Rassegna stampa 21 marzo 2019 - patriarcatovenezia.it · di ogni uomo e donna e di compiersi...

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 21 marzo 2019 SOMMARIO Proseguendo le catechesi sul “Padre nostro” - ha spiegato Papa Francesco riprendendo le udienze del mercoledì - “oggi ci soffermiamo sulla terza invocazione: «Sia fatta la tua volontà». Essa va letta in unità con le prime due – «sia santificato il tuo nome» e «venga il tuo Regno» – così che l’insieme formi un trittico: «sia santificato il tuo nome », «venga il tuo Regno», «sia fatta la tua volontà». Oggi parleremo della terza. Prima della cura del mondo da parte dell’uomo, vi è la cura instancabile che Dio usa nei confronti dell’uomo e del mondo. Tutto il Vangelo riflette questa inversione di prospettiva. Il peccatore Zaccheo sale su un albero perché vuole vedere Gesù, ma non sa che, molto prima, Dio si era messo in cerca di lui. Gesù, quando arriva, gli dice: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». E alla fine dichiara: «Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto». Ecco la volontà di Dio, quella che noi preghiamo che sia fatta. Qual è la volontà di Dio incarnata in Gesù?: Cercare e salvare quello che è perduto. E noi, nella preghiera, chiediamo che la ricerca di Dio vada a buon fine, che il suo disegno universale di salvezza si compia, primo, in ognuno di noi e poi in tutto il mondo. Avete pensato che cosa significa che Dio sia alla ricerca di me? Ognuno di noi può dire: “Ma, Dio mi cerca?” - “Sì! Cerca te! Cerca me”: cerca ognuno, personalmente. Ma è grande Dio! Quanto amore c’è dietro tutto questo. Dio non è ambiguo, non si nasconde dietro ad enigmi, non ha pianificato l’avvenire del mondo in maniera indecifrabile. No, Lui è chiaro. Se non comprendiamo questo, rischiamo di non capire il senso della terza espressione del “Padre nostro”. Infatti, la Bibbia è piena di espressioni che ci raccontano la volontà positiva di Dio nei confronti del mondo. E nel Catechismo della Chiesa Cattolica troviamo una raccolta di citazioni che testimoniano questa fedele e paziente volontà divina. E San Paolo, nella Prima Lettera a Timoteo, scrive: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità». Questa, senza ombra di dubbio, è la volontà di Dio: la salvezza dell’uomo, degli uomini, di ognuno di noi. Dio con il suo amore bussa alla porta del nostro cuore. Perché? Per attirarci; per attirarci a Lui e portarci avanti nel cammino della salvezza. Dio è vicino ad ognuno di noi con il suo amore, per portarci per mano alla salvezza. Quanto amore c’è dietro di questo! Quindi, pregando “sia fatta la tua volontà”, non siamo invitati a piegare servilmente la testa, come se fossimo schiavi. No! Dio ci vuole liberi; è l’amore di Lui che ci libera. Il “Padre nostro”, infatti, è la preghiera dei figli, non degli schiavi; ma dei figli che conoscono il cuore del loro padre e sono certi del suo disegno di amore. Guai a noi se, pronunciando queste parole, alzassimo le spalle in segno di resa davanti a un destino che ci ripugna e che non riusciamo a cambiare. Al contrario, è una preghiera piena di ardente fiducia in Dio che vuole per noi il bene, la vita, la salvezza. Una preghiera coraggiosa, anche combattiva, perché nel mondo ci sono tante, troppe realtà che non sono secondo il piano di Dio. Tutti le conosciamo. Parafrasando il profeta Isaia, potremmo dire: “Qui, Padre, c’è la guerra, la prevaricazione, lo sfruttamento; ma sappiamo che Tu vuoi il nostro bene, perciò ti supplichiamo: sia fatta la tua volontà! Signore, sovverti i piani del mondo, trasforma le spade in aratri e le lance in falci; che nessuno si eserciti più nell’arte della guerra!”. Dio vuole la pace. Il “Padre nostro” è una preghiera che accende in noi lo stesso amore di Gesù per la volontà del Padre, una fiamma che spinge a trasformare il mondo con l’amore. Il cristiano non crede in un “fato” ineluttabile. Non c’è nulla di aleatorio nella fede dei cristiani: c’è invece una salvezza che attende di manifestarsi nella vita di ogni uomo e donna e di compiersi nell’eternità. Se preghiamo è perché crediamo che Dio può e vuole trasformare la realtà vincendo il male con il bene. A questo Dio ha senso obbedire e abbandonarsi anche nell’ora della prova più dura. Così è stato per Gesù nel giardino del Getsemani, quando ha sperimentato l’angoscia e ha pregato: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 21 marzo 2019

SOMMARIO

Proseguendo le catechesi sul “Padre nostro” - ha spiegato Papa Francesco riprendendo le udienze del mercoledì - “oggi ci soffermiamo sulla terza invocazione: «Sia fatta la tua volontà». Essa va letta in unità con le prime due – «sia santificato il

tuo nome» e «venga il tuo Regno» – così che l’insieme formi un trittico: «sia santificato il tuo nome », «venga il tuo Regno», «sia fatta la tua volontà». Oggi

parleremo della terza. Prima della cura del mondo da parte dell’uomo, vi è la cura instancabile che Dio usa nei confronti dell’uomo e del mondo. Tutto il Vangelo riflette questa inversione di prospettiva. Il peccatore Zaccheo sale su un albero perché vuole

vedere Gesù, ma non sa che, molto prima, Dio si era messo in cerca di lui. Gesù, quando arriva, gli dice: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa

tua». E alla fine dichiara: «Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto». Ecco la volontà di Dio, quella che noi preghiamo che sia fatta. Qual è la volontà di Dio incarnata in Gesù?: Cercare e salvare quello che è perduto. E noi, nella preghiera, chiediamo che la ricerca di Dio vada a buon fine, che il suo disegno

universale di salvezza si compia, primo, in ognuno di noi e poi in tutto il mondo. Avete pensato che cosa significa che Dio sia alla ricerca di me? Ognuno di noi può

dire: “Ma, Dio mi cerca?” - “Sì! Cerca te! Cerca me”: cerca ognuno, personalmente. Ma è grande Dio! Quanto amore c’è dietro tutto questo. Dio non è ambiguo, non si

nasconde dietro ad enigmi, non ha pianificato l’avvenire del mondo in maniera indecifrabile. No, Lui è chiaro. Se non comprendiamo questo, rischiamo di non capire

il senso della terza espressione del “Padre nostro”. Infatti, la Bibbia è piena di espressioni che ci raccontano la volontà positiva di Dio nei confronti del mondo. E nel Catechismo della Chiesa Cattolica troviamo una raccolta di citazioni che testimoniano questa fedele e paziente volontà divina. E San Paolo, nella Prima Lettera a Timoteo, scrive: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità». Questa, senza ombra di dubbio, è la volontà di Dio: la salvezza dell’uomo,

degli uomini, di ognuno di noi. Dio con il suo amore bussa alla porta del nostro cuore. Perché? Per attirarci; per attirarci a Lui e portarci avanti nel cammino della salvezza. Dio è vicino ad ognuno di noi con il suo amore, per portarci per mano alla salvezza. Quanto amore c’è dietro di questo! Quindi, pregando “sia fatta la tua volontà”, non

siamo invitati a piegare servilmente la testa, come se fossimo schiavi. No! Dio ci vuole liberi; è l’amore di Lui che ci libera. Il “Padre nostro”, infatti, è la preghiera dei figli, non degli schiavi; ma dei figli che conoscono il cuore del loro padre e sono certi del suo disegno di amore. Guai a noi se, pronunciando queste parole, alzassimo le spalle in segno di resa davanti a un destino che ci ripugna e che non riusciamo a cambiare.

Al contrario, è una preghiera piena di ardente fiducia in Dio che vuole per noi il bene, la vita, la salvezza. Una preghiera coraggiosa, anche combattiva, perché nel mondo ci sono tante, troppe realtà che non sono secondo il piano di Dio. Tutti le conosciamo.

Parafrasando il profeta Isaia, potremmo dire: “Qui, Padre, c’è la guerra, la prevaricazione, lo sfruttamento; ma sappiamo che Tu vuoi il nostro bene, perciò ti

supplichiamo: sia fatta la tua volontà! Signore, sovverti i piani del mondo, trasforma le spade in aratri e le lance in falci; che nessuno si eserciti più nell’arte della guerra!”.

Dio vuole la pace. Il “Padre nostro” è una preghiera che accende in noi lo stesso amore di Gesù per la volontà del Padre, una fiamma che spinge a trasformare il mondo con l’amore. Il cristiano non crede in un “fato” ineluttabile. Non c’è nulla di aleatorio nella fede dei cristiani: c’è invece una salvezza che attende di manifestarsi nella vita di ogni uomo e donna e di compiersi nell’eternità. Se preghiamo è perché crediamo che Dio può e vuole trasformare la realtà vincendo il male con il bene. A questo Dio

ha senso obbedire e abbandonarsi anche nell’ora della prova più dura. Così è stato per Gesù nel giardino del Getsemani, quando ha sperimentato l’angoscia e ha pregato:

«Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua

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volontà». Gesù è schiacciato dal male del mondo, ma si abbandona fiducioso all’oceano dell’amore della volontà del Padre. Anche i martiri, nella loro prova, non

ricercavano la morte, ricercavano il dopo morte, la risurrezione. Dio, per amore, può portarci a camminare su sentieri difficili, a sperimentare ferite e spine dolorose, ma non ci abbandonerà mai. Sempre sarà con noi, accanto a noi, dentro di noi. Per un

credente questa, più che una speranza, è una certezza. Dio è con me. La stessa che ritroviamo in quella parabola del Vangelo di Luca dedicata alla necessità di pregare sempre. Dice Gesù: «Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia

prontamente». Così è il Signore, così ci ama, così ci vuole bene” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IX Domenica l’ingresso di don Roberto a San Zulian di Daniela Ghio Pag XII Carpenedo, caduti sul lavoro: domani una messa 3 – VITA DELLA CHIESA VATICAN INSIDER Bassetti: “Per un cattolico è immorale vedere nel migrante un nemico” di Domenico Agasso jr Il monito del presidente della Cei: rigurgiti xenofobi emersi in questo clima di paura esasperata Morta Anna Maria Canopi, badessa dell’isola di San Giulio. Il vescovo: “Grave perdita per la Chiesa novarese” di Vincenzo Amato AVVENIRE Pag 19 “Sia fatta la tua volontà” è il nostro fidarci di Dio L’udienza del Papa Pag 23 “Se non ha l’amore è giustizia ingiusta” di Vincenzo Paglia LA REPUBBLICA Pag 17 Dal Papa porte aperte per Xi Jinping. “Ma è ancora presto per un incontro” di Paolo Rodari IL FOGLIO Pag III Croce e drago di mat.mat. I due punti fermi nel negoziato per portare Xi dal Papa. Parolin: “Per incontrarsi bisogna essere in due” 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Dai benefit per i figli ai servizi, così l’Italia penalizza la famiglia di Massimo Calvi Perché è venuto il momento di intervenire in modo deciso a favore della natalità 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Da casa per anziani soli a nuovo ostello. Il pensionato delle suore cambia volto di Marta Gasparon Pag IX Scontri e accuse a San Salvador, a processo la sorella di don D’Antiga

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Pag XIII “Grave episodio di violenza ma situazione migliorata” di a.spe. La San Vincenzo: “Dall’estate scorsa mai un problema in mensa a Ca’ Letizia. Quel cubano era già stato allontanato” 8 – VENETO / NORDEST AVVENIRE Pag 11 “Mafie anche in Veneto, Chiesa pronta ad agire” di Antonio Maria Mira Il vescovo di Padova Claudio Cipolla: contrastare ogni forma di illegalità partendo da uno stile di vita puro LA NUOVA Pag 2 Vi aspetto numerosi, tutti uniti con la forza dell’etica di Luigi Ciotti CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Fontana, il Congresso e il Vaticano: “Ho dato il patrocinio perché nel 2018 partecipò anche il cardinale Parolin” di Antonio Spadaccino 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 12 di Gente Veneta in uscita venerdì 22 marzo 2019:

Pagg 1, 25 Ne uccide più il gioco della droga di Giorgio Malavasi e Valentina Pinton I dati del Serd di Mirano-Dolo dicono l’aggravarsi del dramma: un nuovo paziente a settimana e famiglie disperate. Tante vite rovinate e ora anche suicidi (tenuti nascosti) Pag 1 Gioco d’azzardo, strage da fermare di Giorgio Malavasi Pag 3 Per soldi e con finzione: profanazione in chiesa all’Ospedaletto di Giorgio Malavasi Foto, video e racconti descrivono una sfilata di moda con finta celebrazione di un matrimonio, officiato da un altrettanto finto prete e completato da un banchetto nuziale. Don Gianmatteo Caputo: «Quanto accaduto è contrario alla sacralità del luogo, che è spazio di verità, giustizia e bellezza» Pag 5 Gennadios: «A 23 anni incontrai Chiara. Con lei iniziò la stagione dell’ecumenismo» di Alessandro Polet La testimonianza su Chiara Lubich del Metropolita d’Italia Gennadios Zervòs. L’incontro al Laurentianum con il Patriarca: «Fu apripista del dialogo» Pagg 9 - 11 Le zone grigie e i colori accesi di quattro comunità veneziane di Giorgio Malavasi, Francesca Catalano e Maria Giovanna Romanelli San Silvestro, San Cassiano, San Giacomo dall’Orio e San Simeon Grando: lo spopolamento ha ridotto i residenti a 5mila unità e l’invecchiamento si fa sentire. Ma la Collaborazione pastorale ha aperto nuove iniziative, dall’evangelizzazione alla preghiera all’accoglienza. E c’è un sogno... Suore Salesie: «Il nostro Open Day? Si chiama passaparola». Misericordia, un’alleanza di generazioni per l’assistenza. La Chiesa russo ortodossa, ospite da 15 anni Pagg 12 – 13 Il Patriarca: «Avete il dono di essere una piccola, grande isola» di Marta Gasparon Nella liturgia eucaristica al termine della Visita pastorale a Sant’Erasmo e alle Vignole, mons. Moraglia ha ripercorso le tappe vissute: «Avete una storia e questo è un territorio felice, dove ho visto lavoratori seri, che hanno a cuore che anche le altre imprese si realizzino. Qui c’è il senso della comunità» Pag 15 Don Roberto Donadoni: «La fede potrà rigenerarci» di Serena Spinazzi

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Lucchesi e Francesca Catalano Di origini bergamasche, guarda alla figura di Giovanni XXIII: «Da anziano, riuscì a rigenerare il mondo donando la capacità di sperare. Vorrei che le nostre comunità sentissero con gioia il dono che deriva dalla novità della fede». Domenica 24 marzo l’ingresso nella collaborazione marciana. Messa di saluto di don Camilotto pioniere della Comunità marciana Pag 19 Oltre 40mila euro dall’asta dei beni di don Franco De Pieri Aggiudicati circa 130 dei 150 oggetti, tra quadri, mobili, sculture e arredi, appartenuti al sacerdote scomparso nel 2015. Il ricavato, come disposto da don De Pieri, andrà alle famiglie povere delle parrocchie di San Paolo e del Corpus Domini. E serviranno per le attività avviate a Natal, in Brasile Pag 28 Gli 80 del Trap: «Nella vita e nel calcio mi ha sostenuto la fede» di Lorenzo Mayer Giovanni Trapattoni, l’allenatore più vincente del calcio italiano, ha compiuto 80 anni. A GV racconta: «In patronato e in parrocchia mi sento a casa». Da sei anni non allena più: «Ho smesso anche di fare il commentatore. Non amo mettere in difficoltà i colleghi» Pag 29 Dalla trasgressione infelice alla fede che dà gioia: la conversione dei The Sun di Gaia Valent La band ha raccontato la propria vicenda esistenziale e artistica ad un centinaio di giovani mestrini nella parrocchia della Gazzera … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Perché non doveva essere lì di Venanzio Postiglione Terrore sul bus a Milano Pag 1 La capacità dei 5 Stelle di adeguarsi al “sistema” di Fiorenza Sarzanini Pag 12 L’ex Robespierre (con le arance) che additava gli avversari. “Via la corruzione” di Gian Antonio Stella Il caso Roma, il ritratto di Marcello De vito Pag 13 Il Carroccio va all’incasso a spese dell’alleato di Massimo Franco Pag 32 Sventoliamo dalle finestre la bandiera dell’Europa di Romano Prodi e Stefano Micossi LA REPUBBLICA Pag 30 Il giorno più lungo dei 5 Stelle di Stefano Folli AVVENIRE Pag 1 L’ultimo tradimento di Danilo Paolini Roma, M5s, ipotesi di corruzione Pag 3 E’ ora di “vedere” davvero le religioni di Gerolamo Fazzini Voci e atti (anche islamici) che spiazzano IL FOGLIO Pag 2 Sono figli di un Dio minore. “300 cristiani uccisi in Nigeria da febbraio” di Giulio Meotti Carneficine senza grancassa mediatica IL GAZZETTINO Pag 1 Zingaretti e i limiti dell’effetto sondaggi di Giovanni Diamanti

