato. Lo scopo, hanno detto il presidente dell'Anac Cantone e il ministro Delrio, quello di sciogliere alcuni nodi, metter fine alle polemiche in corso e procedere con i lavori. Il gruppo è composto dal generale della Finanza in distacco all'Anas Cristiano Zaccagnini (nella foto) dall'ingegnere Alberto Chiovelli del ministero e dal funzionario della Prefettura di Roma Michelangelo Lo Monaco. Prima riunione già fatta a Roma. Adesso si dovranno acquisire carte e documentazione sui lavori già fatti e i pagamenti. ( Pag 18 Beni culturali, la Codello si è dimessa di Enrico Tantucci L’ex soprintendente ha lasciato la guida del Segretariato regionale, possibile nuovo incarico alla Fondazione Cini Colpo di scena al vertice di una delle maggiori istituzioni pubbliche culturali della Regione, con sede a Venezia. Si è infatti improvvisamente dimessa dal suo ruolo alla guida del Segretariato Regionale dei Beni Culturali del Veneto l'architetto Renata Codello, per molti anni già soprintendente ai Beni Architettonici e Ambientali di Venezia. Il suo incarico sarà vacante già dal prossimo 18 marzo e il Ministero dei Beni Culturali ha già bandito l'interpello per scegliere il dirigente che prenderà il suo posto nel delicato incarico. Dimissioni a sorpresa, quelle dell'architetto Codello, il cui mandato sarebbe scaduto verso la fine dell'anno, ma che ha anticipato i tempi già a gennaio, informando il Ministero di considerare conclusa la sua esperienza alla Segreteria Regionale del Veneto. Ma non si tratterebbe di un desiderio di pensionamento anticipato. L'architetto Codello sarebbe infatti sul punto di assumere un nuovo incarico all'interno di un'altra prestigiosa istituzione culturale veneziana, ma questa volta privata, la Fondazione Cini. Per lei sarebbe pronto, a quanto si dice, un nuovo ruolo all'interno dell'istituzione che ha sede sull'isola di San Giorgio e presieduta da Giovanni Bazoli. Non si tratterebbe però del ruolo di segretario generale, ricoperto ormai da sedici anni dal professor Pasquale Gagliardi, che deve ancora concludere il suo mandato triennale, ma di un'altra mansione, in linea con le competenze del dirigente veneziano del Ministero dei Beni Culturali. È stato, del resto, quello di Codello, un progressivo percorso di avvicinamento alla Fondazione Cini.Alla fine dell'aprile dello scorso anno era infatti già entrata a far parte del Consiglio Generale della Cini, su indicazione dello stesso Bazoli. L'ex soprintendente veneziano aveva tra l'altro manifestato sempre il desiderio di continuare a lavorare in laguna, tanto che - nominata soprintendente a Roma dopo l'esperienza veneziana - aveva lasciato l'incarico nella capitale dopo meno di un anno, per tornare

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appunto a Venezia nel nuovo ruolo di direttore del segretariato Regionale dei Beni Culturali del Veneto. Alla Fondazione Cini e nei suoi spazi verdi dovrebbe tra l'altro essere ospitato il Padiglione del Vaticano presente per la prima volta da quest'anno alla Biennale Architettura che si aprirà a maggio. Viene definito padiglione, ma saranno in realtà dieci cappelle progettate, per essere poi utilizzate in giro per il mondo, da dieci architetti internazionali invitati dal curatore, lo storico veneziano dell'architettura Francesco Dal Co, a lungo docente Iuav e che ha più volte collaborato con l'architetto Codello per numerose iniziative e pubblicazioni. Pertanto l'ex dirigente dei Beni Culturali potrebbe ora essere chiamato anche a collaborare anche a questo progetto legato alla Biennale. L'architetto Codello è tra l'altro docente a contratto di Restauro presso l'Iuav. L'incarico di Renata Codello non è l'unico che si libera in questo periodo negli uffici periferici veneziani dei Beni Culturali. Dal 9 marzo sarà infatti disponibile anche il posto di direttore del Polo Museale del Veneto, fino ad oggi ricoperto da Daniele Ferrara, e dal 19 marzo quello di direttore della Biblioteca Marciana, che vede ora alla sua guida Maurizio Messina. Già vacante il ruolo di soprintendente archivistico del Veneto ora ricoperto da Giovanna Giubbini. