Rassegna stampa 6 aprile 2017 - patriarcatovenezia.it · RASSEGNA STAMPA di giovedì 6 aprile 2017...

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 6 aprile 2017 SOMMARIO Sui giornali locali di oggi l’intervento del Patriarca Francesco Moraglia ieri pomeriggio durante l’incontro dei Comitati Privati per la Salvaguardia di Venezia in corso a Palazzo Ducale. Eccolo nella sua completezza: Desidero esprimere sincera gratitudine per i contributi che, a seguito del disastroso evento dell’alluvione e dell’Aqua Granda del 1966, sono stati da voi offerti in termini economici e culturali e che hanno inciso in modo rilevante nell’opera di salvaguardia della città, risollevandola in molte sue “parti” dal degrado, dall’incuria e dagli effetti degli eventi atmosferici. Anche la costanza e il rilievo di quest’impegno hanno certamente fatto sì che Venezia, città “liquida” per antonomasia, abbia potuto e possa tuttora risplendere - per usare la magistrale immagine del Santo Padre Benedetto XVI durante la sua visita del 2011 - come città “della vita e della bellezza”, ovvero “una città che rinnova costantemente la sua bellezza attingendo dalle sorgenti benefiche dell’arte, del sapere, delle relazioni tra gli uomini e tra i popoli”. Tutta la città di Venezia - come Voi ben sapete - è un grande, splendido ed anche complicato tesoro e patrimonio artistico, architettonico, culturale. E tali tesori e patrimoni sono spesso di natura ecclesiale, toccano quindi la comunità cristiana di questa città, riguardano tante opere e tanti edifici sacri utilizzati per il culto e che hanno beneficiato, da allora, di questa ondata benefica così essenziale per la tutela e la conservazione di tale ingente patrimonio. Di tutto questo, ancora, Vi ringrazio e soprattutto per il fatto di ricordarci ogni volta che Venezia è davvero città del mondo e “casa comune” - luogo che appartiene ai veneziani e a tutti – e come tale va vissuta, salvaguardata, difesa e fatta crescere, trattando con delicatezza e rispetto, con amore ed impegno attivo, questa nostra città. Ma non può sfuggire il fatto che in questi 50 anni Venezia abbia progressivamente e notevolmente cambiato volto, per una serie di fenomeni ben noti: la forte riduzione della popolazione residente, l'incremento esponenziale della mobilità e del turismo con tutta la serie di benefici ma anche di problematiche che comportano, la profonda trasformazione post-industriale del suo territorio circostante ecc. Tutto ciò ha inciso e determina di continuo conseguenze importanti per la vita della città, per la vita della nostra Chiesa ed anche, quindi, sulla tutela e salvaguardia del nostro patrimonio e dei luoghi di culto. Come Patriarcato di Venezia siamo da qualche tempo impegnati in un processo di rinnovamento pastorale che interessa perciò, in modo significativo, le modalità di presenza e di intervento della comunità ecclesiale sul territorio - di cui fa parte ed è responsabile - nonché la gestione e la valorizzazione delle risorse e dei beni a nostra disposizione e sotto la nostra responsabilità, in primis (in particolare nella città storica) quelli di natura artistico e culturale. La Chiesa di Venezia è, infatti, decisamente orientata verso la costituzione – anche nel centro storico della realtà lagunare - delle cosiddette “collaborazioni pastorali interparrocchiali” che permetteranno (in certi casi già sta avvenendo) di condividere – sostenendosi a vicenda e mettendo in comune forze e risorse (anche umane) – ambiti ed impegni pastorali nei quali, da soli, ormai non è più possibile operare in modo efficace. Il valore di tale processo di collaborazione e maggiore sinergia tra parrocchie diventa evidente e vitale in una città come Venezia dove il numero di edifici sacri è enorme per quantità e notevolissimo per qualità dei tesori – spesso degli autentici capolavori - in essi custoditi. Restiamo convinti che non ci può essere restauro di una chiesa senza (prima) una comunità “viva” che se ne faccia carico, che ne custodisca la bellezza e la valorizzi nel culto e non solo. Un edificio senza vita non è mai tutelato e valorizzato ed è destinato all'abbandono. Come lo è un edificio che non ha, alle spalle, una comunità reale che se ne fa carico. Come ho già avuto modo di dire in altre occasioni, è importante ricordare che, a Venezia, vi sono problemi conservativi urgenti che riguardano molte chiese e che il loro numero (un centinaio in città e oltre 200 nell'intera Diocesi) richiede di riflettere su una

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 6 aprile 2017

SOMMARIO

Sui giornali locali di oggi l’intervento del Patriarca Francesco Moraglia ieri pomeriggio durante l’incontro dei Comitati Privati per la Salvaguardia di Venezia in corso a

Palazzo Ducale. Eccolo nella sua completezza: Desidero esprimere sincera gratitudine per i contributi che, a seguito del disastroso evento dell’alluvione e dell’Aqua Granda del 1966, sono stati da voi offerti in termini economici e culturali e che hanno inciso in modo rilevante nell’opera di salvaguardia della città, risollevandola in molte sue “parti” dal degrado, dall’incuria e dagli effetti degli eventi atmosferici. Anche la

costanza e il rilievo di quest’impegno hanno certamente fatto sì che Venezia, città “liquida” per antonomasia, abbia potuto e possa tuttora risplendere - per usare la magistrale immagine del Santo Padre Benedetto XVI durante la sua visita del 2011 -

come città “della vita e della bellezza”, ovvero “una città che rinnova costantemente la sua bellezza attingendo dalle sorgenti benefiche dell’arte, del sapere, delle

relazioni tra gli uomini e tra i popoli”. Tutta la città di Venezia - come Voi ben sapete - è un grande, splendido ed anche complicato tesoro e patrimonio artistico,

architettonico, culturale. E tali tesori e patrimoni sono spesso di natura ecclesiale, toccano quindi la comunità cristiana di questa città, riguardano tante opere e tanti

edifici sacri utilizzati per il culto e che hanno beneficiato, da allora, di questa ondata benefica così essenziale per la tutela e la conservazione di tale ingente patrimonio. Di tutto questo, ancora, Vi ringrazio e soprattutto per il fatto di ricordarci ogni volta che

Venezia è davvero città del mondo e “casa comune” - luogo che appartiene ai veneziani e a tutti – e come tale va vissuta, salvaguardata, difesa e fatta crescere, trattando con delicatezza e rispetto, con amore ed impegno attivo, questa nostra

città. Ma non può sfuggire il fatto che in questi 50 anni Venezia abbia progressivamente e notevolmente cambiato volto, per una serie di fenomeni ben noti:

la forte riduzione della popolazione residente, l'incremento esponenziale della mobilità e del turismo con tutta la serie di benefici ma anche di problematiche che

comportano, la profonda trasformazione post-industriale del suo territorio circostante ecc. Tutto ciò ha inciso e determina di continuo conseguenze importanti per la vita

della città, per la vita della nostra Chiesa ed anche, quindi, sulla tutela e salvaguardia del nostro patrimonio e dei luoghi di culto. Come Patriarcato di Venezia siamo da qualche tempo impegnati in un processo di rinnovamento pastorale che interessa

perciò, in modo significativo, le modalità di presenza e di intervento della comunità ecclesiale sul territorio - di cui fa parte ed è responsabile - nonché la gestione e la

valorizzazione delle risorse e dei beni a nostra disposizione e sotto la nostra responsabilità, in primis (in particolare nella città storica) quelli di natura artistico e culturale. La Chiesa di Venezia è, infatti, decisamente orientata verso la costituzione

– anche nel centro storico della realtà lagunare - delle cosiddette “collaborazioni pastorali interparrocchiali” che permetteranno (in certi casi già sta avvenendo) di condividere – sostenendosi a vicenda e mettendo in comune forze e risorse (anche umane) – ambiti ed impegni pastorali nei quali, da soli, ormai non è più possibile operare in modo efficace. Il valore di tale processo di collaborazione e maggiore

sinergia tra parrocchie diventa evidente e vitale in una città come Venezia dove il numero di edifici sacri è enorme per quantità e notevolissimo per qualità dei tesori – spesso degli autentici capolavori - in essi custoditi. Restiamo convinti che non ci può

essere restauro di una chiesa senza (prima) una comunità “viva” che se ne faccia carico, che ne custodisca la bellezza e la valorizzi nel culto e non solo. Un edificio

senza vita non è mai tutelato e valorizzato ed è destinato all'abbandono. Come lo è un edificio che non ha, alle spalle, una comunità reale che se ne fa carico. Come ho già avuto modo di dire in altre occasioni, è importante ricordare che, a Venezia, vi sono problemi conservativi urgenti che riguardano molte chiese e che il loro numero (un

centinaio in città e oltre 200 nell'intera Diocesi) richiede di riflettere su una

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razionalizzazione del loro ruolo liturgico e pastorale, spesso anche a fronte dell’innegabile flessione demografica (specialmente del centro storico). Sarà quindi necessario individuare gli edifici che, effettivamente, non rispondono più a specifici

bisogni pastorali ed è compito della Chiesa locale individuare soluzioni e proposte per rendere “utili” - ad esempio in ambito culturale e caritativo - alla stessa collettività

quei luoghi, senza far perdere mai la loro dimensione simbolica in nome di un funzionalismo o “polivalenza” che non solo li impoverisce ma addirittura li snatura. Il

cammino di collaborazione pastorale tra le comunità parrocchiali della città che iniziamo ad attivare ha presente questa istanza e punta, quindi, sia a far crescere la sensibilità comune tutelando e valorizzando il patrimonio sia garantendo la presenza

di persone preparate quali interlocutori affidabili – specialmente in fase di progettazione e gestione degli interventi – nei confronti di chiunque sia interessato e

disponibile ad offrire contributi e risorse in tal senso. Le necessità del patrimonio ecclesiastico risultano – come si diceva – ingenti e i contributi, specie quelli pubblici, sono assai ridotti. Anche alcuni strumenti fiscali – lo rileviamo con rammarico - spesso

non sono applicabili al patrimonio ecclesiastico che, seppur di fruizione pubblica, viene considerato proprietà “privata” e quindi escluso da benefici fiscali che molto

gioverebbero ai fini della sua corretta salvaguardia. In tale contesto, dunque, il generoso supporto dei Comitati Privati per la salvaguardia di Venezia è non solo molto prezioso ma anche decisivo, come esempio di gratuità nella tutela di una bellezza che racconta di noi e delle nostre radici e che, nel suo contenuto più profondo, mostra il

genio e la creatività dell'uomo nel custodire ed anche continuare e sviluppare "l'opera della creazione" che ci è consegnata, posta nelle nostre mani e affidata alla nostra sensibilità e responsabilità. Confido, in conclusione, che sempre grazie a Voi tale

ondata benefica di solidarietà economica e culturale possa continuare a svilupparsi - magari con le modalità nuove che i nuovi tempi richiedono - e a generare ulteriori e splendidi segni di attenzione e di concreto impegno per far sì che Venezia continui, ogni giorno di più, a brillare come città “della vita e della bellezza” dai tratti unici e

inconfondibili” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 6 Dinamiche comunicative di Dario Edoardo Viganò Per abbattere i muri dell’incomprensione Pag 7 Il male non si vince col male Nuovo monito del Pontefice contro la mentalità mafiosa basata sulla vendetta WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Egitto, quando Paolo VI restituì ai copti le reliquie di san Marco di Luis Badilla e Francesco Gagliano Un gesto straordinario di Papa Montini sullo sfondo del pellegrinaggio di Francesco nel Paese africano “False le voci sulle pressioni per far rinunciare Benedetto XVI” di Andrea Tornielli Georg Gänswein intervistato da Matrix smentisce le ultime illazioni sulle dimissioni: «Era una decisione libera. Le cose che si sono lette recentemente sono inventate». I due Papi? «Il Papa è uno, Ratzinger lo è stato e ha rinunciato» 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pagg 20 – 21 I figli badanti di Lorenzo Salvia Sono un milione gli italiani che in casa assistono i genitori non più autosufficienti Pag 25 L’affitto e un motorino usato spiegano cosa non va in Italia di Fadi Hassan

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Un economista racconta l’arrivo a Roma da Londra: “Troppi balzelli” AVVENIRE Pag 1 Oltre i tirocini di Francesco Seghezzi e Michele Traboschi Lavoro: altra faccia del caso Italia Pag 9 Il crescente malessere delle seconde generazioni, Giovani italiani in cerca di una nuova identità, in conflitto con regole imposte e non accettate di Asmae Dachan LA NUOVA Pag 7 Siamo un Paese a rischio, servono investimenti di Roberta Carlini 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 8 Il Comune chiude la moschea: abusiva di Giampaolo Bonzio e Fulvio Fenzo Mestre, sanatoria impossibile per il centro frequentato da uno degli arrestati per terrorismo. Sarà individuato un altro stabile Pag 9 Il patriarca: “Chiese vuote, utilizziamole anche per altro” di Giorgia Pradolin Moraglia: dobbiamo trovare soluzioni per rendere “utili” gli edifici senza fedeli IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag II Il caos degli zaini senza controllo di Giorgia Pradolin A San Marco nessuno ispeziona i bagagli depositati a San Basso da chi deve entrare in basilica Pag III Quel negozio non sarà più moschea di Fulvio Fenzo e Davide Tamiello Diffida del Comune ai bengalesi di via Fogazzaro tre giorni per rimuovere tutto o scattano i sigilli. La mappa dei fedeli di Allah, ritrovi culturali o di preghiera Pag XXVI Comitati privati contro l’Unesco: “Richieste esose, siamo in crisi” di Giorgia Pradolin Affondo del presidente. Nel 2017 ci saranno 5 milioni per i restauri LA NUOVA Pagg 2 – 3 Chiude la moschea di via Fogazzaro di Marta Artico e Carlo Mion Domani ultimo venerdì di preghiera. Il sindaco si attiverà per trovare una sede più adeguata. Allerta attentati, sarà una Pasqua blindata. Inchieste sempre più frequenti: “Le donne italiane accusano di Jihad i mariti musulmani” Pag 21 Accordi con i privati per il riutilizzo delle chiese chiuse di Enrico Tantucci L’annuncio del Patriarca per garantire la conservazione. Si accetteranno proposte “in ambito culturale o caritativo”. I Comitati privati “scaricano” l’Unesco CORRIERE DEL VENETO Pag 7 Curia, un piano per le chiese vuote: “Fondi per i restauri, è emergenza” di E. Lor. Assemblea dei Comitati privati, è rottura con l’Unesco: costi alti Pag 9 Chiude la moschea contestata: “Va spostata in un altro sito” di Alice D’Este I bengalesi: ok, ma sia accessibile. Più “occhi” a Mestre 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 13 Prima i veneti anche in ospizio di Alda Vanzan

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Dopo la legge sugli asili si punta alle corsie preferenziali anche per i servizi alla persona 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 14 di Gente Veneta in uscita venerdì 7 aprile 2017: Pagg 1, 5 «Corriamo tutti verso il Risorto» Esce la nuova lettera pastorale del Patriarca Francesco. L’invito di mons. Moraglia, che annuncia l’inizio della Visita a tutte le realtà ecclesiali del territorio veneziano Pag 1 Ma io sono pronto a uccidere? di Giorgio Malavasi Pag 1 Abbandono e caffè, storie di scuola di Giulia Busetto Pag 3 Veneto, nuova legge per la scuola: «L’autonomia la completa» di Giorgio Malavasi Sarà pienamente operativa dall’anno scolastico 2018-19. L’assessore Elena Donazzan: «La data d’inizio e le sospensioni delle lezioni varieranno da zona a zona. Come in Germania, vorrei scuole aperte anche d’estate. Arriverà un giudizio, con relativo rating, anche per i licei e gli istituti tecnici» Pag 8 Unitalsi: quarant’anni a Lourdes nel viaggio con il Patriarca di Sandro Vigani Dodici sacerdoti, una settantina di ammalati, un totale di 400 pellegrini da diverse diocesi. La sottosezione interaziendale, nata tra le fabbriche di Porto Marghera su iniziativa dei cappellani del lavoro e di alcuni laici impegnati nel sociale, viaggerà per il 40° anno verso il santuario di Lourdes Pag 9 Attenzione ai disabili e formula take away: arriva il Grest 2017 di Giulia Busetto Sarà capace di plasmarsi alle esigenze di ogni parrocchia la nuova edizione del Grest diocesano. Dal neonato sito www.happyhope.it è scaricabile tutto il succo delle attività. Don Mattiuzzi: «Quest’anno forniamo la sceneggiatura per chi decide di farlo in quattro, in due, ma anche in più settimane» Pag 10 Diritto canonico, la Facoltà cresce: gli studenti ora sono 135 di Alessandro Polet Sono adesso 56 gli iscritti con l’obiettivo di conseguire la licenza e 79 quelli che puntano al dottorato. Una cinquantina gli stranieri, soprattutto dall’Africa e dall’Est Europa. L’intervento del Patriarca: «Il prete non è solo capacità pastorali, organizzative, teologiche o amministrative; è sempre qualcosa di più, è il segno di Gesù nella Chiesa e nel mondo» Pag 12 L’osservatorio Cavanis conferma: «Il clima cambia troppo in fretta» di Marta Gasparon Un grado in più, di media, nelle temperature massime, fra gli anni ’50 e oggi. Un grado e mezzo in più nelle temperature minime, sempre fra gli anni '50 e oggi. E’ la prova provata, grazie ai dati dell’osservatorio dei padri Cavanis, di come il clima stia cambiando, anche a Venezia. Il meteorologo Corte: «Presto potremmo raggiungere un “punto di non ritorno”» Pag 15 Reclusi in lacrime al primo ritiro nella storia del carcere veneziano di Giulia Busetto Nell’isola di S. Francesco del Deserto la gioia di tre detenuti della casa circondariale maschile. Per questa uscita straordinaria don Antonio Biancotto si è assunto la piena responsabilità. E i risultati gli hanno dato ragione. Saverio: «Spero di uscire presto dal carcere e di ritornare qui da uomo libero»

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Pagg 18 – 19 Il murale che rende buona (e bella) la scuola di Chiara Semenzato In quindici giorni i ragazzi del liceo Guggenheim dipingono l’opera in un’aula dello Zuccante, non contenti hanno pensato anche all’ingresso. Una classe, 15 giorni, un’opera a piena parete: possibile grazie all’alternanza scuola-lavoro Pag 20 “Comunione, non fusione”: cifra della collaborazione jesolana di Giampaolo Rossi Una messa comune ha dato il via alla collaborazione pastorale tra S. Giovanni Battista di Jesolo, S. Maria Assunta di Passarella, S. Giuseppe di Cortellazzo e la rettoria di Ca’ Fornera. Don Gianni Fassina: «Ciascuna comunità si presenta con la sua identità, la sua storia e i suoi limiti. E’ tutto questo che dobbiamo mettere insieme. Per essere capaci di una testimonianza vera e autentica dell’amore di Dio per gli uomini» … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 3 Quei passi falsi di Steve. E Donald avverte il suo “Rasputin” di Massimo Gaggi Pag 5 “Attacco chimico”. Diario di un medico di Marta Serafini Minuto per minuto così le squadre di Medici Senza Frontiere hanno soccorso i feriti Pag 30 Il blocco sociale di Trump è un puzzle da ricomporre di Mauro Magatti LA REPUBBLICA Pag 1 La nebbia in Parlamento di Stefano Folli AVVENIRE Pag 3 Chi è Xi, il leader “centrale” dall’ambizione imperiale di Stefano Vecchia Il presidente cinese, popolare ed elitario, Un nuovo Mao? Pag 6 Fine vita, legge equivoca tra nodi e dubbi di Marcello Palmieri I punti critici IL FOGLIO Pag IV “Convertitevi all’islam e sarete liberi”. Così il magistrato pachistano interrogava i cristiani di Matteo Matzuzzi IL GAZZETTINO Pag 1 Via il falco Bannon, la svolta di Trump al banco di prova di Mario Del Pero Pag 21 Una bomba atomica sotto Gentiloni per andare a votare di Alberto Gentili LA NUOVA Pag 1 Gli interessi sul destino di Assad di Renzo Guolo Pag 1 Convivenza e tolleranza, quali limiti di Vincenzo Milanesi

