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RASSEGNA STAMPA di venerdì 15 giugno 2018 SOMMARIO “Questo povero grida e il Signore lo ascolta”: le parole del Salmo 34 diventano il tema della prossima giornata mondiale dei poveri (fissata per domenica 18 novembre 2018) e del relativo messaggio di Papa Francesco. Eccone già qui alcuni passaggi: “Le parole del Salmista diventano anche le nostre nel momento in cui siamo chiamati a incontrare le diverse condizioni di sofferenza ed emarginazione in cui vivono tanti fratelli e sorelle che siamo abituati a designare con il termine generico di “poveri”. Chi scrive quelle parole non è estraneo a questa condizione, al contrario. Egli fa esperienza diretta della povertà e, tuttavia, la trasforma in un canto di lode e di ringraziamento al Signore. Questo Salmo permette oggi anche a noi, immersi in tante forme di povertà, di comprendere chi sono i veri poveri verso cui siamo chiamati a rivolgere lo sguardo per ascoltare il loro grido e riconoscere le loro necessità. Ci viene detto, anzitutto, che il Signore ascolta i poveri che gridano a Lui ed è buono con quelli che cercano rifugio in Lui con il cuore spezzato dalla tristezza, dalla solitudine e dall’esclusione. Ascolta quanti vengono calpestati nella loro dignità e, nonostante questo, hanno la forza di innalzare lo sguardo verso l’alto per ricevere luce e conforto. Ascolta coloro che vengono perseguitati in nome di una falsa giustizia, oppressi da politiche indegne di questo nome e intimoriti dalla violenza; eppure sanno di avere in Dio il loro Salvatore. Ciò che emerge da questa preghiera è anzitutto il sentimento di abbandono e fiducia in un Padre che ascolta e accoglie. Sulla lunghezza d’onda di queste parole possiamo comprendere più a fondo quanto Gesù ha proclamato con la beatitudine «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli». In forza di questa esperienza unica e, per molti versi, immeritata e impossibile da esprimere appieno, si sente comunque il desiderio di comunicarla ad altri, prima di tutto a quanti sono, come il Salmista, poveri, rifiutati ed emarginati. Nessuno, infatti, può sentirsi escluso dall’amore del Padre, specialmente in un mondo che eleva spesso la ricchezza a primo obiettivo e rende chiusi in sé stessi. Il Salmo caratterizza con tre verbi l’atteggiamento del povero e il suo rapporto con Dio. Anzitutto, “gridare”. La condizione di povertà non si esaurisce in una parola, ma diventa un grido che attraversa i cieli e raggiunge Dio. Che cosa esprime il grido del povero se non la sua sofferenza e solitudine, la sua delusione e speranza? Possiamo chiederci: come mai questo grido, che sale fino al cospetto di Dio, non riesce ad arrivare alle nostre orecchie e ci lascia indifferenti e impassibili? In una Giornata come questa, siamo chiamati a un serio esame di coscienza per capire se siamo davvero capaci di ascoltare i poveri. È il silenzio dell’ascolto ciò di cui abbiamo bisogno per riconoscere la loro voce. Se parliamo troppo noi, non riusciremo ad ascoltare loro. Spesso, ho timore che tante iniziative pur meritevoli e necessarie, siano rivolte più a compiacere noi stessi che a recepire davvero il grido del povero. In tal caso, nel momento in cui i poveri fanno udire il loro grido, la reazione non è coerente, non è in grado di entrare in sintonia con la loro condizione. Si è talmente intrappolati in una cultura che obbliga a guardarsi allo specchio e ad accudire oltremisura sé stessi, da ritenere che un gesto di altruismo possa bastare a rendere soddisfatti, senza lasciarsi compromettere direttamente. Un secondo verbo è “rispondere”. Il Signore, dice il Salmista, non solo ascolta il grido del povero, ma risponde. La sua risposta, come viene attestato in tutta la storia della salvezza, è una partecipazione piena d’amore alla condizione del povero. (…). La risposta di Dio al povero è sempre un intervento di salvezza per curare le ferite dell’anima e del corpo, per restituire giustizia e per aiutare a riprendere la vita con dignità. La risposta di Dio è anche un appello affinché chiunque crede in Lui possa fare altrettanto nei limiti dell’umano. La Giornata Mondiale dei Poveri intende essere una piccola risposta che dalla Chiesa intera, sparsa per tutto il mondo, si rivolge ai poveri di ogni tipo e di ogni terra perché non pensino che il loro grido sia caduto nel vuoto. Probabilmente, è come una goccia d’acqua nel deserto

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RASSEGNA STAMPA di venerdì 15 giugno 2018

SOMMARIO

“Questo povero grida e il Signore lo ascolta”: le parole del Salmo 34 diventano il tema della prossima giornata mondiale dei poveri (fissata per domenica 18 novembre 2018) e del relativo messaggio di Papa Francesco. Eccone già qui alcuni passaggi: “Le parole

del Salmista diventano anche le nostre nel momento in cui siamo chiamati a incontrare le diverse condizioni di sofferenza ed emarginazione in cui vivono tanti fratelli e sorelle che siamo abituati a designare con il termine generico di “poveri”.

Chi scrive quelle parole non è estraneo a questa condizione, al contrario. Egli fa esperienza diretta della povertà e, tuttavia, la trasforma in un canto di lode e di

ringraziamento al Signore. Questo Salmo permette oggi anche a noi, immersi in tante forme di povertà, di comprendere chi sono i veri poveri verso cui siamo chiamati a

rivolgere lo sguardo per ascoltare il loro grido e riconoscere le loro necessità. Ci viene detto, anzitutto, che il Signore ascolta i poveri che gridano a Lui ed è buono con quelli

che cercano rifugio in Lui con il cuore spezzato dalla tristezza, dalla solitudine e dall’esclusione. Ascolta quanti vengono calpestati nella loro dignità e, nonostante

questo, hanno la forza di innalzare lo sguardo verso l’alto per ricevere luce e conforto. Ascolta coloro che vengono perseguitati in nome di una falsa giustizia,

oppressi da politiche indegne di questo nome e intimoriti dalla violenza; eppure sanno di avere in Dio il loro Salvatore. Ciò che emerge da questa preghiera è anzitutto il

sentimento di abbandono e fiducia in un Padre che ascolta e accoglie. Sulla lunghezza d’onda di queste parole possiamo comprendere più a fondo quanto Gesù ha

proclamato con la beatitudine «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli». In forza di questa esperienza unica e, per molti versi, immeritata e impossibile da esprimere appieno, si sente comunque il desiderio di comunicarla ad altri, prima di tutto a quanti sono, come il Salmista, poveri, rifiutati ed emarginati. Nessuno, infatti, può sentirsi escluso dall’amore del Padre, specialmente in un mondo che eleva spesso la ricchezza a primo obiettivo e rende chiusi in sé stessi. Il Salmo caratterizza con tre verbi l’atteggiamento del povero e il suo rapporto con Dio. Anzitutto, “gridare”. La

condizione di povertà non si esaurisce in una parola, ma diventa un grido che attraversa i cieli e raggiunge Dio. Che cosa esprime il grido del povero se non la sua sofferenza e solitudine, la sua delusione e speranza? Possiamo chiederci: come mai

questo grido, che sale fino al cospetto di Dio, non riesce ad arrivare alle nostre orecchie e ci lascia indifferenti e impassibili? In una Giornata come questa, siamo

chiamati a un serio esame di coscienza per capire se siamo davvero capaci di ascoltare i poveri. È il silenzio dell’ascolto ciò di cui abbiamo bisogno per riconoscere la loro

voce. Se parliamo troppo noi, non riusciremo ad ascoltare loro. Spesso, ho timore che tante iniziative pur meritevoli e necessarie, siano rivolte più a compiacere noi stessi che a recepire davvero il grido del povero. In tal caso, nel momento in cui i poveri fanno udire il loro grido, la reazione non è coerente, non è in grado di entrare in

sintonia con la loro condizione. Si è talmente intrappolati in una cultura che obbliga a guardarsi allo specchio e ad accudire oltremisura sé stessi, da ritenere che un gesto di

altruismo possa bastare a rendere soddisfatti, senza lasciarsi compromettere direttamente. Un secondo verbo è “rispondere”. Il Signore, dice il Salmista, non solo ascolta il grido del povero, ma risponde. La sua risposta, come viene attestato in tutta

la storia della salvezza, è una partecipazione piena d’amore alla condizione del povero. (…). La risposta di Dio al povero è sempre un intervento di salvezza per curare le ferite dell’anima e del corpo, per restituire giustizia e per aiutare a

riprendere la vita con dignità. La risposta di Dio è anche un appello affinché chiunque crede in Lui possa fare altrettanto nei limiti dell’umano. La Giornata Mondiale dei

Poveri intende essere una piccola risposta che dalla Chiesa intera, sparsa per tutto il mondo, si rivolge ai poveri di ogni tipo e di ogni terra perché non pensino che il loro grido sia caduto nel vuoto. Probabilmente, è come una goccia d’acqua nel deserto

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della povertà; e tuttavia può essere un segno di condivisione per quanti sono nel bisogno, per sentire la presenza attiva di un fratello e di una sorella. Non è un atto di

delega ciò di cui i poveri hanno bisogno, ma il coinvolgimento personale di quanti ascoltano il loro grido. La sollecitudine dei credenti non può limitarsi a una forma di

assistenza - pur necessaria e provvidenziale in un primo momento -, ma richiede quella «attenzione d’amore» che onora l’altro in quanto persona e cerca il suo bene.

Un terzo verbo è “liberare”. Il povero della Bibbia vive con la certezza che Dio interviene a suo favore per restituirgli dignità. La povertà non è cercata, ma creata

dall’egoismo, dalla superbia, dall’avidità e dall’ingiustizia. Mali antichi quanto l’uomo, ma pur sempre peccati che coinvolgono tanti innocenti, portando a conseguenze

sociali drammatiche. L’azione con la quale il Signore libera è un atto di salvezza per quanti hanno manifestato a Lui la propria tristezza e angoscia. La prigionia della

povertà viene spezzata dalla potenza dell’intervento di Dio. Tanti Salmi narrano e celebrano questa storia della salvezza che trova riscontro nella vita personale del povero... La salvezza di Dio prende la forma di una mano tesa verso il povero, che offre accoglienza, protegge e permette di sentire l’amicizia di cui ha bisogno. È a

partire da questa vicinanza concreta e tangibile che prende avvio un genuino percorso di liberazione: «Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di

Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società; questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il

grido del povero e soccorrerlo» (…) Sono innumerevoli le iniziative che ogni giorno la comunità cristiana intraprende per dare un segno di vicinanza e di sollievo alle tante

forme di povertà che sono sotto i nostri occhi. Spesso la collaborazione con altre realtà, che sono mosse non dalla fede ma dalla solidarietà umana, riesce a portare un

aiuto che da soli non potremmo realizzare. Riconoscere che, nell’immenso mondo della povertà, anche il nostro intervento è limitato, debole e insufficiente conduce a

tendere le mani verso altri, perché la collaborazione reciproca possa raggiungere l’obiettivo in maniera più efficace. Siamo mossi dalla fede e dall’imperativo della

carità, ma sappiamo riconoscere altre forme di aiuto e solidarietà che si prefiggono in parte gli stessi obiettivi; purché non trascuriamo quello che ci è proprio, cioè

condurre tutti a Dio e alla santità. Il dialogo tra le diverse esperienze e l’umiltà di prestare la nostra collaborazione, senza protagonismi di sorta, è una risposta

adeguata e pienamente evangelica che possiamo realizzare. Davanti ai poveri non si tratta di giocare per avere il primato di intervento, ma possiamo riconoscere

umilmente che è lo Spirito a suscitare gesti che siano segno della risposta e della vicinanza di Dio. Quando troviamo il modo per avvicinarci ai poveri, sappiamo che il primato spetta a Lui, che ha aperto i nostri occhi e il nostro cuore alla conversione. Non è di protagonismo che i poveri hanno bisogno, ma di amore che sa nascondersi e dimenticare il bene fatto. I veri protagonisti sono il Signore e i poveri. Chi si pone al servizio è strumento nelle mani di Dio per far riconoscere la sua presenza e la sua

salvezza…” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 4 Il Papa: ascoltare il grido dei poveri per diventare strumento di salvezza “Senza protagonismo, ma con un amore che sa nascondersi” LA REPUBBLICA Pag 19 L’ultimo tabù, suore raccontano abusi sessuali nella Chiesa di Paolo Rodari IL FOGLIO Pag 1 Il silenzioso Uffizio di Matteo Matzuzzi 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

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AVVENIRE Pag 2 L’infinito bisogno di uno sprecare l’amore di Maurizio Patriciello Il contagio diffuso dall’uomo affetto da Hiv IL GAZZETTINO Pag 27 L’annuncio di Draghi e i due effetti possibili di Oscar Giannino 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 9 Daniele Manin e le pietre decorate. Tac alla piazza per scoprirne i segreti di Alberto Zorzi Dai lavori per mettere all’asciutto la Basilica riemergono pezzi di storia della città Pag 9 Campanile, Tintoretto e Scuole Grandi: nasce il Centro per le tecnologie di restauro di Gloria Bertasi Brugnaro: attraiamo studenti dal mondo. Ferlenga: noi modello di lavoro IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XIV Fine Ramadan, a San Giuliano la preghiera conclusiva di Davide Tamiello Attesi 1500 fedeli dal sorgere del sole. Il sermone dell’imam tradotto in più lingua 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 2 Il Veneto è sempre più ricco e produttivo. Ma è allarme laureati: in troppi se ne vanno di Alessandro Zuin Il report Bankitalia: investimenti ok, ripresa del credito LA NUOVA Pag 12 Nasce Veneto Centro, Padova e Treviso celebrano la fusione di Andrea De Polo Oggi a Marghera gli industriali varano la maxi aggregazione. Zoppas: una scelta giusta e opportuna, ora ci attendono sfide importanti IL GAZZETTINO Pag 11 Il cimitero dei bimbi mai nati: “Un esempio di civiltà” di Angela Pederiva Aperta nel Vicentino l’area per la sepoltura dei feti abortiti … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Due facce dello stesso governo di Sabino Cassese Le contraddizioni Pag 32 La politica si è ridotta a cronaca (e telecronaca) di Giuseppe De Rita AVVENIRE Pag 1 Caporalato: indietro mai di Antonio Maria Mira “Complicare” a chi sfrutta è giusto Pag 3 L’ultima avvilente “ruota della fortuna” di Angelo Scelzo La sofferenza di chi migra e le realtà capovolte Pag 3 Così i nazionalisti dell’India spingono a odiare i cristiani di Stefano Vecchia Dalle campagne sui media alla minacce. E’ allarme IL GAZZETTINO Pag 1 Tra nuova politica e vecchia corruzione di Alessandro Campi