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XIV Volontariato senza giovani. Allarme del Centro servizi di Filippo Baracchi Associazioni della provincia sorrette dagli “over 50” e dai pensionati. L’analisi: “Il mondo è cambiato, i ragazzi ora cercano attività a tempo” Mestre. Tra i volontari sono come i panda, in via di estinzione. Per non parlare degli organi direttivi delle associazioni, dove i giovani entrano meno che con il contagocce. Un disastro, insomma, perché solo con l'innesto di nuova linfa il volontariato cittadino può trarre energie per il futuro. Senza contare che a Mestre, Venezia e provincia va peggio che nel resto del Veneto, come ricordano dal Centro di servizio per il Volontariato dove lanciano l'allarme rosso. DATI PREOCCUPANTI - Solo l'1,5% dei presidenti delle associazioni del territorio metropolitano ha meno di 30 anni, il 3% se si alza la soglia agli under 35, mentre la media regionale si attesta al 4%. Secondo i dati del Csv di Venezia, il volontariato resta un mondo sorretto da over 50, specialmente pensionati che impiegano il loro tempo libero. Tra le 206 associazioni veneziane analizzate, sono solo sei quelle a prerogativa giovanile, guidate da under 35, con appena tre presidenti non ancora trentenni. L'analisi tiene conto di associazioni come Avis, Aido e Avapo, spesso sostitutive o integranti dei servizi sanitari (raccolta del sangue o del trasporto e accompagnamento di persone invalide). Un dato preoccupante visto che la presenza di nuove leve in questi servizi è fondamentale per il futuro degli stessi e per la conoscenza e la diffusione delle attività. Motivo per cui il Csv ha avviato diversi progetti in condivisione con le università veneziane, luogo adatto per intercettare e formare i futuri volontari, anche in virtù delle novità introdotte con la riforma del terzo settore. A CACCIA DI ADESIONI - «L'attività di volontariato, anche solo per poche ore, fa del bene non solo al destinatario del servizio ma anche al volontario stesso - commenta il presidente del Csv di Venezia, Giorgio Brunello -. Dedicarsi al volontariato in attesa di trovare un'occupazione, per esempio, aumenta le competenze che sono poi spendibili in fase di selezione o di colloquio di lavoro». Secondo la direttrice del Csv di Venezia, Ketty Poles, «in un territorio come il nostro, in cui il 17% delle persone si dedica ad attività gratuite in associazioni di volontariato (un dato superiore alla media italiana, ferma al 10,7%), uno degli obiettivi del mondo della solidarietà deve essere quello di ricominciare ad attirare i giovani. Compito nostro è offrire loro l'opportunità di avvicinarsi a questo mondo e trovare un'associazione adatta che possa soddisfare aspirazioni e sensibilità». Nella sezione Dimmi chi sei del sito web www.csvvenezia.it il Csv di Venezia raccoglie invece tutte le disponibilità, offrendo agli aspiranti volontari le indicazioni necessarie per individuare l'associazione a cui rivolgersi. Un'importante opportunità, per esempio, è quella offerta ogni anno dal servizio civile universale, su cui il Csv di Venezia fa da sempre attività di promozione e informazione. Mestre. Giovani sempre più assenti nei contesti di partecipazione sociale? «I dati effettivamente corrispondono a quelli nazionali, ma non possono essere letti come se i