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Molti si chiedono perché Papa Francesco sia ascoltato e capito dalle folle, tanto diverse per cultura, sensibilità, estrazione sociale, appartenenza religiosa. La ragione è molto semplice: Papa Francesco usa un linguaggio comprensibile a tutti. Facciamo degli esempi semplicissimi. Quando saluta dicendo «buongiorno» oppure «buonasera» usa formule quotidiane, che sono sulla bocca di tutti, dalla persona più elevata socialmente a quella più semplice. Lo stesso succede quando augura «buon pranzo», quando raccomanda di usare espressioni come «grazie», «scusa», «per favore», oppure quando invita «pregate per me». Tocca situazioni umane, la vita familiare, le relazioni di lavoro, di amicizia, di affetto, in cui tutti ci ritroviamo. Adotta lo stesso schema anche quando parla di Dio, di Gesù, della Madonna, e ripete che Dio ci perdona sempre, che è come un Padre tenero che non si stanca di noi; Gesù ci ama, la sua misericordia non ha limiti, ci aspetta sempre; la Madonna è la nostra mamma, ci accarezza, viene in nostro soccorso quando la vita ci riserva dei momenti tristi e dolorosi. Sono tutte espressioni e immagini che invitano chiunque sia in ascolto a tendere l’orecchio perché sono immediatamente comprensibili, non escludono nessuno, non richiedono un lessico particolarmente ricco o sofisticato, non creano separazioni, non mettono in difficoltà, lasciano lo spazio e il tempo affinché ognuno possa portare nel proprio cuore quanto ha ascoltato e lo rielabori secondo i propri ritmi. Papa Francesco non mette scadenze, non crea antagonismi, non esprime giudizi, anzi, mostra pazienza, tende la mano, incoraggia, indica la meta da raggiungere, facendo sentire che non siamo abbandonati, che Gesù è sempre al nostro fianco. Questa pedagogia della fede, che privilegia il tempo e i tempi delle persone, testimonia una grande capacità di ascolto, per imparare e rispettare i passi dell’altro, altrimenti il centro sarò sempre io e il prossimo rimarrà nelle periferie del mio “ego”. A questo proposito, in maniera più lucida e illuminante, Papa Francesco ci dice: «Il dialogo permette alle persone di conoscersi e di comprendere le esigenze gli uni degli altri. Anzitutto, esso è un segno di grande rispetto, perché pone le persone in atteggiamento di ascolto e nella condizione di recepire gli aspetti migliori dell’interlocutore. In secondo luogo, il dialogo è espressione di carità, perché, pur non ignorando le differenze, può aiutare a ricercare e condividere il bene comune. Inoltre, il dialogo ci invita a porci dinanzi all’altro vedendolo come un dono di Dio, che ci interpella e ci chiede di essere riconosciuto» (udienza generale, 22 ottobre 2016). Per rimanere nel solco della condivisione della vita reale, non virtuale, delle persone, è necessario adottare l’immagine pregnante che Papa Francesco usa in riferimento ai pastori del popolo di Dio: «Assumere l’odore delle pecore». In altre parole, non possiamo pensare di ascoltare le persone tenendole a distanza. In questo modo si possono assumere delle informazioni, ma non certo metterci al servizio degli altri, fino ad assumerne la vita. Quando parliamo, per esempio, dell’ascolto del grido dei poveri, siamo chiamati a interrogarci sulla situazione di ingiustizia e di disuguaglianza che caratterizza il nostro tempo e sul fatto che accettare questa condizione sia per il credente un peccato e, dunque, una responsabilità rispetto a tale situazione. In questo senso, credo che Papa Francesco parli di «paganesimo individualista» (cfr. Evangelii gaudium, 195) e di una «globalizzazione dell’indifferenza» (cfr. Evangelii gaudium, 54). Se infatti esistono milioni e milioni di persone che vengono escluse e ridotte a “scarto”, alla stregua della merce di consumo, è perché esiste il peccato di chi vive in modo egoistico; ed è perché un tale individualismo si trasforma addirittura in dimensione strutturale, il peccato personale assume una dimensione sociale travolgendo anche l’altro. C’è, infatti, nell’analisi offerta da Papa Francesco la consapevolezza che la crisi economica e, dunque, di umanità che il mondo sta attraversando non è riconducibile soltanto a chiusure e peccati di singoli: essa è dovuta a qualcosa che tocca le stesse strutture e a un male che si espande divenendo esso stesso strutturale. Dice sempre il Papa: «Come il bene tende a comunicarsi, così il male a cui si acconsente, l’ingiustizia, tende ad espandere la sua forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di qualsiasi sistema politico e sociale, per quanto solido possa apparire. Se ogni azione ha delle conseguenze, un male annidato nelle strutture di una società contiene sempre un potenziale di dissoluzione e di morte» (Evangelii gaudium, 59). Per questo è importante mettersi in ascolto del popolo di Dio, in particolare dei laici, che sono la maggioranza e sono maggiormente toccati dalle conseguenze di queste strutture sociali distorte. Papa Francesco incontrando l’11 marzo scorso i volontari di Telefono Amico così si esprimeva: «Condizione del dialogo è la capacità di ascolto, che purtroppo non è molto comune. Ascoltare l’altro richiede

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pazienza e attenzione. Solo chi sa tacere, sa ascoltare. Non si può ascoltare parlando: bocca chiusa. Ascoltare Dio, ascoltare il fratello e la sorella che ha bisogno di aiuto, ascoltare un amico, un familiare. Dio stesso è l’esempio più eccellente di ascolto: ogni volta che preghiamo, Egli ci ascolta, senza chiedere nulla e addirittura ci precede e prende l’iniziativa (cfr. Evangelii gaudium, 24) nell’esaudire le nostre richieste di aiuto. L’attitudine all’ascolto, di cui Dio è modello, ci sprona ad abbattere i muri delle incomprensioni, a creare ponti di comunicazione, superando l’isolamento e la chiusura nel proprio piccolo mondo. Qualcuno diceva: per fare la pace, nel mondo, mancano le orecchie, manca gente che sappia ascoltare, e poi da lì viene il dialogo». Sono esortazioni che assumono un valore universale e ci aiutano a comprendere che cosa significhi, all’interno della Chiesa, mettersi in ascolto. Diventa, quindi, urgente, imparare l’ascolto da persona a persona, come avviene nelle famiglie, affinché la vita di ciascuno sia condivisa da tutti e le scelte siano frutto della comunione e del cammino fatto insieme. Solo così è possibile generare un diverso modo di sentire, di pensare, di agire, cioè uno stile di vita che ci distingua in quanto discepoli di un unico Maestro, il Cristo. I laici, che vivono più immersi nella storia, possono aiutarci a rivolgere uno sguardo nuovo sul mondo, sulla realtà, su noi stessi, sugli altri, sul tempo e sugli spazi. In questo senso parlare della possibilità di cambiare la qualità dei rapporti umani, a partire da un incontro che ha cambiato il corso della nostra esistenza e ci ha spalancato l’orizzonte delle Beatitudini come criterio di vita, di incontro, di ascolto, di condivisione. Questo ci chiede di aprirci alla dimensione comunitaria, cioè di liberarci da una fede vissuta come battitori liberi, che hanno la pretesa di vivere il Vangelo da soli. Pag 7 Il male non si vince col male Nuovo monito del Pontefice contro la mentalità mafiosa basata sulla vendetta «Non rispondiamo al male col male, ma perdonando, senza vendetta». È l’invito rivolto da Papa Francesco ai fedeli che hanno partecipato all’udienza generale di mercoledì 5 aprile, in piazza San Pietro. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! La Prima Lettera dell’apostolo Pietro porta in sé una carica straordinaria! Bisogna leggerla una, due, tre volte per capire, questa carica straordinaria: riesce a infondere grande consolazione e pace, facendo percepire come il Signore è sempre accanto a noi e non ci abbandona mai, soprattutto nei frangenti più delicati e difficili della nostra vita. Ma qual è il “segreto” di questa Lettera, e in modo particolare del passo che abbiamo appena ascoltato (cfr. 1 Pt 3, 8-17)? Questa è una domanda. So che voi oggi prenderete il Nuovo Testamento, cercherete la prima Lettera di Pietro e la leggerete adagio adagio, per capire il segreto e la forza di questa Lettera. Qual è il segreto di questa Lettera? Il segreto sta nel fatto che questo scritto affonda le sue radici direttamente nella Pasqua, nel cuore del mistero che stiamo per celebrare, facendoci così percepire tutta la luce e la gioia che scaturiscono dalla morte e risurrezione di Cristo. Cristo è veramente risorto, e questo è un bel saluto da darci nel giorno di Pasqua: “Cristo è risorto! Cristo è risorto!”, come tanti popoli fanno. Ricordarci che Cristo è risorto, è vivo fra noi, è vivo e abita in ciascuno di noi. È per questo che san Pietro ci invita con forza ad adorarlo nei nostri cuori (cfr. v. 16). Lì il Signore ha preso dimora nel momento del nostro Battesimo, e da lì continua a rinnovare noi e la nostra vita, ricolmandoci del suo amore e della pienezza dello Spirito. Ecco allora perché l’Apostolo ci raccomanda di rendere ragione della speranza che è in noi (cfr. v. 16): la nostra speranza non è un concetto, non è un sentimento, non è un telefonino, non è un mucchio di ricchezze! La nostra speranza è una Persona, è il Signore Gesù che riconosciamo vivo e presente in noi e nei nostri fratelli, perché Cristo è risorto. I popoli slavi quando si salutano, invece di dire “buongiorno”, “buonasera”, nei giorni di Pasqua si salutano con questo “Cristo è risorto!”, “Christos voskrese!” dicono tra loro; e sono felici di dirlo! E questo è il “buongiorno” e il “buonasera” che si danno: “Cristo è risorto!”. Comprendiamo allora che di questa speranza non si deve tanto rendere ragione a livello teorico, a parole, ma soprattutto con la testimonianza della vita, e questo sia all’interno della comunità cristiana, sia al di fuori di essa. Se Cristo è vivo e abita in noi, nel nostro cuore, allora dobbiamo anche lasciare che si renda visibile, non nasconderlo, e che agisca in noi. Questo significa che il Signore Gesù deve diventare

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sempre di più il nostro modello: modello di vita e che noi dobbiamo imparare a comportarci come Lui si è comportato. Fare quello che faceva Gesù. La speranza che abita in noi, quindi, non può rimanere nascosta dentro di noi, nel nostro cuore: ma, sarebbe una speranza debole, che non ha il coraggio di uscire fuori e farsi vedere; ma la nostra speranza, come traspare dal Salmo 33 citato da Pietro, deve necessariamente sprigionarsi al di fuori, prendendo la forma squisita e inconfondibile della dolcezza, del rispetto, della benevolenza verso il prossimo, arrivando addirittura a perdonare chi ci fa del male. Una persona che non ha speranza non riesce a perdonare, non riesce a dare la consolazione del perdono e ad avere la consolazione di perdonare. Sì, perché così ha fatto Gesù, e così continua a fare attraverso coloro che gli fanno spazio nel loro cuore e nella loro vita, nella consapevolezza che il male non lo si vince con il male, ma con l’umiltà, la misericordia e la mitezza. I mafiosi pensano che il male si può vincere con il male, e così fanno la vendetta e fanno tante cose che noi tutti sappiamo. Ma non conoscono cosa sia umiltà, misericordia e mitezza. E perché? Perché i mafiosi non hanno speranza. Pensate a questo. Ecco perché san Pietro afferma che «è meglio soffrire operando il bene che facendo il male» (v. 17): non vuol dire che è bene soffrire, ma che, quando soffriamo per il bene, siamo in comunione con il Signore, il quale ha accettato di patire e di essere messo in croce per la nostra salvezza. Quando allora anche noi, nelle situazioni più piccole o più grandi della nostra vita, accettiamo di soffrire per il bene, è come se spargessimo attorno a noi semi di risurrezione, semi di vita e facessimo risplendere nell’oscurità la luce della Pasqua. È per questo che l’Apostolo ci esorta a rispondere sempre «augurando il bene» (v. 9): la benedizione non è una formalità, non è solo un segno di cortesia, ma è un dono grande che noi per primi abbiamo ricevuto e che abbiamo la possibilità di condividere con i fratelli. È l’annuncio dell’amore di Dio, un amore smisurato, che non si esaurisce, che non viene mai meno e che costituisce il vero fondamento della nostra speranza. Cari amici, comprendiamo anche perché l’Apostolo Pietro ci chiama «beati», quando dovessimo soffrire per la giustizia (cfr. v. 13). Non è solo per una ragione morale o ascetica, ma è perché ogni volta che noi prendiamo la parte degli ultimi e degli emarginati o che non rispondiamo al male col male, ma perdonando, senza vendetta, perdonando e benedicendo, ogni volta che facciamo questo noi risplendiamo come segni vivi e luminosi di speranza, diventando così strumento di consolazione e di pace, secondo il cuore di Dio. E così andiamo avanti con la dolcezza, la mitezza, l’essere amabili e facendo del bene anche a quelli che non ci vogliono bene, o ci fanno del male. Avanti! WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Egitto, quando Paolo VI restituì ai copti le reliquie di san Marco di Luis Badilla e Francesco Gagliano Un gesto straordinario di Papa Montini sullo sfondo del pellegrinaggio di Francesco nel Paese africano La cattedrale ortodossa copta di San Marco, chiesa situata nel distretto di Abbasyia al Cairo (e perciò conosciuta anche come cattedrale di Abbassia o Abbasyia), è la sede del papa patriarca copto ortodosso Tawadros II. La chiesa è intitolata a San Marco Evangelista, considerato e venerato come il fondatore della Chiesa copta. Alcune sue reliquie sono conservate all’interno del tempio. Nel giugno 1968, papa Paolo VI fece restituire ai copti ortodossi dell’Egitto una parte delle reliquie dell’Evangelista a seguito di una richiesta del patriarca Cirillo VI in occasione delle celebrazioni dei millenovecento anni dal martirio di san Marco. Le reliquie del Santo furono trafugate nell’828 e portate a Venezia. Le parti restituite da Papa Montini furono «deposte con grande devozione» in un altare costruito proprio a questo scopo e si trovano tuttora lì. Nel tempio si venerano anche le reliquie di sant’ Atanasio, patriarca di Alessandria. I papi di Roma e i papi copti - Da questo momento i rapporti tra cattolici e copti cominciarono a crescere in profondità e frequenza; questo è un elemento da tenere in grande considerazione nella «lettura» del prossimo viaggio di Francesco in Egitto, dove come è noto incontrerà per la seconda volta suo fratello Tawadros II. Il primo incontro tra un papa e un patriarca ortodosso copto dell’Egitto risale al 10 maggio 1973. In tale occasione, in Vaticano, Paolo VI e Shenouda III firmarono un’importante «Dichiarazione» cristologica comune e dettero avvio al dialogo ecumenico bilaterale tra

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le due Chiese. La Dichiarazione iniziava con l’affermare che la Chiesa di Roma e la Chiesa di Alessandria condividono la stessa fede in Gesù Cristo, «Dio perfetto riguardo alla Sua Divinità, e perfetto uomo riguardo alla Sua umanità». L’incontro successivo, tra papa Shenouda III e san Giovanni Paolo II, ebbe luogo al Cairo nel febbraio del 2000, durante il pellegrinaggio giubilare. La riunione più recente, a distanza di quarant’anni dall’incontro dei loro predecessori (1973), è del 10 maggio 2013, quando papa Francesco e papa Tawadros II, entrambi recentemente eletti alla guida delle loro Chiese, si sono incontrati a Roma. Paolo VI - Papa Paolo VI, su san Marco, Evangelista che conosceva e amava molto, nella catechesi del 25 aprile 1967, disse: «La storia di Marco (di Giovanni, suo nome ebraico, detto Marco, nome latino; cf. Act. 12, 12) è interessantissima; s’intreccia forse con quella di Gesù, nell’episodio del ragazzo che, nella notte della cattura di Lui nell’orto degli ulivi, lo seguiva, dopo la fuga dei discepoli, coperto da un lenzuolo - per curiosità? per devozione? - ma quando coloro che avevano arrestato Gesù, fecero per afferrarlo, il ragazzo lasciò loro nelle mani il lenzuolo, e sgusciò via da loro (Marc. 14, 52). Ma soprattutto la storia di Marco si fonde con quella degli Apostoli: Paolo e Barnaba, specialmente, che egli segue a Cipro nella prima spedizione apostolica (era cugino di Barnaba), e che poi, forse stanco, forse impaurito, giunto a Perge, nella Pamfilia, egli abbandona per ritornarsene solo da sua madre, a Gerusalemme (Act. 13, 13). Paolo ne fu addolorato; tanto che non lo volle compagno, tre o quattro anni dopo, nel secondo viaggio, nonostante che Barnaba intercedesse; così che Barnaba e Marco lasciarono Paolo con Sila per navigare a Cipro (Act. 15, 37-40). Ma poi Paolo deve aver perdonato a Marco la sua prima infedeltà nella fatica apostolica, perché tre volte lo nomina amorevolmente nelle sue lettere (Philem. 24; Col. 4, 10; 2 Tim. 4, 11). E dei rapporti fra l’apostolo Pietro e Marco, oltre a quelli accennati, poco sappiamo; ma ci basta qui far nostra la conclusione della tradizione e degli studi moderni: il Vangelo di San Marco è una riproduzione scritta della catechesi narrativa dell’apostolo Pietro a Roma; esso riflette, senza intenti letterari, ma con grande semplicità e vivezza di particolari, i racconti di S. Pietro circa le memorie di lui; la sua documentazione è principalmente, se non la sola, la parola stessa dell’Apostolo, riportata come la relazione genuina d’un testimonio oculare, che conserva di Gesù la più immediata impressione». Cattedrale ortodossa copta di San Marco - È la più grande cattedrale dell’Africa e del Medio Oriente. In realtà con la dicitura «San Marco» si chiama un complesso di fabbricati religiosi facenti tutti parte della sede primaziale del Patriarcato copto. Fra queste costruzione c’è per esempio la piccola chiesa San Pietro e San Paolo dove l’Isis ha compiuto, l’11 dicembre 2016 (festa musulmana del Mawlid) un attentato che causò 25 vittime e decine di feriti. L’inaugurazione della cattedrale ebbe luogo il 25 giugno 1968 in una cerimonia alla quale presero parte il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser e il monarca etiope Haile Selassie. I terreni dove sorge il complesso di San Marco, dove lungo i secoli sono stati costruiti, rimodellati e abbattuti numerosi fabbricati, furono concessi alla Chiesa ortodossa copta nel lontano 969 dal generale Gawhar, il conquistatore del nord Africa per conto della dinastia dei Fatimidi e fondatore della stessa città del Cairo, nonché della moschea università di al-Azhar. Si trattò di una compensazione per i terreni tolti per costruire il «Palazzo di Ma’ad al-Muizz Li-Deenillah», grande opera che rientrava nei piani urbanistici della nuova capitale d’Egitto. Nel XII secolo sull’area sorgevano già dieci chiese copte, gran parte delle quali però furono distrutte tempo dopo, durante il regno di Qalawun, il 18 febbraio 1280. Attualmente nell’area ci sono sette chiese tra cui, oltre a San Marco, Pietro e Paolo, la famosa chiesa Anba Rouis’ costruita nel XIV. Il suo nome originale, San Mourkious, cambiò dopo che Anba Rouis fu sepolto in questo luogo nel 1404. Ogni giorno migliaia di persone visitano questa chiesa per chiedere la benedizione e l’intercessione del Santo. “False le voci sulle pressioni per far rinunciare Benedetto XVI” di Andrea Tornielli Georg Gänswein intervistato da Matrix smentisce le ultime illazioni sulle dimissioni: «Era

una decisione libera. Le cose che si sono lette recentemente sono inventate». I due Papi? «Il Papa è uno, Ratzinger lo è stato e ha rinunciato»

Si avvicina il giorno del novantesimo compleanno di Benedetto XVI e monsignor Georg Gänswein, Prefetto della Casa Pontificia e suo segretario particolare, smentisce tutte le