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Pag 2 “L’Italia non può esser lasciata sola ad affrontare il flusso migratorio” di Franca Giansoldati Intervista a Pietro Parolin LA NUOVA Pag 1 In un tunnel di forza e minacce di Pier Aldo Rovatti Pag 1 L’illusoria sovranità dei deboli di Vincenzo Milanesi

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 4 Il Papa: ascoltare il grido dei poveri per diventare strumento di salvezza “Senza protagonismo, ma con un amore che sa nascondersi” Pubblichiamo il testo del messaggio di Papa Francesco per la seconda Giornata mondiale dei poveri che si celebrerà nella XXXIII domenica del tempo ordinario — quest’anno il 18 novembre — sul tema «Questo povero grida e il Signore lo ascolta». Questo povero grida e il Signore lo ascolta 1. «Questo povero grida e il Signore lo ascolta» (Sal 34, 7). Le parole del Salmista diventano anche le nostre nel momento in cui siamo chiamati a incontrare le diverse condizioni di sofferenza ed emarginazione in cui vivono tanti fratelli e sorelle che siamo abituati a designare con il termine generico di “poveri”. Chi scrive quelle parole non è estraneo a questa condizione, al contrario. Egli fa esperienza diretta della povertà e, tuttavia, la trasforma in un canto di lode e di ringraziamento al Signore. Questo Salmo permette oggi anche a noi, immersi in tante forme di povertà, di comprendere chi sono i veri poveri verso cui siamo chiamati a rivolgere lo sguardo per ascoltare il loro grido e riconoscere le loro necessità. Ci viene detto, anzitutto, che il Signore ascolta i poveri che gridano a Lui ed è buono con quelli che cercano rifugio in Lui con il cuore spezzato dalla tristezza, dalla solitudine e dall’esclusione. Ascolta quanti vengono calpestati nella loro dignità e, nonostante questo, hanno la forza di innalzare lo sguardo verso l’alto per ricevere luce e conforto. Ascolta coloro che vengono perseguitati in nome di una falsa giustizia, oppressi da politiche indegne di questo nome e intimoriti dalla violenza; eppure sanno di avere in Dio il loro Salvatore. Ciò che emerge da questa preghiera è anzitutto il sentimento di abbandono e fiducia in un Padre che ascolta e accoglie. Sulla lunghezza d’onda di queste parole possiamo comprendere più a fondo quanto Gesù ha proclamato con la beatitudine «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5, 3). In forza di questa esperienza unica e, per molti versi, immeritata e impossibile da esprimere appieno, si sente comunque il desiderio di comunicarla ad altri, prima di tutto a quanti sono, come il Salmista, poveri, rifiutati ed emarginati. Nessuno, infatti, può sentirsi escluso dall’amore del Padre, specialmente in un mondo che eleva spesso la ricchezza a primo obiettivo e rende chiusi in sé stessi. 2. Il Salmo caratterizza con tre verbi l’atteggiamento del povero e il suo rapporto con Dio. Anzitutto, “gridare”. La condizione di povertà non si esaurisce in una parola, ma diventa un grido che attraversa i cieli e raggiunge Dio. Che cosa esprime il grido del povero se non la sua sofferenza e solitudine, la sua delusione e speranza? Possiamo chiederci: come mai questo grido, che sale fino al cospetto di Dio, non riesce ad arrivare alle nostre orecchie e ci lascia indifferenti e impassibili? In una Giornata come questa, siamo chiamati a un serio esame di coscienza per capire se siamo davvero capaci di ascoltare i poveri. È il silenzio dell’ascolto ciò di cui abbiamo bisogno per riconoscere la loro voce. Se parliamo troppo noi, non riusciremo ad ascoltare loro. Spesso, ho timore che tante iniziative pur meritevoli e necessarie, siano rivolte più a compiacere noi stessi

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che a recepire davvero il grido del povero. In tal caso, nel momento in cui i poveri fanno udire il loro grido, la reazione non è coerente, non è in grado di entrare in sintonia con la loro condizione. Si è talmente intrappolati in una cultura che obbliga a guardarsi allo specchio e ad accudire oltremisura sé stessi, da ritenere che un gesto di altruismo possa bastare a rendere soddisfatti, senza lasciarsi compromettere direttamente. 3. Un secondo verbo è “rispondere”. Il Signore, dice il Salmista, non solo ascolta il grido del povero, ma risponde. La sua risposta, come viene attestato in tutta la storia della salvezza, è una partecipazione piena d’amore alla condizione del povero. È stato così quando Abramo esprimeva a Dio il suo desiderio di avere una discendenza, nonostante lui e la moglie Sara, ormai anziani, non avessero figli (cfr. Gen 15, 1-6). È accaduto quando Mosè, attraverso il fuoco di un roveto che bruciava intatto, ha ricevuto la rivelazione del nome divino e la missione di far uscire il popolo dall’Egitto (cfr. Es 3, 1-15). E questa risposta si è confermata lungo tutto il cammino del popolo nel deserto: quando sentiva i morsi della fame e della sete (cfr. Es 16, 1-16; 17, 1-7), e quando cadeva nella miseria peggiore, cioè l’infedeltà all’alleanza e l’idolatria (cfr. Es 32, 1-14). La risposta di Dio al povero è sempre un intervento di salvezza per curare le ferite dell’anima e del corpo, per restituire giustizia e per aiutare a riprendere la vita con dignità. La risposta di Dio è anche un appello affinché chiunque crede in Lui possa fare altrettanto nei limiti dell’umano. La Giornata Mondiale dei Poveri intende essere una piccola risposta che dalla Chiesa intera, sparsa per tutto il mondo, si rivolge ai poveri di ogni tipo e di ogni terra perché non pensino che il loro grido sia caduto nel vuoto. Probabilmente, è come una goccia d’acqua nel deserto della povertà; e tuttavia può essere un segno di condivisione per quanti sono nel bisogno, per sentire la presenza attiva di un fratello e di una sorella. Non è un atto di delega ciò di cui i poveri hanno bisogno, ma il coinvolgimento personale di quanti ascoltano il loro grido. La sollecitudine dei credenti non può limitarsi a una forma di assistenza - pur necessaria e provvidenziale in un primo momento -, ma richiede quella «attenzione d’amore» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 199) che onora l’altro in quanto persona e cerca il suo bene. 4. Un terzo verbo è “liberare”. Il povero della Bibbia vive con la certezza che Dio interviene a suo favore per restituirgli dignità. La povertà non è cercata, ma creata dall’egoismo, dalla superbia, dall’avidità e dall’ingiustizia. Mali antichi quanto l’uomo, ma pur sempre peccati che coinvolgono tanti innocenti, portando a conseguenze sociali drammatiche. L’azione con la quale il Signore libera è un atto di salvezza per quanti hanno manifestato a Lui la propria tristezza e angoscia. La prigionia della povertà viene spezzata dalla potenza dell’intervento di Dio. Tanti Salmi narrano e celebrano questa storia della salvezza che trova riscontro nella vita personale del povero: «Egli non ha disprezzato né disdegnato l’afflizione del povero, il proprio volto non gli ha nascosto ma ha ascoltato il suo grido di aiuto» (Sal 22, 25). Poter contemplare il volto di Dio è segno della sua amicizia, della sua vicinanza, della sua salvezza. «Hai guardato alla mia miseria, hai conosciute le angosce della mia vita; […] hai posto i miei piedi in un luogo spazioso» (Sal 31, 8-9). Offrire al povero un “luogo spazioso” equivale a liberarlo dal “laccio del predatore” (cfr. Sal 91, 3), a toglierlo dalla trappola tesa sul suo cammino, perché possa camminare spedito e guardare la vita con occhi sereni. La salvezza di Dio prende la forma di una mano tesa verso il povero, che offre accoglienza, protegge e permette di sentire l’amicizia di cui ha bisogno. È a partire da questa vicinanza concreta e tangibile che prende avvio un genuino percorso di liberazione: «Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società; questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e soccorrerlo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 187). 5. È per me motivo di commozione sapere che tanti poveri si sono identificati con Bartimeo, del quale parla l’evangelista Marco (cfr. 10, 46-52). Il cieco Bartimeo «sedeva lungo la strada a mendicare» (v. 46), e avendo sentito che passava Gesù «cominciò a gridare» e a invocare il «Figlio di Davide» perché avesse pietà di lui (cfr. v. 47). «Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte» (v. 48). Il Figlio di Dio ascoltò il suo grido: «“Che cosa vuoi che io faccia per te?”. E il cieco gli rispose: “Rabbunì, che io veda di nuovo!”» (v. 51). Questa pagina del Vangelo rende visibile quanto il Salmo annunciava come promessa. Bartimeo è un povero che si ritrova privo di capacità fondamentali, quali il vedere e il lavorare. Quanti percorsi anche oggi

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conducono a forme di precarietà! La mancanza di mezzi basilari di sussistenza, la marginalità quando non si è più nel pieno delle proprie forze lavorative, le diverse forme di schiavitù sociale, malgrado i progressi compiuti dall’umanità... Come Bartimeo, quanti poveri sono oggi al bordo della strada e cercano un senso alla loro condizione! Quanti si interrogano sul perché sono arrivati in fondo a questo abisso e su come ne possono uscire! Attendono che qualcuno si avvicini loro e dica: «Coraggio! Alzati, ti chiama!» (v. 49). Purtroppo si verifica spesso che, al contrario, le voci che si sentono sono quelle del rimprovero e dell’invito a tacere e a subire. Sono voci stonate, spesso determinate da una fobia per i poveri, considerati non solo come persone indigenti, ma anche come gente portatrice di insicurezza, instabilità, disorientamento dalle abitudini quotidiane e, pertanto, da respingere e tenere lontani. Si tende a creare distanza tra sé e loro e non ci si rende conto che in questo modo ci si rende distanti dal Signore Gesù, che non li respinge ma li chiama a sé e li consola. Come risuonano appropriate in questo caso le parole del profeta sullo stile di vita del credente: «sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo [...] dividere il pane con l’affamato, [...] introdurre in casa i miseri, senza tetto, [...] vestire uno che vedi nudo» (Is 58, 6-7). Questo modo di agire permette che il peccato sia perdonato (cfr. 1 Pt 4, 8), che la giustizia percorra la sua strada e che, quando saremo noi a gridare verso il Signore, allora Egli risponderà e dirà: eccomi! (cfr. Is 58, 9). 6. I poveri sono i primi abilitati a riconoscere la presenza di Dio e a dare testimonianza della sua vicinanza nella loro vita. Dio rimane fedele alla sua promessa, e anche nel buio della notte non fa mancare il calore del suo amore e della sua consolazione. Tuttavia, per superare l’opprimente condizione di povertà, è necessario che essi percepiscano la presenza dei fratelli e delle sorelle che si preoccupano di loro e che, aprendo la porta del cuore e della vita, li fanno sentire amici e famigliari. Solo in questo modo possiamo scoprire «la forza salvifica delle loro esistenze» e «porle al centro della vita della Chiesa» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 198). In questa Giornata Mondiale siamo invitati a dare concretezza alle parole del Salmo: «I poveri mangeranno e saranno saziati» (Sal 22, 27). Sappiamo che nel tempio di Gerusalemme, dopo il rito del sacrificio, avveniva il banchetto. In molte Diocesi, questa è stata un’esperienza che, lo scorso anno, ha arricchito la celebrazione della prima Giornata Mondiale dei Poveri. Molti hanno trovato il calore di una casa, la gioia di un pasto festivo e la solidarietà di quanti hanno voluto condividere la mensa in maniera semplice e fraterna. Vorrei che anche quest’anno e in avvenire questa Giornata fosse celebrata all’insegna della gioia per la ritrovata capacità di stare insieme. Pregare insieme in comunità e condividere il pasto nel giorno della domenica. Un’esperienza che ci riporta alla prima comunità cristiana, che l’evangelista Luca descrive in tutta la sua originalità e semplicità: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. [...] Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At 2, 42.44-45). 7. Sono innumerevoli le iniziative che ogni giorno la comunità cristiana intraprende per dare un segno di vicinanza e di sollievo alle tante forme di povertà che sono sotto i nostri occhi. Spesso la collaborazione con altre realtà, che sono mosse non dalla fede ma dalla solidarietà umana, riesce a portare un aiuto che da soli non potremmo realizzare. Riconoscere che, nell’immenso mondo della povertà, anche il nostro intervento è limitato, debole e insufficiente conduce a tendere le mani verso altri, perché la collaborazione reciproca possa raggiungere l’obiettivo in maniera più efficace. Siamo mossi dalla fede e dall’imperativo della carità, ma sappiamo riconoscere altre forme di aiuto e solidarietà che si prefiggono in parte gli stessi obiettivi; purché non trascuriamo quello che ci è proprio, cioè condurre tutti a Dio e alla santità. Il dialogo tra le diverse esperienze e l’umiltà di prestare la nostra collaborazione, senza protagonismi di sorta, è una risposta adeguata e pienamente evangelica che possiamo realizzare. Davanti ai poveri non si tratta di giocare per avere il primato di intervento, ma possiamo riconoscere umilmente che è lo Spirito a suscitare gesti che siano segno della risposta e della vicinanza di Dio. Quando troviamo il modo per avvicinarci ai poveri, sappiamo che il primato spetta a Lui, che ha aperto i nostri occhi e il nostro cuore alla conversione. Non è di protagonismo che i poveri hanno bisogno, ma di amore che sa nascondersi e dimenticare il bene fatto. I veri protagonisti sono il Signore e i poveri. Chi si pone al

