Rassegna stampa 6 settembre 2017 - patriarcatovenezia.it · attraverso l’analisi della lettera,...

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 6 settembre 2017 SOMMARIO “Con le false notizie - scrive Alessandro Zaccuri oggi su Avvenire - il problema è che non smettono di essere notizie per il fatto di essere false. Non sono documentate né documentabili, ma non diversamente dalle notizie vere formano mentalità e impongono opinioni. Spesso le consolidano, di norma le presuppongono. «Una falsa notizia – scriveva nel 1921 lo storico Marc Bloch – nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita; essa solo apparentemente è fortuita o, più precisamente, tutto ciò che in essa vi è di fortuito è l’incidente iniziale, assolutamente insignificante, che fa scattare il lavoro dell’immaginazione; ma questa messa in moto ha luogo soltanto perché le immaginazioni sono già preparate e in silenzioso fermento». Bloch inserisce queste notazioni in un saggio ispirato anche alla sua esperienza di combattente nella Prima guerra mondiale, ma il fenomeno che descrive (oggi universalmente noto come fake news) è molto più antico. Se ne trovano tracce già nell’antichità, come ha ribadito a più riprese Luciano Canfora, per esempio attraverso l’analisi della lettera, riprodotta da Tucidide nel primo libro della Guerra del Peloponneso, nella quale il generale spartano Pausania metterebbe nero su bianco la sua intenzione di tradire i greci per passare al servizio di Serse, il Gran Re dei persiani. «La lettera è in qualunque epoca il genere falsificabile per eccellenza», avverte Canfora, ricordando come sulla base di questa missiva, o di altre molto simili, Pausania sia stato effettivamente riconosciuto colpevole di alto tradimento. Anche in quel caso, la verosimiglianza del documento ha avuto la meglio sulla sua eventuale veridicità. Fin qui siamo nell’ambito della corrispondenza privata, resa disponibile con relativa tempestività da un ricercatore che si proclama indipendente. Questo non basta a fare di Tucidide il Julian Assange del V secolo avanti Cristo, ma può aiutarci a mettere in prospettiva storica, e di conseguenza critica, il procedimento su cui si basa la logica di Wikileaks. Il presupposto sembrerebbe l’esatto contrario della falsificazione (l’assoluta trasparenza, l’esposizione pubblica del segreto di Stato eccetera), ma la sostanziale indifferenza rispetto al contenuto della rivelazione apre la strada agli utilizzi più contraddittori da parte delle istituzioni che si vorrebbero porre sotto accusa. Una volta reso noto, il tal quale dei server di posta elettronica restituisce di tutto, e tutto può essere interpretato in qualsiasi modo, come ha dimostrato il gioco di informazioni e controinformazioni del cosiddetto Russiagate. Certo, qui ci entrano in campo tradizioni poderose, la disinformazia di origine sovietica e la propaganda statunitense, ma a ingigantire ulteriormente il fenomeno è il turbinoso assetto dei media digitali, che viralizza le notizie senza preoccuparsi di verificarle. Disinformazia, del resto, è il titolo di un polemico pamphlet di Francesco Nicodemo (Marsilio), analisi tutt’altro che rassicurante sugli effetti che un decennio abbondante di social media ha avuto sulla nostra credulità. Più conciliante, in certa misura, la posizione di Andrea Fontana, che in Io credo alle sirene (Hoepli) suggerisce qualche accorgimento per non soccombere in un contesto informativo del quale le fake news fanno ormai parte integrante. Anche sulla tecnologia, però, occorre intendersi. Facebook e compagni sono un acceleratore formidabile, ma il punto di partenza rimane quello indicato da Bloch: si crede a quello in cui già prima si voleva credere. La paura, in questo senso, è una componente essenziale del processo. Un caso esemplare (e molto divertente, tra l’altro) si trova nell’Antiquario, un romanzo di Walter Scott risalente addirittura al 1816. Ambientato in Scozia nell’estate del 1794, mentre sul continente imperversano gli scontri tra l’esercito rivoluzionario francese e la Prima coalizione, il racconto rielabora un episodio avvenuto in realtà nel 1804, quando per l’errore di una guardia costiera si sparse la voce che le truppe di Napoleone stessero sbarcando in Inghilterra. Più dell’equivoco in sé, a interessarci è il meccanismo che lo ha generato. Il sistema di comunicazione impiegato alla fine del XVIII secolo è ancora lo stesso descritto da Eschilo nell’Agamennone (458 a.C.) e poi

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 6 settembre 2017

SOMMARIO

“Con le false notizie - scrive Alessandro Zaccuri oggi su Avvenire - il problema è che non smettono di essere notizie per il fatto di essere false. Non sono documentate né

documentabili, ma non diversamente dalle notizie vere formano mentalità e impongono opinioni. Spesso le consolidano, di norma le presuppongono. «Una falsa notizia – scriveva nel 1921 lo storico Marc Bloch – nasce sempre da rappresentazioni

collettive che preesistono alla sua nascita; essa solo apparentemente è fortuita o, più precisamente, tutto ciò che in essa vi è di fortuito è l’incidente iniziale,

assolutamente insignificante, che fa scattare il lavoro dell’immaginazione; ma questa messa in moto ha luogo soltanto perché le immaginazioni sono già preparate e in

silenzioso fermento». Bloch inserisce queste notazioni in un saggio ispirato anche alla sua esperienza di combattente nella Prima guerra mondiale, ma il fenomeno che

descrive (oggi universalmente noto come fake news) è molto più antico. Se ne trovano tracce già nell’antichità, come ha ribadito a più riprese Luciano Canfora, per esempio attraverso l’analisi della lettera, riprodotta da Tucidide nel primo libro della Guerra

del Peloponneso, nella quale il generale spartano Pausania metterebbe nero su bianco la sua intenzione di tradire i greci per passare al servizio di Serse, il Gran Re dei persiani. «La lettera è in qualunque epoca il genere falsificabile per eccellenza»,

avverte Canfora, ricordando come sulla base di questa missiva, o di altre molto simili, Pausania sia stato effettivamente riconosciuto colpevole di alto tradimento. Anche in quel caso, la verosimiglianza del documento ha avuto la meglio sulla sua eventuale

veridicità. Fin qui siamo nell’ambito della corrispondenza privata, resa disponibile con relativa tempestività da un ricercatore che si proclama indipendente. Questo non

basta a fare di Tucidide il Julian Assange del V secolo avanti Cristo, ma può aiutarci a mettere in prospettiva storica, e di conseguenza critica, il procedimento su cui si basa

la logica di Wikileaks. Il presupposto sembrerebbe l’esatto contrario della falsificazione (l’assoluta trasparenza, l’esposizione pubblica del segreto di Stato

eccetera), ma la sostanziale indifferenza rispetto al contenuto della rivelazione apre la strada agli utilizzi più contraddittori da parte delle istituzioni che si vorrebbero porre sotto accusa. Una volta reso noto, il tal quale dei server di posta elettronica

restituisce di tutto, e tutto può essere interpretato in qualsiasi modo, come ha dimostrato il gioco di informazioni e controinformazioni del cosiddetto Russiagate.

Certo, qui ci entrano in campo tradizioni poderose, la disinformazia di origine sovietica e la propaganda statunitense, ma a ingigantire ulteriormente il fenomeno è il

turbinoso assetto dei media digitali, che viralizza le notizie senza preoccuparsi di verificarle. Disinformazia, del resto, è il titolo di un polemico pamphlet di Francesco Nicodemo (Marsilio), analisi tutt’altro che rassicurante sugli effetti che un decennio abbondante di social media ha avuto sulla nostra credulità. Più conciliante, in certa

misura, la posizione di Andrea Fontana, che in Io credo alle sirene (Hoepli) suggerisce qualche accorgimento per non soccombere in un contesto informativo del quale le

fake news fanno ormai parte integrante. Anche sulla tecnologia, però, occorre intendersi. Facebook e compagni sono un acceleratore formidabile, ma il punto di

partenza rimane quello indicato da Bloch: si crede a quello in cui già prima si voleva credere. La paura, in questo senso, è una componente essenziale del processo. Un

caso esemplare (e molto divertente, tra l’altro) si trova nell’Antiquario, un romanzo di Walter Scott risalente addirittura al 1816. Ambientato in Scozia nell’estate del 1794, mentre sul continente imperversano gli scontri tra l’esercito rivoluzionario

francese e la Prima coalizione, il racconto rielabora un episodio avvenuto in realtà nel 1804, quando per l’errore di una guardia costiera si sparse la voce che le truppe di

Napoleone stessero sbarcando in Inghilterra. Più dell’equivoco in sé, a interessarci è il meccanismo che lo ha generato. Il sistema di comunicazione impiegato alla fine del XVIII secolo è ancora lo stesso descritto da Eschilo nell’Agamennone (458 a.C.) e poi

ripreso da J.R.R. Tolkien nel Signore degli Anelli: una serie di postazioni a distanza di sguardo l’una dell’altra, l’accensione di un fuoco come segnale convenuto, la

propagazione dell’avviso in tempo quasi reale. Scott immagina che a scatenare il panico sia un falò improvvidamente allestito in piena notte dai protagonisti

dell’Antiquario e, così facendo, ci mostra come anche un dispositivo informativo di assoluta semplicità sia sempre e comunque passibile di travisamento e manipolazione.

È un rischio che aumenta con l’aumentare della complessità. Nel 1844, quando non sono trascorsi ancora trent’anni dalla pubblicazione del romanzo di Scott, lo scenario è già profondamente mutato. Per essere più precisi, lo era già nel 1838, l’anno in cui

culmina l’intricata trama del Conte di Montecristo di Alexandre Dumas. Edmond Dantès, com’è noto, è tornato per vendicarsi e tra le armi di cui intende avvalersi c’è anche quella del dissesto finanziario. Uno dei suoi nemici, il barone Danglars, ha una moglie che ama giocare in Borsa, sfruttando spesso le informazioni che le vengono anticipate dall’amante, ben introdotto al Ministero degli Interni. Per far cadere la

donna in un investimento avventato, Dantès va di persona a una stazione del telegrafo alle porte di Parigi, corrompe l’addetto alle trasmissioni e diffonde in questo modo

una notizia del tutto destituita di fondamento, quella del ritorno dall’esilio del pretendente al trono di Spagna, Don Carlos di Borbone. Piano modernissimo, che mescola fake news e insider trading, per la cui riuscita è però indispensabile un

elemento abbastanza sorprendente: l’addetto al telegrafo non conosce il codice di cui si serve, è in grado di decifrare un paio di informazioni elementari che riguardano la gestione del servizio e per il resto si limita a riprodurre meccanicamente il segnale che gli viene inviato. Sia pure aggiornato sul versante tecnico, il sistema è lo stesso dei fuochi di Eschilo, Scott e Tolkien. Dantès fa propagare una notizia falsa, ma il

soggetto che la propaga è ignaro del contenuto del messaggio e quindi si comporta né più né meno come un algoritmo, indifferente all’identità e all’attendibilità dell’autore

di un determinato tweet. Più fitta è la catena, più è sufficiente indebolirne un solo anello per renderla inaffidabile. La baronessa Danglars casca nel tranello, e forse non potrebbe fare altrimenti. Prima di essere falsamente annunciata, infatti, la riscossa di Don Carlos era stata oggetto di mormorii e illazioni, attraverso il rimando incrociato fra bruits publics (voci della strada) e dispacci giornalistici, studiato con illuminante

intelligenza dallo storico Robert Darnton. Ma la falsa notizia messa in circolo da Dantès non è soltanto plausibile. La sua efficacia sta nella capacità di adattarsi alle

aspettative della persona a cui è destinata, nella fattispecie l’avida nobildonna speculatrice. Il più delle volte è difficile, se non impossibile, sapere chi e perché si sta

prendendo l’incomodo di fabbricare e spacciare fake news. Noi non li conosciamo, i signori della disinformazia, ma di sicuro loro conoscono noi: le nostre paure, i nostri

pregiudizi, il nostro oscuro desiderio di lasciarci ingannare” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Con l’intervento di due patriarchi ortodossi si apre a Bose il convegno ecumenico di spiritualità Le riflessioni di Bartolomeo e Teodoro II Pag 6 Per non perdere Alla comunità Shalom l’invito del Papa al dialogo AVVENIRE Pag 22 Ospitalità, attualità di un dono Stamoulis: “Tornare al minimo per riaprire i cuori”. Plested: “Tutti i cristiani sono stranieri” LA STAMPA Per Francesco è il viaggio più delicato di Andrea Tornielli

IL GIORNALE «Avvenire» volta pagina: Tornielli verso la direzione di Francesco Boezi 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ LA STAMPA Il mistero della zanzara che uccide di Eugenia Tognotti IL GAZZETTINO Pag 1 Effetto globalizzazione, tornare a studiare le malattie tropicali di Silvio Garattini 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pagg X – XI Un polo ricettivo da 7 mila posti letto di Elisio Trevisan La nuova città: una piastra con negozi e pista ciclabile sopra i binari CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Venezia, miraggi e fake news di Paolo Costa Le “malediagnosi” LA NUOVA Pag 13 “Stop alla caccia all’uomo, sono persone” di Nadia De Lazzari Don Favaretto difende i venditori abusivi: prendono due soldi, le loro storie sono tragedie 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DELLA SERA Pag 5 Muore di malaria a 4 anni: “Forse contagiata in ospedale” di Giusi Fasano Trento, Lorenzin invia gli ispettori. Nel suo reparto c’erano due bimbi malati. L’ultima estate di Sofia tra spiaggia e ricoveri CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Gli scienziati: “Il Veneto è sotto la soglia minima, rischio epidemia” di Giovanni Viafora Il Veneto e i vaccini, numeri ed effetti IL GAZZETTINO Pagg 2 - 3 Vaccini, governo contro la direttiva del Veneto di Angela Pederiva e Raffaella Ianuale Pronto il ricorso al Tar e il ministero della Salute valuta il commissariamento. Scuole e presidi in difficoltà schiacciati tra Stato e Regione … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’equivoco del nuovo federalismo di Massimo Franco Politica e Regioni Pag 1 Guerra o pace per l’America (e i suoi alleati) di Franco Venturini Pag 12 Chi si rafforzerà con la crisi? I mercati puntano su Pechino (che in Borsa sbaraglia tutti) di Federico Fubini LA REPUBBLICA Pag 3 Lo straniero, le paure globali e l’onda lunga dei muri tra l’America e l’Europa di Federico Rampini

LA STAMPA Nord Corea la sfida di Putin all’America di Stefano Stefanini Il Po senza sorgente è come un albero senza radici di Mauro Corona AVVENIRE Pag 1 Le due malattie di Giuseppe Anzani Tragico lutto e caccia agli “untori” Pag 3 Da Tucidide ai social media, genealogia delle “fake news” di Alessandro Zaccuri Ha radici profonde il fenomeno deflagrato con Internet. Le notizie “verosimili” ma false, le tecnologie e le nostre paure Pag 3 Via dalle grinfie del nemico di Ferdinando Camon Un film che dice tanto della lotta tra Bene e Male IL FOGLIO Pag III Tempi duri per la libertà di Sergio Belardinelli Siamo ormai di fronte allo sfinimento di un certo spirito moderno che si trova sempre più esposto al rischio di trasformare la politica in religione. L’equivoco sulla laicità L’OSSERVATORE ROMANO Pag 4 La responsabilità che spetta alla norma religiosa di Marco Ventura IL GAZZETTINO Pag 16 Sulla legge elettorale un gioco del cerino che non porta a nulla di Marco Conti

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Con l’intervento di due patriarchi ortodossi si apre a Bose il convegno ecumenico di spiritualità Le riflessioni di Bartolomeo e Teodoro II (Bartolomeo) Il tema che il comitato scientifico ha proposto per la venticinquesima sessione interpella non solo le Chiese di Dio, non solo i credenti nel Cristo risorto, ma tutti gli uomini di buona volontà, in quanto viviamo un periodo storico, in cui parlare di ospitalità può diventare scomodo, ancor di più se vogliamo intendere la ospitalità come un dono. La nostra riflessione parte dalla consapevolezza della esistenza di una relazione d’amore che esiste tra il creato e il suo Creatore, in quanto opera dell’amore divino. «In principio Dio fece il cielo e la terra. Ma la terra era invisibile e disorganizzata, e c’era tenebra sopra l’abisso, e lo spirito di Dio aleggiava sull’acqua» (Genesi, 1, 1-2). Dio crea da sé cielo e terra, ma subito Egli partecipa alla sua stessa creazione. È lo sguardo dell’innamorato che vuole creare relazione. Relazione che fa istituire a Dio un legame profondo e misterioso con la sua creazione attraverso la Parola: «E Dio disse: Che ci sia la luce! E la luce fu. E Dio vide che la luce era una cosa bella» (Genesi, 1, 3-4). La stessa espressione la ritroviamo alla fine di ogni giorno della creazione, al secondo giorno con la separazione delle acque col firmamento; al terzo con la creazione della terra e delle piante; al quarto con la suddivisione tra giorno e notte e delle stelle; al quinto giorno con la creazione di pesci e uccelli, a cui si aggiunge un nuovo atto di amore divino: e Dio li benedisse (Genesi, 1, 22). La Parola di Dio diviene performativa. Dio benedice la sua opera e ne suggella la sacralità. Bellezza e sacralità fanno percepire

la trasfigurazione cosmica dell’atto creativo di Dio. «I cieli narrano la gloria di Dio e il firmamento annuncia l’opera delle sue mani» (Salmi, 18, 2). Il sesto giorno la stessa terra diviene generatrice di benedizione, perché da essa escono “anime viventi”, gli animali, chiamati alla fecondità. Assistiamo in questo percorso a una teofania creativa, che nulla ha a che fare con qualche forma di panteismo. Questa teofania prepara la terra abitabile, come il fidanzato prepara la casa per la sua fidanzata, patto eterno d’amore. Così acqua e terra diventano gli elementi della vita e le piante producono frutto, divengono benefiche, salutari, nutritive o semplicemente belle: «Osservate come crescono i gigli: essi non lavorano non filano; eppure io vi dico che Salomone stesso, in tutta la sua gloria, non fu vestito come uno di loro» (Luca, 12, 27). Esse appartengono alla terra per renderla abitabile, poiché sono centro e fonte di vita. L’essere umano compare verso la fine del capitolo, creato a immagine di Dio eppure indissolubilmente legato alla terra, da cui viene tratto: «Facciamo un uomo a nostra immagine e somiglianza». Per la creazione dell’uomo Dio agisce nuovamente con la sua Parola non più in modo impersonale, ma direttamente, relazionando il suo essere Dio con la stessa possibilità dell’uomo di essere a immagine e somiglianza del creatore. L’amore divino manifesta una attenzione diversa per l’uomo, secondo il suo progetto primordiale teofanico e trasfigurante. Vi è una correlazione data dalla condivisione della terra tra mondo animale ed essere umano, chiamato da Dio Adam, da adamah la terra, che pone in relazione il mondo animale con l’uomo, ma la specificità della somiglianza a Dio nell’uomo instaura in lui un legame di responsabilità paradisiaca. È lì che Dio si relaziona con Adamo, lasciando a questi il compito di dare un nome a ogni essere vivente. L’azione umana evoca quella divina della creazione e instaura il legame di responsabilità: Dio è responsabile per la creazione che ha chiamato all’esistenza, così l’essere umano diviene responsabile degli esseri viventi a cui ha dato un nome. Se naturalmente c’è qualche cosa di unico nell’uomo creato a immagine di Dio, non viene meno la sua relazione col creato. Secondo i Padri della Chiesa l’umanità costituisce un vincolo di unità tra Dio e il mondo materiale, di cui è parte organica e senza la quale non potrebbe vivere, ma dall’altra possiede delle caratteristiche proprie di Dio, che pongono la creazione in relazione con Dio. La libera scelta dell’uomo, nel giardino di Dio, nell’Eden, di prendere il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, contravvenendo al disegno iniziale del Creatore, innesca la sua caduta dalla relazione paradisiaca e teofanica con Dio. Il patto d’amore si rompe, il fidanzamento è tradito e l’uomo non esercita più la funzione di abitante, ma di ospite e straniero, di forestiero e immigrato, «perché mia è la terra e voi siete presso di me come ospiti e forestieri» (Levitico, 25, 23). La estraniazione, la fuoriuscita dall’ospitalità frontale con Dio è il risultato del peccato di Adamo ed Eva. Tuttavia Dio non rompe il patto con l’uomo, l’amore di relazione permane anche dopo la caduta. La terra resta abitabile anche per le generazioni future: «Per tutti i giorni della terra, semina e raccolto, freddo e caldo, estate e primavera, né di giorno né di notte, non cesseranno». (Genesi, 8, 22). «Ecco, io stabilisco la mia alleanza con voi e con la vostra discendenza dopo di voi» (Genesi, 9, 9). Noè diviene il testimone della relazione esistente tra Dio e il creato. Dio accoglie l’uomo straniero e ospite e con lui attende la glorificazione di tutto il creato. Vi è una profonda connessione tra l’amore divino per la creazione e l’estraneità dell’uomo caduto per il creato, che farà dire a Paolo: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Romani, 8, 19-21). Tutta la creazione abita la terra e loda il Signore, atto di libertà espresso magnificamente nel Salmo 148: «Lodate il Signore dai cieli, lodatelo nei cieli altissimi». San Gregorio Palamas affermava che i cristiani rispondono con la lode e lo stupore quando contemplano i capolavori della creazione visibile di Dio. Cristo ha restaurato l’ospitalità di Dio nell’uomo, gli ha donato la libertà pasquale mediante la morte e risurrezione. Ha redento il cuore degli uomini restaurandolo come “tenda-tempio” della ospitalità di Dio: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi». (1 Corinzi, 6, 19). E nella pratica della sua fede, il credente ospita lo straniero come Dio lo ospita nel mondo, creandolo, e nella sua misericordia, salvandolo. Misericordioso è colui che ospita nel suo cuore il misero, mette il suo cuore vicino a quello del misero, colui che permette all’altro