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giovani non si interessino più al volontariato - dichiara Manuela Campalto che, nell'assessorato alla Coesione sociale, ha ideato e diretto il Progetto Con-tatto, rivolto proprio al coinvolgimento dei giovani nel mondo del volontariato, lavorando nelle scuole cittadine -. Oltretutto tengono conto di una parte del terzo settore, escludendo le associazioni culturali, sportive, educative e i gruppi informali». Dopo quindici anni di Progetto Con-tatto l'analisi è dunque meno pessimista: «Dalla mia esperienza, i giovani d'oggi intendono il volontariato in modo diverso rispetto a vent'anni fa: chiedono attività flessibili e a tempo, sono consapevoli che il volontariato non inserisca propriamente nel mondo del lavoro». Dunque anche la percezione di questi servizi è differente? «Gli studenti e i giovani d'oggi dipendono molto dalla realtà sociale con cui sono a contatto, e in molti casi svolgono volontariato solo per il contesto interessato; altro è invece l'assenza di giovani nei consigli direttivi di queste associazioni, una tendenza stabile ormai da vent'anni». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 9 “L’amore al centro anziani. Il nostro San Valentino” di Elena Filini La storia di Ferruccio, 89 anni, e della sua Valmira, 83 Mogliano (Treviso) «Mi avvicinavo e le passavo una mano tra i capelli. Come per sistemaglieli. Lei rideva, e ho pensato che allora non le dispiaceva». Arrossisce Valmira. E guarda in basso. Non avrebbe mai pensato, a 83 anni, di riscoprire l'amore. Strano per lei, così taciturna, quasi seria. Diventata pragmatica per necessità di vita, tra dolori, perdite e famigliari da assistere. E invece, al tramonto, in un'età in cui davvero amare diventa un azzardo, il destino le ha regalato Ferruccio. Si sono conosciuti cinque anni fa al centro ricreativo anziani di Mogliano. E sono diventati inseparabili. UNA STORIA D'AMORE - «Se non avessi lei, guai» butta là sbrigativo Ferruccio, 89 anni e un cuore da ventenne. San Valentino è anche fatto di strani amori, amori fuori tempo massimo, in un'età in cui molti si considerano sopravvissuti. Ma a far piazza pulita di ogni retorica, a sovvertire ogni luogo comune ecco questi due ottantenni in stato di grazia, che grazie ad un incontro speciale hanno ricominciato a vivere. Non è stato un momento preciso quello in cui si sono scelti. È accaduto nel corso delle settimane. Uscire di casa con un vestito diverso, ritrovare l'attenzione per i piccoli gesti. E poi quel tuffo al cuore quando lo vedi entrare, imbraccia la fisarmonica. O con bella voce stentorea canta Kalinka come solista nel coro. E allora desideri parlargli, sederti vicino a lui. Quando non c'è ti manca. E ti chiedi: ma alla mia età? «All'inizio pensavo: ma questo cosa vuole da me? Poi - confida - siamo stati in soggiorno in montagna, e ha iniziato a piacermi». Ferruccio si schermisce e giura: «Non l'ho corteggiata, ero solo gentile» poi però riprende: «Mi basta vederla felice. Quando è seria le dico: ti si vedono le rughe. La verità è che mi sento un adolescente». AUSTRALIA E FISARMONICHE - Ferruccio Schiavon nasce a Mogliano in una famiglia poverissima. Nove fratelli, il cibo che manca e una grande passione per la musica. Lavora prima come garzone da un fornaio, poi come fattorino. In mezzo la guerra, a scavar trincee per gli austriaci. Ma appena può, scappa nella sua camera e prende la fisarmonica di suo fratello, nascosta sotto il letto. Impara da autodidatta. Con le donne ci va con i piedi di piombo: solo dopo ben 18 fidanzate si decide al grande passo. Sposa una ragazza di Spoleto e parte per l'Australia. Qui fa il barista e il cameriere: la sua simpatia, la sua bella voce italiana e la fisarmonica conquistano tutti. «Due figli, un bel matrimonio, poi mia moglie si ammala». Una diagnosi che non lascia scampo: nel 2009 la sua donna si spegne. E lui resta solo. Con i ricordi e la sua fisarmonica. IL BALLO E IL SACRIFICIO - Valmira Sambo viene alla luce invece a Mestre: volevano darle il nome di una ragazza ucraina che aveva curato e amato uno zio morto nella campagna di Russia ma il sacerdote non accettò e così la battezzarono Giovanna. Chiamandola però, per tutta la vita, Valmira. Prima accudisce la madre, poi i nipotini orfani del fratello. Infine la sua passione per il ballo la porta a conoscere il suo futuro marito. Nascono due figlie e la famiglia è felice per 25 anni. «Poi il matrimonio ha