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Pag 27 Addio al mito della diversità, il brusco risveglio dei grillini di Mario Ajello LA NUOVA Pag 6 Le politiche improvvisate sui migranti di Maurizio Mistri

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IX Domenica l’ingresso di don Roberto a San Zulian di Daniela Ghio Venezia. È fissato per domenica l'ingresso ufficiale del nuovo parroco di San Zaccaria, San Salvador e San Moisè, don Roberto Donadoni, e dei presbiteri collaboratori don Mauro Deppieri, vicario parrocchiale, e don Carlo Seno, collaboratore parrocchiale. L'insediamento ufficiale giunge dopo tre mesi dalla nomina del patriarca Francesco Moraglia. La cerimonia avrà inizio alle 16 nella chiesa di San Salvador con l'accoglienza del nuovo parroco e la professione di fede. Continuerà alle 16.15 nella chiesa di San Zulian per un momento di preghiera e l'invocazione allo Spirito Santo, quindi, alle 16.30, il corteo verso San Zaccaria, dove alle 16.45 ci sarà la concelebrazione eucaristica presieduta dal patriarca. Alle 18.30 il buffet nel chiostro di Sant'Apollonia. Don Roberto, che guida già dallo scorso dicembre le parrocchie di San Salvador e San Moisè, ha indirizzato una lettera alla comunità, rivolgendo un pensiero particolare al gruppo dei Genitori con un figlio in cielo: «Ora, dopo il sì che il Signore mi ha chiesto attraverso il nostro patriarca scrive don Donadoni -, e credetemi non senza trepidazione, sono tra voi e rimango tra voi come ospite e pellegrino, servitore e non padrone, di una Chiesa antica e vivace, e di una porzione di territorio ricolmo di storia e di umanità. Sono testimone di un Oltre che tutti interpella, di fronte al quale nessuno di noi può dirsi arrivato, ma verso il quale tutti come pellegrini siamo diretti, con i nostri peccati, nonostante i limiti che a volte appesantiscono l'entusiasmo e offuscano il desiderio. Sono grato alla volontà di Dio, che mi invita a voi, riconoscendo in essa la grazia di Dio; e chiedo anche a voi di esserne contenti. Fatemi spazio nel vostro cuore e non abbiate paura di bussare al mio». Pag XII Carpenedo, caduti sul lavoro: domani una messa Domani, venerdì 22 Marzo alle 18.30 nella Chiesa di San Gervasio e Protasio a Carpenedo si terrà un incontro e sarà celebrata una Messa per ricordare i lavoratori deceduti il 22 marzo 1979 al Petrolchimico di Marghera per un grave infortunio sul lavoro Bruno Bigo da Carpenedo, Giorgio Rasia da Cornedo Vicentino e Lucio Oreda da Sarano di Santa Lucia di Piave. Parteciperà e accompagnerà la Messa il Coro delle cime dello stabilimento petrolchimico, componenti della San Vincenzo Taliercio dello stabilimento petrolchimico e Unitalsi. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA VATICAN INSIDER Bassetti: “Per un cattolico è immorale vedere nel migrante un nemico” di

Domenico Agasso jr Il monito del presidente della Cei: rigurgiti xenofobi emersi in questo clima di paura

esasperata «Per un cattolico è immorale vedere nel migrante un nemico da combattere o da odiare». Negli ultimi tempi «si è diffuso un clima di paura, a volte alimentato in modo irresponsabile, che ha fatto emergere rigurgiti xenofobi». Parole durissime quelle del

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cardinale Gualtiero Bassetti, presidente dei vescovi italiani, che diventano un monito nei giorni dell’ennesimo braccio di ferro tra il ministro dell’Interno Salvini e una nave Ong piena di disperati del mare. Vengono in mente il giuramento sul Vangelo del leader leghista, i richiami all’«accoglienza prudente» di papa Francesco e le polemiche - presenti e accese anche nelle parrocchie - sull’atteggiamento da tenere nei confronti degli immigrati. Eminenza, un cattolico come deve rapportarsi al tema migranti? «I cattolici devono rapportarsi al tema dei migranti con grande amore e fede certa, tenendo sempre a mente il Vangelo di Matteo: “ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto”. Papa Francesco ha donato alla Chiesa 4 verbi per affrontare la sfida delle migrazioni internazionali: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Quattro verbi che sintetizzano una lunga serie di azioni pastorali ma che hanno un unico grande significato: attraverso l’accoglienza noi scegliamo di accogliere Cristo nella nostra vita e difendiamo la dignità inviolabile di ogni essere umano. Perché – è bene ricordarlo con fermezza – i migranti fanno parte dell’unica famiglia umana e non sono cittadini di serie B. I migranti sono gli ultimi, i piccoli e i poveri di questo mondo e come disse Paolo VI i poveri appartengono alla Chiesa per “diritto evangelico”. Con altrettanta fermezza vorrei ribadire un concetto che forse scomoda i benpensanti: per un cattolico è assolutamente immorale vedere nel migrante un nemico da combattere o da odiare». L’Italia è inquinata dal razzismo? «L’Italia è un Paese con una grande tradizione umanitaria ed è abitata da un popolo gioioso e creativo che nei momenti di difficoltà ha sempre dato il meglio di sé. Quindi non direi che l’Italia è inquinata dal razzismo. Penso, però, che negli ultimi anni, complice una durissima crisi economica, si è diffuso un clima di paura e di incertezza, a volte alimentato in modo irresponsabile, che ha contaminato lo spirito pubblico fino a far emergere alcuni rigurgiti xenofobi». Come bisogna affrontare il diffondersi di populismi e sovranismi? Quali sono i pericoli che ne derivano? «Ogni epoca storica ha avuto i suoi “ismi” pericolosi: comunismo, fascismo, nazismo, laicismo, relativismo e via discorrendo. Solitamente, tutte queste ideologie hanno promesso all’uomo un paradiso in Terra che consisteva nel benessere e nella felicità. Oggi come ieri bisogna quindi stare molto attenti nel promettere al popolo delle facili ricette. Il rischio grosso è che con il passar del tempo queste ricette si traducano facilmente in soluzioni illusorie e quindi possano generare ancor più frustrazione e rabbia sociale. Penso dunque che sarebbe opportuno tornare a guardare con saggezza e realismo alla tradizione del popolarismo sturziano e al personalismo di Maritain. Il popolo infatti non si accarezza con gli slogan e le promesse mirabolanti ma lo si aiuta a crescere fornendo risposte concrete e parole di verità». A 100 anni dall’appello di don Sturzo, che cosa sono chiamati a essere e a fare i cattolici in politica? E che ruolo dovrebbero avere i preti e i vescovi? «I cattolici in politica sono chiamati a mettere in pratica autenticamente la logica del servizio: non si fa politica per carriera, per soldi o per bramosia di potere, ma come impegno di umanità e santità. La politica è una missione in cui i cattolici possono rendere testimonianza al Vangelo servendo con carità il proprio Paese. I pastori invece hanno un altro grande compito: quello di esortare alla fedeltà del magistero della dottrina sociale della Chiesa Cattolica, alla comunione fraterna e alla solidarietà tra le persone. Non mi stancherò mai di dirlo: il laicato cattolico deve superare, una volta per tutte, questa vecchia e sterile divisione tra chi si occupa solo di bioetica e chi soltanto di povertà. Il messaggio sociale del cristianesimo è unitario e si basa sulla salvaguardia della dignità della persona umana in ogni circostanza: dalla maternità al lavoro, dal rapporto con la scienza alla cura dei migranti». Uno dei temi cruciali per la Chiesa è la famiglia: qual è lo “stato di salute” della famiglia? Di che cosa ha più bisogno? «A me sembra che oggi siamo in presenza di “famiglie sole” che vivono in un mondo liquido ma che, nonostante le moltissime difficoltà, continuano ad essere “la roccia” della nostra società. Fare una famiglia oggi è un atto di eroismo incredibile perché significa andare totalmente controcorrente. Contro un sistema sociale e culturale che privilegia ogni forma di individualismo rispetto alla famiglia e favorisce ogni desiderio al di là di

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ogni responsabilità. Oggi sembra quasi impossibile parlare al mondo dell’esistenza di un amore per sempre, che non finisce e non si divide. Eppure, nonostante questa lunga serie di ostacoli che rendono difficile la vita delle coppie, la famiglia continua ad essere un baluardo, anzi, una roccia della nostra esistenza. La prima cosa di cui oggi c’è assoluto bisogno consiste nel ribadire, con forza, che l’unione matrimoniale tra un uomo e una donna, aperta ai figli, non è una struttura residuale della storia, ma è la cellula fondamentale ed insostituibile del nostro vivere in comune». Che cosa dovrebbero fare i governanti in ambito familiare? C’è un modello di politiche familiari di qualche paese straniero a cui Lei farebbe riferimento? «I paesi stranieri, soprattutto quelli con una democrazia ancora giovane e con un passato autoritario, non li prenderei come esempio: devono ancora maturare, hanno molta strada da fare. Riguardo all’Italia la prima considerazione da fare è un po’ amara. Perché, al di là delle tante parole, siamo ancora indietro sulle politiche familiari. Il presente e il recente passato sono infatti caratterizzati da tante chiacchiere e pochi fatti. Io penso, invece, che ci siano almeno tre campi su cui agire concretamente: in primo luogo, un nuovo welfare più vicino alle famiglie che non si traduca soltanto in piccoli interventi monetari ma che produca un nuovo intervento sociale a sostegno delle coppie giovani, dei precari, delle donne e della natalità; in secondo luogo, un rafforzamento dell’alleanza scuola-famiglia, in cui gli alunni siano al centro del progetto educativo, i docenti siano valorizzati nella loro professionalità, e le famiglie siano salvaguardate da ogni deriva ideologica in campo educativo; in terzo luogo, infine, ciò di cui c’è più bisogno, oggi, è una nuova organizzazione del lavoro che si basi sul cosiddetto fattore famiglia». In che senso? «Occorre ripensare i tempi di lavoro e bilanciarli con quelli di un armonico sviluppo morale e civile, non solo economico, della famiglia. Sono sicuro che se un lavoratore è inserito in un ambiente di lavoro sereno, rispettoso dei tempi familiari, lavori meglio e la società nel suo insieme ne può trarre beneficio». Che cosa pensa delle tensioni attorno al Congresso della famiglia di Verona? «La famiglia sta particolarmente a cuore alla Chiesa, proprio per questo ci dispiace che finisca in polemiche strumentali». Quanto serviva davvero il reddito cittadinanza? «Tutto ciò che va in soccorso ai poveri è senza dubbio positivo. E quindi, come Chiesa, riceve la nostra attenzione e il nostro riconoscimento. Direi, però, che ci troviamo di fronte soltanto all’inizio di un tentativo di aiuto nei confronti di chi è in difficoltà. Le politiche di lotta alla povertà, probabilmente, dovranno avere un carattere più organico e non potranno ridursi soltanto all’erogazione temporanea di un reddito. Sarebbe opportuno, infatti, fornire un sostegno diretto al lavoro e all’occupazione. E in più bisognerebbe dare un’attenzione particolare, come ho già detto prima, alle donne in maternità». A che punto è il piano della Chiesa italiana nella lotta ad abusi e pedofilia? «Rispetto a questo tema così doloroso la Chiesa in Italia non è rimasta a guardare. Fin dalle Linee guida del 2012 – quelle nuove saranno presentate all’Assemblea generale del prossimo maggio – la Cei ricerca gli strumenti più adeguati a contrastare ogni sorta di abusi. Tra i vescovi, infatti, è ferma la consapevolezza che il primo interesse deve essere rivolto ai ragazzi feriti e alle loro famiglie, ritrovando quel “Me ne importa, mi sta a cuore” di don Milani e, al contempo, rigettando ogni forma di strumentalizzazione. La recente istituzione del Servizio nazionale per la tutela dei minori vuole rispondere a queste priorità, con un cambio di passo fondato su prevenzione e formazione. Il Servizio è al lavoro, a partire dalla costituzione dei Servizi regionali e interdiocesani: con la nomina dei vescovi incaricati da ogni Conferenza episcopale regionale, si sta completando un primo tratto del percorso. A seguire, si individueranno diocesi per diocesi uno o più referenti, da avviare a una formazione specifica. Il territorio già si muove in questo senso, penso alla Lombardia, al Trentino-Alto Adige, all’Emilia Romagna, alla Sardegna: segno dell’adesione convinta al cambio di mentalità chiesto dal Papa». Papa Francesco: come descriverebbe il suo Pontificato? «Lo descriverei in tre modi. Innanzitutto, come un pontificato profetico che ha raccolto lo spirito del Concilio vaticano II e ha rilanciato alcune categorie che erano finite un po’ ai

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margini. Penso per esempio al dialogo interreligioso, alla conversione pastorale e alla sinodalità. E in secondo luogo, come il pontificato dell’annuncio del Vangelo sine glossa: l’Evangelii gaudium non è solo il documento programmatico ma è il cuore pulsante dell’azione pastorale di Francesco. Tutto ruota attorno a questo documento pontificio che delinea la cifra morale, spirituale e sociale del pontificato. E infine, è il pontificato delle periferie. Le periferie umane – si pensi per esempio a Bangui, nella Repubblica Centrafricana, dove è iniziato il giubileo della misericordia – e le periferie esistenziali del mondo contemporaneo. Il Papa ha dunque restituito la centralità a Cristo e ha dato l’immagine di una Chiesa che, a raggiera, è diffusa nel mondo intero». Come percepisce il futuro prossimo della Chiesa? Quali sono le Sue principali preoccupazioni e ansie e quali le speranze? «Il futuro non ci appartiene, ma penso che in questi anni sono stati avviati dei processi i cui frutti si potranno comprendere tra molto tempo. Il grande tema della sinodalità, per esempio, se opportunamente sviluppato saprà fornire alla Chiesa un volto nuovo, sempre più autentico, partecipato e meno autoreferenziale. Un primo passaggio lo avremo nell’incontro di riflessione e di spiritualità per la pace nel Mediterraneo che si svolgerà a Bari nel febbraio 2020. Quella sarà una prima grande occasione per sperimentare concretamente lo spirito sinodale e per proporre soluzioni concrete per i problemi che affliggono il Mediterraneo». La donna nella Chiesa: è un rapporto e una presenza che deve ricevere maggiore attenzione e riconoscimento? «Senza dubbio sì. Occorre una presenza femminile di qualità e non solo di quantità. È necessario, per il bene della Chiesa, una maggiore presenza femminile nei luoghi di indirizzo pastorale e nei ruoli apicali della Chiesa. Non certo per una questione di suddivisione delle cariche in base ad una sorta di quota rosa ma per avere una visione diversa e più completa. Sono sicuro che su molti temi, tutti noi pastori abbiamo molto da imparare dalle donne». Morta Anna Maria Canopi, badessa dell’isola di San Giulio. Il vescovo: “Grave perdita per la Chiesa novarese” di Vincenzo Amato E’ morta stamattina, primo giorno di primavera, madre Anna Maria Cànopi, badessa emerita del monastero di clausura dell’isola di San Giulio, comunità che lei aveva fondato 46 anni fa e diretto sino allo scorso autunno. Aveva 87 anni, avrebbe compiuto 88 il prossimo 24 aprile, e da un anno era ammalata e per le condizioni di salute aveva lasciato la guida del monastero alla consorella Maria Grazia Girolimetto. Madre Cànopi era una figura importante all’interno della Chiesa cattolica e tra le poche donne ad aver scritto le riflessioni ad un Papa, Giovanni Paolo II, per una via Crucis. Donna di profonda spiritualità e di grande cultura aveva una notevole attività letteraria con la pubblicazione di decine di libri e centinaia di testi sacri. Particolarmente addolorato dalla notizia il vescovo di Novara, monsignor Franco Giulio Brambilla: «Con viva commozione mi unisco alla preghiera per la morte di Madre Anna Maria Cànopi, esprimendo a nome del consiglio episcopale, del presbiterio e di tutta la Chiesa novarese profondo cordoglio. Madre Anna Maria ci lascia un’enorme eredità. In quasi mezzo secolo di abbaziato a San Giulio ha reso la piccola Isola sul nostro lago d’Orta un centro pulsante di spiritualità, che lei, così esile e riservata, ha saputo animare con un’incredibile forza che si nutriva nel quotidiano dialogo con il Signore. Il fatto che la chiamata alla Casa del Padre sia arrivata per lei nel giorno del transito di San Benedetto, sottolinea ancora più decisamente ciò che per noi ha rappresentato la sua scelta di dedizione completa a Dio: una testimonianza dell’amore del Vangelo sincera e credibile per gli uomini e le donne di oggi. Secondo una regola e una spiritualità – quella del Santo patrono d’Europa – antica oltre mille anni, e che pure lei ha saputo rendere così attuale. La ricordiamo con un brano di un recente scritto per il sussidio di preghiera dei giovani della diocesi, che bene riassume il senso della sua consacrazione: “Leggendo la nostra vocazione alla luce delle belle figure delle donne della Bibbia, sentiamoci noi pure invitate a partire e ad essere donne forti nella fede, pronte nell’obbedienza alla chiamata di Dio e totalitarie nell’amore, nel dono generoso ed incondizionato di noi stessi giorno per giorno, momento per momento, fino al consummatum est”».