di rigenerarsi, di sentirsi a casa sua, di riposarsi e di fare l’esperienza che c’è qualcuno che condivide insieme la propria storia. L’ospitalità è quindi condivisione, un protendersi verso l’altro, un prendersi cura degli altri. È la parabola del samaritano che si prende cura, che dedica il suo tempo. Non assorbe l’altro, non lo eguaglia a sé, ma lo rispetta in tutta la sua radicale differenza. È ospitalità che si fa accoglienza. Non esistono più stranieri ma ospiti, perché ospitare il forestiero e lo straniero, significa ospitare Cristo stesso. «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Ebrei, 13, 2). Nella Lettera a Diogneto si dice che i cristiani «vivono nella loro patria, ma come forestieri». Il monachesimo ricorda che quaggiù non c’è una dimora permanente, ma come dice san Paolo: «La nostra cittadinanza è nei cieli». (Filippesi, 3, 20). Ma esso è anche spazio di libertà e di franchezza e perciò di incontro e di riconoscimento reciproco tra diversi. È anche follia in Cristo e un fuggire la fama, i riconoscimenti. Massimo di Kavsokalyva, sul santo Monte dell’Athos, si spostava costantemente bruciando la capanna in cui precedentemente dimorava, per evitare notorietà e fama. Ma è anche interiorizzazione dell’armonia cosmica, teofanica della creazione, trasfigurante nella sua ospitalità. È questa trasfigurazione che fa una persona, pura di cuore, capace di percepire il legame con la creazione. San Serafino di Sarov, nutriva l’orso nelle foreste del nord, san Francesco parlava con tutte le creature, san Gerasimo del Giordano viveva con un leone. Come la vera natura di Dio è l’Amore, anche l’umanità è originariamente destinata al compito di amare. La terra abitabile è Maria, l’umanità ospitata è il Dio teantropo, eros divino fino alla follia. Follia per i non credenti, vanto per i cristiani. (Teodoro II) L’uomo africano è lo straniero della nostra epoca. È lui l’uomo descritto da nostro Signore Gesù Cristo. La Chiesa di Alessandria porta sulle proprie spalle il peso della storia alessandrina, della megalopoli cosmopolita e l’universalità che ha sempre caratterizzato fin dai tempi antichi il suo pensiero, al di là e al di sopra delle nazioni e delle razze. Secondo la tradizione alessandrina ogni straniero ha diritto - notate la parola “diritto” - di ricevere alloggio, cibo e protezione, come persona sacra, come uguale a tutti, come un’immagine di Dio. La Chiesa conserva questa eredità ellenistica associandola inscindibilmente con la tradizione cristiana bizantina dell’amore, del sacrificio volontario per l’altro. La sua presenza nell’intero continente africano si mantiene lontana dalle intolleranze, dagli sciovinismi e dalle propagande. Persegue come proprio obiettivo fondamentale l’unità di tutti nella multiformità e nella pluralità, coltivando il rispetto per la persona umana, armonizzando le contrapposizioni tra le società e i popoli «nel vincolo della pace» (Efesini, 4, 3), e avendo come regola fondamentale l’amore di Cristo, «che è il vincolo della perfezione» (Colossesi, 3, 14). Oggi l’Europa è in preda al terrore e alle vertigini davanti all’ondata dei profughi e al fenomeno dell’immigrazione, ma la Chiesa di Alessandria vive questo evento ogni giorno nello sconfinato continente africano, dove conflitti bellici, guerre civili e disastri naturali di scala biblica producono continuamente ondate di profughi ridotti alla miseria. Quanto sono attuali le parole di Gregorio di Nissa, che esprime la condizione odierna di molte persone in molte regioni della terra, e in particolare in Africa, luogo della nostra giurisdizione, quando dice in modo significativo: «Il tempo presente ci ha procurato una grande quantità di ignudi e di senzatetto. Alle porte di ognuno vi è una folla di deportati. Non mancano stranieri e profughi; ovunque si vede la mano tesa a chiedere. Per costoro la casa è all’aperto, loro riparo sono i portici, i biVII e gli angoli più riposti delle piazze». Questa situazione di necessità assoluta è vissuta da decine di migliaia di africani nostri fratelli in Rwanda, in Sierra Leone, in Burundi, in Congo, in Sud Sudan e in molte altre regioni. Senza dimora e perseguitati, profughi nel loro stesso paese. Vedendo queste anime di Dio e le migliaia di bambini che ti guardano con i loro grandi occhi pieni di lacrime e di paura, prendiamo atto della necessità che la Chiesa dia il suo contributo nel fronteggiare e fornire soluzioni ai problemi sociali. E questo è naturale, perché lo scopo della Chiesa non è restare alla periferia della vita, ma accostarsi all’uomo in tutti gli aspetti e le manifestazioni della sua vita. Solo così lo serve, secondo l’esempio di Cristo, il quale non è «venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per le moltitudini» (cfr. Matteo, 20, 28; Marco, 10, 45). Un altro fatto degno di essere sottolineato è che i monasteri sono sempre stati porti di rifugio al riparo dei venti e baluardi di giustizia sociale per i viandanti, i forestieri e gli uomini senza dimora.

Centinaia di persone trovavano conforto e ospitalità sotto i tetti dei monasteri. Questa pratica continua fino ai nostri giorni nella Chiesa di Alessandria, e un ottimo esempio in questo senso è il sacro monastero di San Giorgio del Vecchio Cairo. Ancor oggi passa da questo monastero una moltitudine di persone, per lo più non cristiane, per esservi ospitate e trovarvi ristoro. In questo modo continua incessantemente l’antica prassi delle regole monastiche che ordinavano che la porta dei monasteri restasse sempre aperta, poiché l’ospitalità era considerata una “virtù regale”. Lo straniero, dunque, deve essere accolto come immagine di Cristo, dal momento che lo stesso Cristo è diventato straniero ed è venuto sulla terra. Solo in questo modo, solo allora l’ospitalità degli stranieri può diventare benefica, poiché l’ospitalità è prima di tutto amore. La Chiesa di Alessandria, da parte sua, cerca di applicare questo comandamento nei suoi sforzi missionari nel tribolato continente africano. Ogni africano, come immagine di Dio, a prescindere dalla sua appartenenza razziale o religiosa, deve poter trovare chi si prende cura di lui in molti modi a ogni livello missionario e in ogni infrastruttura della Chiesa, fino agli estremi confini dell’Africa. Pag 6 Per non perdere Alla comunità Shalom l’invito del Papa al dialogo Pubblichiamo una nostra traduzione dallo spagnolo delle risposte del Papa alle domande rivoltegli lunedì mattina, 4 settembre, durante l’udienza alla comunità Shalom, svoltasi nell’aula Paolo VI. Molte grazie per le testimonianze. Ho domandato se potevo parlare in spagnolo... [l’Aula risponde: «sì»] e non in italiano, così mi posso esprimere meglio. Ma parlando in spagnolo, si parla un po’ di portuñol e un po’ di cocoliche, che è un po’ di italiano e di spagnolo insieme... Così con lo spagnolo ci arrangiamo. Juan, hai trovato il senso della tua vita nella preghiera, nella vita fraterna in comunità e nella evangelizzazione, non è vero? Pregando, condividendo ed evangelizzando ti sei reso conto che la tua vita aveva un senso. Guarda che i tre verbi che hai usato per esprimere ciò, sono verbi di movimento, di uscita da te stesso. Sei uscito da te stesso nella preghiera per incontrare Dio, sei uscito da te stesso nel condividere la fraternità per incontrarti con i fratelli, e sei uscito da te stesso per andare a evangelizzare, per dare una buona notizia. E la buona notizia - tu hai usato la parola - è la misericordia, in un mondo segnato dalla disperazione e dall’indifferenza. È curioso, la misericordia è qualcosa di assoluto. Tu non puoi soltanto parlare della misericordia, la devi testimoniare, la devi condividere, la devi insegnare uscendo da te stesso. Per parlare di misericordia occorre mettere tutta “la carne sul braciere”, altrimenti non si capisce questa testimonianza di non essere rinchiusi in se stessi o nei propri interessi, ma di uscire. Uscire cercando Dio. Non è facile cercare Dio, è tutto un cammino. Uscire condividendo con gli altri - non giocando al bambino viziato al quale regalano tutti i giocattoli e tutti sono per lui - e uscire per raccontare agli altri che Dio è buono, che Dio ti sta aspettando addirittura nei peggiori momenti della vita. E quello è magari il messaggio della misericordia che uno può dare, no? Ricorda il passo del figlio che ritorna a casa. In Luca, al capitolo 15, c’è una frase che dice: il padre lo vide arrivare da lontano. Era partito alcuni anni prima, quelli lo hanno portato a spendere tutti i soldi che aveva. Lo vide arrivare da lontano. Questo mi fa pensare che quel padre, tutti i giorni, e magari in ogni momento, saliva sul terrazzo per vedere se il figlio tornava. Così è Dio con noi, anche nei peggiori momenti di peccato, anche nei momenti difficili. E continua il Vangelo: «E il padre, guardandolo da lontano si commosse - con quel verbo che in ebraico significa “gli si rivoltarono le viscere”, queste viscere paterne e materne di Dio - e uscì correndo e gli si gettò al collo». Quel figlio stava nel peggiore dei peccati, nella peggiore delle situazioni, e quando disse «torno da mio padre», il padre già lo stava aspettando. Quella è la misericordia, non disperare mai. Inoltre sembra che il nostro Dio abbia una speciale predilezione per i peccatori, compresi quelli “purosangue”: li aspetta. Così io ti suggerirei questo: continua a uscire da te stesso e fai capire a tutti che c’è sempre un padre che ci aspetta con affetto e tenerezza, al primo passo che noi vogliamo fare. Questo è ciò che sento il bisogno di dirti. Grazie.

Justine, tu hai ricevuto il battesimo nel giubileo della misericordia, bello! Ti sei resa conto che, avendo trovato Dio, ti ha portato a spogliarti, a uscire dall’essere centrata in te stessa verso fuori, verso la gioia di vivere per Dio e con Dio. Una delle cose - qui sono tutti giovani, compresi voi che siete giovani della seconda stagione, tutti giovani, giovani della seconda tappa -, una delle cose che caratterizza la giovinezza e l’eterna giovinezza di Dio, perché Dio è eternamente giovane, è l’allegria, «la gioia», l’allegria. All’allegria si contrappone la tristezza, una tristezza che è precisamente quella da cui voi siete usciti. Voi siete usciti da qualcosa che produce tristezza, che è l’essere centrati in se stessi, l’autoreferenzialità. Un giovane che si rinchiude in se stesso, che vive soltanto per se stesso, finisce - e spero capiate il verbo, perché è un verbo argentino - finisce empachado di autoreferenzialità, e cioè, pieno di autoreferenzialità. C’è un’immagine che mi viene adesso: questa cultura in cui ci tocca vivere, dato che è molto egoista, molto così [fa un gesto] da guardare a sé stessa, ha una dose molto grande di narcisismo, di quell’essere, di quello stare a contemplare se stesso, e pertanto ignorare gli altri. Il narcisismo ti produce tristezza perché vivi preoccupato di truccarti l’anima tutti i giorni, di apparire meglio di quel che sei, di contemplare se hai una bellezza migliore degli altri, è la malattia dello specchio. Giovani, rompete lo specchio! Non guardatevi allo specchio, perché lo specchio inganna, guardate verso fuori, guardate verso gli altri, scappate da questo mondo, da questa cultura che stiamo vivendo - alla quale tu hai fatto riferimento -, che è consumista e narcisista. E se qualche giorno volete guardarvi allo specchio, vi do un consiglio: guardatevi allo specchio per ridere di voi stessi. Fate la prova un giorno: guardate e cominciate a ridere di quel che vedete lì, vi rinfrescherà l’anima. Questo dà allegria e ci salva dalla tentazione del narcisismo. Grazie, Justine. Mateus, hai parlato in portoghese, brasiliano. Devo farti una domanda: chi è migliore, Pelè o Maradona? [Risate e applausi dei partecipanti]. Per molto tempo sei passato attraverso il tunnel della droga, ed è uno degli strumenti che ha la cultura nella quale viviamo per dominarci, ed è, d’altro canto, come una necessità che noi abbiamo per farci sottili, invisibili a noi stessi, come se fossimo d’aria. La droga ci porta a negare tutto quello che noi avevamo di radicato, di radicamento carnale, di radicamento storico, di radicamento problematico, tutto ciò che è radicamento. Ti toglie le radici e ti fa vivere in un mondo senza radici, sradicato da tutto. Sradicato dai progetti, sradicato dal presente, sradicato dal tuo passato, dalla tua storia, sradicato dalla tua patria, dalla tua famiglia, dal tuo amore, da tutto. Uno vive in un mondo senza nessun radicamento e questo è il dramma della droga. Giovani totalmente sradicati senza impegni reali, e cioè senza veri impegni di carne perché nella droga non senti neanche il tuo corpo. E dopo aver passato quell’esperienza nell’invisibilità e dopo averne preso coscienza, ti sei reso conto di tutti i radicamenti che ci sono nel cuore. Io domando a ognuno di voi: siete coscienti dei veri radicamenti che avete nel cuore, siete coscienti delle vostre radici, siete coscienti dei vostri amori, siete coscienti dei vostri progetti, siete coscienti della capacità creativa che avete, siete coscienti di essere poeti in questo universo per creare cose nuove e belle? Uscire dalla droga significa prendere coscienza di ciò, testimonianza di uno che viene, per questo ci poniamo le domande che io ho appena fatto. E ognuno si risponde: sono cosciente di avere i piedi sulla terra con tutto quel che significa di radicamento storico, sociale, di radicamento di saggezza, di amore, di progetti, di capacità creativa? E tu vuoi corrispondere al piano di Dio e ti sei reso conto che per te significa consolare i dolori dell’umanità, e tu dici che in questo cammino sinodale vuoi discernere la tua vocazione. E in questo cammino sinodale tutti dobbiamo discernere la nostra vocazione - come tu dicevi - per vedere che cosa ci vuole dire il Signore in vista di una missione. Io te lo dirò con una sola parola, che non è mia: dare gratuitamente. Se tu sei qui, se noi siamo qui, è perché gratuitamente ci hanno portati qui. Per favore, diamo gratuitamente quel che abbiamo ricevuto. Dare gratuitamente quel che abbiamo ricevuto. E dare gratuitamente ti riempie l’anima, ti decommercializza, ti rende magnanimo, ti insegna ad abbracciare e a baciare, ti fa sorridere, ti scioglie da tutti gli interessi di tipo egoistico. Dai gratuitamente quel che gratuitamente hai ricevuto, questo è l’insegnamento che Egli ci sta proponendo? [Risposta con un debole “sì”]. O mio Dio, come state! Sembra che io invece di animarvi vi stia offrendo un calmante per i nervi per addormentarvi [Applausi]. E i più adulti, i più anziani della Comunità Shalom, che devono fare? Che servizio ci sta chiedendo oggi questo mondo, questo carisma, questa comunità, che servizio? Qui c’è una cosa - è bello - i più anziani e i più giovani: il servizio che si chiede loro è il dialogo,

il dialogo tra di voi, passare la fiaccola, passare l’eredità, passare il carisma, passare il vostro vissuto interiore. Ma voglio andare più in là, e una delle sfide che oggi questo mondo ci chiede è il dialogo tra i giovani e gli anziani, e in ciò mi baso sulla vostra testimonianza: “Sì padre, già ce lo sentiamo dire”. E me lo ascolterete dire più volte: dialogo tra i giovani e gli anziani. I giovani hanno bisogno di ascoltare gli anziani e gli anziani hanno bisogno di ascoltare i giovani. “E io, che farò?” può chiedere un giovane: “Che farò, parlare con un anziano annoiato, sarà quello”. Ho l’esperienza di averlo visto molte volte nell’altra diocesi: andare con un gruppo di giovani, per esempio, a una casa di riposo o un ricovero a suonare la chitarra agli anziani. Ebbene, si suona la chitarra e dopo incomincia il dialogo, è spontaneo, si dà, nasce da solo, e i giovani non vogliono andar via da lì, perché dagli anziani viene fuori sapienza, ma una sapienza che arriva al cuore e li spinge ad andare avanti. Gli anziani - per voi giovani - non sono da conservare nel guardaroba, gli anziani non sono da tenere nascosti, gli anziani stanno aspettando che un giovane vada e li faccia parlare, che li faccia sognare. E voi, giovani, avete bisogno di ricevere da questi uomini e da queste donne questi sogni, queste speranze che li facciano rivivere. Questa sarebbe la mia risposta all’esperienza che i più anziani in dialogo con i più giovani del Movimento Shalom dovranno fare. Insegnare e aiutare il dialogo tra giovani e anziani. “Sì, io parlo con mia mamma, con mio papà”. No, il tuo papà e la tua mamma non sono anziani. Parla con tuo nonno o tua nonna, ossia, una generazione più in là, hanno la sapienza, e loro, tanto più, hanno bisogno che si bussi al loro cuore perché ti diano la sapienza. E questa sarebbe come la raccomandazione che io vi do: coraggio, incoraggiatevi a questo dialogo, questo dialogo è promessa per il futuro, questo dialogo vi aiuta ad andare avanti. Non so se ho risposto alla tua domanda. (Mosè risponde: sì). Molto bene grazie. Non so come continua il programma ora ma mi è rimasto un dubbio alla fine dell’ultima domanda del dialogo tra giovani e anziani. Mosè è giovane o anziano? (Risposta: Sono come te, Santo Padre, sono come lei). AVVENIRE Pag 22 Ospitalità, attualità di un dono Stamoulis: “Tornare al minimo per riaprire i cuori”. Plested: “Tutti i cristiani sono stranieri” (Chrysostomos Stamoulis) Nella sua Poetica della musica il compositore russo Igor Stravinskij, annota che, se «l’antico peccato originale era essenzialmente un peccato di conoscenza, il nuovo peccato originale è anzitutto e soprattutto un peccato di non accoglienza». E non c’è alcun dubbio che una tale constatazione ha applicazioni in tutti gli ambiti particolari della cultura globale. Viviamo in un’epoca in cui le evidenze del nostro modo di vita (trópos) sono messe in dubbio, oltraggiate e alla fine crocifisse, o uccise altrimenti, da tutti coloro che hanno imparato a misurare il valore dell’esistenza con il metro della prosperità economica, del benessere individuale, ma specialmente e primariamente con il metro del settarismo sociale, che genera posizioni e comportamenti di esclusione comunitaria di qualunque diverso e di qualsivoglia diversità. Viviamo in un’epoca in cui l’importanza del “minimo” ha lasciato spazio alla futilità del molto. Respiriamo o cerchiamo di respirare all’interno di un modo di vita che ha ormai come esigenza l’apertura dell’esistenza agli elementi fondamentali, il ritorno a quella svolta in cui abbiamo perso la strada e ci siamo ritrovati senza vergogna né consapevolezza «in una terra lontana» (Lc 15,13), così da poter ricominciare di nuovo a metterci alla ricerca di quell’unica cosa, di quell’unica e sola cosa di cui abbiamo bisogno (cf. Lc 10,42). Così da rianimare, in altre parole, e ridare al nostro modo di vita il suo autentico volto personale (prósopon): il volto di Maria, l’amica di Gesù, che è stato nascosto, come non doveva – e voglio credere che non sia stato distrutto – dalla “maschera” (prosopeîon) dell’iperattività e per questo della multiframmentazione di Marta. La fede continua ancora oggi a costituire un «fondamento di ciò che si spera» (Eb 11,1) e la Chiesa a essere quella realtà descritta da san Cirillo di Alessandria con una sola e unica parola, la parola pandocheîon (“locanda”, “albergo”). Scrive in proposito il santo di Alessandria: «Cristo ci ha portati in se stesso, poiché noi siamo membra del suo corpo. Ma ci ha anche condotti a una locanda (pandocheîon), e chiama “locanda” la Chiesa, la quale accoglie e contiene tutti in se stessa». Ho l’impressione che questo piccolo brano di san Cirillo nasconda parole che hanno il potere di distruggere tutte le certezze che la “cultura