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iniziato ad andare male, non ci capivamo più. Però, con spirito di sacrificio, ho assistito mio marito sino alla morte». È il 2012 e da Mestre si trasferisce a Mogliano con la figlia. «E' stata lei ad incentivarmi. Mi ha detto, non stare sola tutto il giorno, io lavoro e torno la sera. Così ho iniziato a frequentare il Centro ricreativo degli anziani. E la mia vita è cambiata». LA VITA È BELLA - Ora Valmira e Ferruccio fanno coppia fissa. Hanno mantenuto le rispettive residenze, ma tutto il tempo che riescono lo passano insieme. Spesso sono i nipoti di Valmira ad accompagnarla dal suo fidanzato. Oppure è lui a raggiungerla in Vespa. I figli guardano a questa amicizia con simpatia. «Ma noi siamo fidanzati» correggono entrambi. Luigi Scandolin è il presidente del Centro ricreativo Anziani di Mogliano. «Forse sono stato un po' Cupido - sorride - facevo da autista ad entrambi e mi accorgevo che ai concerti lei voleva essere sempre in macchina con lui». Il centro ha formato il coro La vita è bella. Un nome che è già un programma. Ferruccio è il solista, acclamatissimo dalle signore durante le trasferte. «Lui è un po' piacione e lei a volte si arrabbia - conferma - È un sentimento vivo ed autentico il loro. Come l'amore a vent'anni. E non è così raro incontrare situazioni di questo tipo». Il sabato c'è l'appuntamento irrinunciabile con la serata danzante, poi ci sono le occupazioni quotidiane e i soggiorni climatici. Ma ormai, sia Valmira sia Ferruccio ragionano a due. «La amo con tutto me stesso, con tutte le mie forze e con le possibilità della mia età» dichiara alla fine stringendola forte. Ha 89 anni e la luce negli occhi. Il suo è un tempo delle mele maturo, dove l'amore ha perso quell'urgenza fisica ma diventa un privilegio totale. È trasporto puro, romanticismo autentico. E se ne frega delle convenzioni. «Mi sento libero, ho l'età per vivere senza condizionamenti». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’impresa rimossa dai partiti di Dario Di Vico Economia e voto Il secondo Paese industriale d’Europa sta andando al voto ma i temi dell’impresa contano poco, quasi zero. È un paradosso che evoca Tafazzi perché i posti di lavoro di cui abbiamo assolutamente bisogno possono venire solo dalle imprese, non dalla spesa pubblica. Così l’unico dibattito di spessore che si è aperto in queste settimane sulla competitività del made in Italy si deve a un ministro (Carlo Calenda) che non si presenta alle urne e a un dirigente sindacale (Marco Bentivogli) che fortunatamente resterà al suo posto. Persino Fedele Confalonieri, richiesto di un giudizio sull’assenza dei temi della trasformazione digitale nel dibattito elettorale, ha risposto: «Ai partiti non gliene può fregare di meno». E non c’è dubbio che la maggiore responsabilità di questa rimozione ricada sui segretari che confezionando le liste si sono guardati bene dall’inserire, in quantità consistente, personalità competenti dell’industria e del lavoro. Il tasso di conoscenza dei problemi dell’economia moderna di cui potrà godere il prossimo Parlamento si prevede ai minimi storici. L’impresa, dunque, pur rappresentando la spina dorsale della società italiana e il vero collante di molte comunità, e pur potendo contare su una constituency elettorale che tra imprenditori e dipendenti è di 15-16 milioni (senza le loro famiglie), appare nell’anno di grazia 2018 dimenticata, messa nell’angolo. Ma attenzione, è vero che abbiamo superato la Grande Crisi e gli imprenditori hanno mostrato eccezionali doti di resilienza, siamo però dentro una partita che non prevede il pareggio. È evidente