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voci e le recenti interviste sulle presunte pressioni per far rinunciare Joseph Ratzinger. Gänswein ha rilasciato un'intervista alla trasmissione Matrix, in onda in seconda serata su Canale 5 mercoledì 5 aprile 2017. Rispondendo alle domande del vaticanista Fabio Marchese Ragona, il segretario del Papa emerito affronta il tema delle voci sulle presunte pressioni del governo americano durante la presidenza di Barack Obama per spingere alle dimissioni Papa Benedetto XVI. Voci e complotti rilanciati di recente in alcuni articoli e interviste, dalle quali Papa Ratzinger finiva per apparire un debole. «Non è per niente vero, è inventato, è un’affermazione senza fondamento - ha detto don Georg - Io ho parlato anche con Papa Benedetto dopo questa intervista e queste voci, ha detto che non è vero. La rinuncia era una decisione libera, ben pensata, ben riflettuta e anche ben pregata. Queste cose che si sono lette recentemente sono inventate e non sono vere. Papa Benedetto non è la persona che cede a delle pressioni. Tutt’altro. Quando ci sono state sfide e quando si è dovuto difendere sia la dottrina sia il popolo di Dio è proprio lui che si è comportato in modo esemplare: non è fuggito quando è arrivato il lupo, ma ha resistito, e questo non sarebbe mai stato motivo per lasciare il pontificato e rinunciare». Nell'intervista Gänswein parla anche del rapporto tra Francesco e il predecessore: «Sono rapporti molto cordiali, molto buoni, ci sono visite, si parlano, si sentono. È chiaro: Papa Francesco è il successore di Pietro. Papa Benedetto è stato il Papa, ha rinunciato e si è ritirato per pregare. Pregare vuol dire aiutare il suo successore e la Chiesa, perché la Chiesa non viene governata soltanto con le parole e le decisioni, ma anche con la preghiera e con la sofferenza. Ed è quello che lui fa adesso. Non c'è nessun malinteso. Se ci sono delle interpretazioni diverse, qualche volta anche un po' maliziose, questa... è la vita, è il mondo e anche la Chiesa. Non vedo nessuna confusione. Vedo qualche volta qualche nostalgia e qualche malinteso, però una confusione riguardo ai ruoli, riguardo a chi è il Papa, io questo non lo percepisco». Il segretario particolare di Benedetto XVI ha risposto anche una domanda sulla “lobby gay“ in Vaticano. «La lobby gay, non credo che sia una lobby di potere - ha detto - Si è cercato di rimediare e di dare la risposta necessaria». Ma «è stata esagerata l'importanza di questo gruppo, è stata data una risposta e una soluzione a suo tempo. Parlare di lobby di potere è non soltanto esagerato, ma cento volte esagerato!». Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pagg 20 – 21 I figli badanti di Lorenzo Salvia Sono un milione gli italiani che in casa assistono i genitori non più autosufficienti Eroi per casa. Figli che prendono un pezzo della loro vita e lo regalano ai genitori ormai anziani. Come si faceva una volta, quando i vecchietti in casa erano la regola e nessuno la metteva in discussione. Come si fa ancora adesso, in silenzio e incastrando tutti gli impegni di una vita che nel frattempo è diventata più complicata. Sono storie di amore e dedizione quelle dei parenti badanti. Storie di sacrifici e rinunce, a volte di eroismo, spesso di sofferenza. In silenzio anche questa, ma sarebbe meglio di no. Un milione - Le stime dicono che sono almeno un milione gli italiani che dedicano un pezzo importante delle loro giornate (e nottate) ad assistere parenti non più autosufficienti. Un numero simile a quello delle badanti di professione, tra regolari e in nero. Seduti in salotto o vicino al letto, passano ore e ore con i genitori che la malattia o anche solo l’età ha fatto tornare bambini. Cucinano, li aiutano a lavarsi, a vestirsi, controllano le medicine, li accompagnano dal dottore. Proprio come un tempo quella mamma e quel papà facevano con loro. Uno scambio di ruoli, quasi un cerchio che si chiude. Saranno sempre di più - Sono tanti gli eroi per casa. E saranno sempre di più. Alcune ragioni sono intuitive: la vita media si sta allungando, ormai in Europa siamo secondo soli alla Spagna. Altre sono più sottili, ma forse più importanti. Il punto decisivo è la speranza di vita senza limitazioni nelle attività. Traduzione: per quanti anni possiamo vivere senza l’aiuto degli altri una volta superati i 65 anni? In Italia non arriviamo a 8 anni, uno in meno rispetto alla media europea. Quasi la metà rispetto a Paesi come la

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Svezia e la Danimarca, molto meno anche di Malta e Irlanda che non hanno certo un welfare scandinavo. Viviamo di più, e di questo siamo contenti. Ma invecchiamo peggio, e di questo non ci occupiamo abbastanza. Il risultato è che aumentano le persone da assistere. Solo i malati di Alzheimer superano ormai in Italia quota 600 mila. Mentre sono sempre meno le famiglie che riescono a permettersi una badante fissa, soprattutto se in regola. Una questione di sopravvivenza - Il costo di una badante in regola, stipendio e contributi, si aggira sui 15 mila euro l’anno. Quasi nulla può essere scaricato dalle tasse a differenza di quello che avviene in altri Paesi. Senza una buona pensione o un ottimo stipendio non è facile far quadrare i conti. «Per questo chiediamo di poter dedurre dalle tasse l’intero costo sostenuto per le badanti» dice Teresa Benvenuto, segretaria di Assindatcolf, l’Associazione dei datori di lavoro domestico. L’operazione consentirebbe alle famiglie di recuperare 5 mila euro l’anno. Ma il vento della politica soffia in direzione opposta, verso una riduzione degli sconti fiscali non verso un aumento. E con il lavoro che va come va, sono molti i figli che il badante lo fanno non solo per scelta ma anche per necessità. Almeno incassano quell’indennità di accompagnamento, poco più di 500 euro al mese, che si perde in caso di ricovero in un istituto. Non è solo una storia di amore, non è solo un cerchio che si chiude. A volte è anche una questione di sopravvivenza. Il secondo paziente - Che sia una scelta o una necessità, il figlio badante è un lavoro difficile e con le sue malattie professionali. Simone Franzoni è un geriatra di Brescia che si è spesso occupato della questione: «Ogni volta che prendiamo in carico un anziano non autosufficiente seguito a tempo pieno da un familiare, finiamo per avere non uno ma due pazienti». Spesso il figlio badante finisce in depressione. Specie se si tratta, termine crudo ma efficace, di un «assistente sandwich»: che deve badare, cioè, non solo ai genitori anziani ma anche ai figli ancora in casa. A parlare sono i dati di uno studio fatto in Emilia- Romagna dall’associazione «Anziani e non solo». Dice che in due casi su tre il parente badante ha almeno un sintomo tra insonnia, crisi di collera o di pianto, e stanchezza cronica. La metà dice di aver bisogno di aiuto. E forse sono quelli messi meglio, perché anche gli altri avrebbero bisogno di una mano. Ma non se ne accorgono oppure non lo vogliono ammettere. La contraddizione emotiva - «È il coinvolgimento emotivo che ti massacra» dice il dottor Franzoni, il geriatra di Brescia che ci ha parlato del secondo paziente. Passi tutto il tuo tempo con una persona che ha bisogno di un’attenzione costante e che spesso non ti riconosce più. Devi elaborare il distacco da tuo padre o da tua madre proprio quando la sua presenza è tornata continua, magari dopo anni di distacco. Una contraddizione emotiva troppo forte. Anche per un eroe. Il premio Nobel per la medicina Elizabeth Blackburn ha calcolato che i parenti badanti hanno un’aspettativa di vita tra i 9 e i 17 anni inferiore alla media. E alcune ricerche condotte in Inghilterra dicono che il 10% dei nostri eroi per casa chiede il part time mentre addirittura il 66% pensa di lasciare il lavoro. Tutti numeri contenuti nella relazione di un disegno di legge presentato un anno e mezzo fa al Senato. Un testo, firmato da parlamentari di diversi partiti, che propone di riconoscere il lavoro dei parenti badanti, obbligando lo Stato a versare i contributi per la loro pensione. La proposta è rimasta ferma, chissà se andrà mai avanti. Consigli per non crollare - Nel frattempo non resta che armarsi di coraggio. Negli Stati Uniti sono da tempo consapevoli del problema, al punto da aver creato una parola nuova per i parenti badanti: caregivers. I consigli della «National Family caregivers association» sono riducibili a un unico principio: state facendo una cosa bella e importante ma non annullate la vostra vita. Altrimenti le cose andranno peggio sia per voi sia per la persona cara che state assistendo. Una delle prime associazioni è stata fondata da Rosalynn Carter, moglie dell’ex presidente degli Stati Uniti Jimmy. Lei il problema l’aveva scoperto da bimba, quando suo padre si ammalò di leucemia. Dice Rosalynn che al mondo ci sono quattro tipi di persone: «Quelli che si sono presi cura di qualcuno, quelli che lo stanno facendo, quelli che lo faranno e quelli che ne avranno bisogno». Tocca a tutti, prima o poi. Per questo è importante chiedere un mano. Per aiutare il proprio caro, se uno può. Per aiutare sé stessi, se uno non ce la fa. Eroi sì, ma con giudizio.

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«L’altra notte mamma non riusciva a dormire. Allora l’ho cullata sulla carrozzina». E come si fa? «Semplice: metti i freni, tiri giù lo schienale, alzi le gambe. E poi muovi poco poco la carrozzina con il piede, come con i bambini piccoli. Si è addormentata subito. E lo sa cosa mi ha detto la mattina dopo?». Cosa? «Sei stata proprio una brava mamma. Le ho sorriso, ma mi veniva da piangere». Anna Cioffi, 56 anni, fa parte di una squadra invincibile. Con quattro sorelle e due fratelli assiste mamma Lucia, che ha 86 anni e vive a Brignano superiore, una frazione di Salerno. Anna sta a Roma, lavora a servizio. Ma quando può scende giù, si dà il cambio con i fratelli incrociando turni, riposi, impegni dei figli, e quel poco di vita che tutti riescono a fare. Uno schema flessibile che nessun algoritmo potrebbe mai immaginare. «Sono stata da lei tutto febbraio e metà marzo - racconta - e adesso mi sento meglio. Ho alleggerito quel senso di colpa che hanno tutti i figli lontani dai genitori anziani». Perché avete deciso di assistere vostra madre direttamente, senza l’aiuto di una badante? «Intanto siamo fortunati a essere una famiglia numerosa. Quando eravamo piccoli ci dicevano che eravamo troppi. Adesso ci invidiano». Ma non è solo per questo. «Nessun badante farà mai quello che fa un figlio. A mamma il pannolone glielo cambiamo ogni ora. Dove lo trovi un badante che fa lo stesso?». Qualche anno fa Anna ha assistito anche uno zio, Roberto: «Era come un padre. Mi aveva pure messo in regola, con la busta paga e i contributi. È meglio assistere una persona cara che uno sconosciuto. Lo fai con il cuore». «Papà sta a casa da me. Sono un paio d’anni che non mi riconosce più. A volte è dura: i giorni sono come le gocce, bucano anche la roccia. Ma cos’altro dovrei fare?». Maurizio Dini ha 60 anni e vive a Sant’Angelo in Vado, in quella terra di colline dolci chiamata Montefeltro, nelle Marche. È andato da poco in pensione, dopo 43 anni di lavoro in una grande falegnameria. Ha venduto la moto numero quindici della sua vita, una Honda Hornet 600 abbastanza gagliarda per la sua età («in effetti, non sono più un ragazzino»). E ha cominciato il suo nuovo lavoro. Badante a tempo pieno per il padre Gino, 92 anni. Una mano in casa ce l’ha: una signora che viene qualche ora ogni giorno. «Ma papà ha bisogno di assistenza 24 ore su 24. Il grosso lo faccio io con mia moglie». Mai pensato di farlo ricoverare in un istituto? «Ne ho uno a 50 metri da casa. Ma non ci penso proprio». Perché? «Ci sono stato, li ho visti gli istituti. E, fin quando ci riesco, io mio padre me lo tengo in casa. Mi ha aiutato a tirare su i miei figli. A volte il fine settimana andavo fuori con la moto e i bambini stavano con lui. Adesso sono io a restituirgli quello che mi ha dato». Pensa che, quando sarà, anche i suoi figli faranno lo stesso con lei? «Mia figlia ha 36 anni, mio figlio 28... non so. Sono una generazione tanto diversa». Però ci spera. «Io tengo papà in casa anche perché sono stato abituato così. Tutti i miei nonni sono stati con noi fino all’ultimo giorno. Sono morti in casa. Abbiamo sempre fatto così, per me è naturale...». La prova che, quando cresci i tuoi figli, non conta quello che dici ma quello che fai. In fondo, quello che sei. Pag 25 L’affitto e un motorino usato spiegano cosa non va in Italia di Fadi Hassan Un economista racconta l’arrivo a Roma da Londra: “Troppi balzelli” Sullo stato dell’economia italiano si alternano voci di esultanza ogni qualvolta la crescita del Pil si alza di alcuni decimi e voci di pessimismo che sottolineano l’ineluttabilità del nostro declino. In un’ottica di realismo, il dato che sintetizza al meglio la traiettoria economica del nostro Paese è il Pil pro capite in relazione agli Stati Uniti a parità di potere d’acquisto. Il grafico è una disarmante linea rossa a palombella. Dopo il picco del 1991 in cui il nostro reddito pro capite era l’86% di quello americano, l’Italia ora ha un reddito che è il 63% di quello degli Usa. È lo stesso livello che avevamo nel 1961: nell’ultimo ventennio siamo tornati indietro di 55 anni. Si tratta di un declino troppo marcato e prolungato per essere ascrivibile a una sola causa. Quindi, è improbabile che ci sia un’unica soluzione che risolva i nostri problemi, sia essa l’uscita dall’euro o il Jobs act. Anche se non c’è una «silver bullet» questo non vuol dire che non ci sia niente da fare o che le riforme messe in atto negli ultimi anni - fra cui lo stesso Jobs act - siano inutili. Vuol dire però che è necessario agire su più fronti. La lista delle cose che andrebbero fatte è nota e si incentra su parole chiave come produttività, cultura manageriale e meritocrazia. In alcuni casi si tratta di riforme economiche, in altri è una questione culturale di più lungo periodo, dove la politica tout-court deve fare da traino.

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Da un punto di vista pragmatico però, la domanda che conta è: cosa si può fare in un contesto di vincoli di spesa e quando c’è un governo in scadenza che ci sta accompagnando ad elezioni nel 2018? In realtà ci sono diverse riforme importanti che un governo può fare con un costo economico limitato e spendendo un po’ di capitale politico. Il punto che vorrei toccare riguarda la «misallocation» (ossia un’erronea allocazione) della domanda aggregata dovuta a posizioni di rendita. Ci sono delle distorsioni di mercato, che toccano diversi aspetti della nostra vita quotidiana, che ci portano a spendere troppo in settori a bassissima produttività e che coinvolgono pochi lavoratori. Questo porta ad una cattiva allocazione di una parte dei nostri consumi, che potrebbero essere diretti ad attività che generano un ritorno più virtuoso per l’economia nel suo aggregato. Faccio alcuni esempi concreti che mi hanno coinvolto nelle scorse settimane. In un semplice trasferimento da Londra a Roma ci sono due cose basilari da sistemare: affittare una casa e munirsi di motorino. Per l’affitto della casa ho dovuto pagare oltre 1.000€ di spese d’agenzia (che immagino ne prenda altrettanti dal proprietario di casa). Quello che l’agenzia ha dovuto fare per affittarmi casa è ben poco e non giustifica tale spesa. Tuttavia quello che conta da un punto di vista macroeconomico è che i miei soldi sono andati ad un servizio a bassa produttività che ha coinvolto giusto 1-2 persone. Capitolo motorino. Acquisto uno scooter usato, devo effettuare il passaggio di proprietà e assicurarlo. Il passaggio tra tasse e balzelli costa 100€ euro, ma dato che il processo fai-da-te è abbastanza laborioso ricorro ad una scuola guida che mi carica 60€ (alcune agenzie chiedevano anche 120€). Conto finale 160€: il 15% del valore del motorino. La chicca finale è l’assicurazione, che ovviamente non riconosce gli anni di guida immacolata londinese: devo pagare 450€ ad una compagnia di assicurazione telefonica (ovviamente la meno cara). A Londra il costo dell’agenzia immobiliare sarebbe stato di circa 300€, il passaggio di proprietà gratuito e semplice, l’assicurazione 150€. In Italia ho speso 1.800€. Questi soldi avrei potuto allocarli, ad esempio, per comprare un motorino nuovo. Cioè una spesa in un settore a più alta produttività e che avrebbe contribuito al lavoro di molte più persone. Una distorta allocazione della domanda non riguarda solo quanto si spende, ma anche il tempo che si perde. Nell’interminabile attesa che arrivasse Internet a casa, ho comprato una «saponetta» per una connessione portatile. Ottenerla è stato veloce e semplice: entro in negozio, firmo le carte e pago. Per disdirla però, non è stato sufficiente andare in negozio e fare il processo inverso. Sono dovuto andare in posta e mandare una raccomandata con ricevuta di ritorno, tempo sprecato: un’ora, inclusa la ricerca di una busta per cui ho dovuto girare fra quattro tabaccai, dato che con mia sorpresa le poste non hanno buste per le lettere (è un po’ come andare al bar e doversi portare la tazzina da casa). In quell’ora avrei potuto lavorare, andare al bar o fare altre attività che avrebbero generato un contributo maggiore all’economia. Insomma, con una migliore regolamentazione del mercato di intermediazione immobiliare e di quello assicurativo, con una migliore regolamentazione dei passaggi di proprietà e di tutela del consumatore, avremmo avuto un cittadino più felice e con 1.800€ in più da spendere in attività economiche più virtuose. Questi sono solo pochi esempi e molti altri potrebbero essere fatti. Su queste cose la politica può e deve agire. Al momento, la sensazione è che troppo spesso ci siano da pagare oboli di rendita che distorcono la domanda. Sembra di essere rimasti al film di Benigni e Troisi «Non ci resta che piangere», ogni qualvolta che uno attraversa una linea c’è qualcun’altro che grida «un fiorino!». AVVENIRE Pag 1 Oltre i tirocini di Francesco Seghezzi e Michele Traboschi Lavoro: altra faccia del caso Italia Il prossimo primo maggio ricorrerà non solo la festa del lavoro ma anche il terzo anno dall’avvio di Garanzia giovani. Un piano ambizioso, finanziato con 1,5 miliardi di euro dedicati dalla Commissione Europea all’Italia, rafforzati dal cofinanziamento del nostro Paese. Il piano aveva come obiettivo non tanto quello di trovare un lavoro ai giovani scoraggiati e a quelli disoccupati, quanto quello di accrescere la loro occupabilità soprattutto per gli inattivi, un esercito di oltre due milioni di ragazzi che hanno perso ogni speranza e desiderio di lottare per una occasione di inserimento nel mercato del lavoro. Uno scopo quindi che andava oltre al respiro di sollievo per aver collocato un

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ragazzo per un periodo breve, ma che guardava alla costruzione di competenze di mestiere e di quella maturità professionale, possibile mediante lo sviluppo integrale della persona, che solo può permettere di orientarsi e navigare nelle acque burrascose del mercato del lavoro contemporaneo. È ben vero che in Italia il tema del lavoro dei giovani è più oggetto di talk show e polemiche di giornata (da ultimo il veemente dibattito, nato attorno a una battuta del ministro Poletti, se sia meglio un buon curriculum o il calcetto), che di attenta analisi per comprendere cause e possibili soluzioni. Eppure basterebbe studiare con attenzione la relazione appena pubblicata dalla Corte dei conti europea per capire la gravità del modo con cui viene affrontato il tema della occupazione dei nostri giovani anche in presenza di grandi finanziamenti. Violenti scontri politici e ideologici, tanti annunci ma poca o nessuna capacità gestionale e organizzativa senza che vi sia mai qualcuno che si assuma la responsabilità delle scelte sbagliate e degli insuccessi. Soprattutto alcuni dati della relazione sembrano interessanti e illuminanti, uno su tutti. Se nella media dei sette Paesi analizzati le offerte di 'tirocinio' con le quali si è concluso il percorso di Garanzia giovani sono il 13%, in Italia il numero è quattro volte superiore, pari al 54%. Seguono i posti di lavoro veri e propri con il 31% (rispetto alla media dell’80%), i percorsi di istruzione pari all’11% (tre volte superiori alla media) e l’apprendistato, con un 5% che ci allinea agli altri Paesi. La maggior parte dei fondi stanziati quindi sono stati allocati per finanziare percorsi di tirocinio, in un numero nettamente superiore agli altri Paesi, tanto da configurare una vera e propria anomalia italiana. In un Paese come il nostro, che si è bloccato per mesi sul nodo dell’impiego dei voucher, fino a giungere alla conclusione di eliminare con l’acqua sporca il bambino, è urgente riflettere sull’uso dei tirocini. Uno strumento prezioso per avvicinare i giovani al mondo del lavoro, che tuttavia, in un numero crescente di casi, viene piegato ad altre finalità finendo per generare abusi sistematici. E purtroppo l’analisi delle offerte di stage presenti sul portale del piano europeo ha mostrato come la maggior parte di essi fossero impieghi dal dubbio valore formativo. Spesso il tirocinio con Garanzia giovani è stato utilizzato come un modo di ridurre ulteriormente il costo del lavoro per profili che avrebbero senza alcun problema occupato persone con contratti di lavoro. A ben vedere è proprio nella scelta di non investire nel lungo periodo sui giovani il limite dell’attuazione piano. Non si tratta di accontentarsi infatti di misure di breve termine, fossero anche rappresentate da tirocini genuini, ma di costruire sui talenti delle nuove generazioni. Tutte le altre forme di incentivazione serviranno a produrre qualche risultati di cui onorarsi nei mesi a venire, ma sfuggono il vero problema. Per questo l’apprendistato è ancora lo strumento migliore per investire sul futuro, perché parte dal talento del giovane e lo inserisce direttamente nelle realtà produttive per plasmarlo facendolo diventare un mestiere vero e proprio. E non si tratta di insistere nella costruzione di profili iper-specializzati, tanto avanzati oggi quanto obsoleti domani, ma di abilitare processi di apprendimento in situazioni reali, che possano formare tutte quelle attitudini che servono oggi per muoversi nella trasformazione che stiamo vivendo. Pag 9 Il crescente malessere delle seconde generazioni, Giovani italiani in cerca di una nuova identità, in conflitto con regole imposte e non accettate di Asmae Dachan I recenti fatti di cronaca che hanno come protagoniste adolescenti della cosiddetta seconda generazione appartenenti a famiglie di fede musulmana, ci pongono di fronte a interrogativi importanti. Le incomprensioni famigliari e la sofferenza che ne deriva sono il segno evidente di un disagio profondo che spesso sfocia in frattura. Da un lato famiglie ancorate a tradizioni, usi e costumi del Paese di provenienza, spesso poco integrate, che vorrebbero plasmare a propria immagine i figli, che vorrebbero vedere in loro una sorta di cordone ombelicale da non tagliare per sentirsi ancorati alle origini. Dall’altro lato i figli e soprattutto le figlie. Molti sono arrivati in Italia da piccoli, altri sono nati e cresciuti in Italia. Si guardano allo specchio e riconoscono che le proprie fattezze sono diverse da quelle dei compagni, ma dentro di sé si sentono simili a loro. Sono cresciuti nelle stesse scuole, hanno giocato insieme, comunicano nella stessa lingua. Sono nuovi italiani, nuove identità a cui spesso manca il diritto di essere riconosciuti come tali. Non si tratta della cittadinanza, c’è qualcosa di più. I genitori spesso in casa parlano la lingua del Paese d’origine – il che può essere un vantaggio – ma non possono non accorgersi che