del molto” ha imposto all’uomo dei tempi moderni, il quale a sua volta, perduto nell’edonismo di un amore autocentrato, ha perpetrato e continua a perpetrare l’errore di quello splendido angelo che per l’incapacità di comunicare e di lasciarsi amare, per l’incapacità di operare nel modo in cui opera il suo Creatore, si è trasformato completamente in esistenza chiusa, in principe delle tenebre, in principe di questo mondo. E tutti sappiamo che questo è il famoso e sventurato Lucifero. Agli antipodi, dunque, di questo amore autocentrato, che comporta consapevoli e inconsapevoli esclusioni ontologiche, l’ortodossia, così come ce la rivela il testo dell’Alessandrino appena citato propone un modo di esistenza, che di fronte alla cultura del molto, di fronte ai fenomeni contemporanei delle superculture e delle culture esclusiviste diametralmente opposte – e ricordiamo qui il precetto giudaico: “l’Ammonita e il Moabita non entreranno nella comunità del Signore!” (Dt 23,4) – ha al proprio centro il mistero dell’umanizzazione di Cristo e la sua persona. Propone in altre parole una cultura dell’incarnazione, una cultura ecumenica, che ha le sue radici nel “minimo”, che risponde al doppio nome di “svuotamento” (kénosis), ossia svuotamento di sé, e di assunzione dell’altro ( próslepsis), del totalmente diverso. È l’incontro con ciò che io non sono. In modo che possa diventare possibile la risposta affermativa al mistero della partecipazione alla casa comune di Dio Padre, che contiene e accoglie in sé tutti, tutte le creature del suo amore. E questo perché la partecipazione alla Chiesa, ovvero la comunione al corpo del Signore, non costituisce una conquista di chi è giustificato, puro e salvato ex officio, ma un dono di Dio creatore, concesso gratuitamente a giusti e ingiusti. Senz’altro, dunque, e su un piano più pratico, la partecipazione al Regno presuppone il dare da mangiare all’affamato, il dare da bere all’assetato, il vestire l’ignudo, il curare il malato, il visitare il carcerato e certamente l’accoglienza dello straniero (cf. Mt 25,35-36). In ultima analisi, l’assunzione a proprio carico del minimo, del fratello più piccolo, servendo il quale si serve lo stesso Cristo. Leggiamo a questo proposito in Matteo: «E rispondendo il Re dirà loro: in verità vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli (minimi), l’avete fatto a me» (Mt 25,40). (Marcus Plested) Permettetemi di iniziare con un famoso passo di un’apologia del cristianesimo primitivo, l’A Diogneto, che trae spunto dal tema dell’estraneità formulato nella Lettera agli ebrei: «I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per abiti… Abitano nella loro patria, ma come stranieri (pároikoi); a tutto partecipano come cittadini e a tutto sottostanno come stranieri (xénoi). Ogni terra straniera è patria per loro, ogni patria è terra straniera (pása xéne patrís estin autôn, kaì pása patrís xéne)». Il tema della xenitéia – essere straniero, sentirsi straniero, farsi straniero – è una costante nella storia del cristianesimo. In quanto cristiani non siamo mai completamente “a casa” in questo mondo. Qui non abbiamo una città permanente; «la nostra cittadinanza è nei cieli», come ci ricorda l’apostolo Paolo (Fil 3,20). In un certo senso siamo tutti stranieri. Lo stesso nostro Signore nacque lontano dalla sua terra, trascorse alcuni anni come rifugiato in Egitto e non ebbe fissa dimora durante il suo ministero terreno: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Quando invia i suoi apostoli, il Signore insegna loro a imitare il suo stile di vita itinerante: «Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone» (Mt 10,9-10). Il tema della xenitéia ovviamente è molto vasto ed è intimamente e strutturalmente connesso al tema della philoxenía (amore per lo straniero). La tradizione ortodossa chiama tutti noi a essere e a sentirci stranieri, forestieri. Questo può comportare il trasferimento in una terra straniera o in un lontano deserto o su una montagna ma tale spostamento d’ordine fisico non è mai il punto reale o comunque l’unico. La xenitéia può essere vissuta ovunque, ad Atene, sul Monte Athos, a Milano o a Milwaukee. Siamo tutti chiamati a essere stranieri o forestieri là dove siamo, a renderci estranei dai vincoli materiali e ad adottare in ogni occasione la mentalità dello straniero. Non dobbiamo mai essere completamente, interamente su questa terra. Guardiamo piuttosto a una terra migliore, a quella celeste (cf. Eb 13,14). Ma è parimenti chiaro che non ci volgeremo a una terra migliore se ignoriamo i bisogni e le miserie di questa terra e, in particolare, i bisogni degli stranieri e dei forestieri che vivono in mezzo a noi. La xenitéia è stata e sempre sarà legata alla philoxenía, cioè

all’amore per lo straniero. Possiamo mantenere i nostri pensieri sull’aldilà ma questo non ci porterà mai a disdegnare il qui e ora. Quanto alla xenitéia, vorrei suggerire che il mondo moderno ha favorito la creazione di una dinamica assolutamente negativa di estraniamento. I modelli economici, lavorativi e agricoli del capitalismo moderno globalizzato servono tutti, in diversi modi, a incoraggiare la perdita delle radici e a indebolire i vincoli con la famiglia e la terra. La connettività del nostro mondo moderno, a mio avviso, è qualcosa di illusorio: Internet, in particolare, può fare di tutti noi degli stranieri. Sentimenti di isolamento e alienazione sono tristemente dilaganti nel mondo sviluppato. Molte persone hanno ben poco bisogno di ricordare che sono “straniere”, e non certo in senso positivo. Non è compito facile riscoprire e instillare un senso più positivo della xenitéia quale viene articolato nella tradizione cristiana ortodossa, e cioè xenitéia intesa come estraniamento dai vincoli materiali, assimilazione a Cristo, l’archetipo dello straniero, e pellegrinaggio verso la nostra vera patria. Forse però uno dei modi migliori per acquisire e accogliere questo senso positivo della xenitéia è proprio quello di farlo attraverso la philoxenía. Nessuno di noi ignora l’immensa richiesta di philoxenía da parte di rifugiati – si tratta di una crisi che ha sfidato in maniera particolarmente acuta l’Italia e la Grecia. Ma sia che parliamo di rifugiati o di monaci pellegrini, di senzatetto o di affamati, a tutti noi sono indubbiamente offerte ampie opportunità per esercitare la philoxenía. In quanto stranieri noi stessi, potremo ringraziare profondamente per ogni occasione che ci consente di mostrare amore per i nostri compagni stranieri. LA STAMPA Per Francesco è il viaggio più delicato di Andrea Tornielli

Quello che inizia oggi è uno dei viaggi più delicati e problematici di papa Francesco. Certo, la Colombia è un grande Paese cattolico latinoamericano, e ci si aspetta una straordinaria partecipazione popolare. Ma la situazione è complessa e la pace, iniziata con lo storico accordo tra il governo del presidente premio Nobel per la Pace, Manuel Santos, e i guerriglieri delle Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia), appare come un piccolo seme già insidiato da molte minacce. Durante questo suo quinto pellegrinaggio in America Latina, il Papa percorrerà 21.178 chilometri e pronuncerà 12 discorsi in spagnolo, visitando quattro città: Bogotà, Villa Vicencio, Medellín e Cartagena. Francesco non va in Colombia per fare da «garante» dell'accordo, ottenuto con fatica, ma bocciato dal referendum popolare. E pur invitando alla riconciliazione, unica via per uscire da una guerra civile che ha lasciato sul terreno 230 mila vittime, cercherà di tenersi lontano dalle polemiche sulle clausole dell' accordo. Sottolineerà invece la necessità di costruire la pace con l'impegno di tutti, con leggi giuste che non siano la «legge del più forte». La scelta dei guerriglieri delle Farc di abbandonare le armi per trasformarsi in un partito politico in cambio di immunità e accesso al Parlamento, come previsto dall'accordo di pace, non è stata senza conseguenze. La scia di sangue, i morti o i rapiti, non si possono dimenticare facilmente. Restano le incognite su un futuro che si teme possa macchiarsi ancora di vendette, uccisioni, violenze. Mentre l'oligarchia del potere colombiano - 300 le famiglie, imparentate tra di loro, che da 70 anni controllano il Paese - coltiva le sue ambizioni, c'è un popolo che al 50% vive al sotto della soglia di povertà, con quasi un milione di bambini che per strada rovistano nella spazzatura. Vanno ricercate in queste situazioni di povertà le cause remote della violenza dell'ultimo mezzo secolo. Una violenza che si è purtroppo trasformata in cultura della violenza: polizie private, gruppi paramilitari, sicari di professione. Senza un processo di riconciliazione politica, la pace rimane dunque fragilissima, legata a un filo sottile, in balia della radicalizzazione e polarizzazione del dibattito politico interno. Infine, sullo sfondo del viaggio, c'è la crisi del Venezuela, Paese che confina con la Colombia. Molti si aspettano che Francesco possa dire una parola di vicinanza alle sofferenze di quel popolo. IL GIORNALE «Avvenire» volta pagina: Tornielli verso la direzione di Francesco Boezi

Roma. Andrea Tornielli sarebbe stato indicato come successore di Marco Tarquinio alla direzione di Avvenire. Una notizia che, se confermata, rappresenterebbe un cambio di passo all'interno della Cei, una sterzata non conseguente però, dicono i ben informati, alla nomina del neopresidente Bassetti, cardinale e arcivescovo metropolita di Perugia-Città della Pieve. Ipotesi circolata durante i mesi passati, la «soluzione Tornielli» alla guida del quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana non ha stupito i commentatori conservatori dai quali sta trapelando la notizia. Tornielli, infatti, coordinatore del sito web Vatican Insider ed ex giornalista del Giornale, è considerato da anni uno dei vaticanisti di punta, se non il principale, tra quelli presenti sulla scena della stampa italiana. Il peso che i suoi aggiornamenti sui fatti interni alla Chiesa hanno avuto tanto sotto il pontificato di Benedetto XVI quanto sotto quello attuale di Papa Francesco è noto a tutti gli addetti ai lavori. La fiducia della Cei, dunque di Bassetti e Galantino, ma anche un possibile placet di un estimatore di primissima fascia. Tornielli è l'autore del libro intervista con Papa Francesco, dal titolo Il nome di Dio è misericordia, un testo pubblicato in 85 paesi in vista del Giubileo straordinario che si sarebbe svolto cinque mesi dopo la data d'uscita. E sono tante le telefonate intercorse in queste ore tra i vaticanisti del bel paese. Il giornalista della Stampa è considerato tra i più vicini alle posizioni di Papa Bergoglio all'interno della diatriba che vede confrontarsi, per semplificare, «progressisti» e «conservatori»; tra intellettuali, opinionisti e uomini di cultura espressione del cattolicesimo. Nel questionare sull'operato del Papa, insomma, Tornielli è apertamente schierato dalla parte di chi si dichiara entusiasta dell'andamento di questo pontificato. Differentemente, invece, da chi come Agnoli e Socci ha espresso perplessità e critiche sull'azione dottrinale del Pontefice. E sempre dal mondo conservatore da cui proviene la notizia della successione di Tornielli a Tarquinio filtrano commenti difficilmente equivocabili. Quello che viene rimproverato al direttore del blog Sacri Palazzi è di non far parte del fronte di coloro che Tornielli stesso chiama «ultratradizionalisti» e «sedevacantisti»: i nostalgici di Ratzinger. Uno degli scontri più forti che ha coinvolto recentemente Tornielli, del resto, è stato quello con Riccardo Cascioli, direttore de La Nuova Bussola quotidiana, sulle frasi che secondo quest'ultimo Tornielli avrebbe tentato di estorcere al cardinale Brandmüller al fine di contrapporlo al cardinale Burke. Il fine presunto? Dividere i cardinali dei Dubia sull'Esortazione apostolica Amoris Laetitia. Ma nella guerra tra vaticanisti la partita pare pendere dalla parte di Tornielli: a breve dovrebbe sedere sull'ambitissima poltrona del direttore di Avvenire. Torna al sommario 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ LA STAMPA Il mistero della zanzara che uccide di Eugenia Tognotti Un mistero. Un giallo medico-scientifico. La morte per malaria della bambina di Trento è un evento eccezionale, alla luce dei pochi fatti di cui danno conto le cronache dei giornali: l’assenza di viaggi all’estero della famiglia in Paesi di malaria endemica; la breve vacanza trascorsa a Bibione, in Veneto; il ricovero della piccola nell’ospedale pediatrico Santa Chiara di Trento, dove la contemporanea presenza di due minori, che avevano contratto la malaria in Africa, non avrebbe comportato, a detta dei responsabili della struttura, il rischio di infezione malarica «indotta», acquisita cioè per accidentale inoculo di plasmodi. Difficile che Commissioni ministeriali e simili possano verificare le altre ipotesi in campo, che prevedono la possibilità della puntura di zanzare vettrici, Anofele, infette, accidentalmente importate in quell’area attraverso mezzi di trasporto quali navi e aerei («malaria da aeroporto»); o quella di specie anofeliche autoctone, infettatesi succhiando sangue da individui (immigrati o viaggiatori di ritorno da Paesi tropicali) portatori dei gametociti del Plasmodio, l’agente patogeno delle varie forme di malaria, terzana, quartana, estivo-autunnale o perniciosa. Dovuta, quest’ultima, al più pericoloso, il Plasmodium falciparum, che, in epoca pre-chininica, seminava la morte tra i bambini dell’Italia malarica, nel Mezzogiorno continentale, in Sicilia e in Sardegna. Condizioni ambientali e climatiche e la presenza di vettori diversi, risparmiavano il Nord

dove dominava una forma di malaria più mite, da Plasmodium vivax. La comparsa del Falciparum nelle cronache di questo caso di morte per malaria a Trento, fa una certa impressione se si considerano le carte sulla distribuzione dei potenziali vettori di malaria e delle aree a rischio d’introduzione dell’infezione (2005-2011). Niente rischio malaria per l’Italia settentrionale, Piemonte, Lombardia, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Veneto ecc. dove non è segnalata la presenza di Anopheles labranchiae. A rischio alto la Toscana, antica area di malaria, con uno dei «loca infesta» più tristemente noto nei secoli, la Maremma. A rischio moderato Sicilia e Sardegna, chiazzata di cerchi azzurri che segnalano la presenza di focolai sparsi di zanzare vettrici, su cui non ha potuto neppure l’inflessibile determinazione dei tecnici della Rockefeller Foundation nell’inondare l’isola di Ddt. Da quando quella potente arma, introdotta dagli americani nel periodo bellico, ha liberato il nostro Paese dall’antico flagello della mal aria i casi di malaria autoctona sono stati davvero pochi, anche a voler considerare un caso di inoculazione accidentale verificatosi in ambiente ospedaliero a carico di personale sanitario. Il primo - che vide il tempestivo intervento delle autorità sanitarie - si è verificò in provincia di Grosseto nel 1998. Si appurò poi che quel caso, dovuto a Plasmodium vivax, era stato causato da una zanzara nostrana, infettatasi su un individuo proveniente dall’India. Gli altri casi autoctoni si sono verificati nel nostro Paese fra il 2009 e il 2014. Casi sporadici di malaria autoctona, verificatisi nel 1971 in Corsica, nel 1975-76 e 1999-2000 in Grecia, nel 1995-96 in Bulgaria, nel 1998 nel grossetano, nel 2014 in Sardegna, dimostrano che i potenziali vettori presenti nell’Europa meridionale possono infettarsi con plasmodi provenienti da zone endemiche. Il caso della bambina di Trento morta di malaria andrà studiato con la massima attenzione. Ora sappiamo che il verificarsi di casi sporadici di malaria autoctona non riguarda solo le regioni centro-meridionali e insulari. E’ necessario che il livello di sorveglianza resti alto. Ma niente allarmismi. Una ripresa della trasmissione della malaria è poco probabile in Italia: uno dei pochi flagelli storici di cui siamo riusciti a liberarci non tornerà a fare paura. IL GAZZETTINO Pag 1 Effetto globalizzazione, tornare a studiare le malattie tropicali di Silvio Garattini Siamo di fronte ad un vero rompicapo, un giallo con triste fine ma senza soluzioni finali, un caso più unico che raro. Secondo le cronache, pare che siano passati 30 anni da quando era avvenuto un altro caso di morte da malaria. La storia è ormai circolata su tutti i mass-media: una bambina, Sofia, di 4 anni, che si trovava al mare nella Regione Veneto, aveva avuto per qualche giorno una febbre alta con picchi a 40 gradi. La situazione ha indotto i familiari a un ricovero ospedaliero all'Ospedale di Trento, dove la sintomatologia è precipitata allo stato di coma per cui è stato necessario un trasferimento a Brescia, dove esiste un'attrezzata unità di terapia intensiva pediatrica anche con specializzazione in malattie tropicali. I ricoveri sono stati inutili e la bimba è purtroppo morta con una diagnosi di malaria. Si tratta evidentemente di una forma di malaria cerebrale, ma delle forme più gravi, che è presente nei Paesi dell'Africa Sub-Sahariana, in Asia e in America del Sud. Si stima che la malaria colpisca 500 milioni di persone, causando la morte di circa 3 milioni di queste ogni anno. Se questo appartiene al mondo in via di sviluppo, nei Paesi industriali invece la malaria è molto rara ed è perciò difficile capire che cosa sia successo alla piccola Sofia. Gli esperti dell'Istituto Superiore di Sanità e di altre importanti istituzioni di infettivologia, che hanno fatto dichiarazioni, hanno manifestato sorpresa ed incredulità sottolineando che la zanzara responsabile della forma più grave della malaria nota con il nome di terzana maligna a causa della periodicità della febbre il Plasmodium Falciparum non esiste in Italia, anche se era endemico in molte aree del Lazio e della Sardegna prima delle bonifiche dell'inizio del Novecento. D'altra parte la puntura di questo tipo di zanzare è indispensabile per sviluppare la malattia, ma non risulta che la bimba sia stata punta. La trasmissione della malattia può avvenire anche per via ematica, cioè attraverso il sangue; ma anche questa possibile causa è stata esclusa. La famiglia non era stata in Paesi sospetti di avere casi di malaria. Si è invocata la possibilità di infezione ospedaliera perché la bimba era stata ricoverata in precedenza all'Ospedale di Portogruaro e di Trento per un possibile esordio

di diabete infantile. Nell'ospedale di Trento in un'altra stanza erano presenti due bambini affetti da malaria guariti. Ma anche questo accostamento non si capisce come possa avere un rapporto di causa ed effetto. Per spiegare il caso, che certamente sarà oggetto di altri studi nei prossimi giorni, una possibilità prospettata dall'infettivologo di Brescia, Giampiero Carosi, è che una zanzara abbia punto qualcuno infetto, magari dopo un viaggio, e poi abbia trasmesso il plasmodio, l'agente infettante, alla bambina. Se questa fosse la vera ragione, la probabilità che possa ripetersi è infinitamente bassa e perciò qualsiasi allarme è ingiustificato. Un'altra possibilità, forse più probabile, è che invece la zanzara sia giunta da noi con bagagli o merci e poi sia stata in grado di infettare. L'unica lezione che se ne può trarre è che con la globalizzazione dei viaggi e delle merci, può essere utile rinverdire nell'ambiente medico, le conoscenze riguardanti diagnosi e trattamenti non solo per la malaria ma anche per molte altre malattie tropicali trasmissibili. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pagg X – XI Un polo ricettivo da 7 mila posti letto di Elisio Trevisan La nuova città: una piastra con negozi e pista ciclabile sopra i binari Un hub ricettivo da 300 milioni di euro, migliaia di posti di lavoro, quasi 7 mila posti letto, alberghi, negozi e una piastra sopra alla stazione che collega piazzale Favretti con via Ulloa a Marghera. Questo può diventare l'area della stazione di Mestre e per evitare che, invece di un hub diventi l'ennesima accozzaglia di nuovi edifici com'è avvenuto per i capannoni che hanno rovinato il paesaggio Veneto, uno dei protagonisti di questa storia ha realizzato un progetto in grado di dare un volto unitario dal punto di vista urbanistico a tutto il tratto che va da via Ca' Marcello sino alla stazione ferroviaria. Gli assessori delle giunte di centrosinistra che si sono succeduti nell'ultimo decennio hanno detto recentemente che se prima Mestre era il dormitorio di Porto Marghera, adesso rischia di diventare il dormitorio di Venezia. L'architetto Luciano Parenti, invece, parla di «decentramento sano. A Venezia non c'è più posto per realizzare altre strutture ricettive e il luogo migliore per realizzarle è qui a fianco dei binari. Dalla stazione di Mestre, i turisti già l'hanno scoperto, in dieci minuti si va a Venezia ma in un quarto d'ora si raggiunge anche Padova e si può visitare il resto del Veneto, favorendo così un turismo più consapevole e riducendo la pressione su Venezia». È lui il progettista dei quattro edifici del gruppo tedesco Mtk che stanno sorgendo in via Ca' Marcello e della riqualificazione della strada: ospiteranno due alberghi a quattro e a tre stelle, un residence per famiglie e un altro ostello che si aggiungerà a quello dell'altro tedesco AO dall'altra parte della strada che ha aperto ad agosto e che ha già aperto il secondo cantiere per raddoppiarlo. Gli stessi assessori all'Urbanistica delle Giunte Cacciari, Costa e Orsoni ammettono che tutto è cominciato nei primi anni Novanta quando, con una Variante al Piano regolatore a firma del socialista Vittorio Salvagno e del progettista Edoardo Benevolo, si diede alla zona della stazione vocazione ricettiva e direzionale. Una volta aperte le stalle, inutile tentare di fermare i buoi ma c'è modo e modo di intervenire. Il primo Accordo di programma tra Ferrovie, privati, Comune, Provincia e Regione nel 2010 prevedeva (oltre alla sistemazione dei giardinetti di via Piave e all'alternativa residenziale per le 70 famiglie chiuse tra i due passaggi a livello della Gazzera) tre torri alte 100 metri, negozi, centro conferenze, parcheggi e un hotel poi è stato ridimensionato e sono sparite le torri diminuendo i volumi complessivi. Con l'arrivo del sindaco Brugnaro l'Accordo è stato bloccato, anche perché in realtà stava arrancando da parecchio tempo e non si capiva se le Ferrovie avessero davvero messo i soldi per realizzare la loro parte, e i privati hanno cominciato a pretendere che il Piano regolatore degli anni Novanta venga applicato. Oltretutto quel che negli anni Novanta si intuiva, e cioè che la gente si sarebbe spostata sempre più con i treni, oggi è realtà: per la stazione di Mestre passano ogni giorno tra le 60 mila e le 80 mila persone. Inoltre le società internazionali di analisi hanno verificato che attorno alla stazione c'è spazio per 5 o 6 ostelli senza contare gli alberghi e che manca un tessuto commerciale in grado di