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AVVENIRE Pag 19 “Sia fatta la tua volontà” è il nostro fidarci di Dio L’udienza del Papa Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Proseguendo le nostre catechesi sul “Padre nostro”, oggi ci soffermiamo sulla terza invocazione: «Sia fatta la tua volontà». Essa va letta in unità con le prime due – «sia santificato il tuo nome» e «venga il tuo Regno» – così che l’insieme formi un trittico: «sia santificato il tuo nome », «venga il tuo Regno», «sia fatta la tua volontà». Oggi parleremo della terza. Prima della cura del mondo da parte dell’uomo, vi è la cura instancabile che Dio usa nei confronti dell’uomo e del mondo. Tutto il Vangelo riflette questa inversione di prospettiva. Il peccatore Zaccheo sale su un albero perché vuole vedere Gesù, ma non sa che, molto prima, Dio si era messo in cerca di lui. Gesù, quando arriva, gli dice: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». E alla fine dichiara: «Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,5.10). Ecco la volontà di Dio, quella che noi preghiamo che sia fatta. Qual è la volontà di Dio incarnata in Gesù?: Cercare e salvare quello che è perduto. E noi, nella preghiera, chiediamo che la ricerca di Dio vada a buon fine, che il suo disegno universale di salvezza si compia, primo, in ognuno di noi e poi in tutto il mondo. Avete pensato che cosa significa che Dio sia alla ricerca di me? Ognuno di noi può dire: “Ma, Dio mi cerca?” - “Sì! Cerca te! Cerca me”: cerca ognuno, personalmente. Ma è grande Dio! Quanto amore c’è dietro tutto questo. Dio non è ambiguo, non si nasconde dietro ad enigmi, non ha pianificato l’avvenire del mondo in maniera indecifrabile. No, Lui è chiaro. Se non comprendiamo questo, rischiamo di non capire il senso della terza espressione del “Padre nostro”. Infatti, la Bibbia è piena di espressioni che ci raccontano la volontà positiva di Dio nei confronti del mondo. E nel Catechismo della Chiesa Cattolica troviamo una raccolta di citazioni che testimoniano questa fedele e paziente volontà divina (cfr nn. 2821-2827). E San Paolo, nella Prima Lettera a Timoteo, scrive: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità » (2,4). Questa, senza ombra di dubbio, è la volontà di Dio: la salvezza dell’uomo, degli uomini, di ognuno di noi. Dio con il suo amore bussa alla porta del nostro cuore. Perché? Per attirarci; per attirarci a Lui e portarci avanti nel cammino della salvezza. Dio è vicino ad ognuno di noi con il suo amore, per portarci per mano alla salvezza. Quanto amore c’è dietro di questo! Quindi, pregando “sia fatta la tua volontà”, non siamo invitati a piegare servilmente la testa, come se fossimo schiavi. No! Dio ci vuole liberi; è l’amore di Lui che ci libera. Il “Padre nostro”, infatti, è la preghiera dei figli, non degli schiavi; ma dei figli che conoscono il cuore del loro padre e sono certi del suo disegno di amore. Guai a noi se, pronunciando queste parole, alzassimo le spalle in segno di resa davanti a un destino che ci ripugna e che non riusciamo a cambiare. Al contrario, è una preghiera piena di ardente fiducia in Dio che vuole per noi il bene, la vita, la salvezza. Una preghiera coraggiosa, anche combattiva, perché nel mondo ci sono tante, troppe realtà che non sono secondo il piano di Dio. Tutti le conosciamo. Parafrasando il profeta Isaia, potremmo dire: “Qui, Padre, c’è la guerra, la prevaricazione, lo sfruttamento; ma sappiamo che Tu vuoi il nostro bene, perciò ti supplichiamo: sia fatta la tua volontà! Signore, sovverti i piani del mondo, trasforma le spade in aratri e le lance in falci; che nessuno si eserciti più nell’arte della guerra!” (cfr 2,4). Dio vuole la pace. Il “Padre nostro” è una preghiera che accende in noi lo stesso amore di Gesù per la volontà del Padre, una fiamma che spinge a trasformare il mondo con l’amore. Il cristiano non crede in un “fato” ineluttabile. Non c’è nulla di aleatorio nella fede dei cristiani: c’è invece una salvezza che attende di manifestarsi nella vita di ogni uomo e donna e di compiersi nell’eternità. Se preghiamo è perché crediamo che Dio può e vuole trasformare la realtà vincendo il male con il bene. A questo Dio ha senso obbedire e abbandonarsi anche nell’ora della prova più dura. Così è stato per Gesù nel giardino del Getsemani, quando ha sperimentato l’angoscia e ha pregato: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42). Gesù è schiacciato dal male del mondo, ma si abbandona fiducioso all’oceano dell’amore della volontà del Padre. Anche i martiri, nella loro prova, non ricercavano la morte, ricercavano il dopo morte, la risurrezione. Dio, per amore, può portarci a camminare su sentieri difficili, a sperimentare ferite e spine dolorose, ma non ci abbandonerà mai. Sempre sarà con noi, accanto a noi, dentro di noi. Per un credente

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questa, più che una speranza, è una certezza. Dio è con me. La stessa che ritroviamo in quella parabola del Vangelo di Luca dedicata alla necessità di pregare sempre. Dice Gesù: «Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente» (18,78). Così è il Signore, così ci ama, così ci vuole bene. Ma, io ho voglia di invitarvi, adesso, tutti insieme a pregare il Padre Nostro. E coloro di voi che non sanno l’italiano, lo preghino nella lingua propria. Preghiamo insieme. (segue la recita del Padre Nostro) Nel discorso in lingua italiana, continuando il ciclo di catechesi sul “Padre Nostro”, il Papa ha incentrato la sua meditazione su “Sia fatta la tua volontà” (Brano biblico: Dalla Prima Lettera di San Paolo Apostolo a Timoteo, 2, 1-4). Pag 23 “Se non ha l’amore è giustizia ingiusta” di Vincenzo Paglia Raffaele Cantone e Vincenzo Paglia sono gli autori, in collaborazione con Emanuele Coen, del libro La coscienza e la legge edito da Laterza e in uscita oggi nelle librerie (pagine 184, euro 16,00). Qui sopra anticipiamo ampi stralci dell’epilogo firmato dall’arcivescovo Paglia sul tema 'Giustizia e misericordia'. Il libro affronta questioni di grande attualità come punizione e perdono, migranti e accoglienza, giustizia e mafie. «Per fortuna, Dio è più misericordioso che giusto». Così mi disse il cardinale Pietro Parente, teologo della scuola romana del Novecento, sul letto di morte dopo avermi indicato i numerosi libri di teologia che aveva scritto. Con quell’affermazione voleva lasciarmi il testamento riassuntivo dell’intera sua produzione teologica. Non so se avesse in mente anche il passaggio della Lettera di Giacomo ove si afferma, appunto, che «la misericordia ha sempre la meglio nel giudizio» (2,13). Ma certo pensava anche alla nota beatitudine evangelica: «Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia» (Matteo 5,7). Giustizia e misericordia (ma anche amore, compassione, bontà) sono due realtà inseparabili. Il loro rapporto è virtuoso e ineliminabile. Non vanno poste su piani separati, per cui la giustizia costituirebbe una prospettiva tutta umana del discorso antropologico, mentre l’amore andrebbe oltre, in quanto basato sulla gratuita benevolenza e sulla interiore affettività, che appaiono sublimi, ma anche facoltative, quindi non necessariamente richieste dal fatto di essere uomini. Concependo poi la giustizia come qualcosa di limitato alla norma coercitiva e funzionale della legge, si tende ad attribuirla normalmente all’Antico Testamento (At), che viene in questo superato dal Nuovo Testamento (Nt), a cui apparterrebbe invece, come caratteristica peculiare, la dimensione dell’amore. Fin dall’inizio l’amore implica una radicale esigenza di giustizia, che corrisponde al bene dell’altro e alla dignità della relazione. D’altro canto la giustizia raggiunge la sua pienezza solo là dove c’è benevolenza e comprensione del diritto della persona umana a essere sempre pensata con amore per la sua umanità condivisa e per la sua dignità personale. Esiste una giustizia dei rapporti affettivi, che non si lascia misurare dagli adempimenti della norma legale, così come esiste un’affezione per la persona umana che non si muove pregiudizialmente in deroga ai vincoli morali del giusto. Un amore ingiusto e una giustizia anaffettiva sono ugualmente dannosi. E allora, rientrano in campo tutte le necessarie distinzioni fra il livello personale, legale, istituzionale, politico, sociale dell’amore e della giustizia. Il cristianesimo non per caso ha inteso l’amore di Dio come verità suprema della sua giustizia: e del giudizio nel quale l’uomo può essere giustificato, là dove egli accoglie la grazia di una giustizia di Dio e di un amore del prossimo che formano un unico principio. Sulla giustizia di questo amore saremo giudicati. E sull’amore di questa giustizia veniamo chiamati a investire la nostra fede. Poiché ogni uomo è immagine visibile di Dio invisibile e fratello di Cristo, il cristiano trova in lui Dio stesso e quindi deve accogliere l’assoluta esigenza di giustizia e di amore che è propria di Dio. E in tal modo l’amore impedisce alla giustizia di divenire solo materiale e di funzionare in modo dispotico. Il supremo e universale comandamento dell’amore del prossimo la mette al riparo dalla sua riduzione alla conformità della norma legale, aprendola al giudizio concreto della qualità morale. La giustizia fornisce, dal canto proprio, all’amore un carattere realistico,

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evitando di ridurlo a un sentimento extramorale: l’amore del prossimo è un comandamento, appunto, che determina la qualità morale dell’ingiunzione e dell’obbedienza in cui siamo posti dal volerbene. L’appello alla giustizia non ci esonera dal voler bene, e quest’ultimo non ci esonera dalla giustizia. Nella nostra sensibilità odierna, la pietà genera diffidenza in quanto designa un sentimento di secondo ordine rispetto all’amore stesso. Amare qualcuno per compassione è come non amarlo veramente: addirittura, può assumere i connotati del disprezzo, della commiserazione. D’altra parte, se è normale associare compassione e carità cristiana non lo è affatto associare compassione e giustizia umana. Tutti siamo consapevoli dell’eventualità che la pratica della giustizia, separata da ogni tratto di umana sensibilità, possa assumere i tratti morali dell’ingiustizia vera e propria. È un’esperienza quotidiana. Eppure, continuiamo a praticare un linguaggio che rende impossibile sciogliere questa contraddizione, per assicurare un regime virtuoso e dignitoso alla correlazione della giustizia e della compassione. Nella cultura contemporanea il pericolo più temibile è proprio la diffusione politicamente corretta dell’indifferenza per la componente affettiva della giustizia sociale, che include la benevolenza, la compassione, la sensibilità per la giustizia umana anche là dove i limiti della giustizia legale non la impongono: e una superficiale cultura individualistica delle emozioni e degli affetti rende arbitraria e selettiva la commozione per l’umanità avvilita e ferita. Papa Francesco ha stigmatizzato questa «indifferenza legalizzata» come uno dei peccati più terribili di oggi. Essa corrode e insidia anche gli affetti più sacri e più cari che appartengono al patrimonio collettivo di una civiltà veramente umana. Ad esempio, è anche giusto affermare che «il lavoro è dignità, non carità», ossia che non si deve dare come benevola concessione ciò che corrisponde a un obbligo di giustizia. Ma questa affermazione deve essere compresa in modo che la sua forza non rimuova la persuasione che per rendere possibile quella dignità è necessario che si mettano in moto passioni politiche corrispondenti all’amore per quella giustizia: senza quella determinazione, che è una vera e propria forma di amore del prossimo, saremo sempre fermati da “ragionevoli richiami” alla mancanza di risorse economiche, alla congiuntura politica difficile, che lasceranno quella dignità nella sua giustizia ideale e nella sua concreta impraticabilità. Dobbiamo chiederci: come è accaduto che la virtù della misericordia (legata alla grandezza d’animo) sia diventata il sentimento di una compassione che produce avvilimento (e indica piccineria dell’animo), coinvolgendo in questo svilimento anche la carità cristiana? Un destino analogo ha colpito anche la parola “bontà”, oggi praticamente impronunciabile. Anzi il “sentirsi buoni” viene condannato come un vizio. Fino allo scherno intollerabile nei confronti di volontari e volontarie ritenuti «irresponsabili» ed «esibizionisti » e che vanno in Africa per «farsi rapire», oppure alle accuse indiscriminate e pregiudiziali di traffici speculativi contro chi cerca di salvare vite in pericolo nel mare. E che dire dello scandalo “buonista” che sarebbe quello – senza fondamento reale – di pensare agli stranieri e di trascurare gli italiani? E si giunge persino a processare coloro che, proprio per uscire dalla deregulation e dal dilettantismo, aiutano i rifugiati con forme di integrazione civile condivise e funzionanti! La politica umanistica non si fa semplicemente con l’estemporaneo sentimento della compassione umanitaria, certo. Però, nemmeno con la legge che decide deliberatamente di ignorarla e di sanzionarla: se non circola la sussidiarietà della compassione fra gli uomini – la misericordia, appunto – la società si sfalda, la giustizia si ritrae. E non ci sono regole che possano tenerle insieme. Già i nostri antichi avvertivano il pericolo con il noto adagio: summum ius, summa iniuria. Ci sono talora modalità di applicazione della legge che producono una profonda ingiustizia. Aristotele caratterizza l’amicizia (il fatto e l’atto di “voler bene”) che costituisce la base e l’idealità del legame sociale (la philia, come forma relazionale idonea alla forma civile della polis), anzitutto come un gioire dell’essere dell’amico, rallegrarsi che egli sia, semplicemente. Nel contesto dell’etica civile, però, Aristotele non lega la compassione all’amicizia. La philia (vedi Etica a Eudemo) non è sentimento capace di rivolgersi a ogni individuo sofferente. Essere amico di molte persone è reso impossibile dallo stesso amore: non si può andare in soccorso di troppi. E poi, non c’è philia con “i barbari”. Insomma la compassione si esercita all’interno della cittadinanza. Cicerone, da parte sua, si rende conto della forza della compassione che chiama col termine humanitas. È il cristianesimo che allarga la compassione in una prospettiva universale che si estende a tutti gli umani, proprio in quanto umani. Nessuno ne è escluso. In questa prospettiva