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nel rispondere i figli usano sempre più vocaboli e frasi in italiano, la loro lingua. Le famiglie frequentano altri nuclei della stessa nazione e in queste riunioni consumano cibi tradizionali ricreando un’atmosfera nostalgica. Ma i veri amici dei figli sono quelli della scuola, del giardino pubblico e sono italiani. Molti genitori trasmettono ai figli rituali e pratiche religiose, ma spesso si limitano a questo, perché loro stessi non hanno una cultura che non derivi dalla tradizione fine a se stessa, da ciò che si è tramandato per generazioni. Quando la religione diventa 'ciò che si deve fare', finisce per entrare nella sfera di quel che ai giovani non piace perché ha il sentore di imposizione. Questi ragazzi che leggono, giocano e sognano in italiano, spesso non hanno mai letto un libro di cultura religiosa musulmana nella loro lingua. I genitori regalano loro testi in arabo, ma anche quando sono bilingue, per loro ci sarà difficoltà di comprensione e mancanza di coinvolgimento spirituale. Il fatto che la religione rientri nella sfera delle consuetudini da tramandare crea traumi, soprattutto quando i genitori cercano di imporre pratiche come il velo islamico. Anche in questo caso bisogna fare distinzioni. Molte ragazze che si sentono italiane e hanno ricevuto un’educazione religiosa vera, decidono di portarlo affrontando le difficoltà di una scelta simile in contesti ostili. In molti casi rinunciano a indossarlo perché si sentono umiliate, escluse, ma accade anche l’opposto. Ragazze più a loro agio a scuola e con gli amici che con i familiari, si vedono dall’oggi al domani costrette a portare il velo. Molte finiscono per condurre una doppia vita, velate quando escono con le famiglie e a capo scoperto con gli amici. Spesso la spinta parte da padri- padroni e le madri, a loro volta succubi, invece di capire il disagio e il malessere delle figlie, partecipano a questa violenza. Perché di violenza si tratta e non di fede che non può essere relegata a un insieme di costumi e tradizioni. Il Corano stesso dice che 'non c’è imposizione nella religione'. È ipocrita pretendere il velo e non curarsi dell’anima dei figli e delle figlie, della loro felicità, della loro pace interiore. LA NUOVA Pag 7 Siamo un Paese a rischio, servono investimenti di Roberta Carlini Un’economia che cammina, ma con il freno a mano tirato. Questo il quadro che emerge dalla nota mensile dell’Istat diffusa ieri. Nello stesso giorno altri numeri ci informavano del fatto che, dei 115.000 italiani che lo scorso anno si sono trasferiti all’estero, una larga parte ha un’età compresa tra i 40 e i 50 anni. Mentre la riduzione della disoccupazione giovanile, elemento a prima vista positivo segnalato sempre dall’Istat, si deve più a quanti hanno rinunciato a cercare lavoro che a quanti l’hanno trovato. Non si tratta di dividersi tra chi vede il bicchiere mezzo pieno e chi ne lamenta la parte vuota, ma di leggere con attenzione quel che i dati ci dicono; soprattutto in una fase politica già pre-elettorale, nella quale è bloccata qualsiasi decisione netta sulla politica economica e la finanza pubblica. Fino al 30 aprile - data delle primarie del Pd - nulla si muove, e dopo di allora si mostrerà allo scoperto il conflitto sotterraneo tra il ministro dell’Economia che è chiamato a mantenere gli impegni presi con Bruxelles sulla riduzione del deficit e/o del debito pubblico, e il più che probabile futuro segretario del Pd che preme per una manovra capace di fargli recuperare consenso. Due le cose bizzarre in questo braccio di ferro tra “tecnici e politici”: il fatto che gran parte della manovra si dovrà fare per evitare l’aumento dell’Iva, ossia che scatti una clausola scritta dallo stesso Renzi in occasione della (sua) precedente manovra; e la distanza di questo dibattito dal quadro economico reale. Renzi ha ragione nel sostenere che l’economia ha bisogno di una spinta e una manovra sotto il segno dell’austerità sarebbe recessiva. Ma ha torto quando non scende nel dettaglio della “spinta” che servirebbe, né fa autocritica sulle mancate spinte del passato, quando ha avuto dalla Ue una buona dose di flessibilità nei conti pubblici. La nota dell’Istat ci dice che nell’ultimo trimestre dello scorso anno il potere d’acquisto delle famiglie è diminuito, e solo attingendo ai loro tesoretti - la propensione al risparmio è scesa di un punto percentuale - hanno potuto sostenere i consumi (più 0,5%). Nel frattempo gli investimenti delle imprese sono saliti un po’, ma siamo ancora ben lontani dal recuperare i tre punti percentuali di Pil persi dall’inizio della crisi. E c’è un altro numero che riguarda gli investimenti pubblici, scesi ancora l’anno scorso del 4,5%. Mentre la riduzione dei contributi sul lavoro sta esaurendo i suoi effetti positivi, che comunque sono stati più di stabilizzazione degli occupati precari che non di creazione di nuova occupazione. A queste obiezioni spesso si risponde: bella scoperta, il lavoro non si

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crea per legge ma non gli investimenti. Ma allora perché non preoccuparsi del crollo degli investimenti pubblici (la prima spesa che si taglia, perché meno dolorosa in termini di consenso) e della stagnazione di quelli privati? Anche la futura manovra di Gentiloni sembra orientata più a ridurre tasse e contributi sul lavoro che a iniettare investimenti nell’economia: è vero che - come ancora ieri ha ricordato la Corte dei conti - il nostro cuneo fiscale è tra i più alti, ma le manovre del passato hanno dimostrato che la riduzione del costo del lavoro di per sé non crea lavoro. Servirebbe allora usare le risorse in modo mirato, magari in tutte e due le direzioni (offerta e domanda) ma scegliendo i settori, i territori, le generazioni da privilegiare. In ogni caso, per tutto ciò vanno trovate le risorse, cercandole dove sono le rendite e non dove si produce ricchezza. Ma le ultime levate di scudi del Pd, che a quanto pare vuole sconfessare la stessa riforma del catasto della quale da decenni si invoca l’arrivo, danno segnali negativi anche in questa direzione; pollice verso anche per le privatizzazioni, mentre si rinvia ancora la legge sulla concorrenza. Senza nessuna giustificazione razionale del cambiamento di rotta, se non la paura dell’effetto di questa riforma nelle urne. Ma per quanto tempo un Paese a rischio come l’Italia può permettersi di guardare ai sondaggi più che ai numeri reali dell’economia? Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 8 Il Comune chiude la moschea: abusiva di Giampaolo Bonzio e Fulvio Fenzo Mestre, sanatoria impossibile per il centro frequentato da uno degli arrestati per terrorismo. Sarà individuato un altro stabile La moschea mascherata da centro culturale rischia i sigilli. Gli uffici del Comune di Venezia invieranno oggi la diffida ai responsabili della comunità bengalese intimando di sospendere spontaneamente l'attività di culto entro tre giorni, altrimenti scatterà il sequestro di quello che dovrebbe essere un semplice negozio ai piedi del condominio dove, da martedì, è scattata la protesta delle lenzuola. Nonostante la richiesta depositata l'altroieri dalla comunità bengalese mestrina, nessuna sanatoria edilizia sarà dunque possibile per consentire il proseguimento dell'utilizzo del locale come centro culturale-moschea. È la stessa Prefettura, dove ieri si è riunito il Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza, ad accertare le violazioni edilizie e di destinazione d'uso da parte del Centro culturale Bangladesh, frequentato in passato anche da uno dei presunti terroristi kosovari arrestati la scorsa settimana. Violazioni tali da non consentire l'apertura. Una vittoria per i comitati di cittadini che, ormai da anni e dopo numerosi esposti, protestavano per la presenza di centinaia di musulmani in preghiera a tutte le ore del giorno, dalle 5 di mattina fino alla mezzanotte. Fedeli che ora, però, non avranno più un luogo dove recitare il Corano. Per questo, sempre su incarico della Prefettura, il Comune di Venezia dovrà avviare un dialogo con la comunità per trovare un luogo di culto alternativo fuori dal centro urbano. La comunità bengalese ha però minacciato nei giorni scorsi di ritrovarsi in preghiera nei parchi oppure in piazza Ferretto, il centro di Mestre. «Un ricatto che non possiamo accettare» commenta l'assessore all'Urbanistica veneziano, Massimiliano De Martin, che si troverà presto sul tavolo le richieste di cambio di destinazione d'uso per gli immobili che potrebbero ospitare la futura moschea (si parla di un supermercato chiuso o di un'ex concessionaria d'auto). «Non si tratta di una questione meramente urbanistica - afferma -. Devono dimostrare che si vogliono realmente integrare rispettando le nostre regole». Sul fronte sicurezza e allerta antiterrorismo sempre ieri la Prefettura ha assicurato che, in vista delle prossime festività della Pasqua i controlli in centro storico verranno ulteriormente aumentati. E in Procura è stato riascoltato il professionista veneziano massacrato di botte nel 2014 da Dake Haziraj e da un altra persona. Si tratta di un'indagine autonoma che coinvolge uno dei kosovari arrestati la settimana scorsa. La Procura è convinta che si tratti di stranieri molto pericolosi, probabilmente addestrati al combattimento, e l'episodio della grave aggressione lo confermerebbe. Il pm Alessia Tavarnesi a breve presenterà la richiesta di rinvio a giudizio per Haziraj con l'accusa di lesioni. Il 53enne veneziano, cintura nera di

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judo e impegnato da molti anni in missioni umanitarie (anche per il Kosovo) ha definito gli stranieri che l'hanno aggredito due professionisti del combattimento. «Io - ha spiegato - sono stato uno dei loro allenamenti». Pag 9 Il patriarca: “Chiese vuote, utilizziamole anche per altro” di Giorgia Pradolin Moraglia: dobbiamo trovare soluzioni per rendere “utili” gli edifici senza fedeli Venezia si spopola, ma le sue numerose chiese restano aperte, alcune vuote, con costi di mantenimento e manutenzione non indifferenti per la Diocesi. Il rischio, è di vederla trasformarsi in Pompei, con luoghi di culto non più frequentati da cittadini ma, al massimo, fotografati dai turisti. Ieri il Patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, in occasione dell'incontro dei Comitati privati internazionali per la Salvaguardia di Venezia, ha spiegato che alcuni luoghi di culto potrebbero cambiare volto, proprio a fronte della flessione demografica. «Restiamo convinti - ha spiegato Moraglia - che non ci può essere restauro di una chiesa senza (prima) una comunità viva che se ne faccia carico, che ne custodisca la bellezza e la valorizzi nel culto e non solo. Un edificio senza vita non è mai tutelato e valorizzato ed è destinato all'abbandono. Come lo è un edificio che non ha, alle spalle, una comunità reale che se ne fa carico». Tutte le chiese di Venezia e i tesori custoditi al loro interno, capolavori artistici e architettonici, necessitano di restauri e interventi conservativi, spesso onerosi. «Come ho già avuto modo di dire in altre occasioni - ha proseguito il Patriarca - è importante ricordare che, a Venezia, vi sono problemi conservativi urgenti che riguardano molte chiese e che il loro numero (un centinaio in città e oltre 200 nell'intera Diocesi) richiede di riflettere su una razionalizzazione del loro ruolo liturgico e pastorale, spesso anche a fronte dell'innegabile flessione demografica (specialmente del centro storico)». Chiese in cui scarseggiano i fedeli, i parrocchiani, i volontari e potrebbero presto cambiare la loro funzione. «Sarà quindi necessario individuare gli edifici che, effettivamente, non rispondono più a specifici bisogni pastorali ed è compito della chiesa locale individuare soluzioni e proposte per rendere utili - ad esempio in ambito culturale e caritativo - alla stessa collettività quei luoghi, senza far perdere mai la loro dimensione simbolica in nome di un funzionalismo o polivalenza che non solo li impoverisce ma addirittura li snatura». Quindi gli edifici non si trasformeranno negli ennesimi alberghi della città d'acqua, ma ospiteranno attività che non offendono la sacralità del luogo. Alcune a Venezia, già sconsacrate, ospitano mostre e concerti di musica classica. «Le necessità del patrimonio ecclesiastico risultano - ha aggiunto il Patriarca - ingenti e i contributi, specie quelli pubblici, sono assai ridotti. Anche alcuni strumenti fiscali - lo rileviamo con rammarico - spesso non sono applicabili al patrimonio ecclesiastico che, seppur di fruizione pubblica, viene considerato proprietà privata e quindi escluso da benefici fiscali che molto gioverebbero ai fini della sua corretta salvaguardia». IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag II Il caos degli zaini senza controllo di Giorgia Pradolin A San Marco nessuno ispeziona i bagagli depositati a San Basso da chi deve entrare in basilica Calle San Basso intasata dai turisti e migliaia di zaini al deposito della Basilica di San Marco, senza controllo. Un problema che sconfina dalla viabilità alla sicurezza, in un periodo di allerta per il timore degli attentati. Perché zaini e bagagli che vengono depositati all'Ateneo di San Basso, tappa obbligata per chi deve visitare la Basilica, sono incustoditi. Ritirati dalle mani dei turisti, vengono posizionati negli scompartimenti e semplicemente ammassati. Ieri mattina Piazzetta dei Leoncini si presentava colma di turisti e soprattutto di scolaresche. Centinaia di giovani che arrivavano a scaglioni e si sedevano sugli scalini, si appoggiavano alle vetrine dei negozi o attorno alla vera da pozzo, con mucchi di zainetti lasciati anche a lato della Basilica, all'aperto. Avvicinandosi alla calletta laterale che dalla Piazzetta porta alla chiesa sconsacrata di San Basso, adibita a deposito bagagli per chi vuol accedere alla basilica, la situazione peggiora. Ci sono dei picchi di congestionamento durante la mattinata, e a tratti non ci si riesce proprio a muovere. Tutti in fila, comitive comprese, per entrare nella stretta calle, zaini sulle spalle e trolley in mano. E chi deve semplicemente passare, si trova imbottigliato.

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Qualcuno inciampa pure sulla mendicante a terra che chiede l'elemosina. All'interno dell'Ateneo di San Basso, gli operatori afferrano il più velocemente possibile gli oggetti, e li sistemano negli scompartimenti a muro, ma ben presto non c'è più posto e vengono riempiti sei cassettoni coperti con dei teli. La pressione turistica è tale che l'attesa, la coda e l'intasamento nella stretta via, è inevitabile. Nel deposito, passano ogni giorno migliaia di zaini che vengono sistemati e accantonati, ma non c'è nessun metal detector e nessuno operatore adibito al controllo. In Basilica con lo zaino non si può entrare, ma San Basso dista solo pochi metri e il suo secondo ingresso si affaccia sulla piazzetta dei Leoncini. A denunciare la situazione, dal punto di vista della viabilità, sono i dipendenti della vetreria Venini in Piazzetta dei Leoncini. «Da un mese viviamo momenti di grande disagio ogni mattina - spiega Paola Paron - È il periodo delle scolaresche ma io sono qui dal 2003 e non ho mai visto, gli scorsi anni, il caos di questo periodo. Ogni mattina il negozio è circondato da ragazzi, talvolta si forma una muraglia umana e la calle che porta al deposito bagagli della Basilica si congestiona». E in effetti, è proprio così. «Abbiamo San Basso alle nostre spalle - prosegue Paron - questa moltitudine di zaini non viene controllata e anche l'intasamento nella calle, ogni mattina, ci preoccupa, soprattutto in tempi come questi». L'intenzione di Paron è di presentare un esposto in Procura per segnalare il problema. «Chiediamo maggiori controlli - conclude la commessa - e una miglior gestione di tali flussi incontrollati in questo angolo della Piazza. Pag III Quel negozio non sarà più moschea di Fulvio Fenzo e Davide Tamiello Diffida del Comune ai bengalesi di via Fogazzaro tre giorni per rimuovere tutto o scattano i sigilli. La mappa dei fedeli di Allah, ritrovi culturali o di preghiera Chiuderla. E subito: appena tre giorni di tempo per ottemperare spontaneamente, oppure arriveranno i sigilli. Il provvedimento di chiusura della moschea di via Fogazzaro è sul tavolo dei tecnici dell'Edilizia privata e, oggi, la diffida verrà firmata ed inviata alla Polizia municipale che notificherà l'atto al presidente del Centro culturale Bangladesh, Mohamed Ali. Dopo gli esposti e le lenzuola appese da martedì sulla facciata del condominio del civico 8, i comitati e i residenti hanno vinto la loro battaglia. Non c'entrano gli abusi edilizi. Il provvedimento che sarà adottato dal Comune punta direttamente sull'uso non congruo di quello che dovrebbe essere un negozio, ma che viene regolarmente utilizzato per pregare da centinaia di musulmani - bengalesi e non solo -, dalle 5 di mattina fino alla mezzanotte. Subito dopo la firma e la successiva notifica (la diffida dovrebbe essere consegnata tra domani e venerdì), i responsabili del centro culturale-moschea avranno 3 giorni per mettersi in regola, e lo potranno fare solo cessando l'attività di culto svolta all'interno del locale al pianterreno. La conferma indiretta del provvedimento in arrivo giunge anche dalla nota diffusa ieri dalla Prefettura, in seguito alla riunione del Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza. Nel centro di preghiera di via Fogazzaro - spiegano a Ca' Corner - sono state accertate violazioni di carattere edilizio e sulla destinazione d'uso dell'immobile che non con consentono, a tutela degli stessi frequentatori, il mantenimento dell'apertura. Luigi Corò, presidente del Comitato Marco Polo che, ormai da anni, dà battaglia alla moschea, è soddisfatto: «La nostra non è stata una crociata anti-Islam, ma per il rispetto dei diritti dei cittadini e della legalità. Siamo contro quelli che fanno i furbi». E sono ovviamente soddisfatti anche i residenti di via Fogazzaro, a partire dai componenti del Comitato Cappuccina-Piave, autori della clamorosa protesta delle lenzuola. Chiusa (nel giro di qualche giorno) la moschea, resta però il problema di dove andranno a pregare gli islamici residenti in centro. «Non possono dirci chiudete e basta - commenta Kamrul Syed, portavoce della comunità bengalese -. La comunità ha bisogno di un'alternativa». Un problema evidenziato anche dalla Prefettura, che invita il Comune di Venezia ad avviare da subito i contatti con i referenti della comunità per individuare dei luoghi alternativi per la preghiera nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia. «Un dialogo che non può partire dalla sfida, che qualcuno di loro ha lanciato, di andare a pregare nei parchi o in piazza Ferretto - interviene l'assessore all'Urbanistica Massimiliano De Martin -. Devono dimostrare di volersi integrare rispettando le regole perché, come nel caso della chiesa degli Ortodossi in via di ultimazione a Zelarino, ci sono stati incontri e fatta una variante. I rappresentanti devono essere garanti della loro comunità perché, dopo gli arresti dei