che dopo anni sono ripresi gli investimenti ma il tasso di digitalizzazione delle nostre imprese è ancora basso rispetto ai concorrenti. Contiamo su valide aziende o addirittura multinazionali tascabili ma quando è il momento di raddoppiare la taglia viene fuori la debolezza del nostro mercato dei capitali e molte di esse finiscono in mano straniera, vedi Italo. Il futuro delle nostre Pmi non è affatto garantito, soprattutto per quelle tra loro che non riescono a mettersi nella scia delle grandi catene di fornitura. Aggiungo che non riusciamo a produrre nel tempo e nella quantità dovuta i tecnici che le imprese più innovative chiedono per aggiornare i sistemi di produzione e accrescere la qualità del capitale umano. La Grande Crisi ha portato a

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una gestione più oculata dei conflitti sindacali, sono stati rinnovati negli ultimi anni circa 40 contratti nazionali con reciproca soddisfazione delle parti, eppure la maggioranza relativa degli operai secondo i sondaggi finirà per votare per i 5 Stelle. Qualcosa vorrà pur dire. Bisognerebbe rispondere con una grande operazione di democrazia economica «alla tedesca», la partecipazione dei lavoratori all’impresa, e invece questo progetto - ormai maturo - non compare nei programmi di nessun partito e le forze sociali che pure ne sono convinte appaiono timide nel chiederlo. Duole dirlo, le responsabilità del cono d’ombra rimandano anche alla Confindustria. Nei prossimi giorni terrà a Verona le sue assise pre-elettorali ma mai come in questa fase la rappresentanza degli industriali ha stentato a far sentire la propria voce. In passato se ne potevano condividere o meno azione e obiettivi ma la Confindustria era «il sale» della società civile, oggi questo ruolo non le viene più riconosciuto. Anche presi singolarmente i grandi protagonisti della vita economica - i borghesi d’un tempo - sembrano aver maturato una sorta di distacco dalla res publica, molti di loro vivono per buona parte della settimana in trasferta e rischiano di osservare solo con la coda dell’occhio, e spaesati, ciò che accade in Italia. Pag 24 Il vizio di destra e sinistra: etichettare morti e feriti di Goffredo Buccini Di che partito è il sangue? Dalla faglia nella coscienza nazionale aperta a Macerata torna a manifestarsi una cattiva abitudine che si sperava in via di guarigione: etichettare politicamente le vittime, brandirle come vessilli. Esistono morti di destra e morti di sinistra? Alcuni feriti vanno arruolati nel campo progressista e altri in quello conservatore? Tutti, nel carosello di leader e gregari ingaggiati nel dibattito pubblico, vi risponderanno di no, certo, taluni persino con sdegno. Molti, tuttavia, comportandosi poi assai diversamente, quasi per un riflesso antico. Le scorie di una campagna elettorale delegittimante e faziosa hanno avviluppato dunque volti e storie di ragazzi che abbiamo conosciuto in questi giorni: Pamela, la diciottenne massacrata in casa dello spacciatore nigeriano Innocent Oseghale, e i sei migranti colpiti dalla pistola di Luca Traini (Jennifer, Mahamadou, Gideon, Wilson, Omar e Festus). Imprimendo loro un segno, una tonalità assurdamente di parte. Nel corteo antifascista sfilato sabato a Macerata in solidarietà con le vittime di Traini (e sporcato da alcune pessime parole d’ordine), Pamela era quasi del tutto assente: niente slogan né striscioni. Mancanza difficile da spiegare per un popolo di sinistra attento al tema del femminicidio, se non ipotizzando motivazioni forse inconsapevoli ma certo meno nobili: la ragazza romana che tentava di disintossicarsi in una comunità maceratese è forse da considerarsi «vittima di destra» in quanto ammazzata da migranti che richiedono asilo ma trafficano eroina? La sua morte porta con sé l’imbarazzante sottotesto che l’immigrazione, a certe condizioni, può essere pure un grande