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umanistica, abitata dal fermento dello spirito cristiano, il problema della misericordia – come virtù personale che deve sostenere, e non contraddire, le ragioni della giustizia civile – viene a collocarsi all’interno della più generale dialettica fra amore di sé e amore dell’altro. E quindi anche del rapporto fra giustizia e carità. Mi piace citare un passaggio di Giacomo Leopardi dal Trattato delle passioni: «Se tu vedi un fanciullo, una donna, un vecchio affaticarsi impotentemente per qualche operazione in cui la loro debolezza impedisca loro di riuscire, è impossibile che tu non ti muova a compassione, e non procuri, potendo, di aiutarli». Il più accanito oppositore della compassione come valore anche civile è Nietzsche. La vede come la massima mortificazione della tendenza naturale dello spirito umano all’esaltazione della vita e all’accrescimento della sua potenza: «Guardatevi dalla pietà: è proprio lei che finirà per addensare la tempesta sull’uomo!» (Così parlò Zarathustra, libro II). L’ammonimento di Nietzsche ha inaugurato una nuova fase di disprezzo della compassione come debolezza pericolosa per la società e forma di avvilimento per l’individuo. E Nietzsche ritorna in forze: «In sé, offendere, far violenza, sfruttare, annientare non può naturalmente essere nulla di ‘illegittimo’, in quanto la vita si adempie essenzialmente... offendendo, facendo violenza, sfruttando, annientando, e non può essere affatto pensata senza questo carattere» (F. Nietzsche, Genealogia della morale). Di fronte a questa inclinazione nichilista che distrugge anche la giustizia, dobbiamo tornare alla misericordia per salvare ambedue. Sono di interesse alcune riflessioni di Pierangelo Sequeri in questa prospettiva. Egli mostra come nella misericordia che attinge alle radici bibliche della oikonomia divina vi sia contenuta una sapienza fine: quella che lega intimamente l’amore e la giustizia alla condizione fallibile e vulnerabile dell’uomo. La misericordia è certo istruita dalla condizione umana: ma la sua verità, immensa, vive nell’intimità misteriosa e segreta di Dio. Dio è più grande della legge, è più grande del nostro cuore. La misericordia attinge al mistero di Dio (il solo che possa dirsi «buono», Matteo 19,17) il punto di Archimede, che consente di portare l’amore e la giustizia alla verità della loro suprema conciliazione. Non perché siamo all’altezza della giustizia richiesta dall’amore, ma perché siamo amati da Dio «quando ancora eravamo suoi nemici, e peccatori», ci ricorda l’apostolo Paolo. La misericordia implica la condivisione dell’umano comune e della sua vulnerabilità. Senza questa condivisione, la giustizia stessa si perverte. Ma senza ricerca della giustizia, ogni amore si svuota, miserabilmente. Il compimento della giustizia e dell’amore non è alla nostra portata, ma la circolazione della misericordia lo è. Essa deve incessantemente circolare, a dispetto di tutte le contraddizioni patite dalla giustizia e dall’amore nella storia. LA REPUBBLICA Pag 17 Dal Papa porte aperte per Xi Jinping. “Ma è ancora presto per un incontro” di Paolo Rodari Città del Vaticano. «Al momento non è previsto nessun incontro, ma le porte della Santa Sede per Xi Jinping si possono aprire in qualsiasi momento». In Vaticano fanno sapere che, a meno di improbabili cambiamenti di programma dell'ultima ora, Francesco e il presidente cinese Xi Jinping, a Roma e a Palermo fino a domenica per incontrare il presidente Mattarella e firmare il Memorandum sulla via della Seta, non avranno un loro colloquio. Anche se fino all'ultimo si è sperato e ancora si continua a farlo. La Santa Sede, infatti, si è detta in via informale disponibile. Tuttavia, da parte cinese, si ritiene che i tempi non siano ancora maturi. Nell'establishment pechinese, del resto, un po' come anche avviene all'interno della Chiesa cattolica, non tutti approvano l'Accordo Cina-Vaticano sulla nomina dei vescovi. Di qui la prudenza. Secondo fonti interne, fra l'altro, il Papa avrebbe addirittura dato il suo benestare a un incontro fuori dalle mura vaticane, lontano dal palazzo apostolico, ma sembra sia una strada ancora impraticabile. Certo, la linea inaugurata da Benedetto XVI con la lettera ai cattolici cinesi del 2007, e continuata con forza da Francesco, è a tutt'oggi agli atti. A maggio, per la prima volta nella storia, il Vaticano aprirà con il cardinale Gianfranco Ravasi, capo della cultura d'Oltretevere, un padiglione della Santa Sede all' Expo di Pechino. Una concessione notevole, da parte cinese, che mostra come all'interno del governo alle posizioni di chiusura se ne affiancano altre più aperte e positive. Vaticano e Santa Sede non hanno rapporti bilaterali, ma sotto traccia i contatti sono avviati anche sfruttando i canali

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culturali, in particolare quelli già da tempo percorsi con i musei vaticani e lo scambio reciproco di opere d'arte. Nelle scorse ore anche il ministero degli Esteri di Pechino ha gettato acqua sul fuoco circa la possibilità di un incontro. «Non sono stato informato», ha detto in conferenza stampa il viceministro Geng Shuang. E ancora: «La parte cinese è sempre stata sincera nel migliorare le relazioni sino-vaticane e non si è mai risparmiata in questo senso». Shuang ha ricordato la firma dell' Accordo e la volontà di «continuare in questa direzione». È probabile che nel giro di qualche anno le due parti riescano a trovare un ulteriore punto d'incontro per un primo e storico viaggio del Papa in Cina. Che sia possibile lo testimonia anche la cura che ha messo il Giappone nel portare a casa il "sì" del Vaticano per un viaggio del Papa nel suo Paese prima della fine del 2019. Il timore era che Francesco atterrasse prima a Pechino che a Tokyo, uno smacco non secondario che il premier Shinzo Abe ha voluto scongiurare. IL FOGLIO Pag III Croce e drago di mat.mat. I due punti fermi nel negoziato per portare Xi dal Papa. Parolin: “Per incontrarsi bisogna essere in due” Ci sarà o non ci sarà l'incontro tra il presidente cinese Xi Jinping e il Papa? Per giorni si è letto di insistenti tentativi del Vaticano per portare il leader asiatico al cospetto di Francesco, facendogli sapere che non si sarebbe trattato di un incontro ufficiale - una visita di stato - ma di una semplice udienza privata. Il tutto serviva a mo' di rassicurazione: nessuna volontà di segnalare con trombe e ottoni la storica stretta di mano, men che meno il desiderio di mettere la bandierina sull'ennesimo successo diplomatico del pontificato bergogliano. Sarà andata davvero così? Due le certezze. La prima arriva dal versante romano: la Santa Sede è disposta a favorire l'incontro - come con tutti, basta chiedere e le porte vengono aperte - il Papa ha l'agenda quasi vuota e comunque una mezz'ora la si trova. La seconda è relativa al fatto che a tentennare è Pechino e in particolare quei settori del Politburo che hanno mandato giù a fatica (gran fatica) l'Accordo provvisorio siglato con la Santa Sede lo scorso settembre. Sono loro a non gradire un' eccessiva esposizione di Xi sul fronte "religioso". Il cardinale Pietro Parolin, che di Cina ne sa come pochi, ha confermato implicitamente lo stato delle cose, affermando che per incontrarsi bisogna essere in due. Si vedrà, con Francesco tutto è sempre possibile, si era parlato di un possibile breve incontro fuori dal Vaticano, anche se non sembra che l'apparato di sicurezza sia stato allerta to in tal senso. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Dai benefit per i figli ai servizi, così l’Italia penalizza la famiglia di Massimo Calvi Perché è venuto il momento di intervenire in modo deciso a favore della natalità «Durante la guerra gli italiani stavano peggio di adesso, eppure mettevano al mondo molti più bambini». Questa affermazione è usata spesso per spiegare che il numero di figli in una famiglia è dovuto più a ragioni culturali che materiali. E in gran parte questo è vero. Negli anni del secondo conflitto mondiale il numero medio di figli per donna in Italia è sempre stato superiore a 2,5, mentre oggi è a 1,3. I fattori storici, sociali, culturali, o anche spirituali, sono importanti nel determinante la dimensione delle famiglie. Tuttavia oggi le condizioni sono molto cambiate. Crescere un figlio richiede molte più risorse, non lo si può vestire di stracci o nutrire con una scodella di polenta al giorno, oppure mandarlo a mungere invece che a scuola. L’idea romantica di un’epoca fondata sull’amore autentico deve poi fare i conti col fatto che i figli in passato erano anche braccia per il lavoro e un’assicurazione sul futuro dei genitori. È per questo che con lo sviluppo, l’avvento della società moderna e l’emergere di un mondo più complesso, gli Stati hanno incominciato a porsi il problema di aiutare le famiglie a mantenere i figli. Se si osserva il contesto europeo dei sostegni, due cose emergono con

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evidenza: l’Italia è uno dei Paesi col tasso di fecondità più basso e al contempo è tra quelli che destinano meno risorse per 'Famiglia e figli'. A questa voce, secondo gli ultimi dati Eurostat, è andato il 3,2% della spesa pubblica italiana del 2017, contro il 3,6 della media Ue. La Germania ha speso il 3,7, la Francia il 4,2, la Svezia il 5, la Danimarca l’8,6. La Spagna ha fatto peggio con l’1,7. L’Italia è invece ai primi posti quanto a uscite per la previdenza: alle pensioni è stato destinato il 32,8% della spesa pubblica, contro il 26,4 della Francia, il 25,5 della Germania, il 21,4 della Svezia, il 16,1 della Danimarca. Le due voci non sono in contrapposizione, e non è giusto alimentare un conflitto generazionale, il problema è che una spesa così sbilanciata tra natalità e previdenza, col tempo finisce per avere un effetto sulla composizione demografica del Paese. Ma in che modo gli Stati impiegano le loro risorse a favore delle coppie con figli? E in che cosa l’Italia può recuperare terreno? Una politica per la famiglia si caratterizza in genere per tre tipi di sostegni: le erogazioni monetarie, come i bonus o gli assegni familiari; le agevolazione di carattere fiscale, ad esempio le detrazioni per i figli a carico; i servizi ai genitori o i benefit 'in natura', come gli asili nido e i congedi parentali. Nei Paesi del Nord Europa si tende a puntare soprattutto su erogazioni monetarie e servizi. In Svezia, ad esempio, oltre agli as- segni familiari universali molti servizi per i bambini sono di fatto gratuiti, mensa scolastica compresa, e i genitori possono beneficiare di congedi pagati per ben 480 giorni. Chi guarda con simpatia a questo modello deve però considerare che il prelievo fiscale nei Paesi scandinavi è molto alto e l’evasione e il sommerso ridotti ai minimi: un sistema agli antipodi rispetto all’esperienza italiana (e all’orientamento degli elettori). Nel resto del Continente, dalla Francia alla Germania alla Spagna, si tende ad avere un mix più equilibrato tra 'cash', sconti fiscali e servizi. L’Italia segue questo modello, distinguendosi tuttavia per un livello di spesa non elevato, pur se cresciuto negli ultimi anni. La caratteristica della spesa sociale per i figli più bassa della media è un dato comune tra i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, come la Spagna, la Grecia e il Portogallo, dove anche i tassi di fecondità sono non a caso inferiori. L’impressione è che dove la famiglia ha goduto di una carica valoriale molto forte, i governi non hanno avuto la preoccupazione di rafforzarla anche economicamente. Sbagliando. Ma come può migliorare il modello italiano di sostegni? Se l’idea è di mantenere una proporzione equilibrata tra assegni, fisco e servizi, il primo passo è sicuramente un aumento deciso delle risorse complessive. E la prima leva sulla quale si può intervenire è quella dei benefit monetari. Un’altra differenza marcata rispetto ai Paesi guida nelle politiche per i figli, infatti, riguarda il sistema degli Assegni per il nucleo familiare. Se nel resto delle voci la spesa italiana è semplicemente più bassa, sul fronte degli assegni la differenza è sostanziale. Gli assegni in Italia sono pagati ai soli lavoratori dipendenti: non per discriminazione verso gli altri, ma perché le risorse (circa 6 miliardi) sono attinte da un fondo alimentato dai contributi dei lavoratori. Altrove, invece, gli assegni sono fissi e riconosciuti sulla base del numero dei figli a tutti i genitori residenti, che siano dipendenti, autonomi, disoccupati, incapienti, pensionati, stranieri... O sservando gli assegni familiari negli altri Paesi si nota poi che sono erogati a tutti con il medesimo importo e quasi mai con limiti di reddito (e quando il limite c’è è molto elevato). L’assegno infatti non è considerato una forma di contrasto alla povertà, verso la quale si interviene in altri modi, ma un intervento a beneficio dell’investimento sui figli, considerati un bene pubblico. In Francia spettano circa 130 euro al mese con il secondo figlio, in Germania circa 200 euro al mese per ogni figlio, in Gran Bretagna 100 euro il primo figlio e 60 i successivi, in Svezia 100 euro a figlio più bonus alle famiglie numerose, in Olanda pure 100 euro a figlio... La caratteristica degli assegni italiani, invece, è che si parte da 137 euro per il primo figlio, un importo non basso nel confronto internazionale, ma dai 14.000 euro lordi di reddito familiare il benefit decresce rapidamente fino a diventare irrilevante presto: con 30mila euro di reddito familiare lordo, cioè due stipendi da circa 1.000 euro al mese, due figli si 'meritano' circa 50 euro a testa al mese. L e minori risorse che il nostro Paese destina ai figli producono alcune distorsioni: nelle famiglie con redditi bassi l’aumento del numero dei figli spinge le famiglie verso le soglie di povertà assoluta o relativa; nei nuclei con redditi più alti, invece, rispetto agli altri Paesi l’aumento del numero dei figli impatta in modo molto più netto sul reddito disponibile. L’Italia, si può dire, è un Paese che disincentiva la natalità. Per questo è venuto il momento di intervenire. Introdurre un assegno unico per tutti può essere il primo passo significativo di una politica più ampia a favore delle famiglie e delle

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giovani coppie, così da non lasciare che le difficoltà economiche soffochino il desiderio di essere genitori. L’Italia è un Paese in emergenza demografica, la natalità dovrebbe essere al primo posto nelle agende di ogni partito, la politica non può più continuare a chiudere gli occhi. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Da casa per anziani soli a nuovo ostello. Il pensionato delle suore cambia volto di Marta Gasparon Venezia. Il pensionato per signore anziane situato al civico 2409/B del sestiere di San Marco, in Via XXII Marzo - l'importante calle sulla direttrice tra Piazza San Marco e Accademia dove si affacciano le più lussuose boutiques della città - ha chiuso i battenti. In realtà li aveva già chiusi da due anni in quanto in restauro dopo che le ultime sette ospiti della struttura erano decedute. Le anziane della zona avrebbero poi scelto di rimanere a casa, preferendo il sostegno di una badante, destinando così il luogo alla conclusione del suo operato. Fino a quel momento la pensione è stata gestita dalle suore Elisabettine Bigie alla cui Congregazione appartiene la proprietà. La storia dell'edificio è curiosa in quanto sarebbe entrata a far parte delle proprietà dell'Ordine francescano attraverso un lascito testamentario nel quale la donatrice avrebbe espresso la volontà che la struttura avesse la destinazione di un'accoglienza amorevole e cristiana per anziane sole. Almeno questo è quanto traspare da un post lanciato ieri su Facebook, da un'utente iscritta al portale, che ha il sapore di una vera e propria provocazione. In esso, infatti, si chiedono delucidazioni riguardo il futuro utilizzo dell'edificio, prospettando per esso l'apertura di un'ulteriore struttura ricettiva in città. Pare infatti che la casa verrà riaperta in tali nuove vesti. Anzi, in Internet sembra che figuri già come hotel. Interpellato a riguardo il parroco di San Moisè, don Roberto Donadoni, afferma tuttavia di non sapere nulla sulla questione e che è previsto, per i primi giorni della prossima settimana, un incontro con la madre generale dell'Ordine. Sarà lei, a quel punto, a fornire i dettagli di tutta l'operazione: dalla storia del lascito testamentario, all'impiego futuro dell'immobile. Per certo il parroco sa che le religiose che gestivano la casa saranno ora impegnate a totale disposizione della parrocchia. E proprio loro sono state presentate qualche sera fa alla comunità. Anche dalla sede di Padova la Casa Madre le Suore Francescane Elisabettine sostengono di non sapere nulla sulla vicenda, invitando ad attendere il chiarimento della prossima settimana. Pag IX Scontri e accuse a San Salvador, a processo la sorella di don D’Antiga Venezia. Altri due processi penali, di fronte al giudice di pace di Venezia, nell'ambito dell'aspro contenzioso che vede opporsi da un lato alcuni fedeli sostenitori di don Massimiliano D'Antiga, dall'altro Alessandro Tamborini, parrocchiano e nemico giurato dello stesso ex sacerdote di San Salvador e San Zulian, di cui ha più volte chiesto la rimozione, con l'accusa di gestire in maniera personale la parrocchia e i suoi conti. La prima udienza, ieri mattina ha visto sul banco degli imputati la sorella del sacerdote, Emanuela D'Antiga, 43 anni, accusata di diffamazione ai danni dell'imprenditore di Treporti, Gabriele Bisetto, vicino a Tamborini, il quale si è costituito parte civile al processo con l'avvocatessa Sarah Franchini e ieri è stato ascoltato dal giudice. All'imputata viene contestato di aver diffamato Bisetto, sostenendo che l'imprenditore aveva cercato di investirla con l'auto, il 6 giugno del 2017. Nel corso della prossima udienza, fissata per il mese di ottobre, sarà ascoltato uno dei carabinieri che ha svolto le indagini sull'episodio. «SATANA È TRA NOI» - Il secondo processo in programma in mattinata è stato invece rinviato al 20 novembre. Sotto accusa, assieme a Emanuela D'Antiga figurano altri due fedeli di San Salvador, tutti accusati di aver aggredito e provocato lesioni a Tamborini, spinto e fatto cadere a terra per impedirgli di entrare in chiesa urlando: «Satana è tra noi». Tamborini, parte civile con l'avvocatessa Franchini, sarà ascoltato nel corso della