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servizio è strumento nelle mani di Dio per far riconoscere la sua presenza e la sua salvezza. Lo ricorda San Paolo scrivendo ai cristiani di Corinto, che gareggiavano tra loro nei carismi ricercando i più prestigiosi: «Non può l’occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; oppure la testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi”» (1 Cor 12, 21). L’Apostolo fa una considerazione importante osservando che le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie (cfr. v. 22); e che quelle che «riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno» (vv. 23-24). Mentre dà un insegnamento fondamentale sui carismi, Paolo educa anche la comunità all’atteggiamento evangelico nei confronti dei suoi membri più deboli e bisognosi. Lungi dai discepoli di Cristo sentimenti di disprezzo e di pietismo verso di essi; piuttosto sono chiamati a rendere loro onore, a dare loro la precedenza, convinti che sono una presenza reale di Gesù in mezzo a noi. «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40). 8. Qui si comprende quanto sia distante il nostro modo di vivere da quello del mondo, che loda, insegue e imita coloro che hanno potere e ricchezza, mentre emargina i poveri e li considera uno scarto e una vergogna. Le parole dell’Apostolo sono un invito a dare pienezza evangelica alla solidarietà con le membra più deboli e meno dotate del corpo di Cristo: «Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui» (1 Cor 12, 26). Alla stessa stregua, nella Lettera ai Romani ci esorta: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umile» (12, 15-16). Questa è la vocazione del discepolo di Cristo; l’ideale a cui tendere con costanza è assimilare sempre più in noi i «sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2, 5). 9. Una parola di speranza diventa l’epilogo naturale a cui la fede indirizza. Spesso sono proprio i poveri a mettere in crisi la nostra indifferenza, figlia di una visione della vita troppo immanente e legata al presente. Il grido del povero è anche un grido di speranza con cui manifesta la certezza di essere liberato. La speranza fondata sull’amore di Dio che non abbandona chi si affida a Lui (cfr. Rm 8, 31-39). Scriveva santa Teresa d’Avila nel suo Cammino di perfezione: «La povertà è un bene che racchiude in sé tutti i beni del mondo; ci assicura un gran dominio, intendo dire che ci rende padroni di tutti i beni terreni, dal momento che ce li fa disprezzare» (2, 5). È nella misura in cui siamo capaci di discernere il vero bene che diventiamo ricchi davanti a Dio e saggi davanti a noi stessi e agli altri. È proprio così: nella misura in cui si riesce a dare il giusto e vero senso alla ricchezza, si cresce in umanità e si diventa capaci di condivisione. 10. Invito i confratelli vescovi, i sacerdoti e in particolare i diaconi, a cui sono state imposte le mani per il servizio ai poveri (cfr. At 6, 1-7), insieme alle persone consacrate e ai tanti laici e laiche che nelle parrocchie, nelle associazioni e nei movimenti rendono tangibile la risposta della Chiesa al grido dei poveri, a vivere questa Giornata Mondiale come un momento privilegiato di nuova evangelizzazione. I poveri ci evangelizzano, aiutandoci a scoprire ogni giorno la bellezza del Vangelo. Non lasciamo cadere nel vuoto questa opportunità di grazia. Sentiamoci tutti, in questo giorno, debitori nei loro confronti, perché tendendo reciprocamente le mani l’uno verso l’altro, si realizzi l’incontro salvifico che sostiene la fede, rende fattiva la carità e abilita la speranza a proseguire sicura nel cammino verso il Signore che viene. Dal Vaticano, 13 giugno 2018 Memoria liturgica di S. Antonio di Padova LA REPUBBLICA Pag 19 L’ultimo tabù, suore raccontano abusi sessuali nella Chiesa di Paolo Rodari Città del Vaticano. Il giornale francese Le Parisien ne parla come dell'ultimo tabù. È la storia delle suore sessualmente abusate da preti e religiosi e che hanno iniziato a parlare. Attraverso l'associazione "La parole libérée", che si occupa di vittime di preti pedofili e che sta iniziando a raccogliere le testimonianze di suore abusate, sono stati ricostruiti i drammi di alcune vittime. Una di queste quando aveva vent'anni, giovane novizia, era andata a confessarsi da quello che tutti consideravano un sant'uomo e gli aveva raccontato di aver provato risentimento per l'uomo che l'aveva violentata a 14

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anni e il sacerdote l'aveva molestata sessualmente. Per anni aveva rimosso l'accaduto, aveva lasciato la vita religiosa e dimenticato, ma guardando un documentario sugli abusi del clero tutto era tornato alla sua mente con chiarezza. Cercando notizie del suo aggressore aveva scoperto che molte altre donne avevano subìto la sua stessa sorte. Un'altra ex religiosa, ora sessantenne, ricorda di come le fosse stato raccomandato un «grande e santo predicatore» lei viveva una situazione difficile nella comunità, unica giovane tra consorelle anziane, e si era appoggiata a lui che considerava un fratello spirituale. Pian piano i suoi modi erano cambiati e mentre lei si opponeva, lui le insinuava un profondo senso di colpa: «A ogni scivolata, era contrito. Fino al giorno in cui mi ha violentata. Non era in grado di controllarsi, sopraffatto dalle sue pulsioni». Quando ha saputo che, avendolo denunciato ai superiori, il sacerdote è stato destinato a miglior incarico, ha deciso di affidarsi alla giustizia. Sono storie drammatiche, tutte diverse, ma segnate da alcune analogie, come riscontra Padre Pierre Vignon, sacerdote della diocesi di Valence e giudice del tribunale ecclesiastico di Lione, al quale le vittime di abusi sessuali si sono rivolte: «Un predatore perverso procede in tre fasi: fascinazione; occupazione graduale del terreno spingendo oltre i confini; e riprogrammazione». IL FOGLIO Pag 1 Il silenzioso Uffizio di Matteo Matzuzzi Roma. Se si domanda a qualche esperto di affari vaticani, laico o religioso che sia, qual è la qualità principale dell'ormai prossimo cardinale Luis Francisco Ladaria Ferrer S.I., lo spagnolo prefetto della congregazione per la Dottrina della fede dal luglio del 2017, la risposta è "il silenzio". Non si vede, non rilascia interviste, non parla, se non con atti ufficiali o articoli sull'Osservatore Romano, che poi della Santa Sede è l'organo ufficiale. E, dicono sempre gli stessi esperti, è proprio questa la qualità che piace al Papa. Francesco un anno fa decise di non rinnovare al cardinale Gerhard Ludwig Müller il mandato alla guida dell'ex Sant'Uffizio, che reggeva dal 2012. La rimozione fu motivata con l'esigenza di non concedere proroghe - poi però concesse ad altre eminenze - e di rispettare i quinquenni canonici, ma la realtà è che tra Müller e Francesco si era scavato un solco troppo largo per mantenere lo status quo. Le prese di distanza del porporato tedesco erano quasi all'ordine del giorno (interviste, libri, convegni) e già da tempo la situazione appariva compromessa. Francesco non ha scelto di percorrere soluzioni radicali, ma ha promosso il numero due di Müller, il gesuita che Benedetto XVI nel 2008 era andato a pescare alla Gregoriana per nominarlo segretario del dicastero, cioè l'uomo-macchina, il motore della congregazione. Fama e storia di "conservatore" poco propenso alle battaglie in piazza, profilo basso, poche parole ma nette. "Parla quando serve e lo fa in modo chiarissimo", dice un vescovo attivo in curia. E lo si è visto nelle ultime settimane, quando sull'Osservatore Romano ha chiuso definitivamente le porte all'idea di vedere donne ordinate al sacerdozio, ché "la chiesa si è riconosciuta sempre vincolata a questa decisione del Signore". Il prestigioso Tablet, settimanale cattolico inglese che si stampa da più d'un secolo e mezzo, ha subito contrapposto il muro di Ladaria alle aperture di un altro ascoltato protagonista del pontificato, il cardinale Christoph Schönborn, definito da Francesco "un grande teologo", che ad aprile a una precisa domanda sulla possibilità di vedere prima o poi le donne prete aveva risposto che la questione era così complessa che solo un Concilio avrebbe potuto decidere in materia. Come a dire che la cosa è teoricamente possibile. "Si tratta di una questione troppo grande per essere affrontata dalla scrivania di un Papa". Ladaria, due mesi dopo, ha ribadito quel che peraltro già Francesco aveva detto, e cioè che la parola finale l'ha pronunciata Giovanni Paolo II e che questa non si cambia. Ma è sulla vicenda della cosiddetta "intercomunione", cioè la possibilità per un coniuge protestante di un fedele cattolico di accostarsi all'eucaristia, che il prefetto per la Dottrina della fede ha fatto valere il suo ruolo in modo evidente. Davanti allo scontro tra la grande maggioranza dei vescovi tedeschi (i due terzi) favorevoli a procedere sulla strada dell'apertura e sette presuli contrari, Ladaria si è schierato con questi ultimi. Ed è lui ad avere firmato la lettera con cui si comunicava al cardinale Reinhard Marx, presidente della Conferenza episcopale di Germania, che i tempi "non sono maturi" per un passo del genere, e che la decisione è stata presa "con esplicito consenso del Santo Padre" dopo ben due udienze riservate. Qualcuno, anche notando il diverso approccio del Papa sulla questione, che

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inizialmente aveva invitato le parti a trovare una soluzione unanime salvo poi bocciare il documento approvato lo scorso inverno dai vescovi, ha suggerito che dietro la lettera ci fosse una presa di posizione "energica" dello stesso prefetto, che - secondo quanto riportato da diversi siti internet - avrebbe anche fatto capire al Pontefice di non poter continuare nell'incarico al Sant'Uffizio se fosse stata autorizzata la "svolta" tedesca. Al di là degli spifferi che escono dal Palazzo, la lettera firmata da mons. Ladaria ha creato scompiglio in Germania e oltre all'irritazione di Marx, anche il cardinale Walter Kasper, convinto assertore della necessità di dare il via libera all'intercomunione, ha ricordato sui giornali locali che la "pratica" è del tutto legittima e non si vede perché la Santa Sede non dia il placet. Chi ha frequentato la Gregoriana negli anni in cui Ladaria era vicerettore ricorda le tensioni con "l'ala tedesca" più progressista e in generale con tutti coloro che propugnavano "spinte in avanti"quanto i tempi - appunto - non erano maturi. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 2 L’infinito bisogno di uno sprecare l’amore di Maurizio Patriciello Il contagio diffuso dall’uomo affetto da Hiv La temiamo, tentiamo di evitarla, eppure, a volte, ci gettiamo tra le sue braccia con un’ingenuità che spaventa. Parlo della sofferenza, zoccolo duro della speculazione filosofica e teologica. L’argomento forte, l’asso nella manica di coloro che vogliono negare l’esistenza di Dio. Perché si soffre? E, soprattutto, perché soffrono gli innocenti? Le risposte, da secoli, sono più o meno le stesse. Ci troviamo evidentemente davanti a qualcosa più grande di noi, che ci sovrasta, che non si lascia indagare fino in fondo. E sempre lascia uno spiraglio aperto al mistero nel quale siamo avvolti. Ma se gli uomini di oggi, come quelli di ieri, con tutta la buona volontà, gli studi, gli strumenti che hanno a disposizione non riescono a estirparla, molto possono fare per prevenirla, attenuarla, almeno in parte disinnescarla. A ben guardare, infatti, la maggior parte della sofferenza umana dipende da noi, dalle nostre scelte, dalla nostra imprudenza, dal nostro egoismo. Dal nostro peccato. Sulla terra c’è pane per tutti, eppure milioni di esseri umani muoiono di fame. Il motivo è di una semplicità, e di una inutilità, che spaventa. I granai di poche persone traboccano del grano destinato ai poveri. Certo, verrebbe voglia di sottrarlo ma non è così facile, schiere di soldati armati tengono a bada gli affamati. Ma che te ne fai di tanto pane?, verrebbe da chiedere. Quando impari a 'contare i tuoi giorni'? Non sarebbe bello se tu riuscissi a stabilire con i bambini, i loro genitori, i loro vecchi un rapporto di amicizia, di solidarietà, di fratellanza? Il dolore ci spaventa, inutile negarlo. Cerchiamo di tenerlo a bada, allontanarlo, esorcizzarlo. Ma non sempre dipende da noi. È terribile perdere un figlio in un incidente stradale perché l’altro era ubriaco, drogato o, semplicemente, stava parlando al telefono. Che rabbia. Ma possibile che ci voglia un’altra legge per stabilire che 'quando si guida si guida e basta?' Non dovrebbe bastare il semplice buon senso per indurci a guidare senza fare danni agli altri? Leggiamo in questi giorni che un uomo di 36 anni affetto da Hiv ha infettato più di 200 persone, non solo donne, con le quali avrebbe avuto rapporti sessuali. Ha tenuto nascosta la sua malattia contagiosa. Non sappiamo perché lo ha fatto, forse per una sorta di vendetta con la vita, forse per illudersi di essere guarito. Duecento, però, è un numero esageratamente alto. Vuol dire che questa persona non ha mai veramente stabilito un rapporto con nessuno. Un semplice tocca e fuggi, il suo, con conseguenze drammatiche. Tornano le domande: che cos’è l’amore, che cos’è il piacere? Quando, al di là del discorso morale o religioso, una persona può decidere, in coscienza, con serenità, che è giunto il momento di donarsi totalmente all’altro? C’è, anche in amore, una gradualità da rispettare come per ogni altra cosa nella vita? Quest’uomo incapace di amare come ha potuto fare tanto male a chi aveva creduto alle sue menzogne? Occorre fermarsi. Necessita farlo. Al più presto. Bisogna essere spietatamente onesti nell’insegnare ai figli la difficile arte dell’amore. Occorre ripetere loro fino alla noia che il piacere sessuale è solo una minima parte della gioia profonda che invade il cuore di ogni innamorato. Che, sganciata da un discorso serio proiettato nel futuro, la ricerca del piacere sessuale con