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kosovari dei giorni scorsi, tra cui uno che frequentava la moschea di via Fogazzaro, la questione non può essere affatto limitata ad una destinazione d'uso urbanistica». E la vicesindaco Luciana Colle aggiunge: «Nessuno vieta loro di pregare. Venezia è una città aperta a tutti i culti, ma le regole vanno rispettate. Quel negozio di via Fogazzaro è stato trasformato in un'altra cosa, e non può passare il fatto che poi le cose vengono sanate in qualche modo». Non chiamatele moschee. Perché, di fatto, a Venezia una moschea ufficiale non c'è. Ci sono, però, dei surrogati: centri culturali, strutture private, che fungono da sala di preghiera per chi vuole inchinarsi verso La Mecca. Dalla mappa eliminiamo subito il centro storico: non ce ne sono e quando, in passato, qualcuno ha provato a realizzare qualcosa di simile (ricordate, due anni fa, cosa successe con il padiglione islandese nella chiesa di Santa Maria della Misericordia?) era scoppiato un vero e proprio putiferio. Ci spostiamo in terraferma, allora, dove a Marghera troviamo il principale centro islamico di tutta la provincia, in via Monzani. Un punto di riferimento per la città e per tutta l'area metropolitana. Rimanendo a Marghera, alla Cita c'è una piccola sala di preghiera riservata ai bengalesi, mentre in via dell'Elettricità troviamo la Lega dei centri culturali Turco e Islamico, in cui, come si evince dal nome, si radunano soprattutto cittadini di origine turca. Passiamo a Mestre: dato ormai per perso l'ex centro islamico di via Fogazzaro, rimane L'organizzazione islamica culturale e internazionale di Corso del Popolo. La diffida alla sede di via Fogazzaro, inevitabilmente, avrà degli strascichi. E i primi segnali si cominciano già a vedere. «C'è un clima pesante - commenta Kamrul Syed, portavoce della comunità bengalese - i nostri figli ci chiedono perché ci stanno chiudendo fuori. Io vivo a Mestre dal 1989, come me ce ne sono tantissimi altri. Siamo residenti, questa ormai è casa nostra». Oltrepassando i confini della città, i centri islamici sono oltre una trentina in tutto il territorio metropolitano. Molti di questi, però, sono realtà infinitesimali, quasi dei mini circoli privati. I principali, in definitiva, sono otto. In Veneto Orientale sono quelli di Noventa di Piave, San Donà, Annone Veneto e Portogruaro. É cresciuto molto, invece, negli ultimi tempi, quello di Quarto d'Altino: si affida sempre all'Imam di San Donà, ma ultimamente la struttura è stata ampliata. In Riviera del Brenta, i punti di riferimento sono a Stra e Fiesso, mentre nel Miranese la realtà più significativa è quella di Spinea, con il centro culturale islamico Salam. Significativo per i numeri (di media oltre 300 iscritti) sia per i contenuti: il centro aderisce e partecipa alle sedute del tavolo della Pace dei Comuni del Miranese e organizza attività sia per gli iscritti, sia per l'intera comunità. «Teniamo corsi di arabo per i bambini - spiega uno dei soci, l'ex presidente dell'associazione marocchina del Miranese, Abdessamad El Ghanami - e giornate aperte ai cittadini per iniziative sociali di ogni tipo». Pag XXVI Comitati privati contro l’Unesco: “Richieste esose, siamo in crisi” di Giorgia Pradolin Affondo del presidente. Nel 2017 ci saranno 5 milioni per i restauri «L'Unesco ci sta mettendo in difficoltà per le pretese finanziarie esose nei nostri confronti». Così ieri Umberto Marcello del Majno presidente dell'associazione dei Comitati privati internazionali per la salvaguardia di Venezia, che conta 23 organizzazioni di 11 diversi paesi, impegnate in vario modo per la salvaguardia di Venezia, per dare un futuro alla città lagunare. Tra questi, organismi dediti al restauro di manufatti storico-artistici che impegnano per lo più ditte locali, e istituzioni culturali cittadine. Ad aprire l'assemblea generale dell'associazione, ieri a Palazzo Ducale, la soprintendente per le belle arti e il paesaggio di Venezia Emanuela Carpani, e a chiuderlo la vicesindaco del Comune, Luciana Colle, che si è soffermata sulla questione annosa della gestione dei flussi in città. «A breve decideremo quali delle proposte dei cittadini per il turismo sostenibile di Venezia siano le più efficaci e attuabili - ha concluso Colle - l'impegno dei Comitati privati è un esempio di fattiva collaborazione con la città e i suoi residenti». Durante l'incontro è emerso che il crocifisso nella chiesa di San Zaccaria e l'organo nella chiesa di San Lio saranno presto restaurati dai Comitati privati internazionali per la salvaguardia di Venezia. Sono solo due interventi di quelli previsti dall'associazione per il 2017. Venezia è patrimonio dell'umanità, ma le sue opere hanno bisogno di cure e

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manutenzioni. Lo scorso anno sono stati realizzati 43 progetti dall'associazione Comitati privati, e altri 59 stanno partendo. Si va dal restauro di opere e manufatti storico-artistici e architettonici della laguna, fino agli allestimenti museali e pubblicazione di testi. Nel 2016 per queste iniziative sono stati spesi 3milioni e 600mila euro, e per il 2017 si prevedono investimenti per circa 5milioni. Ieri è stato presentato l'elenco degli interventi e l'accordo stipulato con il ministero per i Beni culturali per garantire il supporto tecnico-scientifico ai progetti rivolti al sito Venezia e la sua laguna. Una collaborazione tra il settore pubblico, e quello privato internazionale. «Gli accordi sono sempre complicati - ha scherzato il sottosegretario ai Beni culturali, Ilaria Borletti Buitoni - ma duraturi, in questo caso solido ed esemplare perché sancisce l'amore per Venezia e per il suo patrimonio culturale e mondiale. Per quanto riguarda l'Unesco, mi offro come mediatore di pace». I Comitati privati, nati dopo l'Acqua granda del 4 novembre 1966 in seguito ad un appello lanciato dall'Unesco, ieri hanno evidenziato che un altro accordo con l'organizzazione mondiale è fermo, in stallo. LA NUOVA Pagg 2 – 3 Chiude la moschea di via Fogazzaro di Marta Artico e Carlo Mion Domani ultimo venerdì di preghiera. Il sindaco si attiverà per trovare una sede più adeguata. Allerta attentati, sarà una Pasqua blindata. Inchieste sempre più frequenti: “Le donne italiane accusano di Jihad i mariti musulmani” Mestre. Sarà l’ultimo venerdì di preghiera quello di domani per i fedeli di Allah che si ritrovano nel centro culturale islamico di via Fogazzaro a Mestre. La decisione di chiudere la moschea è stata presa ieri durante la riunione del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica al quale hanno partecipato i vertici delle forze di polizia e il sindaco, Luigi Brugnaro. Il messaggio che arriva dall’Amministrazione è chiaro: le regole vanno rispettate da tutti, abusi edilizi e di destinazione d’uso non possono essere tollerati. Moschea abusiva. Da mesi il centro culturale islamico è al centro delle polemiche dei cittadini e dei comitati: troppe persone, troppa folla, preghiere rumorose, in strada, a ogni ora, mattino pomeriggio, sera e notte, specialmente in vista del Ramadan, quando il numero di fedeli aumenta sensibilmente. La settimana scorsa è scaduta la proroga concessa al centro, realizzato all’interno di un negozio, per adeguarsi alla normativa. I vigili hanno redatto un verbale e accertato le violazioni (edilizie e di destinazione d’uso) rispetto alle prescrizioni degli uffici comunali. Così è stata firmata la diffida amministrativa, che concede tempo tre giorni a partire da oggi al centro culturale di ottenere l’agibilità adeguandosi alle richieste del comune, poi scatteranno i sigilli. Cellula jihadista. Ad alzare il livello di esasperazione dei residenti, il fatto che all’interno del luogo di culto pregavano anche alcuni dei giovani kosovari presumibilmente affiliati alla cellula jihadista al centro dell’indagine sull’attentato al ponte di Rialto. I comitati hanno chiesto con forza, a suon di esposti, che il centro venisse chiuso e che fossero controllate le persone che si recano a pregare. Chiusura. Al vertice hanno partecipato il prefetto, il sindaco, il comandante dei vigili urbani, Marco Agostini. «Le violazioni», recita la nota diffusa dalla Prefettura, «non consentono, a tutela degli stessi frequentatori, il mantenimento dell’apertura». Si fa però presente che la comunità è integrata nel territorio e che si avvierà un tavolo con i referenti per trovare siti alternativi di preghiera, fermo restando il rispetto delle disposizioni normative. «Non è messa in discussione la libertà di culto», precisa il comandante Agostini, «chiaro che lì non possono stare, l’intenzione è aprire un dialogo per tutelare gli interessi di chi dorme sopra, e ha diritto a riposare, e di chi ha diritto a pregare». Rispetto delle regole. A spiegare le motivazioni che hanno portato alla decisione della diffida, è il vicesindaco Luciana Colle: «Siamo aperti a tutti, non abbiamo reticenze verso nessuno, ma è una questione di regole e la convivenza civile va rispettata». Prosegue: «Abito là vicino e la situazione per certi versi è sfuggita di mano, sembra una kasbah. Si può capire tutto, usi costumi e provenienze, ma c’è anche una questione di decoro». Un problema che si sovrappone a un altro. «Lo spazio dove si trova la moschea è stato dato ai bengalesi per realizzare un centro culturale, evidentemente qualcuno ha pensato che siccome siamo in Italia, intanto ci si insedia, poi si vede come girano le cose e si trasforma il sito in un luogo di culto. Troppo facile. Le regole vanno seguite, serve il rispetto della serena convivenza civile da parte di tutti, ospiti e ospitanti». Colle entra nel merito di una

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questione urgente sollevata dagli abitanti della zona: il sovraffollamento degli appartamenti e i privati che affittano a chiunque, o cercano l’affare. «Qui siamo di fronte a un immobile a destinazione commerciale diventato un centro culturale religioso, un privato non può fare ciò che vuole e far patire un’intera zona, deve prendersi le proprie responsabilità». La comunità bengalese. Kamrul Syed, il portavoce della comunità bengalese e presidente della Venice Bangla School, è demoralizzato: «Oggi (ieri ndr)», spiega, «abbiamo presentato il progetto per metterci in regola, i bagni, quanto richiesto dagli uffici comunali, come mi ha riferito il presidente della comunità, ma non so se ce la faremo a fare i lavori in tempo». Prosegue: «Stiamo poi cercando un sito alternativo: abbiamo visto dei locali in via Torino, in via Ca’ Marcello, un po’ fuori dal centro, ma è difficile e complicato, senza nessuno che ci dia una mano, la vedo molto dura». Aggiunge: «Sono stato contattato dal capo dei vigili, oggi sarò a Santa Croce, alla direzione del comando». I problemi sono tanti. «Lo spazio che vogliono chiudere è stato acquistato dai fedeli, tutti hanno messo dei soldi, e non abbiamo finito di pagarlo». Sito alternativo. «La comunità ora deve ritrovarsi, pensare cosa fare, dove pregare, non abbiamo ancora deciso nulla». Nei giorni scorsi Kamrul aveva annunciato che senza la moschea i fedeli si sarebbero recati in un parco, ai giardinetti di via Sernaglia, in piazza. «Dobbiamo pensarci, non sono io che decido ma tutti assieme, qualcuno ha proposto lo spazio che si trova davanti alla Fincantieri, vedremo nel fine settimana, ci sarà una riunione». Il condominio. Il comitato Cmp e il comitato Cappuccina Piave, rimangono in attesa. «Sono circospetta», commenta la portavoce Mara Ranucci, «mi attengo ai fatti, voglio vedere cosa accadrà. Per ora i risultati mi sembrano apprezzabili, siamo sulla strada giusta. Vogliamo vedere la fine della vicenda e come si concluderà, in attesa che la legalità trionfi. A quel punto brinderemo al rispetto delle regole». Venezia. La prossima settimana in Prefettura, nel Cosp di mercoledì, sarà affrontato l’argomento sicurezza e feste pasquali. Successivamente, durante un tavolo tecnico in Questura, le decisioni prese dal Comitato presieduto dal Prefetto Carlo Boffi, saranno trasformate in operative. Da decenni Venezia è considerata città ad alto rischio attentati in considerazione del gran numero di obiettivi sensibili sacri e di valenza mondiale nonché per il flussi turistici che a Pasqua hanno uno dei picchi maggiori dell’anno, come del resto tutte le città d’arte. I protocolli operativi sono incentrati sulla protezione in primis dell’area Marciana: del Ponte di Rialto e del Ghetto, oltre all’aeroporto, alle stazioni ferroviarie e agli ingressi della città, obiettivi di possibili attentati. I moduli anche se definiti quando il terrorismo si manifestava in maniera diversa e chi ci doveva proteggere si aspettava azioni di tipo militare, sono cambiati. Si sono adeguati per affrontare azioni terroristiche cosiddette slow profile. Inoltre, anche le forze di polizia di Venezia possono contare su reparti speciali di carabinieri e polizia. Infatti, da oltre un anno sono operativi anche nella nostra città gli Uopi della polizia e i Sos dei carabinieri. Si tratta di unità antiterrorismo addestrate ad un primo intervento in caso dell’azione di uno o più terroristi. Sono uomini formati con i reparti speciali Nocs e Gis, famosi in tutto il mondo per la loro professionalità. Reparti che, come il Gis dei carabinieri, sono stati anche in teatro operativo all’estero come in Afghanistan al seguito delle nostre truppe militari impegnate in missioni di peacekeeping. Quest’anno l’attenzione per Pasqua è ancora più alta in considerazione del fatto che proprio la scorsa settimana carabinieri e polizia, coordinati dal Procuratore antiterrorismo Adelchi d’Ippolito, hanno individuato e smantellato una presunta cellula jihadista che aveva intenzioni di compiere un attentato terroristico a Venezia, sul Ponte di Rialto. Venezia. «In questo momento non puoi certo trascurare alcun segnale che abbia a che fare con presunta attività terroristica. Nessuno si fa carico del rischio di considerare un qualsiasi indizio privo di un seguito investigativo. Né noi né la magistratura. Tra questi indizi ci sono sempre di più anche molte segnalazioni di donne italiane che in fase di separazione dai mariti di fede islamica, segnalano che il marito ha comportamenti strani o ha materiale che invita alla Jihad». A parlare è un ufficiale dei carabinieri del Ros che da anni lavora tra Veneto e Lombardia. Investigatore che tratta questioni di terrorismo da oltre un decennio. Prima quello legato ad Al Qaeda e con un’organizzazione di stile militare e ora questo terrorismo slow profile che coinvolge spesso l’insospettabile vicino di casa. Spiega il militare: «Sono sempre di più le donne sposate a uomini musulmani

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che, una volta deciso la fine del loro rapporto con il marito, chiedono il divorzio. Succede che per sostenere i propri motivi in funzione della separazione raccontino alle forze di polizia che il marito ha materiale jihadista che al ritorno da un viaggio nel suo Paese si è portato in valigia foto che riproducono azioni terroristiche o magari nel telefonino ha video di attentati o di persone uccise con coltelli o fatte saltare in aria con dell’esplosivo. Pur capendo che il tutto è frutto, spesso, di accuse infondate, non possiamo non verificare la fondatezza dell’accusa». «Si controlla l’uomo fino ad arrivare ad eventuali perquisizioni», continua l’ufficiale. «Spesso finisce in una bolla di sapone, non si trova niente di quanto indicato. Ma nulla viene tralasciato proprio perché la situazione attuale impedisce di prendere sotto gamba una qualsiasi segnalazione». La sottovalutazione delle informazioni raccolte a carico dell’attentatore inglese, è costata cinque morti a Londra il 22 marzo scorso. «La “vendetta” della donna arriva quasi sempre quando si rende conto di essere stata presa in giro e che il matrimonio il marito lo aveva contratto solo per ottenere la cittadinanza italiana», spiega l’ufficiale dei Ros. «A volte, il tutto finisce perché lui pretende che lei si converta all’Islam e la donna si oppone. Come è evidente, tutto questo con il terrorismo ha poco a che fare». In Veneto, nell’ultimo anno, ci sono state quattro donne sposate a islamici che in fase di separazione dal marito hanno inviato segnalazioni del genere alle forze di polizia. Nella vicina Lombardia, il numero sale a sei solo negli ultimi otto mesi. A comandare sarà come sempre il primo spicchio di luna nascente, ma stando al calendario e ai calcoli, quest’anno il Ramadan dovrebbe iniziare in una data che oscilla tra il 26 e il 27 maggio. Non ci dovrebbero essere, come gli altri anni, i problemi di umidità e di sete, quando il mese sacro abbracciava proprio i giorni più caldi. Il nono mese dell’anno, quello in cui fu rivelato il Corano a Maometto, dovrebbe dunque essere celebrato a partire dalla fine di maggio. Per un periodo di 29-30 giorni, i fedeli di Allah della provincia di Venezia - stranieri (circa ventimila), cittadini italiani e veneziani convertiti all’Islam (che sono sempre di più) - smetteranno di prendere cibo e di bere acqua dall’alba al tramonto, si asterranno dagli atti sessuali e si purificheranno con la preghiera. I centri islamici si stanno già preparando per affittare sale capaci di contenerli. Si pianifica anche la festa di fine Ramadan, la cosiddetta Id-Al Fitr, la “festa dell’interruzione” che cade il primo giorno del mese di Shawwal, il decimo del calendario e catalizza migliaia di persone. Un momento che dovrebbe, secondo la Sunna, essere celebrato all’aperto. In questi anni i centri hanno scelto di festeggiare la Id in un parco, meteo e autorizzazioni permettendo. Pag 21 Accordi con i privati per il riutilizzo delle chiese chiuse di Enrico Tantucci L’annuncio del Patriarca per garantire la conservazione. Si accetteranno proposte “in ambito culturale o caritativo”. I Comitati privati “scaricano” l’Unesco Il Patriarca Francesco Moraglia “apre” per la prima volta al riuso organico delle chiese chiuse in centro storico o che non possono più continuare a essere utilizzate per il culto per la diminuzione dei numero dei fedeli e dei parroci legati anche a calo demografico e alla crisi delle vocazioni. Lo ha fatto ieri in un articolato discorso all’Assemblea dei Comitati Privati Internazionali per la salvaguardia di Venezia - nel Salone del Piovego - ringraziandoli per il loro impegno cinquantennale per la città e anche per la tutela del patrimonio ecclesiastico conservato nelle chiese. «È importante ricordare che, a Venezia» ha detto Moraglia « vi sono problemi conservativi urgenti che riguardano molte chiese e che il loro numero (un centinaio in città e oltre 200 nell’intera Diocesi) richiede di riflettere su una razionalizzazione del loro ruolo liturgico e pastorale, spesso anche a fronte dell’innegabile flessione demografica (specialmente del centro storico). Sarà necessario individuare gli edifici che, effettivamente, non rispondono più a specifici bisogni pastorali ed è compito della Chiesa locale individuare soluzioni e proposte per rendere “utili” - ad esempio in ambito culturale e caritativo - alla stessa collettività quei luoghi, senza far perdere mai la loro dimensione simbolica in nome di un funzionalismo o “polivalenza” che non solo li impoverisce ma li snatura». Censimento e concessioni. Si tratterà in pratica di fare una sorta di “censimento” delle chiese non più utilizzate o aperte al culto e stabilire per ciascuna di esse una destinazione sulla base delle proposte dei privati che perverranno. Ma senza snaturare però il luogo di culto e con una regia

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mantenuta nelle mani della Curia. Non semplici affitti di spazi espositivi, ma piuttosto concessioni per progetti specifici. Qualche accordo con i privati in questo senso si starebbe già chiudendo, come ad esempio quello per la chiesa di San Fantin. Per il resto - per il mantenimento dei luoghi di culto alla loro funzione - si punterà anche a un lavoro di “squadra” con parroci a cui saranno affidate più chiese, anche con la collaborazione dei fedeli. Parrocchie condivise. «La Chiesa di Venezia è, infatti, decisamente orientata verso la costituzione anche nel centro storico della realtà lagunare - ha detto infatti a questo proposito ieri il Patriarca – delle cosiddette “collaborazioni pastorali interparrocchiali” che permetteranno (in certi casi già sta avvenendo) di condividere – mettendo in comune forze e risorse (anche umane) – ambiti e impegni pastorali nei quali, da soli, ormai non è più possibile operare in modo efficace. Il valore della collaborazione e maggiore sinergia tra parrocchie diventa vitale in una città come Venezia dove il numero di edifici sacri è enorme per quantità e notevolissimo per qualità dei tesori – spesso autentici capolavori - in essi custoditi. Non ci può essere restauro di una chiesa senza (prima) una comunità “viva” che se ne faccia carico, che ne custodisca la bellezza e la valorizzi nel culto e non solo. Un edificio senza vita non è mai tutelato e valorizzato ed è destinato all'abbandono. Come lo è un edificio che non ha, alle spalle, una comunità reale che se ne fa carico. Il cammino di collaborazione pastorale tra le comunità parrocchiali della città che iniziamo ad attivare ha presente questa istanza e punta, quindi, sia a far crescere la sensibilità comune tutelando e valorizzando il patrimonio sia garantendo la presenza di persone preparate quali interlocutori affidabili – specialmente in fase di progettazione e gestione degli interventi – nei confronti di chiunque sia interessato e disponibile ad offrire contributi e risorse in tal senso». I Comitati privati internazionali per la salvaguardia di Venezia “scaricano” l’Unesco - intorno al quale erano nati, dopo la grande alluvione del 1966 - e stringono un accordi di collaborazione direttamente con il ministero dei Beni culturali e le Soprintendenze veneziane che seguiranno d’ora in poi direttamente i loro interventi di restauro. Il nuovo accordo è stato presentato ieri nel Salone del Piovego di Palazzo Ducale dove si svolge quest’anno la tradizionale riunione annuale - la numero 35 - in cui si presenta anche il nuovo programma di restauri. A illustrarlo, il presidente dell’Associazione dei Comitati Umberto Marcello del Majno con il vicepresidente Giordano Zeli e il sottosegretario ai Beni Culturali - con delega ai siti Unesco - Ilaria Borletti Buitoni. È restata seduta in platea e non sul palco invece Ana-Luiza Thompson Flores, direttore dell’Ufficio Unesco di Venezia. «Il nostro “genitore” ci sta mettendo in difficoltà» ha detto Zeli «proponendoci delle condizioni di collaborazione per noi inaccettabili. Speriamo di potere tornarci a fregiare del marchio Unesco se le cose cambieranno, ma intanto siamo grati al ministero dei Beni Culturali per il nuovo accordo che ci rende “partner” diretti delle Soprintendenze». Lo stesso sottosegretario Borletti Buitoni nel suo intervento, pur sottolineando l’importanza dell’accordo con i Comitati privati e sottolineando il loro ruolo si è proposta per una mediazione tra le due istituzioni. Cosa c’è dietro? Questioni economiche e politiche insieme. L’Unesco per il suo ruolo di collaborazione tra i Comitati e le Soprintendenze per i progetti di restauro, riceveva dai primi una percentuale del 5 per cento sul costo dell’intervento. Due anni fa la percentuale è improvvisamente salita al 13 per cento, con altre aggiunte economiche che rendevano sempre più gravosi i costi per i Comitati. Dietro il cambio di linea, la necessità per l’Unesco di aumentare i suoi introiti, anche per la riduzione dei contributo all’organismo dell’Onu da parte del Governo italiano, ma forse anche una ripicca proprio per questo. Fatto sta che i Comitati non hanno accettato e si sono rivolti direttamente ai Beni Culturali e con il nuovo accordo - a cui ha lavorato attivamente anche la nuova soprintendente Emanuela Carpani, che ieri ha fatto gli onori di casa- tratteranno direttamente con gli uffici ministeriali per i progetti di restauro, senza dove pagare alcuna percentuale a nessuno. E di Unesco nel suo intervento ha parlato anche la vicesindaco di Venezia Luciana Colle riferendosi al report sulla salvaguardia della città dal punto di vista turistico e ambientale già inviato all’organismo che ha messo la città sotto osservazione. CORRIERE DEL VENETO Pag 7 Curia, un piano per le chiese vuote: “Fondi per i restauri, è emergenza” di E. Lor.