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prossima udienza, in attesa che venga archiviato, come chiesto dalla Procura, un fascicolo aperto a suo carico per turbamento di funzione religiosa. Pag XIII “Grave episodio di violenza ma situazione migliorata” di a.spe. La San Vincenzo: “Dall’estate scorsa mai un problema in mensa a Ca’ Letizia. Quel cubano era già stato allontanato” Mestre. «L'episodio di violenza è certamente grave, ma onestamente va detto che è il primo dopo diversi mesi di massima tranquillità, da quando la zona, all'ora della distribuzione della cena, è presidiata da una pattuglia della polizia locale». Stefano Bozzi, presidente della San Vincenzo che gestisce la mensa per i poveri di Ca' Letizia, interviene sulla lite degenerata in violento pestaggio che lunedì scorso ha visto protagonisti due senza fissa dimora: un cubano di 48 ano e un siciliano di 43, con il primo che sbattuto il secondo contro un'inferriata di via Querini procurandogli una ferita di 12 centimetri al volto. «Non è vero che siano usciti dalla mensa per mettersi le mani addosso spiega Bozzi, piuttosto stavano aspettano l'orario di apertura sotto i portici e quando la colluttazione è iniziata, i vigili stavano arrivando e hanno chiesto il rinforzo della polizia. Quelle due persone le conosciamo bene, il cubano è un soggetto violento, spesso provocatore e per questo per qualche tempo lo avevamo allontanato a scopo precauzionale. Solo negli ultimi giorni era stato riammesso». L'aggressione ha però rinfocolato le polemiche del gruppo dei residenti che da tempo chiedono lo spostamento di Ca' Letizia fuori dal centro abitato. «Che in passato ci siano state delle liti e delle tensioni non lo neghiamo, ma bisogna avere l'onestà intellettuale di ammettere che dalla scorsa estate, dunque per nove mesi e da quando c'è la polizia municipale a controllare, non ci sono stati problemi né dentro né fuori dalla mensa, replica Bozzi. Anzi, cogliamo questa occasione per ringraziare il sindaco Luigi Brugnaro e l'assessore alla Coesione sociale Simone Venturini per la collaborazione che ci stanno dando: il clima è sicuramente più disteso che in passato». In passato il primo cittadino aveva infatti ipotizzato lo spostamento della mensa in periferia di modo da allontanare i disagi provocati in strada da chi bivacca sotto i portici. All'epoca ad opporsi era stato il patriarca Francesco Moraglia, preoccupato che il trasferimento equivalesse a dimenticarsi dei poveri. La mensa è così rimasta al suo posto, con la pattuglia fissa nell'orario in cui viene consumata la cena per 110-120 coperti. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST AVVENIRE Pag 11 “Mafie anche in Veneto, Chiesa pronta ad agire” di Antonio Maria Mira Il vescovo di Padova Claudio Cipolla: contrastare ogni forma di illegalità partendo da uno stile di vita puro Si svolge oggi a Padova, come piazza principale, la XXIV Giornata nazionale della Memoria e dell’Impegno in ricordo di tutte le vittime innocenti delle mafie, promossa da Libera e da Avviso Pubblico. «Passaggio a Nord Est, orizzonti di giustizia sociale» è il tema dell’evento, che si terrà anche in altri quattromila luoghi in tutta Italia. L’appuntamento è alle 9 in Piazzale Boschetti per la partenza del corteo; l’arrivo al Prato della Valle è previsto per le 11. Seguirà la lettura degli oltre mille nomi delle vittime innocenti delle mafie e l’intervento del presidente di Libera don Luigi Ciotti. Dalle 14,30 alle 17, in otto sale, si terranno i seminari tematici. Oggi a Padova si svolgerà la XXIV Giornata della Memoria e dell’Impegno che ricorda di tutte le vittime innocenti delle mafie. Un appuntamento promosso da Libera e da don Luigi Ciotti e che ha avuto il convinto sostegno della diocesi perché, sottolinea il vescovo, monsignor Claudio Cipolla, «riguarda anche noi, anche il Veneto». Come riguarda il Veneto? Penso soprattutto alle vittime che non sono state riconosciute come vittime di mafia, a quelli che si sono tolti la vita, silenziosamente.

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Il drammatico fenomeno dei suicidi di tanti imprenditori, proprio nella vostra regione. Esatto. Ma penso anche a famiglie che sono state devastate da comportamenti frutto di illeciti, di illegalità, di ingiustizie. Quante sono le nostre case che hanno sofferto! Qualcuno è arrivato a gesti estremi, altri non hanno avuto nemmeno questa reazione e hanno accettato di ritirarsi nel silenzio. Cosa può fare la Chiesa per loro e più in generale per tutte le vittime? Vorrei offrire la spalla delle comunità cristiane e di ogni cristiano come luogo privilegiato a cui appoggiarsi per condividere questo dolore e le sue lacrime, dove non sentirsi soli e potersi unire gli uni agli altri per aprirsi alla speranza, come miracolo della fraternità. Non le frasi fatte recitate a memoria, ma il coraggio del silenzio, del contatto, dell’ascolto e dell’accoglienza di fronte al loro dolore. Per continuare a impegnarsi per un Paese che cammina in avanti, nella giustizia, nella pace. La Chiesa che presiedo da tempo ha scelto di camminare con gesti concreti con uno stile puro rispetto a ogni mafia e illegalità. Come sta affrontando la Chiesa padovana la 'scoperta' che la mafia c’è anche in Veneto? Non è veramente una scoperta. È una percezione che c’era già da tempo e che io stesso ho raccolto e verificato a partire dalla mafia del Brenta. Questo ci dice che c’è un tessuto che in qualche modo si riconosce in queste attività criminali. Così l’impegno per contrastare forme di malavita, come diocesi lo portiamo avanti contrastando ogni forma di illegalità a partire dal nostro stile di vita, favorendo il più possibile la trasparenza. Il nostro modo di operare nelle realtà ecclesiali è proprio dettato dal desiderio e dall’intenzione di rispettare tutte le normative soprattutto nel campo della contabilità e della gestione economica. Già da tre anni pubblichiamo il bilancio della diocesi affinché tutti possano vedere come utilizziamo i nostri soldi e quali sono i nostri soldi. È un cammino che abbiamo fatto consapevolmente sapendo di essere in questo anticipatori di uno stile che immaginiamo possa diventare di tutta la Chiesa. E verso l’esterno? Chiediamo a tutti noi di essere più attenti a tutte quelle forme non facilmente visibili e non facilmente individuabili per contrastare le mafie. Già da tempo alcuni nostri sacerdoti sono impegnati espressamente in Libera. Un impegno che abbiamo approvato e favorito. Riconoscere la presenza delle mafie è anche riconoscere delle debolezze che aiutano, che favoriscono l’infiltrazione. Più un fatto culturale, di educazione, che solo giudiziario. È un lavoro culturale che ha bisogno di un supporto da parte delle famiglie e delle agenzie educative di base, e credo che sia quello principale. Dobbiamo assolutamente insistere. Forse abbiamo perso un po’ il contatto capillare con tutte queste realtà che sono in grado di educare ad una valorizzazione nuova e più significativa della legalità, proprio come stili di vita. Legalità strettamente legata alla giustizia che non è solo la giustizia dei tribunali. È sentirsi parte di una collettività della quale ciascuno si sente responsabile e alla quale ciascuno deve dare il proprio contributo. Legalità che è dunque parte di una società complessa e di una collettività che ha bisogno dell’apporto di ciascuno perché solo l’apporto di ciascuno crea la giustizia. Quindi la Giornata della memoria è anche un momento di riflessione su se stessi, sulla propria comunità? Certamente. Io la vivo per dire che noi come Chiesa siamo dalla parte di coloro che hanno sofferto e sono vittime di queste forme mafiose, siamo dalla parte della legalità e vogliamo legalità e giustizia per la quale noi ci sentiamo debitori. Anche noi dobbiamo dare tutto quello che è possibile, a partire dal nostro stile di vita ecclesiale. LA NUOVA Pag 2 Vi aspetto numerosi, tutti uniti con la forza dell’etica di Luigi Ciotti Ciao Padova, ciao Veneto! "Ciao" è una parola che pronunciamo spesso distrattamente, senza coglierne il senso profondo. Ci si dice "ciao" quando ci si vede, ma anche quando ci si saluta: "ciao" è la premessa di un incontro che si rinnova, il piccolo motore di un riconoscersi che può diventare, via via, conoscenza, relazione, amicizia, collaborazione e condivisione. Questo è accaduto per Libera con tante realtà del Nordest, del Triveneto, questo sono certo accadrà con Padova, una città che già sento un po' "mia" e non solo per le mie origini venete ma perché a Padova - dove nel lungo, intenso, percorso che

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prepara il 21 marzo, che ne spiega il senso perché non sia solo un "evento", una giornata fuori dall'ordinario, ma la premessa di un impegno ordinario, quotidiano - in questo percorso, dicevo, abbiamo incontrato realtà generose, attente, animate da un ideale di cittadinanza attiva, cittadini cioè che si mettono in gioco, consapevoli che il bene del singolo non è mai separato o, peggio, contrapposto al bene comune. E poi, lasciatemi aggiungere, abbiamo incontrato una gioventù meravigliosa, inquieta e propositiva, abbiamo trovato un'informazione attenta, rigorosa, capace di scavare, di non fermarsi alle apparenze e al clamore. E come non ricordare le parrocchie e le chiese che a Padova, come in tutto il Triveneto, ci hanno accolto, accompagnato, incoraggiato, secondo il principio, tanto caro a Papa Francesco, della "Chiesa in uscita", impegnata non solo a predicare ma a vivere il Vangelo, contribuendo alla giustizia e all'umanità di questo mondo. Badate, amici, è proprio questo che temono le mafie. Se le mafie, nonostante lo sforzo straordinario di magistrati e forze di Polizia, hanno penetrato con effetti devastanti il tessuto sociale e economico del nostro Paese - nessuna Regione ne è immune - è anche perché hanno trovato un Paese frantumato, diviso da interessi contrapposti, non più capace di costruire, promuovere, difendere il bene comune come ci chiede di fare la Costituzione, la nostra legge fondamentale. Un Paese dove le disuguaglianze hanno toccato picchi spaventosi con eguale, conseguente aumento di disoccupazione e povertà. Un Paese, infine, dove l'etica pubblica e privata sono diventate merci sempre più rare, fragili argini al dilagare della corruzione e di quelle "aree grigie" dove non c'è più confine tra legale e illegale e dove il corrotto e il mafioso si danno la mano e progettano affari. Perché questo è il punto davvero dolente e delicato, amici veneti: da un lato la capacità delle mafie di presentarsi - camaleonti lo sono da sempre - con un volto più rassicurante e metodi più diplomatici della minaccia e della pistola puntata, dall'altro la "mafiosizzazione" dei costumi e delle coscienze: per fare il gioco delle mafie non occorre infatti esserne complici attivi, basta corrompere e farsi corrompere, basta pensare solo ai propri interessi e, quando si è testimoni di un'ingiustizia o di un sopruso, adottare il metro del "vivi e lascia vivere". Basta, in altre parole, vivere come parassiti a scapito degli altri, nutrendosi delle loro vite e rubando il bene comune. Ecco, a Padova così come in tutto il Veneto ho incontrato tante persone che, al di là dei riferimenti culturali, spirituali, politici, il bene comune invece lo fanno, lo diffondono, lo difendono. Persone che rappresentano non solo la speranza e il futuro della vostra terra, ma anche quelli del nostro Paese.Per questo il mio "ciao" vuole essere, più che mai, un grazie e un arrivederci. Vi aspetto numerosi. CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Fontana, il Congresso e il Vaticano: “Ho dato il patrocinio perché nel 2018 partecipò anche il cardinale Parolin” di Antonio Spadaccino Verona Il contestato XIII Congresso mondiale delle Famiglie, in programma a Verona dal 29 al 31 marzo, approda in parlamento. Teatro della contesa l’aula di Montecitorio, dove va in scena il «Question Time» con il ministro alla Famiglia, il leghista Lorenzo Fontana, nei panni di prim’attore. La trama della pièce è il «giallo» sul patrocinio del governo. A incalzare Fontana ci pensa per prima Alessia Rotta, deputata veronese del Pd: «Ministro, c’è o non c’è questo patrocinio? E soprattutto, si può concedere visto che l’evento di Verona presuppone anche il pagamento di un ticket per partecipare, situazione che cozza con l’ok a un patrocinio?». Fontana replica leggendo un testo: «Il Comitato organizzatore del Congresso - dice - ha presentato formale richiesta di patrocinio ai miei uffici nei mesi passati, inoltrando, come da prassi, tutti i documenti necessari. E nel novembre scorso è stato concesso il patrocinio. Sulla questione del pagamento di un ticket d’ingresso ci sono stati chiesti dei chiarimenti e noi abbiamo chiarito che la manifestazione non può assumere, nemmeno indirettamente, un fine lucrativo. E lo dimostra il fatto che il biglietto si paga solo limitatamente a una parte del Congresso, mentre altri diversi eventi sono gratuiti». Proprio spiegando i motivi per cui il ministero della Famiglia ha deciso di concedere il patrocinio, il ministro Fontana ha pure risposto - seppur in maniera non diretta - allo «smarcamento» del Vaticano che ieri, per bocca del Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, ha detto di «essere d’accordo solo nella sostanza del Congresso», ma di non condividerne «le modalità». «Nella concessione del patrocinio - ha spiegato il ministro - ci si è basati anche sul fatto che negli anni

