Rassegna stampa 9 maggio 2016 - patriarcatovenezia.it · 2016. 5. 9. · RASSEGNA STAMPA di lunedì...

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 9 maggio 2016 SOMMARIO Italiani ed europei sempre più vecchi e sempre più soli. E’ quanto osserva e rimarca Ilvo Diamanti su Repubblica di oggi: “Papa Francesco, come sempre, è stato molto chiaro. Questa volta, semmai, anche più di altre. Perché si rivolgeva a una platea di re, ambasciatori, leader politici ed economici. Fra gli altri: Schulz, Tusk, Juncker, Merkel, Renzi, il re di Spagna Felipe VI. E Draghi. Tutti presenti, alcuni giorni fa, alla consegna del Premio internazionale Carlo Magno al Santo Padre. «Per l'impegno a favore della pace, della comprensione e della misericordia in una società europea di valori». Nell'occasione, però, il Papa ha rammentato quanto l'Europa, oggi, sia in difficoltà nell'affermare i valori a cui si ispiravano i padri fondatori. Tanto più, nell'affrontare il futuro. Perché l'Europa, oggi è una «nonna, vecchia e sterile». Senza più ricordi. Ieri, non per caso, Francesco ha ricevuto in udienza gli uomini e le donne del Cuamm. L'associazione dei Medici con l'Africa, che ha sede a Padova. Animata per oltre cinquant'anni da don Luigi Mazzucato. Un viandante generoso, che ci ha lasciati circa sei mesi fa. Il Cuamm è divenuto un crocevia della solidarietà fra l'Italia e l'Africa. Dove ha inviato oltre 1000 medici volontari, negli ospedali dell'area subsahariana. Fra le più colpite da malattia, miseria, povertà. Le origini principali delle grandi ondate migratorie che, da tempo, si dirigono in Europa. Attraversano il Mediterraneo, spinte dalla disperazione. Sfruttate da mercanti di dolore. Migliaia e migliaia di "persone" - perché di tali si tratta, anche se si tende a dimenticarlo - che, dopo lo sbarco, se ci riescono, proseguono nel loro esodo difficile e talora penoso. Partono dall' Italia, dalla Grecia. Dalla Turchia, dai Balcani. Dalla Spagna (di cui si parla meno). E si dirigono a Nord. Verso i Paesi dove lo sviluppo e il sistema del welfare offrono maggiori prospettive. E dove li hanno preceduti altre persone, della loro rete familiare, del loro Paese. Insieme ai migranti, sono cresciute le inquietudini. E i muri. Comunque: i controlli. Lungo i percorsi dell'esodo. Da Sud verso Nord. E fra un Paese e l'altro. L'Austria sta accentuando la sorveglianza in diverse direzioni. Non solo sul Brennero, in questi giorni al centro di polemiche e di scontri. Ma anche ai confini con l'Ungheria, la Slovenia - e, implicitamente, la Croazia e la Serbia. Un esempio seguito, in parte anticipato, dall'Ungheria. Ma le "frontiere" stanno diventando "barriere" anche altrove. In Macedonia, in Bulgaria. Inoltre, al confine tra Paesi che hanno tradizioni civili e democratiche solide. Nel Centro-Nord dell'Europa. Fra Gran Bretagna e Francia, a Calais. E, nei momenti di grande flusso, anche tra Francia e Italia. Mentre la Danimarca e i Paesi scandinavi difendono il loro welfare. Dagli "altri" che vorrebbero accedervi. Il risultato di questo gioco di movimenti e chiusure è il ri-sorgere delle frontiere. Meglio: delle "barriere". Perché le frontiere servono. Definiscono confini in base a cui confrontarsi e dialogare. Ma quando diventano blocchi, luoghi di controllo e sorveglianza, allora, diventano ostacoli all'integrazione. Non solo degli "altri". Anzitutto, "fra noi". Perché frenano l'integrazione e la costruzione europea. D'altronde, i muri e le frontiere, oggi, hanno un significato eminentemente simbolico. Vengono utilizzati a fini perlopiù politici. Servono, cioè, ad assecondare le paure e ad alimentare i populismi. Popoli alla ricerca di nemici. Figurarsi se - come ha osservato Lucio Caracciolo - la frontiera del Brennero potrebbe scoraggiare il passaggio dei migranti che intendono attraversare l'Austria (per andare altrove, peraltro). Tuttavia, in Europa, cresce dovunque la domanda di sorvegliare i confini. Basta vedere i dati del sondaggio di Pragma (febbraio 2016) per l'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos per la Fondazione Unipolis. Nei Paesi europei dov'è stata condotta l'indagine, coloro che "insistono" a rivendicare frontiere aperte, in Europa, costituiscono una minoranza limitata. Talora, molto limitata. Mentre la maggioranza dei cittadini vorrebbe reintrodurre i controlli. Sempre. Non in circostanze particolari. In Italia lo sostiene oltre metà delle persone (intervistate). La domanda di chiusura, peraltro, risulta più elevata fra le persone

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 9 maggio 2016

SOMMARIO

Italiani ed europei sempre più vecchi e sempre più soli. E’ quanto osserva e rimarca Ilvo Diamanti su Repubblica di oggi: “Papa Francesco, come sempre, è stato molto

chiaro. Questa volta, semmai, anche più di altre. Perché si rivolgeva a una platea di re, ambasciatori, leader politici ed economici. Fra gli altri: Schulz, Tusk, Juncker,

Merkel, Renzi, il re di Spagna Felipe VI. E Draghi. Tutti presenti, alcuni giorni fa, alla consegna del Premio internazionale Carlo Magno al Santo Padre. «Per l'impegno a

favore della pace, della comprensione e della misericordia in una società europea di valori». Nell'occasione, però, il Papa ha rammentato quanto l'Europa, oggi, sia in difficoltà nell'affermare i valori a cui si ispiravano i padri fondatori. Tanto più,

nell'affrontare il futuro. Perché l'Europa, oggi è una «nonna, vecchia e sterile». Senza più ricordi. Ieri, non per caso, Francesco ha ricevuto in udienza gli uomini e le donne del Cuamm. L'associazione dei Medici con l'Africa, che ha sede a Padova. Animata per oltre cinquant'anni da don Luigi Mazzucato. Un viandante generoso, che ci ha lasciati

circa sei mesi fa. Il Cuamm è divenuto un crocevia della solidarietà fra l'Italia e l'Africa. Dove ha inviato oltre 1000 medici volontari, negli ospedali dell'area

subsahariana. Fra le più colpite da malattia, miseria, povertà. Le origini principali delle grandi ondate migratorie che, da tempo, si dirigono in Europa. Attraversano il Mediterraneo, spinte dalla disperazione. Sfruttate da mercanti di dolore. Migliaia e

migliaia di "persone" - perché di tali si tratta, anche se si tende a dimenticarlo - che, dopo lo sbarco, se ci riescono, proseguono nel loro esodo difficile e talora penoso. Partono dall' Italia, dalla Grecia. Dalla Turchia, dai Balcani. Dalla Spagna (di cui si parla meno). E si dirigono a Nord. Verso i Paesi dove lo sviluppo e il sistema del

welfare offrono maggiori prospettive. E dove li hanno preceduti altre persone, della loro rete familiare, del loro Paese. Insieme ai migranti, sono cresciute le inquietudini. E i muri. Comunque: i controlli. Lungo i percorsi dell'esodo. Da Sud verso Nord. E fra un Paese e l'altro. L'Austria sta accentuando la sorveglianza in diverse direzioni. Non solo sul Brennero, in questi giorni al centro di polemiche e di scontri. Ma anche ai confini con l'Ungheria, la Slovenia - e, implicitamente, la Croazia e la Serbia. Un

esempio seguito, in parte anticipato, dall'Ungheria. Ma le "frontiere" stanno diventando "barriere" anche altrove. In Macedonia, in Bulgaria. Inoltre, al confine tra Paesi che hanno tradizioni civili e democratiche solide. Nel Centro-Nord dell'Europa.

Fra Gran Bretagna e Francia, a Calais. E, nei momenti di grande flusso, anche tra Francia e Italia. Mentre la Danimarca e i Paesi scandinavi difendono il loro welfare. Dagli "altri" che vorrebbero accedervi. Il risultato di questo gioco di movimenti e

chiusure è il ri-sorgere delle frontiere. Meglio: delle "barriere". Perché le frontiere servono. Definiscono confini in base a cui confrontarsi e dialogare. Ma quando diventano blocchi, luoghi di controllo e sorveglianza, allora, diventano ostacoli

all'integrazione. Non solo degli "altri". Anzitutto, "fra noi". Perché frenano l'integrazione e la costruzione europea. D'altronde, i muri e le frontiere, oggi, hanno un significato eminentemente simbolico. Vengono utilizzati a fini perlopiù politici.

Servono, cioè, ad assecondare le paure e ad alimentare i populismi. Popoli alla ricerca di nemici. Figurarsi se - come ha osservato Lucio Caracciolo - la frontiera del Brennero

potrebbe scoraggiare il passaggio dei migranti che intendono attraversare l'Austria (per andare altrove, peraltro). Tuttavia, in Europa, cresce dovunque la domanda di sorvegliare i confini. Basta vedere i dati del sondaggio di Pragma (febbraio 2016) per l'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos per la Fondazione Unipolis. Nei Paesi europei dov'è stata condotta l'indagine, coloro che "insistono" a rivendicare

frontiere aperte, in Europa, costituiscono una minoranza limitata. Talora, molto limitata. Mentre la maggioranza dei cittadini vorrebbe reintrodurre i controlli.

Sempre. Non in circostanze particolari. In Italia lo sostiene oltre metà delle persone (intervistate). La domanda di chiusura, peraltro, risulta più elevata fra le persone

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anziane. Dovunque. Parallelamente, la fiducia nell'Ue è più alta presso i più giovani. In Italia, il sentimento verso gli "altri", gli immigrati che giungono da lontano, si traduce in paura. Fra tutti, ad esclusione dei più giovani (indagine Demos, aprile 2016). E produce distacco, sfiducia nelle istituzioni, richiesta di nuove e maggiori divisioni. Forse perché siamo il Paese più vecchio d'Europa. Insieme alla Germania. Che, tuttavia, per questo, mostra un atteggiamento verso gli immigrati ben diverso. Ispirato, cioè, all'apertura "selettiva". A favore di componenti demografiche (giovani)

e "professionali" particolarmente utili al mercato del lavoro. In Italia, invece, di recente si assiste a un declino demografico inquietante. Nel 2015, ad esempio, la

popolazione è calata di circa 100 mila persone. Come non avveniva dal 1917-18. Cioè, dalla Grande Guerra. Perché in Italia fanno meno figli perfino gli immigrati (come

spiega l'Istat). Mentre i giovani sono una "razza" in declino. E quando possono se ne vanno. A studiare, lavorare e, infine, a vivere: altrove. Nel 2013, infatti, dal nostro

Paese sono partiti quasi 95mila italiani (più degli stranieri arrivati nello stesso periodo). Soprattutto giovani in possesso di titolo di studio elevato. Così, diventiamo sempre più vecchi, sempre più soli. Sempre più impauriti. E vorremmo chiuderci in casa. Alzare muri e confini dovunque. Intorno a noi. Metafora dell' Europa delineata da Papa Francesco. Ma ridursi a una terra attraversata da frontiere e da muri non coincide con il sogno di Altiero Spinelli, Robert Schuman e Jean Monnet. Evoca,

semmai, un incubo. Noi italiani, noi europei: chiusi in casa, in attesa dell' invasione, fra anziani in mezzo ad altri anziani, monitorati da sistemi di allarme sofisticati,

sorvegliati da cani mostruosi, osservati da telecamere a ogni passo e a ogni movimento. Ma come possiamo illuderci di essere felici?” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA LA NUOVA di domenica 8 maggio 2016 Pag 36 Il Patriarca alla guida della processione di Alessandro Abbadir A Borbiago oltre 300 fedeli si sono stretti attorno a Francesco Moraglia per il pellegrinaggio mariano IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 7 maggio 2016 Pag XV A Borbiago pellegrinaggio mariano col Patriarca 3 – VITA DELLA CHIESA LA REPUBBLICA Pag 18 Parolin vola a Vilnius con l’aereo low cost, l’ultima svolta in Curia di Paolo Rodari Il Segretario di Stato sceglie di viaggiare con Ryanair. Il Vaticano: “E’ stata una sua decisione personale” L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 8 maggio 2016 Pag 1 Incontro fecondo di Dario Edoardo Viganò Nella giornata mondiale delle comunicazioni sociali AVVENIRE di domenica 8 maggio 2016 Pag 1 Comunico quindi ascolto di Guido Gili Uso mite del potere, non solo dei media Pag 2 L’otto per mille e le “spese di culto”: il rischio di mettere i poveri contro Dio (lettere al direttore) AVVENIRE di sabato 7 maggio 2016 Pag 1 La rinascenza d’Europa di Mauro Magatti Tre verbi-via per il vecchio continente

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Pag 5 “Europa, cosa ti è successo? Sogno un nuovo umanesimo” Francesco: un continente capace di essere madre, in cui la condizione di migrante non è un delitto Pag 7 Enrico Letta: “Il Papa ci porta a un bivio. Senza valori la Ue muore” di Marco Iasevoli La disgregazione è un rischio reale. Chi non accoglie migranti non deve avere fondi Pag 17 Chiesa e cristiani lgbt: “Che ruolo per noi?” di Luciano Moia Le domande dei credenti omosessuali. Il vescovo Semeraro: nessuno è fuori. Il magistero: trent’anni di coerenza nel promuovere forme di accompagnamento CORRIERE DELLA SERA di sabato 7 maggio 2016 Pag 5 L’Europa di Francesco. Quei 25 minuti con Merkel e le preoccupazioni comuni su profughi e integrazione di Gian Guido Vecchi Pag 28 L’alleanza del Papa per un’Europa nuova di Andrea Riccardi LA REPUBBLICA di sabato 7 maggio 2016 Pag 1 La ricchezza delle differenze di Alberto Melloni Pag 1 Quell’aiuto chiesto alla Chiesa di Andrea Bonanni LA NUOVA di sabato 7 maggio 2016 Pag 1 Bergoglio e l’ultima utopia di Orazio La Rocca 4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI LA NUOVA di domenica 8 maggio 2016 Pag 26 Giudecca: assessore Venturini alla Casa Famiglia San Pio X IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 7 maggio 2016 Pag XI L’Unitalsi torna in pellegrinaggio a Lourdes di a.spe. 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO IL GAZZETTINO Pag 15 Minori abusati, quello choc che uccide il futuro di Alessandra Graziottin CORRIERE DELLA SERA di domenica 8 maggio 2016 Pagg 24 – 25 Perché la scuola non parla d’amore di Antonella De Gregorio e Carlotta De Leo 25 anni di proposte ma la legge sui corsi obbligatori non è stata fatta. Il problema, però, c’è. E anche le eccezioni, come la solita Emilia - Romagna 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 17 Lo sguardo di San Marco sui mosaici di Betlemme di Adriano Favaro Rimanda a Venezia il restauro della Basilica della Natività IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Sposalizio e mercatini, assalto alla Sensa di Lorenzo Mayer Sancito il patto con Firenze. Nardella: “Lotta comune al degrado”. Prima volta di Brugnaro IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 8 maggio 2016 Pag XXX Ora il centro rischia il sequestro di G.Bab. Jesolo: reazioni contrastanti dopo il “blitz” degli islamici nella sede ancora priva di

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agibilità Pag XXXIX Siamo pronti ad accogliere a Jesolo milioni di persone e di qualsiasi fede religiosa (intervento del sindaco Valerio Zoggia) LA NUOVA di domenica 8 maggio 2016 Pag 41 Centro di preghiera islamico, si preparano i sigilli di chiusura di Giovanni Cagnassi Jesolo: domani il sindaco Zoggia incontrerà il comandante della Polizia locale per studiare il piano IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 7 maggio 2016 Pag VI “I libri gender? Mai ritirati da scuola” di Giorgia Pradolin Camilla Seibezzi: “Comune assente”. E la Chiesa Valdese organizza una veglia e un gruppo “arcobaleno” Pag IX Favaro, la Madonna ritrova il suo capitello di mau.d.l. La struttura era stata distrutta da un camion, ora in sicurezza dalla parte opposta della strada Pag XI Xenofobi contro la Caritas di Alvise Sperandio Via Querini: volantini anti-immigrati affissi ai cancelli dal Fronte Skinheads. Colpite nella notte anche le sedi del Pd della città e della provincia Pag XXII Manca l’agibilità, entrano lo stesso di Giuseppe Babbo Jesolo: una cinquantina di musulmani viola il divieto e accede nel nuovo centro culturale islamico Pag XXIV L’Iraq di don Giorgio di r.cop. LA NUOVA di sabato 7 maggio 2016 Pag 19 Libri arcobaleno, via dalla materne 15 su 49 di Vera Mantengoli Seibezzi attacca la giunta Brugnaro. L’assessore Venturini: “Ma nelle biblioteche ci sono” Pag 34 Centro di preghiera occupato, gli islamici non aspettano più di Giovanni Cagnassi Jesolo: in cinquanta sono entrarti per pregare nello stabile di via Aquileia ancora senza agibilità 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO di domenica 8 maggio 2016 Pag 1 Fiducia nel capitale sociale di Stefano Allievi Verso le urne IL GAZZETTINO di domenica 8 maggio 2016 Pag 8 Un selfie con il treno in arrivo, l’ultima folle moda dei giovani di Lorenza Levorato Parla un capotreno: “Le persone sui binari sono il nostro incubo” IL GAZZETTINO di sabato 7 maggio 2016 Pag 13 Bicicletta e sacrifici: la laurea di Benjamin, operaio modello di Alessandro Comin Arrivato dal Ghana, “adottato” dai colleghi, ha studiato senza perdere un giorno di lavoro LA NUOVA di sabato 7 maggio 2016 Pag 31 Il vescovo Tessarollo tuona contro il gioco d’azzardo di Elisabetta B. Anzoletti

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Dura reprimenda del prelato di Chioggia per i pullman diretti ai casinò oltreconfine. Attacco al M5S sulle paritarie … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Referendum, la risposta che manca di Antonio Polito La riforma Pag 1 L’insostenibile leggerezza dei nuovi (piccoli) partiti di Pierluigi Battista Pag 15 Vendette, spie e donne prigioniere. Voci da Mosul, il bastione dell’Isis di Marta Serafini Testimonianze dall’Iraq. I medici che sono scappati: “Ogni notte all’aeroporto atterrano dei cargo” Pag 21 Le staminali in Vaticano di Giuseppe Remuzzi Ecco i “miracoli” della medicina che i grandi scienziati per tre giorni hanno spiegato ai vescovi nella sala del Sinodo. “La terapia cellulare cambierà la medicina e la società” Pag 26 L’equità che Merkel chiede vale anche per la Germania di Maurizio Ferrera LA REPUBBLICA Pag 1 Più vecchi, più soli di Ilvo Diamanti IL GAZZETTINO Pag 1 Intercettazioni e pm “chiacchieroni”, regole da cambiare di Carlo Nordio Pag 1 Il diritto di uscire dal fango del doping di Claudio De Min LA NUOVA Pag 1 Campagna di ottobre e nuovo Pd di Fabio Bordignon CORRIERE DELLA SERA di domenica 8 maggio 2016 Pag 1 L’occasione imprevista da cogliere di Francesco Giavazzi L’Italia e la Brexit Pag 16 Marsiglia e l’Islam di Lorenzo Cremonesi Rabbia, degrado e spaccio. Gli estremisti si saldano ai clan Pag 26 Collasso politico sulla legalità al Sud di Goffredo Buccini Candidature e criminalità Pag 27 Il genocidio Isis e la guerra da vincere di Franco Venturini LA REPUBBLICA di domenica 8 maggio 2016 Pag 11 “Salvate un luogo simbolo, senza alzare nuovi muri” di Paolo Berizzi Intervista a Ivo Muser, vescovo di Bolzano – Bressanone AVVENIRE di domenica 8 maggio 2016 Pag 2 Solo il voto sulla Brexit dirà il futuro di Londra di Marco Olivetti Le elezioni e la tenuta dei partiti tradizionali Pag 3 Quel piccolo allarme per il “grande satrapo” di Giorgio Ferrari Gli sviluppi politici in Turchia, i calcoli di troppa Ue IL GAZZETTINO di domenica 8 maggio 2016 Pag 1 Turchia nella Ue, la strada resta in salita di Romano Prodi

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Pag 1 I guai dei grillini sono ossigeno per il premier di Alberto Gentili Pag 4 Pd e giudici, contrappasso in politica di Mario Ajello Pag 18 Bertinotti: io, comunista, con compagni credenti di Sergio Frigo L’ex presidente della Camera in Veneto presenta il suo libro e commenta l’enciclica di Francesco LA NUOVA di domenica 8 maggio 2016 Pag 1 Un voto per le città, non su Renzi di Francesco Jori Pag 5 Intervenire su stipendi e carriere di Gianfranco Pasquino CORRIERE DELLA SERA di sabato 7 maggio 2016 Pag 1 Lo spettro della piccola Inghilterra di Beppe Severgnini Analisi di un voto Pag 1 America, il patto da non svilire di Daniele Manca Ttip e i negoziati sul commercio Pag 1 La scelta (difficile) del ministro per lo Sviluppo di Francesco Verderami Pagg 2 – 3 Il figlio dell’autista che tiene assieme business e Corano di Fabio Cavalera e Paola De Carolis Sadiq Khan volto di una città dai 300 dialetti. La scrittrice Shamsie: “Siamo la vera capitale multiculturale” Pag 6 Un altolà al “trumpismo” anche nella Chiesa di Massimo Franco Pag 17 Kim e l’elogio della Bomba di Guido Santevecchi Reportage dalla Corea del Nord IL GAZZETTINO di sabato 7 maggio 2016 Pag 1 Il coraggio di una riforma radicale di Bruno Vespa Pag 1 La prima volta di Londra: un sindaco musulmano di Giuliano Da Empoli LA NUOVA di sabato 7 maggio 2016 Pag 1 Manette, affari e politica di Bruno Manfellotto CORRIERE DEL VENETO di sabato 7 maggio 2016 Pag 1 I due volti dei flussi migratori di Piero Formica Oltre i “muri”

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA LA NUOVA di domenica 8 maggio 2016 Pag 36 Il Patriarca alla guida della processione di Alessandro Abbadir A Borbiago oltre 300 fedeli si sono stretti attorno a Francesco Moraglia per il pellegrinaggio mariano Borbiago. C’erano quasi 300 persone ieri mattina a Borbiago in occasione del pellegrinaggio mariano, guidato dal patriarca Francesco Moraglia. Il Patriarca ha iniziato alle 7,30 del mattino la sua processione seguito da centinaia di fedeli lungo le strade della frazione di Mira intorno e poi all’interno del Santuario intitolato a Maria Assunta dove è presente una delle porte sante aperte durante quest’anno giubilare della

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Misericordia. Era accompagnato oltre che dai fedeli dai rappresentanti dell’Associazione carabinieri in pensione. Si sono percorse così le vie di Borbiago per ritornare infine in chiesa di Santa Maria Assunta ed entrarvi attraverso la Porta Santa inaugurata all’inizio dello scorso mese di gennaio; qui, alle 8.15 circa, il Patriarca ha presieduto la messa. «Sono qui a Borbiago», ha detto il Patriarca, «per pregare con questa comunità le celebrazioni legate al mese mariano». Proprio nella località di Borbiago, il 24 marzo del 1101 la Madonna apparve a una bambina sordomuta; dopo averla risanata, le indicò quindi la presenza di una sua statua in un pozzo. È un simulacro mariano che ancora oggi si venera in chiesa e che è meta di numerose visite di fedeli provenienti da varie parti del Veneto. «La presenza del Patriarca in questi ultimi mesi a Borbiago», spiegano i residenti che hanno partecipato numerosi alla processione, «ha rappresentato per noi un grande segno di affetto da parte del nostro vescovo che qui ha voluto aprire anche la Porta Santa in terraferma della diocesi di Venezia». Dopo la santa messa molti fedeli hanno voluto fare colazione insieme con il Patriarca Moraglia. Una colazione a cui hanno partecipato decine di giovani del paese e di altre frazioni i Mira. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 7 maggio 2016 Pag XV A Borbiago pellegrinaggio mariano col Patriarca Mira - Torna oggi a Borbiago il pellegrinaggio mariano mattutino, guidato dal Patriarca Francesco. Il pellegrinaggio si snoderà lungo le strade di Borbiago, intorno e poi all’interno del santuario intitolato a Maria Assunta, dove è presente una delle Porte Sante aperte durante l’anno giubilare della misericordia. Secondo un’antica tradizione, proprio nella località di Borbiago la Madonna apparve a una bambina sordomuta; dopo averla risanata, le indicò la presenza di una sua statua in un pozzo. Si tratta del simulacro mariano che ancora oggi si venera in chiesa e che è meta di numerose visite di fedeli, non solo locali. Sarà quello il punto di partenza e di arrivo del pellegrinaggio diocesano che prenderà il via alle 7.30, esattamente nell’area esterna che è davanti al santuario mariano. Da lì si percorreranno poi le vie di Borbiago per ritornare infine in chiesa ed entrarvi attraverso la Porta santa inaugurata a gennaio. Qui, alle 8.15, il Patriarca presiederà la messa (ci sarà anche la possibilità di confessarsi) e, al termine, la parrocchia organizzerà un momento di fraternità per consumare insieme la colazione. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA LA REPUBBLICA Pag 18 Parolin vola a Vilnius con l’aereo low cost, l’ultima svolta in Curia di Paolo Rodari Il Segretario di Stato sceglie di viaggiare con Ryanair. Il Vaticano: “E’ stata una sua decisione personale” Città del Vaticano. Una foto scattata due giorni fa ritrae il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, mentre scende all'aeroporto di Vilnius da un volo Ryanair. Inviato da Francesco in Lituania come "legato pontificio" per il Congresso nazionale della misericordia - il viaggio toccherà anche l'Estonia e la Lettonia - Parolin ha scelto un volo low cost. Certo, conoscendo lo stile di vita all'insegna della sobrietà del porporato vicentino la notizia non sorprende più di tanto. Tuttavia, a ben vedere, in un momento in cui gli scandali, anche finanziari ed economici, non mancano di far parlare di sé sotto il Cupolone, la scelta di Parolin resta significativa: Oltretevere c'è una curia che anche nei suoi massimi vertici sa lavorare in silenzio e senza cedere negli eccessi già denunciati da Francesco nel discorso alla curia romana del 22 dicembre 2014. Fra le 15 malattie spirituali elencate c'era anche quell'accumulo di beni materiali col quale «l'apostolo cerca di colmare un vuoto esistenziale nel suo cuore». Non ne ha necessità, ma in questo modo «si sente più sicuro». La scelta di Parolin, dicono in Vaticano, è «personale». E, dunque, proprio per questo motivo significativa. Non essendoci in merito direttive generali da parte della Santa Sede, il volo di Parolin diviene un segnale che egli dà a tutti: anche i cardinali, in sostanza, possono e devono dare l'esempio. Del resto, così