dare risposte ai turisti, infine i grandi gruppi alberghieri stanno guardando a quest'area come possibile sede di investimenti. L'architetto Parenti ha messo insieme tutti questi dati e ha presentato al sindaco Brugnaro un progetto complessivo con alberghi, negozi, piazze, poste ciclabili e una piastra commerciale sopra alla stazione: «Da professionista impegnato a sviluppare parte di questa zona mi sono posto l'obbligo intellettuale di offrire una soluzione unitaria che dia un senso urbanistico compiuto alla trasformazione che comunque è già in arrivo». Non saranno molto felici gli albergatori esistenti. «Non devono avere paura della concorrenza, perché se è sana produce riqualificazione dell'offerta e del territorio perché tutti dovranno adeguarsi a standard di qualità più alti». LA PIASTRA - L'idea di un ponte abitato come quello di Rialto, percorribile a piedi e pieno di negozi, è da almeno vent'anni che gira. La Variante al Piano regolatore disegnata da Benevolo nei primi anni Novanta immaginava già una grande piastra che partisse dall'attuale stazione di Mestre, superasse i binari, e sbarcasse a sud, cioè a Marghera all'altezza di via Ulloa. Poi anche l'archistar Renzo Piano ne aveva pensata una monumentale e Massimo Cacciari, quand'era sindaco, l'aveva adottata e inizialmente inserita nell'Accordo di programma per riqualificare l'area della stazione. Anche il progetto di hub ricettivo dell'architetto Luciano Parenti ha tra i punti qualificanti una piastra, solo che la sua non prevede l'intervento economico di Comune e tantomeno delle Ferrovie, sarà a costo zero. Il Comune piuttosto dovrà occuparsi della regia dell'intera operazione per assicurare l'interesse pubblico e velocizzare i tempi, dato che si dovrà lavorare sopra ai binari in territorio delle Ferrovie dello Stato e di Centostazioni, la società che cura le parti commerciali delle 103 stazioni italiane più importanti esclusi i nodi principali. Sarà un investimento interamente privato che si ripagherà le spese con la gestione delle attività commerciali. Costo complessivo 25 milioni di euro per realizzare un ponte coperto, che sarà percorribile da pedoni (al centro) e anche da ciclisti (lungo un lato). Attualmente i passeggeri dei treni sono costretti a scendere i gradini per entrare nello sporco sottopasso e raggiungere la stazione, domani dovranno invece salire e, passando tra due file di negozi, raggiungeranno la stazione di Mestre o via Ulloa a Marghera. PISTA CICLABILE - La pista ciclabile proseguirà quella di via Dante, salirà sui tetti dei nuovi edifici previsti nell'area Touring, correrà a fianco dell'ex Poste, salirà sulla piastra e sbucherà a Marghera. AREA TOURING - La famiglia Fabris di Padova, proprietaria dei circa 7 mila metri quadri sui quali da oltre un decennio si immagina di costruire un albergo al posto del vecchio parcheggio, ha autorizzato Parenti a presentare un progetto che coinvolga anche quello spazio. L'architetto ha già fatto un sopralluogo assieme a tenici del Comune e ha sentito la Soprintendenza: attualmente esiste un vincolo su tutti i fabbricati che, però, appare esagerato dato che l'unica parte che desta interesse, più per la memoria di Mestre com'era che per valore artistico o architettonico, è costituita dai portali ricoperti di mosaici che fanno pensare a vecchie epoche coloniali. Una volta affrontata la questione vincoli, il progetto prevede un parcheggio interrato da 250 posti, un albergo e una piazza leggermente ipogea (sotto il livello della strada) con negozi attorno. Abbassando il livello della piazza, che verrà arredata con verde pubblico, si potrà prolungare la pista ciclabile che da via Dante, entrerà appunto al Touring, attraverserà in sopraelevata il viale della Stazione e sbucherà sulla nuova piastra. PIAZZALE DEI BUS - Proprio di fronte al Touring c'è il piazzale dei pullman pubblici, Actv e Atvo che, per quanto si voglia abbellire, rimane sempre un elemento che non qualifica la zona. Il progetto prevede di toglierli da lì e sistemarli nell'area vuota dietro al Touring e di fronte all'imbocco di Rampa Cavalcavia, coinvolgendo il privato proprietario del terreno. Nell'attuale area di interscambio verrà costruita una piazza pubblica, con una grande scalinata, come a Market Square a Londra, che scenderà fino al livello della fermata del tram rendendola quindi visibile dalla piazza e non più nascosta com'è oggi sotto al tunnel. In centro alla piazza verrà costruito un piccolo edificio per un paio di negozi che, come gli altri che sorgeranno dentro al Touring, saranno piccoli market per prodotti di prima necessità, alimentari, da toeletta e in genere per i viaggiatori di passaggio. VIALE DELLA STAZIONE - Anche a questo si porrà mano riordinandolo. I flussi saranno differenziati con corsie riservate a pedoni, auto, bus, divise da file di alberi.

EX POSTE - L'edificio esempio della corrente architettonica Brutalista è stato recentemente acquistato da Michael Kluge, il fondatore del gruppo tedesco AO che ha aperto quest'estate il primo ostello A&O al posto della Vempa in Rampa Cavalcavia e che ha da poco ceduto il gruppo agli americani del fondo Tpg, Texas Pacific Group. Il progetto prevede di demolire la vecchia sede delle poste e costruire una piastra commerciale da 4 o 5 mila metri quadrati con sopra due torri che saranno occupate da alberghi. AREA SABA - Di fronte all'ex Poste e nello spazio tra il condominio che ospita l'hotel Plaza e il garage multipiano del gruppo Saba (multinazionale spagnola specializzata nella gestione dei parcheggi) c'è un'area con un capannone sulla quale sono in corso trattative di acquisto per trasformarla in un piccolo supermarket interrato e, in elevazione, un albergo, oltre a un garage retrostante, multipiano da 15 mila metri quadrati con 600 posti. CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Venezia, miraggi e fake news di Paolo Costa Le “malediagnosi” Venezia è tra le città al mondo la più facile da amare e la più difficile da capire. Facile da godere perché ti ammalia con la sua urbs storica; con il suo ambiente, costruito e non, unico ed irripetibile; esito formale della città di ieri. Difficile da comprendere perché ti nasconde la sua civitas, quella della città di oggi, che opera su un’urbs moderna estesa ben al di là della cesura lagunare. La magia, l’incantesimo veneziano raggiungono il loro acme nei primi giorni di settembre di ogni anno. La Regata storica, la Mostra del cinema, il premio Campiello; tutti modi raffinati con i quali Venezia si mostra come vorremmo si mostrasse sempre; eventi con i quali ci ricorda i fasti della Serenissima, il protagonismo nazionale novecentesco degli inventori di Porto Marghera e quello del Veneto del «piccolo e bello» divenuto adulto. Ricordi di quando Venezia «era», non «era stata». Atmosfere magiche che, come i miraggi, incantano veneziani e «foresti», anche autorevoli, e li portano a lisciare senza scalfirli i temi «veri» della città – a partire da quello della conservazione dell’urbs storica, del bene culturale Venezia, in un modo, coerente con lo sviluppo della città di oggi, capace di renderla socialmente ed economicamente sostenibile -. Veneziani e «foresti» che usano argomentazioni che fanno proprie fake news, come oggi si chiamano le «bufale», ma soprattutto «malediagnosi», rappresentazioni della realtà diverse dal vero. Per capirci, è una fake news quella che fa credere che il grosso dei turisti arrivino con le grandi navi, mentre è una «maladiagnosi» quella che fa credere che i passeggeri delle grandi navi vengano a visitare Venezia invece delle isole greche. Sono le malediagnosi la radice più profonda dell’impotenza politico-strategica - nazionale, regionale e locale - a disegnare il futuro della città: a salvarne il «centro storico» dal soffocamento turistico e/o a lanciare 100 anni dopo un nuovo miracolo Porto Marghera. Le malediagnosi, i travisamenti diagnostici, sono molti, profondi e dannosi. Qui basti citarne tre, vere insistenze tolemaiche che rifiutano ogni evidenza copernicana. La prima, dall’apparenza nominalistica, ma la più gravida di conseguenze, è quella che continua immaginare l’urbs storica come una città compiuta, che «si può salvare da sola», che merita ripetuti referendum per staccarla dal resto della città. Se una città è un insieme di attività (aree) produttive e di servizio legati ad attività (aree) residenziali da interazioni giornaliere dipendenti dal trasporto, oggi l’urbs storica, la Venezia costruita nei secoli attorno a Rialto e San Marco, non è più area per attività residenziali. La popolazione che cala è solo la misura di una gigantesca trasformazione d’uso di un’area produttiva a destinazione monoculturale turistica. L’ultima difesa della residenza è caduta con l’avvento della share economy, con la possibilità garantita dalle nuove tecnologie dell’informazione di condividere a fini turistici anche il più piccolo appartamento. Nel «centro storico» oggi la destinazione turistica può essere contenuta solo da altre attività produttive. Quelle garantita dal volere del principe (oggi, pubblica amministrazione, Università e Biennale; domani, l’ogni tanto vagheggiato organismo internazionale), dal volere di qualche mecenate (altre fondazioni scientifiche o d’arte) o da attività direzionali e di rappresentanza che possano competere con il turismo. Queste attività direzionali, bancarie, assicurative, professionali animavano un tempo l’urbs storica, ma si sono

condannate all’esodo - ben più grave di quello della popolazione - quando ci si è impediti di risolvere il problema dell’accessibilità. E qui siamo alla seconda maladiagnosi. L’aver ritenuto che la ferrovia metropolitana sublagunare fosse un pericolo capace di inondare Venezia di turisti anziché lo strumento che avrebbe salvato il business district veneziano, come ha salvato quello di Milano e delle altre metropoli europee. L’idea copernicana di salvare Venezia con la sublagunare, mantenendo o ricreando le convenienze localizzative alle sue attività urbane superiori è stata avanzata più volte: dal comitato di iniziativa di Tolloy negli anni 60 del novecento al master plan della Save di Marchi di qualche anno fa - che avrebbe regalato al business district veneziano l’accessibilità globale dell’aeroporto -. Ma le resistenze tolemaiche hanno finora prevalso; col risultato che l’urbs storica soffoca da turismo e il business district che poteva salvarla dal tourist flood si è liquefatto. Rischia di correre lo stesso pericolo il nuovo blocco portuale, logistico e manifatturiero di Porto Marghera per un’altra delle grandi malediagnosi; quella che predica la tolemaica intangibilità della laguna dotata di un suo equilibrio «naturale» da non disturbare con interventi antropici, men che meno l’escavo di nuovi canali portuali. Dimenticando che la laguna di Venezia è sopravvissuta (al contrario di quelle di Aquileia e Ravenna) perché continuamente ricreata con deviazioni di fiumi, escavi di canali e imbonimenti di sacche. E che queste trasformazioni sono sempre state guidate da obiettivi di difesa militare, di sviluppo dell’agricoltura e pesca e, soprattutto, dell’attività marittimo-portuale, quella che ci ha regalato il bene culturale Venezia. Trasformazioni che sarebbero ulteriormente utili oggi in una logica win win di sviluppo portuale sostenibile e di ricostruzione morfologica lagunare. Ma la denuncia anche di questa maladiagnosi esigerebbe dei Galilei, che pur ci sono, capaci di dire anche a voce alta «eppur si muove». Tema che ci riporta a quello della responsabilità degli scienziati, degli intellettuali latu sensu, e dei mezzi di informazione nel garantire il «diritto alla conoscenza» di pannelliana memoria. «Ma questa è – ovviamente - un’altra storia». LA NUOVA Pag 13 “Stop alla caccia all’uomo, sono persone” di Nadia De Lazzari Don Favaretto difende i venditori abusivi: prendono due soldi, le loro storie sono tragedie In Piazza San Marco, per il decoro, tutti e con modalità differenti stanno allontanando i venditori abusivi che ai turisti di giorno propongono grammi di pasta (in sostituzione del più costoso grano) e di notte rose e dardi luminosi. Di recente per risolvere il problema è arrivata un'iniezione di forze fresche: alla polizia municipale si sono aggiunti quattordici nuovi vigili stagionali e dallo scorso 15 agosto i Guardians, gli "angeli del decoro" che ogni giorno dalle 11 alle 19,30 sono presenti nell'area marciana. Ora tutti si stanno scagliando contro i venditori abusivi. Ma non don Giovanni Favaretto che a gran voce pone una domanda e sollecita una riflessione: «Perché date la caccia a queste persone? Sono uomini, provengono da paesi che abbiamo sfruttato fino all'osso e che accogliamo in centri disumani. Il ricavato dei loro piccoli oggetti serve per sfamarsi. Il cibo è un diritto incluso nelle costituzioni di decine e decine di paesi».Attualmente il sacerdote, classe 1950, originario di Mira, è il rettore della chiesa di San Giacometto che si trova a due passi dal ponte di Rialto; precedentemente era alla guida della parrocchia di San Giovanni Battista in Bragora nel sestiere di Castello. «Altro che salotto più bello del mondo - aggiunge - la Piazza San Marco si è trasformata in una grande palestra dove tutti corrono: i vigili, i nuovi vigili, i Guardians. Invece di cacciarli avete mai provato a dialogare con questi giovani per conoscerli meglio? Spesso mi intrattengo e ascolto le loro storie. Sono tragedie, fughe da situazioni di guerra e di sofferenza. Mi salutano sempre e mi sorridono, hanno rispetto della piccola croce che porto». Don Giovanni Favaretto che abita a Rialto solleva un altro problema, quello dei servizi igienici pubblici. «A Venezia, è ben noto, arrivano milioni di turisti. Perché i wc pubblici non rimangono aperti almeno fino a mezzanotte? Sotto alla mia abitazione ne ho uno, chiude tra le 19 e le 20. Chi arriva e lo trova chiuso fa ugualmente la sua sosta pipì. Mi capita spesso di pulire. Ma è questa l'accoglienza e il rispetto nella nostra città verso i turisti?» Torna al sommario

8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DELLA SERA Pag 5 Muore di malaria a 4 anni: “Forse contagiata in ospedale” di Giusi Fasano Trento, Lorenzin invia gli ispettori. Nel suo reparto c’erano due bimbi malati. L’ultima estate di Sofia tra spiaggia e ricoveri «Da qualunque ipotesi si parta questa storia è assurda» riassume l’assessore provinciale alla salute di Trento, Luca Zeni. È assurdo che una bambina di quattro anni muoia della forma più grave di malaria senza aver mai viaggiato in Paesi a rischio e senza che nessuno sappia spiegarsi come sia avvenuto il contagio. Si chiamava Sofia Zago, quella bambina. È morta lunedì sera nel reparto malattie infettive tropicali degli Spedali Civili di Brescia, dov’era arrivata in condizioni disperate dall’ospedale S. Chiara di Trento. Poche ore prima che il suo cuore si arrendesse la biologa Silvia Fasanella, a Trento, aveva controllato gli esiti dell’emocromo, nel vetrino aveva visto tanti globuli rossi rotti e aveva chiesto l’aiuto del microbiologo per confermare i suoi sospetti: era la forma più grave di malaria, quella cerebrale, trasmessa dalla puntura di alcune specie di zanzare del genere Anopheles. Il fatto è che di quelle zanzare, vettori della malattia, nel nostro Paese non ce ne sono o almeno: così abbiamo creduto fino a oggi. Ne esiste una specie ritenuta «possibile vettore», come spiega Susanna Esposito, presidente dell’Associazione mondiale per le malattie infettive, ma mai la sua presenza è stata rilevata in Trentino, regione storicamente priva di malaria anche quando nel resto del Paese quella malattia era un problema nazionale. E allora com’è stato possibile il dramma di Sofia? Mentre il ministro Lorenzin invia gli ispettori a Trento e la magistratura apre due inchieste (a Brescia e a Trento, dove saranno riunite), si ragiona su ipotesi. Il procuratore di Trento Marco Gallina dice che «i Nas hanno già acquisito i documenti clinici» e che «il tema vero sono le possibili complicanze» su cui indagherà l’autopsia prevista per domani. Intanto si ricostruisce la storia clinica della bimba. Il suo ricovero a Trento aveva coinciso per alcuni giorni con quello di due fratellini che avevano contratto la malaria dello stesso ceppo che ha ucciso Sofia: il Plasmodium falciparum. Difficile non ipotizzare un legame con la presenza di quei bimbi appena rientrati dal Paese d’origine dei loro genitori, il Burkina Faso, con la febbre: un controllo in ospedale ha decretato la malaria per loro, la mamma e un fratello più grande, tutti ricoverati e guariti. Ma il contagio avviene esclusivamente per contatto ematico. Ed è molto improbabile che sia successo fra i bimbi, ricoverati in stanze separate ma con area giochi in comune. La possibilità più credibile è che Sofia sia stata punta da una zanzara «importata» in Italia in una valigia, eventualità che il primario di malattie infettive di Trento chiama «malaria da bagaglio» aggiungendo che «sarebbe una fatalità drammatica». Il ministro della Salute Lorenzin dice che «la bimba potrebbe aver contratto la malaria in ospedale». E la storia di Sofia diventa polemica politica, con il M5S che esprime dubbi sul protocollo in vigore e con la Lega che parla di «allarme sanitario» e punta il dito sui «finti profughi». Una ghirlanda di fiori bianchi e rosa al collo e gli occhi a guardare fuori campo, distratta da chissà che. Nella foto Sofia è in braccio alla mamma, Francesca. Sorride appena. In un altro scatto è inverno e lei, imbacuccata in un giubbottino bianco, ancora una volta non guarda l’obiettivo ma i suoi guantini tenuti assieme da un filo di lana. Istantanee dall’altra vita, quella vissuta fino a lunedì sera. Sofia non sarà mai più in nessuna fotografia, questa è stata la sua ultima estate. I giochi con la sabbia sulle spiagge di Bibione, quelli con il fratellino più grande, le braccia strette al collo di mamma o di papà. Non restano che immagini, appunto. E un milione di ricordi e sensi di colpa su quello che si poteva capire e non si è capito, su quello che si poteva fare e non si è fatto. Ma più passano le ore più sembra chiaro che molto, in questa storia, ha fatto il destino, al di là delle eventuali responsabilità che le indagini potranno mettere a fuoco. L’ultima settimana felice di questa bambina è quella prima di ferragosto. Marco Zago e sua moglie Francesca portano al mare i loro piccoli e decidono di non allontanarsi troppo dalla casa in cui vivono, in un quartiere di Trento. Scelgono una delle spiagge venete più famose e passano lì qualche giorno. Ma la cattiva sorte è già in agguato ad aspettare Sofia. La bimba ha il diabete infantile, non sta bene e il 13 di agosto i genitori la portano all’ospedale di Portogruaro, uno dei più vicini a Bibione. Tre giorni dopo è il Santa Chiara

di Trento a ricoverarla in pediatria, dove rimarrà dal 16 al 21. In quegli stessi giorni nella stanza accanto sono ricoverati per malaria anche due fratellini del Burkina Faso e, ripensa adesso il padre di Sofia, «mi ricordo bene di quei due bimbi, li vedevo quando ero con mia figlia nella sala giochi comune. Ma non ricordo che Sofia abbia avuto dei contatti fisici con loro». Anche sua moglie Francesca lo racconta ai pochi che ieri sono riusciti a parlarle: «Sofia aveva paura dell’ospedale e degli aghi, stava sempre in braccio». Marco e Francesca non hanno né rabbia né voglia di fare polemiche. «Non abbiamo elementi per accusare nessuno» ripetono al telefono a chi chiede che cosa faranno adesso. «Adesso è solo tempo di vivere in pace il nostro dolore». Ma, tornando ai bimbi della stanza accanto: se anche fossero venuti a contatto con Sofia possibile che si siano scambiati del sangue infetto e che lei abbia contratto così la malaria nella sua forma più grave? La risposta più logica ovviamente è per tutti un no. E poi: perché i due fratellini che pure erano vittime dello stesso ceppo aggressivo della malattia si sono salvati e lei no? I medici qui parlano di «risposta facile». E segnano un’altra tappa del calvario di questa bimba, il 31 agosto. Dieci giorni dopo le dimissioni dal primo ricovero di Trento, il 31 appunto, Marco e Francesca si ripresentano di nuovo in ospedale. La piccola stavolta ha la febbre alta, ha mal di gola. I medici del pronto soccorso la visitano, prescrivono antibiotici e la rimandano a casa con la diagnosi di laringite. Ma la febbre non cala. Lei sta sempre peggio e il giorno 2, sabato scorso, i genitori i ripresentano di nuovo al Santa Chiara. Sofia non è più cosciente, è gravissima, nel giro di poche ore entra in coma mentre gli esami dell’emocromo - dopo le ipotesi di epilessia e meningite - segnalano finalmente la diagnosi esatta: malaria. Ora. La «risposta facile» sul perché lei sia morta e i due fratellini siano guariti sta nei tempi dell’intervento. Da quando è salita la febbre (sembra già fra giovedì e venerdì scorsi) a quando si è arrivati alla diagnosi esatta (passaggio dal pronto soccorso incluso) sono passati giorni preziosi. Per capire quanto preziosi basti pensare che ogni 48 ore i parassiti si decuplicano. E in più il fisico di Sofia era già debilitato dal diabete. Nessuno ha collegato la febbre alla malaria, semplicemente perché la bimba era stata in vacanza a Bibione, non in Africa. E perché di quelle zanzare dalla puntura mortale in Italia non c’era traccia da molti decenni. Fino al giorno e al luogo dove la cattiva sorte aveva dato appuntamento a Sofia. CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Gli scienziati: “Il Veneto è sotto la soglia minima, rischio epidemia” di Giovanni Viafora Il Veneto e i vaccini, numeri ed effetti «Ma sapete come è stata eradicata la peste bovina, che poi era un morbillo? Con la vaccinazione. Perché le mucche non si pongono il problema degli anti-vaccinisti o di una Regione versus una nazione. E perché il contadino, siccome sa che le mucche sono valuable, cioè valgono, le vaccina senza problemi. È chiaro?». Also sprach Giorgio Palù, ordinario di Microbiologia a Padova, nonché presidente della Società Europea di Virologia. Uno dei massimi esperti italiani nel campo dei vaccini e dei virus. «Qui non è solo il Veneto che rischia - ci dice -, ma tutta la società civile, la popolazione. Perché i virus non hanno barriere, non si fermano davanti ai corsi d’acqua». La questione è che la decisione della Regione ha allarmato gli esperti. E come Palù, anche un altro big nel settore: Roberto Burioni, ordinario al «San Raffaele», diventato ormai, grazie alla sua attività divulgativa sui social network, una sorta di star dei «pro-vax». «Quando le coperture sono basse c’è il rischio di epidemia - ci spiega quest’ultimo al telefono -. E il fatto che in Veneto le coperture non siano più sufficienti lo dimostra il fatto che nel 2017 ci siano stati già 280 infezioni da morbillo. Contro le 33 dell’anno precedente. Nei Paesi in cui la copertura è alta ci sono 3, 4 o 5 casi all’anno. Si dice che ci debba essere un caso ogni milione. Ecco, quanti abitanti ha il Veneto e quanti malati? Per altro, una politica di vaccinazioni differente da regione a regione non ha neanche senso. L’immunizzazione ha senso in una comunità, per cui dovrebbe essere uguale non solo in tutta Italia, ma anche in tutta Europa». Il professor Palù dal canto suo vuole essere chiaro: «Io non faccio alcun commento politico, parlo solo di scienza; ma da noi, in Italia, è in corso un’epidemia e non c’è alternativa alla vaccinazione, lo vogliamo capire?». Spiega il virologo: «Fino al 2007 in Veneto c’era l’obbligo vaccinale e avevamo una copertura attorno al 95-97%; ora siamo scesi, nel caso del morbillo per esempio