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Assemblea dei Comitati privati, è rottura con l’Unesco: costi alti Venezia. Troppe chiese in città rispetto alle attuali esigenze di culto dei residenti e troppo pochi fondi per garantirne la conservazione. L’allarme viene dalle parole del patriarca Francesco Moraglia pronunciate ieri a palazzo Ducale in occasione dell’apertura dei lavori dell’Assemblea Generale dei Comitati Privati Internazionali per la Salvaguardia di Venezia. «A Venezia vi sono problemi conservativi urgenti che riguardano molte chiese e il loro numero, un centinaio in città e oltre 200 nell’intera diocesi. Richiede di riflettere su una razionalizzazione del loro ruolo liturgico e pastorale, spesso anche a fronte dell’innegabile flessione demografica – ha spiegato Moraglia - Sarà quindi necessario individuare gli edifici che non rispondono più a specifici bisogni pastorali ed è compito della Chiesa locale individuare soluzioni e proposte per rendere utili, ad esempio in ambito culturale e caritativo, alla stessa collettività quei luoghi, senza far perdere mai la loro dimensione simbolica in nome di un funzionalismo o polivalenza che non solo li impoverisce ma addirittura li snatura». Campanili pericolanti, vetrate e tele danneggiate, pavimenti e marmi sgretolati dalla salsedine. Ma di fondi per proteggere il patrimonio ce ne sono sempre meno. «Anche alcuni strumenti fiscali, lo rileviamo con rammarico, spesso non sono applicabili al patrimonio ecclesiastico che, seppur di fruizione pubblica, viene considerato proprietà privata e quindi escluso dai benefici fiscali che molto gioverebbero ai fini della sua salvaguardia – aggiunge il patriarca – In tale contesto il generoso supporto dei Comitati privati è non solo molto prezioso ma anche decisivo». Proprio il mecenatismo culturale e la fiscalità sono il tema del convegno in programma nel pomeriggio a palazzo Ducale organizzato dai Comitati privati che compiono cinquant’anni di attività. Vi fanno parte 23 associazioni di 11 paesi diversi che in mezzo secolo hanno realizzato un migliaio di progetti per la salvaguardia della città tra restauri di manufatti storico artistici, progetti didattici, pubblicazione di libri. Per l’80 per cento dei casi hanno riguardato beni ecclesiastici. Nel 2016 sono stati conclusi 43 progetti di restauro e al momento ce ne sono 60 in corso. L’investimento lo scorso anno è stato di 3,5 milioni di euro, quest’anno sarà di 5 milioni. Tra gli interventi di quest’anno ci sono il crocifisso della chiesa di San Zaccaria, il restauro in corso nell’ ex Palazzo Reale, restauri di alcune tele del Tintoretto, l’avvio dei lavori nella Tesa 113 dell’Arsenale. Ed è di ieri l’annuncio della firma di un accordo tra Comitati Privati e Ministero dei Beni Culturali il quale si impegna a fornire ai primi il supporto tecnico diretto necessario per realizzare gli interventi di salvaguardia. Finora a fare da intermediario ci pensava l’Unesco chiedendo un riconoscimento economico per il ruolo divenuto troppo alto. E qui è nato lo strappo tra i due. Tanto che ieri, dopo l’introduzione della padrona di casa, la soprintendente Emanuela Carpani, e i saluti del presidente dei Comitati Umberto del Majno, il vicepresidente dei Comitati Giorgio Zeli ha detto: «La collaborazione con l’Unesco, nostro genitore e partner principale ci mette in difficoltà e ha generato una fase di stallo per via dalle richieste così esose che non ci permettono più di proseguire, l’auspicio per il futuro è di trovare una strada praticabile». Uno strappo che il sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni si è subito offerta di ricucire. «Mi offro come mediatrice di pace, vorrei avviare una serie di contatti perché il nodo dei rapporti non facili tra Comitati e Unesco si possa sciogliere in modo, al prossimo incontro, di vedere seduto al tavolo anche un membro dell’Unesco». Infine è intervenuta la vicesindaco Luciana Colle. «In un’ottica di riduzione progressiva di trasferimenti della legge speciale è sempre più fondamentale il coinvolgimento dei privati – ha detto Colle – Le risorse che con difficoltà recuperate e mettete a favore della città sono una chiara dimostrazione dell’amore che ci lega a Venezia. Grazie anche a voi Venezia può ripartire». Pag 9 Chiude la moschea contestata: “Va spostata in un altro sito” di Alice D’Este I bengalesi: ok, ma sia accessibile. Più “occhi” a Mestre Mestre. Il centro di preghiera islamico di via Fogazzaro chiuderà. Le violazioni di carattere edilizio, ma soprattutto i problemi di «gestione sociale» della zona, culminati in questi giorni con la protesta dei residenti che hanno appeso striscioni alle finestre contro la «moschea», hanno fatto propendere ieri per una nuova strada. Nel comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, che si è svolto in mattinata in Prefettura, si è deciso infatti di proporre alla comunità spazi alternativi in città da dedicare alla

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preghiera. Sul tavolo sono state messe diverse destinazioni possibili, da via Ca’ Marcello a Favaro, che verranno proposte in queste ore al referente della comunità bengalese Kamrul Sayed prima della consegna della notifica di chiusura, che andrà eseguita entro tre giorni. «Il Comune – scrive la Prefettura nel documento finale del Comitato per la sicurezza - per venire incontro alle esigenze della comunità bengalese, ben integrata e insediata nel territorio avvierà da subito i contatti con i referenti responsabili, allo scopo di individuare, nell’ottica di un rapporto improntato al dialogo e all’integrazione sociale, dei luoghi alternativi per la preghiera nel rispetto delle norme vigenti». Lo spazio di via Fogazzaro dovrà dunque essere chiuso. Ormai questo è deciso. Ma si è scelta la linea morbida, quella del dialogo. Da anni infatti la comunità bengalese in città è ben integrata e non si sono mai manifestati problemi particolari legati alla giustizia, anche se di recente la «moschea» è finita nella bufera perché tra i suoi frequentatori c’era anche quel Fisnik Bekaj arrestato per terrorismo. Anche in questo caso infatti la comunità si dice pronta alle nuove soluzioni. «Noi siamo disponibili – dice subito Kamrul Sayed – ovviamente dipende da che cosa ci proporranno. Capiamo la volontà di spostarla un po’ dal centro, però speriamo che siano posti raggiungibili con i mezzi pubblici. Molti di noi non hanno l’automobile e spostarsi sarebbe difficile. Lavoriamo a Venezia o in Fincantieri quindi speriamo sia una soluzione raggiungibile». Ben più accesi i toni dei referenti dei comitati. «La chiudono finalmente – dice il portavoce Luigi Corò – hanno tre giorni di tempo, sennò mettono i sigilli. Va detto che questa chiusura è tutto merito del comitato, siamo noi che abbiamo fatto un lavoro incessante in questo periodo». E infatti la recente inchiesta sui presunti terroristi che sarebbero stati pronti a far saltare in aria il ponte di Rialto non ha fatto altro che consolidare una protesta dei residenti che dura da anni. Il comitato provinciale di ieri ha anche affrontato la questione della sicurezza urbana con uno sguardo più ampio nei confronti di tutto il Comune, in particolare le zone di Mestre e Marghera. Contrariamente a una percezione diffusa, nel 2016 c’è stata una diminuzione dell’11,4 per cento dei reati rispetto al 2015 – meno furti (11,5 per cento), meno rapine (12), ma invece un aumento dello spaccio (più 14,4 per cento) – ma si è deciso comunque di alzare il livello dei controlli. La principale novità riguarda la scelta di implementare il sistema di videosorveglianza in centro storico, ma soprattutto in terraferma. Nuovi dispositivi verranno installati in piazzale Candiani, via Fogazzaro, via Cappuccina (vicino alla stazione) e al parco Bissuola. Di questa possibilità aveva già parlato il prefetto di Venezia Carlo Boffi nei giorni scorsi ricordando le «numerose possibilità innovative offerte dalla tecnologia». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 13 Prima i veneti anche in ospizio di Alda Vanzan Dopo la legge sugli asili si punta alle corsie preferenziali anche per i servizi alla persona Non solo asili: il concetto prima i veneti sarà esteso anche agli anziani, ai disabili, a chiunque abbia bisogno di un sostegno di carattere sociale. E il requisito sarà identico a quello dei pargoli: per avere una corsia privilegiata bisogna essere residenti in Veneto in maniera continuativa da un tot di anni. Gli altri? Aspettano. E così, dopo aver approvato la legge 6 del 21 febbraio 2017 che dà priorità nell'accesso agli asili nido ai bambini nati da genitori che risiedano e lavorino in Veneto «da almeno 15 anni», ecco che in consiglio regionale arriva una nuova proposta, destinata peraltro a essere approvata visto che a presentarla è la Lega con Riccardo Barbisan, che introduce il principio della residenzialità anche nei servizi alla persona. Illustrato in Quinta commissione sanità e sociale, il provvedimento ha già provocato la reazione dell'opposizione: secondo Piero Ruzzante (Mdp) una legge di questo genere penalizza i veneti: «Il criterio della residenzialità servirà a castigare i veneti che dopo aver lasciato la regione volessero farvi ritorno. La proposta di legge, infatti, prevede una graduatoria per l'accesso ai servizi basata sul periodo continuativo di residenza in Veneto: appena un cittadino si troverà fuori dalla regione, magari per ragioni di lavoro o di studio, azzera il contatore». Barbisan non si scompone. Anzi. «Mi fa piacere - dice il consigliere leghista - che la mia proposta faccia

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discutere perché la nostra intenzione è di portare la produzione legislativa veneta relativa al welfare al livello, ad esempio, della Provincia autonoma di Trento dove il Pd governa da 70 anni senza soluzione di continuità. Sapete cosa prevede l'Agenzia provinciale per l'assistenza e la previdenza di Trento? Il requisito è di essere residenti da 5 anni oppure di avere una residenza storica di 15 anni. Ecco, io sono più blando. Noi, infatti, vogliamo solo introdurre la residenzialità come concetto premiale». In realtà la proposta di legge numero 204 di Barbisan prevede questo e quello: l'articolo 1 dice che costituisce titolo per l'accesso ai servizi il possesso da parte dei richiedenti della residenza anagrafica o l'aver prestato attività lavorativa da almeno cinque anni in Veneto. Tradotto: corsia privilegiata a chi sta o lavora in Veneto da almeno cinque anni per entrare in casa riposo, ottenere l'assistenza domiciliare o i contributi all'affitto. Poi c'è l'articolo 2 che prevede punteggi maggiori ai fini della graduatoria: si abita o si lavora in Veneto da dieci anni? Cinque punti. Da trenta? Venti punti. Secondo Ruzzante il meccanismo di Veneto First, Prima il Veneto, penalizza i veneti: «Paradossalmente può accedere ai servizi un immigrato che vive qui dagli anni 90, ma non un veneto che per motivi di lavoro si è trasferito in Lombardia e poi è rientrato». Barbisan non batte ciglio: «Ruzzante dice che favoriamo gli immigrati? Per me se lavorano e pagano le tasse sono identici ai veneti». E cita una sentenza della Corte costituzionale (432/2005) secondo cui il requisito della residenza continuativa risulta non irragionevole quando si pone in coerenza con le finalità che si intende perseguire. Intanto si cerca di capire cosa farà il Governo nei confronti della legge sugli asili (peraltro all'epoca proposta dai tosiani e sostenuta anche dalla maggioranza): i 60 giorni per l'eventuale impugnazione non sono ancora scaduti, ma un gruppo di associazioni riunite in Infanzia First - dai maestri cattolici ai genitori democratici fino a Save the Children e Unicef Padova - hanno «sollecitato il Governo a valutare la possibilità di sollevare un giudizio di costituzionalità con riferimento ai principi costituzionali di uguaglianza». Denuncia condivisa da Ruzzante: ieri ha scritto al governo pure lui. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 3 Quei passi falsi di Steve. E Donald avverte il suo “Rasputin” di Massimo Gaggi Quando è stato sconfitto sulla riforma sanitaria con la quale voleva sostituire Obamacare, ha ammesso che non aveva capito quanto fosse complicato occuparsi della salute degli americani. Privo di una strategia alternativa all’accordo sul nucleare iraniano da lui sempre demonizzato, Trump se l’è cavata ostentando la sua ultima scoperta: la situazione in Medio Oriente è molto complessa, «ho ereditato un macello». E, dopo aver accarezzato una possibile strategia di «realpolitik» in Siria d’intesa coi russi e con un Assad improvvisamente riabilitato, ieri il presidente Usa ha cambiato di nuovo rotta con disinvoltura: «Quelle immagini, bambini massacrati, mi spingono a un ripensamento. Che c’è di strano? Sono flessibile: faremo qualcosa contro i colpevoli, adesso è una nostra responsabilità». Come se questo fosse il primo attacco chimico di una guerra che dura da cinque anni e ha fatto mezzo milione di morti civili, spesso uccisi col gas. L’improvvisa estromissione di Steve Bannon, il suo Rasputin, dal Consiglio per la sicurezza nazionale (Nsc), l’organo che forgia la politica estera della Casa Bianca, può essere fatta rientrare in questo stesso processo: la faticosa «curva di apprendimento» di un presidente a digiuno di politica estera che in campagna elettorale ha venduto agli americani ricette populiste seducenti ma impraticabili e ora impara in un’aula scolastica grossa come il mondo intero la dura realtà dei fatti. Alla Casa Bianca negano: dicono che quando, appena insediato, Trump prese la decisione senza precedenti di inserire un politico, l’ideologo Bannon, nel Nsc, lo fece essenzialmente per «sorvegliare» il suo leader, il generale Michael Flynn e per «disinfettare» l’organismo dalle residue influenze dell’era Obama. Ci può essere del vero, ma la sostanza non cambia: affidando a un militare ideologizzato come Flynn e a un ideologo una istituzione-chiave per la sicurezza degli Usa e dell’Occidente, Trump fece un’operazione temeraria la cui insostenibilità è

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per fortuna emersa molto rapidamente. Prima col licenziamento di Flynn per il suo coinvolgimento nel «RussiaGate», poi con le pressioni del suo successore, il generale H.R. McMaster, per una normalizzazione della cabina di regìa della politica estera della Casa Bianca. Un’operazione attuata ora estromettendo Bannon e recuperando i capi militari e dei servizi segreti che erano stati esclusi. Politica estera e difesa tornano nelle mani dei professionisti? Difficile fare previsioni con un leader imprevedibile e anti establishment come Trump che continua, comunque, ad avere al suo fianco, oltre all’attivissimo genero, Jared Kushner, lo stesso Bannon. Che gode ancora della fiducia del presidente, ma ha commesso vari errori anche sul fronte interno: sua la pressione per varare in tutta fretta il primo decreto anti immigrati subito impallinato dai tribunali mentre sulla riforma sanitaria ha spinto per la linea dura con la destra radicale dei Freedom Caucus che ha prodotto la rottura (ora lo speaker Ryan sta tentando una difficile ricucitura). Guai, con Trump, a farsi la fama del «loser». Pag 5 “Attacco chimico”. Diario di un medico di Marta Serafini Minuto per minuto così le squadre di Medici Senza Frontiere hanno soccorso i feriti «Sono in Siria da un anno e tre mesi. E un attacco di quest’entità io non l’ho mai visto». Massimiliano Rebaudengo, 43 anni, è capo missione di Medici Senza Frontiere in Siria. Parla al telefono. Racconta una giornata - martedì 4 aprile 2017 - in cui sono morte 75 persone a Khan Sheikhoun, nel nord della Siria. Nomi e date che chi ha visto non dimenticherà mai. «Un attacco chimico di cui va attribuita la responsabilità» per le Nazioni Unite. «Una strage di bambini» per politici e giornali. Ma nel racconto dei dottori non c’è spazio per la retorica del dolore o per il linguaggio diplomatico. In guerra a parlare per prime sono le cifre. Numeri che vanno a braccetto con i nomi dei gas usati per sterminare i civili: sarin, agenti neurotossici, cloro, ammoniaca. «Quando nei nostri ospedali arrivano dieci feriti parliamo di mass casualty (afflusso massiccio di vittime, ndr). Martedì è stato diverso. Solo il nostro staff medico ha visto 92 pazienti». Si parte da qui. Poi, Rebaudengo inizia la cronaca. Ore 8.30 I dottori di Msf dell’ospedale di Atmeh sono stati avvertiti via telefono che c’è stato un attacco. Nella conversazione, le fonti avvertono che molto probabilmente sono state usate armi chimiche contro i civili. Non è la prima volta che accade. Lo staff di Msf che si trova sul campo - «tutti uomini, tutti siriani» - ha già visto e trattato pazienti intossicati dai gas delle armi chimiche. Solo una settimana prima, un ortopedico è morto durante il trasporto dopo essersi intossicato curando un paziente a Latamneh colpita da un raid con gli elicotteri. Passano pochi minuti e lo staff capisce che questa volta è diverso. O, meglio, non è diverso. «È più grave». Da Gaziantep, al confine tra Siria e Turchia, viene coordinata la missione. In meno di due ore dall’attacco - che è iniziato alle 6.50 - cinque medici e tre équipe si mettono in movimento per raggiungere gli ospedali nella zona dell’attacco. Si deve decidere in fretta, non c’è spazio per le incertezze. Chi va dove? «Tre medici partono per l’ospedale più grande al confine con la Turchia, quello di Bab el Hawa, una squadra viene inviata all’Atmeh Charity dove si trova tutt’ora e un terzo team va all’ospedale di Hass, più piccolo degli altri». Il protocollo è sempre il solito, anche in un contesto del genere. Si viaggia sulle ambulanze e sui minivan, mantenendo costantemente il contatto radio con chi coordina la missione. Prima di partire si forniscono le coordinate dell’itinerario. Ma al di là delle regole e delle procedure, chi sale in auto sa molto bene che rischia di morire in qualsiasi momento. «In questa guerra che dura da sei anni, i nostri medici, le nostre ambulanze, i nostri convogli umanitari e i nostri ospedali sono diventati un target militare come un altro». Tra le 10 e le 11.30 Lo staff raggiunge gli ospedali. Altro protocollo da seguire. «Si indossano le tute integrali, le maschere e i guanti rinforzati e solo allora si possono iniziare a visitare i pazienti che vanno prima spogliati e poi lavati». Il rischio contaminazione è altissimo. Basta un errore e il medico si trasforma in paziente. L’elenco dei feriti che arrivano da Khan Sheikhoun e visitati da Msf si allunga con il passare delle ore: «Diciassette a Bab el Hawa, 8 ad Hass, 35 ad Atmeh». Lo screening dei sintomi è lungo. «Le pupille ristrette, gli occhi infiammati, l’incoscienza e l’incontinenza lasciano presupporre l’uso di un agente neurotossico che potrebbe essere Sarin». Bambini, donne, vecchi. I pazienti sono