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faceva pure il cardinale Bergoglio. Arcivescovo di Buenos Aires, volava sempre in classe economica. E nel medesimo modo egli fece il 27 febbraio del 2013, quando dall' Argentina arrivò a Roma per il conclave. Dal Vaticano gli era stato mandato un biglietto di prima classe. Ma lui lo cambiò con uno di classe economica, chiedendo soltanto la cortesia di un posto vicino all'uscita d'emergenza perché la sciatica lo tormentava in occasione dei viaggi lunghi e lì c'era un po' più spazio per le gambe. Francesco non è un pauperista, né vuole che prelati e preti lo siano. Semplicemente, come disse il segretario della Pontificia commissione per l'America Latina, Guzmán Carriquiry, alla Radio Vaticana lo scorso luglio, «è pastore che vede e si commuove in ogni incontro con i poveri». Nella consapevolezza che sono loro a portare «nelle proprie piaghe ciò che ancora manca alla passione di Cristo». Dalla parte dei poveri sa stare anche Parolin che nel suo lungo servizio di nunzio in Venezuela non aveva mancato di valorizzare i santi più cari alla popolazione locale: popolari, impegnati con i poveri, profetici con i regimi dittatoriali, come quel José Gregorio Hernández Cisneros, medico e religioso vissuto a cavallo del '900, del quale prima di partire egli pregò per la beatificazione. È forse anche per questo tratto "popolare" che Francesco ha scelto Parolin come segretario di Stato il 15 ottobre del 2013. Perché lo sentiva vicino al suo modo di operare. Lui, Bergoglio, che come testimoniano alcune foto diffuse in rete in questi giorni, se non fosse stato eletto al soglio di Pietro avrebbe scelto di abitare in una piccola stanza, spartana ed essenziale - si vedono un letto, una poltrona, un armadio a muro e un ventilatore a piantana - all'interno del "pensionamento" presso la Casa sacerdotale di Buenos Aires "Monseñor Mariano A. Espinosa". Già poco prima di compiere i suoi 75 anni (17 dicembre 2011), aveva scelto la stanza numero 13. Come scrive il sito Il Sismografo riportando una dichiarazione di una religiosa della capitale argentina, chiese la stanza dicendo: «Preferirei che non fosse in un piano alto. Non voglio stare al di sopra di nessuno, dunque la trovi piuttosto in una collocazione bassa». L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 8 maggio 2016 Pag 1 Incontro fecondo di Dario Edoardo Viganò Nella giornata mondiale delle comunicazioni sociali Nell’anno santo straordinario Papa Francesco traccia con il messaggio Comunicazione e misericordia: un incontro fecondo una rotta imprescindibile per il mondo della comunicazione. Il sistema dei media è chiamato a non escludere nessuno, a non ghettizzare, piuttosto a sintonizzarsi sui canali giusti per accogliere e allargare gli orizzonti, per costruire ponti e non per innalzare muri come difesa da altre persone considerate un problema anziché una risorsa. «Tanti professionisti, opinionisti, mezzi di comunicazione e centri di potere sono ubicati [...] in aree urbane isolate, senza contatto diretto con i loro problemi. [...] Questa mancanza di contatto fisico e di incontro [...] aiuta a cauterizzare la coscienza e a ignorare parte della realtà» si legge nella Laudato si’. I frequentatori dei media sono invitati a usare parole e azioni che aiutino a fuggire dal circolo vizioso della condanna e della vendetta, a spezzare le catene che imprigionano individui e nazioni. La parola del cristiano, infatti, si pone come obiettivo la comunione e la cancellazione del tono perentorio della «scomunica», invitando a mettersi in ascolto del grido di aiuto che sale dall’umanità. A questo proposito il Papa ci ammonisce: «ascoltare non è mai facile. A volte è più comodo fingersi sordi». Con l’efficacia delle immagini, il Pontefice ci invita ad arrestare il processo di svilimento delle parole, il nominalismo tipico della nostra cultura, perché la gente è stanca di parole che non si incarnano in questa storia meravigliosa e travagliata. Impegniamoci a restituire alla parola - specialmente a quella della predicazione - la sua forza pregnante, il fuoco che la rende viva e dà calore e sapore umano all’annuncio del Vangelo. Forse, abbiamo bisogno di riscoprire una comunicazione che stimoli la creatività, favorisca la comprensione e arricchisca la convivenza tra persone e culture diverse, convinti che non è la tecnologia a determinare l’autenticità o meno dei messaggi, ma il cuore dell’uomo. L’impegno di tutti, allora, dovrebbe essere rivolto a scegliere con cura parole e gesti per superare le divergenze, medicare le ferite e riallacciare i rapporti nel segno del perdono, diventando ambasciatori di concordia. Tessere la trama di una «diplomazia della misericordia» significa, per il Papa, non considerare mai nulla perduto nella relazione, non rimanere intrappolati negli anfratti oscuri di vecchie ostilità. Equivale, invece, a

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intraprendere il cammino della misericordia, riconoscere le proprie responsabilità, chiedere perdono e mostrare compassione anche verso chi ci ha fatto del male. Una comunicazione che continua a discriminare tra “vincenti” e “perdenti” indebolisce la dignità delle persone e contribuisce a creare sacche di emarginazione, sulle quali si erge l’orgoglio superbo del trionfo. Sia, invece, trasparenza del desiderio e della volontà di mitigare i tormenti della vita, una comunicazione capace di offrire calore a quanti hanno conosciuto solo il gelo del giudizio o del rifiuto. «Il linguaggio aspro e bellicoso della divisione non si addice alle labbra del Pastore, non ha diritto di cittadinanza nel suo cuore e, benché sembri per un momento assicurare un’apparente egemonia, solo il fascino durevole della bontà e dell’amore resta veramente convincente» ha detto Francesco incontrando lo scorso 23 settembre i vescovi statunitensi. Allora, se la comunicazione ha una rilevanza “politica”, essa non può essere sottratta al ruolo di tessitrice di comunione e costruttrice di cittadinanza. In questa prospettiva, il riconoscimento della rete come luogo di «comunicazione pienamente umana» da parte del Pontefice, ci apre la strada verso la “prossimità”, anche digitale. Siamo invitati a scoprire modalità ancora inesplorate per avvicinarci alle persone, chinarci sulle loro sofferenze. Con parole di Francesco, «in un mondo diviso, frammentato, polarizzato, comunicare con misericordia significa contribuire alla buona, libera e solidale prossimità tra i figli di Dio e fratelli in umanità», frequentatori sempre più assidui dei portali, che ci chiedono una presenza nutrita da un supplemento di anima e di cuore. AVVENIRE di domenica 8 maggio 2016 Pag 1 Comunico quindi ascolto di Guido Gili Uso mite del potere, non solo dei media Ma che c’entra la misericordia con la comunicazione? Eppure il Papa nel suo messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali, che si si celebra oggi, indica la via per un loro incontro «fecondo». Se si scorrono i manuali universitari, la maggior parte degli studiosi utilizza un concetto di comunicazione di origine economica, per cui il fine essenziale della comunicazione è la sua 'efficacia' o il suo 'successo', che coincide con il perseguimento degli obiettivi dell’emittente, ovvero di colui che normalmente ha più potere nella relazione comunicativa. Francesco è cosciente che per alcuni (per molti?) una visione delle relazioni sociali, e quindi anche della comunicazione, radicata nella misericordia appaia idealistica o eccessivamente indulgente. Buona insomma per i discorsi edificanti dei preti. Per questo stabilisce un altro punto di vista, un altro paradigma. Il Papa assume come riferimento fondamentale della comunicazione, di ogni forma della comunicazione, la relazione familiare e la sua specifica forma di comunicazione, ispirata in primo luogo dalla attenzione all’essere dell’altro e non alle sue capacità di prestazione o ai suoi ruoli. «I [nostri] genitori ci hanno amato e apprezzato per quello che siamo più che per le nostre capacità e i nostri successi. I genitori naturalmente vogliono il meglio per i loro figli, ma il loro amore non è mai condizionato dal raggiungimento degli obiettivi. La casa paterna – il riferimento è alla parabola del padre misericordioso – è il luogo dove sei sempre accolto». E ascoltato. Nella visione antropologica del Papa, la famiglia è il modello a cui ispirare tutte le relazioni comunicative, anche quelle con le persona più estranee e diverse da noi. In ciò in realtà si esprime la sua natura più profonda. Trattando delle funzioni originarie della comunicazione, il grande antropologo Bronislaw Malinowski ha osservato che essa risponde alla «tendenza fondamentale che rende necessaria per l’uomo la presenza altrui », per cui «la rottura del silenzio, la comunione delle parole è il primo atto per stabilire quei vincoli di amicizia che si consolidano durevolmente solo con la rottura del pane e con la comunione del cibo». Nella sua struttura originaria, la comunicazione non è dunque segnata dal problema dell’efficacia, ma dal bisogno di instaurare legami di comprensione e solidarietà con l’altro. La comunicazione, ricorda infatti Francesco, ha «il potere di creare ponti, di favorire l’incontro e l’inclusione». Scegliendo con cura parole e gesti è possibile «superare le incomprensioni, guarire la memoria ferita e costruire pace e armonia». Finché gli uomini si parlano, essi lasciano aperta la possibilità della comprensione e dell’intesa. È ciò che ha notato anche Walter Ong, gesuita, probabilmente il più grande studioso del ruolo della parola parlata e scritta nel processo di civilizzazione umana: «Per quanto possa essere coinvolta in correnti di ostilità, la parola non potrà mai essere

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trasformata totalmente in uno strumento di guerra. Fino a quando due persone continuano a parlarsi, queste persone, a dispetto di se stesse, non sono del tutto nemiche». La misericordia – insiste il Papa – è una cifra della relazione comunicativa che vale in tutte le relazioni. Vale dunque per le relazioni faccia a faccia, ma vale anche per le relazioni on line, che sono anch’esse 'reali' poiché dove due uomini si incontrano e mettono in comune anche un solo accento della loro umanità, quello è un luogo umano. Quindi «anche e-mail, sms, reti sociali, chat possono essere forme di comunicazione pienamente umane. Non è la tecnologia che determina se la comunicazione è autentica o meno, ma il cuore dell’uomo e la capacità di usare bene i mezzi a sua disposizione». Lo stesso approccio vale anche nelle relazioni comunicative che caratterizzano il discorso politico e i rapporti tra gli Stati. Anche qui linguaggio e comunicazione dovrebbero lasciarsi «ispirare dalla misericordia, che nulla dà mai per perduto». Nelle piazze politiche e mediatiche bisogna essere «vigilanti sul modo di esprimersi nei riguardi di chi pensa o agisce diversamente, e anche di chi può aver sbagliato», perché «è facile cedere alla tentazione di sfruttare simili situazioni per alimentare le fiamme della sfiducia, della paura, dell’odio». In tutte queste diversissime situazioni comunicative, la logica deve essere quella della pazienza della parola e della pazienza dell’ascolto, che sono le due metà inseparabili della stessa realtà della comunicazione umana. La prima si esprime nell’attenzione a «ciò che diciamo e come lo diciamo», la seconda «nell’essere capaci di condividere domande e dubbi, di percorrere un cammino fianco a fianco». Se questo richiamo vale per ogni persona, gruppo e istituzione, vale soprattutto per quella realtà sociale sui generis che è il popolo cristiano. Alla Chiesa, con parole accorate, il Papa chiede di vivere la «mite misericordia» di Cristo. E di adottare quella «misura» che è impegno «di annunciare la verità e di condannare l’ingiustizia», ma sempre «con amore» E ciò che dice anche il grande poeta Thomas S. Eliot, quando la descrive come la «straniera», perché ferma sui princìpi, quando si tratta di prendere posizione sul vero e il giusto, ma tenera nel rapportarsi alla fragilità umana. Che è di tutti noi. Pag 2 L’otto per mille e le “spese di culto”: il rischio di mettere i poveri contro Dio (lettere al direttore) Caro direttore, in questi giorni di dichiarazioni dei redditi e di pubblicità per avere l’otto per mille e il cinque per mille, mi hanno colpito gli spot che vengono mandanti in onda. Mi hanno colpito quelli della Chiesa Cattolica, e, soprattutto, quello della Chiesa Valdese. Risulta evidente il tentativo di coinvolgere e dare emozioni allo spettatore contribuente mostrando immagini di povertà e deprivazione della persona, verso la quale sarebbero convogliati i proventi della scelta di destinazione. Scelta giusta e, da parte mia, condivisibile. Però, le istituzioni religiose da sempre si sono occupate anche del culto a Dio, oltre che del soccorso all’uomo che soffre. Personalmente provo un certo disagio nel constatare che ormai l’unica modalità pubblica e politicamente corretta di essere cristiani sia devolvere una parte del proprio denaro e tempo al pronto soccorso delle persone indigenti, quasi fosse una vergogna impegnarsi a tutti i livelli nelle liturgie e nelle devozioni tradizionali popolari. Il vertice, a mio parere, è raggiunto dallo spot della Chiesa Valdese, che specifica inequivocabilmente che «Non un solo euro sarà usato per il culto». Cordiali saluti. (Renato Ceres, Reggio Emilia) Risponde il direttore Marco Tarquinio: Per la verità, caro signor Ceres, sono tra quanti apprezzano gli spot che in pochi attimi consegnano il senso della vasta e articolata opera di bene che grazie all’otto per mille (e, su un piano diverso e con diverse modalità, grazie al cinque per mille) di tutti noi contribuenti viene realizzata in Italia e nel mondo. E sono orgoglioso – lo so che non ce lo diciamo spesso… – di essere cittadino di un Paese che si è dato e ci ha dato questi strumenti per indirizzare risorse al servizio di un «bene comune» che non è solo materiale e che, comunque, non coincide con l’azione esclusiva dello Stato. Detto questo, con il massimo rispetto per scelte e sensibilità altrui, ammetto di fare fatica anche io, proprio come lei, a capire la 'garanzia' contenuta nella frase «Non un solo euro sarà usato per il culto». Come se le «spese per il culto» fossero un lusso, un impiego insensato e antireligioso di fondi che lo Stato saggiamente destina alle Chiese e alle confessioni religiose che 'abitano' il nostro Paese e concordano sui valori fondanti – e infatti scolpiti nella Costituzione – della convivenza civile. Ma c’è

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anche un risvolto per così dire pratico delle «spese di culto» che è stato efficacemente sottolineato, pochi giorni fa, dal vescovo Nunzio Galantino. «Vorrei ricordare – ha detto il segretario generale della Cei in un’intervista a Radio Vaticana – che nelle 'spese di culto' vanno contemplati i tanti cantieri di edilizia di culto, e di restauro dei beni culturali. Sa quanti sono i cantieri aperti oggi? 920! Migliaia di persone mantengono la loro famiglia, lavorando in questi 920 cantieri. Vengono conservati, custoditi e resi fruibili veri e propri tesori di arte e di cultura altrimenti destinati ad andare in malora. Vengono, poi, costruiti luoghi di aggregazione. Se si spiegasse bene che 'spese di culto' sono anche queste, forse la gente capirebbe meglio quanto pretestuose siano certe prese di posizione di chi identifica il culto con l’incenso e le candele...». Anche per questo quella frase – «Non un solo euro sarà usato per il culto» – non mi suona proprio. Tra l’altro, anche se non penso che fosse questa l’intenzione di chi ha costruito l’espressione, essa finisce per mettere in competizione l’amore per Dio con l’amore per i fratelli e soprattutto per i poveri, mentre per tanti credenti, e in particolar modo per i cristiani, quei due amori sono uno stesso amore. In ogni caso 'culto' non è una parolaccia, non evoca atti disdicevoli. Culto, direi, è il gesto di amore, di devozione e di fedeltà che il credente offre a Dio. Da un punto di vista cristiano è la Memoria che aiuta a sperimentare la contemporaneità con Gesù e che insegna riconoscerlo nel volto di ogni uomo e di ogni donna e, appunto, a servirlo nei poveri, nei piccoli, nei deboli. «La Chiesa non è una Ong», ci ha avvertito spesso papa Francesco, che pure ci invita incessantemente a dare concretezza e solare continuità alla scelta preferenziale per i poveri, «carne di Cristo». E anch’io, che come tanti altri sono stato educato a considerare ogni gesto di carità una preghiera vissuta e non solo detta, continuo a intendere questo insegnamento del Papa come un appello a non 'disanimare' l’impegno con gli altri e per gli altri, schiacciandolo su una terra senza più cielo e riducendolo a pura meccanica del soccorso e della restituzione sociale. Compiere atti di giustizia e di bontà è però indubbiamente un modo per «rendere culto a Dio», sul piano della testimonianza pubblica è forse 'il' modo. San Giovanni Paolo II ci ha ricordato, e dimostrato, quanto sia vero che alla Chiesa intera e a ognuno di noi che si dice credente «gli uomini del nostro tempo chiedono non solo di parlare di Cristo, ma di farlo loro vedere». AVVENIRE di sabato 7 maggio 2016 Pag 1 La rinascenza d’Europa di Mauro Magatti Tre verbi-via per il vecchio continente Con il suo magistrale discorso di ieri, svolto davanti ai vertici europei, è come se papa Francesco avesse preso per mano l’Europa intera, con affetto e insieme fermezza, invitandola ad avere il coraggio di guardare in faccia la realtà: senza dimenticare la propria storia e insieme aprendosi al domani. Proprio come in una famiglia, quando il padre ha la pazienza di chinarsi sui figli senza giudicarli, ma spronandoli ad affrontare la vita nel solco della tradizione a cui appartengono, ma con tutta la ricchezza e l’originalità delle loro persone. Mai come in questo momento si può dire che Francesco è padre in questa Europa disorientata. Un padre capace di far percepire il valore di una eredità che non è morta, ma che può essere fuoco ardente capace di ri-animare la vita. Un rovesciamento clamoroso: il capo della Chiesa cattolica, troppo a lungo percepita come un baluardo della conservazione, diventa così, di fatto, il soggetto che più di ogni altro, nel Vecchio Continente (e non solo), è capace di parlare di futuro. Non additando promesse più o meno irraggiungibili, bensì avendo il coraggio, da un lato, di dire apertamente quello che non va nel nostro modello sociale, e, dall’altro, di indicare le vie di una vera e propria conversione. Politica, economica, sociale, culturale. In una parola, spirituale. Europa famiglia di popoli. Espressione straordinaria che dovremmo tenere a mente e imparare a usare perché è proprio questa l’ambizione del progetto politico che dobbiamo sviluppare negli anni a venire. Non un Superstato o una tecnocrazia; ma uno strumento al servizio della convivenza delle diversità, una forma politica nuova capace di generare collaborazione e integrazione fra diversi. Un’Europa, continua Francesco, che è quella che è perché ogni volta di fronte alle sfide che ha incontrato nella sua storia ha saputo rinascere. Viene in mente l’espressione del filosofo francese Remi Brague, secondo il quale è proprio la «rinascenza» il tratto caratteristico del Vecchio Continente: società stratificata, come una torta millefoglie, perché storicamente in grado di integrare

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i nuovi arrivi e le diverse culture, senza però mai perdere la propria anima. Che è poi quella (cristiana) del riconoscimento del valore immenso di ogni singola persona, immagine del Creatore, indipendentemente dal proprio stato sociale, dalla propria cultura, dalla propria origine. È in questa cornice che si capiscono appieno i tre verbi che Francesco regala all’Europa come viatico per camminare verso il suo futuro. Integrare: perché l’Europa non è più se stessa se smette di fare quello che ha sempre fatto. C’è qui un’idea profonda di identità non come il patrimonio rigido e chiuso, ma come un talento che si spende e si moltiplica. È in questo senso che l’Europa deve chiedere a tutti i propri popoli così come a tutti i propri cittadini – vecchi e nuovi – di diventare 'europei', cioè protagonisti a pieno titolo di questo cammino secolare. Dimostrando nei fatti che, a differenza di quanto avviene altrove, qui nessuno è dimenticato. Dialogare, che nel suo significato etimologico (dia-logos) significa un attraversamento grazie alla parola. Un dialogo che non è semplicemente scambio intellettuale, ma percorso che si accetta di fare insieme. Non si tratta qui di essere buonisti, o peggio ancora pavidi di fronte a chi usa violenza o intimorisce i cittadini. Al contrario, si tratta di saper esercitare la fermezza che, attraverso la parola, sa accompagnare quella crescita senza la quale non ci potrà essere pace. Generare: un verbo inusuale, ma oggi assolutamente fondamentale. Termine che ci permette di cogliere la sterilità di un individualismo che alla fine distrugge se stesso demograficamente ed economicamente. Non ci sarà nessuna nuova crescita se non supereremo il dominio della finanza e del consumo, rimettendo al centro del nostro modello sociale il lavoro nella sua accezione più ampia: libero, creativo, partecipativo, solidale. Perché alla fine, come dice Amartya Sen, sviluppo e libertà costituiscono un binomio inseparabile: solo riconoscendo e valorizzando la capacità di ogni persona di contribuire alla costruzione del futuro con la sua intelligenza, la sua creatività, la sua affettività si potrà aprire una nuova stagione di crescita. In tutto questo suona dolcissimo l’invito di Francesco all’Europa a tornare a essere madre generativa. Capace cioè di prendersi cura dei propri figli e della terra su cui alberga, così come di essere ospitale nei confronti di chi fugge dalle bombe e dalla fame. In un grande speranza di futuro. Pag 5 “Europa, cosa ti è successo? Sogno un nuovo umanesimo” Francesco: un continente capace di essere madre, in cui la condizione di migrante non è un delitto Pubblichiamo il discorso pronunciato dal Papa nella Sala Regia del Palazzo apostolico in

occasione del conferimento a Francesco del Premio internazionale “Carlo Magno 2016”.

Illustri ospiti, vi porgo il mio cordiale benvenuto e vi ringrazio per la vostra presenza. Sono grato in particolare ai signori Marcel Philipp, Jürgen Linden, Martin Schulz, Jean-Claude Juncker e Donald Tusk per le loro cortesi parole. Desidero ribadire la mia intenzione di offrire il prestigioso Premio, di cui vengo onorato, per l’Europa: non compiamo infatti un gesto celebrativo; cogliamo piuttosto l’occasione per auspicare insieme uno slancio nuovo e coraggioso per questo amato Continente. La creatività, l’ingegno, la capacità di rialzarsi e di uscire dai propri limiti appartengono all’anima dell’Europa. Nel secolo scorso, essa ha testimoniato all’umanità che un nuovo inizio era possibile: dopo anni di tragici scontri, culminati nella guerra più terribile che si ricordi, è sorta, con la grazia di Dio, una novità senza precedenti nella storia. Le ceneri delle macerie non poterono estinguere la speranza e la ricerca dell’altro, che arsero nel cuore dei Padri fondatori del progetto europeo. Essi gettarono le fondamenta di un baluardo di pace, di un edificio costruito da Stati che non si sono uniti per imposizione, ma per la libera scelta del bene comune, rinunciando per sempre a fronteggiarsi. L’Europa, dopo tante divisioni, ritrovò finalmente sé stessa e iniziò a edificare la sua casa. Questa «famiglia di popoli», lodevolmente diventata nel frattempo più ampia, in tempi recenti sembra sentire meno proprie le mura della casa comune, talvolta innalzate scostandosi dall’illuminato progetto architettato dai Padri. Quell’atmosfera di novità, quell’ardente desiderio di costruire l’unità paiono sempre più spenti; noi figli di quel sogno siamo tentati di cedere ai nostri egoismi, guardando al proprio utile e pensando di costruire recinti particolari. Tuttavia, sono convinto che la rassegnazione e la stanchezza non appartengono all’anima dell’Europa e che anche «le difficoltà possono diventare

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promotrici potenti di unità». Nel Parlamento europeo mi sono permesso di parlare di Europa nonna. Dicevo agli eurodeputati che da diverse parti cresceva l’impressione generale di un’Europa stanca e invecchiata, non fertile e vitale, dove i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva; un’Europa decaduta che sembra abbia perso la sua capacità generatrice e creatrice. Un’Europa tentata di voler assicurare e dominare spazi più che generare processi di inclusione e trasformazione; un’Europa che si va “trincerando” invece di privilegiare azioni che promuovano nuovi dinamismi nella società; dinamismi capaci di coinvolgere e mettere in movimento tutti gli attori sociali (gruppi e persone) nella ricerca di nuove soluzioni ai problemi attuali, che portino frutto in importanti avvenimenti storici; un’Europa che lungi dal proteggere spazi si renda madre generatrice di processi (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 223). Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli? Lo scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, diceva che oggi è capitale realizzare una “trasfusione di memoria”. È necessario “fare memoria”, prendere un po’ di distanza dal presente per ascoltare la voce dei nostri antenati. La memoria non solo ci permetterà di non commettere gli stessi errori del passato (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 108), ma ci darà accesso a quelle acquisizioni che hanno aiutato i nostri popoli ad attraversare positivamente gli incroci storici che andavano incontrando. La trasfusione della memoria ci libera da quella tendenza attuale spesso più attraente di fabbricare in fretta sulle sabbie mobili dei risultati immediati che potrebbero produrre «una rendita politica facile, rapida ed effimera, ma che non costruiscono la pienezza umana» (ibid., 224). A tal fine ci farà bene evocare i Padri fondatori dell’Europa. Essi seppero cercare strade alternative, innovative in un contesto segnato dalle ferite della guerra. Essi ebbero l’audacia non solo di sognare l’idea di Europa, ma osarono trasformare radicalmente i modelli che provocavano soltanto violenza e distruzione. Osarono cercare soluzioni multilaterali ai problemi che poco a poco diventavano comuni. Robert Schuman, in quello che molti riconoscono come l’atto di nascita della prima comunità europea, disse: «L’Europa non si farà in un colpo solo, né attraverso una costruzione d’insieme; essa si farà attraverso realizzazioni concrete, creanti anzitutto una solidarietà di fatto». Proprio ora, in questo nostro mondo dilaniato e ferito, occorre ritornare a quella solidarietà di fatto, alla stessa generosità concreta che seguì il secondo conflitto mondiale, perché – proseguiva Schuman – «la pace mondiale non potrà essere salvaguardata senza sforzi creatori che siano all’altezza dei pericoli che la minacciano»4. I progetti dei Padri fondatori, araldi della pace e profeti dell’avvenire, non sono superati: ispirano, oggi più che mai, a costruire ponti e abbattere muri. Sembrano esprimere un accorato invito a non accontentarsi di ritocchi cosmetici o di compromessi tortuosi per correggere qualche trattato, ma a porre coraggiosamente basi nuove, fortemente radicate; come affermava Alcide De Gasperi, «tutti egualmente animati dalla preoccupazione del bene comune delle nostre patrie europee, della nostra Patria Europa», ricominciare, senza paura un «lavoro costruttivo che esige tutti i nostri sforzi di paziente e lunga cooperazione». Questa trasfusione della memoria ci permette di ispirarci al passato per affrontare con coraggio il complesso quadro multipolare dei nostri giorni, accettando con determinazione la sfida di “aggiornare” l’idea di Europa. Un’Europa capace di dare alla luce un nuovo umanesimo basato su tre capacità: la capacità di integrare, la capacità di dialogare e la capacità di generare. Capacità di integrare - Erich Przywara, nella sua magnifica opera L’idea di Europa, ci sfida a pensare la città come un luogo di convivenza tra varie istanze e livelli. Egli conosceva quella tendenza riduzionistica che abita in ogni tentativo di pensare e sognare il tessuto sociale. La bellezza radicata in molte delle nostre città si deve al fatto che sono riuscite a conservare nel tempo le differenze di epoche, di nazioni, di stili, di visioni. Basta guardare l’inestimabile patrimonio culturale di Roma per confermare ancora una volta che la ricchezza e il valore di un popolo si radica proprio nel saper articolare tutti questi livelli in una sana convivenza. I riduzionismi e tutti gli intenti uniformanti, lungi dal generare valore, condannano i nostri popoli a una crudele povertà: quella dell’esclusione. E lungi dall’apportare grandezza, ricchezza e bellezza, l’esclusione provoca viltà, ristrettezza e brutalità. Lungi dal dare nobiltà allo spirito, gli apporta