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una persona da poco conosciuta o del tutto ignota, di cui sai tanto poco, che fa uso di sostanze, può portare danni enormi, sofferenze indicibili. Ma per farlo occorrono maestri preparati, testimoni credibili. Gente che non ha paura di andare controcorrente. «Ora niente mi dà tanta noia come quando gli uomini si tormentano fra loro, specie quando son giovani nel fiore della vita, che dovrebbero essere apertissimi a tutte le gioie, e invece si sciupano quei brevi giorni per sciocchezze e poi troppo tardi s’avvedono dell’irreparabile sperpero», scrive il Werther di Goethe al suo amico Guglielmo, al quale poco prima, parlando di Carlotta, la ragazza che lo aveva ammaliato, aveva scritto: «Mai permetterei che una fanciulla da me amata, una fanciulla che io pensassi far mia, ballasse il valzer con altri che con me; mai e poi mai, e dovessi perirne! Tu mi comprendi!». Cambiano i tempi, cambiano gli usi, le mode, i costumi, sempre uguale resta il cuore degli uomini, bisognoso di amare e di essere amato. IL GAZZETTINO Pag 27 L’annuncio di Draghi e i due effetti possibili di Oscar Giannino L'annuncio da Francoforte è venuto ieri, confermando quel che la BCE aveva fatto intendere da mesi. Il quantitative easing, l'acquisto cioè sul mercato secondario da parte della BCE di titoli pubblici che dal gennaio 2015 ci ha si accompagnato negli anni successivi alla crisi europea del 2011, e che ha fatto seguito agli strumenti straordinari di rifinanziamento bancario assunti in precedenza dal 2011 (LTRO e TLTRO, nel gergo bancario), da ottobre prossimo scenderà dagli attuali 30 miliardi al mese a 15 miliardi, e cesserà da inizio 2019. È la fine delle politiche monetarie non ortodosse, quelle che comportano creazione di moneta aggiuntiva immessa nel sistema (i denari dati alle banche con LTRO e TLTRO non avevano analogo effetto, i soldi andavano rimborsati a Francoforte). Resteranno invece a oltranza, fino a metà 2019 ma anche oltre se fosse necessario, i tassi di riferimento praticati oggi dalla BCE a partire dal 2016, cioè il tasso negativo pari a -0.40% per i depositi delle banche verso la BCE, e il tasso zero come riferimento fondamentale per il finanziamento bancario. La politica monetaria resterà accomodante, per incoraggiare i prestiti a imprese e famiglie e favorire la crescita. Ma l'epoca del sostegno straordinario è finita. Che cosa significa? È un bene o un male? La valutazione degli effetti dipende dalle scuole economiche di appartenenza. Il significato concreto è che cessano gli acquisiti da parte della BCE di tutta una serie di titoli di debito che componevano il paniere del QE. Nel tempo, non solo titoli pubblici, ma in quantità minori anche titoli di debito emessi da enti locali, obbligazioni da cartolarizzazione di crediti al consumo e mutui, di istituzioni europee, bond di aziende private con rating non inferiori a BBB, e obbligazioni garantite, o cosiddetti covered bonds. Attenzione: non significa affatto che da gennaio 2019 la BCE comincerà a disfarsi dal suo attivo dei titoli man mano che vanno a scadenza. Per il momento, la BCE continuerà a reinvestire l'esatto ammontare di ogni asset detenuto, quando scadesse. Quindi a venir meno da subito sono solo gli acquisti aggiuntivi mensili. Questo significa che l'effetto sui relativi prezzi e rendimenti di nuova emissione sarà diluito nel tempo, per evitare che l'effetto di abbassamento dei rendimenti sin qui praticato cessi troppo rapidamente, con effetti di volatilità e instabilità. Quanto a come valutare tale effetto, il mondo attuale degli economisti si divide in due. La stragrande maggioranza dei neoclassici e anche dei neokeynesiani è da sempre convinta che le politiche monetarie non ortodosse servano nei momenti di più acuta crisi sistemica, ma debbano poi essere abbandonati a ripresa in corso: perché l'acquisto di titoli garantito da parte della banca centrale finisce per drogare e manipolare il prezzo degli asset finanziari. Tenere artificiosamente basso il rendimento delle obbligazioni piace agli Stati molto indebitati, ma finisce per socializzare il rischio d'impresa espresso da obbligazioni private di bassa qualità, e crea bolle finanziarie sull'azionario. Tutti effetti manipolativi che è bene ricondurre a normalità, facendoli cessare. Dall'altra parte, in questi anni di crisi diversi economisti hanno preso ad argomentare che ciò che era vero prima non è più vero adesso, e che si tratta di vecchie impostazioni da superare. Chi è convinto della stagnazione secolare pensa che le banche centrali debbano stampare moneta a oltranza e fino all'inverosimile, perché come si vede già si stenta a far rialzare l'inflazione verso il 2% (il QE nacque per questo, non per sostenere il rischio sovrano di Paesi come l'Italia, anche se molti preferiscono dimenticarsene), e perché in ogni caso nei Paesi avanzati, anche in quelli dove la

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disoccupazione è ai minimi storici come negli USA e Giappone, comunque la qualità dell'occupazione e la sua remunerazione non risponde più ai vecchi criteri delle riprese economiche del passato. Ovviamente, a questi si aggiungono coloro che pensano il QE serva a dar stampelle aggiuntive ai Paesi da alto debito: mentre invece gli economisti ortodossi han sempre criticato gli acquisti di titoli pubblici a oltranza proprio perché distraggono i governi dalla necessità di riforme di produttività e concorrenza che servono a a far salire il PIL e innalzare così la sostenibilità del debito pubblico. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 9 Daniele Manin e le pietre decorate. Tac alla piazza per scoprirne i segreti di Alberto Zorzi Dai lavori per mettere all’asciutto la Basilica riemergono pezzi di storia della città Venezia. I quattro operai dell’impresa Rossi Renzo sollevano i pesanti masegni da un quintale l’uno, non prima di averli numerati. Poi alzano gli «steleri», cioè le pietre che delimitano il cunicolo, e lo puliscono dai fanghi che nei decenni l’hanno ostruito, ripristinando la capacità idraulica originaria. Un lavoro che a Venezia è molto comune, se non fosse che i cunicoli in questione non sono una «fogna» qualsiasi, ma il sistema di scarico delle piogge della Basilica di San Marco, il bizantino cuore religioso della città. E dunque ci si muove in una cristalleria, e per di più sotto gli occhi del mondo, con centinaia di visitatori da tutti i continenti che già di mattina, una decina di minuti prima dell’apertura delle visite alle 9.30, si allunga fin verso il palazzo Ducale. Per non parlare del valore storico e archeologico dell’area, che secondo la tradizione all’inizio del IX secolo fu il primo insediamento di Venezia. Ecco dunque che è capitato di trovare, tra quelle in «povero» calcestruzzo, un paio lastre «modanate» (cioè decorate), simbolo di ciò che comunemente avveniva a Venezia in quegli anni: il riciclo di pezzi provenienti da altri cantieri o forse dal campanile crollato nel 1902, anche se il proto Mario Piana tende a escluderlo. Oppure il rinvenimento di un «gatolo» ignoto a tutte le mappe dell’epoca, proprio sotto al monumento funebre del patriota Daniele Manin, le cui spoglie tornarono nel 1868 a Venezia da Parigi, a 11 anni dalla morte in esilio. Ora è sormontato in parte dalla struttura, che si trova sul lato dei leoncini, ma corre parallelo a quello «ufficiale» che si stava scavando. «Probabilmente fu realizzato in fretta e furia in quel periodo e poi superato dalla rete complessiva del 1878 su tutta la piazza», spiega l’archeologo Marco Bortoletto, che lavora con gli operai e con il direttore dei lavori, l’architetto Francesco Lanza di Thetis. E proprio per cautelarsi da possibili sorprese, nei giorni scorsi dalla parte opposta, dal lato di palazzo Ducale, dove dovrebbe essere realizzato un manufatto di due metri per due che conterrà una vasca e delle pompe, è stata eseguita una «tomografia elettrica», una sorta di Tac per verificare il sottosuolo. «Non si può mai dire che cosa ci sia sotto», dice sibillino Bortoletto. Il commissario del Consorzio Venezia Nuova Giuseppe Fiengo, ieri in sopralluogo, annuisce, chiede e un po’ si preoccupa che eventuali ritrovamenti archeologici possano rallentare un cantiere importante: «Finora abbiamo segnalato tutto alla Soprintendenza – conclude l’archeologo – ma non ci dovrebbero essere problemi». «Il cantiere è anche un’occasione per fare un check sulla basilica», spiega l’architetto Lanza. Il cantiere del «mini-Mose di San Marco» è iniziato da tre settimane. Il principio è semplice. La basilica è circondata da un sistema di cunicoli che raccolgono e scaricano le acque piovane in laguna, ma quando arriva l’alta marea succede il fenomeno inverso, cioè l’acqua risale ed entra nel nartece, cioè l’atrio della chiesa, mandandolo sotto acqua anche con maree di soli 65 centimetri sul livello del medio mare. Così il nartece resta sotto acqua per circa 900 ore all’anno, con il rischio che il sale rovini i preziosi mosaici che devono essere puliti ogni volta. Ecco allora che la Procuratoria di San Marco ha studiato un piano che prevede la chiusura dei «gatoli» con delle apposite chiuse per evitare la risalita e con un sistema di pompe che scarichino l’acqua in caso di contemporaneità tra alta marea e pioggia. Poi l’ha regalato al Provveditorato che ora lo sta realizzando sotto la guida del Consorzio Venezia Nuova per una cifra di 1,2 milioni di euro: alla fine il nartece sarà asciutto fino a quota 88, quando

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cioè l’acqua entra da piazza San Marco, con un taglio di due terzi delle ore «in ammollo». «Non sono lavori facili dal punto di vista logistico», spiega Lanza. Da un lato ci sono le maree, contro cui si lotta grazie a delle pompe per tenere all’asciutto i gatoli, che saranno ristrutturati e impermeabilizzati. Poi l’esigenza di non bloccare l’accesso alla basilica e alla piazza. E’ per questo che il cantiere è «minimal» e lo sarà ancor di più quando arriverà nei punti cruciali: il lavoro davanti alla facciata sarà diviso in tre lotti, proprio per consentire l’accesso regolare di visitatori e fedeli. Ancor più piccoli – per evitare di bloccare il passaggio – saranno i micro-cantieri per il cablaggio fino al campanile, dove ci saranno gli impianti: verranno installati in tempi rapidissimi lavorando di notte. Pag 9 Campanile, Tintoretto e Scuole Grandi: nasce il Centro per le tecnologie di restauro di Gloria Bertasi Brugnaro: attraiamo studenti dal mondo. Ferlenga: noi modello di lavoro Venezia. Monitoreranno campanile e basilica di San Marco, studieranno i «teleri» di Tintoretto a San Rocco, le opere d’arte di Ca’ Pesaro e i restauri di San Giovanni Evangelista. Sono alcuni esempi di cosa farà il nuovo «Centro di ricerca per lo sviluppo di nuove tecnologie per la conservazione e il restauro dei beni culturali veneziani», finanziato con tre milioni di euro dal Patto per Venezia e di cui ieri è stato sottoscritto l’accordo di programma tra le università Iuav e Ca’ Foscari e Ca’ Farsetti. Il Centro ha l’obiettivo di mettere in rete esperti di restauro e, grazie ai finanziamenti, si doterà di strumenti tecnologici all’avanguardia, spettrometri, laser, microscopi, droni, con una spesa di 950 mila euro. «La scommessa è quella di rendere Venezia un polo universitario capace di attrarre studenti da ogni parte del mondo», ha detto il sindaco Luigi Brugnaro. Un comitato con rappresentati degli atenei e presieduto dal Comune si occuperà di rendere operativo il progetto e, entro sei mesi, nascerà un comitato consultivo con all’interno soprintendenza, Archivio di Stato e Musei civici con funzioni di monitoraggio, consulenza e valutazione delle attività del Centro. «Venezia è la città con più restauri in assoluto, è un cantiere perenne da sempre - ha spiegato Alberto Ferlenga, rettore dello Iuav -. Grazie a questo progetto, tutte le scuole si mettono assieme e hanno l’occasione di creare un modello di lavoro unico al mondo, anche perché altrove mancano i presupposti, ossia Venezia». Per Ferlenga, questo «modello che studia ed elabora le cure necessarie alla città» ha un duplice ruolo, approfondire le tecniche di restauro e, al contempo, conservare in uso e in vita un patrimonio prezioso. «Con residenti, studenti, ossia una realtà viva e abitata, che permetta prospettive future e case per chi ci vuole abitare - ha concluso - renderemo così un servizio alla città e creeremo un modello». «Sono già in programma una serie di interventi, dalla Scuola Grande di San Rocco a Torcello, al campanile di San Marco - è intervenuto il rettore di Ca’ Foscari Michele Bugliesi -. Il progetto porterà a Venezia studenti, ricercatori e investimenti nell’alta tecnologia contribuendo allo sviluppo della nostra città». Il Centro avrà sede al Vega in 800 metri quadrati concessi a Ca’ Foscari in aggiunta alle aree già usate dall’ateneo per la Challenge school e il Centro di ricerca sul clima. L’università pagherà 115 mila euro mentre il parco scientifico 103 mila per coprire i costi aggiuntivi delle concessioni all’ateneo. «La revisione del contratto non è un salvataggio - ha detto Roberto Ferrara, amministratore unico di Vega - è un percorso naturale nella collaborazione tra enti a favore di ricerca e sviluppo». IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XIV Fine Ramadan, a San Giuliano la preghiera conclusiva di Davide Tamiello Attesi 1500 fedeli dal sorgere del sole. Il sermone dell’imam tradotto in più lingua Mestre. Non dovrebbero esserci sorprese, a meno che la luna non decida di fare bizze dell'ultima ora. Ieri si è chiusa l'ultima giornata di Ramadan, il mese di digiuno con cui i musulmani ricordano la prima rivelazione del Corano a Maometto. La preghiera conclusiva si terrà questa mattina, dal sorgere del sole (ma per favorire chi non ha l'auto e si affida ai mezzi pubblici, indicativamente dalle 7) fino alle 11 al parco di San Giuliano, in zona ippovia. «Tutto dipende dal tempo - spiega il presidente onorario della comunità islamica di Venezia, Amin Al Ahdab - ma ci aspettiamo comunque circa 1.500