all’82%, che purtroppo non è una copertura immunitaria tale da garantire una difesa dalla malattia». Ma quindi occorre obbligare? «Non fermiamoci sui termini - prosegue Palù -. In America io mi sono dovuto vaccinare per andare a lavorare là, mentre in Gran Bretagna i bambini a scuola non entrano senza divieto. Se ci fosse un senso civico alto non occorrerebbero le leggi. Insomma, se il Veneto garantisse una copertura sopra il 95% senza obblighi, non ci sarebbe bisogno di leggi». Invece il senso civico sembra essere scomparso. «Negli anni - prosegue Palù - si sono messe in mezzo le leghe anti-vaccini e poi, soprattutto, si è persa la memoria delle malattie e di quello che esse portavano». È lo stesso concetto che riprende Burioni: «Il morbillo è una malattia pericolosa, prima del vaccino morivano ogni anno centinaia di bambini. È incredibile come oggi si sentano genitori o politici che sottovalutino la malattia, affermando che non è mai morto nessuno. Ebbene ci sono centinaia di bambini che oggi questo non lo possono dire». Tra le contestazioni maggiori, avanzate dai «no-vax», c’è quella del numero eccessivo di vaccini. Su questo entrambi gli scienziati replicano con forza. Palù: «Il calendario è scadenzato, non c’è alcun problema di paralizzare il sistema immunitario. È chiaro che c’è un rischio quando si usano i virus vivi, magari in persone con malattie autoimmuni; ma sono rischi controllati. I vaccini sono farmaci, ma sono i farmaci più sicuri in assoluto. L’aspirina ha controindicazioni maggiori. E le reazioni avverse sono sull’ordine di una su diecimila, un milione; quando invece la probabilità di contagio sono infinitamente maggiori. È una questione di numeri. Il punto è che la nostra scienza basa tutto sul principio del rischio-beneficio. Chiedete a uno che ama il suo cane se, per paura delle reazioni avverse, non lo vaccina alla rabbia, sapendo che può morire». E Burioni: «I dieci vaccini sono quelli di tutto il mondo. Anzi, forse se ne dovrebbero aggiungere altri tre, i due pneumococchi e il meningococco. Vaccinando i bambini diminuiscono anche i contagi tra gli adulti». Cosa fare quindi? «Dovremmo fare di più, anche per quanto riguarda la formazione dei medici - riprende Palù -. Sono i primi che dovrebbero intervenire, e sono invece quelli che si vaccinano di meno». Quindi Burioni. «Ai genitori veneti dico solo una cosa: vaccinate i vostri figli. C’è un’epidemia, che alla riapertura delle scuole potrebbe riesplodere. Non rischiate». IL GAZZETTINO Pagg 2 - 3 Vaccini, governo contro la direttiva del Veneto di Angela Pederiva e Raffaella Ianuale Pronto il ricorso al Tar e il ministero della Salute valuta il commissariamento. Scuole e presidi in difficoltà schiacciati tra Stato e Regione Anche se il Veneto continua a ripetere di non cercare la rissa, sappia che ormai le porte del saloon sono aperte. Tutti contro tutti sul decreto regionale che introduce una moratoria di due anni per i bimbi della fascia 0-6, rinviando al 2019/2020 la decadenza dell'iscrizione a nidi e materne in caso di mancata vaccinazione: il governo studia l'impugnazione dell'atto, la giunta si prepara al contro-ricorso, il centrosinistra attacca il governatore leghista Luca Zaia, il Codacons presenta una denuncia contro il ministro centrista Beatrice Lorenzin. Un desolante spettacolo a cui famiglie e scuole guardano con un certo sconcerto, ferme in attesa di capire che cosa succederà. Nel mezzogiorno di fuoco di ieri, raffiche di colpi incrociati. Rimbalza da Roma la notizia che il ministero della Salute, non escludendo addirittura il commissariamento della Sanità regionale, sta valutando quanto meno il ricorso al Tar contro il provvedimento firmato dal dirigente Domenico Mantoan. L'esame del dossier, che coinvolge anche il distretto veneto dell'Avvocatura dello Stato, prenderebbe le mosse dalla considerazione che la salvaguardia della salute è una competenza esclusivamente statale e quindi non sono ammissibili trattamenti diversi a seconda degli orientamenti regionali. «Ho dato mandato annuncia il ministro Lorenzin di perseguire tutte le azioni contro la decisione della Regione Veneto che è totalmente irragionevole. La legge sull'obbligo vaccinale è nazionale. Il Veneto è nello Stato italiano e deve rispettare la legge. I virus non seguono i confini regionali o le valutazioni politiche. Il Veneto, da alcuni anni, ha fatto una scelta che comunque non l'ha portato ad essere in una soglia di sicurezza per le coperture vaccinali. Invito il presidente Zaia e il direttore Mantoan a rivedere la loro posizione alla luce dei dati epidemiologici». Accuse che a Venezia non possono sentire. L'assessore regionale Luca Coletto snocciola numeri e primati: «Siamo al 92% di copertura per

poliomielite e morbillo, siamo gli unici in Italia a disporre di un'anagrafe vaccinale informatizzata, siamo quelli che dispongono l'inserimento di un bimbo non vaccinato solo nella classe dov'è garantita la copertura di gregge del 95%». Il direttore generale Mantoan torna sul punto: «Noi non abbiamo autorizzato alcuna moratoria, noi abbiamo applicato l'articolo 3/bis, comma 5, della legge 119 sull'obbligatorietà vaccinale e riteniamo che questo sia il dettato della legge. Ma se così non è, qualcuno ci dica come va interpretato». Il governatore Zaia mette il carico da undici: «Se ci saranno epidemie non saranno certo in Veneto, ma nelle regioni dove non si vaccina. E se ci faranno ricorso contro, risponderemo a dovere: noi non impugniamo le leggi e le circolari per giocare, ma per difendere il nostro modello d'eccellenza. Lorenzin minaccia la migliore Sanità d'Italia». Al che il ministro della Salute, in diretta dalla Maddalena, torna a sparare sul Canal Grande: «Qui non c'è nessuno che minaccia niente e nessuno. Qui c'è una legge dello Stato, che è una legge di sanità approvata dal Parlamento a larghissima maggioranza e che deve essere applicata da tutte le regioni italiane, anche dal Veneto». Non la pensa così il Codacons, annunciando un esposto al Tribunale dei ministri contro la stessa Lorenzin, accusandola di tenere un comportamento «inaccettabile e lesivo della Costituzione». In mezzo ai fischi delle pallottole, suonano quasi di tenerezza le parole di Valeria Fedeli, ministro dell'Istruzione: «Commissariamento? È una parola brutta che non mi piace. Vorrei tanto che la Lombardia e il Veneto stessero con noi». L'unico a raccogliere il suo auspicio è però il governatore lombardo Roberto Maroni («Non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo violare la legge»): leghista sì, ma pur sempre sostenuto al Pirellone anche da Lombardia Popolare, formazione alfaniana tanto quanto il ministro Lorenzin. Se già prima era complicato, ora è caos. Fanno quasi pena i dirigenti scolastici schiacciati tra Stato e Regione ad una settimana esatta dall'avvio dell'anno scolastico. Sono loro che devono consentire o negare l'accesso alle scuole dell'infanzia ai bambini non in regola con i vaccini. Una responsabilità gigantesca, perché si parla della salute dei più piccoli. Ieri, all'indomani del decreto regionale che introduce una moratoria di due anni per i bimbi della fascia 0-6, è stata una giornata frenetica di riunioni a tutti a livelli. Dal Miur all'Ufficio scolastico regionale, dall'Associazione presidi alla Federazione delle scuole materne paritarie. Tutti concentrati sul caso Veneto. Perché a questo punto i dirigenti scolastici non sanno più se seguire la normativa del governo che prevede che i bambini siano in regola con i vaccini per accedere agli asili o quella della Regione Veneto che ha rinviato l'obbligatorietà al 2019-2020. Per ora sono in attesa di istruzioni. Ieri il direttore dell'Ufficio scolastico del Veneto Daniela Beltrame, alla conclusione di una riunione per sgrovigliare la matassa, ha rinviato le scelte ai suoi superiori. Anche lei attende che il Miur le dica come procedere con le scuole. Da parte sua il Miur non ha ancora dato indicazioni precise e ieri si è limitato a diffondere l'appello del ministro Valeria Fedeli che ha invitato la Regione Veneto e il governatore Luca Zaia a fare un passo indietro e ad adeguarsi alla normativa nazionale. Quasi un ultimo e disperato tentativo di far rientrare la vicenda. Ma nel frattempo le scuole cosa devono fare? «Continuo a ricevere richieste di aiuto da parte di dirigenti scolastici che non sanno come comportarsi - dice Lorenzo Gaggino, presidente veneto dell'Associazione nazionale presidi - sto raccogliendo tutte le istanze e le invio alla direttrice dell'Ufficio scolastico regionale. La situazione è paradossale e molto pesante per i dirigenti scolastici». Intanto i presidi cercano di procedere secondo buon senso. «Siamo in un momento di grandissimo lavoro, non c'è solo il problema dei vaccini - dice Federica Silvoni, dirigente scolastica padovana di un istituto comprensivo di 1350 studenti, di cui 100 nella scuola dell'infanzia - ho 4-5 casi non in regola con i vaccini, auspico che quanto prima mi dicano come devo comportarmi. Nel frattempo sono vicina alle famiglie e spero che entro l'11 settembre, ultimo giorno utile per presentare la documentazione, regolarizzino la posizione dei loro piccoli». Ha convocato all'improvviso una riunione a Venezia anche Stefano Cecchin, presidente veneto della Fism, la Federazione italiana delle scuole materne che raccoglie 1043 asili e nidi nel territorio regionale. «Ho incontrato i gestori delle scuole che sono in grande difficoltà - spiega - non sanno se rispettare la normativa statale o quella regionale. Non solo, se seguono quest'ultima vogliono garanzie che i bimbi non in regola abbiano tutte le coperture, anche assicurative, che li tutelino al pari degli altri». Il tutto ad anno scolastico già avviato, perché in molte scuole aderenti alla

Fism le aule sono aperte già dal primo settembre. Una centrifuga con regole che cambiano ogni giorno: il 16 agosto è infatti arrivata alle scuole la prima circolare del Miur sui vaccini, l'1 settembre quella congiunta tra Miur e ministero della Sanità e il 4 settembre il decreto della Regione Veneto. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’equivoco del nuovo federalismo di Massimo Franco Politica e Regioni È un peccato che il tentativo di rilanciare il federalismo da parte della Lega coincida con la moratoria di due anni sui vaccini decisa dalla Regione Veneto. Il rischio concreto non è solo quello di offrire una visione un po’ oscurantista di una regione saldamente ancorata all’Europa; e governata da anni e con ampi consensi dal centrodestra. La prospettiva è quella di piegare un’operazione dai contorni controversi ma ambiziosi a polemiche strumentali. Il pericolo è di dare spazio e ossigeno a posizioni al limite del rifiuto di alcune conquiste scientifiche che dovrebbero essere patrimonio comune dell’Italia, e non solo. Negli anni, il Nord ha tentato ripetutamente col movimento di Umberto Bossi di emanciparsi da quello che ha percepito come uno Stato prepotente e inefficiente. Con i governi di Silvio Berlusconi l’offensiva «nordista» si è concretizzata anche in Parlamento, senza tuttavia approdare a grandi risultati. Anzi, si è avuta una sorta di risacca che ha mostrato tutti i limiti di quell’operazione. Ora il Veneto tenta di riproporre un simulacro di indipendenza da «Roma» col referendum sull’autonomia della Regione fissato per il 22 ottobre. Ma nasce con le peggiori premesse. Quella annunciata dal governatore della Lega, Luca Zaia, promette di apparire come una «secessione sanitaria»; e di associare referendum e alt alla vaccinazione obbligatoria a scuola, creando una miscela che il resto dell’Italia faticherebbe a capire. Su questa strada, la resurrezione del federalismo potrebbe trasformarsi nella sua pietra tombale. Si intravede un alone di anti-scientificità incompatibile con la voglia di modernità e di emancipazione dal potere centrale alle quali il Veneto dice di aspirare. La motivazione ufficiale della Regione è che si vuole permettere a tutti di iscriversi a scuola, anche a chi non ha ancora vaccinato i figli: le norme che regolano la materia, si sostiene, non sarebbero chiare. Ma è difficile sfuggire al sospetto che il rinvio sia legato anche al referendum del 22 ottobre. A torto o a ragione, il no ai vaccini rischia di diventarne la bandiera: una bandiera dai colori cupi, a questo punto. Si tocca e si usa strumentalmente un tema delicato, che suscita paure e sospetti nelle famiglie. E si fomenta la sfiducia nelle istituzioni anche quando agiscono per il bene comune. La Lega rompe il monopolio del Movimento Cinque Stelle, che sulla polemica contro i vaccini aveva speculato nel recente passato prima di fare una imbarazzata marcia indietro. Ma è un’operazione scivolosa. Prefigura un leghismo premoderno, di retroguardia, che raschia il barile delle polemiche antistatali. Evidentemente, lo scontro con il «governo di Roma» è considerato una sorta di talismano del successo. Si tratti di immigrazione, tasse, Europa, l’importante è smarcarsi: operazione magari strumentale ma legittima. Quando si parla di salute pubblica, però, il federalismo non può essere declinato come un «fai da te» che prefigura una pericolosa autarchia. Rivendicare un’agenda contrapposta a quella del governo fa parte del bagaglio di un’opposizione. E si può comprendere anche il tentativo leghista di difendersi dalle incursioni dei seguaci di Beppe Grillo nel suo elettorato. Ma in questo caso è facile indovinare che prevarrà la lettura di una spregiudicata trovata elettorale. Più dell’aspetto politico, a preoccupare è il messaggio regressivo che la decisione rischia di trasmettere sul piano culturale. Forse potrebbe portare qualche voto estremista in più. La logica sarebbe inevitabilmente perdente, però: agli occhi dell’Italia e dell’Europa. Pag 1 Guerra o pace per l’America (e i suoi alleati) di Franco Venturini

Gli alleati dell’America avrebbero preferito avere a che fare con un presidente meno imprevedibile di Donald Trump. Avrebbero voluto che nelle questioni internazionali gli Stati Uniti parlassero con una voce sola, e riflettessero attentamente prima di parlare. Ma poi viene il momento in cui la scelta che l’America deve compiere è tra guerra e pace, e quella è l’ora in cui l’inquilino della Casa Bianca, chiunque sia, ridiventa il capo dell’Occidente. Gli alleati degli Stati Uniti devono capire che oggi, mentre la Corea del Nord sviluppa ordigni nucleari sempre più micidiali e acquista la capacità tecnica di colpire gli Stati Uniti, non esistono più vicinanze o lontananze geografiche dal possibile teatro di scontro. Esistono invece gli schieramenti delle ore gravi, le alleanze che vanno al di là delle persone, e sarebbe un errore, soprattutto per gli europei, non far sentire all’America in tormento la loro vicinanza, i loro pareri, anche le loro amichevoli critiche. Lo ha ben capito Angela Merkel che ieri ha telefonato a Trump non soltanto perché è in campagna elettorale, e c’è da sperare che altri seguiranno, Italia compresa, e verificheranno la possibilità di un vertice transatlantico dedicato esclusivamente all’emergenza nordcoreana. Perché di emergenza si tratta, non facciamoci illusioni. Davanti ai formidabili (o terribili) progressi compiuti da Kim Jong-un in campo nucleare e in campo missilistico, l’Occidente ha reagito con il consueto istinto pavloviano rimasto immutato dalla presidenza Clinton in poi: dure parole di condanna miste a stupore, limitate contromisure militari per tranquillizzare Seul e Tokyo, lamentele verso la Cina, sanzioni economiche sempre più estese. Washington, questa volta, vorrebbe che lunedì il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvasse una sorta di embargo commerciale mondiale contro la Corea del Nord. Ma ha perfettamente ragione Vladimir Putin quando avverte, come ha fatto ieri, che le sanzioni risulteranno inefficaci perché i dirigenti nordcoreani sono pronti a «mangiare erba» pur di portare avanti il loro programma militare atomico. È appunto questa la terrificante presa d’atto alla quale l’America sta lentamente arrivando, e che non deve sfuggire agli alleati. Kim e i suoi antenati sono lucidi e crudeli calcolatori, non pazzi. Essi sono convinti, e non da oggi, che soltanto la disponibilità di un arsenale nucleare può garantire la sicurezza della Corea del Nord e la sopravvivenza della sua classe dirigente. Il pericolo può venire dall’odiata America, dalla separata Corea del Sud, e sarà meglio non fidarsi nemmeno della sempre meno amica Cina. Per questo la polizza di assicurazione atomica va perseguita impegnando tutte le risorse, senza badare a carestie o a nuove sanzioni. Per questo la Corea del Nord non diventerà mai «ragionevole» prima di aver avuto dagli Usa il riconoscimento del proprio status di potenza nucleare. E anzi, moltiplicherà le provocazioni per tentare di accelerare il processo. Per l’America la vera alternativa, dietro lo schermo temporeggiatore delle sanzioni, è tra guerra e pace. La guerra comporterebbe un massacro oggi non misurabile, una apocalisse asiatica che di certo coinvolgerebbe i sudcoreani, le forze statunitensi presenti in Sud Corea e a Guam, forse i giapponesi. E il superamento della soglia nucleare scuoterebbe dalle radici i già fragili equilibri mondiali, economici e geopolitici. La pace richiederebbe un dialogo negoziale assai improbabile senza previe concessioni sullo status di potenza atomica. E comunque renderebbe probabile una proliferazione nucleare regionale che potrebbe coinvolgere, oltre alla Corea del Sud, anche un Giappone tuttora tormentato dalle tragiche memorie di Hiroshima e di Nagasaki. E ancora, fino a che punto potrebbero gli Usa fidarsi degli impegni di una Corea del Nord che conserverebbe una capacità di primo colpo atomico contro il territorio americano o contro le basi americane? Trump non si mette più sullo stesso piano verbale delle minacce di Kim, dice «vedremo» e rivela così una benvenuta consapevolezza dell’enorme posta in gioco. Se deciderà di colpire, aprirà la porta su un baratro insondabile. Se resterà alla finestra spingendo ancora il pulsante delle sanzioni, di fatto inviterà Kim Jong-un a nuovi e sempre più ultimativi «messaggi» nucleari e balistici. No, gli alleati di Trump non possono guardare dall’altra parte e limitarsi a pronunciare le solite condanne. L’America deve sentirci vicini. E devono sentirci vicini i generali di cui Trump si è circondato, perché saranno loro, nella meno catastrofica delle ipotesi, a dover misurare fin dove si può provare a trattare con i bombaroli atomici di Pyongyang. Pag 12 Chi si rafforzerà con la crisi? I mercati puntano su Pechino (che in Borsa sbaraglia tutti) di Federico Fubini