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meschinità. Le radici dei nostri popoli, le radici dell’Europa si andarono consolidando nel corso della sua storia imparando a integrare in sintesi sempre nuove le culture più diverse e senza apparente legame tra loro. L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale. L’attività politica sa di avere tra le mani questo lavoro fondamentale e non rinviabile. Sappiamo che «il tutto è più delle parti, e anche della loro semplice somma», per cui si dovrà sempre lavorare per «allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 235). Siamo invitati a promuovere un’integrazione che trova nella solidarietà il modo in cui fare le cose, il modo in cui costruire la storia. Una solidarietà che non può mai essere confusa con l’elemosina, ma come generazione di opportunità perché tutti gli abitanti delle nostre città – e di tante altre città – possano sviluppare la loro vita con dignità. Il tempo ci sta insegnando che non basta il solo inserimento geografico delle persone, ma la sfida è una forte integrazione culturale. In questo modo la comunità dei popoli europei potrà vincere la tentazione di ripiegarsi su paradigmi unilaterali e di avventurarsi in “colonizzazioni ideologiche”; riscoprirà piuttosto l’ampiezza dell’anima europea, nata dall’incontro di civiltà e popoli, più vasta degli attuali confini dell’Unione e chiamata a diventare modello di nuove sintesi e di dialogo. Il volto dell’Europa non si distingue infatti nel contrapporsi ad altri, ma nel portare impressi i tratti di varie culture e la bellezza di vincere le chiusure. Senza questa capacità di integrazione le parole pronunciate da Konrad Adenauer nel passato risuoneranno oggi come profezia di futuro: «Il futuro dell’Occidente non è tanto minacciato dalla tensione politica, quanto dal pericolo della massificazione, della uniformità del pensiero e del sentimento; in breve, da tutto il sistema di vita, dalla fuga dalla responsabilità, con l’unica preoccupazione per il proprio io». Capacità di dialogo - Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. È urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere «una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro», portando avanti «la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione. Questa cultura del dialogo, che dovrebbe essere inserita in tutti i curriculi scolastici come asse trasversale delle discipline, aiuterà ad inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti diverso da quello a cui li stiamo abituando. Oggi ci urge poter realizzare “coalizioni” non più solamente militari o economiche ma culturali, educative, filosofiche, religiose. Coalizioni che mettano in evidenza che, dietro molti conflitti, è spesso in gioco il potere di gruppi economici. Coalizioni capaci di difendere il popolo dall’essere utilizzato per fini impropri. Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro. Capacità di generare - Il dialogo e tutto ciò che esso comporta ci ricorda che nessuno può limitarsi ad essere spettatore né mero osservatore. Tutti, dal più piccolo al più grande, sono parte attiva nella costruzione di una società integrata e riconciliata. Questa cultura è possibile se tutti partecipiamo alla sua elaborazione e costruzione. La situazione attuale non ammette meri osservatori di lotte altrui. Al contrario, è un forte appello alla responsabilità personale e sociale. In questo senso i nostri giovani hanno un ruolo preponderante. Essi non sono il futuro dei nostri popoli, sono il presente; sono quelli che già oggi con i loro sogni, con la loro vita stanno forgiando lo spirito europeo. Non possiamo pensare il domani senza offrire loro una reale partecipazione come agenti di cambiamento e di trasformazione. Non possiamo immaginare l’Europa senza renderli partecipi e protagonisti di questo sogno. Ultimamente ho riflettuto su questo aspetto e mi sono chiesto: come possiamo fare partecipi i nostri giovani di questa costruzione quando li priviamo di lavoro; di lavori degni che permettano loro di svilupparsi per mezzo delle loro mani, della loro intelligenza e delle loro energie? Come pretendiamo di

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riconoscere ad essi il valore di protagonisti, quando gli indici di disoccupazione e sottoccupazione di milioni di giovani europei sono in aumento? Come evitare di perdere i nostri giovani, che finiscono per andarsene altrove in cerca di ideali e senso di appartenenza perché qui, nella loro terra, non sappiamo offrire loro opportunità e valori? «La giusta distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è mera filantropia. È un dovere morale». Se vogliamo pensare le nostre società in un modo diverso, abbiamo bisogno di creare posti di lavoro dignitoso e ben remunerato, specialmente per i nostri giovani. Ciò richiede la ricerca di nuovi modelli economici più inclusivi ed equi, non orientati al servizio di pochi, ma al beneficio della gente e della società. E questo ci chiede il passaggio da un’economia liquida a un’economia sociale. Penso ad esempio all’economia sociale di mercato, incoraggiata anche dai miei Predecessori (cfr Giovanni Paolo II, Discorso all’ambasciatore della R.F. di Germania, 8 novembre 1990). Passare da un’economia che punta al reddito e al profitto in base alla speculazione e al prestito a interesse ad un’economia sociale che investa sulle persone creando posti di lavoro e qualificazione. Dobbiamo passare da un’economia liquida, che tende a favorire la corruzione come mezzo per ottenere profitti, a un’economia sociale che garantisce l’accesso alla terra, al tetto per mezzo del lavoro come ambito in cui le persone e le comunità possano mettere in gioco «molte dimensioni della vita: la creatività, la proiezione nel futuro, lo sviluppo delle capacità, l’esercizio dei valori, la comunicazione con gli altri, un atteggiamento di adorazione. Perciò la realtà sociale del mondo di oggi, al di là degli interessi limitati delle imprese e di una discutibile razionalità economica, esige che “si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al lavoro […] per tutti”» (Enc. Laudato si’, 127). Se vogliamo mirare a un futuro che sia dignitoso, se vogliamo un futuro di pace per le nostre società, potremo raggiungerlo solamente puntando sulla vera inclusione: «quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale». Questo passaggio (da un’economia liquida a un’economia sociale) non solo darà nuove prospettive e opportunità concrete di integrazione e inclusione, ma ci aprirà nuovamente la capacità di sognare quell’umanesimo, di cui l’Europa è stata culla e sorgente. Alla rinascita di un’Europa affaticata, ma ancora ricca di energie e di potenzialità, può e deve contribuire la Chiesa. Il suo compito coincide con la sua missione: l’annuncio del Vangelo, che oggi più che mai si traduce soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo, portando la presenza forte e semplice di Gesù, la sua misericordia consolante e incoraggiante. Dio desidera abitare tra gli uomini, ma può farlo solo attraverso uomini e donne che, come i grandi evangelizzatori del continente, siano toccati da Lui e vivano il Vangelo, senza cercare altro. Solo una Chiesa ricca di testimoni potrà ridare l’acqua pura del Vangelo alle radici dell’Europa. In questo, il cammino dei cristiani verso la piena unità è un grande segno dei tempi, ma anche l’esigenza urgente di rispondere all’appello del Signore «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). Con la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, «un costante cammino di umanizzazione», cui servono «memoria, coraggio, sana e umana utopia». Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo. Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia. Grazie. Pag 7 Enrico Letta: “Il Papa ci porta a un bivio. Senza valori la Ue muore” di Marco Iasevoli

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La disgregazione è un rischio reale. Chi non accoglie migranti non deve avere fondi Chi ci crede davvero, nel grande sogno dell’Europa, vive questi tempi come un lungo brivido di paura. Ed Enrico Letta sulla casa comune Ue ci ha investito senza riserve. Da padre fondatore del Pd, da premier nell’ora del massimo caos politico in Italia, da direttore, attualmente, della prestigiosa Sciences Po, l’istituto di studi politici di Parigi. «Guardi la foto che domina sui siti – attacca con voce inquieta, tenendo gli occhi fissi su un tablet –. È quella con Francesco e Angela Merkel. Fa pensare. Un non europeo e una nuova europea, un Papa argentino e una figlia della Germania Est, sono le due voci che richiamano l’Unione a essere se stessa. Dice molto della crisi di leadership tra i Paesi fondatori. Ma dice molto anche di cosa possa essere, ancora oggi, proprio oggi, il nostro Continente: è l’unica barca attraverso i quali valori umani possono attraversare e provare a permeare la globalizzazione. Se questa barca affonda, vedo conseguenze pesanti su scala mondiale. Non mi riferisco solo a conseguenze economiche, ma alla marginalizzazione dei valori fondanti della convivenza umana». È proprio l’ultima suggestione che emerge dal discorso del Papa... È un testo strepitoso. Ma il finale è da brividi. L’ultima frase è addirittura drammatica. Porta l’Europa dinanzi a un bivio. Porta dinanzi a un bivio le classi dirigenti. Ma anche i cittadini, gli insegnanti, i sacerdoti... È la chiamata finale per l’Europa? C’è una fatica enorme che sta attraversando tutte le democrazie occidentali. Guardi l’ascesa di Trump negli Usa. Vuol dire che l’individualismo e il consumismo si sono infiltrate come un virus. Papa Francesco va in controtendenza. Parla di dialogo e ponti mentre domina la paura. Parla di dialogo e ponti mentre vediamo quel che vediamo in Austria, Repubblica Ceca, nella giungla di Calais. Parla di dialogo e ponti mentre Trump si fa strada con messaggi di odio e violenza. Cosa dovrebbero fare i leader europei appena tornati nelle loro cancellerie per dare corpo allo scatto d’orgoglio chiesto da Francesco? Il primo gesto da compiere è quella di rimuovere immediatamente ogni muro, ogni barriera. Molti Paesi sembrano immobilizzati dalle opinioni pubbliche interne. L’Europa è i valori che incarna, non solo gli scambi commerciali e il tetto del 3 per cento. È vero, i cittadini sono impauriti. Temono per la loro sicurezza e per il lavoro. Ma non viene loro spiegato che l’Ue unita è la soluzione alle loro paure. I singoli Paesi, da soli, non potrebbero mai affrontare la più grande ondata migratoria dalla seconda guerra mondiale. Eppure i leader nazionali sono attratti da una triplice spirale: risposte di corto termine, nazionalismo e dare le colpe di tutto all’Europa. Parlare alla pancia degli elettori è esattamente il contrario di quello che ci serve. È un discorso che riguarda anche l’Italia? Il nostro Paese può e deve giocare la partita di una leadership autenticamente europea che sfida il linguaggio dell’odio, della violenza, dell’egoismo, della chiusura a riccio, dello scaricabarile su Bruxelles. Deve farlo di più e senza paure. Oggi parleremmo di un’altra Europa se la riflessione sui valori cristiani dell’Ue avesse preso un’altra piega? Non aver riconosciuto le radici cristiane del Vecchio Continente è stato un errore storico e profondo, e oggi ne vediamo le conseguenze. Anche per quel motivo è saltata l’intera Costituzione: una Carta senza valori non ha senso. Intanto ora ci troviamo con barriere e muri da opporre a essere umani. Si può reagire? Alcuni Paesi stanno assumendo comportamenti insopportabili. La solidarietà è dare e avere. La Germania si è fatta carico di un milione di profughi, forse bisognerà attendere qualche anno per capire la portata di questo gesto. E gli altri? Possono rifiutare la riallocazione nei loro confini di 2mila, 3mila, 5mila immigrati? È ora che verso gli Stati si inizi a usare anche il bastone, insieme alla carota. C’è la possibilità di agire sui fondi strutturali, di toglierli a chi non è solidale e premiare chi fa più sforzi. Se alcuni Paesi continuano a rifiutare la riallocazione e non vengono sanzionati la credibilità delle istituzioni Ue cola a picco. Sull’immigrazione, all’Italia è stato riconosciuto coraggio. Perché ci siamo presi la leadership facendo prevalere il principio di umanità. Con Mare nostrum abbiamo dimostrato che non intendevamo aspettare riunioni e burocrazia,

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perché c’erano vite da salvare. E anche in quella circostanza fu decisivo il Papa con la sua visita a Lampedusa: capì prima di tutti che lì l’Europa si giocava tutto. Parlando senza riserve: è davvero possibile che l’Ue fallisca? Sì, la disgregazione è possibile. La drammaticità del discorso del Papa lo dimostra. Ci sono referendum per uscire, ci sono muri. E soprattutto c’è un’opinione pubblica spaventata. L’Europa avrebbe bisogno innanzitutto di ringiovanirsi, tornare popolare. Francesco dà una mano grande, dà all’Unione l’opportunità di ripensarsi in relazione ai valori che la costituiscono e alle attese reali di un popolo. Tra le paure, arriva un segnale nuovo da Londra. La grande city finanziaria ci ricorda che l’equazione “islam uguale estremismo” è uno scivolamento culturale. L’islam non è irrecuperabile. Qui in Francia ce lo ricorda la testimonianza di Ahmed Merabet, il poliziotto musulmano ucciso dal commando che aveva attaccato Charlie Hebdo mentre faceva il proprio dovere. Se vuole, è l’ulteriore prova che l’Europa è un patrimonio di cultura e valori di cui questo mondo ha bisogno. Pag 17 Chiesa e cristiani lgbt: “Che ruolo per noi?” di Luciano Moia Le domande dei credenti omosessuali. Il vescovo Semeraro: nessuno è fuori. Il magistero: trent’anni di coerenza nel promuovere forme di accompagnamento Si chiamano cristiani lgbt. Pregano, riflettono sulla propria condizione e mandano ai vescovi documenti con proposte pastorali. Sono anche riuniti in un Forum che, una volta l’anno, chiama a raccolta chi, ritrovandosi in questa complessa “frontiera esistenziale”, non intende rinunciare a cercare la propria posizione nella comunità ecclesiale. Se pensiamo a carnevalate di dubbio gusto, con ostentazioni plateali e rivendicazioni espresse in modo sgangherato tipo Gay Pride, siamo decisamente fuori strada. Il Forum dei cristiani lgbt, che si è riunito nei giorni scorsi ad Albano laziale, ha discusso di legge naturale e di formazione delle coscienze, di accompagnamento spirituale e di progetti pastorali. Tra le decine di partecipanti, oltre a sacerdoti e religiose, anche non pochi genitori con figli omosessuali. I partecipanti del Forum di Albano hanno avuto l’opportunità di incontrare il vescovo diocesano, Marcello Semeraro, che è anche segretario del C9 (Il Consiglio dei cardinali). Parlando alla mamma di un figlio omosessuale che chiedeva fino a che punto una persona lgbt si possono considerare “dentro” la Chiesa, Semeraro ha ricordato che non è evangelico, in riferimento all’appartenenza alla comunità ecclesiale, usare termini come “dentro” o “fuori”. Si tratta piuttosto di accompagnare e integrare tutte le persone, a partire dalla condizione di ciascuno. Semeraro ha fatto riferimento all’Amoris laetitia, dove il Papa ribadisce che «ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto». Mentre per quanto riguarda le famiglie «si tratta di assicurare un rispettoso accompagnamento, affinché coloro che manifestano la tendenza omosessuale possano avere gli aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita» (Al 250). Ma come tradurre concretamente queste indicazioni in prassi pastorale? Come mostrare il volto di una Chiesa chiamata ad accogliere, accompagnare, integrare tutti coloro che bussano alla sua porta? Ne ha parlato padre Pino Piva, coordinatore nazionale dell’apostolato degli esercizi spirituali ignaziani: «La pastorale per persone omosessuali cristiane, che desiderano essere parte della vita della Chiesa a partire dalla loro identità, ha soprattutto il dovere di aiutare queste persone a conservare la speranza in Dio, nella Chiesa, nella comunità». Secondo il gesuita, anche per le persone omosessuali, «la pastorale della Chiesa è chiamata ad innescare processi di cambiamento, conversione, promozione, liberazione. Questo significa optare per la formazione della coscienza che sappia scorgere la volontà di Dio nel quotidiano, qui ed ora, piuttosto che una generica e spersonalizzante affermazione di principi astratti ». Padre Piva, che segue abitualmente gruppi di preghiera con la presenza di cristiani lgbt, si è detto convinto che la pastorale per le persone omosessuali «non possa più essere considerata “straordinaria” o “di frontiera”, per evitare sofferenze inutili, provocate da ignoranza del Vangelo e da una falsa concezione di verità senza misericordia». Più impegnative, non solo dal punto di vista teorico, le considerazioni offerte al Forum dal filosofo Damiano Migliorini, autore tra l’altro con Beatrice Brogliato, di un monumentale saggio, quasi 500 pagine, sull’amore omosessuale (vedi box qui accanto). Secondo l’esperto la questione omosessuale e la nuova questione gender

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«sono nel loro insieme un vero e proprio test per la teologia cattolica » perché implicano la necessità di «andare alle radici più profonde dei propri dispositivi, in morale come in ecclesiologia, in sacramentaria come in teologia dogmatica». Se è vero che Amoris laetitiaapre prospettive nuove, tutte però da mettere a fuoco, si tratta – ha spiegato Migliorini – di porsi una serie di domande e di riflettere sulle possibili conseguenze. Eccone alcune: «Davvero la dottrina della legge morale naturale applicata alle questioni di morale sessuale non permette un’integrazione delle istanze provenienti dalle minoranze sessuali? Nella ragionevolezza della dottrina morale quale posto si può trovare per l’amore omosessuale?». Per arrivare alla questione forse più drammatica: «Fino a che punto possiamo spingerci nel valutare la presenza di omosessuali, transessuali, bisessuali nel piano di Dio?». Domande che dal Forum dei cristiani lgbt tornano adesso nelle associazioni, nei gruppi di preghiera già impegnati in percorsi di ascolto. Una rete più vasta di quanto ci si possa immaginare. A dimostrazione che questa realtà esiste, bussa alle porte delle nostre comunità e chiede spazio, ascolto, accoglienza non discriminante. Tanto che anche l’Ufficio nazionale Cei per la pastorale della famiglia ha avviato un sondaggio per censire le proposte di accompagnamento rivolte alle persone omosessuali presenti nelle comunità e per valutare iniziative future. «La condizione omosessuale – ha concluso padre Piva – non è un problema per la fede, semmai una opportunità di progressiva comprensione dell’essenziale». In questi ultimi anni sono comparsi vari saggi sul rapporto tra fede e omosessualità. Pochi però, parte il breve compendio scritto da don Valter Danna, Fede e omosessualità. Assistenza pastorale e accompagnamento spirituale (Effatà Editrice, 2009), quelli di taglio prettamente pastorale. Ora L’amore omosessuale. Saggi di psicanalisi, teologia e pastorale. In dialogo per una nuova sintesi (Cittadella Editrice; pagg. 490; euro 29,80) arriva a colmare la lacuna. Scritto dalla psicologa Beatrice Brogliato e dal docente di filosofia Damiano Migliorini, si tratta di un impegnativo volume di documentazione che, a partire dagli studi psicanalitici e dal magistero della Chiesa, offre un’impostazione di taglio “aperturista”, se non altro perché non si nasconde le domande più impegnative e più scottanti. Si interroga sui pregiudizi e sulle cosiddette “teorie riparative”, sulla tradizione e sulla legge morale, sulla sessualità e sulla castità, offrendo ipotesi di intervento per i sacerdoti, per la comunità, per i genitori. Chi pretende di trovare l’elenco dei divieti non scorra questo libro. Chi è disposto a confrontarsi con la realtà senza moralismi, potrà invece trovare qui utili spunti di riflessione. Almeno per discutere e contestare queste proposte. Di grande interesse, tra i vari capitoli, il questionario “I fedeli cattolici di fronte all’omosessualità” realizzato dalla diocesi di Vicenza tra 2013 e 2014. Interventi del magistero e persone omosessuali. Non si tratta, come qualcuno sarebbe portato a credere, di un’invenzione di papa Francesco. Già trent’anni fa (1986), la Congregazione per la dottrina della fede, prefetto il cardinale Joseph Ratzinger, scriveva nella Lettera per la cura pastorale delle persone omosessuali: «Va deplorato con fermezza che le persone omosessuali siano state e siano ancora oggetto di espressioni malevole e di azioni violente. Simili comportamenti meritano la condanna dei pastori della Chiesa, ovunque si verifichino. Essi rivelano una mancanza di rispetto per gli altri, lesiva dei principi elementari su cui si basa una sana convivenza civile...» (n.10). E al numero 17, si invitavano i vescovi ad avviare iniziative pastorali rivolte a queste persone: «...In particolare i vescovi si premureranno di sostenere con i mezzi a loro disposizione lo sviluppo di forme specializzate di cura pastorale per persone omosessuali. Ciò potrebbe includere la collaborazione delle scienze psicologiche, sociologiche e mediche, sempre mantenendosi in piena fedeltà alla dottrina della Chiesa». Sulla stessa linea l’Amoris laetitia di Francesco: «...Desideriamo innanzi tutto ribadire che ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto... Nei riguardi delle famiglie si tratta invece di assicurare un rispettoso accompagnamento, affinché coloro che manifestano la tendenza omosessuale possano avere gli aiuti necessari per per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita». Quindi nessuna differenza dopo 30 anni? Ce ne sono tante. La più sostanziale è l’assenza nell’Amoris laetitia di quella

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riprovazione morale presente invece nella Lettera della Congregazione per la dottrina della fede. CORRIERE DELLA SERA di sabato 7 maggio 2016 Pag 5 L’Europa di Francesco. Quei 25 minuti con Merkel e le preoccupazioni comuni su profughi e integrazione di Gian Guido Vecchi Città del Vaticano. Memore delle origini, Bergoglio si presenta «come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede». Nel Palazzo apostolico ci sono i vertici europei, Jean-Claude Junker, Donald Tusk e Martin Schulz, che come la cancelliera tedesca Angela Merkel e il fondatore di Sant’Egidio Andrea Riccardi è tra coloro che il Premio Carlo Magno lo hanno vinto. Il Papa lo ha accettato (dopo Wojtyla nel 2004) come «occasione per auspicare uno slancio nuovo e coraggioso» del Vecchio Continente, perché ritrovi se stesso e lo spirito dei «padri fondatori», Adenauer, Schuman, De Gasperi. Francesco chiede di «aggiornare» l’idea di Europa perché sappia «integrare, dialogare, generare» senza «trincerarsi». Una riflessione memorabile che sviluppa i temi dell’intervento al Parlamento europeo, nel 2014, come del viaggio a Lesbo. E si conclude con accenti analoghi al discorso che Martin Luther King pronunciò il 28 agosto 1963: il «sogno» di Francesco per l’Europa. Città del Vaticano. Prima dell’udienza privata con Francesco, Angela Merkel si presenta alle nove e mezzo in San Pietro per assistere alla messa celebrata all’altare della Cattedra dal cardinale Walter Kasper. Non è l’unica protestante a partecipare, tra coloro che di lì a poche ore assisteranno alla cerimonia di presentazione del Premio Carlo Magno. Papa Francesco, in tono scherzoso, diceva tempo fa ai giornalisti che aveva infine accettato, lui che di solito declina ogni riconoscimento, per «la santa e teologica testardaggine del cardinale Kasper», il quale aveva fatto da messaggero. Ad Aquisgrana come a Berlino, del resto, ci tenevano. La cancelliera, tornata in patria, ha parlato di «un messaggio chiaro e incoraggiante» di Francesco: «Ci ha esortato a tenere presente tre cose: la capacità di dialogo, di integrazione e di fare qualcosa. Credo che fare qualcosa sia il compito assegnato a noi: agire per tenere l’Europa coesa». Integrazione, futuro dell’Europa, venticinque minuti di colloquio. Dalla Santa Sede non arrivano note ufficiali, l’incontro era privato. Ma in Vaticano si conferma un clima «particolarmente cordiale». Quando alla fine il Papa le ha regalato un medaglione con l’Angelo della pace, Merkel ha commentato: «Oggi in Europa ne abbiamo molto bisogno». La sintonia tra il Papa e la cancelliera nasce da una preoccupazione comune. Non è un mistero che la Chiesa cattolica non abbia gradito l’intesa tra Ue e Turchia per rimandare indietro i migranti. Francesco lo aveva detto quando l’Ungheria in autunno alzava il filo spinato: «I muri crollano, tutti. Il problema rimane, ma rimane con più odio». E lo ha ripetuto il mese scorso, di ritorno da Lesbo: «Non risolve niente, un muro. Non è una soluzione. Dobbiamo fare i ponti, ma i ponti vanno fatti in modo intelligente, con l’integrazione e il dialogo». Francesco apprezza lo sforzo della Germania, come quello dell’Italia, di non guardare dall’altra parte. Ma il fatto, spiegano in Vaticano, è che «questo non può essere il problema di un solo Paese, né la Germania né l’Italia possono fare da sole». Il Papa ha accettato il premio proprio perché l«Europa non può voltare la schiena ed isolarsi». La Ue è diventata «lodevolmente più ampia» ma non deve allontanarsi dal «progetto architettato dai Padri», pena la sua fine. La Merkel seguiva assorta il discorso mentre Francesco citava i «fondatori» dell’Europa e in particolare un suo grande predecessore: «Senza capacità di integrazione, le parole pronunciate da Konrad Adenauer nel passato risuoneranno oggi come profezia di futuro: “Il futuro dell’Occidente non è tanto minacciato dalla tensione politica, quanto dal pericolo della massificazione, della uniformità del pensiero e del sentimento; in breve, da tutto il sistema di vita, dalla fuga dalla responsabilità, con l’unica preoccupazione per il proprio io”». Pag 28 L’alleanza del Papa per un’Europa nuova di Andrea Riccardi Nella cornice solenne della Sala Regia in Vaticano (dove sono affrescate memorie di tempi di violenza religiosa come i massacri degli ugonotti nella notte di San Bartolomeo), Francesco ha ricevuto il prestigioso Premio Carlo Magno. Il Papa non ama i