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precedenti il Congresso è stato ospitato in diversi Paesi europei ed extra europei con il sostegno dei governi locali e con la partecipazione, nell’edizione dello scorso anno (a Chisinau, in Moldavia, ndr), di Sua Eminenza cardinal Pietro Parolin». Come dire... l’anno scorso gli andava bene e quest’anno si smarca? L’altro fronte è quello dei contrasti all’interno del governo, sempre sulla concessione del patrocinio al Congresso delle Famiglie. Il primo a «isolare» Fontana, parlando di «iniziativa personale del ministro», fu proprio il premier Giuseppe Conte. Da lì in poi, una ridda di critiche, sponda M5S, con il vicepremier Luigi Di Maio che ha dichiarato che «quella che andrà a Verona è la destra degli sfigati», e con i sottosegretari Stefano Buffagni e Vincenzo Spadafora che per settimane hanno parlato di richiesta di ritiro del patrocinio. Fontana li ha smentiti pubblicamente, con una dichiarazione sibillina: «Il mio ministero - le sue parole - non ha mai ricevuto richieste di ritiro del patrocinio di alcun tipo. nemmeno in forma privata, ma solo richieste di approfondimento istruttorio a cui abbiamo dato puntuali risposte per il tramite dei nostri uffici». Alla luce di quanto sostenuto dal ministro, le opposizioni si sono scatenate, parlando di «ipocrisia del governo». «Differenze e liti all’interno del governo hanno trovato mediazione su tutto, ma - sottolinea la deputata Pd Rotta - su un tema come questo non c’è confronto: vince la Lega». E contro i pentatellati si scaglia anche un’altra onorevole dem, Giuditta Pini, che se l’è presa con Buffagni e Spadafora, i più accaniti «nemici» del Congresso di Verona. «Stanno mentendo da due settimane, perché alla luce di quanto ha detto il ministro, il governo appoggia il Congresso». Fontana, infine, ha rimarcato con forza la sua partecipazione al Congresso, dicendosi nel contempo «rammaricato» per il fatto che «lo scontro ideologico possa toccare simili e inaccettabili livelli, ancor più su un tema che non dovrebbe essere divisivo come la tutela della famiglia». Il mondo delle associazioni contrario alla convention di Verona fa sapere intanto che stanno crescendo le adesioni: «Saremo in tanti - dice Francesca Chiavacci, presidente nazionale dell’Arci - al corteo del 30 marzo di Verona per dire no alle teorie discriminatorie che incitano all’odio». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Perché non doveva essere lì di Venanzio Postiglione Terrore sul bus a Milano I bimbi che urlano, alle porte di Milano. L’autista che è pronto a fare una strage. Il bus che prende fuoco e gli alunni tutti in salvo: per un soffio o forse per un miracolo, stavolta si può dire. La follia, il fanatismo, i cancelli dell’orrore a casa nostra: dopo averlo raccontato nelle strade di mezzo mondo. Le fiamme avvolgono una carcassa, come uno specchio di questo tempo, dove tutto è connesso e tutto rimbalza. A partire dalla violenza. E poi la parola, immaginata e allontanata per ore, alla fine pronunciata: terrorismo. Terrorismo. Non perché Ousseynou Sy sia affiliato all’Isis: ma perché ha creato il panico, ha annunciato il massacro e ha lanciato un messaggio (in qualche modo) «politico». Con la volontà di vendicare i migranti del Mediterraneo. Dai barconi di Lampedusa fino allo scuolabus in Lombardia. Senegalese di nascita, cittadino italiano, 46 anni. La retorica nazionale prevede già due filoni, subito, con i bambini che tremano ancora. Il primo porta dritto al sovranismo ideologico: immigrati, quindi cattivi, ma comunque sono troppi. Il secondo va dalla parte opposta: Matteo Salvini soffia sul fuoco e poi, ecco, una mente sconvolta quel fuoco lo accende sul serio. Le opposte demagogie. Ci sarebbe un’altra strada, in realtà, ma prevede un po’ di lavoro, un’analisi dei controlli e delle negligenze e (addirittura) una riflessione più equilibrata. L’autista ha minacciato e messo a rischio la vita di 51 bambini, con la benzina gettata nel bus e l’accendino pronto: un crimine orrendo. Che ha sconvolto tutti i genitori e i professori italiani. Ma si scopre che questa persona aveva alle spalle una condanna per abusi su un minore e anche una denuncia per guida in stato d’ebbrezza. E faceva l’autista di un bus con i bambini? Così, come fosse un mestiere qualsiasi? Tutto normale? Ma quanti conducenti hanno lo stesso curriculum? Quali controlli si fanno e ogni quanto tempo? Dire che «serve chiarezza» è fin troppo poco. Comincia un’attività importante per la Procura,

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certo. Ma anche per la politica che non viva sempre di propaganda istantanea. Le verifiche (vere) sugli autisti di camion, pullman, autobus che percorrono l’Italia sono un tema solo dopo gli incidenti. Per qualche ora o qualche giorno, se va bene. Come se non riguardasse le vite quotidiane nostre e dei nostri figli. È il passato dell’autista che andrà indagato. È l’iter dei controlli che andrà riavvolto per capire se e quando qualcosa non ha funzionato. A volte il presunto scontro di civiltà nasce più banalmente da una verifica non fatta o da una denuncia ignorata o da un dettaglio perduto. Ma il fuoco della strada Paullese racconta anche un altro mondo. Luminoso. Tre bambini si fanno coraggio tanto da riuscire a telefonare e a chiedere aiuto: due sono figli di immigrati (una famiglia marocchina e una egiziana), così la storia diventa ancora più paradossale e riesce a oltrepassare gli stereotipi. Arrivano i carabinieri e si rivelano bravissimi nelle condizioni più difficili. Bloccano e arrestano Ousseynou Sy dopo che aveva annunciato il massacro dei piccoli italiani a Linate in nome «di chi muore in mare per colpa di Di Maio e Salvini», come dicono i testimoni. Ma soprattutto fanno uscire dallo scuolabus e portano in salvo i 51 allievi della scuola media di Crema. I ragazzi che immaginano la cosa giusta meglio dei grandi, lo Stato che interviene immediatamente con le sue forze. Forze vicine, sul campo. Come da manuale della sicurezza. La Paullese è un pezzo di anima della regione. Taglia le campagne verso sud-est, unisce Mantova a Milano, si immerge tra le cascine e i campanili lombardi, accompagna migliaia di pendolari verso il lavoro e decine di gite in pullman, tutti i giorni. Da oggi è anche il simbolo della strage mancata, del giorno del terrore, degli alunni che scappano dalle fiamme e commuovono l’Italia. La vera angoscia è non lasciare ai bambini del bus un mondo migliore di quello che abbiamo trovato. Pag 1 La capacità dei 5 Stelle di adeguarsi al “sistema” di Fiorenza Sarzanini Lo sapeva Marcello De Vito che il suo incarico di presidente del consiglio comunale di Roma non sarebbe durato in eterno. E forse per questo voleva «capitalizzare» in fretta, chiedeva al suo socio di «distribuirsi» i guadagni incassati grazie al rapporto privilegiato con gli imprenditori che chiedevano aiuto per l’approvazione dei progetti. E in cambio erano disponibili a versare soldi o altre utilità pur di «ingraziarsi l’amico potente», come racconta il costruttore Luca Parnasi ai collaboratori. Il Movimento 5 Stelle si è proposto sulla scena politica vantando il fatto di essere «diverso dai partiti», ha sempre sbandierato l’etica come elemento fondante, rivendicato il fatto che al di là delle inchieste giudiziarie, fossero i comportamenti pubblici e privati di ognuno a dover essere al di sopra di ogni sospetto. E allora i vertici dovrebbero adesso chiedersi come mai non si siano accorti che De Vito, il loro «mister preferenze» di Roma, avesse una società in comune con un avvocato e abbia deciso di continuare a seguire i propri affari nonostante il ruolo di primo piano all’interno del Campidoglio. È una storia che si ripete. Era accaduto con Raffaele Marra, il braccio destro della sindaca Virginia Raggi da lei definito dopo l’arresto per corruzione «uno dei 23 mila dipendenti del Comune». È successo ancora con Luca Lanzalone, chiamato dai pentastellati a gestire gli affari più delicati della capitale - dallo stadio della Roma all’Acea - e poi finito ai domiciliari con l’accusa di essere a “libro paga” proprio di Parnasi. Ma, nonostante questo, rimasto nel cda della municipalizzata fino a qualche giorno fa, senza che nessuno sentisse l’esigenza di farlo dimettere. Le intercettazioni e i verbali di interrogatorio svelano - a prescindere da come finirà l’inchiesta penale - la capacità di adeguarsi subito a un “sistema” antico dal quale il Movimento aveva sempre detto di voler prendere le distanze, assicurando che «noi siamo diversi, onesti, specchiati». E invece lo schema rimane lo stesso: agevolare l’iter burocratico che viene sollecitato dall’imprenditore di turno, in cambio di vantaggi. De Vito si difenderà davanti al giudice e potrebbe anche dimostrare di non aver avuto denaro o favori. Ma a leggere i suoi colloqui con i costruttori, si scoprono le cautele che utilizzava per non farsi vedere in giro con loro, emerge in maniera chiara la sua “vicinanza”, la messa a disposizione, la volontà di compiacerli e accontentarli. E dunque la sua «permeabilità» rispetto al potere. Chissà se in queste ore De Vito ripenserà a quel video girato in campagna elettorale in cui si presentava come candidato di un Movimento «dalle mani libere» e attaccava giornalisti e politici degli altri partiti «per gli schizzi di fango che tentano di gettarci addosso». Chissà perché ieri, quando ha parlato del Campidoglio come «un luogo dove non c’è spazio per la corruzione», la sindaca ha dimenticato che le stesse parole le aveva utilizzate proprio in occasione degli arresti di

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Marra e Lanzalone e poi non ha evidentemente fatto nulla per fare pulizia tra le persone che con lei lavorano e dovrebbero cercare di governare Roma come fosse la capitale del mondo, invece di continuare a mortificarla lasciandola nel degrado. Appena pochi minuti dopo la cattura di De Vito, il “capo politico” Luigi Di Maio ha comunicato «la sua espulsione dal Movimento, assumendomi la responsabilità» e dunque senza attendere i probiviri o forse l’ennesimo referendum sulla piattaforma Rousseau. Lo ha fatto rivendicando l’eccezionalità della risposta rispetto agli altri partiti. Evidentemente senza voler vedere che anche dentro M5S ci sono gli onesti e i malfattori, quindi - andando oltre sterili proclami - dovrebbe dimostrare di essere davvero in grado di cambiare le regole, potenziare i controlli, e così far rispettare la legge. Pag 12 L’ex Robespierre (con le arance) che additava gli avversari. “Via la corruzione” di Gian Antonio Stella Il caso Roma, il ritratto di Marcello De vito Le arance! Chissà se certe anime pure grilline, furenti per l’abietta visita in Campidoglio dei «neri» di CasaPound con le arance per Marcello De Vito, hanno rivissuto ieri il giorno in cui quella visita la fecero loro. Era il 3 dicembre 2014 e a portare beffardi gli agrumi, spiegando che si trattava di un dono simbolico per i carcerati, c’erano Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista e lui, il presidente del consiglio comunale ora a Regina Coeli. Venuti a chiedere le istantanee dimissioni di Ignazio Marino. Chi di arance ferisce, di arance perisce. Era proprio il grillino appena ammanettato e inchiodato da quella telefonata sui quattrini («distribuiamoceli, questi»), uno dei più accaniti fustigatori dei cattivi costumi capitolini. Basti risentire il suo spot elettorale: «Le mani libere del Movimento 5 Stelle rappresentano un valore importantissimo per Roma. Per la prima volta possiamo andare a colpire gli sprechi, i privilegi e la corruzione con cui i partiti di destra e di sinistra, indifferentemente, hanno campato per anni sulle spalle dei cittadini romani». O rileggere alcuni dei tweet lanciati in questi anni, soprattutto dal 2013 (quando fu il candidato a sindaco del MoVimento) al 2016, quando corse alle nuove «comunali» al fianco, si fa per dire, di Virginia Raggi: «Rapporto choc: corruzione in ogni settore! Ecco perché servono le nostre mani libere!», «Spazzeremo via sprechi privilegi e corruzione», «Mafia capitale, corruzione, conti fuori controllo, disservizi… E vogliamo anche organizzare le Olimpiadi?!» «Ecco cosa lasciano il Pd e il Pdl nelle municipalizzate di Roma: sprechi, privilegi, corruzione e Parentopoli!» «Buche a Roma. Tangenti e intercettazioni: tutti corrotti!». Tutti meno lui, ovvio. Rigido. Rigidissimo. Un gendarme dell’ortodossia. Anche se, a proposito di Parentopoli, non è mancato chi gli ha rinfacciato la carriera parallela della sorella Francesca De Vito. Eletta consigliera l’anno scorso alla Regione Lazio (indovinate con chi?) facendo immaginare ai più maliziosi una sorta di zuccherino per addolcire la sua grinta combattiva contro Virginia Raggi, vista in famiglia come una specie di usurpatrice. Dice tutto uno sfogo pubblicato su Facebook alla fine di agosto 2016. Siamo nel pieno delle risse intestine sulla sindaca e il suo cerchio magico. Cui viene attribuito a torto o a ragione, citiamo l’Ansa, un «presunto dossier contro De Vito», su possibili irregolarità in una pratica di sanatoria, «che a fine 2015 avrebbe danneggiato la sua possibile candidatura a sindaco di Roma». Vero? Falso? Certo è che Francesca, sventagliando raffiche di punti esclamativi, attacca: «Adesso basta!!! Dovevamo dimostrare la differenza e la non continuità con il passato e io da attivista lo pretendo!!! (…) Che Virginia abbia sentito il bisogno di circondarsi di “persone di fiducia” ci può anche stare... malgrado alcune scelte lascino il boccone amaro in bocca a molti.... che poi però ogni persona di fiducia, compreso Daniele (Frongia, ndr) debba circondarsi di “amichetti di merende”...questo diventa inaccettabile!!!!». Quindi (punteggiatura e stile sono a carico suo) la consigliera regionale insiste: «Nessuno ha mai pensato di arricchirsi con il movimento né tanto meno di fare “piaceri” a qualcuno. ...non vi permettete di cominciare voi... non ce lo meritiamo e non se lo merita Roma. Ciò che sta avvenendo è inaccettabile!!...e noi saremo il vostro peggior nemico!!» (…) preferisco perdere e poter continuare a criticare gli altri piuttosto che vincere e dover ingoiare simili bocconi!!!!». Un capolavoro. Che convince i compagni di partito, un anno e mezzo dopo, a far spazio alla fumantina parente elevandola a Vice Presidente della Commissione Sviluppo economico e attività produttive regionale. Come se la caverà, vedremo. Chi difficilmente riavremo occasione di vedere all’opera, dato l’«infortunio

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giudiziario», è proprio il fratello, Marcello. Il quale, certo nel 2013 di esser destinato alla vittoria dato il successo grillino alle Politiche nei collegi capitolini, diede al nostro Fabrizio Roncone, per Style, un’intervista traboccante di scenari luminosi. Spiegò d’aver deciso di far politica spinto da Beppe Grillo: «Ognuno deve prendere una parte della propria vita e dedicarla agli altri». D’esser nato a Monte Sacro. Di avere una utilitaria che però non usava: meglio i mezzi pubblici. «Quando sarò sindaco perciò», promise, «è chiaro che arriverò in ufficio con il bus, come un cittadino qualsiasi. Anzi, il viaggio sarà occasione per ascoltare richieste, lamentele, suggerimenti». Niente auto blu e «anche allo stadio pagherò il biglietto». Respinta la domanda su chi votasse prima («Preferirei che il mio vecchio orientamento politico restasse segreto»), rivelò volentieri il programma, una volta arrivato a comandare in Campidoglio: rivedere tutti i conti in rosso lasciati da Gianni Alemanno e dai sindaci precedenti, cambiare l’Ama (rifiuti), cambiare l’Acea (acqua ed energia), far sì che «quelle società tornino a esser pubbliche» e «rivoluzionare la viabilità» puntando su bus e tram. «Ma non basta», aggiunse, «Abbiamo intenzione di attuare un piano per realizzare 1.000 chilometri di piste ciclabili». Mille. Su e giù pei colli… E poi promise «una raccolta differenziata al 60%» e senza inceneritori e discariche e un «formidabile attacco» all’abusivismo edilizio e «meno vigili dietro le scrivanie e più vigili per strada»… «Un programma ambizioso», gli obiettò Roncone. «Noi vogliamo, letteralmente, far svoltare Roma». Già che c’era, precisò anzi che i Fori Imperiali e Trastevere andavano pedonalizzati. Ma tutto, certo, sarebbe stato deciso insieme con i cittadini: «Le sedute del consiglio comunale saranno tutte date in streaming». Trasparenza, trasparenza, trasparenza… Pag 13 Il Carroccio va all’incasso a spese dell’alleato di Massimo Franco Il saldo politico del caso Diciotti è nettamente sbilanciato a favore di Matteo Salvini, rispetto a Luigi Di Maio. Il capo della Lega è uscito indenne dalla discussione parlamentare sull’autorizzazione a procedere contro di lui per il sequestro dei migranti della nave. Il vicepremier dei Cinque Stelle, invece, ha potuto dimostrare di tenere in mano i gruppi parlamentari, docili nel dire «no» al processo a Salvini. Ma ha dovuto anche fronteggiare i primi contraccolpi della bufera giudiziaria che ha colpito i Cinque Stelle in Campidoglio. A far pesare la bilancia dalla parte di Salvini è stata anche la decisione presa ieri dalla magistratura siciliana: indagine sul capitano della «Mare Jonio», l’altra imbarcazione che dopo il sequestro della Guardia di Finanza ha fatto sbarcare quarantanove passeggeri; di fatto, quello che chiedeva il Carroccio. Così è passato in secondo piano il fatto che il ministro dell’Interno e vicepremier si sia sottratto al processo. A tenere banco è stato l’appoggio in Senato, ricevuto dai Cinque Stelle e dal premier Giuseppe Conte. La coincidenza con l’iniziativa della Procura di Roma che ha arrestato il presidente dell’assemblea del Campidoglio, il grillino Marcello De Vito, ha chiuso il cerchio negativo. La giunta di Virginia Raggi si è ritrovata sotto i riflettori delle inchieste giudiziarie. E la rapidità controversa con la quale Di Maio ha deciso l’espulsione di De Vito dal M5S non è stata apprezzata da tutti. Nella cerchia del governo ci si è affrettati a dire che «il Movimento è diverso»; che ha «gli anticorpi» contro i corrotti; e che la sindaca Raggi resta in sella. Ma dietro tanta durezza, che ripropone il modo in cui i Cinque Stelle affrontano le inchieste e trattano la presunzione di innocenza, si indovina soprattutto l’imbarazzo della maggiore forza di governo: sia per un provvedimento che colpisce un esponente locale di rilievo, additando la qualità della nomenklatura e le infiltrazioni dei comitati d’affari; sia per la coincidenza temporale con il voto al Senato su Salvini per il caso Diciotti, che ha provocato qualche malumore nei gruppi parlamentari e ne sta causando ulteriori tra i militanti. È indicativa la richiesta avanzata ieri dallo staff della comunicazione grillina. Si chiedeva «gentilmente» di parlare di De Vito «come ex M5S», in quanto «è stato già espulso». Ma gli avversari di Di Maio lo accusano di avere deciso con tanta fretta per prevenire l’accusa di essersi mosso con ritardo; di non avere capito, mesi fa, le implicazioni dell’inchiesta sulla costruzione del nuovo stadio della Roma calcio. E le faide all’interno del Movimento, adesso, promettono di rimettersi in moto. Pag 32 Sventoliamo dalle finestre la bandiera dell’Europa di Romano Prodi e Stefano Micossi