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persone». In realtà, potrebbero essere molti di più, visto che negli anni scorsi, quando la preghiera conclusiva si era tenuta per esempio al parco Catene di Marghera, si erano superata la quota dei tremila fedeli. Il fatto che la giornata di fine ramadan non caschi, però, di domenica o comunque in giorno festivo, potrebbe essere un ostacolo per molti musulmani che non possono prendere un giorno di ferie per partecipare alla cerimonia. Hanno aderito, quest'anno, anche diverse associazioni e comunità, come quella bengalese, per esempio. Toccherà all'Imam di Marghera, Hamad Mohamad, pronunciare il sermone, che verrà letto prima in arabo, come da tradizione, e poi tradotto in italiano e in altre lingue per favorire la comunicazione con tutte le diverse comunità straniere presenti. Al termine della preghiera, dolci tipici e regali per i bambini per l'ultimo atto della festa. «In caso di maltempo - continua Amin - proseguiremo la celebrazione al chiuso nelle nostre sedi». Quindi, in primis il centro islamico di via Monzani a Marghera, la più ampia delle sale di preghiera in città. Gli altri punti si trovano a Marghera, alla Cita, e ad Altobello, in via Costa. A queste si aggiungono la sede di via dell'Elettricità, utilizzata dalla comunità turca, e quella del centro islamico di Spinea, in via Negrelli. La comunità islamica, a Venezia, conta più di 20mila persone che, da tempo ormai, chiedono alle istituzioni un'area dove poter realizzare (a loro spese) una vera e propria moschea. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 2 Il Veneto è sempre più ricco e produttivo. Ma è allarme laureati: in troppi se ne vanno di Alessandro Zuin Il report Bankitalia: investimenti ok, ripresa del credito Venezia. Le contraddizioni di un Veneto che si gode il quarto anno consecutivo di crescita economica, stanno racchiuse in questa brutale sintesi: si rafforzano praticamente tutti gli indicatori, eccezion fatta per quelli che riguardano l’investimento forse più prezioso, il capitale umano. La fotografia scattata dal rapporto periodico curato dalla sede regionale della Banca d’Italia sullo stato dell’economia nel Veneto, ci restituisce, infatti, questa immagine: nel corso del 2017 la crescita si è consolidata, il trend di miglioramento è esteso a tutti i comparti dell’industria manifatturiera, brillano la produttività delle imprese e gli investimenti, si registrano tassi di (pallido) incremento persino nel martoriato settore delle costruzioni, che veniva da un decennio di profonda recessione; la ricchezza netta delle famiglie venete ammonta (dato del 2016) alla sbalorditiva cifra di 872 miliardi ed è pure aumentata di un 3% negli anni della crisi più nera; addirittura, si comincia a vedere una «luce nuova» - la definizione è del direttore della sede veneziana di Bankitalia, Paolo Ciucci - nel settore creditizio, poiché «per la prima volta da 5 anni - sottolinea Ciucci - si registra un incremento del 2% degli impieghi bancari». Eppure... Eppure, un focus specifico del rapporto di Bankitalia, dedicato alla mobilità dei laureati, scoperchia una debolezza intrinseca della nostra regione alla voce «capitale umano». Accade cioè che il Veneto, dove già storicamente la quota di popolazione in possesso di un titolo di studio terziario (laurea o superiore) è più bassa rispetto alle altre aree del Paese, negli ultimi anni abbia addirittura ceduto «cervelli» all'estero o al resto d’Italia, con un deflusso netto di laureati pari all’1,4%. «In numeri assoluti - sottolinea Massimo Gallo, responsabile della divisione ricerca economica e neo vicedirettore della sede veneziana della Banca d’Italia - si tratta di 5.600 laureati che hanno lasciato il Veneto. Questo ci suggerisce che il disallineamento tra le competenze possedute dai lavoratori e quelle richieste dal mercato, nella nostra regione si è accentuato». Detto in altri termini: da un lato abbiamo un sistema produttivo molto vivace ma con una quota ancora importante di imprese di piccole dimensioni o attive in settori a bassa tecnologia (dove i laureati rimangono una minoranza), dall’altro scontiamo un sistema formativo che ancora fatica a indirizzare gli studenti verso le competenze maggiormente richieste dal mercato del lavoro. Ciò non di meno, c’è tutto un mondo attorno che ha ripreso a galoppare saltando oltre gli ostacoli. «Quelle imprese che hanno superato la doppia, profonda recessione - analizza il

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direttore Ciucci - hanno colto l’opportunità per rivedere i propri processi organizzativi, comprendendo in particolare l’importanza della gestione finanziaria. La liquidità generata è stata reinvestita in azienda e sono stati incrementati gli investimenti, cresciuti nell’industria dell’8%». Autofinanziamento più incentivi governativi (grande successo per il super-ammortamento previsto dal piano Calenda per l’Industria 4.0, che ha prodotto un vasto rinnovamento del parco macchinari delle aziende) stanno alla base di questo notevole risultato. Particolarmente significativo anche il dato che misura la produttività del nostro sistema-imprese: le industrie venete non soltanto marciano a un livello superiore rispetto alla media nazionale (e questa è una tendenza consolidata) ma hanno anche incrementato la differenza a proprio favore in diversi comparti della produzione, come l’agroalimentare, la moda e il settore macchinari&impianti. Un approfondimento a parte del rapporto di Bankitalia, curato da Vanni Mengotto (già presidente regionale dell’Associazione nazionale dei Comuni, Anci), ha indagato gli investimenti degli enti pubblici territoriali, in relazione alle regole sul pareggio di bilancio entrate in vigore nel 2016. Ebbene, il nuovo sistema ha prodotto nel Veneto un risparmio totale di 676 milioni: soldi non spesi e accantonati da Comuni e Province, all’interno di un quadro generale che vede meno del 2% di enti locali veneti con un disavanzo di bilancio e un solo, piccolo Comune, Povegliano Veronese, sottoposto a procedura di riequilibrio dei conti. E le banche, a un anno esatto dalla liquidazione coatta delle ex Popolari venete? In regione operano 96 istituti di credito (di cui solo 29 hanno sede qui) ma il numero di sportelli diminuisce ogni anno a colpi di centinaia: alla fine del 2017 erano in tutto 2.800, cioè lo stesso numero registrato quasi vent’anni prima, nel 1999. Per contro, è salito al 54% il numero dei contratti di banking on-line in rapporto alla popolazione residente. «La fine delle ex Popolari - ragiona Ciucci - non ha determinato un vuoto nell’offerta creditizia del Veneto. È in corso un processo necessario di concentrazione per tutti gli operatori bancari, alla ricerca di una maggiore efficienza. Anche le Bcc hanno intrapreso un percorso di ristrutturazione e aggregazione, che dovrebbe culminare nella costituzione delle due capogruppo nazionali, Iccrea e Cassa Centrale Trento». LA NUOVA Pag 12 Nasce Veneto Centro, Padova e Treviso celebrano la fusione di Andrea De Polo Oggi a Marghera gli industriali varano la maxi aggregazione. Zoppas: una scelta giusta e opportuna, ora ci attendono sfide importanti Venezia. Ieri Padova e Treviso, oggi "Veneto Centro" e domani chissà, perché l'assemblea di questo pomeriggio a Marghera - con le due associazioni che unendosi daranno vita alla seconda realtà nazionale per dimensione - è solo il primo passo di un programma che mira a inglobare, in futuro, Venezia, Belluno e Pordenone. Oggi la capitale dell'industria italiana sarà quindi Venezia, chiamata a fare da testimone al voto (unanime, probabilmente) che sancirà la nascita di un organismo con 170 mila imprese, 800 mila addetti e una quota export di 22,5 miliardi di euro che vale, da sola, il 5 per cento di quella nazionale. La storica assemblea, con 3.200 soci partecipanti, sarà palcoscenico anche delle grandi dinamiche nazionali, con Alberto Vacchi (presidente Emilia Area Centro) e Carlo Bonomi (Assolombarda) ad alternarsi sul palco del Pala Expo Venice di Marghera, con vista sull'elezione del prossimo presidente di Unindustria - oggi ci sarà anche Vincenzo Boccia, attuale numero uno degli industriali. La firma. Si vestirà di rosso, azzurro e bianco il Pala Expo, in onore ai colori delle due città ospiti e protagoniste dell'evento (mentre il simbolo della nuova Confindustria avrà, per lo stesso motivo, un cavallo e una torre). I lavori partiranno alle 17.30 con il saluto di Massimo Finco (presidente Confindustria Padova) e Maria Cristina Piovesana (numero uno Unindustria Treviso), subito dopo la votazione e la firma sull'atto costitutivo. La nuova realtà si chiamerà "Veneto Centro" e in tanti, dall'esterno del perimetro del nuovo ente, hanno detto di guardare con interesse all'esperimento: il lavoro di diplomazia dell'asse Piovesana-Finco degli ultimi mesi (all'assemblea si lavora almeno da un anno) è servito a sopire i mal di pancia della base, e la fusione diventerà un esempio su base nazionale. Su base regionale lo è già: il presidente di Confindustria Veneto Matteo Zoppas la considera «una scelta giusta e opportuna. Si tratta della seconda aggregazione in Veneto, dopo quella che ho concluso nel 2015 tra Venezia e Rovigo». E ancora: «Come

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da statuto, a Confindustria Veneto spettano il coordinamento e la promozione di posizioni comuni fra le associazioni. Sbaglia chi non comprende che non esistono contrapposizioni tra le varie componenti del sistema ma esiste, al contrario, una chiara valorizzazione di ruoli diversi e di interlocutori diversi». La nuova geografia. Con la nascita di "Veneto Centro", hanno spiegato i fautori del progetto, l'obiettivo è ridisegnare un nuovo triangolo industriale: da Milano a Bologna fino a Venezia e al Nordest. Per il primo anno baricentro spostato verso Padova: presidente sarà Massimo Finco, cui seguiranno dodici mesi di Piovesana e poi, nel 2020, altra guida padovana, a meno di nuovi accordi nei prossimi mesi. Le sedi territoriali resteranno le stesse. Gli obiettivi. «La nuova grande associazione è un atto di speranza e di fiducia volto alla costruzione del futuro di tutti» hanno dichiarato, insieme, Finco e Piovesana, «gli imprenditori padovani e trevigiani uniscono dunque le loro energie associative non tanto per rispondere a esigenze tecniche o economiche proprie, ma per contribuire a promuovere un nuovo "Rinascimento", un progetto di sviluppo e un'idea di società che abbia tra i suoi fondamenti il valore e i valori dell'industria per una crescita inclusiva, la maggiore coesione ed equità, il riconoscimento del merito, la rigenerazione ambientale ed economica. Tutti obiettivi in grado di rendere questo territorio più bello e attrattivo per le nostre imprese, per gli investitori, per i turisti e, soprattutto, per i nostri giovani». Tema, quest'ultimo, che nei mesi scorsi era stato uno dei cavalli di battaglia di Treviso, con l'impegno a incrementare l'appeal del posto di lavoro in fabbrica . (Matteo Zoppas) Mi congratulo con le associazioni territoriali di Padova e Treviso che oggi rendono operativa una nuova integrazione, portando positivamente a termine un complesso percorso nato dalla diretta volontà delle rispettive basi associative. Sarò presente all'assemblea non solo in veste di presidente regionale ma anche in quanto rappresentante del nostro gruppo di aziende trevigiane. È la seconda aggregazione in Veneto - dopo quella che ho concluso nel 2015 tra Venezia e Rovigo - espressione della Riforma Pesenti. La fusione tra territoriali è una scelta giusta e opportuna quando esplicitamente sentita dagli associati e quando viene mantenuta la vicinanza e la prossimità all'impresa e al territorio. Ci attendono sfide importanti come quelle della trasformazione tecnologica, dell'autonomia, della competitività delle regioni, della tutela dell'ambiente, in una Europa che sta cambiando e per questo è giusto dare risposte adeguate e immediate ai bisogni che salgono dalle aziende. Come da Statuto, a Confindustria Veneto spetta il coordinamento e la promozione di posizioni comuni fra le associazioni: i suoi interlocutori naturali sono la Regione, le istituzioni e le organizzazioni regionali. Competenze e servizi diretti sui territori, sono invece compito delle associazioni territoriali. Sbaglia chi non comprende che non esistono contrapposizioni tra le varie componenti del sistema ma esiste, al contrario, una chiara valorizzazione di ruoli diversi e di interlocutori diversi. Quando funziona il lavoro di squadra, senza interferenze, si massimizza il risultato a beneficio di tutti gli associati. Tutto il coordinamento regionale, apprezza molto il propositivo clima di collaborazione creatosi negli ultimi mesi e sperimentato con successo ad esempio nei risultati ottenuti nell'operatività delle attività svolte da Confindustria Veneto, nel rilancio della Fondazione Nord Est, nel riposizionamento del Premio Campiello, nella realizzazione del progetto Veneto 4.0. Da parte di Confindustria Veneto sono quindi ben lieto di dare il benvenuto ad "Assindustria Veneto Centro. Imprenditori Padova Treviso" e auguro buon lavoro ai colleghi presidenti, Maria Cristina Piovesana e Massimo Finco. IL GAZZETTINO Pag 11 Il cimitero dei bimbi mai nati: “Un esempio di civiltà” di Angela Pederiva Aperta nel Vicentino l’area per la sepoltura dei feti abortiti Torri di Quartesolo (Vicenza). A sei mesi dall'approvazione della legge, è stata inaugurata a Torri di Quartesolo un'area di sepoltura dedicata ai bimbi mai nati, vale a dire feti abortiti in qualsiasi momento della gravidanza. «È una delle prime create in Veneto», ha annunciato ieri la Regione, lasciando intendere che potrebbe non essere la prima in assoluto, ma è la prima a essere stata aperta alla presenza di un suo assessore: Elena Donazzan (Forza Italia), che di per sé ha competenza su Istruzione e Lavoro, ma era stata la promotrice della proposta durante la maratona di Bilancio.