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premi. Ma ha colto l’occasione per parlare all’Europa e «auspicare insieme uno slancio nuovo e coraggioso». Insieme a chi? Il parterre di leader europei era vasto, oltre la Merkel e Renzi. Nel discorso papale (più lungo del solito) due punti chiari: insieme e rilanciare. La cerimonia ha manifestato un’«alleanza» per un’Europa più larga e profonda. La dinamica ambasciatrice tedesca Schavan, amica della cancelliera, e l’autorevole card. Kasper hanno lavorato per un evento senza precedenti: il rilancio dell’Europa da parte del Papa argentino (che ha parlato anche da europeo). In un tempo di etno-nazionalismi, Francesco ha proposto «coalizioni», non politico-militari, ma «culturali, educative, filosofiche, religiose» per l’Europa e la pace: «Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro», ha detto. La Merkel, all’ambasciata tedesca, ha raccolto la proposta, indicando il limite della politica. La Germania non vuole essere sola e ha bisogno di «coalizione» con Chiese e società. Il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, ha denunciato la frammentazione europea: «Le forze centrifughe delle crisi tendono a dividerci...». Per Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo (dissonante dal governo di Varsavia), la Chiesa di Francesco, «di cui abbiamo bisogno tutti», offre una risposta alla crisi. Il Papa era attento e grave in una cerimonia che - pure nei particolari - non esaltava lui, ma l’insieme. Nuova funzione del Vaticano: luogo d’incontro e coalizione spirituale. Francesco aveva già parlato dell’Europa come «nonna», incapace di generare e attrarre, per questo costruttrice di muri e trincee. L’argentino, figlio d’immigrati italiani, ha dato del tu al continente: «Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà?». I politici hanno trovato nel Papa un leader spirituale che crede all’Unione, purché sappia allargarsi e integrare. In lui non c’è la preoccupazione di Benedetto XVI per il secolarismo. Secondo il Papa, l’Europa, «nata dall’incontro di civiltà e popoli», oggi declina per paura d’incontrare altre genti e religioni, nascondendosi dietro frontiere e identità cristallizzate. Chi ricorda la battaglia (perduta) della Chiesa per le «radici cristiane» nella Costituzione europea vede come Francesco abbia un’idea diversa: le radici europee (da irrigare con il Vangelo, secondo lui) sono state sempre sintesi tra culture, anche eterogenee. Per sostenere il valore di «un’identità dinamica e multiculturale» del continente, il Papa ha evocato i padri fondatori: De Gasperi (che si fece seppellire con il Premio Carlo Magno), Schuman, Adenauer, ricordando pure il teologo gesuita, Eric Przywara, che difese in faccia al nazismo la transnazionalità del cristianesimo. Per realizzare una costante integrazione, il metodo è il dialogo, capace di «ricostruire il tessuto sociale». Il dialogo è contenuto e metodo per fare l’Europa del futuro: «Armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione» - ha detto, forse anche rivolto ai cristiani «etnici» paurosi dell’invasione. Si è distaccato dai balbettii di vari episcopati europei e di altre Chiese sui rifugiati per parlare d’integrazione. Umberto Eco vedeva l’integrazione dei migranti come un processo di negoziazione continua. Francesco ha parlato di giovani e futuro. Ha chiesto un’economia sociale che investa sui giovani e sul lavoro, non un’economia liquida. Ha poi affermato con convinzione che Dio vuole abitare in Europa, ma ha bisogno di «testimoni» e di «grandi evangelizzatori». È il grande problema del (debole) cristianesimo europeo. Alla fine, con poesia, ha delineato un sogno europeo, il suo I have a dream. «Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre… che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede riparo... che ascolta e valorizza le persone malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto… dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà… non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia…». Bergoglio crede che gli europei, specie i giovani, non debbano essere prigionieri degli incubi, ma riprendere a sognare. Europa dei padri sì, ma anche dei figli. LA REPUBBLICA di sabato 7 maggio 2016 Pag 1 La ricchezza delle differenze di Alberto Melloni Papa Francesco, allergico alle formalità, ha accettato ieri il premio Carlo Magno. Più che un premio era un appello. Il disorientamento intellettuale del Continente è andato a chiedere a Bergoglio di essere scosso: ha avuto quel che cercava. In un discorso come sempre denso di riferimenti teologici impliciti e segnato da un finale severamente

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profetico: «Sogno un' Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stata la sua ultima utopia». Nato nel 1949 ad Aachen, il premio Carlo Magno esprimeva un europeismo occidentalista, atlantico, anticomunista, secondo quella che era la cultura politica di un industriale, oppositore delle leggi razziste, come Kurt Pfeiffer. Ma in quell'europeismo, che parlava in tedesco e pensava in cattolico, inseguendo l'utopia di una Europa cristiana, è stata generata una Europa di pace, di cui il premio ha seguito le movenze. Il Carlo Magno è stato attribuito a varie figure ora politiche ora spirituali, come frère Roger di Taizé o Giovanni Paolo II che avevano dato un apporto effettivo alla costruzione europea. Francesco non lo poteva ricevere allo stesso titolo. Il suo europeismo non pensa politicamente e culturalmente in termini est-ovest. Su quella linea lui vede correre un'altra istanza, quella ecumenica: che mette davanti alla chiesa latina (cattolici, luterani, ecc.) e alla chiesa d'oriente (greci, russi, ecc.) lo scandalo della divisione e la vocazione all'unità. Lo ha ripetuto ieri ponendo l'ecumenismo come "segno dei tempi" e citando le lezioni sulla "Idea d'Europa" come terra di diversità, lette alla radio tedesca nel secondo dopoguerra da uno dei più grandi teologi del Novecento a cui fa frequente riferimento, Erich Przywara. E da lì Francesco ricava l'idea che tutte e solo le differenze integrate culturalmente sono la ricchezza europea, letta lungo un asse nord-sud, alto-basso, profitto-giustizia, liquidità-socialità, spiazzante rispetto alle filastrocche della crescita, del rigore e dell'innovazione. Il Papa ha ieri invertito il principio-guida dell' europeismo wojtyliano: non ha mai citato le "radici cristiane" (o giudeo-cristiane come diceva il ritornello inconsapevole che in quell'assorbimento c'è il seme dell'antisemitismo) ricordate come matrice di cose meravigliose e dimenticandone le atrocità. Ha invece citato le "radici" plurali di un' Europa dei diritti umani, che il vangelo (il vangelo!) può "annaffiare", portando i frutti di pace e di giustizia che i cristiani producono solo nella loro fedeltà al vangelo stesso. Al posto della faglia otto-novecentesca fra credenti e non credenti, pone quella pluralisti e indifferenti: mette così in fuori gioco il secolarismo low-cost che ha impoverito l'Europa pensando che siano capi religiosi gentili e non teste pensanti che alimentano la cultura del dialogo. Non ha chiesto perciò un'ora di religioni, ma un'ora di "cultura del dialogo" che scardina il laicismo fobico e il clericalismo furbo. Mentre l'analfabetismo religioso concima i fondamentalismi e dissecca la sorgente della riforma teologica delle chiese e delle fedi, Francesco ha chiesto agli europei di tornare al "logos" non come "ragione", ma come "racconto" capace di un risultato. Chiedendo alla Europa: "cosa ti è successo?", le ha aperto una porta lasciando che la paziente decida se e come varcarla. Ha evocato la diversità di tre millenni davanti gli esponenti di una classe dirigente che ha espulso la storia dal proprio pensare per appiattirsi su un sapere fatto di intellettuali di corte, pronti a fornire costose soluzioni precotte a "decision makers" che spesso son solo dei consumatori di sondaggi, inconsapevoli della gravità dei problemi che li sovrastano. Il triplice appello del Papa a dialogare, integrare e generare non è detto che troverà ascolto. La capacità europea di cogliere queste dimensioni è modesta: lo si vede nelle commemorazioni della Grande Guerra, sbriciolate in festicciole turistico-nazionali che hanno alzato muri in una memoria comune. Ma nella conclusione cupa e profetica del discorso di Francesco appare anche un segnale importante. Dire che i diritti umani (non i valori, non le identità), potrebbero essere l'ultima utopia che finirà con l'Europa coglie il problema dei problemi. Dopo la libera circolazione, dopo i legami oggi vissuti come legacci non c'è un male: c'è il peggio: il peggio che ha già devastato l'Europa (e annichilito la Germania) almeno due volte in cent'anni. La cosa tocca da vicino il cattolicesimo. C'è infatti un vento gelido e leggero che percorre l'Europa e interpella il Papa di Roma. Sono gli alisei dell' odio e della chiusura, che mescolano autoritarismo, antisemitismo e xenofobia in dosi variabili. Soffiano su molti Paesi, ma per una coincidenza singolare percorrono quella che un tempo si sarebbe detta l'Europa cattolica: spira dalla Polonia, scende nella Slovacchia, si rafforza in Ungheria e ora torna verso l'Austria. Disegna una antica geografia asburgica: poi affonda nel Lombardo-Veneto; tocca la Francia in cui il cattolicesimo tradizionalista si salda col lepenismo; e aleggia su una Italia in cui la chiesa è stata argine antileghista e che qualche schematismo elettoralistico vorrebbe ricattare puntando il disastro possibile alla tempia dei riluttanti. Di questo vento Francesco sa di essere e dover essere al tempo stesso l'argine e l'esorcista. Il suo gesto di rimettere l'esigenza del vangelo davanti alla politica, ha un valore politico perché antepone effettivamente le istanze del vangelo come tale.

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La sua condanna della subcultura dei muri, fa stridere i denti al demone autodistruttivo del nazionalismo, che come nei racconti evangelici, strepita quando l'irruzione messianica scintilla dentro le mediocrità dei credenti. E così il Papa non Europeo chiede all' Europa di liberarsi dalla dicotomia fra credenti-non credenti, e passare a quella fra pontieri e "muristi", fra "fidenti" e indifferenti, da cui dipende il destino di questa utopia-Europa e la pace che chi la abita potrà o godere ancora un po' o rimpiangere a lungo. Pag 1 Quell’aiuto chiesto alla Chiesa di Andrea Bonanni Che cosa è successo veramente nella sala Regia, sotto gli affreschi del Vasari dove i Pontefici ricevevano i regnanti del mondo e dove papa Francesco ha ricevuto ieri i Grandi d' Europa? É successo che, per la prima volta dopo secoli, il potere temporale del Continente è venuto a immischiarsi nel confronto che sta dividendo il potere spirituale della Chiesa. Lo ha fatto, beninteso, per chiedere aiuto in uno dei momenti più critici di questi ultimi settant'anni. Ma la richiesta di aiuto, pronunciata ieri in modo tanto solenne quanto disperato, coinvolge in modo irrimediabile la Chiesa nella dialettica europea e l'Europa nella dialettica interna al mondo cattolico. Il senso di quanto accaduto lo ha riassunto bene il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, che non a caso è polacco. «Possiamo essere orgogliosi dell'Europa, Santo Padre, perché l'Europa continua a somigliarvi. Se dovesse cessare di somigliarvi, sarebbe ridotta a un mero termine geografico e a un vuoto politico». L'Europa, dunque, si riconosce e si identifica in quei valori di umanità, dialogo e capacità di rifondazione che papa Bergoglio sta cercando, con grande difficoltà, di affermare anche all'interno della propria Chiesa. E il Pontefice ha risposto alla richiesta che gli arriva dall'Europa senza tirarsi indietro, delineando una serie di obiettivi che coincidono in larga misura con i traguardi della sua riforma pastorale e spirituale. Ma perché l'Europa è venuta a chiedere aiuto al Papa? Perché identifica la battaglia di Francesco con la propria? La risposta è semplice: perché l'ondata di populismo nazionalista, che sta spostando larghi settori dell' opinione moderata verso posizioni di destra radicale e rischia di travolgere il progetto europeo, è un fenomeno che accomuna i Paesi cattolici del Vecchio continente. Dalla Polonia all'Italia, dalla Francia all'Ungheria, dalla Baviera all'Austria, è lo smottamento dell'elettorato cattolico e popolare verso un qualunquismo becero e narcisista a determinare lo tsunami che sta gonfiando i ranghi dell'estrema destra. Nel rivolgersi al Papa per chiedere il suo aiuto a contenere la valanga, i leader democratici dell'Europa identificano correttamente come la radice del problema sia, prima che politica, culturale o, se si vuole, spirituale. Il Pontefice ha sicuramente, nelle sue corde, l'antidoto per fermare questa degenerazione. E ieri lo ha dimostrato con un discorso alto, ma anche dettagliato e pedagogico. Un discorso che coinvolge direttamente la Chiesa nell'agone politico europeo senza limitarsi a rivendicare uno status privilegiato, come facevano i suoi predecessori. Ma il problema è che papa Francesco affronta, nella sua missione di riforma del cattolicesimo, le stesse difficoltà e le stesse degenerazioni che i leader europei incontrano nella loro battaglia per salvare l'Unione. L'Europa, che è nata per iniziativa di politici prevalentemente cattolici e moderati, da De Gasperi a Schuman ad Adenauer, rischia di morire per l' inaridimento di quella cultura e di quella visione. I malconci eredi di quei padri della Patria sono venuti ieri in Vaticano per dire al Pontefice che la sua battaglia per ricostruire l'anima della Chiesa coincide con la loro per restituire un'anima all'Europa. In questo senso, mentre gli chiedono aiuto, schierano anche il potere politico europeo a fianco della riforma spirituale della Chiesa. Può sembrare, a prima vista, la convergenza di due debolezze. E forse lo è. Ma ha il merito di riconoscere una verità finora misconosciuta: che la malattia del Vecchio Continente nasce innanzitutto da una crisi spirituale e culturale, che solo all' ultimo stadio diventa infezione politica. Capirlo, potrebbe essere il primo passo verso la guarigione. LA NUOVA di sabato 7 maggio 2016 Pag 1 Bergoglio e l’ultima utopia di Orazio La Rocca «Io ho un sogno: vedere l’Europa culla dei diritti e della dignità dell’uomo, accogliente, libera, solidale, dove essere migranti non sia più un delitto». Dai padri fondatori della comunità europea a Giovanni Paolo II passando per Martin Luther King, l’apostolo dei

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diritti degli afroamericani assassinato a Memphis (Usa) il 4 aprile 1968. E sempre con un unico e ostinato obiettivo politico-solidale in difesa dei migranti ed i richiedenti asilo in fuga da guerre, povertà, violenze, malattie, fame. Papa Francesco non si ferma nemmeno in occasione della solenne cerimonia nel corso della quale gli è stato conferito il premio Carlo Magno. Bergoglio è stato il secondo Pontefice a ricevere l’alto riconoscimento. Prima di lui lo stesso premio era stato assegnato solo a Giovanni Paolo II per essere stato tra gli artefici della caduta del Muro e fautore della riunificazione europea «dagli Urali all’Atlantico». Ma papa Francesco è stato sicuramente il primo pontefice che non ha avuto timore ad “approfittare” della cerimonia del Carlo Magno per ribadire quanto, fin dall’inizio del suo pontificato decollato il 13 marzo 2013, va dicendo in difesa degli immigrati e della necessità che le porte del continente europeo non si chiudano davanti a quanti chiedono di essere accolti ed aiutati. Ad ascoltarlo i più importanti leader europei, ai quali papa Francesco in materia di immigrazione non ha fatto sconti. «Sogno un’Europa, in cui - confessa infatti il Pontefice - essere migrante non sia delitto bensì un invito a un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa sempre più aperta e solidale verso i più deboli, che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perchè non ha più nulla e chiede riparo. Sogno una Europa in cui i progetti dei padri fondatori, araldi della pace e profeti dell’avvenire, non sono superati: ispirano, oggi più che mai, a costruire ponti e abbattere muri». Parole, in verità, non nuove, che in non poche occasioni hanno fatto gridare allo scandalo anche qualche leader europeo che ieri era in Vaticano quasi costretto ad applaudire l’attesa prolusione di papa Bergoglio, che non ha fatto altro che ribadire, sul dramma degli immigrati, quanto ha sempre sostenuto. Basti pensare al suo primo viaggio pastorale, a Lampedusa, tre anni fa, all’indomani di uno dei più grandi naufragi di migranti nel Mediterraneo. In quella occasione, oltre a chiedere perdono per le vittime innocenti, invocò politiche di accoglienza più mirate e una Europa più aperta alla solidarietà. Concetti, esortazioni e richiami che in seguito ha ripetuto tantissime altre volte. L’ultima, il mese scorso nell’isola di Lesbo, in Grecia dove, significativamente, fu accompagnato anche dal patriarca ortodosso di Costantinopoli, Bartolomeo I, e dal vescovo ortodosso di Atene, con i quali lanciò un nuovo pressante appello ai leader europei per una politica che metta al bando muri e respingimenti, chiedendo persino scusa agli stessi immigrati per le «disattenzioni e le mancanze» che l’Occidente ha mostrato nei loro confronti. Stesse esortazioni contenute anche nel documento sottoscritto il 12 febbraio scorso nello storico incontro a Cuba con il patriarca ortodosso di Mosca, Kiril. Come dire che in materia di difesa e di accoglienza delle popolazioni in fuga da guerre e persecuzioni, ortodossi e cattolici hanno già raggiunto una piena riunificazione. Una unità cristiana per accogliere immigrati e profughi che non tutti i leader europei vedono di buon occhio. Ma papa Francesco sembra non averci fatto caso. E così, ieri, nel bel mezzo della prestigiosa cornice del Premio Carlo Magno, ha praticamente costretto tutte le gerarchie politiche europee ha sentire dalla sua bocca che lui sogna «un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti... un’Europa in cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stata la sua ultima utopia». È l’Europa di papa Francesco. Ma - a parte il Premio Carlo Magno - sarà ascoltato? Torna al sommario 4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI LA NUOVA di domenica 8 maggio 2016 Pag 26 Giudecca: assessore Venturini alla Casa Famiglia San Pio X Venezia. L’Assessore comunale alla Coesione sociale Simone Venturini, ha visitato la Casa Famiglia San Pio X, nell'isola della Giudecca. «Accoglienza con il cuore dove donne, bambini, e recentemente anche padri separati, possono sentirsi a casa propria ricreando uno stile familiare dove ognuno, adulto o minore, può ritrovare la propria dimensione». Così l’assessore ha definito la Casa Famiglia, espressione della diocesi veneziana affidata dal Patriarca alla Pastorale degli Sposi e della Famiglia. La struttura accoglie donne in difficoltà con bambini fin dalla sua fondazione avvenuta nel 1910. «Un lavoro di rete con

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i servizi in collaborazione con parrocchie ed associazioni», riferisce il presidente Roberto Scarpa a cui, assieme ad altri collaboratori è affidata la cura della Casa Famiglia. L'assessore Venturini ha avuto modo di conoscere nel dettaglio i servizi offerti e i valori che sostengono questa importante e particolare realtà sociale a Venezia. La responsabilità e la gestione della Casa sono infatti affidate a coppie di sposi. «Ho voluto conoscere personalmente la Casa San Pio X e la famiglia alla cui cura è affidata», ha dichiarato Venturini, «cogliendo l'occasione per ringraziare a nome della città per il servizio svolto. Non si tratta solo di una comunità mamma/bambino, ma anche di una delle poche esperienze in cui un'importante realtà sociale è interamente gestita da un gruppo di famiglie veneziane». IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 7 maggio 2016 Pag XI L’Unitalsi torna in pellegrinaggio a Lourdes di a.spe. Parte domani, domenica, dal binario 1 della stazione di Mestre, il "treno bianco" che porta i malati a Lourdes. Si rinnova anche quest'anno il pellegrinaggio dell'Unitalsi per 300 persone, tra disabili e pazienti (un'ottantina in tutto), medici e volontari, divisi in barellieri e sorelle. Dopo il viaggio che dura circa 24 ore, trascorreranno una settimana nella cittadina sui Pirenei dove c'è la grotta delle apparizioni della Madonna. Tra i partecipanti ci sono il vescovo di Chioggia Adriano Tessarollo ed un gruppo di giovani dell'istituto salesiano Astori e delle parrocchie di Marghera, accompagnati da don Lio Gasparotto e don Luca Biancafior. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO IL GAZZETTINO Pag 15 Minori abusati, quello choc che uccide il futuro di Alessandra Graziottin Quanti di noi hanno il coraggio di mettersi nella pelle di una bambina abusata, violentata, usata come un oggetto e poi buttata dalla finestra di un ottavo piano come uno straccio che non serve più? Se ognuno di noi si mettesse nei panni di quelle migliaia di bambine e bambini usati come giocattoli da adulti perversi e crudeli, la pedofilia e il sadismo che l’accompagna non avrebbero raggiunto queste dimensioni epidemiche di cui la tragedia della piccola Fortuna è solo l’evento più drammatico. Sgomenta la rete di omertà che ha reso necessari due anni di prudentissime indagini per arrivare alla verità. Sgomenta sapere che l’uomo che l’ha violentata e uccisa era già noto alle Forze dell’Ordine anche per molestie. Sgomenta sapere che altre bambine piccolissime, figlie della compagna dell’uomo, sono state violentate, pare con la connivenza di lei. Sgomenta sapere che c’è un altro bambino di tre anni, Antonio, morto in circostanze oscure, caduto anche lui da una finestra. E’ pericoloso lavarsi la coscienza, e allontanare il problema, parlando di ambienti degradati. La pedofilia è trasversale, e cresce tra connivenze e complicità in tutti gli strati sociali, anche se forse non raggiunge l’estremo dell’assassinio fisico. Tuttavia altri assassinii, meno visibili ma altrettanto tragici, sono compiuti dai pedofili: viene uccisa nel bambino l’innocenza, il diritto a un affetto limpido, a un abbraccio confortante, a una tenerezza luminosa che gli scaldi il corpo e il cuore, a un amore protettivo che gli dia fiducia in sé e nella vita. Viene uccisa la possibilità di vivere l’infanzia nella dimensione di giochi e di affetti adeguati all’età, che facciano crescere i molti talenti dei bambini. Viene uccisa la possibilità di fidarsi degli adulti, e perfino della madre, quando lei diventa complice dell’abuso, quando non protegge la bambina, o il piccolo, sottraendolo a queste grinfie mortali, o peggio, quando vende il corpo dei figli ad adulti cinici e perversi. L’omertà delle madri, o addirittura la loro aperta connivenza con il violentatore, padre, convivente o altro che sia, emerge purtroppo con desolante frequenza anche nei colloqui clinici con donne ormai adulte. Viene uccisa la possibilità di un amore adulto che sia capace di intimità vera, di rispetto, di attenzione, di tenerezza: se la prima e unica esperienza infantile è di abuso, quello sarà con alta probabilità il modello di riferimento interiore per le relazioni future. Coloro che sanno e tacciono, come possono vivere senza sentirsi rivoltare dalla vergogna? Conniventi e

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complici di un abuso che si perpetua e si ramifica, con l’infettività di un virus morale che non conosce anticorpi. Chi di noi ha avuto genitori amorevoli e rispettosi intuisce il baratro di disperazione e di amputazioni subito da questi piccoli, derubati del presente e del futuro, segnati per sempre nel corpo e nell’anima, “oggetti” degradati ai propri stessi occhi prima ancora che agli occhi degli altri. Guariranno? No. Purtroppo molte di queste amputazioni sono irreversibili. Una psicoterapia molto ben fatta può aiutare a convivere con quello che è successo senza farsene dilaniare, ma amputazioni e ferite lasciano segni indelebili. E’ possibile prevenire queste tragedie? Sì, rispettando l’infanzia e il diritto all’innocenza; mantenendo un rigore etico impeccabile nei nostri comportamenti con i bambini; non stimolando la seduttività di bambine e bambini in modo inappropriato, dal vestiario agli atteggiamenti; non usando strumentalmente i bambini come sensuali oggetti di desiderio nella pubblicità; imparando a usare le antenne del cuore per non diventare complici o conniventi dell’abuso; evitando convivenze inappropriate, per esempio con il nuovo compagno della madre dopo la separazione, finché non si sia certissime sulla qualità dell’uomo che vivrà in casa a contatto con una bambina o una figlia adolescente. E’ tempo di ripensare ai fondamentali della vita: i bambini non si toccano, nemmeno con il pensiero. CORRIERE DELLA SERA di domenica 8 maggio 2016 Pagg 24 – 25 Perché la scuola non parla d’amore di Antonella De Gregorio e Carlotta De Leo 25 anni di proposte ma la legge sui corsi obbligatori non è stata fatta. Il problema, però, c’è. E anche le eccezioni, come la solita Emilia - Romagna La scuola dovrebbe occuparsene di più. Parlare di amore, relazioni, sesso. Dei corpi che crescono e cambiano, delle emozioni che si agitano, come stagioni impazzite, dentro cuori impreparati. E invece, dopo 25 anni di proposte, non c’è ancora una legge che istituisca corsi obbligatori. E le scuole non hanno soldi nemmeno per metterli tra quelli opzionali, o se lo fanno incontrano ostacoli burocratici, normativi, ideologici. «Di educazione alla sessualità e all’affettività se ne fa sempre meno, mentre ce ne sarebbe sempre più bisogno: promuove l’educazione di genere, il rispetto tra maschi e femmine, a sostegno della dignità delle persone e del loro percorso di crescita ed evoluzione», dice Alberto Pellai, psicologo che da anni lavora sul tema della prevenzione degli abusi sessuali. Gli esperti parlano di una preoccupante «precocizzazione sessuale», accompagnata dall’ossessione per la perfezione del corpo e da una scarsa consapevolezza. Succede così che già in quarta e quinta elementare circolino, soprattutto tra i maschi, sui telefonini, le prime immagini pornografiche. Alle medie, il sesso tra compagni diventa strumento di inclusione, salvo poi tornare indietro come un boomerang impazzito, colpendo le ragazzine (e i ragazzi) in forme che hanno nomi come sexting, o cyberbullismo e ripercussioni magari non immediatamente percepibili, ma che si fanno, poi, laceranti. Lo sportello d’ascolto online «Chiedilo agli esperti di Diregiovani.it» l’anno scorso ha contato 50 mila richieste d’aiuto. «Un numero che dimostra che questi adolescenti sono vittime di una sessualità non supportata» spiega Federico Bianchi di Castelbianco, psicoterapeuta dell’età evolutiva. «Oggi gli adolescenti tendono a scorporare il sesso dall’affettività e questo provoca un aumento allarmante dei comportamenti sessuali a rischio», dice. È il supporto a mancare, a questi ragazzi, a scuola e a casa. Il ruolo di genitori e insegnanti è fondamentale, nella sessualità come in tutti gli aspetti della crescita, invece il più delle volte gli adolescenti ricorrono al passaparola o a Internet, con tutte le conseguenze di un’informazione errata o parziale. Trattare l’argomento con gli adulti risulta imbarazzante o difficile, anche perché i genitori, a loro volta, non hanno parole, non hanno memoria di esperienze da trasmettere: «C’è un file mancante, perché i nostri padri e le nostre madri non hanno accompagnato noi. Riproduciamo un blocco, perché non sappiamo come si fa», dice Pellai. Ecco perché serve davvero che di educazione sessuale e affettività si parli tra i banchi. Ma non è semplice. Alle tradizionali resistenze di chi pensa che si tratti di una «questione privata e familiare» si è aggiunta poi la questione dell’educazione di genere. Un pericolo, secondo alcuni: Cei, Vaticano e organizzazioni di genitori. «Giù le mani dai nostri figli», lo slogan che ha condotto all’organizzazione del Family Day a Roma, lo scorso giugno, organizzato anche per «fermare la colonizzazione ideologica della teoria