Nel 1909 lo statistico inglese Francis Galton trasse da una fiera di campagna una lezione che ancora oggi vale per la crisi nordcoreana. A quella sagra venne chiesto a ottocento avventori di indovinare il peso di un bue; fallirono tutti, eppure la media delle risposte si rivelò praticamente perfetta. È quella che lo scrittore newyorkese James Surowiecki chiama la «saggezza delle folle»: la capacità di una moltitudine di persone, una volta messe insieme, di indicare nel complesso qualcosa che nessuna di loro singolarmente conosce. Se la «saggezza delle folle» conta qualcosa, essa oggi dice che la Cina emergerà più forte dalle tensioni attorno al regime di Pyongyang e si dimostrerà l’attore decisivo nel superarle. Questo è l’esito che i mercati finanziari sembrano prevedere da quando, all’inizio di agosto, la Corea del Nord è entrata nel radar di milioni di investitori in tutto il mondo. Poiché in queste settimane le minacce di Kim Jong-un sono il principale fattore di guida dei mercati, il primo segnale sugli sbocchi possibili viene proprio dall’andamento dei listini. Gli operatori sembrano vedere nella Cina l’unica potenza indenne, malgrado i venti di guerra che spirano dal suo confine con la Corea del Nord. Nell’ultimo mese lo Shanghai Composite, l’indice principale delle aziende della seconda economia del mondo, è salito del 3,2%; soprattutto, ha fatto meglio del S&P 500 di New York di quasi il 4%, meglio dello Eurostoxx50 europeo di circa il 5% e molto meglio del Kospi di Seul o del Nikkei 225 di Tokyo (surclassati del 6%). Di per sé la tenuta della Borsa di Shanghai potrebbe non rivelare molto; dopotutto, è riservata principalmente a capitali che si muovono solo all’interno della Repubblica popolare. Eppure la tendenza della piazza cinese a reagire meglio degli altri grandi mercati si conferma in tutti i punti di snodo di questa crisi geopolitica estiva. Tre eventi in particolare hanno scosso gli indici azionari di recente: la notizia dell’8 agosto di nuovi progressi di Pyongyang nei missili a lunga gittata e la reazione del presidente americano Donald Trump («fuoco e fiamme» sulla Corea del Nord); il lancio di un missile di Kim a sorvolare il Giappone il 28 agosto; e il test di una bomba all’idrogeno, che ha prodotto una scossa sismica nella penisola coreana domenica scorsa. Come mostra il grafico in pagina, in tutte e tre le occasioni le Borse negli Stati Uniti, in Europa, a Seul e in Giappone hanno prevedibilmente reagito con incertezze e cadute. Invece nelle tre occasioni, la Borsa di Shanghai ha fatto molto meglio e in due casi ha persino guadagnato terreno. Milioni di investitori sembrano pensare, nel complesso, che la Cina emergerà vincente da questa crisi. La sua influenza in Asia crescerà. Molti analisti pensano che solo Pechino possa forzare o indurre un compromesso in Corea del Nord, tramite un’invasione o un accordo con l’esercito di Pyongyang. Del resto a volte la saggezza delle folle, letta nei listini di Borsa, non sbaglia: fra il 2009 e il 2011 una crescita del 90% del Dax di Francoforte - il doppio delle medie europee - aveva già segnalato che la Germania si sarebbe imposta come l’egemone del continente negli anni successivi. La razionalità collettiva espressa nei mercati, a volte, indovina in anticipo persino il peso geopolitico di un bue. LA REPUBBLICA Pag 3 Lo straniero, le paure globali e l’onda lunga dei muri tra l’America e l’Europa di Federico Rampini Donald Trump spezza brutalmente il Sogno Americano dei Dreamers, immigrati da bambini e quindi "incolpevoli" anche per la violazione della legge. Barack Obama esce dal suo silenzio per condannare questa decisione «contraria allo spirito dell'America, e al buonsenso». Ma Trump mantiene una promessa che è il cuore del suo contratto con gli elettori. Non si ferma l'onda lunga anti-globalizzazione, malgrado i ripetuti infortuni di questa presidenza anomala e perfino grottesca. Il mondo dei Muri, la ricerca di un capro espiatorio di fronte al disagio sociale: è tutto ancora in mezzo a noi, più attuale che mai. Da Brexit alle resistenze italiane sullo Ius soli, un filo robusto tiene insieme questi eventi. Qualcuno si era illuso che la vittoria di Macron in Francia, la solidità della Merkel in Germania fossero segnali della fine di un ciclo, l'inversione di tendenza rispetto all'avanzata dei populismi. Ma la Germania di oggi è più chiusa di quella del 2015, la Merkel si è rafforzata accogliendo alcune istanze dei suoi avversari, i nemici della frontiere aperte. La vicenda Dreamers colpisce per la sua assurdità, certo. Sono 800.000 giovani senza permesso di residenza e di lavoro, ma arrivarono in America da piccoli e questa è la loro unica patria. Quando Obama gli offrì una procedura per la

regolarizzazione fece una cosa di buonsenso, appunto: approvata anche da alcuni repubblicani moderati. E' complicato oltre che disumano, espellerli e deportarli: hanno perso i legami col paese d'origine dei genitori. Molti si sono inseriti, non a caso esponenti dell'economia come Tim Cook (Apple) e Mark Zuckerberg (Facebook) li difendono: ne hanno assunti parecchi soprattutto in quegli Stati progressisti, dalla California e New York, dove vigono da anni sanatorie di fatto. Non meno assurdo fu il voto anti-immigrati della Gran Bretagna (la vera ragione del successo di Brexit), la campagna contro "l'invasione di operai polacchi e rumeni", in un paese la cui economia ha prosperato grazie all'iniezione di forze nuove e talenti dall'estero. In quanto al dibattito sullo Ius soli in Italia, è stato amalgamato in modo insensato col tema dei profughi, ai quali non si applicherebbe una riforma riservata a chi è nato nel paese. Allora come sciogliere la matassa delle incogruenze, incoerenze e contraddizioni? Il dramma dei Dreamers ricacciati nell'illegalità aiuta a capire. Nell'elettorato nazionalista e popolare della destra americana le vere paure erano chiare molto prima di Trump. Con 11 milioni di immigrati privi di Green Card o di visti, c'è sempre stato il timore di un'amnistia generalizzata. Non era quella la riforma di Obama, assai circoscritta. Però fu vista come il primo colpo al principio di legalità. Tema su cui i comizi di qualunque repubblicano strappano ovazioni: se hanno violato la legge e li perdoniamo, dove finisce lo Stato di diritto? E ancora: facciamo un torto a tanti altri stranieri che hanno seguito le vie regolari. E infine: perdiamo il controllo sui nostri confini, che Stato siamo senza l'autorità di decidere chi può entrare e chi no? A questo si sovrappone il tema della sicurezza, alimentato dal terrorismo islamico ma non solo: insieme coi disperati che arrivano da paesi dell'America centrale ove regna la violenza, c'è anche un fenomeno di gang spietate, da Long Island (New York) a Oakland (San Francisco). Tutto si coagula nella questione dell' identità. "Chi siamo noi?", si chiedeva già Samuel Huntington - il teorico dello scontro di civiltà - riflettendo su un modello etico-valoriale di origine anglosassone e protestante, diluito dagli arrivi. E' diventato un simbolo di estraniazione il ritornello di risposta automatica dei centralini telefonici che chiedono all'utente di "schiacciare il pulsante uno per l'inglese, due per lo spagnolo". I Muri, le fiammate di ostilità verso l'Altro, non sono una risposta e l'economia americana precipiterebbe in una crisi se dovessero scomparire gli 11 milioni di clandestini, privando di manodopera l'agricoltura e l'edilizia, il turismo e l'assistenza ai malati. Ma se l'onda lunga non accenna a ritirarsi, è anche perché il fronte globalista - la sinistra politica più l'establishment economico - ha sottovalutato problemi reali o non ha dato risposte adeguate. Un quarto di secolo di globalizzazione si salda con l'impoverimento della classe operaia e del ceto medio. La concorrenza degli immigrati sul mercato del lavoro esiste ed esercita una pressione al ribasso sui salari della popolazione locale (da Karl Marx in poi, questo fu un tema di sinistra). Quei ceti più deboli che occupano i mestieri meno qualificati e si trovano in competizione con gli stranieri sono anche quelli che vivono negli stessi quartieri, negli stessi caseggiati popolari. Soffrono di più per la criminalità o per un diffuso senso di disordine. Si sentono "estranei a casa propria o stranieri in patria" (titolo di un saggio illuminante sui bianchi poveri che hanno eletto Trump) perché a loro si chiede di sopportare il massimo sforzo d'integrazione, il senso d'insicurezza. Resterà come un capolavoro negativo la campagna elettorale di Hillary Clinton che parlava a tutte le minoranze, salvo che all'operaio bianco declassato e disprezzato per il suo universo valoriale "retrogrado". Quella campagna disegnava un'America governata da una coalizione di "tutti gli altri"; e i bianchi si sono vendicati eleggendo un estremista. Tanti repubblicani conoscono dei Dreamers, li hanno visti giocare coi propri figli, e alcuni si metteranno una mano sulla coscienza. Ma la sinistra deve trovare un linguaggio sull'immigrazione che non irrida alle paure legittime. LA STAMPA Nord Corea la sfida di Putin all’America di Stefano Stefanini Non sarà guerra fredda ma ci manca poco. Mettendo una trave fra le ruote americane sulla crisi nordcoreana, il presidente russo conferma che l’opposizione agli Stati Uniti è (ri)diventata punto cardinale della politica estera russa. Non è il confronto planetario fra le due superpotenze, ma un costante disegno teso a mettere in difficoltà Washington su tutti gli scacchieri. La penisola coreana non fa eccezione. La Rappresentante americana alle Nazioni Unite, Nikki Haley, aveva appena chiesto «le sanzioni più dure» per

rispondere all’ultimo test nucleare di Pyongyang, forse una bomba H, che segue a ruota una sfilza di lanci missilistici (un altro atteso a giorni). Liquidando le sanzioni come «inutili», forte del veto in Consiglio di Sicurezza, Vladimir Putin le ha stroncate sul nascere. Senza una risposta forte del Consiglio di Sicurezza, Washington è con le spalle al muro, perde credibilità e rischia una rottura con gli alleati asiatici. Il percorso americano al Palazzo di Vetro diventa ora proibitivo. Haley aveva anticipato una proposta di risoluzione americana, partendo dal presupposto che il test nucleare crei un consenso sull’indurimento delle sanzioni. La proposta radicale, compreso embargo petrolifero, perderebbe poi qualche pezzo nel negoziato con gli altri membri del Consiglio. Gli americani mettevano certamente in conto qualche prezzo da pagare per l’appoggio o l’astensione di Russia e Cina. Adesso possono sperare al massimo in una condanna di Pyongyang, con apparato sanzionatorio all’acqua di rose. Altrimenti, veto di Mosca: se accettasse nuove sanzioni il presidente russo smentirebbe se stesso. Senza risoluzione Onu, ulteriori sanzioni americane e europee contro Pyongyang hanno i denti spuntati. Sarà vero che «chi commercia con la Corea del Nord sta solo aiutando il regime» ma il partner principale è Pechino; punire unilateralmente la Cina, maggior creditore del Tesoro americano, è a dir poco irrealistico. Se la via dello strangolamento economico di Pyongyang è chiusa, ricompare inevitabilmente la rischiosissima opzione militare. Anche facendo la tara a Donald Trump («fuoco e furia»), è sicuramente fra le prospettive che quest’amministrazione americana tiene presenti, per quanto malvolentieri. Washington, a cominciare dal Pentagono, sa che le conseguenze sarebbero devastanti e destabilizzanti. L’ambasciatrice Haley ha girato intorno all’intervento militare senza però mai escluderlo. Malgrado Kim Jong-un stia «supplicando la guerra», ha detto, è l’ultima cosa che gli Usa vogliono ma «la nostra pazienza non è illimitata». Putin pertanto si contraddice quando da una parte blocca le sanzioni e dall’altra condanna «l’isteria militare» (sottinteso degli Usa). Dopo aver detto che un conflitto nella penisola coreana piò portare a una catastrofe globale, egli sbarra la porta alle pressioni su Pyongyang, spingendo così Donald Trump verso il sentiero militare. Non può non rendersene conto. Lascia il tempo che trova il suo invito alla diplomazia e al dialogo - con un regime che è stato sordo per oltre vent’anni alle varie iniziative negoziali americane e internazionali e che ha accelerato la corsa nucleare e missilistica sotto l’attuale giovane dittatore. Il presidente russo guarda soprattutto ai guadagni immediati che ottiene paralizzando gli americani: frustrazione e perdita di faccia al Palazzo di Vetro (alla vigilia dell’Assemblea Generale) e di credibilità strategica in Asia e nel Pacifico; incrinatura del rapporto con i principali alleati asiatici, Seul e Tokyo, doppiamente inquieti, per la minaccia nordcoreana e per l’imprevedibilità americana (l’ultima cosa che i sudcoreani vogliono è un’azione preventiva americana); distrazione di Washington da altri teatri di più diretto interesse russo in Europa (Ucraina) e in Mediterraneo e Medio Oriente (Siria, Iran). La scommessa di Putin è che alla fine Donald Trump sia trattenuto dall’intervento militare e che l’America esca dalla crisi come potenza indebolita. Se poi scoppiasse un nuovo conflitto coreano, vedere Usa e Cina ai ferri corti, se non in guerra come fu negli Anni 50, non sarebbe forse una tragedia per la Russia. Il calcolo è tanto geniale quanto pericoloso. Nella penisola coreana, fra i giocattoli di Kim Jong-un, si scherza col fuoco. Peccato. In altri tempi, non tanto lontani, questa crisi sarebbe stata il terreno ideale di un’intesa fra i «grandi» per tenere a bada un bandito internazionale con armi nucleari. Anziché comunicare per tweet e discorsi, i leader di Russia, Usa e Cina si sarebbero riuniti di corsa per gestire l’emergenza nordcoreana. Ma erano altri tempi - e altri leader. Il Po senza sorgente è come un albero senza radici di Mauro Corona Angoscia. Ecco che cosa provo. Un fiume senza la sorgente è un segnale di agonia. Preoccupazione gigante. È come un albero senza radici, anzi, è come un uomo senza nome, senza identità, che non sa più chi, cosa fa. Spero che si risolva, che sia solo un ciclo. Il nostro splendido e dolce clima mediterraneo si sta trasformando in tropicale. Tempeste, uragani, anzi. E poi? Le carestie. Ricordate qualche anno fa, sono scesi in montagna cinque, anche sei metri di neve. Poi più nulla, siccità. Angoscia, ripeto. Quella di vedere un fiume, un torrente o solo un ruscello senz’acqua, di più, senza sorgente. Sapere che un qualsiasi corso d’acqua perde la propria origine è un segnale devastante e

ci deve far pensare, far decidere qualcosa. Che cosa stanno a fare i grandi del mondo? E Trump, a cui non importa nulla di quanto accade. Tutti pensano solo a vincere su altri. Altro che curarsi della Terra. Borges diceva, «tutto ciò che è fuggitivo resiste e a Roma non rimarrà il Colosseo, ma il Tevere». La Natura lo sta contraddicendo, ma io spero che anche lei si contraddica, che sia un periodo, un ciclo, dai. Ma Borges disse anche un’altra cosa su cui riflettere: «Non vedo motivo perché un uomo del XX secolo abbia in cura un progetto dimenticato che si chiama Terra». La verità è che noi stiamo vivendo un’anarchia che ha questo nome: nichilismo del terzo millennio. Siamo in sette miliardi, ma in realtà l’uomo è uno solo, un individuo che non ha più un progetto che possa lasciare qualcosa agli altri. Abbiamo devastato ogni cosa e mandato ogni genere di porcheria nell’atmosfera. La colpa è quella volontà di avanzare sempre, a ogni costo. Quel «più» che cerchiamo sempre. Inventiamo aggeggi per avere, soltanto per avere. E così la nostra anima corrotta sale in alto, a inquinare i cieli. E cediamo a quel nichilismo che si fa pensare storto: «È difficile per me, chi se ne frega degli altri, di chi verrà». E i giovani si buttano via in una non vita. Sapete chi paga per primo questo nichilismo? La Terra che viene stuprata. La Terra è come una vecchia falce, batti e ribatti si consuma. Smettiamola di tagliare fieno, tagliamo soltanto il necessario così la falce si preserva. Il Po senza sorgente? Idea tragica, monito per l’uomo. AVVENIRE Pag 1 Le due malattie di Giuseppe Anzani Tragico lutto e caccia agli “untori” Una bambina di quattro anni che muore di malaria dopo il ricovero in un ospedale italiano è un dolore che trapassa il cuore, è il picco del dolore. È per noi anche una incredula angoscia perché è una morte insolita, e la paura vi associa pensieri di allarme. La malaria in Italia non c’è; la malaria è stata un incubo, per l’Italia, per secoli e secoli, quando infestava le zone paludose poi finalmente bonificate nel secolo scorso; e l’anopheles, la zanzara malefica che inietta nel sangue il plasmodium col suo pungiglione, è stata sconfitta, sradicata. La malattia è rimasta endemica nelle zone tropicali del mondo, dove ogni anno si contano più di 200 milioni di malati e circa 400mila morti (il 2 per mille). E la notizia che nello stesso ospedale c’erano due bimbi malati, di ritorno da un viaggio nel Burkina Faso, loro Paese d’origine, mescolandosi alle paure addensate negli ultimi tempi da un clima di nervosismo ostile verso il flusso dei migranti sulla rotta mediterranea, ha fatto uscire parole cattive da qualche esponente politico impregnato di umori cattivi. Perché un conto è l’urto impressionante dell’allarme dal lato sanitario, per il caso più unico che raro, e il bisogno di una indagine di precisione assoluta, senza la quale si rischiano vaniloqui. Un altro conto è il rigurgito di parole insensate sulle «orde di finti profughi che stanno invadendo l’Italia» senza che i governanti assicurino che queste orde non portino «gravissime malattie». Un’immagine che sembra evocare la peste portata al seguito dai Lanzichenecchi nel racconto del Manzoni (chiedendo scusa allo scrittore lombardo, per qualche differenza stilistica). Un modo per gettare la tragedia di questa morte sulla bilancia dei rancori preventivi, della rabbia e dell’astio verso una intera moltitudine di persone che non c’entrano e che sono additate come indistinto bersaglio di massa. È di nuovo il corto circuito del pensiero che cerca il capro espiatorio, costruisce la categoria degli untori. Gli esperti sono già all’opera per scoprire l’origine del morbo che ha ucciso la piccola Sofia. Le statistiche dicono che ogni anno circa 600 italiani che tornano da viaggi di lavoro o turismo nei Paesi dove la malaria è endemica prendono l’infezione. In Francia stanno peggio, sono 2.200. Gli immigrati non c’entrano con queste vicende. Da noi un contagio 'autoctono' (cioè originato in Italia) può accadere a chi risiede in zone aeroportuali, se qualche zanzara resta tra i vestiti o nelle valigie, e punge prima di morire; oppure per contagio da sangue infetto a sangue sano, evento anche questo ordinariamente evitabile. Si accenna l’ipotesi che il contagio sia avvenuto in ospedale, e gli interrogativi irrompono e ci scuotono sui rischi durevoli e generici che le statistiche assegnano alle infezioni nosocomiali; ma per ogni certezza dobbiamo ancora attendere. Questa attesa non è senza ansia. L’accompagna l’immagine di quel volto, nella fissità della morte che è il peso dell’assurdo, come accade per ogni dolore innocente che precipita dentro la vita. Ma a sciogliere l’enigma non giova caricare il cuore di ostilità verso chi porta solo il

fardello d’un altro dolore innocente e farne fantasma globale d’un male colpevole d’ogni male che accada. Questa è ancora malaria, l’altra malaria: quando il plasmodio dell’odio ti è entrato nell’anima. Pag 3 Da Tucidide ai social media, genealogia delle “fake news” di Alessandro Zaccuri Ha radici profonde il fenomeno deflagrato con Internet. Le notizie “verosimili” ma false, le tecnologie e le nostre paure Con le false notizie il problema è che non smettono di essere notizie per il fatto di essere false. Non sono documentate né documentabili, ma non diversamente dalle notizie vere formano mentalità e impongono opinioni. Spesso le consolidano, di norma le presuppongono. «Una falsa notizia – scriveva nel 1921 lo storico Marc Bloch – nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita; essa solo apparentemente è fortuita o, più precisamente, tutto ciò che in essa vi è di fortuito è l’incidente iniziale, assolutamente insignificante, che fa scattare il lavoro dell’immaginazione; ma questa messa in moto ha luogo soltanto perché le immaginazioni sono già preparate e in silenzioso fermento». Bloch inserisce queste notazioni in un saggio ispirato anche alla sua esperienza di combattente nella Prima guerra mondiale, ma il fenomeno che descrive (oggi universalmente noto come fake news) è molto più antico. Se ne trovano tracce già nell’antichità, come ha ribadito a più riprese Luciano Canfora, per esempio attraverso l’analisi della lettera, riprodotta da Tucidide nel primo libro della Guerra del Peloponneso, nella quale il generale spartano Pausania metterebbe nero su bianco la sua intenzione di tradire i greci per passare al servizio di Serse, il Gran Re dei persiani. «La lettera è in qualunque epoca il genere falsificabile per eccellenza», avverte Canfora, ricordando come sulla base di questa missiva, o di altre molto simili, Pausania sia stato effettivamente riconosciuto colpevole di alto tradimento. Anche in quel caso, la verosimiglianza del documento ha avuto la meglio sulla sua eventuale veridicità. Fin qui siamo nell’ambito della corrispondenza privata, resa disponibile con relativa tempestività da un ricercatore che si proclama indipendente. Questo non basta a fare di Tucidide il Julian Assange del V secolo avanti Cristo, ma può aiutarci a mettere in prospettiva storica, e di conseguenza critica, il procedimento su cui si basa la logica di Wikileaks. Il presupposto sembrerebbe l’esatto contrario della falsificazione (l’assoluta trasparenza, l’esposizione pubblica del segreto di Stato eccetera), ma la sostanziale indifferenza rispetto al contenuto della rivelazione apre la strada agli utilizzi più contraddittori da parte delle istituzioni che si vorrebbero porre sotto accusa. Una volta reso noto, il tal quale dei server di posta elettronica restituisce di tutto, e tutto può essere interpretato in qualsiasi modo, come ha dimostrato il gioco di informazioni e controinformazioni del cosiddetto Russiagate. Certo, qui ci entrano in campo tradizioni poderose, la disinformazia di origine sovietica e la propaganda statunitense, ma a ingigantire ulteriormente il fenomeno è il turbinoso assetto dei media digitali, che viralizza le notizie senza preoccuparsi di verificarle. Disinformazia, del resto, è il titolo di un polemico pamphlet di Francesco Nicodemo (Marsilio), analisi tutt’altro che rassicurante sugli effetti che un decennio abbondante di social media ha avuto sulla nostra credulità. Più conciliante, in certa misura, la posizione di Andrea Fontana, che in Io credo alle sirene (Hoepli) suggerisce qualche accorgimento per non soccombere in un contesto informativo del quale le fake news fanno ormai parte integrante. Anche sulla tecnologia, però, occorre intendersi. Facebook e compagni sono un acceleratore formidabile, ma il punto di partenza rimane quello indicato da Bloch: si crede a quello in cui già prima si voleva credere. La paura, in questo senso, è una componente essenziale del processo. Un caso esemplare (e molto divertente, tra l’altro) si trova nell’Antiquario, un romanzo di Walter Scott risalente addirittura al 1816. Ambientato in Scozia nell’estate del 1794, mentre sul continente imperversano gli scontri tra l’esercito rivoluzionario francese e la Prima coalizione, il racconto rielabora un episodio avvenuto in realtà nel 1804, quando per l’errore di una guardia costiera si sparse la voce che le truppe di Napoleone stessero sbarcando in Inghilterra. Più dell’equivoco in sé, a interessarci è il meccanismo che lo ha generato. Il sistema di comunicazione impiegato alla fine del XVIII secolo è ancora lo stesso descritto da Eschilo nell’Agamennone (458 a.C.) e poi ripreso da J.R.R. Tolkien nel Signore degli Anelli: una