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LA NORMA - Introdotta a dicembre sotto forma di emendamento al Collegato alla Stabilità, la norma prevede l'obbligo di informazione delle Ulss alle famiglie sulla possibilità di procedere alla tumulazione o cremazione dei bimbi abortiti, fino ad allora prevista solo dalle 28 settimane di gestazione in su, o dalle 20 in caso di richiesta dei genitori, mentre ora è garantita nei cimiteri a tutti, anche sotto quella soglia, così da evitare lo smaltimento tra i rifiuti speciali. Nel caso in cui le famiglie non fossero interessate, è l'azienda sanitaria a farsene carico. Non a caso alla cerimonia c'era anche Giovanni Pavesi, direttore generale dell'Ulss 8 Berica, oltre al sindaco Ernesto Ferretto. «Sono orgogliosa di essere stata prima firmataria di questo emendamento che in aula ha trovato un consenso pressoché unanime ha commentato l'assessore Donazzan segno che la politica, di fronte a gesti di rispetto per la vita umana, supera anche le distanze ideologiche. Torri di Quartesolo ha dedicato uno spazio per il dolore di quei genitori che non hanno mai potuto vedere e abbracciare il loro bimbo: un esempio di civiltà, nel rispetto della vita sin dal suo concepimento». LA CONTRARIETÀ - Contro quella disposizione si era invece espressa la Cgil del Veneto: «Questa norma interviene in un ambito delicatissimo senza tenere in alcuna considerazione la sensibilità e la volontà delle donne coinvolte. Questo vale sia per coloro che scelgono di accedere alla interruzione volontaria di gravidanza, che per le donne che subiscono aborti spontanei». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Due facce dello stesso governo di Sabino Cassese Le contraddizioni Sono passati solo quindici giorni dall’insediamento del governo. È naturale che esso sia nella fase dell’apprendimento. Va considerato che si tratta di una compagine interamente nuova, composta da forze politiche che fino a ieri non solo si erano opposte l’una all’altra, ma avevano duramente criticato governo, élite, casta, e si trovano ora a dover svolgere il ruolo di élite. Che solo due dei diciannove componenti dell’esecutivo avevano precedenti esperienze di governo. Che molti ministri e sottosegretari hanno alle loro spalle l’esperienza di una sola legislatura parlamentare. Questo, tuttavia, non spiega interamente lo stile decisionale contraddittorio e la forte oscillazione – per indicare due dei punti opposti del pendolo - tra l’assennata posizione del ministro dell’Economia e delle Finanze e le bellicose decisioni del ministro dell’Interno. Se il primo rassicura, il secondo preoccupa. Il primo non si è limitato, con una esternazione molto ben argomentata (intervista al Corriere del 10 giugno), a dare fiducia a chi ha investito i propri risparmi in titoli dello Stato, ma ha anche detto che sono determinanti gli investimenti pubblici; che le risorse ci sono, ma che occorre una «decisa eliminazione degli ostacoli alla esecuzione degli investimenti»; e che sta provvedendo a eliminare i «nodi amministrativi», per aumentare la «capacità tecnica delle amministrazioni». Analisi giusta e indirizzi sacrosanti. Altro fattore rassicurante è costituito dalle prime scelte dei collaboratori amministrativi dei ministri. Si è preferito affidarsi a personale esperto, a conoscitori della macchina pubblica, anche chiudendo la parentesi renziana, durante la quale era stata manifestata per lo più sfiducia nei confronti dei consiglieri di Stato. A questo va aggiunto che vi è stata rispondenza nella macchina amministrativa, che ha assicurato la propria collaborazione. È un altro segnale rassicurante del processo di istituzionalizzazione di quelli che finora erano stati meri movimenti sociali (il M5S aveva persino rifiutato la denominazione di partito politico). Al polo opposto stanno le scomposte dichiarazioni e decisioni del ministro dell’Interno, che ha fatto ricorso a un linguaggio guerresco («difendere le frontiere», come se fosse in atto un conflitto bellico) e a decisioni conseguenti («chiudere i porti»). Se il ministro dell’Interno si valesse delle molte ricerche compiute da numerosi centri di studio sul fenomeno migratorio, apprenderebbe che né accogliere, né respingere costituiscono oggi una soluzione destinata a durare. Da un lato, sul breve periodo, infatti, non si può ignorare che la percentuale di immigrati (regolari e irregolari), rapportata alla popolazione, è inferiore,

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in Italia, a quella degli altri Paesi europei. Dall’altro, le previsioni demografiche di medio-lungo periodo fanno capire che non basterà chiudere i porti per fermare le migrazioni dall’Africa. Non basta fare, quindi, dichiarazioni bellicose, bisogna avere un progetto di lungo periodo, sul quale cercare di raccogliere il consenso dei nostri «partner» europei. Non è destinato a rassicurare un altro indirizzo di governo, quello dell’altro vicepresidente del Consiglio dei ministri, impegnato nella lotta alle delocalizzazioni: quale ministro dello sviluppo economico e del lavoro, egli intende revocare eventuali finanziamenti pubblici concessi a imprese che investano fuori d’Italia. Questo indirizzo può soddisfare un nazionalismo miope (ed anche il suo predecessore, che si era mosso nella stessa direzione), non certo le esigenze della nostra economia: che cosa succederebbe se i governi stranieri facessero altrettanto nei confronti delle loro molte imprese che investono in Italia? Non abbiamo detto tante volte che occorre creare un ambiente favorevole, che possa attrarre investimenti stranieri nel nostro Paese? All’Italia, Paese forte nelle esportazioni, convengono chiusure nazionalistiche? Nel «contratto per il governo del cambiamento» (più che nelle linee programmatiche esposte in Parlamento dal presidente del Consiglio dei ministri), c’era una sottile linea rossa, quella che evocava la paura e il nazionalismo. Timore per una crescente criminalità e per la corruzione, videocamere nelle classi, maggiori fondi alle forze armate e dell’ordine, atteggiamento aggressivo verso l’Unione Europea. Instillare insicurezza, diffondere sfiducia nelle istituzioni, mostrare segni di insofferenza per le procedure della democrazia, per poi suggerire antidoti autoritari e semmai illiberali: questo è il pericolo che il nuovo governo deve evitare. Pag 32 La politica si è ridotta a cronaca (e telecronaca) di Giuseppe De Rita Nella politica italiana circola una grande tentazione: quella di appiattirsi a cronaca quotidiana, con ciò rinunciando ad avere e a proporre idee di media portata e di lungo periodo. Un appiattimento che ha effetti regressivi nello stesso linguaggio politico, che si frammenta, si semplifica, si involgarisce, pur di inseguire occasioni e convenienze di «pronta beva», di immediato consenso. La prima causa di questo processo va probabilmente ricercata nel fatto che da lungo tempo viviamo in perenne tensione elettorale. I protagonisti della politica sono prigionieri di un destino infernale: devono acquisire consenso, ma all’interno di piccoli lampi di tempo e di attenzione collettiva; non possono perdere tempo a dialogare e fare confronti; e così l’unica strada resta quella di comunicare attraverso dichiarazioni semplicistiche, ma a forte impatto, sulle vicende quotidiane della gente. Non sorprende allora che ci siano strateghi della comunicazione che giornalmente pettinano ogni notizia di cronaca e ci costruiscono sopra delle uscite più o meno enfatiche dei loro leader di riferimento. Quasi che ai politici possa bastare far da semplici «commentatori» sui fatti correnti: sembra che ne siano contenti. Ma anche quando ricorda che non può solo commentare i fatti, la politica finisce per intridersi di cronaca: così si fanno dichiarazioni addirittura apodittiche («faremo questo, aboliremo quest’altro») che non producono dialettica politica, ma piuttosto un indistinto effetto annuncio di opinioni molto minute, destinate a vagolare nella cronaca quotidiana, e solo raramente a coagularsi in qualche appello di consenso. L’intento dichiarato è forte all’inizio, ma arriva poi alla sua espressione politica inzuppato di cronaca e intriso di contraddizioni. Andiamo avanti: dopo la campagna elettorale, arrivano momenti più complessi e riservati (di contrattazione, di intesa, di accordo) che nella tradizione venivano detti «arcana imperii», perché naturaliter da sottrarre alle banali curiosità della cronaca; e invece no, tutto diventa «scena» di cronaca. Nelle ultime settimane abbiamo così visto in funzione non solo la saga dei «retroscena» (la politica fatta dalle dicerie di cronaca), ma anche e specialmente la saga del «tutto il governo minuto per minuto», con studi televisivi organizzati per seguire in presa diretta la promulgazione di qualche incontro, dichiarazione e accordo. La politica è ridotta non solo a cronaca, ma a telecronaca. Si può allora capire e perdonare la coazione dei politici ad apparire in cronaca, a occupare personalmente la cronaca. Nessuno di loro gradisce che gli si chieda un articolo o un commento scritto; molti di loro cominciano ad avere dei dubbi sulla «resa» della loro presenza nei talk-show; mentre la maggioranza assoluta di loro si scatena sulle presenze di pura cronaca (il messaggino da 10 secondi, il selfie in qualche occasione di gruppo, la foto a Vinitaly, l’incontro con le vittime delle crisi

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bancarie o con i riders), in un intreccio sempre più pervasivo fra politica e cronaca. Forse sarebbe bene che la politica prendesse atto che dannarsi per entrare in cronaca significa diventare cronaca ed esaurirsi in essa: rischiando di perdere se stessa, la propria consistenza e il proprio prestigio. La trasparenza politica «minuto per minuto» crea picchi di opinione, ma non stabile qualità del governo delle cose collettive. Cominciamo a capire il pericolo e cerchiamo di recuperare, se non il primato, almeno l’autonomia della politica rispetto alla cronaca. Anche se attendono i tanti appuntamenti elettorali dei prossimi mesi, dove la tentazione alla cronaca ricomincerà a operare. AVVENIRE Pag 1 Caporalato: indietro mai di Antonio Maria Mira “Complicare” a chi sfrutta è giusto «Io dare 9 ore 30 euro». Lo dice uno dei due imprenditori di Marsala arrestati ieri con l’accusa di sfruttamento della manodopera agricola a un lavoratore migrante. E poi, alle sue proteste, lo minaccia: «Io non venire più, non prendere più». I poliziotti di Trapani lo ascoltano grazie alle intercettazioni ambientali e telefoniche. Fino all’ottobre 2016 non era possibile, da allora sì, grazie alla Legge sul caporalato approvata in quei giorni. Anche gli arresti non erano possibili. Con la Legge sul caporalato, sì. Ieri, ai due imprenditori/sfruttatori sono stati anche sequestrati due vigneti e un vasto uliveto, dove facevano lavorare i braccianti/ schiavi. Fino all’ottobre 2016 non era possibile. Con la Legge sul caporalato, sì. Proprio quella norma che due giorni fa il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha duramente criticato. «La legge sul caporalato invece di semplificare, complica», ha detto, promettendo di cambiarla. Ma chi questa legge applica ogni giorno pensa invece che sta funzionando. «Prima i processi per questo reato erano stati solo una trentina in tutta Italia. Oggi invece sono centinaia in varie procure dal Nord al Sud. Inoltre questa legge sta permettendo di attaccare tutte quelle condizioni che ledono la dignità del lavoratore, i diritti sociali, sindacali e della sicurezza », ci ha detto pochi giorni fa Bruno Giordano, magistrato di Cassazione, professore alla Statale di Milano ed ex consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla sicurezza del lavoro. E con lui tanti altri magistrati e uomini delle forze dell’ordine che questa legge utilizzano con successo nelle aree dove lo sfruttamento è più forte, dal Foggiano alla Piana di Gioia Tauro, dalle province di Ragusa e Siracusa al Casertano. Certo, come tutte le leggi, soprattutto quelle fortemente innovative e che inaspriscono controlli e pene, richiederà un’attenta verifica, una sorta di 'tagliando'. Ed è quello che stanno facendo sia il Ministero della Giustizia sia il Csm. Vedremo i risultati. Ma intanto, come detto, i numeri parlano da soli. E non solo. Proprio gli arresti di ieri, ma anche molti altri dei mesi scorsi, confermano che con questa norma è crollata l’ipocrisia del 'non lo sapevo' da parte degli imprenditori agricoli. Non si colpiscono solo i caporali, gli intermediari, ma gli utilizzatori finali degli sfruttati, degli schiavi della terra. Non più solo piccole pedine, ma chi si arricchisce grazie a bassi salari, orari infiniti, condizioni di lavoro insicure e insane. E proprio il nuovo strumento del sequestro delle aziende li vuole colpire in modo ancora più efficace, come per i sequestri dei beni ai mafiosi. Provvedimento punitivo e deterrente. E anche avanzato. Infatti, per scongiurare il cosiddetto 'ricatto occupazionale', è prevista la nomina da parte del giudice di un controllore giudiziario per consentire il mantenimento del patrimonio dell’azienda e il livello occupazionale. Per evitare che gli sfruttati diventino disoccupati. E invece, come ci hanno raccontato, l’aspetto più bello di queste vicende sono i visi di questi braccianti quando ricevono il loro primo salario regolare. Braccianti, lavoratori, non 'clandestini' o irregolari. Come tali andrebbero trattati, sia migranti sia italiani di nascita. La Legge sul caporalato – è bene ricordarlo – ebbe un’accelerazione dopo la morte della bracciante pugliese Paola Clemente nelle campagne di Andria il 13 luglio del 2015. Gli sfruttati non hanno un solo colore. Gli sfruttatori quasi sempre sì. Colpirli finalmente in maniera efficace è solo un atto di Giustizia, quella con la G maiuscola. Non complica la vita. Anzi aiuta gli imprenditori onesti che danno la giusta paga per giuste ore, e che invece vengono penalizzati dalla concorrenza sleale degli imprenditori disonesti. Se questa legge complica la vita a sfruttatori e truffatori allora è proprio una buona legge. Pag 3 L’ultima avvilente “ruota della fortuna” di Angelo Scelzo