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gender nelle scuole». In questo clima, e nonostante il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, abbia ribadito più volte che «non esiste un tema gender nella scuola», trattare l’argomento diventa difficile per gli insegnanti. Il Miur ha provato a piantare una bandierina: un articolo inserito nel testo della Buona scuola, il 16, che recita: «Il Piano triennale dell’offerta formativa assicura e promuove nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni». Tre righe, che senza prescrivere nulla, hanno scatenato l’inferno. Una commissione di esperti sta ora lavorando alle linee guida. Che non potranno evitare gli standard fissati dall’Oms nel 2010 (un documento che qualcuno ha definito un «manuale di corruzione dei minori»). E così, almeno per ora, la riforma sembra essere un’occasione mancata. «Non si occupa dell’educazione sessuale, ma solo di comportamenti deviati come il bullismo e le discriminazioni di genere. Insomma, affronta le questioni solo in negativo, tralasciando l’ambito più importante, quello dell’educazione alla sessualità e all’affettività. Che non è solo problemi: è crescere armonicamente, è saper scegliere e amare in maniera consapevole, è serenità nell’affrontare l’atto sessuale». Roberta Giommi, psicologa e psicoterapeuta dell’università di Firenze, dirige l’Istituto internazionale di sessuologia da cui escono gli operatori che poi vanno nelle scuole, ed è autrice di numerosi libri sull’educazione sessuale. È segretario della Federazione di sessuologia scientifica, interlocutore del Miur sulle varie proposte di legge sul tema che negli anni si sono succedute. «Abbiamo parlato con buona parte dei ministri dell’istruzione, da Jervolino a Berlinguer. Ci siamo confrontati sui contenuti, elaborato proposte, che puntualmente spariscono» dice. E l’Italia resta, sola in Europa, senza un quadro normativo di riferimento. Ce l’ha la cattolicissima Irlanda, per esempio, o il (pur riluttante) Portogallo. Eppure qualche progetto a scuola si fa... «Sì, ma tutto è lasciato alla buona volontà (e alle tasche) dei privati: scuole, insegnanti e genitori che all’inizio dell’anno scolastico progettano una serie di incontri, in qualche caso anche con Asl e consultori. Ma i soldi sono sempre pochi e ci sono Regioni che faticano». Il modello, a livello nazionale, è quello dell’Emilia Romagna, dove l’Asl porta avanti i corsi nelle scuole. Silvana Borsari coordina il progetto «Spazio giovani», attivo nei consultori. «Nel 2015 abbiamo attivato 104 corsi. La scuola decide se partecipare e sceglie il progetto», riassume. Lo scorso anno, sono stati coinvolti 40 mila studenti di medie e superiori e 2.800 adulti (genitori, insegnanti, educatori). Buona parte dei progetti sono stati svolti con la peer education : «Formiamo i ragazzi affinché siano loro a educare i coetanei». Altrove, per problemi di budget, l’impegno delle Asl e delle istituzioni scema; l’iniziativa è lasciata a prof e associazioni. Come «L’Ombelico» che, nelle scuole elementari di Milano, Como, Torino e Roma porta avanti progetti di educazione alla prevenzione della violenza sessuale sui bambini, con alunni delle elementari. «E le richieste di formazione aumentano, soprattutto da parte dei genitori dei bimbi più piccoli, fin dal nido», dice Stefania Girelli. E al Sud? «Il panorama non è confortante», dice Raffaella De Simone, ginecologa e consulente sessuale che ha sperimentato in due scuole medie di Ercolano (Na) quello che definisce il primo «progetto pilota» di educazione affettiva e sessuale di tutto il Meridione. Si chiama «Capire l’amore»: 11 incontri per parlare di educazione sessuale. «Mancano i concetti base: siamo dovuti partire da come si chiamano i genitali correttamente», dice la dottoressa. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 17 Lo sguardo di San Marco sui mosaici di Betlemme di Adriano Favaro Rimanda a Venezia il restauro della Basilica della Natività Si dovesse dare un titolo a questa impresa per il restauro della Basilica della Natività a Betlemme che ha il sapore di un'avventura da film archeologico dovrebbe essere "Il settimo angelo e la ricerca del pavimento di Sant'Elena". "Forse è proprio così - sorride Giammarco Piacenti, dall'alto del tetto della Basilica di San Marco dove comincia il colloquio - abbiamo cominciato un'impresa per noi incredibile, mai avremmo pensato di vincere un concorso internazionale per il restauro della basilica; piena di sorprese che

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potrebbe continuare". Camminando sui piombi del tetto, Piacenti, titolare con i fratelli della storica impresa di restauro di Prato, dialoga col proto di San Marco Marco Piana: dalle tecniche per il sostengo dei marmi che si infragiliscono ("usiamo fibra di carbonio e la ricopriamo con materiali simili a quelli usati per le creme solari" spiega l'architetto Piana), al lavori sul piombo , fino al riconoscimento del legno da restaurare (difficile sapere se si tratta di larice o abete ) i due esperti dialogano sui metodi degli interventi, sui chiodi in ferro e bronzo, sulle tecniche di recupero dei mosaici. Assistere al dialogo parallelo per la salvaguardia e il restauro è una specie di tuffo nella storia. "I mosaici della Basilica della Natività - spiega Piacenti - sono dovuti ai fermenti provocati dalle Crociate, mosaici contemporanei a quelli di San Marco". "E - aggiunge Piana - ad ogni foto che Piacenti ci ha mostrato troviamo tante tracce di un'antica koiné Mediterranea dei maestri mosaicisti, avevano spesso un linguaggio parallelo, riconoscibile". Il futuro della collaborazione che potrebbe nascere tra le esperienza secolari per il restauro nella Basilica d San Marco e la Chiesa della Natività potrebbe portare a grandi sorprese. " La nostra azienda, cinque generazioni di restauratori, attività in tutto il mondo, - spiega Giammarco Piacenti - ha vinto un appalto con 12 altri concorrenti internazionali: non ci credevamo. Abbiamo partecipato per restaurare il tetto che stava crollando e poi continuato per il resto dell'edificio che risale al 333 voluto da Sant'Elena e Costantino". La storia della basilica del Natività è come avvolta da una leggenda che parte dal nome di Betlemme: ("a casa del pane" in ebraico, luogo della fertilità"). L'edificio viene raso al suolo nella rivolta dei samaritani si salva il mosaico pavimento ancora da riscoprire. Viene ricostruito dall'imperatore Giustiniano nel VI secolo. Poi , nel 1479 Filippo III di Borgogna fa restaurare tutto dai veneziani che portarono legno e carpentieri mentre Enrico IV d'Inghilterra regala il piombo per il tetto . Un altro restauro dopo terremoto del 1834. "Noi siamo arrivati nel 2013 - spiega Piacenti - Mentre nel 2012 l'Unesco dichiara il sito patrimonio dell'Umanità su richiesta dello stato palestinese: il tetto stava proprio crollando. Cosi i soldi sono arrivavano dai ricchi palestinesi che vivono all'estero dall'Europa, dalle chiese. La basilica è legata al culto cristiano ortodosso e armeno ma anche siriaco e copto. E noi durante i lavori non potevamo disturbare nessuna cerimonia religiosa". Hanno operato di notte e giorno, una bomba è arrivata a 300 metri dalla basilica, qualche tensione si è percepita. "Adesso - conclude Piacenti - dopo che abbiamo recuperato il tetto (pioveva dentro e nessuno sapeva come intervenire perché devono essere d'accordo tutti i riti religiosi per poter fare un qualsiasi passo - utilizzando per il restauro il legno ritrovato dalle case antiche abbattute anche nel Veneto e portato qui. Per sostituire quello colpito dalla "carie", ma non abbiamo smontato niente del tetto. E dopo che abbiamo ripulito tutte le pareti dal fumo secolare delle candele ortodosse abbiamo trovato, nascosto da un intonaco un mosaico con un angelo scomparso: il settimo angelo - erano già sei quelli malamente visibili che indicavano la via della grotta ai fedeli. Ah, gli angeli sono stati tutti danneggiati dagli ottomani che hanno sparato ai nasi e alle orecchie. L'iconoclastia c'è sempre stata". L'operazione costerà alla fine 14 milioni e farò risplendere l'opera a mosaico di "Basilius pictor " ("nessun mosaico di san Marco invece è firmato" spiega Piana) durata dal 1162 al 1168. "Fra un paio d'anni - conclude Piacenti - il mondo potrà vedere il luogo che per tradizione conserva la grotta della natività di Cristo". E prima del saluto mostra una foto di un mosaico di Betlemme: "La colonna a fianco di San Pietro - dice - è uguale a quella che ho visto qui sotto, nella facciata della basilica di San Marco". Commovente. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Sposalizio e mercatini, assalto alla Sensa di Lorenzo Mayer Sancito il patto con Firenze. Nardella: “Lotta comune al degrado”. Prima volta di Brugnaro «Oggi si celebra il gemellaggio della Bellezza. Tra Venezia e Firenze nasce una collaborazione fondamentale ed importante a difesa della cultura e dell’identità contro il degrado e la massificazione». Nelle parole del sindaco di Firenze Dario Nardella, che per la prima volta ieri ha vissuto la festa della Sensa, si può sintetizzare tutto l’incanto di questa antica tradizione veneziana. Lo sposalizio di Venezia con il mare si è rinnovato ieri mattina nello specchio d’acqua antistante San Nicolò del Lido. Circa 500 rematori, a bordo di un centinaio d’imbarcazioni di voga alla veneta, hanno partecipato al corteo

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acqueo accompagnando il sindaco Luigi Brugnaro, alla sua prima Sensa, ed il Patriarca monsignor Francesco Moraglia. Lo stesso Patriarca ha partecipato con emozione ed ha cantato anche lui l’Inno di San Marco quando è stato celebrato simbolicamente lo sposalizio di Venezia con il mare con il lancio, nel tratto di laguna antistante San Nicolò del Lido, dell’anello nuziale. Poi dal pulpito in chiesa, presiedendo la messa, nell’omelia ha pronunciato un monito significativo invitando i cristiani all’impegno nella costruzione della vita civile e della società. Entusiasta della giornata, il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, accompagnato dal prosindaco del Lido Paolo Romor e dagli assessori comunali Michele Zuin e Paola Mar. La giornata odierna vuole essere un segnale di rilancio per tutto il Lido - ha sottolineato il sindaco Brugnaro - per questo abbiamo puntato al coinvolgimento dell’intera isola e dei lidensi con varie iniziative collaterali tra cui quella dell’apertura delle spiagge. Questa Sensa infatti deve essere non solo un richiamo alla tradizione passata ma anche un’occasione per guardare al futuro». Dal canto suo anche l’amministratore unico di Vela, Piero Rosa Salva, braccio operativo del Comune di Venezia per l’organizzazione della festa ha promosso a pieni voti la nuova formula dell’evento voluta da Brugnaro. «L’arricchimento del programma – ha commentato Rosa Salva – è stato una scelta vincente ed ha contribuito a rendere questa edizione la più bella e riuscita di sempre». Migliaia di persone hanno visitato nei due giorni di sabato e domenica, il tradizionale mercatino della Sensa con oltre sessanta espositori, grazie alla Pro Loco Lido-Pellestrina, presieduta da Michela Salmasi, che ha coordinato le iniziative collaterali insieme al Comitato promotore della Festa della Sensa, presieduto dall’avvocato Giorgio Suppiej. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 8 maggio 2016 Pag XXX Ora il centro rischia il sequestro di G.Bab. Jesolo: reazioni contrastanti dopo il “blitz” degli islamici nella sede ancora priva di agibilità Jesolo - Centro culturale islamico usato senza agibilità, in città cresce la tensione. Almeno a livello politico. Ma dopo la sanzione amministrativa nei prossimi giorni non sono esclusi ulteriori provvedimenti, compreso il sequestro dell'immobile. Contrariamente a quanto detto nei giorni scorsi una cinquantina di fedeli musulmani sono entrati nella sede di via Aquileia per pregare, violando così le norme urbanistiche vista l'assenza del certificato di agibilità, ma anche la normativa che identifica quel centro solo come sede culturale e non come centro di preghiera. Per questo nelle prossime ore scatteranno ulteriori accertamenti. Dura la condanna dei consiglieri della Lega Nord Alberto Carli e Giorgio Pomiato: «Dispiace apprendere che la linea moderata ha ceduto il passo a chi voleva ad ogni costo entrare nell'edificio per creare una provocazione e, di fatto, commettere un abuso - dicono - Utilizzare la struttura senza avere l'agibilità significa mettere a rischio l'incolumità delle persone stesse. Verificheremo cosa è stato rilevato dal controllo effettuato, se ci sono i presupposti per considerare l'attività non meramente culturale ma di culto e soprattutto che siano messe in campo tutte le misure necessarie ad impedire il reiterarsi dell'abuso». Sulla stessa lunghezza d'onda Christofer De Zotti e Lucas Pavanetto di Jesolo Bene Comune: «Spiace che queste polemiche nascano sempre in prossimità della stagione estiva - dicono - forse qualcuno cerca un po’ di visibilità, ma a rimetterci è l'immagine della città. Se questi signori vogliono aprire un luogo di culto che inizino pure l'iter amministrativo, trovando luoghi e locali adatti e che non ci si nasconda dietro ad associazioni culturali». A difendere la comunità islamica, come sempre, è Salvatore Esposito di Sinistra Italiana che annuncia una manifestazione di protesta e azioni legali. «Purtroppo qualcuno ha scelto di scavare un profondo solco tra due culture che da decenni convivono pacificamente - attacca - le migliaia di persone di credo islamico, utilizzate come braccia indispensabili per l'economia locale devono battersi per vedere riconosciuto un loro fondamentale diritto garantito dalla Costituzione Italiana. Organizzeremo a breve una manifestazione, anche a costo di fare delle "passeggiate di protesta", come fatto in passato da alcuni consiglieri di opposizione». Pag XXXIX Siamo pronti ad accogliere a Jesolo milioni di persone e di qualsiasi fede religiosa (intervento del sindaco Valerio Zoggia)

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Il nostro Paese è uno più democratici al mondo. Si fonda su principi fondamentali a partire dalla libertà di professare la proprio religione pacificamente. Su questo aspetto credo che siamo tutti d’accordo, tranne qualche esagitato che, per fini oscuri o di becera propaganda, crea problemi solo per una visibilità distorta. Ogni cittadino che vuole fare parte della comunità, però, è tenuto al rispetto delle leggi e al rispetto delle libertà altrui. A Jesolo, come a Roma, Milano, Palermo etc. Chi viola le leggi in un Paese democratico paga le conseguenze previste dal nostro codice. La quasi totalità dei cittadini che vivono nel nostro Paese lo fanno. In queste ore molti stanno celebrando la nomina del nuovo sindaco di Londra specificando la sua fede religiosa. Io non so quale fosse la fede religiosa del sindaco uscente e non credo che questo aspetto sia stato determinante per il nuovo primo cittadino della capitale inglese. Credo, invece, che sia stato il suo programma a convincere i londinesi nella scelta. Tornando a Jesolo, si sta ingigantendo una vicenda che riguarda alcune decine di cittadini di religione musulmana. In pratica vorrebbero trasformare un edificio dove svolgere attività culturali in moschea, in un luogo dove poter pregare. L’edificio, però, non è una moschea e nel rispetto della legge non si può usare tale edificio per la preghiera. Ho il dovere di far rispettare le norme come primo cittadino e questo mi pare una cosa ovvia. Meno ovvia, al contrario, mi sembra la speculazione politica di alcuni sedicenti militanti che per squallide convenienze elettorali cavalcano la vicenda. A Jesolo non sta accadendo nulla di così grave, se non fosse che un fatto del genere crei un interesse quasi morboso. Come sempre ci prepariamo alla stagione estiva con estrema fiducia, serenità e con le strutture ricettive all’altezza della situazione. Nonostante tutto quindi siamo pronti a ricevere milioni di persone come ogni anno. Di qualsiasi fede religiosa. Ci hanno provato qualche settimana fa a rovinare la stagione con notizie tendenziose e false, sfruttando la paura del terrorismo. L’ho trovato di cattivo gusto e sono ancora più convinto che puntare sulla paura per instillare il disagio non è comportamento consono ad un essere umano. Jesolo è località di accoglienza con servizi da primato e il mondo ce lo riconosce oltre che i motori di ricerca specializzati, che proprio qualche giorno fa ci hanno premiato come località balneare più cliccata dagli italiani. Su questo puntiamo e su questo andremo avanti, anche nel garantire la libertà di professare la propria religione nel rispetto delle leggi del nostro Paese. LA NUOVA di domenica 8 maggio 2016 Pag 41 Centro di preghiera islamico, si preparano i sigilli di chiusura di Giovanni Cagnassi Jesolo: domani il sindaco Zoggia incontrerà il comandante della Polizia locale per studiare il piano Jesolo. Centro preghiera, dopo l’irruzione della comunità islamica nei locali di via Aquileia 192, si preparano i sigilli. Domani un incontro tra il sindaco, Valerio Zoggia, e il comandante della polizia locale, Claudio Vanin. Per prevenire altri ingressi non autorizzati in assenza dell’agibilità, il Comune potrebbe sequestrare l’immobile e porre fine a questa intricata vicenda che sta accendendo il dibattito al lido. A esemplificare la linea del Comune, il capogruppo di maggioranza, Alessandro Perazzolo: «Le regole devono essere rispettate da tutti, se non è consentito l’ accesso ai locali per mancanza di permessi, questi devono rimanere fuori punto e basta, finche non sarà tutto in regola». Una linguaggio duro, a tratti estremo, per la solitamente moderata lista civica Tutti per Jesolo. Ma la battaglia è adesso stata annunciata e il sindaco non teme reazioni di sorta: «Decideremo domani, per il resto la comunità o chi altri potranno fare ciò che desiderano. Il punto dirimente è che le leggi vanno rispettate e in quei locali per il momento non c’è agibilità. Quando questa sarà rilasciata come richiesto, se vi saranno le condizioni, non si potrà pregare come vieta la legge regionale in questa area urbana». Sinistra, con Salvatore Esposito, si schiera con la comunità e annuncia manifestazioni eclatanti. «Purtroppo qualcuno ha scelto di scavare un profondo solco tra due culture che da decenni convivono pacificamente sul suolo jesolano», dice, «le migliaia di persone di credo islamico, utilizzate come braccia indispensabili ed insostituibili nel mantenimento e nello sviluppo dell’economia locale, devono battersi per vedere riconosciuto un loro fondamentale diritto garantito dalla Costituzione. La dichiarazione

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rilasciata dal sindaco Zoggia giorni fa in cui lo stesso dichiara che il ventilato certificato di agibilità non dà diritto di pregare, è una occasione persa sulla strada della civile convivenza tra culture diverse. Si è scelta la rottura alla naturale collaborazione. Sullo specifico avvocati, da domani, studieranno approfonditamente il problema delle agibilità. È per tale motivo che ci riserviamo di organizzare al più presto una grande dimostrazione a Jesolo per il rispetto dei diritti civili delle persone. Contattiamo immediatamente le organizzazioni delle etnie presenti in zona affinché, nel più breve tempo possibile, si dia vita ad una manifestazione che sia di richiamo a coloro che hanno, a nostro avviso, deciso di intraprendere una strada senza uscita. Organizzerò anche una ’’passeggiata di protesta’’ ogni domenica sera in vari punti di via Bafile. La legge», conclude Esposito». IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 7 maggio 2016 Pag VI “I libri gender? Mai ritirati da scuola” di Giorgia Pradolin Camilla Seibezzi: “Comune assente”. E la Chiesa Valdese organizza una veglia e un gruppo “arcobaleno” I libri di favole gender in realtà non sono mai stati ritirati dalle scuole. La notizia è emersa all'incontro "L'arcobaleno all'improvviso" giovedì sera alla Toletta dei Calegheri a San Tomà, un tavolo che ha affrontato problematiche e difficoltà di genitori omosessuali e transessuali, il secondo di sette eventi in Italia realizzati dalla Rete Genitori Rainbow (genitori lgbt con figli da precedenti relazioni eterosessuali) con i ricavi dell'8 per mille alla chiesa Valdese. E nel corso dell'incontro veneziano che ha visto anche letture narrative sul tema a cura dell'autrice Anna Toscano, l'ex consigliera comunale con delega alle Pari opportunità Camilla Seibezzi ha dichiarato: «A Venezia è stata fatta molta propaganda, anche "urlata" ma tutti i libri di favole contro le discriminazioni in realtà sono ancora nelle scuole, me lo confermano le maestre, nessuno titolo escluso. In alcune biblioteche invece non erano mai arrivati, ma quelli che erano sugli scaffali sono ancora lì, utilizzati e visibili tutt'oggi». Piccola parentesi che ha fatto sorridere il pubblico, a cui successivamente, a margine dell'incontro, è seguito il commento: «Vi è una latitanza totale del Comune nella lotta alle discriminazioni - ha ripreso Seibezzi - nel senso che dalla scorsa legislatura non è stato fatto più nulla, né sta uscendo nulla sul tema. Continuiamo la nostra battaglia con una serie di progetti ed iniziative che partono da Venezia». La tavola ha visto l'introduzione della coordinatrice Cecilia d'Avos, i saluti della Municipalità di Venezia portati da Anna Messinis, l'intervento della psicoterapeuta Chiara Baiamonte, docente all'Università di Ferrara, che ha spiegato la difficoltà nell'affrontare e superare certi pregiudizi sui genitori gay e lesbiche «manifestati o interiorizzati», la testimonianza dell'avvocato Patrizia Fiore che ha ricordato cosa prevede la Costituzione e le difficoltà giurisdizionali, come nei casi di affidamento e tutela dei minori, le conclusioni del pastore della Chiesa Evangelica Valdese e Metodista di Venezia Caterina Griffante che ha annunciato la nascita di un gruppo "arcobaleno" e una veglia a Venezia il 28 maggio contro l'omofobia organizzata dalla chiesa Valdese dal titolo "Percorsi d'amore verso il riconoscimento pieno del diritto d'amare". Pag IX Favaro, la Madonna ritrova il suo capitello di mau.d.l. La struttura era stata distrutta da un camion, ora in sicurezza dalla parte opposta della strada A Favaro si augurano che la statua della Madonna abbia finalmente trovato una collocazione sicura. Ebbene sì, perché il capitello nel quale è stata custodita fino a poco tempo fa, in prossimità dell'incrocio tra le vie Cà Solaro e Altinia, è stato più volte centrato negli ultimi tempi dai camion in transito, l'ultimo dei quali, un paio d'anni fa, l'ha quasi distrutto. Ora, però, il parroco della chiesa di Sant'Andrea, Don Michele Somma, ha messo a disposizione una parte del terreno della sua parrocchia, l'architetto Dario Lugato ha predisposto il progetto, la ditta «Dorica costruzione» ha messo la manodopera, i volontari della Festa di Maggio hanno raccolto i fondi, e così, nell'angolo della strada opposto a quello dov'era il precedente capitello, è sorto quello nuovo che dovrà ospitare la statua della Madonna che fu fatta porre in quel posto dai componenti di una famiglia di Favaro, sul finire del 1800, in segno di ringraziamento per essere

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scampati a un incidente provocato dalle bizzarrie del cavallo che trainava il carro che li stava trasportando. Giovedì una ditta specializzata ha trasferito i pezzi di muro rimasti del vecchio capitello all'interno di quello nuovo, affinché rimanga vivo il ricordo della vecchia struttura, e nelle prossime settimane l’opera votiva verrà completata con la realizzazione di piedistallo e teca. Pag XI Xenofobi contro la Caritas di Alvise Sperandio Via Querini: volantini anti-immigrati affissi ai cancelli dal Fronte Skinheads. Colpite nella notte anche le sedi del Pd della città e della provincia Era già successo sei mesi fa, si è ripetuto l'altra notte. Alcuni volantini contro gli immigrati sono comparsi ieri, di prima mattina, sul cancello degli uffici della Caritas di via Querini, della sezione comunale del Partito democratico in via Cecchini e di un'altra dozzina di sedi del partito presenti in città ma anche in provincia: a Mestre "in via Tripaldi" (ma non esiste) e in via Bissuola, a Chirignago, Marghera, Martellago, Tessera, Campalto, San Donà di Piave, Portogruaro e Fossalta. Come l'altra volta, l'azione è stata rivendicata dalla sedicente associazione culturale "Veneto Fronte Skinheads" che nel corso della giornata ha diffuso un comunicato diffuso da Lonigo, in cui si legge: «Le istituzioni, ammantate di filantropismo interessato, lavorano incessantemente per favorire l'immigrazione clandestina, mediaticamente travestita da crisi umanitaria, un'integrazione forzata che all'atto pratico rimane un totale fallimento, nonché un triste e masochistico processo di cancellazione della nostra identità, cultura e tradizione». Un attacco preciso è stato rivolto alla Caritas accusata di lucrare sui vestiti per i poveri ricevuti in dono tramite i contenitori presenti in città. In via Querini, i volantini sono stati scoperti dai volontari della San Vincenzo che a Ca’ Letizia, dalle 6.30, offrono la colazione ai senza fissa dimora. Sul posto è subito intervenuta la Polizia con le volanti e la Digos. Mentre il direttore dell'ente caritativo della diocesi Stefano Enzo ha preferito non commentare, il vicario episcopale monsignor Dino Pisolato nel pomeriggio ha detto: «Le dichiarazioni che sono state veicolate lasciano il tempo che trovano. Rischiano soltanto di alimentare la conflittualità tra gli italiani di nascita e i nuovi italiani, i rifugiati e i richiedenti asilo per ragioni umanitarie. Ciò che questi signori vanno dicendo, denota se non altro una scarsa conoscenza e una grave forma di pregiudizio. Il nostro lavoro è ogni giorno orientato ad aiutare chi ha bisogno: nel caso degli immigrati non c'è alcun lucro, anzi spesso addirittura ci rimettiamo a fronte della necessità di anticipare le risorse che servono che vengono rimborsate dallo Stato con molto ritardo e anche quando il finanziamento è terminato le nostre strutture e i nostri operatori non cessano il percorso di accompagnamento». Anche il presidente della San Vincenzo mestrina, Stefano Bozzi, parla di «massima trasparenza in ciò che facciamo». Sui componenti del "Veneto Fronte Skinheads", già identificati sei mesi fa, sono in corso indagini da parte delle forze dell'ordine. Pag XXII Manca l’agibilità, entrano lo stesso di Giuseppe Babbo Jesolo: una cinquantina di musulmani viola il divieto e accede nel nuovo centro culturale islamico Questa volta senza alcun annuncio pubblico sono entrati. Quasi di soppiatto, un paio per volta con una «vedetta» all'ingresso pronta ad aprire e chiudere la porta in pochi secondi. Centro culturale islamico, dopo due dietrofront la comunità islamica ieri mattina ha fatto ingresso nella propria sede di via Aquileia nonostante l'assenza di agibilità dei locali. Non c'erano le 200 persone che si sono viste due settimane fa, ma circa una cinquantina di fedeli che dopo i tentativi andati a vuoto delle scorse settimane evidentemente si sono dati appuntamento ancora una volta per provare l'irruzione e rispettare così il rito della preghiera collettiva del venerdì. Una scelta che ha spiazzato, e non poco, chi abita e lavora nella zona. Anche perché responsabili della comunità islamica avevano ribadito che nessuno sarebbe entrato senza agibilità. Un intento che ieri però è stato disatteso, seppur da una minima parte dei cittadini musulmani. Per questo attorno alle 13, assieme ai fedeli che entravano nella sede, è arrivata anche una pattuglia della Polizia locale, anche perché dal Comando era stato programmato un controllo in quella zona. Gli agenti sono entrati a loro volta nel centro culturale