serie di postazioni a distanza di sguardo l’una dell’altra, l’accensione di un fuoco come segnale convenuto, la propagazione dell’avviso in tempo quasi reale. Scott immagina che a scatenare il panico sia un falò improvvidamente allestito in piena notte dai protagonisti dell’Antiquario e, così facendo, ci mostra come anche un dispositivo informativo di assoluta semplicità sia sempre e comunque passibile di travisamento e manipolazione. È un rischio che aumenta con l’aumentare della complessità. Nel 1844, quando non sono trascorsi ancora trent’anni dalla pubblicazione del romanzo di Scott, lo scenario è già profondamente mutato. Per essere più precisi, lo era già nel 1838, l’anno in cui culmina l’intricata trama del Conte di Montecristo di Alexandre Dumas. Edmond Dantès, com’è noto, è tornato per vendicarsi e tra le armi di cui intende avvalersi c’è anche quella del dissesto finanziario. Uno dei suoi nemici, il barone Danglars, ha una moglie che ama giocare in Borsa, sfruttando spesso le informazioni che le vengono anticipate dall’amante, ben introdotto al Ministero degli Interni. Per far cadere la donna in un investimento avventato, Dantès va di persona a una stazione del telegrafo alle porte di Parigi, corrompe l’addetto alle trasmissioni e diffonde in questo modo una notizia del tutto destituita di fondamento, quella del ritorno dall’esilio del pretendente al trono di Spagna, Don Carlos di Borbone. Piano modernissimo, che mescola fake news e insider trading, per la cui riuscita è però indispensabile un elemento abbastanza sorprendente: l’addetto al telegrafo non conosce il codice di cui si serve, è in grado di decifrare un paio di informazioni elementari che riguardano la gestione del servizio e per il resto si limita a riprodurre meccanicamente il segnale che gli viene inviato. Sia pure aggiornato sul versante tecnico, il sistema è lo stesso dei fuochi di Eschilo, Scott e Tolkien. Dantès fa propagare una notizia falsa, ma il soggetto che la propaga è ignaro del contenuto del messaggio e quindi si comporta né più né meno come un algoritmo, indifferente all’identità e all’attendibilità dell’autore di un determinato tweet. Più fitta è la catena, più è sufficiente indebolirne un solo anello per renderla inaffidabile. La baronessa Danglars casca nel tranello, e forse non potrebbe fare altrimenti. Prima di essere falsamente annunciata, infatti, la riscossa di Don Carlos era stata oggetto di mormorii e illazioni, attraverso il rimando incrociato fra bruits publics (voci della strada) e dispacci giornalistici, studiato con illuminante intelligenza dallo storico Robert Darnton. Ma la falsa notizia messa in circolo da Dantès non è soltanto plausibile. La sua efficacia sta nella capacità di adattarsi alle aspettative della persona a cui è destinata, nella fattispecie l’avida nobildonna speculatrice. Il più delle volte è difficile, se non impossibile, sapere chi e perché si sta prendendo l’incomodo di fabbricare e spacciare fake news. Noi non li conosciamo, i signori della disinformazia, ma di sicuro loro conoscono noi: le nostre paure, i nostri pregiudizi, il nostro oscuro desiderio di lasciarci ingannare. Pag 3 Via dalle grinfie del nemico di Ferdinando Camon Un film che dice tanto della lotta tra Bene e Male Passa per un film di guerra, e infatti parla di guerra, di una grande operazione di guerra, la ritirata da Dunquerque dell’armata di 400mila soldati inviati dalla Gran Bretagna nel 1940 a contrastare l’occupazione tedesca della Francia, ma non è la storia di una battaglia, non è uno scontro di eserciti: è la storia dell’uscita da una trappola, la storia di un salvataggio. Prima che il film cominci, il salvataggio vien chiamato 'miracolo'. Dunque, è la storia di un miracolo. Il miracolo invocato è la salvezza di almeno 30mila uomini. Il miracolo che si verifica è la salvezza di oltre 300mila uomini. Dunque, il film racconta un miracolo dieci volte superiore alle preghiere. Il film è Dunkirk, e gira per i cinema in questi giorni. L’idea di miracolo rimanda a forze super-umane, al di sopra della storia. Anche Dunkirk. Se sta sopra la storia, non deve usare categorie storiche. E infatti non le usa. Non parla mai di lotta tra inglesi e tedeschi. I tedeschi non sono mai chiamati così. Mai nessuno dice: 'Là ci sono i tedeschi'. Si dice sempre: 'Là c’è il nemico'. È così potente il nemico, così onnipresente, così invisibile, così cattivo, così bramoso della nostra morte, che dovremmo scrivere Nemico, maiuscolo. Questa è una ritirata dell’umanità dalle grinfie del Nemico. Il Nemico vuole una sola cosa: ammazzarci tutti. Perciò la nostra vittoria è sopravvivere. Se sopravviviamo, abbiamo tutto. «Non abbiamo mai vinto il nemico, siamo soltanto sopravvissuti», dice un protagonista alla fine. Gli rispondono: «E ti par poco?». In questa idea che sopravvivere significa vincere c’è un’altra idea, che tu sei il Bene e il Nemico è il Male: per salvare il Bene devi salvarti. In

questa idea c’è un nucleo mistico: se non fai di tutto per salvarti, tradisci il Bene. Non sei colpevole soltanto verso di te, ma verso tutti. Non mi meraviglia, quando vedo questi film, il coraggio dei 'Nostri': combattono e muoiono per il Bene, è logico che siano disposti a morire. Mi meraviglia il coraggio del Nemico: lui combatte dalla parte sbagliata, come può sprecare la vita? Mi ha colpito come una sberla questo dialogo che sta in un romanzo di Pratolini: «Ho visto combattere i russi, sono leoni», «Ma io ho visto i tedeschi, sono draghi». Come possono combattere come draghi, i combattenti del Male? Semplice: scambiano il Male per il Bene. In Dunkirk non si vede mai un soldato del Male, ma se si vedesse, e fosse inquadrato in primo piano, e l’inquadratura andasse sulla fibbia della cintura, sulla fibbia si leggerebbero le parole Gott mit uns, Dio è con noi. Dio, cioè la Giustizia, il Diritto, il Bene. Se lo dicevano da se stessi, naturalmente. A Parigi, il Museo dell’Esercito è anche un Museo della Resistenza, e qui ci sono centomila slogan della Resistenza, con noi sta la libertà, con noi sta l’indipendenza, con noi sta la Patria..., ma in fondo c’è una divisa della Wehrmacht, poggiata sul pavimento di una vetrina, e si vede la cintura, ma rovesciata: non si legge il Gott mit uns. Ho protestato con la guardiana, l’ho pregata di raddrizzare la cintura, m’ha promesso che l’avrebbe fatto. Se voi oggi visitando quel museo potete leggere quelle parole, siatemi grati. In Dunkirk il Nemico vuol uccidere più che può, i Nostri vogliono salvare più che possono. Per salvarli bisogna imbarcarli e portarli via. Quindi è questione di barche e di spazio. Fare il bene è questione di mezzi: fare più bene è meglio che farne meno, salvare molti è meglio che salvarne pochi. Impariamo così che imbarcare un ferito in barella costa tanto spazio come imbarcare sette uomini dritti in piedi. Non è crudeltà, è matematica. Gli aerei nemici vengono e tornano a mitragliare le navi cariche, anche quelle della Croce Rossa, perché i feriti non scappano, è più facile colpirli, e colpirli è il tuo bene, più ne colpisci più bene fai. È l’Inferno. Dunkirk è la traversata dell’Inferno. E l’Inferno finisce quando appaiono le Bianche Scogliere. IL FOGLIO Pag III Tempi duri per la libertà di Sergio Belardinelli Siamo ormai di fronte allo sfinimento di un certo spirito moderno che si trova sempre più esposto al rischio di trasformare la politica in religione. L’equivoco sulla laicità Il dispiegarsi su scala globale del terrorismo islamista potrebbe far pensare il contrario, ma anche le religioni sono oggi sfidate soprattutto dalla pluralità. Le loro lingue, quale più quale meno, si trovano tutte a dover fare i conti sia con dialetti interni, sia con diversità linguistiche vere e proprie che le differenziano l'una dall'altra, accentuando in tutte (così almeno si spera) la consapevolezza della distanza che le separa dalla presunta lingua di Dio. Un Dio che parli, direbbe Borges, "deve dire solo una parola, e in quella parola la pienezza. Nessuna voce articolata da lui può essere inferiore all'universo o minore della somma del tempo. Ombre e simulacri di quella voce che equivale a un linguaggio, sono le ambiziose e povere voci umane tutto, mondo, universo". Come ha mostrato Maurice Olender, nel suo libro Le lingue del paradiso, possiamo anche arrovellarci nello studio delle lingue più antiche, al fine di ritrovare, grazie alla filologia, la trasparenza dell'inizio, il momento in cui il rapporto tra Dio, l'uomo e le forze della natura non si era ancora appannato. La cultura europea del Sette Ottocento lo fece in modo mirabile. Ma di certo non troveremo mai la lingua di Dio. D'altra parte, per dirla con Olender, "Che lingua parlano, nel giardino del Paradiso, Adamo, Eva, Dio e il Serpente? Sarà l'ebraico, il fiammingo, il francese o lo svedese? L'Eden, bagnato da un fiume che si getta in mare per quattro bracci, si trova a ovest o a est, dalla parte dell'Eufrate o sulle rive del Gange? La gara intrapresa da teologi, filosofi, e filologi, per stabilire quale lingua si parlasse in Paradiso e quali potessero essere i contorni della sua favolosa geografia, si sviluppò lungo innumerevoli diramazioni di cui non abbiamo finito di esplorare i sinuosi meandri". L'ironia di questo brano ci dice indubbiamente la distanza che separa il nostro modo di guardare la questione rispetto a coloro che discutevano se Dio avesse dettato direttamente a Mosè, parola per parola, le tavole della legge o le avesse semplicemente ispirate. Ferma restando la differenza radicale tra la forza creatrice della parola divina e le povere parole umane, che al massimo possono dare un nome alle cose, non certo crearle, sta di fatto che oggi, almeno all'interno della tradizione ebraica, quando si parla della parola di Dio si pensa prevalentemente a una

parola divinamente ispirata, ma scritta da uomini, destinata a farsi storia, e quindi recante in sé anche i tratti dell'umana precarietà. E forse è per questo che il Dio innominabile e impronunciabile degli ebrei aveva così tanto bisogno di un Mediatore, di un Messia, che si facesse carne e venisse a parlare la lingua degli uomini. Con l'avvento del Messia e della sua chiesa, il linguaggio di Dio si storicizza, si apre, in un certo senso si svuota: la famosa Kenosis di cui parla l'apostolo Paolo. In questo svuotarsi, in questo offrirsi totale da parte di Dio al mondo, sta il riscatto di tutti gli uomini. Non ci saranno più ebrei, né greci, ma soltanto la pluralità della grande famiglia umana. Tutte le lingue umane sono come legittimate, ciascuna nella propria specificità, in attesa di quella Pentecoste, che non significherà il ritorno all'uniformità di una "sola lingua", quella parlata prima del peccato di Babele, narrato in Genesi 11, bensì la semplice trasparenza di tutte le lingue, l'una all'altra, nello spirito di Dio. "La folla si radunò e rimase sbigottita, perché ciascuno li sentiva parlare nella propria lingua", si legge al capitolo 2 degli Atti degli Apostoli. L'affermazione della pluralità degli uomini e delle lingue sembra essere dunque uno degli esiti decisivi della tradizione ebraico-cristiana. Ciò non significa, ovviamente, che all'interno di questa tradizione non ci sia più posto per dogmi o "verità inconcusse". La chiesa cattolica, per fare un esempio, continua pur sempre a pensare se stessa come custode dello spirito e delle verità di Dio. La fedeltà a Dio è più importante della fedeltà agli uomini e al mondo, rispetto al quale essa dovrebbe essere soprattutto segno di contraddizione. Ma è pur vero che, specialmente a partire dal il Concilio Vaticano II, la chiesa incomincia a guardare il mondo con occhio diverso, certamente non più come si guarda un "nemico". Nella Gaudium et Spes, la costituzione conciliare sulla chiesa nel mondo contemporaneo, si parla non a caso, non soltanto dell'aiuto che la chiesa intende offrire agli individui e alla società (nn. 41, 42, 43), ma anche dell'aiuto che la chiesa riceve dal mondo contemporaneo (n. 44); un tema, quest'ultimo, che indica indubbiamente un allargamento di prospettiva circa la mondanità-non mondanità della chiesa. Prima del Concilio non era così scontato che la chiesa potesse anche "ricevere" qualcosa dal mondo. Oggi la chiesa sente invece di doversi chinare sul mondo e di dover addirittura "imparare" dal mondo, ma non per diventare una potenza mondana, bensì semplicemente per offrire a tutti il suo messaggio di salvezza. Anche questa apertura al mondo da parte della chiesa trae insomma tutta la sua forza dalla parola di Gesù Cristo. "La forza che la chiesa riesce a immettere nella società umana contemporanea", viene detto espressamente, "consiste in quella fede e carità portate ad efficacia di vita, e non esercitando con mezzi puramente umani un qualche dominio esteriore" (n. 42). Di qui l'esortazione ai cristiani a "non trascurare i propri doveri terreni" , in vista della futura città di Dio, né a immergersi "negli affari della terra, come se questi fossero estranei del tutto alla vita religiosa", ridotta per lo più a "atti di culto" e ad "alcuni doveri morali" (n. 43). La verità cristiana, in altre parole, non è una gabbia ideologica, né uno strumento di dominio, ma un dono fatto da Dio a tutti gli uomini di buona volontà; un dono capace di arricchirsi, di imparare, da ciò che le società umane hanno costruito nei secoli. Come si dice in Gaudium et Spes, "Essa (la chiesa) sente con gratitudine di ricevere, nella sua comunità non meno che nei suoi figli singoli, vari aiuti dagli uomini di qualsiasi grado e condizione. Chiunque promuove la comunità umana nell'ordine della famiglia, della cultura, della vita economica e sociale, come pure della politica, sia nazionale che internazionale, porta anche non poco aiuto, secondo il disegno di Dio, alla comunità della Chiesa, nella misura in cui questa dipende da fattori esterni. Anzi, la Chiesa confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino a motivo della opposizione di quanti la avversano o la perseguitano" (n. 44). Se ci pensiamo bene, in questo brano non si fa altro che portare a maggiore consapevolezza ciò che San Paolo aveva indicato come metodo del dialogo tra cristiani e mondo: "Provate tutto e trattenete ciò che è buono". L'incontro con l'altro o con una cultura "altra", come vado dicendo ormai da anni, è sempre in primo luogo un'avventura con noi stessi, con la cultura che ci è propria. La verità cristiana, pur con tutte le inadeguatezze e purtroppo anche le violenze che in suo nome sono state perpetrate, costituisce da oltre venti secoli uno degli esempi più riusciti di questa capacità di imparare dall'altro senza rinunciare a se stessi. In virtù della trascendenza che la costituisce, la verità cristiana è un segno di contraddizione per ogni realtà sociale o individuale. Di fronte al Dio di Abramo e di Gesù Cristo, nessun ordine del mondo, se così si può dire, è più lo stesso, nessun uomo e nessuna cultura sono più "totalmente altri". Come aveva ben capito

Hegel, l'occidente, proprio in virtù del principio cristiano del "compi mento", non conosce un "esterno assoluto"; è strutturalmente aperto, pronto a imparare da tutti, ma fermo nel suo principio costitutivo. "L'uomo è la via della chiesa", dirà San Giovanni Paolo II nella Centesimus annus. "La chiesa pertanto, riaffermando costantemente la trascendente dignità della persona, ha come suo metodo il rispetto della libertà" (n. 46). "Ognuno è immensamente sacro e merita il nostro affetto e la nostra dedizione", si legge oggi nella Evangelii Gaudium (n. 274) di papa Francesco. Mi sembrano segnali eloquente di quanto la chiesa abbia saputo imparare dalla modernità. E' più importante il rispetto della dignità e della libertà dell'uomo, fosse anche erronea, che la verità di Dio. La quale non viene per questo sminuita, bensì esaltata dalla consapevolezza che il rispetto della libertà di tutti è ormai il solo "metodo" per affermarla. Da un punto di vista socio-culturale, questa centralità dalla persona umana porta con sé una serie di conseguenze molto importanti, prima fra tutte la consapevolezza che il pluralismo è un valore fondamentale, non soltanto per la politica, ma anche per la religione. Il terrorismo di marca islamista non ha certamente contribuito ad alleggerire il clima da scontro delle civiltà che da più di una ventina d'anni tiene banco nel dibattito pubblico internazionale. Lo stesso dicasi per i fenomeni migratori di questi ultimi anni che stanno mettendo gran parte dei paesi occidentali sulla difensiva, rinfocolando al loro interno pericolose rivendicazioni d'identità esclusiva. Facile dunque che, persino nei paesi occidentali, possa avere la meglio il pregiudizio secondo il quale il pluralismo rappresenterebbe, in quanto tale, un pericolo per la religione, per la stabilità della vita individuale, delle relazioni sociali e delle istituzioni politiche. Lo può diventare, certo, e di fatto forse lo è diventato. Ma la frammentazione soggettivistica e relativistica che oggi riscontriamo nel nostro mondo occidentale non va considerata come una sorta di esito necessario del pluralismo, quasi che il pluralismo distrugga qualsiasi elemento comune a tutti e qualsiasi universalità. La contingenza del mondo nel quale viviamo fa del pluralismo una sorta di condizione imprescindibile. Questo sembra aver capito la chiesa cattolica, grazie al contributo della modernità liberale. Il pluralismo non significa che l'universale non abbia più diritto di cittadinanza; significa semplicemente che non è più consentito nemmeno a ciò che è universale di diventare vincolante per tutti, contro la volontà dei diretti interessati. In fondo è questo uno dei principi basilari della laicità e della liberalità delle nostre istituzioni politiche. La moderna "religione della libertà", per dirla con le parole di Benedetto Croce, suona forse un po' enfatica, ma rende bene l'idea di che cosa dovrebbe essere un'organizzazione laica, aperta della vita civile. Essa ci dice che nessuna religione può pretendere di violare la coscienza e quindi la libertà degli individui e, nel contempo, che non è consentito a nessuno limitare la libertà religiosa, magari in nome della laicità dello stato. A questo proposito, un po' come ai tempi in cui Croce scriveva le sue pagine famose sulla "religione della libertà", anche oggi l'immagine che la società e la cultura europea danno di sé è piuttosto deludente. Non abbiamo più davanti a noi la barbarie del totalitarismo, ma siamo comunque alle prese con uno spirito che si mostra sempre più incapace di conciliare l'ideale della libertà con il dovere, l'ideale della tolleranza con il rispetto di sé e dell'altro. Di fronte agli assalti che la libertà subiva da parte dell'irrazionalismo del suo tempo, Benedetto Croce riteneva che fosse necessaria la "formazione di una nuova fede religiosa dell'umanità e dei popoli civili" e si appellava per questo al "fervore dell'amore", non alla "sacralità" dello stato o a "una concezione 'governativa' della morale". Noi ci chiudiamo invece nel nostro individualismo e pensiamo di tutelare la nostra libertà, rivendicando magari che la correttezza politica diventi la nuova religione di stato. Tempi duri per la libertà, così come per la libertà religiosa e per la laicità delle nostre istituzioni. Siamo di fronte allo sfinimento di certo spirito moderno, il quale, partito all'insegna della libertà, dell'autonomia e dell'emancipazione dai cosiddetti pregiudizi religiosi, si trova ormai sempre più esposto al rischio di trasformare la politica in religione. Esattamente quanto la crociana e laica "religione della libertà" avrebbe voluto evitare. Non può esserci laicità dove il potere politico viene a trovarsi asservito a una qualsiasi confessione religiosa, ma non può esserci nemmeno laddove il potere politico trasforma se stesso in un assoluto parareligioso che stabilisce quali idee debbano avere diritto di cittadinanza e quali no. Detto in estrema sintesi, la laicità poggia su almeno due presupposti fondamentali: anzitutto l' inviolabilità di certi diritti umani, tra i quali c'è senz'altro anche la libertà religiosa, i quali vengono prima del potere politico, quindi dello stato; in secondo luogo,