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Dove è più probabile, in Europa, veder sventolare con orgoglio la bandiera dell’Unione europea sopra case e edifici privati? La risposta è ovvia, seppur strana: nel Regno Unito, da parte dei cittadini che ne temono l’uscita dall’Unione. È davvero necessario iniziare a perdere qualcosa che si ama - e di cui abbiamo enfaticamente bisogno - prima di iniziare davvero ad apprezzarla? Invitiamo i cittadini europei a esporre con orgoglio la bandiera dell’Unione, a partire da oggi, come simbolo della nostra identità comune. Di fronte alle sfide poste da nazionalisti e populisti in vista delle elezioni del Parlamento europeo del 26 maggio, non è mai stato così importante sostenere i valori fondamentali dell’Europa. Far sventolare le bandiere dell’Unione dalle nostre finestre e dai nostri uffici può inviare un segnale insopprimibile che l’Unione non sarà svuotata del suo contenuto dai suoi nemici all’interno e all’esterno. In un’epoca di crescente incertezza, frustrazione e offuscamento del nostro destino comune, troppi europei sembrano aver dimenticato la lunga storia di turbolenze e di guerra che ha preceduto la creazione dell’Unione europea e il periodo di pace e prosperità senza precedenti che abbiamo vissuto dagli anni Cinquanta. Per settant’anni, le istituzioni comuni dell’Europa hanno sostenuto il mercato interno, l’euro e la vigorosa espansione dei diritti individuali sotto la protezione della Corte di giustizia europea. Il modello di welfare europeo è un faro di civiltà e un esempio per il mondo intero. L’inserimento della Carta dei diritti fondamentali nel Trattato di Lisbona ha coronato la costruzione di uno spazio integrato di 500 milioni di persone basato sulla democrazia, lo Stato di diritto e la più alta affermazione della dignità umana. Quando viaggiamo con il nostro passaporto comune dell’Unione, siamo riconosciuti e rispettati in tutto il mondo come cittadini di un attore chiave dell’ordine mondiale. Questi risultati sono minacciati non solo dagli oppositori interni dell’Unione, ma anche dal disprezzo che l’amministrazione del presidente americano Donald Trump ha dimostrato nei confronti dell’Europa, e in generale verso tutte le istituzioni multilaterali. Le istituzioni che da tempo sostengono la pace, la sicurezza e la crescita del commercio mondiale sono, per Trump, nemici da combattere, cosa particolarmente pericolosa, visto il clima di tensione tra Stati Uniti e Cina. Quelle tensioni oggi stanno sconvolgendo il commercio mondiale; domani potrebbero minacciare la pace. Vi sono pochi dubbi che l’Europa non potrà preservare ciò che abbiamo realizzato negli ultimi sette decenni se ogni Stato dell’Unione agisce per conto proprio. Dopo tutto, anche il più grande tra i suoi membri, la Germania, è minuscolo in confronto agli Stati Uniti o alla Cina. Da solo, nessuno di noi può gestire le enormi sfide poste dalla tecnologia, il protezionismo, il cambiamento climatico, il terrorismo internazionale. Invece di riconoscere che la forza dell’Europa è la sua unità, le forze nazionalistiche e xenofobe cercano consenso in tutto il continente promettendo di chiudere le frontiere, smantellare la libera circolazione e riaffermare il controllo nazionale su tutte le politiche pubbliche. Il drammatico aumento dei flussi migratori, dovuto in gran parte alla guerra civile siriana e al collasso dello Stato libico, ha creato terreno fertile per la diffusione dei messaggi di odio da parte delle forze xenofobe. Sfruttando le paure e la perdita di status dei nostri lavoratori meno qualificati e di coloro che hanno perso il lavoro, quelle forze fanno ricadere la colpa di tutti i mali dell’Europa sugli immigrati. In realtà, se teniamo conto degli andamenti demografici, l’Europa ha bisogno di aumentare l’afflusso di immigrati qualificati per preservare il dinamismo delle nostre economie e la sostenibilità dei nostri sistemi sanitari e pensionistici. Certo, le istituzioni e le politiche europee hanno bisogno di profondi cambiamenti per riconnettersi con i cittadini sfiduciati. Dobbiamo mostrare una rinnovata capacità di promuovere la crescita e gli investimenti, di rispondere alle sfide poste dalle tecnologie in rapida evoluzione e dai cambiamenti climatici, di rivitalizzare il nostro modello sociale in sofferenza. Dobbiamo dimostrare che le istituzioni comuni sanno ascoltare le richieste dei nostri popoli spaventati, che possiamo agire insieme per proteggere le nostre frontiere e contribuire a stabilizzare il nostro instabile vicinato orientale e meridionale. Ma vi è anche un bisogno urgente di mobilitare l’opinione pubblica europea intorno al simbolo della nostra unità e dei nostri progetti futuri: quel simbolo è la bandiera europea. Per questo motivo, lo scorso gennaio uno di noi ha lanciato l’idea che, a partire da oggi, la bandiera sia esposta su case, fabbriche e uffici. Il 21 marzo è il primo giorno di primavera e vorremmo credere che le prossime elezioni europee portino una nuova primavera per il progetto europeo. Il 21 marzo è anche l’anniversario della morte di Benedetto, patrono d’Europa. In uno dei periodi più

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bui della fine dell’Impero Romano, Benedetto lanciò un appello alla tolleranza e alla pietà per ricostruire un senso di comunità di fronte al nichilismo e alla barbarie. A partire da oggi, mostriamo la nostra bandiera al mondo, come simbolo della nostra unità e dei nostri sogni, e come segno di un nuovo inizio dei nostri sforzi per preservare e approfondire l’unità europea. Anche per evitare di doverci domani pentire di ciò che potremmo perdere quando sarà troppo tardi. LA REPUBBLICA Pag 30 Il giorno più lungo dei 5 Stelle di Stefano Folli Il 20 marzo potrebbe essere ricordato come una giornata decisiva per delineare il futuro della strana alleanza che ha governato l'Italia per circa un anno. È successo quasi tutto in poche ore. In primo luogo, l'arresto a Roma del presidente 5S dell'assemblea capitolina, l'infrangersi del mito fondante a cui il movimento che fu di Grillo non può rinunciare: l'onestà assoluta, il "noi siamo diversi" rispetto alla "casta". Senza tale mito non resta nulla del M5S. Non la competenza, non la capacità di governare o amministrare, non la cultura politica. La stessa fulminea rapidità con cui De Vito è stato espulso lascia interdetti. Per ora il reprobo non è stato giudicato e tanto meno condannato. Ma non c'era tempo da perdere: cacciato con parole di fuoco senza un dubbio, nessuna delle attenuanti accordate ad altri gli sono state concesse. Così da poter dire: noi ci disfiamo delle mele marce, il Pd non lo fa e non parliamo di Berlusconi. Ma è sembrata una mossa dettata dal panico piuttosto che una prova di serietà. Poco dopo Salvini è intervenuto in Senato e ha ottenuto - come ampiamente previsto - che la maggioranza negasse l'autorizzazione a procedere per il caso Diciotti. Toni in parte inediti, quelli del capo leghista. Nessuna arroganza, scarse polemiche, un discorso letto parola per parola sotto gli occhi dell' avvocato Bongiorno perché ogni verbo e ogni aggettivo doveva essere calibrato. L'insistenza nel dire che «noi soccorriamo tutti» perché «non sarò mai un ministro che lascia morire nel Mediterraneo». Del resto, si era capito che quello della Diciotti è stato un caso limite, un gesto politico compiuto non senza cinismo per rovesciare una certa opinione pubblica a proprio favore. Prova ne sia che di fronte alla vicenda della Mare Jonio si è seguita una strada diversa: migranti sbarcati subito e sequestro della nave alfine di verificare alcune ipotesi di reato. Salvini ha incassato insomma la solidarietà della sua maggioranza (salvo casi individuali) nel giorno stesso in cui la parabola dei 5S ha subito un colpo che potrebbe rivelarsi fatale o quasi. Magari non subito, bensì nell'arco di qualche tempo. E il movimento indebolito, in grave affanno, sceglie di sostenere il suo alleato/carnefice, pur consapevole che mese dopo mese questa relazione equivale a un sottile veleno per i Cinque Stelle. Fino al paradosso di ieri: costretti ad ammainare la bandiera della lotta alla corruzione quasi nelle medesime ore in cui al Senato hanno dovuto rinnegare un altro pezzo della retorica grillina, come in altri tempi non sarebbe mai successo. Difficile prevedere come e attraverso quali passaggi prenderà forma il declino pentastellato. Il meccanismo si è ormai messo in moto, solo che l'anima governista dei 5S farà di tutto per non abbandonare i ministeri. Né oggi né dopo le elezioni europee, per quanto mediocre possa essere il risultato. Avendo scelto di accettare i compromessi, come si conviene a un partito di governo, Di Maio e i suoi non sono più in grado di tramutarsi di nuovo in forza anti-sistema. Non ci sarebbe da stupirsi se in un futuro non troppo remoto una parte del movimento, l'ala chiamiamola di destra, volesse andarsene a consolidare un fianco del nazional-populismo leghista. In breve, dopo la giornata di ieri il M5S è entrato in una spirale da cui gli sarà molto difficile uscire. Con il tempo questa situazione, probabilmente non prima di maggio, è destinata a modificare gli equilibri di governo. Intanto sullo sfondo c'è Orbán ibernato dalla maggioranza del Ppe. E Salvini che rafforzerà con lui il vecchio rapporto. AVVENIRE Pag 1 L’ultimo tradimento di Danilo Paolini Roma, M5s, ipotesi di corruzione Fondata da un fratricida, incendiata da un imperatore con velleità artistiche, saccheggiata dai lanzichenecchi, occupata dai francesi, oltraggiata dai nazisti, stravolta

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dai palazzinari, insanguinata da una banda senza scrupoli, venduta e comprata da politicanti di tutti i colori. Tra affascinanti leggende, vera storia e nera cronaca, Roma ne ha passate davvero tante. Si può dire che i romani, e i loro avi, hanno visto di tutto. Eppure il risveglio di ieri mattina è stato duro pure per una città così navigata: il presidente dell’Assemblea capitolina arrestato per corruzione. Uno dei principali nomi del Movimento 5 Stelle, al quale tanta fiducia gli elettori romani hanno dato alle ultime Comunali, eleggendo Virginia Raggi sindaco al ballottaggio, contro il dem Roberto Giachetti, con oltre il 67% dei voti. Marcello De Vito, onesto autoproclamato (come tutti i suoi compagni di partito) e presunto innocente fino al giudizio definitivo come stabilisce la Costituzione, è finito in carcere sulla base di un impianto accusatorio che ricorda tanto, troppo, da vicino i maneggi di quella che i seguaci di Grillo hanno da sempre definito, e ancora definiscono, «la vecchia politica». L’ultimo esempio lo si era avuto giusto martedì sera, con i pentastellati a chiedere le dimissioni del presidente del Lazio e segretario del Pd Nicola Zingaretti in quanto indagato per un presunto episodio di finanziamento illecito. Come la sorte, anche il giustizialismo può rivelarsi beffardo. Ma non è di De Vito, né dell’inchiesta, che qui interessa parlare: la giustizia farà il suo corso e alla fine si tireranno le somme. Quello che invece si può raccontare, e va raccontato, è lo stordimento di una città, la più grande delle città italiane, che nell’arco di una mattinata è passata dal lungo inverno del suo scontento, che sembra non dover finire mai, all’alba del suo sconcerto. Perché stavolta non basta il proverbiale disincanto capitolino per assorbire il colpo. «È una botta pazzesca», ammettevano ieri numerosi parlamentari pentastellati. Pensavano ovviamente al Movimento e ai prossimi appuntamenti elettorali, a cominciare dalle Europee di fine maggio. Ma è lo stesso pensiero che ha avuto gran parte dei romani, riflettendo invece sul destino della loro città. L’angoscia, in qualunque modo si voti o si sia votato, sale. È possibile che vada sempre a finire così, con le accuse che volano e le manette che scattano? Non c’è speranza, per Roma? Forse se lo sta chiedendo anche la signora che in occasione delle elezioni politiche del 4 marzo dell’anno scorso, appena fuori il seggio di un quartiere 'borghese' della Capitale, confidava soddisfatta a un’amica e senza volerlo anche a chi scrive: «Guarda quante persone... Me lo sento, finalmente cambierà qualcosa, la gente è stufa... Non ci facevano votare da tanti anni!». Evidentemente quest’ultima fallace rivendicazione funziona nel circuito della propaganda a buon mercato, di recente è stata perfino pronunciata in diretta tv da un volto noto dello spettacolo. Sconcerto, dunque. Come quello di un caro parente che alle obiezioni politiche del fratello sull’amministrazione cittadina, replicava sinceramente: «Confido almeno nella loro onestà». Così siamo messi, a Roma. Talmente scottati e disillusi da non credere più che un amministratore possa essere allo stesso tempo competente e irreprensibile. Perché il romano, se ti crede, lo fa fino in fondo. Ma se perde la fiducia, allora è dura riconquistarlo. Di sicuro non si consola a sentire il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che dopo l’espulsione immediata di De Vito si compiace perché «il Movimento 5 stelle dimostra di avere gli anticorpi efficaci per reagire a episodi del genere». Anzi, c’è la possibilità che il commento più prevedibile a una simile affermazione sia un’espressione romanesca piuttosto nota ma qui non riportabile. Un’intera città, la capitale di questo Paese, le ha provate tutte e non ne può più di sentirsi tradita: ecco l’aspetto sul quale tutti i partiti e tutti i leader politici farebbero bene a cominciare, seriamente, a riflettere. Pag 3 E’ ora di “vedere” davvero le religioni di Gerolamo Fazzini Voci e atti (anche islamici) che spiazzano «Certamente lo perdono». Hanno colpito molti le coraggiose parole pronunciate da Farid Ahmad, musulmano sopravvissuto agli attentati di Christchurch, in Nuova Zelanda, all’indirizzo di colui che ha ucciso sua moglie nell’attentato in cui sono state spezzate 50 vite. «Vorrei dirgli – aveva aggiunto – che ha in sé un grande potenziale per diventare una persona che salvi delle vite anziché distruggerle: spero e prego per lui che possa diventare un grande civile, un giorno». Le espressioni di Farid Ahmad hanno sorpreso soprattutto quanti continuano ad avere una visione non solo statica ma profondamente errata della galassia islamica, come di un contenitore indifferenziato di estremisti di vario genere. Sono gli stessi che si saranno stupiti (ammesso che l’abbiano saputo) del