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constatando la presenza di circa una cinquantina di persone che a quanto pare stavano per dare vita alla preghiera del venerdì. Immediatamente tutte le persone sono state fatte uscire mentre chi stava per entrare si è allontanato velocemente. Quindi sono stati avviati gli accertamenti di legge che culmineranno con una sanzione amministrativa di circa 200 euro visto per l'assenza del certificato di agibilità. Parallelamente non è escluso che nelle prossime ore possano partire anche altre indagini per accertare quanto stava accadendo all'interno visto che a livello legale, in quella sede, gli islamici una volta ottenuta l'agibilità potranno trovarsi, discutere, promuovere la loro cultura ma non pregare. «Aspettiamo di leggere la relazione dei nostri agenti - ha commentato il sindaco Valerio Zoggia - anche per capire cosa stava accadendo realmente all'interno di quell'immobile. Quindi saranno valutati i provvedimenti del caso». Pag XXIV L’Iraq di don Giorgio di r.cop. Caorle - Si intitola «Nel cuore di un mondo in guerra» il convegno, promosso dal Lions Club Caorle, che si terrà martedì 10 maggio, alle 20.30, nel monastero del Marango di Caorle. L'appuntamento, dedicato alla tragica guerra in Iraq, avrà per relatore don Giorgio Scatto, priore della comunità monastica di Marango oltre che parroco della piccola frazione, reduce dal suo terzo viaggio nel Kurdistan Iracheno. Il primo viaggio di don Giorgio Scatto risale all'aprile 2013, quando raggiunse la Piana di Ninive. Il secondo, nel marzo 2015, fu a Erbil, per visitare i cristiani raccolti nei campi profughi dopo la fuga da Mosul (il 6 agosto 2013, e quindi ormai da 22 mesi). Il terzo lo ha visto tornare in Iraq tra il 13 e il 21 aprile scorso. LA NUOVA di sabato 7 maggio 2016 Pag 19 Libri arcobaleno, via dalla materne 15 su 49 di Vera Mantengoli Seibezzi attacca la giunta Brugnaro. L’assessore Venturini: “Ma nelle biblioteche ci sono” «Siamo piccoli ma cresceremo». È questo il nome del gruppo arcobaleno contro le discriminazioni nato da poco anche a Venezia. Lo ha annunciato giovedì pomeriggio la pastora Cristina Griffante, in occasione dell’incontro promosso dalla Chiesa Valdese “Storie di genitori rainbow”, avvenuto alla Scoletta dei Calegheri con Camilla Seibezzi dell’associazione Alfabeti Emotivi, la Rete Genitori Rainbow e diverse personalità del mondo della legge e degli studi psicologici. Quello dei genitori omosessuali è un tema che ha più volte acceso gli animi della cittadinanza, toccando l’apice con il caso dei libri per bambini sulle diverse tipologie di famiglia introdotti nelle scuole materne dall’allora consigliera Camilla Seibezzi. Il sindaco Luigi Brugnaro si era opposto in particolare a due titoli e aveva avvisato che avrebbe fatto sottoporre i libri a una commissione psicopedagogica. «Su 49 ne hanno tolti 15 dalle materne» ha detto l’assessore Simone Venturini, lanciando un duro attacco a Seibezzi «I libri sono comunque tutti disponibili nelle biblioteche decentrate e pedagogiche. Così si chiude l’affaire Seibezzi che li aveva acquistati senza interpellare nessuno». Seibezzi sostiene invece che i libri erano stati visionati, che non è vero che sono presenti in tutte le biblioteche e le motivazioni della commissione. La lotta alle discriminazioni per il proprio orientamento sessuale è di grande attualità. Il filo conduttore dell’incontro è stato infatti il concetto di genitorialità e di pregiudizio, a partire da un breve excursus giuridico illustrato dall’avvocato Patrizia Fiore che ha spiegato come i figli, per esempio nelle cause di separazione, inizialmente venivano considerati proprietà del padre (patria potestà), per poi passare sotto la responsabilità di entrambi i genitori con la «potestà genitoriale». Ultimamente la legge ha posto invece l’accento su chi effettivamente si occupa del minore. La psicoterapeuta Chiara Baiamonte ha ribadito che c’è una ricca produzione di ricerche scientifiche (pubblicate per esempio su «Infanzia e Adolescenza») che attesta che i figli che crescono nelle famiglie rainbow non hanno nessun problema. Quando si è davvero un buon genitore? «Non è proprio rilevante l’orientamento sessuale per un minore» ha detto Seibezzi che porterà sul territorio più iniziative collegate a livello nazionale «ma come ci si prende cura di lui perché la capacità genitoriale è la capacità soggettiva di amare».

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Pag 34 Centro di preghiera occupato, gli islamici non aspettano più di Giovanni Cagnassi Jesolo: in cinquanta sono entrarti per pregare nello stabile di via Aquileia ancora senza agibilità Jesolo. Dopo due tentativi e le rinunce, ieri la comunità islamica è entrata nel centro culturale di via Aquileia 192. In assenza dell’agibilità è scattata la sanzione amministrativa prevista, circa 300 euro, ma soprattutto divamperanno le polemiche finora sopite dal fatto che gli islamici avevano detto di attendere il provvedimento prima di entrare. Ieri, intorno alle 13, sono entrati, in tutto una cinquantina, e hanno pregato, contravvenendo dunque alle normative urbanistiche che indicano il luogo come un centro culturale e non di preghiera, con diversa destinazione. Saranno effettuati tutti gli accertamenti del caso e il sindaco, Valerio Zoggia, attende una relazione da parte della polizia locale. Un centro di preghiera, anche se non proprio una moschea, è contro la legge regionale che le vieta in aree centrali. La comunità non ha espresso commenti, si è limitata a entrare facendo prevalere l’ala oltranzista che non voleva mediare. La Sinistra, che ha sempre preso le loro difese, è perplessa con Salvatore Esposito. «Speriamo che questo episodio», commenta, «frutto di una situazione che si è trascinata per troppo tempo, possa offrire l’occasione per un dibattito sui diritti civili e la libertà di culto. Resta la nostra lotta contro la legge regionale antimoschee». Proprio ieri era stata postata un’immagine curiosa su un profilo Facebook che ha scatenato le reazioni di Sinistra sul tema delle proteste delle minoranze e le occupazioni. Il fatto, l’occupazione per protesta di via Bafile da parte dell’opposizione, accaduto ai primi di giugno del 2015 per protestare contro la mancata pedonalizzazione, sta accendendo il dibattito dopo i fatti di via Aquileia. «Questo dimostra», attacca Esposito, «come a Jesolo sia possibile adottare due pesi e due misure. Il tutto in base alla nazionalità. Immaginiamo se la strada del lido fosse stata occupata, anche solo per pochi minuti, dagli islamici jesolani». Quella sera si erano dati appuntamento vari esponenti della minoranza, tra cui Daniele Bison, Renato Martin, Christofer De Zotti. Era arrivato anche l’ex sindaco, Francesco Calzavara. Una tema caldo già lo scorso anno, quando si chiedeva con gran forza una diversa organizzazione della pedonalizzazione lungo via Bafile. I soliti ritardi nell’istituire la zona a traffico limitato avevano comportato questa dimostrazione, ripresa in rete. Ora i manifestanti rispondono sorridendo: «Ma quali due pesi e due misure. Forse Esposito non sa distinguere tra un’occupazione e quella che era una semplice passeggiata di protesta». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO di domenica 8 maggio 2016 Pag 1 Fiducia nel capitale sociale di Stefano Allievi Verso le urne Tra meno di un mese molti comuni andranno ad elezioni. Ed è tutto un fiorire di liste, iniziative, candidati sindaci. In tempi di crisi della politica e di sua reputazione ai minimi storici, forse non è ozioso domandarsi perché. Cosa spinge tante persone ad occuparsi della cosa pubblica, in un momento storico in cui le difficoltà sono maggiori, i vincoli di bilancio pure, i rischi anche (incluso di sbagliare e di finire sotto processo), e le gratificazioni decisamente minori che in passato, dato che è più facile che le persone oggi parlino male dei propri rappresentanti anziché rispettarli? All’ingrosso, abbiamo di fronte due tipologie assai diverse. La prima è quella di chi si candida per ottenere un po’ di visibilità (quel quarto d’ora di celebrità che ormai non si nega più a nessuno: basta una dichiarazione fuori dalle righe, a cui segue una comparsata in tv), per semplice vanità, talvolta per incapacità di valutare i propri limiti, a seguito di quella presunzione che le proprie opinioni siano il centro del mondo che ha fatto il successo di facebook. A questi vanno aggiunti coloro che si candidano per pura e semplice sete di potere, per non saper fare altrimenti: chi insegue l’ennesimo mandato, chi si propone per un diverso ruolo, dopo aver assaggiato il potere ad un livello inferiore, i politici di professione,

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insomma, che troviamo in scala minore un po’ ovunque, dalle associazioni culturali e sportive ai gruppi di volontariato fino ai partiti e ai movimenti politici. Sono coloro che inseguono la politica, e più concretamente il potere, per quello che può dare a loro, per ciò che da esso possono prendere, guadagnare, lucrare: talvolta lecitamente, altre meno. Sono quelli che, come diceva Max Weber, vivono della politica. A fronte di costoro c’è un’ampia categoria di persone che si impegna perché ha voglia di darsi, di progettare, di migliorare le cose, di misurarsi con i problemi, di risolverli, di lasciarsi coinvolgere, di capirne di più, di porsi in relazione con gli altri, e anche, legittimamente, di mettersi alla prova, di lasciare la propria impronta, il proprio personale segno sull’evolversi degli avvenimenti, determinandoli anziché esserne determinati. Per usare ancora le parole di Weber, sono quelli che vivono per la politica. Che ad essa danno più di quanto prendono, o per lo meno compensano l’impegno non con il denaro ma con altri tipi di gratificazione, relazionali e simboliche. Dovremmo rifletterci un po’ di più, su questa spinta, che ci dice qualcosa di molto concreto sulle attitudini dell’uomo come animale sociale, naturalmente e culturalmente spinto a coinvolgersi. Perché ne ha bisogno, certo: perché da solo, in natura, non sopravvivrebbe. Ma anche perché lo desidera e ne è gratificato. E’ una ricchezza, un capitale (sociale, culturale, relazionale, appunto) di cui spesso dimentichiamo il valore, e di cui dovremmo fare tesoro. E’ quel che ci spinge a dare fiducia agli altri a dispetto dei rischi: e la nostra società si basa innanzitutto su un atto fiduciario (non a caso anche nel linguaggio economico esso è implicito: il fido, il fiduciario, la fidejussione, tutti derivati dal verbo fidere, dall’atto di aver fede) . Il che ci dice anche qualcosa sul ruolo che hanno ancora le aggregazioni culturali, e tra queste le religioni, nel re-ligare, appunto, nel tenere insieme, legata, lo società, come già aveva intuito Durkheim. C’è quindi un capitale da valorizzare, e un insegnamento da cogliere. In fondo, anche l’emergere della sharing economy e della sharing society, i siti e le app che favoriscono forme di condivisione e di socializzazione (di un pranzo, un viaggio, una notte in una casa altrui: ma tutta la new economy è fondata sul principio della condivisione, a cominciare dalle piattaforme che ci mettono in connessione) esprimono, per certi versi, lo stesso desiderio di apertura e di fiducia, e la disponibilità a darla. C’è voglia e bisogno di fiducia e di relazioni, anche a dispetto delle diversità, e forse ancora di più oggi che le differenze, in una società plurale, sono più accentuate. In questi giorni ha fatto notizia il fatto che Sadiq Khan, un musulmano, sia diventato sindaco di Londra. Ma la notizia vera è un’altra: che i londinesi cercavano un sindaco, e hanno votato quello che a loro sembrava migliore, a dispetto delle differenze religiose, etniche, culturali. Sottolineando invece le somiglianze tra loro. IL GAZZETTINO di domenica 8 maggio 2016 Pag 8 Un selfie con il treno in arrivo, l’ultima folle moda dei giovani di Lorenza Levorato Parla un capotreno: “Le persone sui binari sono il nostro incubo” Il fischio insistente del treno in lontananza. E sui binari quattro ragazzini che si fanno fotografare. È accaduto venerdì pomeriggio lungo i binari che collegano Padova con Bassano del Grappa, ai confini tra i Comuni di Loreggia (Pd) e Castelfranco Veneto (Tv) dove un gruppetto di quattro ragazzi è stato avvistato mentre si scattavano foto sui binari, con il treno in arrivo. Si sono messi in posa, con i piedi sulle rotaie, sprezzanti del fischio del treno in lontananza, per farsi riprendere da altri amici che erano con loro. Una folle moda che ha già provocato giovani vittime. A segnalare l'episodio sono state alcune persone che in quel momento si trovavano all'interno dell'agriturismo Dal Moro, che sono corse fuori attirate proprio dal rumore del fischio insistente del treno in quel tratto dove non ci sono stazioni ne passaggi a livello e dunque di norma i treni non fischiano. «Posso assicurare che fischiava di brutto per quello mi sono accorta che erano sui binari», spiega R.T., una donna che ha scritto un post sulla sua pagina facebook lanciando così l'allarme. «Faccio un appello ai genitori dei ragazzetti di Loreggiola - prosegue la donna - controllate cellulari e macchine fotografiche perché nel tardo pomeriggio di venerdì sui binari vicino all'Agriturismo dal Moro si facevano i selfie con il treno in arrivo. Non voglio immaginare la paura del capotreno». La notizia ha immediatamente scatenato un tam-tam di commenti e preoccupazione tra i genitori e tra post lasciati è addirittura saltata fuori proprio la foto scattata che ritrae due ragazzi

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fermi sui binari mentre mimano gesti volgari con le mani. La foto è stata probabilmente scoperta da qualche genitore che, allarmato, ha guardato tra i profili degli amici dei propri figli. E alcuni dei ragazzi sarebbero stati già riconosciuti. «Uno dei due abita proprio a Loreggiola - dice F.G. - ho contattato alcuni genitori e sto aspettando un riscontro. Oltretutto dopo questa stupidaggine, mettono anche i post per farsi vedere e vantarsi». E sembra dilagare tra i giovanissimi l'incosciente e stupida moda delle foto fatte sulle rotaie. L'ultimo episodio è accaduto solo due giorni fa a Chioggia, quando il macchinista del treno in transito lungo il binario della linea per Rovigo ha visto un gruppo di ragazzi che si facevano i selfie sui binari; la polizia locale ne ha individuati quattro. Un gioco idiota sempre più diffuso. Un anno fa, la polizia ferroviaria di Ostiglia (Mantova) aveva scoperto, esplorando i social, un gruppo di 16 adolescenti che si erano fatti fotografare in mezzo ai binari con i treni in arrivo. Da lì in poi una serie di segnalazioni e tanto di immagini postate in internet per documentare le imprese. A inizio aprile a Spinea un gruppo di ciclisti che passavano per la stazione ha segnalato la presenza di quattro ragazzini, tutti dell’apparente età di 11-12 anni, sdraiati sui binari. E alle bravate si possono aggiungere fatali disattenzioni: il 21 aprile a Milano una ragazza di 18 anni è stata travolta da un treno mentre attraversava i binari ascoltando musica con le cuffie. Non aveva sentito l’arrivo del convoglio e l’insistente fischio di allarme. Venezia - «Le persone lungo i binari sono il nostro incubo. Le vediamo in lontananza e subito scatta la paura: un aspirante suicida, un incosciente o solo qualcuno che sta per spostarsi? Sono momenti terribili». Parla un capotreno con anni di esperienza alle spalle sulle linee ferroviarie venete, e dalle sue parole traspare l’impotenza di chi si trova alla guida di un siluro che viaggia a una media di cento chilometri all’ora: «In condizioni normali la visibilità è di oltre il chilometro e mezzo: se si vede qualcosa di anomalo c’è il tempo per rallentare ed eventualmente frenare. Per bloccare un convoglio ci voglio 3-400 metri, inchiodando. Ma sono frazioni di secondo nelle quali devi decidere. Ovvio che nel dubbio si frena. Il peggio è quando la sagoma sbuca all’ultimo momento e ti rendi conto di non avere il tempo di evitare l’impatto: sono situazioni agghiaccianti che non auguro a nessuno di vivere». Il fenomeno dei selfie lungo i binari - per fortuna - pare essere molto circoscritto. «Abbiano una chat Whatsapp che usiamo per comunicarci informazioni utili tra noi ferrovieri, ma segnalazioni di questo tipo non ne ho ricevute. Invece si ripetono i casi di sassi messi sulle rotaie. Purtroppo capita spesso e si tratta sempre di "bravate" di qualche gruppo di ragazzi. Vorrei lanciare un appello a questi giovani: non fare sciocchezze del genere è molto pericolo per voi, perché sui binari è facile confondersi sull’arrivo del treno, ma soprattutto "scherzi" di questo tipo, mettono a rischio la vita di centinaia di persone». IL GAZZETTINO di sabato 7 maggio 2016 Pag 13 Bicicletta e sacrifici: la laurea di Benjamin, operaio modello di Alessandro Comin Arrivato dal Ghana, “adottato” dai colleghi, ha studiato senza perdere un giorno di lavoro Lavoro e studio, studio e lavoro. Chilometri e chilometri in bicicletta, da Loreggia (Padova) a Castello di Godego (Treviso), a Castelfranco Veneto e ritorno, ogni giorno. Con qualsiasi tempo, in qualsiasi stagione. Senza mai mancare in fabbrica e senza arrendersi mai, nemmeno quando ha scoperto che in Italia il suo diploma di scuola superiore non era valido e ha dovuto rifarlo. Adesso Benjamin Gyedu, 26 anni, del Ghana, è dottore in Economia Aziendale. Ma non ha intenzione di fermarsi: dopo quella a Ca’ Foscari, "ripartirà" per la laurea specialistica. C’è da sfruttare il computerino nuovo avuto in regalo dal datore di lavoro e dai colleghi. Perché l’altra metà di questa meravigliosa storia di volontà e integrazione è una piccola azienda del Nordest che lo ha "adottato". E il giorno della laurea, senza che lui lo sapesse, ha chiuso il capannone, lo ha addobbato di fiocchi rossi e si è trasferita in massa in Piazza San Marco a Venezia per festeggiarlo come si deve. Gyedu ha lasciato il Ghana da adolescente, a malincuore, per raggiungere in Veneto il padre che non ce la faceva a mantenere da solo la famiglia. Ha passato gli ultimi dieci anni sui libri, lavorando come operaio di giorno e studiando in ogni momento libero, nelle pause pranzo, di sera, di notte, anticipando o posticipando turni pur di non mancare al lavoro. «Credo di aver dormito sì e no tre ore per notte

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l’ultimo anno – racconta – ma ce l’ho fatta». Una laurea a cui Ben, come lo chiamano i colleghi alla Santi srl di Castello di Godego, che realizza astucci per occhiali, è arrivato dopo aver bruciato le tappe alle scuole serali per stranieri. Non valendo in Italia i suoi titoli di studio, ha infatti ricominciato tutto da capo tra Castelfranco e Camposampiero, dalla terza media al diploma di ragioneria in poco più di tre anni. Lì è nata la decisione di proseguire fino alla laurea, sempre lavorando. «Non è stata facile l’Università, specialmente l’ultimo periodo. Avevo poco tempo per studiare, ero stanco, ho avuto difficoltà a trovare chi mi facesse fare lo stage richiesto, ma alla fine mi sono laureato prima di altri compagni di corso che non lavorano. I miei connazionali, che in Veneto non sempre sono stati trattati bene, mi avevano in principio scoraggiato, dicendomi che il colore della pelle non mi avrebbe permesso di andare lontano – continua Benjamin – invece le persone che ho avuto la fortuna di incontrare nel mio cammino mi hanno dato grande fiducia». Il riferimento è all’insegnante Giusy Perissinotto, al titolare della Santi Walter Mariga, ai suoi tre figli Elvis, Manuel e Serena, e agli altri colleghi Simone, Federico e Roberto. «Quando li ho visti alla cerimonia di laurea, tutti insieme, non riuscivo a contenere l’emozione. Per me è stata una grande sorpresa, una dimostrazione di stima e affetto». «Non poteva essere altrimenti. Abbiamo chiuso la ditta per non mancare al suo straordinario traguardo perché sappiamo i sacrifici che ha fatto – sottolinea Walter - Ben ha fatto tutto da solo, non ha mai chiesto niente. E’ un grande, non è mai mancato un giorno, noi gli abbiamo dato solo qualche aiuto quando potevamo e un grande rispetto, che è il sentimento che dovrebbe animare la vita di ciascuno di noi. Rispetto reciproco, che non deve guardare ai colori, né alla religione, né a qualsiasi altra cosa, ma solo alla persona. Ben è un esempio di tenacia e impegno, una lezione di vita». LA NUOVA di sabato 7 maggio 2016 Pag 31 Il vescovo Tessarollo tuona contro il gioco d’azzardo di Elisabetta B. Anzoletti Dura reprimenda del prelato di Chioggia per i pullman diretti ai casinò oltreconfine. Attacco al M5S sulle paritarie Chioggia. Strali contro il gioco d’azzardo, contro chi mette cani e gatti prima degli esseri umani e contro chi attacca sempre le scuole paritarie. Anche nell’ultimo editoriale della Nuova Scintilla il vescovo monsignor Adriano Tessarollo parte da fatti di cronaca per stimolare alcune riflessioni. Il 25 aprile è stato fermato da un signore che gli ha fatto notare che erano appena partite dalle città otto corriere dirette ai casinò di oltre confine, contingenza che si ripete anche nelle domeniche. «Evidentemente soldi ce ne sono ancora tanti», rileva il vescovo, «o semplicemente i pochi che si hanno si preferisce spenderli tentando la fortuna. D’altronde si tratta di un’attività redditizia, per molti imprenditori dello sfruttamento (compreso lo Stato), certi che premiando uno, frodano lecitamente 1000 che neppure continue delusioni scoraggiano. I miraggi avvengono oggi più nelle città che nel deserto». Monsignor Tessarollo parla anche di detassazione e del diverso valore che molti danno agli esseri viventi. «Dal rapporto di Legambiente», spiega, «vengo a sapere che i comuni spendono 250 milioni di euro l’anno per il mantenimento di cani e gatti abbandonati. Mantenere un cane in rifugio costa 1.500 euro l’anno, pari a tre mensilità di pensione minima. Secondo i dati del Ministero della salute gli aborti umani sono in media 100.000 l’anno, senza contare quelli clandestini. Eliminare 100.000 cani o gatti sarebbe considerato un gesto di grande crudeltà, naturalmente. L’eutanasia è considerata un grande progresso culturale, ma guai a pensarla per gli animali. Molti non sanno che dietro alla salvaguardia degli animali c’è un indotto redditizio che usa la propaganda sentimentale per un tornaconto». Un’ultima stilettata va poi al Movimento 5 Stelle che si è scandalizzato in commissione cultura di Camera e Senato per uno stanziamento di 12.2 milioni di euro, a decorrere dal 2017, per 12.211 alunni disabili delle scuole paritarie. «L’accusa è che si trascurano le scuole statali», spiega il vescovo, «ma i Cinque stelle non dicono, o non sanno, che per i 234.000 disabili nelle scuole statali lo Stato paga 100.000 insegnanti di sostegno per un costo di 6 miliardi e mezzo l’anno a cui si aggiungono i soldi per le progettualità, 2.5 milioni di euro, a fronte di 500 euro di contributo annuo per le paritarie. Ma con i Cinque stelle sulla parità scolastica non si ragiona».