male e solo per questo va rimossa dalla narrazione progressista? Del resto Pamela è stata usata dialetticamente proprio dalla destra sovranista come argomento a confutazione di un’analisi priva di indulgenze sul profilo terrorista di Traini. «Quello è un pazzo, pensate piuttosto a Pamela!» è stato in molti talk televisivi il mantra contrapposto all’allarme per un raid da Ku Klux Klan senza precedenti in Italia; con allegato un altro inquietante sottotesto: l’indignazione collettiva contro gli spacciatori nigeriani che infestano Macerata rende forse in qualche modo «collettivo» e meno infame anche sparare per strada con una Glock? E i sei migranti (del tutto innocenti ed estranei allo spaccio), finiti nel mirino di un leghista virato poi verso il puro fascismo armato, sono da considerarsi perciò «vittime di sinistra» e sol per questo da esorcizzare nel dibattito della destra? Di certo, se gli antifascisti convenuti a Macerata hanno perso una grande occasione per commemorare anche una ragazzina annientata dalla violenza di maschi feroci (neri o bianchi, davvero cambia?), Matteo Salvini, che aveva candidato Traini alle Comunali del 2017, ne ha persa una altrettanto preziosa non andando in ospedale al capezzale dei sei migranti feriti. Abbiamo bisogno più che mai di ritrovare gesti di riconciliazione: se questa è oggi la politica, non sorprende che la gente comune non vada più in piazza. L’Italia è del resto un terreno accidentato in certi incroci della storia. La nostra vicenda repubblicana è segnata da divisioni profonde, da una guerra civile chiusa in apparenza ma rimasta latente per due o tre decenni dopo la Liberazione. Dal conseguente orrore degli Anni di piombo, nei quali ciascuna fazione onorava i propri morti e vituperava quelli altrui, spesso alterando ricostruzioni e responsabilità (si pensi alle mistificazioni e ai depistaggi sui fratelli Mattei o su Valerio Verbano). La Seconda

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repubblica aveva fatto passi importanti per superare l’appartenenza del sangue. Grazie a un grande presidente come Carlo Azeglio Ciampi e allo sforzo di costruire una memoria condivisa attorno a un simbolo comune: il tricolore. Ma, forse, anche grazie a una logica maggioritaria che, tenendo unite più o meno a forza le coalizioni, smussava le punte estreme alla ricerca di un bipolarismo più maturo anche nei simboli e nelle parole d’ordine. Questa Terza repubblica, scaturita nel caos da un cambio di sistema elettorale che torna a enfatizzare le piccole identità, pare sospingerci indietro di decenni anche sul terreno del riconoscimento reciproco. Ma almeno questo è un prezzo che non possiamo pagare. Le vittime non hanno colore, nemmeno colore politico: sono tutte vittime italiane (anche chi non ha il nostro passaporto). Le storie di Pamela e dei sei migranti feriti a Macerata ci interpellano e ci impegnano in egual misura. Solo quando sapremo dirlo con chiarezza potremo riportare in una piazza repubblicana i cittadini che adesso non ci credono più. IL GAZZETTINO Pag 1 Pene più certe unico antidoto contro la rissa sulla sicurezza di Carlo Nordio Secondo i dati pubblicati ieri dal Gazzettino, due italiani su tre si sentono insicuri. È una percentuale in continuo aumento, e i politici sanno che su questo terreno si giocheranno - in buona parte - le elezioni. Nondimeno, le reazioni sono state diverse. Anche se tutti sono d'accordo nel potenziare le forze dell'ordine, le proposte variano a seconda delle analisi, condizionate a loro volta dalle ideologie. Da un lato, si chiedono pene più aspre, e un' estensione estrema della legittima difesa. Dall'altro, si invita a non confondere la situazione reale con quella percepita: qualcuno addirittura insinua che questa percezione sia ingannevole e maliziosamente indotta dalle forze reazionarie, per sviare l'attenzione dai reati più gravi, come