l'importanza di una cultura e di istituzioni che garantiscano la pluralità delle idee, la libera competizione per il potere, il suo esercizio non ideologico e la possibilità che venga revocato attraverso mezzi pacifici e costituzionali. Da questo punto di vista, la laicità non è soltanto un modo di concepire i rapporti tra stato e chiesa, ma si configura come uno stile di pensiero, uno stile di vita, che dovrebbe essere comune a credenti e non credenti; uno stile di vita ispirato alla fermezza nelle proprie convinzioni, persino all'intransigenza, se necessario (non è tollerabile, ad esempio, che in nome di principi religiosi le donne vengano offese nella loro dignità o che, come accade in certi paesi, si venga condannati a morte per apostasia), ma anche al rispetto e all'apertura nei confronti delle convinzioni, delle ragioni e della religione degli altri. Qui davvero ne va della nostra identità. Sono ormai una trentina d'anni che il mondo occidentale sembra attraversato da un profondo bisogno d'identità. Dal crollo dell'impero sovietico, agli attacchi terroristici da parte del fanatismo islamista, alla contemporanea diffusione di quella che potremmo definire l'ideologia del politicamente corretto, che il cardinale Joseph Ratzinger definì la "dittatura del relativismo", per un motivo o per un altro, la religione ha ritrovato uno smalto che la secolarizzazione sembrava aver intaccato per sempre. Sia coloro che vorrebbero incendiare il mondo, sia i delusi dal comunismo reale e dall'ideologia relativista volgono ormai il loro sguardo alla religione, come se si trattasse dell'unica agenzia di senso rimasta in un mondo decrepito e in via di dissoluzione. Islam a parte, all'interno del quale il fanatismo terrorista sta consumando una tragedia di dimensioni gigantesche, mi domando tuttavia se questo nuovo clima che si va delineando rappresenti effettivamente un vantaggio per la religione e per la cultura liberaldemocratica dell'Occidente. Che la religione rappresenti da sempre una formidabile fonte d'identità è fuori discussione. Occorre anche riconoscere, però, che questa sua importante funzione per la vita degli individui e della società dovrebbe scaturire dalla fede in Dio, non dal bisogno d'identità o di comunità. Quando una religione mira direttamente a produrre effetti sociali, politici o economici di qualsiasi tipo, avvertiamo, non a caso, che questo non si addice a una società dove le cose di Cesare sono distinte da quelle di Dio; avvertiamo altresì che il discorso religioso si appesantisce di analisi mondane, il più delle volte discutibili, che finiscono per trasformare i leader religiosi in leader politici. Le chiese dunque farebbero bene a tenere ben distinti coloro che cercano Dio da coloro che cercano un'identità o una sponda per rilanciare la propria diffidenza nei confronti dell'economia di mercato, o qualsiasi altra prestazione mondana. Non giova a nessuno che esse allontanino lo sguardo da ciò che per loro conta per davvero, ossia Dio, ripiegando su discorsi, che per quanto importanti, potrebbero essere tuttavia troppo umani. Intendo dire che non c'è niente di più riduttivo e fuorviante che parlare di Dio semplicemente perché serve, perché la fede in lui aiuta magari a padroneggiare innumerevoli contingenze della vita personale e sociale. Il discorso su Dio non equivale in tutto e per tutto al discorso sulle conseguenze morali, personali, socio -politiche o civili del discorso su Dio; esso ha certamente ricadute pragmatiche di questo tipo, come è confermato del resto in modo esemplare dalla fede cristiana; ma parlare di Dio guardando in primo luogo agli obbiettivi pragmatici che si intendono perseguire equivarrebbe a una vera e propria "strumentalizzazione" di Dio, destinata inevitabilmente a immiserire la fede in lui e, quindi, a riflettersi negativamente anche sull'efficacia delle sue funzioni sociali. Per dirlo in forma ancora più esplicita, almeno per quanto riguarda la cultura dell'occidente ebraico cristiano, l'utilità sociale della fede nel Dio di Abramo e di Gesù Cristo non si discute. Come insegnano i classici della sociologia, da Weber a Luhmann, le principali forme culturali dell' occidente - stato di diritto, economia di mercato, scienza e tecnica - hanno nella religione ebraico-cristiana le loro condizioni di possibilità. A guardar bene, tuttavia, bisogna riconoscere che tutti questi sono vantaggi accessori, se così si può dire; sono cioè vantaggi che la fede, senza sminuire in alcun modo la loro importanza, è stata in grado di produrre semplicemente perché è stata in grado di tener vivo nella società il senso di qualcosa che, valendo di per se stesso, li ha offerti in sovrappiù, ossia il senso di Dio. Almeno la fede nel Dio di Abramo e di Gesù Cristo, lo ripeto, non è riducibile alle sue funzioni pragmatiche; non è riducibile a una prestazione identitaria per uomini desiderosi di sentirsi a casa da qualche parte (Gesù non aveva casa). Si tratta di una fede che esprime soprattutto la cultura del nostro rapporto con ciò che non dipende da noi, con ciò che vale in modo incondizionato, con ciò che, se mi è consentito il paradosso, serve a

tutto proprio perché, di per sé, non serve a nulla, è puramente gratuito, è grazia, appunto. Per questo, quando si cerca di ridurla a un affare privato o alle sue funzioni sociali o addirittura di sostituirla con qualche equivalente funzionale, in realtà si mira a rendere disponibile ciò che per principio non lo è, a negoziare ciò che non è negoziabile. Con risultati inevitabilmente fallimentari sia per i singoli uomini che per la società. La società secolare, per quanto la cosa possa sembrare sorprendente, ha urgente bisogno che da qualche parte ci sia qualcuno che parli di Dio con una lingua che non sia troppo mondana, con una lingua che sappia trasmettere la consapevolezza che si sta sfidando l'indicibile. Abbiamo bisogno di parole che ci dicano di una differenza incolmabile, di una alterità radicale, grazie alla quale possiamo immergerci con maggiore consapevolezza in noi stessi e nel mondo che abitiamo. Ha ragione Luhmann quando sostiene che la funzione della religione in una società complessa è quella di "rappresentare l'irrappresentabile". Un funzionalista, forse il più grande tra i funzionalisti, ci dice che la religione deve farsi carico di una funzione impossibile, di una funzione che non è una funzione e che, proprio per questo, è preziosissima. In questo sforzo di rappresentare ciò che non è rappresentabile o di proclamare una parola che, attraverso Cristo, assume sembianze umane, ma non per questo diventa meno sorprendente e misteriosa, il discorso su Dio contribuisce a salvaguardare lo spessore semantico del linguaggio, la sua indispensabile zavorra, impedendogli di appiattirsi a semplice chiacchiera autoreferenziale. D'altra parte alle radici del linguaggio umano c'è la religione, l'idea di Dio. La cultura secolare potrebbe avere qualcosa da ridire rispetto a questa affermazione, ma sta di fatto che le lingue del mondo si sono forgiate proprio nel tentativo di fare i conti con il divino, di interpretarne il silenzio e la parola. E' in questa ermeneutica che il linguaggio si è arricchito di significati impensabili e di quella preziosa zavorra di cui dicevo sopra; è soprattutto grazie a questa ermeneutica che ha acquisito dimestichezza con l'alterità e quindi con la necessità del dialogo e della reciproca comprensione. Senza questa prova, senza questo confronto con l'alterità di Dio, probabilmente saremmo ancora chiusi nella caverna del nostro io o della nostra tribù, alle prese con i nostri monologhi. L'idea di Dio squarcia invece qualsiasi chiusura, ci costringe a fare i conti con l'alterità degli altri e di noi stessi, rendendo visibile nel contempo l'eccedenza che c'è nelle nostre parole, la loro provenienza da una dimora indicibile, una dimora che fa pensare alla "lingua pura" di cui parlava Walter Benjamin, i cui frammenti sono dispersi in tutte le lingue, senza che nessuna lingua possa mai riuscire ad articolarla nella sua pienezza. L’OSSERVATORE ROMANO Pag 4 La responsabilità che spetta alla norma religiosa di Marco Ventura Il 31 luglio 2001 il terzo millennio si aprì con una decisione storica della Corte europea dei diritti dell’uomo. Un mese e mezzo prima dell’attacco alle Torri gemelle di New York, i giudici di Strasburgo respinsero il ricorso del partito della prosperità turco, il Refah Partisi, vincitore delle elezioni e disciolto dalla Corte costituzionale di Ankara. Secondo i giudici il partito dell’allora sindaco di Istanbul Erdoğan progettava il ritorno alla legge islamica, alla sharia, e dunque rappresentava una minaccia per la laicità. La Corte europea ritenne tale progetto incompatibile con i diritti umani. I giuristi europei applaudirono una decisione che tutelava il monopolio statale sul diritto; i giornali francesi e italiani salutarono la vittoria dello Stato laico. Sedici anni dopo, la Corte europea è di nuovo di fronte alla sharia. Nel 2008, alla morte del marito, una cittadina greca ha ereditato l’intero patrimonio dell’uomo, secondo l’espressa volontà di lui. Le sorelle del marito si sono opposte. In quanto appartenente alla comunità islamica di Tracia — dunque secondo il trattato di Losanna che mise fine al conflitto greco-turco nel 1923 - soggetta alla sharia in materia di diritto di famiglia, la donna non aveva diritto all’intera eredità ma soltanto a un quarto del totale. I giudici greci hanno dato ragione alle sorelle. Si applichi la sharia quale interpretata dall’unica autorità competente, ovvero il mufti di Komotini il quale ha definito la sharia come «l’insieme delle giuste regole di Dio su come dovremmo vivere le nostre vite». La sessantacinquenne Chatitze Molla Sali si è rivolta alla Corte di Strasburgo. Il ricorso della donna è stato ritenuto ammissibile dai giudici l’8 giugno scorso. Si attende ora la sentenza. Per il valore di principio che essa avrà, la decisione è stata deferita alla Grande camera, l’istanza

superiore della Corte di Strasburgo. Molte cose sono cambiate dal 2001 a oggi. La questione della sharia si è fatta sempre più ingombrante, in Occidente e nel mondo intero. Mentre la stampa riferiva del deferimento alla Grande camera del caso greco, il 10 giugno avevano luogo manifestazioni “anti-sharia” in una trentina di città degli Stati Uniti. Intanto, in nome della sharia, un uomo e una donna conviventi senza essere sposati erano lapidati a morte in Mali e due uomini gay venivano fustigati nel cortile di una moschea in Indonesia, sotto gli occhi di un folto pubblico. Ancora, il 22 agosto scorso la Corte suprema di New Delhi, competente per l’applicazione del diritto di famiglia islamico ai musulmani indiani, ha dichiarato contraria alla Costituzione la pratica del divorzio istantaneo mediante la ripetizione per tre volte della parola talaq, divorzio in arabo. La sharia è dunque divenuta una grande questione del nostro tempo. Si misura con essa la comunità globale: i musulmani che ne interpretano, rispettano o violano i precetti e i non musulmani che beneficiano o soffrono delle conseguenze; chi vive in terra d’islam e chi è altrove a contatto con minoranze islamiche, in Cina e in Francia, in Sud Africa e in Canada. La sfida della legge islamica è duplice. Da un lato, la sharia sfida la pretesa dello Stato di detenere il monopolio della norma, o almeno di essere superiore a ogni altro sistema normativo. In tal senso la sharia sfida anche l’eguaglianza dei cittadini, giacché essa implica uno status giuridico differenziato per i musulmani e per le altre comunità. L’Impero ottomano ha incarnato storicamente l’esempio più significativo. Ancora oggi, in Libano, Israele, India, Indonesia e altri paesi, almeno in materia di matrimonio, filiazione e successione lo Stato applica ai musulmani non una legge civile eguale per tutti i cittadini, ma la legge islamica. Avviene lo stesso negli stati islamici moderni in cui si sono fusi elementi giuridici islamici e il modello giuridico occidentale dominante al tempo dell’indipendenza. Dall’altro lato, la sharia si fonda su presupposti, valori, esperienze e meccanismi diversi da quelli condensatisi nel diritto liberal-democratico: chi l’applica di fatto, e chi ne chiede il riconoscimento in diritto, si scontra spesso con le conquiste della civiltà giuridica occidentale, a cominciare dai diritti umani. Entrambe le sfide, quella che attiene alla struttura della sharia e quella che riguarda i suoi contenuti, si declinano in modo diverso in terra d’islam e in terra occidentale. Nei paesi arabo-musulmani, dove i fedeli del Profeta sono maggioranza, è in questione quanto il diritto dello Stato debba identificarsi con la sharia e, contestualmente, quanto la sharia debba statalizzarsi. L’Egitto è un esempio del primo tipo; negli ultimi decenni il paese ha infatti progressivamente incorporato la sharia nel diritto pubblico. L’Isis, Stato islamico di Siria e Iraq, è un esempio del secondo tipo: in esso il potere islamico si struttura come Stato sul territorio trasformando la sharia in diritto statale. In entrambi i casi, il richiamo alla sharia è parte integrante della mitizzazione dell’islam come fattore di riscatto delle masse umiliate, di preservazione del maschilismo e sfogo della frustrazione sessuale, di legittimazione del femminismo col velo, di vettore di mobilitazione popolare e fondamento del governo politico. In particolare presso le giovani generazioni la sharia è tanto più mitizzata quanto maggiore è l’ignoranza della complessità storica, geopolitica e sostanziale del diritto islamico, e quanto minore è la capacità della sharia stessa di rappresentare un riferimento spirituale e morale. La questione è non meno grave in Occidente, dove l’obbedienza alla sharia è per tanti musulmani una questione di valori, di identità, di affetti, di interessi; e di concorrenza con un diritto statale troppo permissivo - “non voglio che mia figlia eserciti i diritti che lo Stato le riconosce” - oppure esigente - “non voglio che lo Stato mi imponga di pagare gli alimenti alla mia ex” - rispetto alla legge islamica. In Europa i musulmani sono una minoranza in crescita che si prevede raggiungerà il dieci per cento della popolazione nel prossimo quarto di secolo. La pretesa di vivere secondo la sharia trova accoglienza grazie all’alto standard di libertà religiosa - in nome della quale i diritti religiosi sono ampiamente garantiti - e ai principi di pluralismo e di tutela della diversità e delle minoranze cui si sono ispirati le politiche e i diritti in Europa. Gli europei sanno che una vita secondo la sharia può avere le manifestazioni e gli esiti più diversi. Sono secondo la sharia l’educazione e la solidarietà, la preghiera e la tolleranza; sono secondo la sharia l’oppressione e la violenza. Esiste una sharia dell’orrore che taglia gole e teste, esiste una sharia della responsabilità che unisce famiglie e regge comunità. Tanti leader politici e religiosi e intellettuali dividono l’islam della sharia buona dall’islamismo della sharia cattiva; tuttavia nella Umma, nella comunità islamica planetaria, i transiti dall’una all’altra sharia, le zone grigie, le contraddizioni sono all’ordine del giorno. Le liberal-

democrazie sono strette tra l’accusa di islamofobia neocoloniale e il rischio di lasciar spazio a condotte contro la legge, come la violenza contro le donne, o i costumi, come il porto del velo integrale; lo scontro tra chi osserva la sharia e la società occidentale è tanto maggiore quanto più la legge dell’islam è codificata da comunità insulari, capaci di imporre norme di condotta mediante la pressione sociale e il controllo del territorio. D’altronde il diritto occidentale è evoluto in una direzione sgradita a settori significativi delle stesse comunità cristiane, figuriamoci per chi si considera un osservante della sharia: ad esempio sul matrimonio tra partner dello stesso sesso. Se dunque la sharia sfida il diritto occidentale con le sue norme contrarie alla parità tra uomo e donna, il diritto occidentale sfida la sharia con la promozione dei diritti delle donne, dei minori, degli animali e degli omosessuali. Esemplifica la duplice sfida di struttura e di contenuto, in terra d’islam e in Occidente, la battaglia di Chatitze Molla Sali, non a caso al confine tra Grecia e Turchia: i principi religiosi generali interpretati da un mufti valgono più della volontà di un privato raccolta da un notaio; il legame parentale di sangue prevale sul vincolo coniugale; famiglia e comunità religiosa contano più dell’individuo e dello Stato. La questione della sharia è diversa in terra d’islam e in Occidente. I due contesti sono tuttavia profondamente intrecciati, dipendono l’uno dall’altro e si influenzano reciprocamente. Attraversano le frontiere l’interpretazione delle fonti e il controllo del sapere, la formazione degli imam, i flussi della finanza islamica, i pareri legali in forma di fatwa online, il commercio halal, il traffico dei figli e delle spose, la competizione tra scuole e correnti, i pellegrinaggi, le migrazioni e i viaggi verso la guerra santa. Nella sua diversità e nella sua unicità, la sharia è l’acqua che bagna i tanti fiumi delle comunità locali e l’unico mare della Umma. Perciò i confini sono mobili e le influenze dinamiche: tra musulmani; tra musulmani e non musulmani; all’interno dell’islam; tra islam e altre fedi; tra islam e culture. È frutto di questo scambio la sharia. Nelle sue piccole e grandi manifestazioni. Se la sharia è assurta a snodo cruciale del nostro tempo è perché incombe sulla norma religiosa una grande responsabilità nella costruzione di un nuovo ordine mondiale. La legge islamica sta all’intersezione tra la storia e il futuro, tra un mondo in contatto con il trascendente e un mondo in cui Dio non è più scontato, tra le regole della comunità dei credenti e le regole della società complessa, tra il diritto di una nazione e il diritto dell’umanità, tra una fede sostituita dai precetti e un precetto strumento della fede. In tal senso i fallimenti della sharia sono i fallimenti dei musulmani, certo, ma anche dei credenti, e di tutti gli uomini. Il diritto degli stati, i diritti umani, gli altri diritti religiosi guardano alla sharia: la influenzano e ne sono influenzati. Se essa lapiderà l’adultera oppure soccorrerà l’orfano, se alimenterà frustrazioni e degrado oppure spingerà a una vita morale, se rinchiuderà la libertà in una gabbia di norme o se conterrà norme che fanno liberi, non ne andrà soltanto dell’islam. Risulterà vana la sicumera di chi si accontenta di imputare il fallimento della sharia alla fondamentale fallacia del Profeta e dei suoi seguaci. È quanto abbiamo compreso nel primo scorcio del terzo millennio. Nella parabola che ha condotto dallo scioglimento del partito islamista turco ratificata a Strasburgo al soffocamento della libertà in Turchia; dalla sharia jihadista di chi ha attaccato le Torri gemelle a quella di chi schiaccia la folla a Nizza, Berlino, Londra, Stoccolma e Barcellona; dalla battaglia contro il divorzio istantaneo in India e quella di Chatitze Molla Sali perché si rispetti la volontà del marito. IL GAZZETTINO Pag 16 Sulla legge elettorale un gioco del cerino che non porta a nulla di Marco Conti Il gioco del cerino sulla legge elettorale riprende oggi alla Camera. A sei mesi, circa, dalla fine della legislatura. A ridosso della sessione di bilancio che per un paio di mesi impedirà alle Camere di occuparsi d'altro. Si riparte dal testo rimesso tre mesi fa nel cassetto dopo l'accordo a quattro tra Pd, FI, M5S e Lega saltato a causa di un emendamento sulle minoranze linguiste proposto da FI, contestato dal Pd e approvato a scrutinio segreto. Si riparte dal simil tedesco - messo a punto dal relatore Emmanuele Fiano - per provare a cancellare l'Italicum e dare al sistema elettorale un minimo di omogeneità che permetta al Paese di avere un governo e una maggioranza stabile. Obiettivo difficile da raggiungere con due camere e tre poli, ma più volte il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha invitato le forze politiche a lavorare per trovare un'intesa.

Interessi, sospetti e veti incrociati, rendono però complicato l'accordo. La maggioranza non ha i numeri per approvare da sola un testo al Senato. Le opposizioni, FI, M5S e Lega, hanno interessi diametralmente opposti e alla Camera la possibilità di chiedere su molti aspetti della legge il voto segreto, rende complicatissimo il tentativo. È per questo che prima della pausa estiva Paolo Romani, capogruppo azzurro a palazzo Madama, aveva proposto di trasferire il dibattito al Senato. Il rischio che alla fine si vada a votare con i sistemi frutto delle due sentenze della Consulta, armonizzati in minima parte da un decreto legislativo del governo, è molto alto ma, come è noto, la speranza è l'ultima a morire. Matteo Renzi, scottato dall'ultimo tentativo, non intende fare la prima mossa e attende proposte dagli altri partiti limitandosi a sostenere che l'intesa deve essere non più a quattro, ma deve avere anche il via libera dei centristi di Alfano. I più interessati alla correzioni dell'Italicum sono gli azzurri che premono per levare le preferenze. I più disinteressati sono i pentastellati che si ritrovano una legge elettorale abbastanza su misura anche perché non obbliga alle coalizioni. La discussione che riprende oggi alla Camera ha come dead-line la data del 12 settembre, giorno in cui il testo dovrebbe essere votato e passare all'esame dell'aula. Non può però escludersi che alla fine le forze politiche decidano un nuovo rinvio. Stavolta a dopo le elezioni siciliane nelle quali i partiti misureranno realmente il proprio peso. Secondo qualcuno dopo il 5 novembre - ed un eventuale sconfitta siciliana dovuta anche alla corsa solitaria di Mdp e SI - Renzi potrebbe abbandonare definitivamente l'idea di un Pd a vocazione maggioritaria e aprirsi ad un sistema con differenti premi di coalizione. Esattamente ciò che vogliono nel Pd i ministri Orlando e Franceschini e che piace ai centristi di Alfano come a Berlusconi. Renzi, come si è visto già a giugno con il tentativo di accordo sul tedesco poi fallito, non ha una passione per un sistema elettorale o un altro. È piuttosto interessato a ribadire la centralità del Pd, e ovviamente della sua leadership, come unica alternativa al populismo pasticcione del M5S - che nemmeno la trasferta a Cernobbio ha oscurato - e alla deriva leghista del centrodestra. La strada è comunque molto in salita anche perché il tempo non è molto e dopo il varo della legge di bilancio sarà ancor più complicato raggiungere un'intesa. Torna al sommario