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La sofferenza di chi migra e le realtà capovolte L’ultimo affronto al popolo dei naufraghi è ormai questo. Anche i 'salvagenti' possono servire a poco, se insieme non si pesca il jolly della combinazione giusta, un avvilente e angoscioso 'filotto' che, tra caso e fortuna, schiera la serie degli elementi in gioco: l’imbarcazione di soccorso – se 'privata' o 'militare' – il Paese d’origine e soprattutto il porto d’approdo, nel quale il via libera è regolato dal semaforo impazzito di governi che, da un giorno all’altro, cambiano di segno, se non proprio di natura. Ai migranti dell’Aquarius saranno forse sfuggiti gli sviluppi delle situazioni politiche in Italia e in Spagna, e neppure avranno prestato molta attenzione al repentino cambio di scena avvenuto sui due rispettivi fronti, con i porti italiani già divenuti poco a poco più lontani improvvisamente chiusi e quelli iberici diventati a un tratto più accoglienti. E per sovrappiù ci sono i francesi: erano arrivati a respingere in malo modo donne incinte alle frontiere e ora si sono riscoperti polemicamente solleciti e solidali... Una realtà capovolta, e nel giro di poche settimane. Non solo parole, ma regole cambiate sul campo, nel giro di poche ore. Come quella della netta differenziazione tra salvataggi operati da Guardia costiera italiana e altri navi militari e quelli effettuati, in lealissima e legalissima collaborazione con la stessa Guardia costiera, da imbarcazioni di Organizzazioni non governative (di tredici che erano, ora ne è rimasta una sola nelle vaste acque del Canale di Sicilia, e messa in condizione di non soccorrere). Queste ultime confinate senza scampo nell’orbita dei sospetti. È probabile che anche di questa diffidenza, chi viene a trovarsi nella disperata ricerca di salvezza, non sia al corrente, e finisca per non riflettere sul fatto che una nave non vale l’altra, come pure un Paese non vale l’altro, e infine - quel che più conta - un porto può essere alla fine non uguale all’altro. La differenza può risultare infatti fondamentale: si può trattare - e d’ora in poi, in Italia sarà così - di un porto chiuso, quasi un ossimoro pensando al senso dell’approdo. È difficile aggiungere anche solo un’oncia di oltraggio, all’odissea di chi, per mare o per terra, va in cerca di salvezza o di patria in un mondo scosso dalle ondate telluriche di un caotico cambio d’epoca. Ma l’indecenza di questa sorta di 'ruota della fortuna' da 'giocarsi' in mezzo al mare, è grande. Grande e insopportabile, perché è certo la peggiore e la più odiosa delle derive di una tragedia di fronte alla quale sarebbero le 'politiche' a doversi inchinare, evitando l’incongruo rifugio nell’ipocrisia e nella meschinità delle regole cieche e sorde. Come può sfuggire l’enormità del divario tra le tragedie in atto e la pochezza delle regole vigenti? Prima delle regole viene infatti una scelta di campo; più forte e più efficace delle norme è l’attitudine, l’atteggiamento, un «sì» o un «no» all’accoglienza del povero e del perseguitato, alla capacità di vedere, finanche nelle visioni offuscate del momento, i lineamenti di un mondo come casa comune della famiglia umana. Quello a cui si assiste è per il momento solo un gigantesco e misero spot all’industria dello scarto, più volte evocata da papa Francesco. Per la natura e gli elementi in campo, siamo anzi di fronte alla sua massima rappresentazione: lo sprezzo e la noncuranza della vita umana, trattata come la variabile indipendente di un 'fenomeno' da contrastare e sconfiggere con ogni mezzo. La fortuna o il caso potranno assistere perfino l’una o l’altra imbarcazione con il carico di persone – uomini, donne, bambini a bordo. Si potrà essere salvati dall’equipaggio sbagliato. E nel posto sbagliato. All’Aquarius, finita anche in mezzo alla buferapolitica e alle tempeste marine nel lungo tratto tra Italia e Spagna, è toccata una sorte inedita: accompagnata e scortata fino al porto di Valencia da due navi della Marina italiana. Come dire: ponti d’oro ai fuggitivi. E salva, così, la politica della fermezza, la 'voce alzata' che 'paga'. Passano i giorni, ma ancora non paga il senso di scoramento e di sconfitta che si accompagna a tutto questo. Pag 3 Così i nazionalisti dell’India spingono a odiare i cristiani di Stefano Vecchia Dalle campagne sui media alla minacce. E’ allarme Alla fine di maggio, il videoclip di un leader indù che calpestava l’immagine di papa Francesco presso la Cattedrale del Sacro Cuore di Delhi 'assediata' da una piccola folla ostile, è stata forse l’iniziativa di maggiore impatto simbolico verso una Chiesa indiana da tempo sulla difensiva, sia perché tutto è potuto avvenire nell’indifferenza delle autorità, sia per le 'ragioni' proposte. Om Swami Maharaj, noto estremista alla testa dei

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facinorosi, al grido di 'Pope Francis murdabad!' (a morte papa Francesco), ha accusato il Vaticano di promuovere il terrorismo e il maoismo nel Paese e ha esortato i cristiani ad andarsene pena l’espulsione. Una manifestazione di intolleranza che sarebbe forse passata inosservata tra le tante di questi ultimi anni se non fosse stata registrata e diffusa online fino a quando il raggruppamento cristiano Rashtriya Isai Mahasangh non ha chiesto alla polizia di bloccarne la circolazione. «Questa dimostrazione di odio verso ogni gruppo o leader religioso non dovrebbe essere permessa in una società civile», ha segnalato all’agenzia UcaNews Richard James, portavoce dell’influente organizzazione ecumenica con base a Bhopal, capitale del Madhya Pradesh, uno degli Stati dove è al potere il Bharatiya Janata Party (Bjp), espressione di maggior successo di una politica filo-induista che governa anche a livello centrale dopo la vittoria del maggio 2014 guidato da Narendra Modi. A riaccendere la rabbia dei nazionalisti indù verso la Chiesa cattolica, una lettera pastorale diffusa l’8 maggio in cui l’arcivescovo di Delhi, mons. Anil Couto, chiedeva ai cattolici di «rispettare un giorno di digiuno ogni venerdì» nei prossimi 12 mesi e di offrire «penitenza e sacrificio per il nostro rinnovamento spirituale e quello della nostra nazione», affinché nelle elezioni parlamentari del 2019 il Paese sappia affrontare «un futuro politico turbolento che minaccia la democrazia nel Paese». II 23 maggio, dopo l’episodio di Delhi, un parlamentare del Bjp, Subramanian Swami ha chiesto con un messaggio su Twitter che il premier Modi sospenda ogni rapporto con il Vaticano, sottolineando anche il ruolo «di nomina formale da parte vaticana» dell’arcivescovo di Delhi. Alzando così la tensione con il rischio che possa sfuggire di mano con gravi conseguenze. Si potrebbe pensare che dietro un episodio riprovevole e che è stato accolto da tante critiche anche in India, ci potrebbe essere 'solo' un’aggregazione di estremisti, magari sostenuti da qualche politico interessato a guadagnare consensi in vista di scadenze elettorali locali e nazionali. La realtà è più preoccupante perché, come ha indicato il vescovo Cajetan Francis Osta, è frutto di «espedienti politici per distrarre l’attenzione della gente da questioni spinose come inflazione e disoccupazione», ma non solo. Il Bharatiya Janata Party è un partito apertamente confessionale, che un quarto di secolo fa ha fatto di un’India per soli indù il centro della sua propaganda, coagulando attorno a sé le tante espressioni di un estremismo religioso e nazionalista che ha accolto le politiche liberiste e le aperture internazionali di Modi senza arretrare di un passo dalla volontà di imporre ai non-indù l’assimilazione oppure la loro uscita dal Paese. Nel quadriennio finora di controllo nazionalista sul Paese, con il quasi annichilimento del Partito del Congresso che aveva dominato la politica indiana dall’indipendenza come erede dell’esperienza di Gandhi e alfiere di una società integrata, le violenze ispirate, ammesse o non sanzionate degli estremisti sono state una realtà che le minoranze non possono ignorare. «Ogni giorno i mass media riportano notizie di atrocità compiute contro le minoranze religiose, i dalit e tribali», sottolinea Jignesh Mewani, leader dalit e parlamentare nello Stato del Gujarat, roccaforte per nascita e elettorato di Narendra Modi. «Se non ci uniamo e facciamo sentire la nostra voce, non è lontano in giorno in cui i fondamentalisti entreranno nelle nostre case per stuprare le nostre madri e le nostre sorelle o per ucciderci. Siamo ormai al crollo dello Stato di diritto». Le affermazioni di Mevani sono state espresse nell’incontro di leader, attivisti, studiosi e esponenti politici di origine dalit che si sono riuniti dal 25 al 27 maggio a Delhi, per ricordare il quarto anniversario dell’arrivo al potere di Modi. Quella sede è stata per l’organizzazione India Inclusive, nata da poche settimane per «salvaguardare non solo l’eredità condivisa e la coscienza collettiva dell’India ma anche per tutelare l’idea di un’India senza discriminazioni», l’occasione per diffondere dati aggiornati sulla situazione persecutoria verso minoranze e 'esclusi' che è andata accentuandosi negli ultimi quattro anni. Dati confermati da quelli resi proposti dal forum cristiano Persecution Relief, che nel 2017 ha registrato 600 casi di devastazione di luoghi di culto, minacce e aggressioni, boicottaggio sociale, campagne d’odio, sequestri di persona, omicidi tentati o riusciti di non-indù. Tehmina Arora, cristiana, avvocato e attivista per i diritti umani ricorda come per la 'legge anti-conversione' approvata in un numero crescente dei 29 Stati e dei 7 Territori in cui è diviso il Paese, individui e famiglie possono essere arrestati per conversione se tengono incontri di preghiera nelle loro abitazioni, e che, nonostante la libertà religiosa sia sancita dalla Costituzione, i cristiani sono «costretti a vivere secondo le imposizioni di forze distruttive che sembrano avere l’approvazione del governo in carica». A confermare il ruolo della politica filo-induista in

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una situazione tesa in modo crescente, significativi sono i dati della rete New Delhi Television (Ndtv): Il 77 per cento dei leader che hanno pronunciato discorsi carichi d’odio registrati finora sono esponenti del Bjp. Affermazioni o provocazioni che nel contesto indiano potrebbero aprire le porte a un pogrom contro le minoranze, proprio mentre si avvicina il decennale dell’ondata persecutoria che devastò le comunità cristiane dell’Orissa nell’agosto 2008. In un Paese incerto, preoccupato per la lentezza dello sviluppo e la persistenza di ineguaglianze e discriminazioni, la pericolosa manipolazione dei mass media da parte dell’estremismo è al centro dell’impegno di Teesta Setalvad, giornalista e capofila nell’impegno per i diritti civili. La sua campagna 'Agire per salvare il Paese' chiede agli indiani di reagire sia al qualunquismo di chi ha come slogan quello dell’indipendenza, 'Jai Hind!' ( Viva l’India), sia di chi, come gli induisti xenofobi del Rashtriya Swayamsevak Sangh, urlano nelle piazze 'Bharat Mata Ki Jai' ( Vittoria alla Madre India!) negando il diritto di centinaia di milioni di indiani a risiedere in pace nella propria terra. IL GAZZETTINO Pag 1 Tra nuova politica e vecchia corruzione di Alessandro Campi Tutti corrotti, nessuno corrotto. Ma non funziona così: il malaffare equamente distribuito, politicamente trasversale, non può valere come una spiegazione sociologica, figuriamoci come una giustificazione per comportamenti che sono e restano moralmente inaccettabili prim'ancora che penalmente perseguibili. Il fatto che nell'inchiesta romana sulla costruzione del nuovo stadio della Roma figurino rappresentanti e mandatari di tutti i partiti, compresi quelli che si sono proposti agli elettori come i campioni di un radicale rinnovamento nel costume e nella prassi della politica, purtroppo rende bene il problema che storicamente affligge l'Italia. Quello di spacciare per cambiamenti rivoluzionari, per passaggi epocali, quelli che sono invece aggiustamenti superficiali, semplici spostamenti di pedine, laddove i meccanismi del potere reale (e i suoi veri protagonisti) tendono a rimanere sempre gli stessi. E' il gattopardismo, il cambiare tutto per non cambiare niente: metafora politico-letteraria che non a caso si adatta perfettamente a tutto l'arco della storia unitaria italiana, indipendentemente dai passaggi di regime. Scoprire grazie alla cronaca giudiziaria che l'antipolitica nuova somiglia maledettamente alla politica vecchia, avendone prontamente adottato le furberie e le logiche spartitorie, fa in effetti una certa impressione. Ma questo accade evidentemente quando ci si accontenta delle enunciazioni roboanti e retoriche, che sono un'altra antica (e cattiva) specialità della cultura politica italiana. Oppure quando nel nome di un'astratta purezza si cede collettivamente all'ipocrisia: come essersi inventati l'idea che la politica democratica sia un'attività senza costo, un diletto da dilettanti, una pratica edificante per cittadini volenterosi, onesti e con molto tempo libero. Ma la realtà come sempre è tenacemente sgradevole, ovvero tremendamente banale. Dietro le belle parole facili da pronunciare pulizia, legalità, trasparenza, cambiamento, onestà, competenza, ecc. ecco dunque che si nascondeva il più scontato dei maneggi, visto mille molte: prebende e regalie distribuite in tutte le direzioni politiche con l'obiettivo di accaparrarsi appalti e commesse in barba ad ogni concorrenza. Se questo però è il problema, il permanere dalla Prima alla sedicente Terza Repubblica delle stesse logiche opache e degli stessi intrecci perversi tra politica e affari, resta da offrire una spiegazione plausibile del perché continuano a verificarsi vicende simili. La prima è quella, per così dire, moralistico-antropologica, da sempre in voga ma forse un po' troppo generica. Gli italiani sono così: cialtroni, irrispettosi del bene pubblico e della legge, incapaci di resistere alle tentazioni, inclini al sotterfugio, pronti ad approfittare di un ruolo pubblico per tornaconto personale, indifferenti alle logiche del mercato. Ma nella foga di condannare i comportamenti di una minoranza colpevole non si rischia, ragionando così, di offendere una maggioranza perbene? La seconda spiegazione è che forse qualcosa non funziona, sul piano tecnico-procedurale, nel modo con cui sono regolati i rapporti tra pubblica amministrazione e sfera imprenditoriale. Troppa burocrazia, regole troppo lasche, interpretazioni eccessivamente discrezionali? Eppure si sono fatte leggi restrittive, si sono disciplinati in modo stringente gli appalti, si sono introdotti maggiori controlli: possibile dunque che ci trovi sempre a fare i conti con comitati d'affari, cricche e consorterie come nell'era precedente a Mani Pulite? Non sarà che anche quella