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di tutte le età, nessuno viene risparmiato. «Mancanza di respiro, cianosi e odore di candeggina sulla pelle indicano l’uso di un agente soffocante come il gas clorino», è il primo report stilato dallo staff. Iniziano anche i primi decessi: «Quattro morti ad Hass, molti di più a Bab el Hawa, di Atmeh non si conoscono ancora le cifre». I sopravvissuti lottano per respirare, non riescono a raccontare nulla. I bambini che ce l’hanno fatta sono in stato di choc. Due infermieri di Bab el Hawa si contaminano. «In tutte le strutture mancano i farmaci, serve atropina, idrocortisone». Msf dona i medicinali che ha portato. Ore 21.30 I medici sul campo riferiscono via telefono al team di Gaziantep le prime diagnosi. «I sintomi sono coerenti con l’esposizione ad agenti neurotossici come il sarin e ad agenti soffocanti come il gas cloro». Sono parole pesate con cura, che l’indomani verranno trasmesse nei comunicati stampa della ong. Ma non c’è tempo di fermarsi. La squadra all’Atmeh Charity rimane sul campo. Sono appena arrivati altri 35 pazienti, tutti in condizione critiche. Il lavoro da fare è appena iniziato. Intanto, sui telegiornali della sera passano le immagini dei piccoli corpi cianotici. Qualcuno si ferma a guardare. Qualcuno tira dritto o cambia canale. La Siria è lontana. O, almeno, così pare. Pag 30 Il blocco sociale di Trump è un puzzle da ricomporre di Mauro Magatti Da quello che si sa, l’avventura che ha portato Trump alla Casa bianca è cominciata sotto il segno di una buona dose di improvvisazione. Quasi che la sua linea politica si sia costruita strada facendo, in base alle situazioni, agli interlocutori, alle convenienze del momento. Ma oggi, avvicinandosi la metà dei primi 100 giorni, si scopre che l’America di Trump non è una fake news . Nonostante gli errori grossolani e le improvvisazioni quotidiane, le ambizioni del neo presidente vanno ogni giorno di più delineandosi: ridisegnare gli equilibri profondi della società americana. Ad oggi, è ancora molto difficile pensare che la sua scommessa possa avere successo. Ma la partita che si sta giocando è tutto salvo che banale. Lo si capisce dall’accanimento con cui una parte del potere reale americano (media, accademia, mondo dello spettacolo, finanza) sta cercando di resistergli. Con il New York Times in testa, la pista battuta per cercare di scalzare il presidente eletto ha a che fare con le «relazioni pericolose» con la Russia di Putin. E molti sono convinti di potercela fare: proprio qualche giorno fa, la richiesta da parte dell’ex consigliere per la sicurezza, il falco M. Flynn, di testimoniare in cambio dell’immunità ha galvanizzato gli oppositori, convinti che qualcosa di importante possa presto accadere. Lo scontro è apertissimo e si vedrà come andrà a finire. Dal punto di vista socio-politico, però, la sfida di Trump va avanti. La sua azione punta decisamente a coalizzare tre segmenti della società americana arrivando alla costruzione di un vero e proprio blocco sociale in grado di orientare il futuro del più importante Paese del mondo per molti anni a venire. Il primo segmento è costituto dagli interessi economici più tradizionali. La decisione di portare a 54 miliardi di dollari nel 2018 le spese militari (+9%) e il favore fatto all’industria del carbone con l’abrogazione delle leggi ambientaliste volute da Obama danno chiaramente la linea. Così come il primo atto di quella che potrebbe diventare una vera e propria lotta commerciale, con l’introduzione di dazi pesantissimi su una serie di prodotti. In questo modo, il presidente si schiera a favore di quella parte dell’economa americana che non si è mai riconosciuta con la new economy, considerata troppo modaiola e alla fin fine improduttiva. Questo primo segmento ha forti tangenze con i gruppi religiosi ostili alla fortissima corrente culturale che in questi anni ha attraversato la società americana, tutta centrata sui temi dei diritti individuali, dell’aborto, del gender, della procreazione assistita: le chiese più conservatrici sono convinte che non ci sia tempo da perdere e che Trump sia l’uomo giusto per combattere la deriva culturale che Obama avrebbe legittimato, mandando in pochi anni in frantumi buona parte dei valori tradizionali. Il terzo e ultimo segmento è costituito da quella larga parte di cittadini - per lo più appartenente al ceto medio e medio-basso - che semplicemente si è stancata della narrazione sulla globalizzazione. Il continuo declino del benessere disponibile, le aspettative di vita calanti per nuove generazioni, i problemi di sicurezza nella vita urbana spingono questi gruppi (specie se bianchi) a chiedere di essere protetti contro tutto e contro i tutti. Nella speranza di potere presto ottenere una percentuale di quella nuova prosperità che ci si immagina

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così di tornare a creare. E nell’attesa di poter godere dei futuri benefici economici, ce la si prende con gli immigrati, che diventano il collante perfetto per aggregare attorno ad un bersaglio comune interessi assai diversificati. Questa inedita alleanza sociale - molto diversa da quella creata da Reagan e ereditata da Clinton, lontanissima da quella immaginata da Obama - non ha ancora la forza per compattarsi. Ma l’ipotesi del presidente è che ciò possa presto accadere attorno ad un disegno neomercantilista, che mescola la fede nel libero mercato e nella libera iniziativa con la protezione nei confronti di tutto ciò che sta al di fuori della comunità nazionale. Una alleanza che ha nel risentimento contro le forze considerate ostili - come certifica la politica anti immigrazione - e nell’antico convincimento che la produzione della ricchezza comporti, necessariamente, lo sfruttamento sistematico delle risorse disponibili (umane, ambientali, tecnologiche) i suoi punti di forza e di aggregazione. Laddove dovesse avere successo un tale disegno è destinato a produrre un enorme impatto sulla società americana. Con implicazioni di vasta portata anche sul piano internazionale. Di sicuro, tutto è in movimento: mai come oggi, il vento della storia sembra soffiare tra le pieghe della bandiera a stelle e strisce. LA REPUBBLICA Pag 1 La nebbia in Parlamento di Stefano Folli Nebbia sulla Manica, il continente è isolato", dicevano i vecchi inglesi orgogliosi della propria diversità. Nebbia in Parlamento, il Pd è isolato: si potrebbe ripetere oggi dopo il voto in commissione Affari costituzionali del Senato che ha visto la sconfitta del partito di maggioranza e una convergenza di tutti gli altri per eleggere il candidato centrista alla presidenza. Uniti per isolare il Pd, a cui era stato riconosciuto il diritto di esprimere il presidente dopo le dimissioni di Anna Finocchiaro, nominata ministra nel governo Gentiloni. E’ una storia ricca di significati nemmeno troppo reconditi. C'entra la fatidica legge elettorale, anch'essa avvolta nella nebbia più fitta. Ma non perché si sia formata "un'alleanza della conservazione" contrapposta al "partito della riforma", come sostengono i renziani. Più semplicemente i senatori hanno mandato un messaggio ostile al Pd, dal quale finora non è giunta alcuna vera iniziativa per sbloccare la paralisi intorno al modello elettorale post-Italicum. E in fondo, visto che il governo giustamente si tiene fuori dal campo di gioco (la riforma è tipica materia parlamentare), spetterebbe proprio al partito di Renzi avanzare proposte e soprattutto cercare un compromesso ampio. Ma questo non accade. Il Pd ha alzato la bandiera del Mattarellum per ragioni tattiche, al punto che potrebbe darsi il caso di una riforma che passa per un pugno di voti alla Camera e poi si arena al Senato. In altre parole, si scherza con il fuoco. Ieri sera, l'isolamento di chi per peso politico e parlamentare non dovrebbe mai farsi isolare, è sembrato il segnale che ci si sta avvicinando alla soglia di guardia. Può darsi che Alfano, al cui partito appartiene il neopresidente Torrisi, decida per le dimissioni dell'eletto, restituendo così al partito renziano ciò che gli spetta nella logica degli equilibri. Ma prima bisogna capire cosa ne ricaverebbe il ministro degli Esteri, il quale si trova ad avere in mano le sorti della legislatura. Pochi voti nel paese, molte carte da giocare nel palazzo: questa è l'abilità del leader centrista. Allo stato delle cose, abbiamo quindi un partito di maggioranza di nuovo in fermento, voglioso di coinvolgere anche il presidente della Repubblica nella propria ricorrente frustrazione. Questo succede mentre lo "spread" è di nuovo orientato sopra i 200 punti, a indicare cosa accadrebbe se qualcuno forzasse di nuovo la mano a favore di elezioni anticipate. Non perché il voto sia in sé negativo, ma per il rischio che comporta precipitarsi alle urne senza una legge elettorale e senza un progetto di governo del paese. I nostri partner in Europa vedono con inquietudine la prospettiva di un' Italia priva di una maggioranza stabile e con un Parlamento dominato dai Cinque Stelle. Siamo ancora lontani da un simile esito, ma il clima è abbastanza pesante. Non a caso la Corte dei Conti ha messo nero su bianco cosa servirebbe realmente al paese: ridurre il cuneo fiscale e il peso delle tasse che grava su persone e imprese. Purtroppo sono temi che entrano poco o per nulla nel dibattito pubblico, condannato alla rumorosa propaganda di una campagna elettorale permanente. E il solo fatto che si chieda in modo pressoché esplicito al governo Gentiloni-Padoan di varare una finanziaria leggera e non impopolare, o magari nessuna finanziaria prima delle elezioni, la dice lunga sulla qualità dello scontro elettorale che si sta preparando.

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L'episodio del Senato potrebbe essere sanato, ma resta la sua carica simbolica. Perché il ritorno di Renzi sulla scena non coincide certo con una ricerca di mediazione, bensì con la ripresa di una corsa solitaria verso la ricerca del plebiscito. Una volta di più la partita è fra l'uomo e il paese: fuori dal palazzo, saltando ogni filtro e ogni livello intermedio. Finora gli insuccessi sono stati superiori ai successi, ma Renzi non demorde. Sta già personalizzando la battaglia elettorale prima ancora che sia cominciata. E chi avrebbe dovuto essere il poco probabile partner della riforma elettorale - da Forza Italia alla Lega, secondo varie interpretazioni - , ieri non ha esitato a mettere in un angolo il Pd. AVVENIRE Pag 3 Chi è Xi, il leader “centrale” dall’ambizione imperiale di Stefano Vecchia Il presidente cinese, popolare ed elitario, Un nuovo Mao? Nel discorso in apertura del Congresso nazionale del popolo – il simil-parlamento cinese che a sua volta esprime in fotocopia aspirazioni, strategie e diktat del Partito comunista – il 5 marzo scorso, il primo ministro Li Keqiang ha inserito un numero record di menzioni del presidente Xi Jinping, più volte indicato come 'centro'. Un riconoscimento del ruolo di Xi in una Cina che vede avvicinarsi a ottobre il 19° Congresso nazionale del suo Partito comunista, evento che non solo aprirà il secondo quinquennio di mandato presidenziale (e da segretario generale del partito), ma chiarirà anche chi lo affiancherà nel previsto ricambio generazionale e – situazione inusuale – se Xi si orienterà a prolungare il suo mandato oltre il decennio. La Costituzione non lo prevedere per la carica presidenziale, mentre non ci sono impedimenti a che le cariche maggiori nel partito possano essere prorogate. Per questo vi è attesa per chi sarà chiamato nel Comitato centrale del Pcc e, ancor più, nel suo ufficio politico (Politburo) e nel suo organo più esclusivo (attualmente sette membri), in cui si concentra il reale potere nel grande Paese estremo-orientale: il Comitato permanente del Politburo. Alle spalle di Xi Jinping (non a caso noto in Cina più per il suo ruolo politico che per le sue prerogative presidenziali), l’apparente pieno sostegno del partito che lo scorso ottobre lo ha acclamato «leader centrale» dandogli pieni poteri e chiedendo a quadri e funzionari obbedienza alle sue direttive. Confermandogli in sostanza un ruolo che nessuno statista ha avuto nell’ultimo ventennio. Finora almeno, tacitando il malcontento di chi preferirebbe una guida collegiale e teme la ripetizione degli eccessi di Mao. Non ancora nel mito, sicuramente il 63enne Xi Jinping ha oggi un potere equivalente a quello del Grande Timoniere, Mao Zedong. Con in più un’approvazione degli organi di partito e dello Stato che gli garantiscono piena legalità senza il curriculum 'eroico' o 'rivoluzionario' essenziale per la 'vecchia guardia' del Pcc, il cui influsso residuo si disperderà a ottobre proprio con il rinnovamento dei principali organi di partito. Più che 'centrale', Xi Jinping è ormai 'indispensabile', avendo accumulato tutte le cariche possibili, ma anche perché ha saputo rendersi insostituibile in un Paese in transizione, con ansie almeno pari all’orgoglio dei traguardi raggiunti. Ben 12 le sue attribuzioni ufficiali. L’ultima, quella di Presidente della Commissione centrale per lo sviluppo integrato militare e civile, assegnata alla fine di gennaio dopo la creazione della commissione che ha come scopo di «assicurare che il sistema industriale nazionale possa garantire le necessità delle forze armate». I n sintesi, Xi potrà decidere le scelte più opportune per garantire il meglio disponibile al suo apparato militare in via di ammodernamento e snellimento e che i risultati delle ricerche in ambito militare possano filtrare nel sistema produttivo. Un impegno che è sostenuto dal più elevato bilancio militare della storia cinese, ufficialmente per l’anno in corso di 152 miliardi di dollari. In rallentamento anch’esso, rispetto alla crescita degli anni scorsi, ma alla fine in linea con un ridimensionamento del sistema-Cina. Tra le molte cariche di Xi Jinping, primarie sono quelle di presidente della repubblica, di segretario generale del Comitato centrale del Partito comunista e quella di presidente della Commissione militare centrale. Cariche che gli garantiscono la guida di un partito egemone con 90 milioni di iscritti, dello Stato e delle forze armate. Il controllo della politica estera gli deriva invece dalla sua leadership del Gruppo di controllo centrale per gli Affari esteri. Xi ha inoltre un ruolo-chiave, a capo dei principali organismi che li presiedono, nei rapporti con Taiwan, nelle riforme, nella sicurezza nazionale, nello sviluppo informatico e controllo di Internet, nella modernizzazione dell’apparato militare, negli affari economici e finanziari. Da aprile

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2016, quando si è presentato in divisa mimetica nella base operativa, segnalando il pieno controllo su ogni iniziativa delle varie armi in via di ristrutturazione, è anche Comandate supremo del nuovo Centro di comando congiunto dell’Esercito di liberazione nazionale. Una concentrazione di potere che gli dovrebbe garantire un ruolo futuro. Che sia attraverso una sua permanenza sul trono politico oltre il 2022, oppure per il controllo che dietro le quinte potrà eventualmente esercitare sulla leadership del Pcc una volta esaurito il mandato, molto dipenderà dal numero degli alleati che riuscirà a collocare nei principali ruoli di partito prima del congresso autunnale, ma anche dalla percezione del successo delle sue politiche. Dal congresso di ottobre usciranno i nomi del suo successore e del secondo di grado nel Comitato permanente del Politburo, che – se confermati nell’ottobre 2022 – coincideranno nel marzo 2023 con quello di Presidente della Repubblica e di Primo ministro. Come era stato per lui stesso e per Li Keqiang nel 18° Congresso del Partito comunista dell’ottobre 2007. Forse con un percorso più agevole, però. L’ascesa al potere di Xi si è infatti collocata in un momento di crisi del partito, la peggiore dalle settimane concitate che precedettero la strage degli studenti in Piazza Tienanmen a Pechino a inizio giugno 1989. L’avvio della sua leadership ha dovuto confrontarsi con la resistenza di Zhou Yongkang, ex membro del Comitato permanente, ex capo dell’azienda petrolifera di Stato e dei servizi di sicurezza interna e la vittoria di Xi sugli avversari ha visto epurazioni che hanno coinvolto personaggi di tutto rilievo, come lo stesso Zhou e il capo del partito a Chongqing, Bo Xilai, astro nascente. Le campagne di moralizzazione e la lotta alla corruzione, il gran numero di arresti e di condanne, ampiamente pubblicizzati e sostanzialmente bene accolte dai cinesi a loro volta esasperati per lo strapotere di funzionari e amministratori, hanno cercato il massimo consenso possibile, con lo scopo di mantenere il primato del partito, ma anche di garantire fedeltà alla sua leadership impegnata a evitare alla Repubblica popolare cinese una sorte simile a quella dell’Unione sovietica. Sul piano economico, per i critici la sua guida ha mancato parecchi degli obiettivi proposti ai cinesi e le esigenze di controllo, stabilità e conformismo ideologico hanno in molti casi bloccato la liberalizzazione dell’economia. D’altra parte, accelerare sulle riforme in senso liberista da un lato, ridimensionare fortemente il sistema produttivo pubblico dall’altro, in un tempo di rallentamento della crescita, di difficoltà dell’export, di domanda interna stagnante, pongono pesanti rischi per il sistema. E a pesare è anche l’incognita-Trump, che ha dichiarato una 'guerra dei dazi' alle importazioni cinesi, che valgono una parte sostanziosa del deficit commerciale Usa, oggi attorno ai 500 miliardi di dollari. Uno scenario globale in trasformazione e in cui Xi, leader di un paese campione di protezionismo, è diventato paradossalmente il difensore della globalizzazione. Sicuramente, il ruolo e l’immagine della Repubblica popolare cinese in ambito internazionale hanno avuto sotto Xi un rilancio. La diplomazia cinese ha saputo giocare carta ideologica, esigenze interne e di partecipazione globale, rispetto delle regole e azioni unilaterali in un modo che rispecchia lo stile del suo leader: spregiudicato ma senza eccessi, rilassato ma incisivo, popolare e elitario. Alla fine, per molti, 'imperiale'. Pag 6 Fine vita, legge equivoca tra nodi e dubbi di Marcello Palmieri I punti critici Gli emendamenti cadono, i problemi restano. La Camera sta rischiando – anche senza volerlo – di aprire la strada a situazioni aberranti. Una cosa è certa, fin d’ora: come evidenziato da molte voci su queste pagine – ultimo in ordine di tempo il presidente emerito della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli (che su Avvenire del 4 aprile ha parlato di equivoci da superare) poco condivide la proposta di legge con i principi cardine del nostro ordinamento. Ecco qualche esempio. 1 No a idratazione e nutrizione Nella proposta di norma all’esame dell’Aula non compare mai la parola 'eutanasia', neppure con sinonimi. Fatto sta che il testo potrebbe introdurla surrettiziamente: dando infatti a un paziente la possibilità di non cominciare o di sospendere idratazione e nutrizione assistite nella sostanza sdogana il diritto di essere uccisi da una situazione – nella fattispecie l’assenza di acqua e cibo – assolutamente diversa dalla patologia di cui soffre il paziente. Discorso simile vale quando il medico si trova nelle condizioni di

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salvare una persona ma questa respinge le cure e il medico deve adeguarsi perché così dispone la legge: si può configurare un’eutanasia passiva, ovvero la morte causata dall’omissione di una terapia salvavita. 2 Aiuto nel suicidio Il medico che richiesto dal paziente sospende terapie oppure idratazione e nutrizione non sarà perseguibile né penalmente né civilmente. Siccome, nella sostanza, la legge finisce per autorizzare l’eutanasia omissiva o passiva, e poiché la norma è in contrasto con due articoli del Codice penale (quelli appunto che istituiscono il reato di omicidio del consenziente e aiuto nel suicidio), essa è obbligata a sottrarre il medico dalla tagliola di quelle norme. Anche qui, dunque, la legge sul fine vita modifica silenziosamente importanti norme del nostro sistema. 3 Sarà un illecito salvare un suicida? Visto che «nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata» cosa può (o non può) fare un sanitario che si trovi davanti un aspirante suicida? La legge prevede che «nelle situazioni di emergenza o di urgenza il medico assicura l’assistenza sanitaria indispensabile» ma l’espressione che segue – «ove possibile nel rispetto della volontà del paziente» – apre il campo alle più svariate interpretazioni. 4 I poteri dell’amministratore di sostegno Secondo il Codice civile, l’amministratore di sostegno è la figura nominata dal giudice per assistere chi «si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi». E per la legge sul fine vita, tra questi interessi, c’è pure quello di concludere anzitempo la propria vita: a decidere quando e come potrà essere anche il solo amministratore di sostegno, e sulla scorta di indicatori molto fumosi. «Il consenso informato – recita la norma, alludendo a terapie, idratazione e nutrizione – è espresso o rifiutato anche dall’amministratore di sostegno ovvero solo da quest’ultimo, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere». IL FOGLIO Pag IV “Convertitevi all’islam e sarete liberi”. Così il magistrato pachistano interrogava i cristiani di Matteo Matzuzzi Roma. "Convertitevi all'islam e sarete liberi". Era questa la proposta che il pubblico ministero Syed Anees Shah era solito fare ai detenuti cristiani che finivano davanti a lui, nel Punjab, in Pakistan. A dare conto della notizia sono stati i media locali, sottolineando che il modo d'operare del magistrato era sempre lo stesso: portare i cristiani davanti a una corte antiterrorismo di Lahore e lì indicare la strada per la salvezza: la conversione. Alternativa posta a quarantadue uomini, tutti residenti nella stessa metropoli, nel quartiere di Youhanabad. Accusati di aver linciato e bruciato due musulmani sospettati di aver giocato un ruolo di primo piano nell'attacco che due anni fa colpì due chiese nel medesimo quartiere, durante la messa domenicale. L'attentato causò diciassette morti e settantacinque feriti. Per il linciaggio dei due musulmani, furono arrestati cinquecento cristiani. Ottantaquattro di questi furono accusati di omicidio e terrorismo, mentre quarantadue sono stati assolti la scorsa estate. Il quotidiano nazionale in lingua inglese Express Tribune ha riportato le parole di un attivista per i diritti umani, il quale ha confermato le singolari procedure usate dal pubblico ministero: "Leggeva brani del Corano, quindi chiedeva di abbracciare l'islam e in cambio diceva che avrebbe garantito loro il rilascio. Uno ha risposto che piuttosto si sarebbe fatto impiccare". Shah è stato "temporaneamente" rimosso dal suo incarico, in attesa di un'inchiesta interna che - si presume - farà chiarezza su quanto avvenuto. Il magistrato ha negato tutto, anche se successivamente pare abbia fatto qualche ammissione sulle procedure non proprio standard usate nei riguardi dei cristiani sottoposti al suo giudizio. Shah, secondo l'Express Tribune, ha detto di non aver preteso alcuna conversione ma solo d'aver "offerto una scelta". Appena gli è stato fatto presente che la conversazione telefonica veniva registrata, ha riattaccato. Mons. Joseph Arshad, vescovo di Faisalabad e