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fatto che, il 5 gennaio scorso, in Egitto, l’imam Saad Askar, con un tempestivo intervento, ha contribuito in maniera decisiva a sventare un attentato contro una chiesa copta al Cairo. Ancora. Chi dell’islam conserva una visione negativa, che l’identifica in toto con una religione bellicosa, difficilmente si sarà accorto che durante la beatificazione dei 19 martiri d’Algeria, l’8 dicembre, ha preso la parola la vedova di un imam. In un momento così solenne, la donna ha voluto far memoria del fatto che i fondamentalisti, durante la guerra civile che ha scosso il Paese soprattutto tra il 1991 e il 2001, avevano ucciso 113 capi islamici, i quali – parole sue – «non potevano accettare che il nome di Dio fosse associato alla violenza». Se, dunque, associare all’islam lo stereotipo della religione inguaribilmente violenta non funziona, dobbiamo aggiungere che, specularmente, è altrettanto sbagliato adottare una visione ingenua, totalmente irenica, del buddhismo. Proprio oggi, nella Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale, esce nelle sale un film, 'Il venerabile W', del regista Barbet Schroeder (candidato all’Oscar). Propone un ritratto di Wirathu, un maestro buddhista birmano noto per le sue posizioni estremiste: in nome della difesa della razza birmana e della religione buddista, questi si è fatto accanito sostenitore della 'pulizia etnica' del Myanmar dal popolo dei Rohingya. Una pulizia in corso da tempo e contro la quale papa Francesco, prima e dopo il suo viaggio in Myanmar e Bangladesh, si è battuto con forza. Ciò su cui vorrei portare l’attenzione è che, se di estremismo e fondamentalismo musulmano si parla molto da noi, di quanto avviene in seno a una tradizione religiosa quale il buddismo poco ci è noto, per nostro colpevole disinteresse e forse perché – ammettiamolo – siamo prigionieri di stereotipi che associano la tonaca coloro zafferano, sic et simpliciter, a pace e tolleranza. Eppure, tanto per citare un caso recente, giusto un mese fa in Thailandia una retata della Polizia ha permesso di smascherare una ventina di criminali che avevano scelto le pagode per ripararsi dalla giustizia. «Voglio purificare la religione, così le persone torneranno a fidarsi dei monaci», ha affermato significativamente il generale responsabile delle operazioni, ben sapendo che in Thailandia il 95% della popolazione si professa buddista. Si potrebbe, infine, ricordare che anche l’induismo, da tempo, in India è alle prese con derive estremiste di cui poco o nulla si dice in Occidente. 'Avvenire' a parte, poca attenzione mediatica ha ricevuto, negli ultimi anni, il pericoloso fenomeno della 'zafferanizzazione', ossia l’avanzare di una ideologia – l’Hindutva – che vorrebbe la totale identificazione tra India e religione induista, cancellando l’identità pluralista e democratica che quel grande Paese è riuscito faticosamente a costruire. Per chiudere. Mai come oggi il dialogo interreligioso è prezioso per la costruzione di una umanità più solidale e una convivenza pacifica. E, tuttavia, il dialogo chiede che sia fondato sulla verità, su una conoscenza approfondita dell’altro e che, di conseguenza, si superino visioni manichee o riduttive dell’altro. Rimanendo ancorati a pregiudizi e stereotipi, tanto positivi quanto negativi, non andremo molto lontano. IL FOGLIO Pag 2 Sono figli di un Dio minore. “300 cristiani uccisi in Nigeria da febbraio” di Giulio Meotti Carneficine senza grancassa mediatica Roma. "300 cristiani sono stati uccisi in Nigeria da febbraio", denunciava due giorni fa il Barnabas Fund nel rendere nota l'ampiezza dei massacri nel grande paese africano da parte dei pastori musulmani Fulani. Il vescovo William Avenya di Gboko ha detto ad Aiuto alla chiesa che soffre che il mondo non può aspettare un genocidio completo prima di decidere di intervenire. "Per favore, non commettete lo stesso errore commesso con il genocidio in Ruanda", ha affermato il vescovo, riferendosi al massacro dei tutsi del 1994 in Ruanda. Circa 11.500 cristiani uccisi, un milione e trecentomila sfollati, 13 mila chiese abbandonate o distrutte. Sono gli impressionanti numeri contenuti in una relazione presentata mesi fa all'Onu da Joseph Bagobiri, vescovo di Kafanchan, e che fanno riferimento al periodo 20062014. Almeno 38 cristiani sono stati uccisi nell'area di Moro (Kaduna) lo scorso 26 febbraio. Alle sei di mattina, 400 pa stori fulani hanno attaccato diversi villaggi dell'area. "Ero in chiesa insieme ad altri fedeli quando abbiamo sentito gli spari e siamo subito scappati", ha detto una testimone al Morning Star News. "Sparavano a tutti quelli che incontravano, hanno bruciato case e chiese", racconta un

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altro. Il 10 febbraio nel villaggio di Angwan Barde, i fulani hanno massacrato undici cristiani. "Gridavano 'Allahu Akbar', hanno ucciso mio padre, mia madre, due fratelli e mia cognata", ha detto Daniel Audu, leader del villaggio. "Hanno ucciso dieci membri della comunità, compresa una donna incinta in stato avanzato". Carneficine che si consumano senza alcuna grancassa mediatica. In occidente ci mobilitiamo notte e giorno per gli immigrati in mare. Ma ce ne freghiamo dei cristiani uccisi a terra. Figli di un Dio minore che non trovano posto in alcun album di famiglia. IL GAZZETTINO Pag 1 Zingaretti e i limiti dell’effetto sondaggi di Giovanni Diamanti Ha destato scalpore il sondaggio di Swg che vede il sorpasso del Partito Democratico sul MoVimento 5 Stelle. Per l'istituto triestino, non avveniva dal 2017. Il crollo del partito di Di Maio, che ha perso più di dieci punti nell'ultimo anno, non basta a spiegare questo ribaltamento dei rapporti di forza. La vera notizia è che dopo diversi anni, infatti, il Pd è tornato a crescere. La Supermedia dei sondaggi di YouTrend per Agi mostra un Pd cresciuto di quasi due punti in due settimane, e il trend di crescita sembra non fermarsi. Le ragioni di questa ripresa sono diverse. In primo luogo, c'è un importante effetto-primarie. Sebbene siano sempre meno utilizzate dal centrosinistra per scegliere i candidati per le elezioni comunali e regionali, le primarie riescono ancora a mobilitare gli elettori democratici: l'entusiasmo del 3 marzo non è ancora svanito. In secondo luogo, non va sottovalutato l'effetto-Zingaretti: il nuovo segretario gode di indici di fiducia personali in crescita (al 44% secondo l'ultima rilevazione Demos) ed è uscito dal voto con una legittimazione superiore alle aspettative. Il suo primo obiettivo è riportare verso casa molti elettori delusi, rasserenando al contempo la base più moderata del Pd: la Presidenza del partito affidata a Gentiloni e la nomina di Zanda come tesoriere sono scelte volte a rassicurare. In terzo luogo, come conseguenza degli spunti precedenti, va constatato come il Partito Democratico oggi sia tornato centrale nel dibattito pubblico. Dopo molto tempo, i democratici hanno la forza di incidere sull'agenda mediatica. E per evitare che questa attenzione nei loro confronti svanisca presto, dovranno approfittarne con proposte forti che colpiscano l'opinione pubblica e intercettino il clima d'opinione del Paese. Altrimenti, torneranno presto a inseguire Salvini sul terreno a lui più congeniale, quello del dibattito sull'immigrazione e la sicurezza. Zingaretti non sembra un leader alla Renzi, orientato a portare all'estremo la tendenza alla personalizzazione dei partiti contemporanei: il suo messaggio di cambiamento radicale si riferisce anche a questo. Dovrà allora sfruttare al meglio le opportunità che un diverso modello di leadership porta con sé. Tutto partirà dall'identificazione della nuova classe dirigente: Zanda e Gentiloni sono nomi di prestigio, ma un partito nuovo deve promuovere leader nuovi, che aiuteranno a definire l'immagine del Pd rinnovato. È lecito immaginare che un amministratore come Zingaretti (già Presidente della Provincia di Roma, prima che Governatore del Lazio) valorizzi proprio i tanti amministratori locali del Pd, per definire un posizionamento più vicino alla gente e ai territori. Infine, dovrà scegliere che idea di partito portare avanti. Non sembra, questa, una fase di espansione elettorale verso nuovi segmenti sociali e verso nuovi territori, come avvenuto con Renzi nel 2014. È più logico attendersi un periodo di consolidamento della base elettorale e di recupero di un elettorato storicamente vicino, che dopo il referendum costituzionale ha abbandonato i Dem. Il recupero del Partito Democratico può ripartire dalle tradizionali Zone Rosse, la Toscana e l'Emilia che assieme ai centri urbani hanno dimostrato fedeltà alla linea anche nelle ultime elezioni politiche. Tuttavia, il centrosinistra non può tornare ad arroccarsi nel Centro Italia: trascurare il Nord sarebbe un errore enorme. Pag 27 Addio al mito della diversità, il brusco risveglio dei grillini di Mario Ajello Diversi ma uguali. Roma, dove nacque il mito nazionale della «diversità morale» e del «cambiamento politico», parifica i 5 Stelle a tutti gli altri. E li identifica, o meglio li sprofonda, in quell'ambiente limaccioso e grigio in cui i tradizionali poteri marci erano stati padroni nelle passate gestioni amministrative ma i nuovi arrivati non hanno rotto i meccanismi del malaffare. Anzi parrebbero essersi adeguati al peggio. Cioè alla corruzione e alla tangente. Come nel più classico film horror del buio di Roma. E così il

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movimento nato e cresciuto al grido «gli anticorpi siamo noi» s'è dimostrato parte del bacillus loci. Una sorta di genius loci al contrario, quello che corrode e distrugge tutto ciò che si trova davanti. Se Roma era stata la levatrice del mito della neo-politica a 5 stelle, adesso diventa il palcoscenico maestoso e lo specchio di un tracollo che non è soltanto morale ma è politico e che riguarda a tutte le latitudini il movimento. Ha agito come una livella, rendendo uguali i presunti diversi, questa città. Ma questo è un dramma e non può esistere il mal comune mezzo gaudio. Occorre invece registrare, con laica preoccupazione, come la vicenda De Vito rappresenti la continuità della corruzione endemica di Roma - «Campidoglio casa di vetro»? Lo slogan non ha retto fin dall'inizio - e il tramonto malinconico di un esperimento di rigenerazione politica a cui i cittadini della Capitale e del resto d'Italia, soprattutto nel Mezzogiorno, avevano creduto perché stanchi di tutto il resto. Maccheronicamente, si potrebbe dire: qui nascono e qui cascano i grillini, il cui sogno palingenetico doveva partire dalla Capitale, per distendersi dappertutto, ma proprio nella Capitale viene colpito dall'infezione. Fino a diventare, come in queste ore appare chiarissimo, volenteroso carnefice di se stesso. Prima Marra, poi Lanzalone e adesso De Vito sono la contro-storia di M5S che s'impone, diventando più vera della storia ufficiale, sulla retorica propagandistica dell'«onestà» che, nei piani stellati, doveva servire come coperta per la mancanza di capacità di governo. Ma il velo si è strappato. E la nemesi della diversità che si capovolge in continuità racconta che le sacche infette del privilegio, dell'arbitrio e della mazzetta da queste parti non sono state intaccate - stando al corposo lavoro dei magistrati - da chi se ne era proclamato implacabile avversario. Il continuum di una storia che si pensava finita sta anche nel fatto - e non può essere una casualità - che la zona più porosa e più permeabile al malaffare s'è rivelata quella del presidente del consiglio comunale, che nelle ultime stagioni ha agito da opposizione rispetto al sindaco del proprio partito. Finì agli arresti, per Mafia Capitale, di Mirko Coratti («Gli porteremo gli aranci in galera», ironizzavano i 5 Stelle) al tempo di Ignazio Marino, e finisce in carcere adesso De Vito che ricopre lo stesso ruolo che aveva il collega dem. Il mancato cambiamento delle pratiche, delle procedure, degli approcci, l'abiura della trasparenza, il malcostume degli abboccamenti e il richiamo della foresta della tangente: questo il risucchio che s'è riproposto. Con l'aggravante che la sensazione generale era che Roma avesse toccato il fondo e non potesse che far tesoro degli errori del passato, e invece no: il sistema ha trovato, poi si vedrà con quali livelli di gravità, nuovi interpreti e vecchie usanze. E crolla il grande alibi, locale e nazionale. Noi non tappiamo le buche, perché siamo «onesti» e prima, lì dentro, vogliamo vederci chiaro. Noi non facciamo i grandi eventi, perché siamo «onesti». Noi non facciamo le grandi opere, perché siamo «onesti». Ma nel mondo mangiatoia da cui guardarsi, secondo una visione complottistica e paralizzante, le rivendicazioni morali e moralistiche si sono squagliate con sorprendente rapidità. Potevano esserci l'occasione e l'opportunità per ricostruire un modello di città e di potere. E invece la Capitale Infetta ha avuto buon gioco su un vuoto di cultura, di visione e di gestione. Roma che si trova a fronteggiare nemici esterni, cioè gli agit prop dell'autonomismo nordista, scopre di avere in casa i suoi agenti disgregatori e non si aspettava, o almeno non fino a questo punto, di vederli intra moenia. E nelle fogge più tradizionali che si potesse immaginare: quelle del clientelismo più spicciolo e devastante. Sull'altare della presunta virtù, che i grillini facevano risalire addirittura a Robespierre, è stata sacrificata la competenza. E una buona parte degli italiani, a cominciare da quelli della Capitale, s'è accontentata di questo. Per poi accorgersi, forse, che questo non basta per il funzionamento del Paese e che si tratta oltretutto di una virtù sdrucciolevole e caduca, pronta a rovesciarsi nel suo opposto. E a smentire ogni pretesa di superiorità del tipo: a me non mi cambiano, li cambio io. Così non è andata. E a pagare la fine dell'illusione non saranno soltanto quelli che l'hanno prodotta, cioè i 5 stelle. Ma purtroppo anche tutti i romani. E toccherà per l'ennesima volta, ma con meno forze e con meno speranze, ricominciare da capo. LA NUOVA Pag 6 Le politiche improvvisate sui migranti di Maurizio Mistri A fronte dei flussi migratori i paesi destinatari si trovano a reagire con politiche improvvisate di cui non è facile vedere una trama coerente. Ad esempio, i paesi

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appartenenti all'Unione Europea (Ue) attuano misure di tipo difensivo, nelle quali non si vede un disegno strategico, malgrado la strutturalità dei processi migratori. Affrontare un fenomeno strutturale con misure di tipo congiunturale significa rinunciare ad una seria strategia in materia di governance del fenomeno, finendo per subire le strategie dei governi dei paesi da cui escono i migranti. Una strategia di tipo strutturale comporta che si abbia chiarezza in merito agli obiettivi e ai limiti di una politica per l'immigrazione. Né l'Ue, né i singoli paesi europei hanno in mente un qualche tipo di politica immigratoria di natura strutturale. Nella fase di avvio dei flussi migratori verso l'Europa, i paesi europei hanno incominciato a ragionare in termini di "quote di immigrazione", e cioè di quanti immigrati ogni paese avrebbe avuto bisogno, per le esigenze della propria economia, individuando le caratteristiche professionali che i migranti ammessi avrebbero dovuto avere e delimitandone il numero. È evidente che un simile modello di politica immigratoria avrebbe potuto reggere solo se i paesi europei avessero avuto la possibilità di stipulare accordi credibili con i governi dei paesi da cui i migranti provengono. Gli albori delle politiche immigratorie in Europa vanno ricercati nelle strategie messe in atto dalla Germania (occidentale) che concluse accordi con la Turchia al fine di ricevere lavoratori ospiti per periodi determinati. La Germania riteneva che fosse possibile e facile rimandare in Turchia lavoratori considerati "provvisori", senza capire che quel rinvio sarebbe diventato politicamente difficile. Tra l'altro, un modello immigratorio di quel tipo presupponeva la possibilità di rimpatriare immigrati considerati non più utili ad una economia nazionale e presupponeva la possibilità di espellere immigrati giunti clandestinamente in Europa. Così il rimpatrio degli immigrati clandestini è diventato un problema rilevante allorquando, in tempi più recenti, i governi dei paesi europei hanno modificato radicalmente il modello immigratorio a cui far ricorso. Agli immigrati "economici" hanno preferito gli immigrati "politici", e cioè quelli che fuggono da guerre o dittature. A questi non è certo applicabile il principio delle quote, e nel loro caso è vano parlare di respingimenti. La soluzione del problema degli attuali flussi migratori andrebbe trovata nei paesi da cui i migranti giungono, ma ciò comporterebbe una ingerenza dell'Ue nella politica di altri paesi. Sarebbe bene che i governi europei facessero una analisi oggettiva delle difficoltà che si incontrano nell'implementare le varie politiche immigratorie per compiere scelte realisticamente effettuabili, sul piano economico e politico. Torna al sommario