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giudiziaria è stata, italianamente, una rivoluzione a metà o di facciata, che ha tragicamente smantellato un sistema politico, con grande giubilo di un'opinione pubblica inferocita, senza però smantellate le cattive pratiche affaristiche che lo sostenevano? La terza spiegazione, che si tende forse a sottovalutare, è che in questa furia di cambiamento e di novità che ha preso la politica italiana nell'ultimo decennio, travolgendone ogni regola, si è finito per portare nei posti di responsabilità un personale spesso infimo, avventizio nella migliore delle ipotesi. Accedono oggi alle cariche pubbliche, eletti con pochi voti o cooptati su basi puramente amicali e fiduciarie, senza che ci siano più nei partiti affiliazioni o legami di natura politico-ideale, personalità che in altri periodi della storia italiana non sarebbero andati oltre la distribuzione porta a porta dei volantini elettorali. Oggi invece costoro divengono facilmente assessori, amministratori delegati o consiglieri di società pubbliche, fiduciari di questo o quel capo di partito. E i risultati per l'appunto si vedono: s'è abbassata la competenza senza che sia cresciuta, se non a chiacchiere, la moralità. C'è stata, con l'idea di avere gruppi dirigenti sempre diversi, sempre nuovi, una selezione al ribasso dei medesimi, che probabilmente spiega perché la corruzione e il malaffare, invece di ridursi, siano rimasti i medesimi di trent'anni fa. Senza dimenticare che le carriere politiche occasionali e di poca durata sono di per sé uno stimolo all'accaparramento a danno dei contribuenti che ci si era impegnati a difendere: toccata e fuga, sfruttando il ruolo che fortunosamente ci si trova a occupare. Ci saranno riflessi politici per questa vicenda montante? M5S e Lega hanno promesso troppo, anche in termini di pubblica moralità, per permettersi il lusso di avere loro esponenti o fiduciari, nemmeno di secondo piano, coinvolti in una vicenda di corruzione, tangenti e cattiva imprenditoria. Vicenda nella quale, per chiarezza, sono finiti anche esponenti del Pd e di Forza Italia. Ma su costoro nemmeno vale la pena di infierire. Pag 2 “L’Italia non può esser lasciata sola ad affrontare il flusso migratorio” di Franca Giansoldati Intervista a Pietro Parolin Città del Vaticano. «L'Italia non può essere lasciata sola ad affrontare il flusso migratorio». Il principale collaboratore di Papa Francesco, il cardinale Pietro Parolin, sta uscendo da un colloquio tra diplomatici, organizzato dall'ambasciata messicana sul colle vaticano, dove si è parlato del muro con gli Usa, del blocco imposto da Trump, del flusso inarrestabile dei latinos che cercano disperatamente il modo di varcare il confine, pur di arrivare in America. Le migrazioni impongono riflessioni comuni e la prima domanda che viene rivolta al Segretario di Stato non poteva che riguardare l'emergenza europea. Che idea si è fatto di questa vicenda che sta facendo litigare l'Italia con la Francia e la Spagna? «Mi sento di dire che ho fiducia che da parte italiana non verrà meno quella sensibilità umanitaria che ha sempre caratterizzato l'agire del Paese, sia per quanto riguarda la popolazione, che le sue istituzioni. La sensibilità umanitaria fa parte della identità dell'Italia, una sorta di Dna». La nave quindi andava soccorsa e i migranti portati nel primo porto sicuro italiano? «Sul terreno delle decisioni non intendo scendere, anche perché la questione giuridica è davvero molto, molto complessa, come ho potuto approfondire in questi giorni. Ci sono molti punti aperti». Nel discorso che lei ha fatto al simposio sul Messico ha detto che vi è una crescente tendenza da parte degli Stati ad adottare programmi politici che si oppongono all'arrivo dei migranti prima ancora che venga stabilito il loro diritto alla protezione. Ha anche aggiunto che la questione in sé richiede un forte impegno politico e umanitario per mantenere gli obblighi accettati a livello internazionale, attraverso un sistema multilaterale. Faceva riferimenti particolari? «Credo che l'importante è che ci sia una risposta comune a questo problema e, nello specifico, che l'Italia non sia lasciata sola ad affrontare il problema delle migrazioni». Per certi versi lei sembra quasi comprendere l'agire politico del ministro Salvini. «Io ho detto quello che dovevo dire e non voglio aggiungere una riga di più». Il Papa è tornato a ripetere che i migranti non sono dei numeri e che serve una gestione globale e condivisa sui flussi..

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«Il ruolo della Chiesa è di ricordare i grandi principi e di come affrontare il problema delle migrazioni, pensiamo ai valori della fraternità e della solidarietà. Il Papa ha insistito e su questo concetto torna spesso». E' vero che il premier Conte è un suo amico di vecchia data? «Io non sono amico di Conte, lo ho certamente conosciuto quando ero a Villa Nazareht durante gli anni in cui ero responsabile. Lui era già laureato, ci siamo incontrati diverse volte, poi non l'ho visto per tanto tempo. Gli devo telefonare per fargli gli auguri». Il presidente americano Trump sta procedendo ad uscire dal Patto Onu per le migrazioni sicure. Cosa ne pensa? «Non è una buona cosa che gli Usa abbiano abbandonato questa via. Tutto il mondo sta affrontando un fenomeno planetario e solo un approccio globale contribuirà a fare individuare una soluzione per tutti». LA NUOVA Pag 1 In un tunnel di forza e minacce di Pier Aldo Rovatti Sembra passato un secolo da quando il presidente Napolitano invitava gli italiani ad abbassare i toni della politica. Adesso darebbe l'impressione di un suggerimento risibile e fuori contesto. Invitare ad attenuare la voce nel momento in cui, non solo in Italia ma ovunque, le parole dei governanti sono diventate drastiche, imperative, lapidarie e spesso offensive? Possiamo definirlo "stile Trump", anche se il termine stile è fin troppo signorile: di stile infatti non c'è ombra, al contrario si va verso una volgarità dei messaggi contrabbandata per comunicazione senza retorica e diretta al bersaglio. Un "pane al pane" che diventa "cretino al cretino". Se si continua così, sarà il caso di dire addio alla politica come risorsa democratica, e di accorgerci che stiamo entrando in una specie di tunnel reazionario dove ogni discorso equivale a un gesto di forza, di avvertimento o di minaccia. Sentiamo dire che ormai è finito il tempo delle semplici parole ed è cominciato quello dei fatti o dei gesti forti. "Finalmente!", applaude la piazza. Finalmente - sembrano indicare quegli applausi - usciremo dalla minorità e ci affermeremo come uomini adulti, determinati e vigorosi. Strana caricatura dell'idea di "illuminismo" (mi riferisco a quella enunciata da Kant più di due secoli fa), come se l'emergere dalla minorità della barbarie si dovesse misurare meno con l'acquisto di un sapere critico diffuso che attraverso il diametro dei bicipiti. Pensiamo solo al caso della nave Aquarius, piena di migranti, lasciata in mare per dare un segnale forte a un'Europa sorda e nicchiante. Vorrebbe essere la terapia d'urto necessaria a scuotere dalla passività e dal sonno istituzionale. Di qui all'obbligo di una vaccinazione generale - tanto per restare nella metafora - il passo potrebbe essere breve. Non è più questione di abbassare i toni perché ormai abbiamo superato ogni bon ton e le parole stesse stanno assumendo un'altra natura. Infatti le parole possono diventare frecce, proiettili, insomma "armi" con cui colpire l'avversario, se non altro spaventarlo e metterlo alle corde. È questo il "nuovo" spazio pubblico che stiamo auspicando?Se la "prova di forza" diventa il riempimento della politica, allora la politica si svuota di ogni sua caratteristica civile. Inutile star lì a riempirsi la bocca delle radici greche e romane, della virtù della polis o delle responsabilità dei cives, di quelle che in definitiva sarebbero le nostre basi democratiche. Saremmo anacronistici, poiché i tempi sono cambiati e ormai nelle piazze (in quelle reali come in quelle virtuali) non ci si va più per discutere ma per acclamare le proposte muscolari gridate dai leader. Così, ogni volta, le parole possono produrre sequenze di reciproca conflittualità, cerchi in cui si entra quasi automaticamente dato che offesa chiama offesa e ogni macchia appare indelebile e chiede immediato risarcimento. È facile sprofondare in questa logica del "colpo su colpo", molto difficile uscirne o anche solo persuadersi che occorre farlo. Quando entrano in scena i gesti forti, con la convinzione che ormai la ragionevolezza sia diventata imbelle e inutile, ritrovarla - questa ragionevolezza - appare un'impresa impossibile e per di più perdente. Quando l'attuale governo è stato finalmente presentato agli italiani, si è subito osservato che la scuola non figurava tra le priorità del programma. Un'assenza molto sintomatica e sospetta. Infatti, tutto lascia credere che la questione complessiva dell'"educazione" del cittadino sia già presente, e non solo in filigrana, nell'ispirazione stessa e nella trama del nuovo dispositivo, al di là dei ruoli che vi giocheranno i "gialli" e i "verdi" e delle loro prevedibili contraddizioni. Si annuncia palesemente una stretta autoritaria: una scuola

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che dovrà essere "populistica" nel senso di farla finita con le concessioni all'indisciplina e a un sapere falsamente illuministico, cioè pieno di aria fritta o magari di nostalgie sessantottesche. Anche qui è probabile che risuoni quell'"È finita la pacchia" che sta ispirando la stretta sui migranti. Pag 1 L’illusoria sovranità dei deboli di Vincenzo Milanesi Non solo la vicenda dei dazi che tanto sta sconquassando il mondo dell'economia globale, ma anche e forse soprattutto quella del blocco dei porti italiani alle navi delle Ong, sono legate in modo stretto alla questione del cosiddetto sovranismo. Che altro non è se non una orgogliosa (e talora arrogante) riaffermazione di un potere "sovrano" nella gestione di dinamiche in un mondo oggi ormai sempre più interconnesso a livello globale. Un potere che vuole ribadire il primato dell'interesse "nazionale". Anche nel dibattito aspro e talora scomposto nei toni che si è sviluppato in Italia nella campagna elettorale, e che appare destinato a non scomparire dall'orizzonte, che ha avuto come tema centrale quello dei rapporti con l'Unione Europea, il vero tema di fondo è stato quello della sovranità. A livello monetario, e quindi economico, e poi politico. Questa Ue confederata venuta alla luce a Maastricht è per molti aspetti una creatura nata male e cresciuta peggio, dopo la bocciatura della bozza di Costituzione politica del 2005 ad opera della Francia e l'introduzione della moneta unica. Che aveva il suo significato più autentico solo all'interno di una federazione politica con una condivisione di sovranità su molti altri piani capace di dare non solo maggior forza allo stesso processo federativo in corso, e che inoltre avrebbe anche fatto della moneta unica un formidabile strumento di rafforzamento della federazione a livello di un mercato ormai globale, oltre che di quello interno. Ma ciò che ha contribuito a rendere vincente l'opzione sovranista fino a farla diventare maggioritaria in uno dei Paesi fondatori dell'Europa unita, è il modo ottusamente miope con il quale lo Stato economicamente più forte, la Germania, si è regolato in questi anni nelle sue politiche all'interno degli organismi comunitari. Esercitando non un'egemonia nel senso più alto e profondo di questo concetto, cioè un potere che sa imporsi comprendendo che accanto agli interessi propri chi è più forte deve saper favorire anche, in qualche modo, quelli degli altri partner, più deboli, dell'Unione, per crescere di più e meglio nella condivisione delle scelte di fondo rinunciando tutti a qualcosa. Condividendo quindi per davvero porzioni di sovranità, non imponendo linee che hanno spesso nuociuto, e pesantemente, agli interessi dei più deboli e avvantaggiato, altrettanto pesantemente, quelli dei più forti. Nonostante questo quadro così apparentemente sconfortante, la sciagurata superficialità dei più deboli li ha condotti a compiere errori madornali di sottovalutazione della propria debolezza ed ha così contribuito in modo decisivo alla crisi in atto dell'Unione. Ma la tentazione di uscire dalla "gabbia" comunitaria in nome della volontà di riacquistare così la perduta sovranità, e con questa anche la piena libertà di azione a livello economico e monetario, può essere loro fatale. Non è consentito a nessuno, se non ad un attore comico, affermare solennemente: "fermate il mondo, voglio scendere!". Eppure, questo è il destino dei sovranisti nostrani: dopo il potere acquisito protestando non senza ragioni, si troveranno tuttavia, affermando il loro sovranismo, senza gli strumenti che, bene o male, la moneta unica ha dato a tutte le economie della zona euro. La finanza nel mondo globale non fa sconti, ma neppure tesse trame contro gli illusi sovranisti. Più semplicemente, fa i suoi interessi. Così come saranno ancora più legittimati a farli gli ex-partner comunitari. Più il sovranismo dilagherà in Europa, più la divisione e la disgregazione dei popoli che ne subiscono il fascino sarà per loro causa di danni maggiori di quelli prodotti da un'incompiuta federazione quale quella attuale, in cui si dovrebbe aumentare la condivisione di sovranità e non azzerarla. Ma occorrerebbe il coraggio della verità che le classi politiche dei Paesi più deboli non hanno, per rimetterli in carreggiata. Meglio cullarsi nell'illusione miracolistica della rinascita con la riacquistata pienezza della propria (illusoria) sovranità. Torna al sommario