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presidente della Commissione nazionale dei vescovi cattolici per la giustizia e la pace ha condannato le pressioni cui vengono sottoposti i detenuti cristiani: "La giustizia deve essere amministrata secondo la legge. Nessuno ha il potere di fare offerte di quel tipo", ha aggiunto. Ha scritto Kamran Chaudhry sul portale AsiaNews che "le conversioni forzate sono un tema molto caldo nel paese. Organizzazioni per i diritti umani pachistane affermano che ogni anno circa mille donne cristiane e indù sono costrette a convertirsi e a sposare uomini musulmani". Il tutto trova conferma nell'ultimo Rapporto sulle minoranze religione in Pakistan diffuso dalla conferenza episcopale cattolica, secondo cui nel 2014 cinque cristiani si sono convertiti all'islam. Fra questi, tre ragazze adolescenti cristiane che erano state rapite e costrette al matrimonio. Il sospetto è che la stessa proposta sia stata avanzata anche ad Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte e da sette anni in carcere perché accusata di blasfemia nei confronti di Maometto. A sostenerlo, sempre ad AsiaNews, è l'avvocato cristiano Nadeem Anthony: "La mia fede è viva e non mi convertirò mai", gli disse Asia Bibi nel corso di un breve colloquio risalente al 2010. "I cristiani sono disprezzati in Pakistan perché si ritiene che la loro fede sia capace di contaminare l'anima", dice Wilson Chowdry, presidente della British Pakistani Christian Association. "In molte località pachistane, i cristiani sono obbligati a bere l'acqua da pozzi o torrenti, visto che è loro impedito l'accesso all'acqua potabile pulita. Che contaminino i pozzi lo si insegna ai bambini". E' un odio profondo e ben radicato, sottolineava Chowdry al Foglio un anno fa, all'indomani della strage di Pasqua in un parco pubblico di Lahore. La ragione è che l'indottrinamento anticristiano è precoce e nasce nelle madrasse. L'imam del luogo coltiva l'odio "attraverso una linea dura dell'islam, che è quella che va per la maggiore nelle moschee del paese. In Pakistan - diceva - i cristiani sono considerati spie dell' occidente, ed è per questo che non è sorprendente che si siano verificati proprio qui tre enormi attentati negli ultimi quattro anni". Molto si può fare in Europa, sosteneva Chowdhry, anche con il dialogo interreligioso. Ieri, a tal proposito, prima dell' udienza generale il Papa ha ricevuto in Vaticano una delegazione di imam britannici: "A me piace pensare che il lavoro più importante che dobbiamo fare oggi fra noi, nell'umanità, è il lavoro 'dell'orecchio': ascoltarci". IL GAZZETTINO Pag 1 Via il falco Bannon, la svolta di Trump al banco di prova di Mario Del Pero Proprio alla vigilia del primo vertice sino-statunitense dell’era Trump, giunge a sorpresa la decisione del Presidente americano di escludere dal Consiglio di Sicurezza Nazionale Steve Bannon, la figura forse più controversa e radicale della sua amministrazione. Campione di un nazionalismo estremo, ispiratore e co-autore del primo, fallimentare muslim ban con cui si bloccava l'accesso negli Usa ai cittadini di una serie di paesi a maggioranza musulmana. Bannon è colui che più sosteneva la linea della fermezza nei confronti della Cina, invocando misure di protezione commerciale e arrivando addirittura a preconizzare prossime, inevitabili guerre tra Washington e Pechino. In un mondo, e in un'amministrazione, normali, questa decisione e la sua tempistica parrebbero segnalare una volontà distensiva di Trump verso la Cina: una parziale ritirata dai roboanti proclami anti-cinesi che hanno scandito sia la campagna elettorale del miliardario newyorchese sia queste sue prime settimane alla Casa Bianca. Ma i tempi, e l'amministrazione statunitense, tutto appaiono fuorché normali. Sulla politica estera ancor più che su quella interna, Trump ha detto tutto e il suo contrario, mentre dalla sua amministrazione è uscita una cacofonia di suoni rispetto alla quale si è a lungo distinto, per il suo totale silenzio, il segretario di Stato Rex Tillerson. Se il parziale ridimensionamento di Bannon segnali una svolta moderata cominceremo già a scoprirlo nel vertice tra Trump e il leader cinese Xi Jinping che inizia oggi nella residenza del Presidente statunitense a Mar-a-Lago in Florida. Con buona pace di Putin e, anche, di noi europei è il G-2 sino-americano l'asse fondamentale delle relazioni internazionali correnti: il pilastro sul quale un ordine globale volatile e fragile precariamente si regge. Sono Stati Uniti e Cina, per incontestabile distacco, le due principali potenze economiche (40% del PIL mondiale), militari (più o meno metà della spesa globale) e inquinanti (i due generano da soli circa il 45% delle emissioni). Il G-2 non riflette solo questa indiscussa gerarchia di potenza, ma consegue anche alla strettissima interdipendenza venutasi a determinare tra i due

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paesi nell'ultimo trentennio: una situazione che ha indotto alcuni studiosi a parlare di Chimerica per descrivere l'intreccio tra i due paesi. Questa integrazione sembra essere oggi giunta a punto di quasi saturazione e alcuni indicatori (come la decrescita dei titoli del Tesoro statunitense in mani cinesi) sembrano segnalare una prima inversione di rotta. Ad essa si sono aggiunti elementi crescenti di competizione, alimentati dalla crescita della potenza relativa della Cina, divenuta nell'ultimo decennio l'egemone economico per investimenti diretti e volumi di scambi commerciali nell'area dell'Asia Pacifico. Si tratta, quindi, di un equilibrio tanto fondamentale quanto fragile. Fondato su asimmetrie profonde, a partire da un deficit americano nella bilancia commerciale bilaterale che, superati gli effetti della crisi del 2007-8, è tornato a correre a ritmi accelerati. E minacciato da turbolenze latenti ma pericolosissime, siano esse la bolla bancaria cinese, le aggressive posture sinofobe di molti conservatori americani o il desiderio di Pechino di sfidare il persistente primato strategico statunitense in Estremo Oriente. Soluzioni semplici non esistono. Il massimo che si può auspicare sono graduali correttivi di queste asimmetrie e uno sforzo congiunto per potenziare forme di governance ancora parziali e incomplete. Con Obama alcuni risultati in questo senso furono ottenuti, si pensi solo all'accordo bilaterale sulle emissioni del dicembre 2014 che aprì poi la strada ai negoziati di Parigi. La variabile imprevedibile sono però oggi proprio gli Usa. Le promesse di Trump di re-industrializzare il paese attraverso una guerra commerciale con la Cina sono ovviamente irrealistiche: una boutade elettorale che ha ammaliato un pezzo di elettorato. Ma quelle promesse vincolano in una certa misura Trump e lo stesso partito repubblicano. E da un vertice dove diversi dossier assai concreti, il nucleare nordcoreano su tutti, saranno discussi è lecito immaginarsi un esito che, almeno simbolicamente, serva a Trump per poter dire di aver difeso gl'interessi statunitensi come i suoi predecessori non sono stati capaci di fare. Pag 21 Una bomba atomica sotto Gentiloni per andare a votare di Alberto Gentili C'è chi racconta che a Matteo Renzi, dopo l'imboscata proporzionalistica nella commissione Affari costituzionali del Senato, sia tornata una gran voglia di andare sparato alle elezioni. Al più tardi a settembre, prima del varo della legge di stabilità. Il motivo: secondo l'ex premier la maggioranza non c'è più, si è dissolta sotto l'offensiva di chi vuole impedire una legge elettorale maggioritaria. Scissionisti di Bersani in testa. «Che tristezza! Mettono gli interessi personali davanti a quelli del Paese», ha commentato in serata con i suoi. Ma c'è anche chi narra, in una giornata di veleni e colpi bassi, una storia del tutto diversa: dietro la bocciatura a presidente della Commissione del dem Giorgio Pagliari ci sarebbe proprio il Pd di Renzi. L'obiettivo: destabilizzare la situazione, mandare alle stelle la fibrillazione e dopo il 30 aprile, dopo aver fatto incoronare il nuovo segretario dal popolo delle primarie, cercare il voto anticipato. Questa ipotesi però viene smentita da ogni renziano di ordine e grado, anche a taccuini rigidamente chiusi. Così, di certo, c'è soltanto il grande allarme di Paolo Gentiloni che vede la sua maggioranza sgretolarsi. Ieri sera, dopo che il reggente del Pd Matteo Orfini e il coordinatore della mozione Renzi, Lorenzo Guerini, erano usciti da palazzo Chigi lasciandosi alle spalle refoli di crisi, il premier ha allargato le braccia. Certo, ai plenipotenziari renziani aveva garantito l'impegno per «il rafforzamento della coesione della maggioranza». E il ministro Anna Finocchiaro era corsa a dire che questa c'è, è viva e vegeta, «come dimostra il voto di fiducia proprio in Senato sul decreto terremoto». Ma Gentiloni, descritto «molto preoccupato», sa bene che la vita del suo governo è appesa a un filo. E che forse tanta drammatizzazione da parte del Pd per l'elezione in Commissione Affari costituzionali del centrista Salvatore Torrisi poteva essere evitata: «La scorsa legislatura è stato eletto, sempre contro il volere della maggioranza di governo, Villari in Vigilanza e in questa il forzista Matteoli nella commissione Trasporti, ma poi la vita è continuata...», dice una fonte di palazzo Chigi. Gentiloni, in ogni caso, si è dato un gran da fare per cercare di sminare la situazione. Ha rintracciato Angelino Alfano mentre era di ritorno da Bruxelles. E al ministro degli Esteri il premier ha chiesto di far dimettere il suo Torrisi. Richiesta che Alfano, in qualità di leader di Ap, ha girato con una nota ufficiale al senatore. «Peccato che Torrisi sia già con Berlusconi. Silvio è tornato a fare politica e a darsi da fare per garantire a tutti una bella legge proporzionale», gongola un senatore vicino al leader di Forza Italia. Frasi e

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circostanze che tra i renziani sono certezze. Nessuno crede che Torrisi seguirà le indicazioni di Alfano. Molti scommettono che sia solo questione di ore il suo addio ad Alternativa popolare. Così per Michele Anzaldi, amico storico di Gentiloni e ora capo della comunicazione di Renzi, «ciò che è accaduto in Senato è una bomba atomica. E lo è perché per la prima volta, dopo il referendum del 4 dicembre, si sono coalizzate tutte le forze che vogliono spingere il Paese nella palude del proporzionale. Il ritorno al Medioevo». E Orfini: «C'è una crisi di maggioranza in corso». Di crisi parla anche il ministro Andrea Orlando, sfidante di Renzi alle primarie. Le parole più dure, però, le pronunciano i renziani: «Il fronte proporzionalista che raccoglie anche scissionisti e grillini, si è preso la presidenza della commissione cruciale per decidere sulla legge elettorale. La maggioranza di fatto non c'è più e si fa di nuovo concreta la prospettiva delle elezioni anticipate». Un capitolo a parte merita il Quirinale. Il capo dello Stato è rimasto sconcertato e sorpreso quando dal Pd è arrivata la richiesta di un incontro. Una richiesta giudicata irrituale e stravagante, dato che ciò che è accaduto in Senato riguarda le dinamiche parlamentari. Osservazioni fatte pervenire a Guerini e Orfini che, non a caso, non sono andati a bussare al Quirinale. Una frenata che ha spinto il Colle a giudicare superata la gaffe istituzionale. Ciò detto, Mattarella non sottovaluta i focolai di crisi e ha avviato contatti con Gentiloni per scongiurare il precipitare della situazione. LA NUOVA Pag 1 Gli interessi sul destino di Assad di Renzo Guolo L’attacco con armi chimiche di Khan Sheikun in Siria non miete solo vittime innocenti, ma produce anche conseguenze politiche rilevanti. I Paesi occidentali, ma anche Turchia e Arabia Saudita, hanno subito puntato l’indice contro il regime di Assad, ed è ipotizzabile che i sempre provvisori equilibri raggiunti tra le due coalizioni impegnate in Siria non possano non risentirne. A meno che, dopo le solite indignazioni di rito, la realpolitik prenda nuovamente il sopravvento e, in nome della comune lotta all’Is, ancora una volta si faccia finta di nulla. Difficile, infatti, pensare che dopo aver commesso dei “crimini contro l’umanità” Assad possa rimanere al potere. Eppure, sino a qualche giorno fa, l’amministrazione Trump, che pure riversa, come al solito, la responsabilità di quanto accaduto sull’ «inetto Obama», sosteneva che la sua eventuale rimozione poteva essere decisa solo dai siriani. Formula che, nell’attuale situazione siriana, significa rinunciare a chiedere la rimozione del leader del regime di Damasco. Questione non certo secondaria nell’eventuale soluzione politica di un conflitto che Assad, con il determinante aiuto della Russia, dell’Iran e dell’Hezbollah libanese, ha di fatto vinto sul campo. Una crisi che, al di là dell’enfasi sulla comune lotta al terrorismo jihadista e l’empatia tra i rispettivi leader, rende oggettivamente problematici i rapporti tra il Cremlino e la Casa Bianca. Come diviene palese a Palazzo di Vetro, con Usa, Gran Bretagna e Francia, decisi a sostenere in Consiglio di Sicurezza una mozione che prevede che i responsabili dell’attacco siano chiamati a risponderne. Testo sul quale è certo il veto russo, oltre che quello cinese. Anche perché, di fatto, chiama indirettamente in causa anche Mosca che, dell’accordo del 2013 sullo smantellamento dell’arsenale chimico del regime di Assad, era garante. Un documento che il Cremlino ha già definito «provocatorio e inaccettabile», ritenendo che possa complicare ogni soluzione politica al conflitto in corso. E, paradossalmente ma non troppo, i russi hanno qualche ragione su quest’ultimo punto, dal momento che l’attuale scenario siriano si regge sul comune interesse delle due coalizioni, quella a guida americana e quella a guida russa, a mettere fuori gioco l’Is. Una priorità che ha reso secondaria la questione della permanenza al potere di Assad. Ora, una spaccatura su una simile pregiudiziale avrebbe come immediata conseguenza un minore impegno dei russi e dei loro alleati nello smantellamento del Califfato di Al Baghdadi. Opzione che, avrebbe immediate ripercussioni sul fronte di Mosul e di Raqqa, dal momento che i famosi “scarponi sul terreno” sono, in primo luogo, quelli degli sciiti legati a Mosca. Non di meno, l’attacco di Khan Sheikun, rende problematica l’ultima svolta della Turchia di Erdogan, a lungo la più decisa fautrice della caduta del regime di Assad e poi convertitasi a un’alleanza di necessità con la Russia. Anche se, a impedire un’intesa davvero piena, c’era già la questione curda. Con Mosca decisa a appoggiare i curdi siriani del Pyd e ancora restia a considerare terroristi i curdi turchi del Pkk, come vorrebbe Ankara. Lo stesso attacco a

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Iblid, ultima roccaforte delle opposizioni sunnite controllata dai qaedisti dell’ex Fronte al Al Nusra, rifugio umanitario di molti profughi, appare insopportabile alla Turchia, preoccupata da un nuovo esodo verso le sue frontiere. Non a caso l’accordo di Astana con Russia e Iran prevedeva, su insistenza turca, una sorta di zona franca per questa città. Infine, gli attacchi con i gas rendono poco più che un incontro formale la Conferenza internazionale sulla Siria voluta dall’Ue. Insomma, le troppe variabili del puzzle siriano, e i diversi interessi degli attori coinvolti, si mostrano difficilmente conciliabili quando qualcuno è interessato a rimescolarne drammaticamente le tessere. Pag 1 Convivenza e tolleranza, quali limiti di Vincenzo Milanesi Se non è vera, come sostengono i suoi familiari, è certamente verisimile la storia raccontata dalla ragazzina di origine bengalese arrivata a scuola rasata a zero dalla madre per punizione, come lei stessa ha riferito piangendo ai professori e ai compagni, per non aver voluto portare il velo islamico. Così come lo è quella della ragazza dell’Oltrepo pavese frustata in famiglia. Ma Hina è morta davvero, pochi anni orsono, nella provincia bresciana, per la sua ribellione a usi e costumi che si accompagnano alla pratica di una fede religiosa, quella islamica, ormai destinata a diffondersi sempre più nelle nostre società europee. C’è un nesso importante, che sfugge alle apparenze e che va invece evidenziato, perché è lì che sta la radice profonda del problema, tra queste vicende, su cui sarà la Magistratura a fare piena luce, e l’altro fatto di cui si parla da giorni, soprattutto in Veneto: la cattura di un manipolo di aspiranti terroristi che volevano far saltare in aria il ponte di Rialto a Venezia. Anche qui ci penseranno i giudici a verificare la validità della ricostruzione che ha guidato l’azione delle nostre (per fortuna nostra assai efficienti e preparate) Forze dell’ordine, peraltro molto solida, per quanto si è letto sulla stampa. Il nesso sta nel fatto che i protagonisti di queste vicende non sono emarginati, personaggi con storie e traversie particolari, non sono figli della disperazione degli abitanti di una banlieu, e nemmeno clandestini entrati in Italia su un barcone, intenzionati a fare la loro parte di bravi foreing fighters rientrati da Raqqa o da Mosul. Sia la famiglia della ragazzina bengalese che quella, di origine pakistana, di Hina, sono famiglie di immigrati regolari, con un lavoro e i figli che frequentano le scuole italiane. Così come i kosovari e i loro sodali che stavano preparando l’azione clamorosa a Venezia non erano né clandestini né sbandati senza lavoro e senza casa. I genitori di ragazze nate qui, o i lavoratori immigrati, di cui stiamo parlando, stanno lì a dimostrare che la radice del problema dell’integrazione è prima di tutto un problema di integrazione fra culture, un problema che sta alla radice e a monte di tutti gli altri. È di quello che, prima di ogni altro, ci si deve fare carico, anche se è naturalmente fondamentale che le società e gli Stati in cui sempre più numerosi arrivano migranti che provengono da realtà storicamente e culturalmente lontane si attrezzino per costruire percorsi di integrazione a livello sociale ed economico, che consentano loro di vivere in condizioni dignitose, inserendosi in processi e attività lavorative come gli altri cittadini. Ma il problema alla radice è quello che nasce quando una cultura maggioritaria, storicamente consolidatasi da secoli, se non da millenni, incontra appartenenti a un’altra cultura, anch’essa altrettanto antica e strutturata. Il fatto che questa cultura si configuri oggettivamente come minoritaria in una determinata area geopolitica, quella in cui essi intendono vivere e far crescere i loro figli, impone a quella maggioritaria l’esercizio di un fondamentale principio, la tolleranza, che sta al di là delle differenze tra fedi e delle osservanze religiose, così come dei diversi sistemi di valori morali, e si basa sul rispetto della coscienza e delle credenze altrui. Senza tolleranza, il conflitto è inevitabile. Ma la tolleranza non può essere senza limiti. Non si può essere tolleranti con chi rifiuta di accettare la logica della tolleranza, che porta al rispetto della coscienza altrui, così come di regole di convivenza pacifica all’interno di un quadro di norme che non consentono violazioni di quel rispetto, addirittura attentando alla vita stessa di chi, all’interno di un suo proprio orizzonte culturale, segue una fede religiosa diversa. È il destino della tolleranza quello di dover rinnegare se stessa per evitare di essere negata da chi la vuole sopprimere. Ne siano consapevoli anche i nostri nuovi concittadini di fede islamica. Da dovunque vengano a vivere qui con noi. Torna al sommario

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