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Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Referendum, la risposta che manca di Antonio Polito La riforma Ci sono molte buone ragioni per votare sì al referendum costituzionale. La prima delle quali è l’occasione storica che ci offre per liberarci dell’anomalia tutta italiana di due Camere che fanno le stesse cose due volte, eufemisticamente detta «bicameralismo perfetto». Sarebbe un premio cui il riformismo ambisce da molto tempo. Certo, quel premio viene con un prezzo, segnalato da molti e prestigiosi costituzionalisti. Il Senato devitalizzato come un dente malato, invece che trasformato in una vera e propria Camera delle Regioni; non più elettivo, composto di consiglieri regionali, non proprio il meglio della classe politica nostrana. E poi una procedura per la formazione delle leggi farraginosa e destinata ad aprire conflitti. E infine un forte indebolimento dell’autonomia legislativa delle Regioni (ammesso che questo sia un male: c’è chi non la rimpiangerà). Eppure, per quanto si leggano le dotte discussioni apertesi tra sostenitori del sì e del no, è difficile convincersi che il prezzo sia superiore al premio. È vero, ci sono molti pasticci, e il testo che ne è venuto fuori non ha niente a che vedere con la chiarezza cristallina di quello dei padri costituenti. Ma spesso il meglio è nemico del bene, ed è sempre meglio del niente. Però la grandissima maggioranza degli elettori non decideranno in base a questi ragionamenti, per quanto il perbenismo pubblicistico ci intimi di votare «sul merito». Gli italiani faranno una scelta politica. E quando dico politica non mi riferisco a quelli che voteranno per partito preso, a prescindere, per colpire il governo o per sostenerlo. Quella è una minoranza di politicizzati. Tutti gli altri dovranno decidere se approvano il tentativo di Matteo Renzi di rendere più facile il comando del leader (oggi lui, domani chissà); di dar vita cioè non certo a un regime, come a parti rovesciate ora paventa Berlusconi, ma a un governo con pochi lacci e lacciuoli. Oppure se temono questo progetto, e preferiscono mantenere in vita un sistema di controlli e condizionamenti sul potere del leader, così che il governo non si trasformi mai in comando. Se non su Renzi, questo voto sarà dunque certamente e direttamente sul suo disegno politico, e senza la rete di protezione del quorum. E infatti, per quanto non se ne parli più, si voterà indirettamente anche sull’Italicum, e cioè su una legge elettorale con il premio di maggioranza (pure questa un’anomalia tutta italiana) che può trasformare il partito che vince anche di un solo voto, qualsiasi siano le sue reali dimensioni elettorali, in un gigante parlamentare da 340 seggi, stipando e frazionando tutte le opposizioni (che nel tripolarismo nostrano possono rappresentare fino al 70-75%) nei restanti 290 seggi dell’unica Camera elettiva rimasta. Il finale al ballottaggio introduce di fatto l’elezione diretta del premier in un sistema sulla carta ancora parlamentare, dunque non dotato di tutti i necessari contrappesi al potere del vincitore. Se a questo si aggiunge una certa insofferenza del premier Renzi per le opposizioni in Parlamento e per il dissenso in generale, che si manifesta non solo in atteggiamenti e stile di governo personale ma anche nell’aver quantomeno avallato un frenetico trasformismo parlamentare a destra e a sinistra, si comprende che dal punto di vista politico ci sono molte buone ragioni anche per il no. La campagna del premier - crediamo - dovrà prendere sul serio quelle ragioni e provare a rimuoverle, se vuole strappare all’opposizione o anche semplicemente spingere alle urne chi non è mosso da conservatorismo costituzionale né da astio politico nei confronti del governo e ciò nonostante ne diffida. Nei confronti di questo elettorato l’argomento che si dice suggerito da Jim Messina, il guru americano ingaggiato per la bisogna, e cioè che con la riforma si risparmiano stipendi e senatori, è piuttosto un’aggravante, perché sembra confermare una insofferenza nei confronti della democrazia parlamentare. Perfino Giorgio Napolitano, il più autorevole tra i sostenitori del sì, avvertì in Senato sette mesi fa, quando la riforma fu approvata: «Al di là del disegno di legge in discussione bisognerà altresì dare attenzione a tutte le preoccupazioni espresse in queste settimane in materia di legislazione elettorale e di equilibri costituzionali». Finora non è successo. C’è da augurarsi che prima del referendum Renzi dia qualche risposta a queste legittime

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preoccupazioni, del resto analoghe a quelle che spinsero nel 2006 molti elettori a bocciare la riforma costituzionale di Berlusconi. Pag 1 L’insostenibile leggerezza dei nuovi (piccoli) partiti di Pierluigi Battista Non era difficile, se ce l’avevano fatta anche i «Poeti per Roma». Invece no, nei partiti di Fassina, De Corato e Alfano non sanno fare le liste: «inammissibili», e a casa. Ma dicono: pure questioni formali. No, i regolamenti sono forme, anche codicilli necessari a rendere non arbitraria una battaglia elettorale. Basta saperlo e adeguarsi. Se invece per sciatteria, negligenza, presunzione, non si fanno le cose con meticolosa precisione, allora è inutile maledire il destino, occorre piuttosto rimuovere chi non è capace di maneggiare una lista e riflettere sulla fragilità della propria condizione politica. O forse il problema è proprio questo: che i partitini liquidi, senza radicamento, senza articolazione capillare, alla fine non riescono nemmeno a raccogliere le firme necessarie, e con i timbri regolamentari, per partecipare a una competizione elettorale. Quando il Pdl non riuscì a presentare in tempo la lista nelle Regionali laziali, era perché le diverse fazioni non si erano messe d’accordo tempestivamente. Qui è diverso. La sinistra di Fassina a Roma, Fratelli d’Italia a Milano, e la lista di Alfano a Cosenza sapevano da un pezzo che avrebbero dovuto presentarsi in tempo, con tutto in regola, firme e documenti. Ma forse questa è sembrata una politica troppo grigia, troppo burocratica, troppo poco appassionante. Nella Prima Repubblica, vilipesa e dileggiata, i partiti si organizzavano bene, chiamavano i loro militanti a impegnarsi perché il loro simbolo fosse collocato nella scheda elettorale. La possibilità di incidenti e maneggi non si poteva escludere, ma c’era la forza dei controlli incrociati, la consapevolezza che anche nelle piccole cose si potesse misurare l’intensità di una battaglia comune. Invece la retorica della leggerezza, delle coalizioni che si formano all’ultimo momento, dei cartelli elettorali che si sbricioleranno un attimo dopo la chiusura delle urne ha autorizzato anche una leggerezza di comportamenti, una superficialità nello svolgimento delle funzioni, persino di quelle apparentemente più umili, ma in realtà decisive per dare struttura e sostanza a un progetto politico ed elettorale. Per questa leggerezza, e sempre che i ricorsi non diano ragione a chi si sente ingiustamente escluso, la sinistra romana che si era coagulata sulla figura di Stefano Fassina rischia seriamente di restare senza una rappresentanza politica. E a Milano gli equilibri della coalizione di centrodestra possono essere alterati per la trasandatezza di chi ha preparato le liste di Fratelli d’Italia. I ricorsi potranno essere accolti, resta l’insostenibile leggerezza dei partitini. Pag 15 Vendette, spie e donne prigioniere. Voci da Mosul, il bastione dell’Isis di Marta Serafini Testimonianze dall’Iraq. I medici che sono scappati: “Ogni notte all’aeroporto atterrano dei cargo” Sulaymaniyah. «Ti prego non scrivere il mio nome, non parliamo molto». Bassam - il nome è di fantasia per proteggere la sua identità e quella della sua famiglia - strizza gli occhi nella polvere del campo profughi di Ashti, venti chilometri da Sulaymaniyah. Guarda lo schermo del telefono, scuote la testa. «Io sono scappato ma mia madre è rimasta». Bassam è fuggito da Mosul di notte, in automobile, otto mesi dopo che l’Isis è entrato in città nel giugno del 2014. «Ho pagato 700 dollari e mi sono messo in salvo con mia moglie e i miei figli ma non avevo soldi a sufficienza anche per mia madre». Bassam era in città quando Al Baghdadi è arrivato. «Dalla finestra della nostra casa abbiamo visto il corteo delle auto, erano decine, di diversi tipi, per lo più pick-up». All’arrivo di Isis in mezzo milione sono scappati, andando a ingrossare le fila dei campi profughi nel Kurdistan. Chi aveva un’auto, ha caricato le valigie in fretta e furia, gli scatoloni pieni di soldi stipati nel bagagliaio. Ma tutti gli altri sono rimasti. Dopo tre giorni Al Baghdadi si presenta alla folla. Sale sul pulpito della moschea di al-Nuri per proclamare il Califfato con il Rolex che scintilla al polso. Le immagini del suo sermone fanno il giro del mondo. «Appena ha finito di parlare tutte le comunicazioni si sono interrotte», racconta ancora il dottore. «I miliziani hanno preso il controllo dei gestori telefonici e hanno tirato giù le reti». Da quel momento, per comunicare con l’esterno chiunque è stato costretto a passare per i 25 Internet center dell’Isis. Computer, virus,

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malware , le capacità informatiche e di spionaggio dello Stato Islamico sono ormai tristemente famose. «Controllano tutte le conversazioni. Se ti scoprono a usare un cellulare ti tagliano la testa, così con mia madre cerco di parlare in codice». Oggi Bassam fa il medico, cura i profughi e i rifugiati del campo di Ashti, a 300 chilometri di distanza da casa. Si batte ogni giorno per i ventimila sfollati che sono arrivati qui da Sinjar, dalla Siria e dai territori iracheni caduti sotto il controllo del Califfo. «I dottori a Mosul sono in una situazione disperata, guadagnano 100 dollari al mese. Isis praticamente non sta più pagando gli stipendi. Non ci sono medicine e non c’è sangue. Ma chi si rifiuta di lavorare viene ucciso». Le vendette si consumano ora dopo ora. «Sono andati casa per casa, a cercare i piloti della guerra tra Iraq e Iran. Ne hanno decapitato uno davanti ai miei occhi, era anziano ma non hanno avuto pietà». Chi è sospettato di essere gay viene lanciato giù dagli edifici che circondano la piazza di Bab al Toub. A scuola i libri di testo dei bambini vengono sostituiti con i testi di propaganda del Califfato. «In tanti hanno smesso di mandare i figli a lezione per evitare che vengano indottrinati». Ma la sorte peggiore tocca, ancora una volta, alle donne. «A tutte è stato imposto l’uso del niqab , il velo integrale. E so di ragazzine e bambine picchiate e punite perché erano salite sul tetto a prendere aria a volto scoperto». Per le schiave dell’Isis la prigione è il Ninawa International Hotel, un palazzone con 262 camere, la piscina e un giardino circondato da alte mura. «Qui vengono a “sposarsi” tutti i miliziani del Califfato. Si trascinano dietro le ragazze e si rinchiudono lì per giorni. La chiamano “luna di miele”, ma dicono che sia l’anticamera dell’inferno». Bassam si ferma. Il sole alto di mezzogiorno toglie il respiro. I ricordi anche. «Mi hanno raccontato che tutte le notti all’aeroporto di Mosul atterrano i cargo, scaricano enormi scatoloni, chissà da dove vengono». Pochi metri più in là, Wasim si toglie il camice. Ha appena finito il giro delle visite, oggi un paziente ha avuto le convulsioni e nella notte un bambino è morto al campo di Arbat, poco distante. Yazidi, siriani, iracheni: i rifugiati e gli sfollati continuano a crescere. Scappano tutti da Daesh (Isis, ndr), nessuno vuole tornare a casa. All’alba i miliziani del Califfato hanno sfondato le linee peshmerga a 40 chilometri da Erbil. La settimana prima a Bagdad i sostenitori del leader sciita Moqtada al Sadr hanno fatto irruzione in parlamento. «L’Iraq ormai è una grossa insalata. E quando Mosul cadrà probabilmente sarà anche peggio», sospira Wasim. Della battaglia di Mosul ormai tutti hanno sentito parlare. Ma nessuno più crede che le cose possano cambiare. Il dottore si toglie lo stetoscopio dal collo, lo appoggia piano sul tavolo. Anche lui è scappato dall’inferno, nel 2014. Prima è andato a Bagdad per finire gli studi di medicina, poi è risalito a nord. «Non penso nemmeno più a tornare, credo che non ci sarà mai pace». A fargli sentire un po’ di sollievo, solo la consapevolezza di aver salvato le sue figlie. «Quando i Daesh sono arrivati hanno preso possesso di molte case, gli appartamenti più belli li hanno dati a foreign fighters francesi che sono quasi tutti di Marsiglia. Le altre case le hanno assegnate a qualche personaggio che fino a quel momento non contava nulla. Ma poi quegli stessi palazzi sono stati colpiti dai raid Usa. Li hanno usati come specchietti per le allodole», racconta parlando piano. Chi è rimasto ha piegato la testa. «A Mosul in molti preferiscono vivere sotto Daesh (Isis, ndr ) che essere liberati dalle milizie sciite». Già, perché nessuno sa cosa succederà quando le bandiere nere finiranno di sventolare. «Riesco a parlare con mio fratello solo perché nei sobborghi di Mosul è ancora possibile trovare il segnale, ma è sempre più raro», racconta Wasim. Quando i jihadisti sono entrati non hanno fatto troppa fatica per prendere il controllo. I soldati e i poliziotti avevano lasciato lì tutto, i documenti, i file, gli schedari, le armi: non hanno distrutto niente. E così Isis si è trovata il lavoro già fatto. «L’ultima volta che l’ho sentito mi ha raccontato che praticamente non esiste opposizione interna all’Isis. Ma era un mese fa, spero che sia ancora vivo». Pag 21 Le staminali in Vaticano di Giuseppe Remuzzi Ecco i “miracoli” della medicina che i grandi scienziati per tre giorni hanno spiegato ai vescovi nella sala del Sinodo. “La terapia cellulare cambierà la medicina e la società” Mai avrei pensato di trovarmi un giorno in Vaticano nell’aula nuova del Sinodo (dove si incontrano i vescovi di tutto il mondo) con intorno scienziati che parlano di cellule staminali e malati un po’ speciali. Gary Hall, per esempio, affetto da diabete, che a dispetto della malattia vince la medaglia d’oro nei 50 metri stile libero per ben due volte,

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prima a Sydney e poi di nuovo ad Atene. Al Convegno «Cellular Horizons» («Gli orizzonti della terapia cellulare: come scienza, tecnologia, informazione e comunicazione cambieranno la società»), Hall strega la platea con garbo e sense of humour e con la grinta di chi ha saputo vincere una sfida impossibile. E adesso ne ha davanti un’altra, far crescere la sua fondazione messa su per raccogliere fondi per la ricerca sul diabete giovanile, che un giorno forse si curerà con le cellule staminali. Questo almeno è quello che sostengono Henry Anhalt e Jeffrey Bluestone, che nell’aula nuova del Sinodo fanno già vedere i primi risultati. Sullo schermo adesso scorrono sequenze di geni, e le corrispondenti proteine e cellule del sangue che si moltiplicano per poi fagocitare le cellule dell’autoimmunità. Nella sua introduzione al Convegno organizzato da Pontifical Council for Culture (in inglese, perché questo è un congresso per il mondo) il Cardinale Ravasi - artefice di tutto questo e gran cerimoniere - parte da lontano, dai Greci, «da cui dipende tutto quello che è successo da allora a oggi qui in Occidente», e poi fa riferimento a Socrate, «una vita senza ricerca non merita di essere vissuta» così almeno Platone - nei Dialoghi - assicura di avergli sentito dire. Chi lo anima un incontro così? Chi introduce gli ospiti? Chi modera? Tante persone speciali. Le cellule modificate - La prima è Robin Roberts, quella di «Good Morning America» della ABC. Adesso sta benissimo, ma ha passato anni terribili: un cancro della mammella, di quelli che vanno male, curato e guarito grazie a un trapianto di midollo. Robin nel frattempo ha convinto 56.000 persone nel mondo a diventare donatori di midollo. La sua storia è l’occasione per parlare di certe malattie dei bambini, una volta mortali e che ora non lo sono più. Robin Roberts introduce Nicholas Wilkins colpito da una leucemia acuta a soli quattro anni; il trapianto di midollo non è servito e Nicholas è stato curato con le sue cellule, prelevate dal sangue e modificate geneticamente perché potessero combattere la leucemia. Missione compiuta, Nicholas sta bene, e si vede. Ma per questo si è dovuto manipolare il Dna. E i Vescovi? Neanche una piega. La storia più struggente è forse quella di Elana Simon; a 12 anni le trovano un carcinoma del fegato - fibrolamellare, dicono i medici -: non ci sono cure e di solito si muore. Ma per Elana si mobilita tutta sua la famiglia di cui si analizza il Dna alla ricerca di varianti che potrebbero aver causato il tumore. Ce ne sono 600 e si lotta contro il tempo: dopo mesi di studio si arriva a 18 e poi a una sola, quella incriminata. E così arriva la cura; c’è anche Elana nell’aula nuova del Sinodo, in gran forma. (Ravasi è affascinato da questi medici che smontano e rimontano e poi guariscono, come nei miracoli di una volta, e gli viene in mente Democrito che definiva l’uomo mikròs kósmos , «ci sono - aggiunge - tanti neuroni nel cervello di uomo quante sono le stelle della Via Lattea», come dire che ciascun uomo riassume in sé l’universo intero). Tutto questo però costa moltissimo, se lo può permettere solo chi è molto colto e molto ricco. E il cancro dei poveri chi lo cura? In Vaticano si parla anche di questo. Eugene Gasana e Tanya Trippett lavorano per guarire i tumori dei bambini dell’Africa; con la loro fondazione sono partite dal Ruanda, adesso lì le cose funzionano. Chissà che un giorno non possa succedere in tutti i Paesi poveri per il cancro ma anche le malattie rare. Per queste gli scienziati, che si chiedono se quello che finora non hanno saputo fare i farmaci lo potranno fare le cellule staminali o la terapia genica, mostrano ciò che è stato fatto finora. Con le staminali si curano già gravi immunodeficienze e poi certe malattie degli occhi e forse l’atassia teleangectasica (una patologia del sistema nervoso) e l’epidermolisi bollosa. Non molto per adesso ma è comunque un primo passo, quando una porta si apre anche solo un pochino poi è più facile infilarci dentro qualcosa e costringerla ad aprirsi del tutto. Quanto al cancro gli scienziati sono convinti che la strada giusta sia quella di insegnare al sistema immune ad uccidere le cellule cancerose come se fossero batteri. Ed è curioso che chi ha avviato questa linea di ricerca non sia un immunologo ma un chirurgo dei trapianti, Patrick Soon-Shiong, c’era anche lui in Vaticano e ci è stato per tutti e tre i giorni. Sconfiggere il cancro - Tutto questo però comporta grandissime competenze, super computer e tecnologia da capogiro, insomma la guerra contro il cancro nessuno la vince da solo, serve un’alleanza fra accademia, industria, fondazioni private e l’impegno dei governi. «Noi ci siamo, assicura il vicepresidente Joe Biden, l’America ci prova dai tempi di Nixon; il suo sogno, battere il cancro in dieci anni non si è realizzato ma adesso siamo vicini». Papa Francesco parla invece di malattie rare e in pochissimi minuti dà agli scienziati un messaggio importantissimo, forse il più importante di tutto il Convegno: «Grazie per quello che fate ma attenzione, prima vengono gli ammalati poi il profitto».

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Poco dopo Gregory Stock, professore di Genomica a New York, nel dialogare con Nicanor Austriaco - un frate domenicano che insegna Teologia a Princeton - dice apertamente che in futuro gli uomini saranno migliori grazie all’ingegneria genetica. «Forse», risponde il frate-professore senza alcun imbarazzo, «o forse no». Ma Stock va avanti per la sua strada, con argomenti molto convincenti (lui è quello del libro Ridisegnare l’uomo). È il turno dei grandi filantropi, che in Vaticano hanno potuto toccare con mano i risultati della loro generosità e della loro visione del mondo. Chi erano queste persone così sensibili ai problemi della salute dell’uomo? Bosarge, Parker, Sanford, Krabbenhoft, tutti americani; in questo l’Europa e specialmente l’Italia è indietro e il gap, come si dice, forse è incolmabile. Gap di sensibilità più che di soldi. Nessuna pecca in questo Convegno? Una forse, niente discussione. Ma la scienza era così alta, così libera, così povera di pregiudizi, così sofisticata - e persino così disinvolta fra «profit» e «non profit» - che forse è stato un bene. E chi si aspettava tutto questo in Vaticano? (e sì che molti considerano la Chiesa contro la scienza, la tecnologia, il progresso in una parola). Non si va via dal Vaticano senza un dono. «Che sarà mai? - mi chiedo - Un libro? Un piccolo ricordo reso unico dalla benedizione del Papa?». No, un anello della tua misura con dentro un chip che rileva i battiti del tuo cuore, gli atti respiratori, la pressione del sangue, quanto hai camminato, quante ore hai dormito, e tanto d’altro. I risultati poi li leggi sul telefonino dove c’è un’app apposta per questo. Grazie don Tomasz (Trafny) per tre giorni davvero indimenticabili. Pag 26 L’equità che Merkel chiede vale anche per la Germania di Maurizio Ferrera Nella sua recente visita a Roma Angela Merkel ha parlato di immigrazione, governo dell’eurozona e politica estera. Sui contenuti è rimasta sui temi generali, ma ha toccato alcune questioni di metodo fondamentali per il futuro dell’Unione. Innanzitutto ha proposto di collegare i tre temi e di cercare un «grande compromesso» basato sul mutuo vantaggio. Nella sua ormai lunga storia, l’Europa è riuscita a superare molte crisi tramite ciò che gli esperti chiamano package deals , ossia accordi basati su ampi «pacchetti» di misure, in modo che ciascun Paese membro possa guadagnare qualcosa. L’idea della Cancelliera non è quindi originale. Anzi, il presidente della Commissione Juncker aveva già proposto qualcosa di simile nel Consiglio europeo dello scorso febbraio. Il suo piano era però clamorosamente fallito per la strenua opposizione dei Paesi centro-orientali sul fronte dell’immigrazione. L’importante novità emersa dall’incontro romano è la disponibilità della Cancelliera a esporsi in prima persona per definire il «pacchetto». La seconda questione di metodo riguarda il processo di integrazione in generale. Angela Merkel ha rilanciato l’ipotesi di creare un nucleo centrale di Paesi (Italia inclusa) interessati a condividere la sovranità in aree cruciali come sicurezza e controllo delle frontiere, fisco, politica estera. La cosiddetta integrazione differenziata è già un fatto in molti ambiti: dall’Unione monetaria a Schengen, dal controllo del crimine al diritto di famiglia. Ma con la Brexit rischia di trasformarsi in una gara al ribasso. Anche se prevalesse - come ci auguriamo - l’opzione remain (restare nell’Unione), il referendum inglese aprirà un lungo negoziato su deroghe e uscite selettive dalle regole vigenti e molti altri Paesi si accoderanno. Il progetto di una Unione politica ristretta darebbe un segnale importante in direzione opposta: differenziazione al rialzo. Sempre sul metodo, Merkel ha detto poi una terza cosa, passata un po’ inosservata. Per far avanzare l’Europa (che oggi festeggia la dichiarazione di Robert Schuman del 9 maggio 1950), «abbiamo bisogno di equità» nelle relazioni fra Paesi. La Cancelliera ha fatto l’esempio dell’immigrazione: i Paesi del Nord (a cominciare dall’Austria) non possono scaricare su quelli del Sud responsabilità e costi per controllare i flussi dal Nord Africa. Si tratta infatti di un problema comune, che richiede criteri distributivi condivisi. Ben detto: ma l’equità deve valere anche per la gestione dell’Unione economica e monetaria. La recente offensiva della Bundesbank contro il debito italiano, la rigidità di Schäuble sul risanamento greco non vanno in questa direzione: attribuiscono meriti e colpe in base a parametri che privilegiano platealmente l’interesse tedesco. A Roma Merkel ha riconosciuto che anche la Germania ha il suo carico di «compiti a casa» da fare. Dovrebbe ripeterlo a Francoforte e Berlino. Mettendo in cima alle priorità la riduzione del surplus commerciale tedesco, che tarpa le ali all’intera economia dell’Eurozona. Certo, una conferenza stampa a Roma può lasciare il tempo che trova. La Cancelliera è nota

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per una tattica politica che gli esperti chiamano «de-mobilitazione selettiva»: fingere di essere d’accordo con gli interlocutori per dar loro un contentino, senza però entrare nel merito dei temi controversi, in modo da tenersi le mani libere. In un articolo apparso qualche giorno fa sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung , il politologo Wolfgang Streeck ha attaccato senza mezzi termini il «sistema Merkel», basato su machiavellici opportunismi e sul disegno di imporre una stretta egemonia tedesca sulla Ue e i suoi destini. Streeck spesso esagera, ma non è una voce isolata ed è ben possibile che nella sua diagnosi ci sia un grano di verità. Le tre questioni di metodo sollevate a Roma dalla Cancelliera sono condivisibili, promettenti e in linea con gli interessi italiani. Il nostro governo farà bene però a non abbassare la guardia e a prepararsi in modo accurato sui contenuti, continuando a fare proposte. Il richiamo all’equità non va lasciato cadere. Purché si tratti di autentica «equità europea», che vincoli la Germania a comportamenti responsabili verso tutta la Ue e a condividere i rischi a fronte di tutte le sfide comuni. LA REPUBBLICA Pag 1 Più vecchi, più soli di Ilvo Diamanti Papa Francesco, come sempre, è stato molto chiaro. Questa volta, semmai, anche più di altre. Perché si rivolgeva a una platea di re, ambasciatori, leader politici ed economici. Fra gli altri: Schulz, Tusk, Juncker, Merkel, Renzi, il re di Spagna Felipe VI. E Draghi. Tutti presenti, alcuni giorni fa, alla consegna del Premio internazionale Carlo Magno al Santo Padre. «Per l'impegno a favore della pace, della comprensione e della misericordia in una società europea di valori». Nell'occasione, però, il Papa ha rammentato quanto l'Europa, oggi, sia in difficoltà nell'affermare i valori a cui si ispiravano i padri fondatori. Tanto più, nell'affrontare il futuro. Perché l'Europa, oggi è una «nonna, vecchia e sterile». Senza più ricordi. Ieri, non per caso, Francesco ha ricevuto in udienza gli uomini e le donne del Cuamm. L'associazione dei Medici con l'Africa, che ha sede a Padova. Animata per oltre cinquant'anni da don Luigi Mazzucato. Un viandante generoso, che ci ha lasciati circa sei mesi fa. Il Cuamm è divenuto un crocevia della solidarietà fra l'Italia e l'Africa. Dove ha inviato oltre 1000 medici volontari, negli ospedali dell'area subsahariana. Fra le più colpite da malattia, miseria, povertà. Le origini principali delle grandi ondate migratorie che, da tempo, si dirigono in Europa. Attraversano il Mediterraneo, spinte dalla disperazione. Sfruttate da mercanti di dolore. Migliaia e migliaia di "persone" - perché di tali si tratta, anche se si tende a dimenticarlo - che, dopo lo sbarco, se ci riescono, proseguono nel loro esodo difficile e talora penoso. Partono dall' Italia, dalla Grecia. Dalla Turchia, dai Balcani. Dalla Spagna (di cui si parla meno). E si dirigono a Nord. Verso i Paesi dove lo sviluppo e il sistema del welfare offrono maggiori prospettive. E dove li hanno preceduti altre persone, della loro rete familiare, del loro Paese. Insieme ai migranti, sono cresciute le inquietudini. E i muri. Comunque: i controlli. Lungo i percorsi dell'esodo. Da Sud verso Nord. E fra un Paese e l'altro. L'Austria sta accentuando la sorveglianza in diverse direzioni. Non solo sul Brennero, in questi giorni al centro di polemiche e di scontri. Ma anche ai confini con l'Ungheria, la Slovenia - e, implicitamente, la Croazia e la Serbia. Un esempio seguito, in parte anticipato, dall'Ungheria. Ma le "frontiere" stanno diventando "barriere" anche altrove. In Macedonia, in Bulgaria. Inoltre, al confine tra Paesi che hanno tradizioni civili e democratiche solide. Nel Centro-Nord dell'Europa. Fra Gran Bretagna e Francia, a Calais. E, nei momenti di grande flusso, anche tra Francia e Italia. Mentre la Danimarca e i Paesi scandinavi difendono il loro welfare. Dagli "altri" che vorrebbero accedervi. Il risultato di questo gioco di movimenti e chiusure è il ri-sorgere delle frontiere. Meglio: delle "barriere". Perché le frontiere servono. Definiscono confini in base a cui confrontarsi e dialogare. Ma quando diventano blocchi, luoghi di controllo e sorveglianza, allora, diventano ostacoli all'integrazione. Non solo degli "altri". Anzitutto, "fra noi". Perché frenano l'integrazione e la costruzione europea. D'altronde, i muri e le frontiere, oggi, hanno un significato eminentemente simbolico. Vengono utilizzati a fini perlopiù politici. Servono, cioè, ad assecondare le paure e ad alimentare i populismi. Popoli alla ricerca di nemici. Figurarsi se - come ha osservato Lucio Caracciolo - la frontiera del Brennero potrebbe scoraggiare il passaggio dei migranti che intendono attraversare l'Austria (per andare altrove, peraltro). Tuttavia, in Europa, cresce dovunque la domanda di sorvegliare i confini. Basta vedere i dati del sondaggio di Pragma (febbraio