la corruzione e l'evasione fiscale. In una materia così complessa sarebbe bene abbandonare i pregiudizi e gli slogan elettorali. Per conto mio mi limito a due modeste considerazioni. La prima riguarda la differenza tra i reati cosiddetti di microcriminalità - furti, violazioni di domicilio ecc - che impauriscono i cittadini, e quelli dei cosiddetti colletti bianchi, che ne suscitano la rabbia e l'indignazione. Qui l'equivoco nasce dalla confusione tra l'allarme sociale, provocato dai primi, e il danno sociale cagionato dai secondi. Mi spiego. La corruzione e l'evasione tributaria producono conseguenze note a tutti: l'aumento dei costi, l'alterazione della libera concorrenza, il depauperamento delle risorse collettive e, di riflesso, un aumento dell'imposizione fiscale. In questo senso provocano un danno sociale elevatissimo, certamente più alto dei reati contro il patrimonio. Tuttavia questi ultimi, proprio perché incidono direttamente sulla pelle dei singoli, e ne distruggono l'esistenza, provocano un allarme sociale molto più grande dei primi. Potete verificarlo da voi: avete mai perso il sonno e l'appetito ascoltando alla tv le malefatte dei corrotti e degli evasori? Non credo. Ma se un ladro (non dico un rapinatore) è entrato in casa vostra, non dormite per settimane. E poiché il numeri dei furti, degli scippi ecc. è assai alto, questo insieme di ferite si converte in malattia mortale, perché non è più una somma di eventi ma una sintesi di sfiducia verso lo Stato. Ecco perché i cittadini sono più sensibili alle leggi sulla sicurezza che a quelle contro la corruzione. La seconda, connessa alla precedente, riguarda la legittima difesa. Abbiamo qui ripetuto più volte che il sistema va cambiato, perché oggi chi si difenda in casa propria contro l'aggressore deve poi difendersi anche in tribunale da un'accusa spesso ingiustificata. Questo dipende da un codice penale di origine fascista - firmato nel 1930 da Mussolini - che, malgrado alcuni ritocchi, continua a considerare la persona come un suddito, e non come un cittadino, dimenticando che se quest'ultimo viene aggredito, il primo inadempiente è proprio lo Stato che non ha saputo proteggerlo. Tuttavia questo non significa che si possa scivolare nell'estremo opposto di giustificare, senza se e senza ma, ogni forma di reazione quando vi è un intruso in casa propria. I requisiti dell'attualità del pericolo e della proporzione tra offesa e difesa costituiscono in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti, un elementare principio di civiltà. Che fare allora? Una cosa prima di tutto: guardare la realtà com'è, e non come vorremmo che fosse. Se i cittadini hanno paura, è ozioso distinguere tra quella vera e quella reale. Esser convinti di avere una malattia incurabile è talvolta peggio di averla sul serio, e questi stati d'animo non si fronteggiano con le omelie paternalistiche o peggio con l'ironia. In questa prospettiva, è il nostro intero sistema penale a dover

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essere cambiato. Per esempio rendendo le pene non più gravi ma più certe, perché nulla scredita le istituzioni quanto il vano gridare a vuoto. E, per restare in tema, riconoscendo sì il diritto di autotutela, ma sempre nei limiti dell'incolumità pubblica e del buon senso: potersi difendersi in casa senza rischiare un processo, evitando però le sparatorie in pubblico improvvisandosi giustizieri. Queste, e tante altre riforme, non saranno un programma facile, ma sono un programma fattibile. Anche se temo che la baraonda continuerà fino alle elezioni, e probabilmente anche dopo. LA NUOVA Pag 1 La lezione della Große Koalition di Vincenzo Milanesi È stato rinviato, salvo imprevisti dell'ultima ora, al 15 febbraio il faccia a faccia, già in programma nei giorni scorsi in occasione di una conferenza del nostro Presidente del Consiglio a Berlino, tra Paolo Gentiloni ed Angela Merkel, ed è un bene che avvenga dopo l'accordo raggiunto per dar vita alla Große Koalition. Accordo sofferto, per usare un eufemismo, da tutte e due (anzi, quasi tre, se consideriamo che Cdu e Csu non sempre e non su tutto si trovano sulla medesima linea) le parti politiche che lo hanno faticosamente negoziato. Sofferto, ma raggiunto. Sempre che l'attivismo degli Jusos, i giovani della Spd, non riescano a condizionare a tal punto gli iscritti chiamati a ratificare quell'accordo con un voto della base, da far saltare in aria tutto. Ma non sembra una prospettiva probabile, anche se non del tutto impossibile. È un accordo importante per la Germania, che avrà dunque presto un esecutivo, nel quale la leale collaborazione tra i partiti che lo hanno sottoscritto sarà garanzia di governabilità, ma è anche importante per l'Europa. Molto importante. Perché davvero l'Europa messa al centro del programma del nuovo esecutivo non con generiche dichiarazioni di condivisione della linea filo-europea del Presidente Macron, ma con l'assunzione di impegni assai più precisi per una riforma dell'Unione e delle sue politiche. Che non cambieranno però di molto la linea europea su due punti: la richiesta ai Paesi in cui sono necessarie, come l'Italia, di varare le riforme necessarie e di ridurre il debito, e la risposta (positiva finora solo a parole) alle richieste italiane in tema di ricollocamento dei migranti e della riforma del regolamento d Dublino. È una Germania sempre più europea, invece di una Europa sempre più (solo, prepotentemente solo) tedesca, insomma, quella del governo di Grosse Koalition. Ma è un accordo importante anche per l'Italia, dove un mese fa non sono mancati gli apprezzamenti, bipartigiani, per il positivo risultato di uno sforzo di superamento del "muro contro muro" e del "tutti contro tutti" che si era profilato in campagna elettorale, e del rischio dell'esplosione di una dinamica di ingovernabilità anche per la più "stabile" democrazia europea. Capacità di coniugare un'etica dei "princìpi" con un'etica della "responsabilità", per scomodare il grande (tedesco) Max Weber. Capacità di raggiungere un compromesso "per il bene superiore della Nazione". Certo possono essere, questi, accordi fragili, ma anche in Paesi baciati dal sole mediterraneo (Spagna docet) hanno tenuto anche di fronte a situazioni drammatiche come quella della (tentata) secessione catalana. Vedremo cosa succederà dopo le elezioni, senza lasciarci impressionare troppo dal coro di dichiarazioni roboanti all'insegna del "si tornerà a votare se non vinciamo noi". L'Italia ora è chiamata ad una forte assunzione di responsabilità. La vera discriminante politica è tra accettazione (anche critica, ma seriamente critica) della prospettiva europeistica ed il suo rifiuto in nome del "sovranismo". Una discriminante che taglia a metà la coalizione, data per vincente, di centro-destra, oggettivamente lacerata nella morsa di questa alternativa. Ma come pensiamo di poter essere presi sul serio in Europa dagli altri se mandiamo al governo una simile "armata Brancaleone"? Dove l'ineffabile onorevole Brunetta dichiara, senza imbarazzi, «prima vinciamo e poi ci metteremo d'accordo?». In Germania è stato fatto un accordo (serio) sottoscrivendo un documento articolato e puntuale di 180 pagine, dopo le elezioni, tra forze che si sono combattute in campagna elettorale, non tra partiti della medesima coalizione che sono in contrasto tra loro su una questione fondamentale, anzi su quella più importante. La differenza tra "noi" (italici) e "loro" (teutonici) sta tutta qui. E spiega perché da noi Große Koalition si traduce con inciucio. Non poteva essere diversamente, forse, in questa che è davvero, per usare le parole del Manzoni, la campagna elettorale "degli imbrogli e degli inganni".

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