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2016) per l'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos per la Fondazione Unipolis. Nei Paesi europei dov'è stata condotta l'indagine, coloro che "insistono" a rivendicare frontiere aperte, in Europa, costituiscono una minoranza limitata. Talora, molto limitata. Mentre la maggioranza dei cittadini vorrebbe reintrodurre i controlli. Sempre. Non in circostanze particolari. In Italia lo sostiene oltre metà delle persone (intervistate). La domanda di chiusura, peraltro, risulta più elevata fra le persone anziane. Dovunque. Parallelamente, la fiducia nell'Ue è più alta presso i più giovani. In Italia, il sentimento verso gli "altri", gli immigrati che giungono da lontano, si traduce in paura. Fra tutti, ad esclusione dei più giovani (indagine Demos, aprile 2016). E produce distacco, sfiducia nelle istituzioni, richiesta di nuove e maggiori divisioni. Forse perché siamo il Paese più vecchio d'Europa. Insieme alla Germania. Che, tuttavia, per questo, mostra un atteggiamento verso gli immigrati ben diverso. Ispirato, cioè, all'apertura "selettiva". A favore di componenti demografiche (giovani) e "professionali" particolarmente utili al mercato del lavoro. In Italia, invece, di recente si assiste a un declino demografico inquietante. Nel 2015, ad esempio, la popolazione è calata di circa 100 mila persone. Come non avveniva dal 1917-18. Cioè, dalla Grande Guerra. Perché in Italia fanno meno figli perfino gli immigrati (come spiega l'Istat). Mentre i giovani sono una "razza" in declino. E quando possono se ne vanno. A studiare, lavorare e, infine, a vivere: altrove. Nel 2013, infatti, dal nostro Paese sono partiti quasi 95mila italiani (più degli stranieri arrivati nello stesso periodo). Soprattutto giovani in possesso di titolo di studio elevato. Così, diventiamo sempre più vecchi, sempre più soli. Sempre più impauriti. E vorremmo chiuderci in casa. Alzare muri e confini dovunque. Intorno a noi. Metafora dell' Europa delineata da Papa Francesco. Ma ridursi a una terra attraversata da frontiere e da muri non coincide con il sogno di Altiero Spinelli, Robert Schuman e Jean Monnet. Evoca, semmai, un incubo. Noi italiani, noi europei: chiusi in casa, in attesa dell' invasione, fra anziani in mezzo ad altri anziani, monitorati da sistemi di allarme sofisticati, sorvegliati da cani mostruosi, osservati da telecamere a ogni passo e a ogni movimento. Ma come possiamo illuderci di essere felici? IL GAZZETTINO Pag 1 Intercettazioni e pm “chiacchieroni”, regole da cambiare di Carlo Nordio Riassumiamo. Nello spazio di pochi giorni a due autorevoli magistrati, Davigo e Morosini, vengono attribuite due infelicissime frasi. Il primo, presidente dell’Anm, avrebbe detto che i politici sono ladroni senza vergogna; il secondo, membro del Csm, che Renzi è pericoloso, e va fermato. Ne sono seguite polemiche feroci; per Davigo il governo ha fatto, saggiamente, finta di nulla. Ma per Morosini il Ministro della Giustizia ha parlato di caso istituzionale, e ha chiesto chiarimenti. I due magistrati, una volta tanto sulla difensiva, hanno detto di esser stati fraintesi, e di non aver pronunziato quelle parole così micidiali. Non ne hanno ripudiato il sostanziale contenuto, ma ne hanno contestato la forma. E in questi casi, la forma è sostanza. Perché una cosa è dissentire dal pensiero e dall’azione politica del presidente del consiglio, altra cosa è invocarne o auspicarne la paralisi e la rimozione. Saint Beuve ha scritto una bella pagina sulla “expression qui frappe”. Ecco, dire che Renzi va fermato, è un’espressione che colpisce, e molto. Lo stesso vale per i politici, se vengono sommariamente definiti ladroni. Queste smentite sono probabilmente giuste e sincere. Ma sono anche utili per alcune riflessioni su una materia dove i due protagonisti, e molti loro colleghi, si sono espressi con moniti severi: alludiamo alle intercettazioni telefoniche. Perché, a ben vedere, Davigo e Morosini sono stati vittime di quel medesimo meccanismo attraverso il quale centinaia di cittadini, parlando al telefono senza calibrare aggettivi e sostantivi, sono finiti sui titoli dei giornali con le accuse più infamanti e le illazioni più turpi. Con la differenza che questi sfortunati colloquiavano in privato, protetti, si fa per dire, dal diritto alla riservatezza garantito dall’art. 15 della Costituzione; mentre i due magistrati, con interviste più o meno formali, avevano accettato il rischio che la loro esternazione finisse in prima pagina. Questo meccanismo si mette in moto quando un concetto, svincolato dal suo contesto, assume significato diverso da quello voluto dal suo autore, in questo caso Davigo. O quando una critica, riassunta in una frase ad effetto, diventa arrogante e offensiva, come nel caso di Morosini. Perché i giornalisti che hanno raccolto le interviste dei due magistrati hanno fatto esattamente quello che fanno i poliziotti quando trascrivono nei

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brogliacci le intercettazioni. Hanno distillato in quelle espressioni (i “politici rubano e non se ne vergognano”; “Renzi va fermato”) il succo di quanto hanno ascoltato o creduto di ascoltare. Hanno colto la parte più succulenta del discorso e l’hanno riportata, semplificandola e isolandola dal resto. Con il risultato ben sintetizzato da Richelieu nella nota ammonizione: «Datemi una lettera e un paio di forbici, e ne farò impiccare l’autore». Anche le conseguenze sono analoghe. Come hanno fatto tanti infelici soggetti intercettati, anche Davigo e Morosini hanno tentato di ridurre i danni cagionati dalle frasi loro attribuite. Ma è stata opera vana. A entrambi resterà a lungo appiccicata, forse immeritatamente, l’immagine negativa di un’arrogante insofferenza incompatibile con la carica che ricoprono. E da questo loro infortunio dipenderà, probabilmente, una più rigorosa disciplina sulle esternazioni dei magistrati, già preannunciata dal Csm. Speriamo che, per rispetto alla par condicio, ne derivi anche un ripensamento sulla disciplina delle intercettazioni. Pag 1 Il diritto di uscire dal fango del doping di Claudio De Min La prima cosa che ti viene in mente di fronte all’impresa di Alex Schwazer è una domanda, che dentro contiene già una mezza risposta ma anche un’incoraggiante lezione per tutti e, soprattutto, una grande speranza per il futuro: ma allora, quando c’è il talento, si può andare forte e vincere anche senza bisogno di doparsi? Sembrebbe di sì. Però a patto che il talento venga allenato bene, da tecnici competenti, da gente capace di plasmare l’anima oltre che i muscoli e i polmoni. A patto che il talento non sia considerato dal Palazzo dello Sport solo merce da medaglia, mera pedina per incrementare la contabilità dei titoli, da un sistema che alimenta la propria forza, la propria visibilità, la propria credibilità e il proprio successo solo ed esclusivamente attraverso in conteggio delle medaglie. A patto che l’atleta sia considerato un uomo e non un numero, un automa da spremere fino in fondo, per farsi belli con i suoi successi. Il che, con Schwazer, abbandonato a se stesso da chi sapeva (o avrebbe dovuto sapere) e ha fatto finta di non vedere, voltandosi dall’altra parte, per poi condannarlo, non è accaduto. Il paradosso è che, con l’aria che tira, la malconcia atletica italiana dovrà probabilmente aggrapparsi a lui, l’estate prossima, per non tornare a casa da Rio a mani vuote. La seconda, immediatamente successiva, e collegata alla prima, è: ma allora perché una macchina potente come quella del marciatore altoatesino ha avuto bisogno di ricorrere al doping? Forse perché in un mondo in cui la filosofia imperante è quella del risultato ad ogni costo e che tratta gli atleti-uomini come macchine da prestazione, perdersi è molto facile, soprattutto quando sei un ragazzo e ti lasciano solo in mezzo alla strada: sei tu il campione, dunque arrangiati, portaci le medaglie, questo è quello che ci serve, il resto – la tua anima, la tua vita, il tuo cuore, la tua vita - non ci interessa, non sono affari nostri. E se sbagli pagherai tu. C’è doping e doping, e ogni caso non è uguale all’altro, ma molto spesso gli atleti sembrano più vittime che carnefici. Non uno come Armstrong, magari, che del sistema era l’artefice, consapevole, consenziente, cinico e – appunto – baro. Ma di sicuro Schwazer, travolto dalla gloria a Pechino e poi obbligato a rinnovarla quella gloria, a qualunque costo. Ognuno avrà la sua opinione. La mia è che questa sia una grande giornata. Che quella di Schwazer sia una bella storia umana, prima ancora che sportiva. La favola a lieto fine di uno che ha sfruttato la sua seconda possibilità e ha avuto la forza, il coraggio, l’ostinazione di uscire dal fango nel quale era immerso fino al collo e dalla depressione che sembrava averlo annientato, la voglia di ripulirsi e tornare quello che era, anche se aveva tutti i contro, se in questi tre anni si è sentito dire qualunque cosa (ultimo, pochi giorni fa, il feroce attacco di Tamberi), anche se in fondo i rischi erano tutti suoi, perché tornare sulla strada e scoprirsi uno qualunque avrebbe certificato una volta per tutte che quella grandezza fu costruita solo con l’imbroglio. Lo Schwazer di Roma, ieri, è sembrato quello di Pechino. E se questo è pulito ora sappiamo che lo fu anche quello. Bentornato ragazzo. LA NUOVA Pag 1 Campagna di ottobre e nuovo Pd di Fabio Bordignon È già partita la campagna di ottobre: la lunga volata verso l’unica, vera data da circoletto rosso, nel calendario elettorale 2016 di Matteo Renzi. Nessuna novità: stiamo

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parlando del referendum costituzionale del prossimo autunno. Ed era chiaro, fin dai primi passi del ddl costituzionale Renzi-Boschi, che su questa riforma, e su questo voto, il presidente del Consiglio avrebbe cercato di fondare la Terza Repubblica: la sua Repubblica. Ciò che forse non era così evidente, almeno fino a qualche settimana fa, è che, proprio attorno a questo cruciale appuntamento, avrebbe iniziato a prendere forma il nuovo Pd che il segretario ha in mente. Il suo Pd. Ha anticipato tutti, il presidente del Consiglio. Promettendo ciò che gli avversari gli avrebbero comunque chiesto: dimissioni, in caso di sconfitta. Esporsi alla possibile spallata, nelle intenzioni di Renzi, serve a rafforzare il significato - o meglio i significati - della consultazione popolare. Lo spartiacque tra due diverse Italie: il paese addormentato e inconcludente dei primi 70 anni (e 63 governi) di vita repubblicana; la nuova Italia renziana, veloce e presidenziale. Non solo: una nuova frattura, destinata a “strutturare” il mercato elettorale negli anni a venire. Una frattura personale, tra renzismo e anti-renzismo, già visibile, ma che verrebbe consolidata dallo scontro tra l’Italia del sì e l’Italia del no. Una rappresentazione dicotomica del tricolore sulla quale Renzi sta martellando in questi giorni. Ma c'è un’ulteriore potenziale svolta, collegata alla “rivoluzione d'ottobre”. Una svolta che riguarda il Pd, in questi giorni alle prese con le sbandate sul territorio che mettono l’accento sulla “questione morale”. Spesso accusato di essere troppo concentrato sul governo e poco attento a quanto accade nel Pd, Renzi sembra intenzionato, attraverso la campagna per il Sì, a mettere in campo la propria “idea di partito”. Che si sostanzia - certo - nella centralità del leader. Ma anche nella partecipazione “dal basso”, al di fuori dei tradizionali canali di attivazione, e dei tradizionali circuiti di reclutamento. Non sarà il Pd delle sezioni e delle tessere a giocare, da qui ad ottobre, la «partita più grande». Bensì il partito dei volontari e dei comitati. Renzi ne prevede 10 mila in tutta Italia, ciascuno con un numero di componenti compreso tra 10 e 50. Pronti a battere il territorio, diffondere la narrazione dell’«Italia che dice Sì». A reclutare e persuadere, motivare e stanare, casa per casa, i potenziali Sì. Si tratta di un modello aperto, che scavalca il partito: i suoi confini sociali e ideologici, le sue rigidità organizzative. Leggero, intermittente: che supera la natura stabile (e onnipresente) della vecchia Ditta. Un partito parallelo, che nei prossimi cinque mesi costituirà il test per la formazione di una nuova classe dirigente. La sperimentazione di una diversa formula organizzativa che, nei successivi appuntamenti elettorali, potrebbe sovrapporsi (fino a sostituirsi) al Pd. Fra i detrattori, c’è già chi evoca il partito di plastica, i kit dell’attivista distribuiti, in passato, da Forza Italia. Le analogie non mancano. Così come è evidente l'ispirazione “americana” della ricetta renziana. Tuttavia, più che il modello “aziendale” importato e re-inventato da Berlusconi, il segretario Pd sembra guardare soprattutto alla lezione obamiana. Non a caso, alla guida della macchina referendaria è stato chiamato Jim Messina, guru delle corse elettorali dell’attuale presidente Usa che - si stima - solo nel 2012 hanno visto impegnato un esercito di 2,2 milioni di volontari. Un modello che punta a sprigionare le forze esistenti nella società civile: una community del Sì da intrecciare alla Pd community. Attraverso un mix di strumenti e canali vecchi e nuovi: le potenzialità dalla rete, con i suoi social network e suoi big data; la riscoperta del porta a porta. Una prospettiva, quella appena delineata, che aggiunge un ulteriore significato al voto di ottobre. Non solo la riscrittura delle “regole” della democrazia italiana. Non solo un grande sondaggio sul governo, e un referendum sul premier. Ma anche un importante banco di prova per il nuovo Pd immaginato da Renzi. Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di domenica 8 maggio 2016 Pag 1 L’occasione imprevista da cogliere di Francesco Giavazzi L’Italia e la Brexit La possibilità che Londra abbandoni l’Unione Europea presenta molti rischi, ma per l’Italia, e per Milano in particolare, anche un’opportunità. Se vincerà la Brexit alcune istituzioni finanziarie che oggi hanno la sede europea a Londra sposteranno una parte delle loro attività sul continente. Ad esempio le clearing houses, piattaforme digitali che alla sera trasferiscono i titoli acquistati durante il giorno dal venditore al compratore,

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difficilmente potranno rimanere fuori dall’Unione Europea e continuare ad avere accesso alle garanzie della Bce, per loro essenziali. È anche possibile che chi rimane «punisca» Londra rendendo più difficile gestire da lì titoli emessi da Paesi dell’Unione o posseduti da residenti dell’Unione. HSBC, che pure è una banca asiatica, ha già annunciato che sposterebbe cinquemila dipendenti, un quarto di quelli che oggi lavorano a Londra. Dove andrebbero? La decisione dipenderà da tre considerazioni: la regolamentazione, il livello della tassazione e la qualità della vita. Da ciascuno di questi punti di vista Milano potrebbe apparire preferibile rispetto alle alternative, Francoforte e Parigi. Ma c’è molto lavoro da fare. Sarebbe bene cominciare già prima del referendum: se vincesse la Brexit le decisioni su dove spostarsi verranno prese rapidamente, forse già durante l’estate. Se invece la Gran Bretagna rimarrà nell’Unione il lavoro fatto non sarà stato inutile: avremo sciolto nodi che in tempi normali, senza scadenze immediate, è più difficile sciogliere. L’aspetto più importante è la regolamentazione. Non le norme, che ormai sono più o meno le stesse in tutti i Paesi dell’Ue, ma chi le fa rispettare. Alcuni mesi fa il governo, dopo il disastro delle obbligazioni subordinate vendute a clienti ignari, stava riflettendo sull’opportunità di rivedere l’organizzazione dei controlli su banche e intermediari finanziari. Cominciando dalla Consob, che non avrebbe dovuto permettere la vendita di quelle obbligazioni, almeno non in quei modi. Ma allargando la riflessione alla Banca d’Italia e valutando l’opportunità di spostare fuori da via Nazionale la funzione di tutela dei risparmiatori, assegnandola a un’agenzia indipendente. Perché la stabilità delle banche e la difesa dei risparmiatori sono funzioni che spingono in direzioni diverse e potrebbe essere opportuno non concentrarle nella medesima istituzione. Ma il governo pare aver perso interesse. Sarebbe l’occasione per riaprire quel fascicolo. Anche la tassazione è un tema sul quale Matteo Renzi ha in mente di varare una riflessione approfondita, magari partendo da una Commissione di studio sulla riforma del Fisco simile alla Commissione Visentini che 50 anni fa introdusse l’Irpef e il sostituto d’imposta. Ma anche qui l’iniziale entusiasmo pare essersi spento. Un’altra occasione per ripartire. Si dovrebbe anche riflettere sull’opportunità di creare uno stato fiscale temporaneamente privilegiato per i dipendenti delle istituzioni finanziarie che si trasferissero a Milano, come già è previsto per i ricercatori che arrivano in Italia. Infine la qualità della vita. Milano ha fatto grandi progressi: si può fare di più. Non dimenticando che una qualità della vita capace di attrarre stabilmente nuovi residenti vuol dire buone scuole, ampi spazi verdi, trasporti pubblici efficienti (la metropolitana di Londra ha deciso di non fermare i treni durante la notte e offrire un servizio continuo sulle 24 ore), buoni ospedali, sicurezza. Non c’è bisogno di più cemento: chi arrivasse da Londra potrebbe lavorare nei nuovi edifici di Porta Garibaldi e vivere nei grattacieli per lo più vuoti dell’ex Fiera. Lo spazio non manca. E se mancasse, qualche banca italiana potrebbe spostare la propria sede nei palazzi vuoti della periferia riducendo utilmente i costi. Una città che vuole essere competitiva deve offrire tutti i benefici della sharing economy. Sì, anche Uber. Possiamo sapere che pensano su questi temi i candidati-sindaco? Per ora, con poca lungimiranza, alcuni hanno promesso più cemento e ammiccato ai tassisti. Siamo più flessibili della Francia. Che Parigi cambi le regole non ci crede nessuno, noi almeno abbiamo fatto il Jobs act e eliminato le banche popolari. Se chiedete alla famiglia di un banchiere londinese dove preferirebbe spostarsi, a Milano o a Francoforte, non credo avrebbe dubbi. Pensate solo a un fine settimana in Liguria, raggiunta in due ore di treno, anziché uno che inizia all’aeroporto di Heathrow. Insomma, potrebbe essere una grande occasione. Ma per non perderla bisogna mettere in piedi tre tavoli di lavoro: uno sulla regolamentazione finanziaria, uno sulla tassazione e uno su Milano. Domani, fra un mese, potrebbe essere troppo tardi. Pag 16 Marsiglia e l’Islam di Lorenzo Cremonesi Rabbia, degrado e spaccio. Gli estremisti si saldano ai clan Partiamo dal peggio del peggio. Quartiere de La Castellane, periferia delle periferie di Marsiglia tra il 15° e 16° arrondissement. Un nido di palazzoni costruiti alla fine degli anni Sessanta, oltre 5.000 abitanti, quasi tutti immigrati da Algeria, isole Comore, Marocco e Tunisia. Oggi il cuore del traffico della droga. Decine di ragazzini in motorino, sembrano tutti minorenni, fanno la guardia alle vie di entrata e nei punti di spaccio. Quasi non passa settimana senza qualche regolamento di conti a colpi di pistole e mitra

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tra bande rivali. Proviamo ad avvicinarci per ottenere il permesso di accesso. «Vorremmo visitare la casa natale di Zinedine Zidane», chiede Rashid, 27 anni, figlio di immigrati dal Marocco mezzo secolo fa che ci fa da tassista e guida. Forse il pretesto è patetico, ci diranno poi che spesso i giornalisti usano come alibi il celebre calciatore per vedere la zona. Ovvio comunque che loro non abboccano. «Via di qui, coglioni! Via subito!», urlano due alti e magri, sembra non abbiano neppure sedici anni, coprendosi subito il volto con una bandana nera. Dal walkie-talkie gracchiante che hanno appeso al collo giungono ordini concitati. Altri tre ci inseguono. Le auto bruciate sul ciglio della strada testimoniano che fanno sul serio. «Sono in guerra per il controllo del mercato con giri da centinaia di milioni di euro al mese. L’attività di gran lunga più lucrosa a Marsiglia. Non vogliono testimoni», dice Rashid pigiando sull’acceleratore per allontanarsi. Più tardi torniamo senza chiedere nulla. Un tour rapido, giusto per osservare l’abbandono, lo sporco, giovani e giovanissimi che bighellano per le strade, non vanno a scuola, non lavorano. Ogni tanto transita veloce un’auto della polizia e le «sentinelle» lanciano l’allarme. In pochi secondi le vie si fanno deserte. Tornando verso il centro, la situazione è certo migliore. Eppure, resta immanente l’atmosfera di degrado e povertà. L’osservi subito lasciando l’area turistica, i bistrot, i ristoranti di pesce, i negozi alla moda, le migliaia tra yacht e barche a vela ormeggiate al Vieux Port dominato dalle fortezze medioevali. Imbocchi la Canebière, la via principale di Marsiglia, e subito incontri palazzi principeschi ridotti in dormitori sporchi e malandati. C’è come un’atmosfera di decadente putrescenza: persiane sfondate, magnifiche facciate ormai polverose e sbrecciate, balconi semi-crollati. Per molti versi ricorda gli splendori distrutti di Alessandria, l’abbandono in cui versano gli edifici dell’epoca coloniale nel cuore del Cairo, con gli animali sul tetto e più famiglie con nugoli di bambini accampate in appartamenti una volta ampi e luminosi dove stava il fior fiore della borghesia araba. «Marsiglia, la città più musulmana dell’Europa occidentale che voleva essere un modello di multiculturalismo mediterraneo, aperto, dialogante e tollerante, costituisce oggi il simbolo del fallimento delle speranze di coesistenza. Al suo cuore sta la crescita del disagio sociale e della criminalità. In più, la radicalizzazione dell’elemento musulmano sta aggravando la situazione in modo intollerabile», ammette a malincuore Sébastian Madau, redattore capo de La Marseillaise , il maggiore quotidiano locale. Il politologo Gilles Kepel, che su Marsiglia ha scritto i primi capitoli del suo Passion Française, con i suoi quasi 300.000 musulmani su meno di 900.000 abitanti, la definisce «città algerina per eccellenza, caratterizzata però da una gioventù che ha riscoperto e interiorizzato gli orrori della guerra anti-coloniale mezzo secolo fa, tanto da farne motivo di rabbia e risentimento». Numerosi tra i francesi non musulmani guardano con nostalgia al passato laico e «rosso» del loro maggior porto sul Mediterraneo. «Mezzo secolo fa qui stavano i migranti italiani, socialisti o comunisti. Oggi il loro posto è preso dai barbuti salafiti, che sono persino pronti capire le ragioni di Isis e del terrorismo», dice risentita Sonia De Carlo, figlia di immigrati campani, nata 42 anni fa a Parigi, ma residente dal 1980 al 1994 a Marsiglia, dove è tornata quattro anni fa. «Avevo nostalgia per questa città, la sua atmosfera levantina, il misto di culture, il clima, il mare, odori e sapori unici. Ma sinceramente sono delusa. Non la riconosco più. Tra i musulmani impera una rabbia noi nostri confronti che prima non c’era. Quel sano e vitale senso di essere diversi, ma parte della stessa comunità, rispettosi gli uni dell’identità dell’altro, è svanito. Oggi ognuno sta nei suoi quartieri, siamo diventati una città di ghetti. Negli ultimi mesi sono stata aggredita due volte da maghrebini. Non era mai successo. La prima mi hanno derubata. La seconda mi hanno spinta a terra e dato della puttana, dicendo che se volevo potevo pure chiamare la polizia. Così, per puro disprezzo, violenza fine a se stessa, che mi fa paura», si sfoga. C’è dunque il pericolo che la criminalità comune si coniughi con l’estremismo islamico? «Molto alto. La polizia locale ha già coniato il termine “islamo-mafiosi” per definire i clan del racket della droga alleati ai circoli religiosi estremisti», spiega David Coquille, veterano delle cronache giudiziarie per La Marseillaise. E mostra alcuni documenti riservati della questura locale dove il fenomeno viene quantificato. Circa 150 sono gli osservati speciali nella regione di Marsiglia sino alle bocche del Rodano perché sospettati di simpatie per Isis. Una ventina è stata arrestata per aver apertamente inneggiato agli autori dei massacri di Parigi e Bruxelles. «Occorre assolutamente controllare gli imam radicali che predicano a favore di Isis nelle moschee minori. Non possiamo permettere che minino le fondamenta della nostra coesistenza

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civile. Molti di loro erano legati ai partiti del fronte islamico algerino», ammette Salim Abouislam, 43 anni, noto imam moderato della moschea Sheikh Rabia nel 13° arrondissement, autore di un appello pubblico di condanna al terrorismo. Immigrato dall’Algeria vent’anni fa, l’imam Salim da tempo parla della necessità di combattere i «cattivi maestri» che in nome del Corano fiancheggiano la violenza sino a «beatificare» Isis. E piange la perdita dei cosiddetti «Chibani», gli anziani, che nelle vecchie comunità algerine si occupavano di amministrare le moschee: «Gli Chibani da sempre avevano un’autorità moderatrice di controllo sociale. Ma oggi i vecchi sono stati soppiantanti dall’arroganza dei giovani. E la fine dei valori tradizionali rende più difficile la lotta contro il radicalismo religioso». Pag 26 Collasso politico sulla legalità al Sud di Goffredo Buccini Candidature e criminalità In Calabria l’ultimo treno buono per l’Italia è forse deragliato qualche anno fa: quando è stata archiviata tra veleni e aggressioni (non solo politiche) la stagione delle sindache antimafia. Candidati evaporati, seggi deserti, una protesta contro lo Stato sempre meno sotterranea e sempre più simile alla rivolta: da Platì a San Luca (passando per Rosarno, caso a parte), dalla Locride alla Piana, la crisi della legalità coincide sempre più con la crisi della democrazia. E, sarà bene dirlo subito, mostra in una certa misura anche il travaglio locale dell’unico partito che ancora ha mantenuto una struttura su tutto il territorio nazionale: il Pd. Punta avanzata di una disunità italiana ormai palese nel Mezzogiorno, la regione di un politico eroe come Peppino Valarioti pare rassegnata a farsi governare in molte sue realtà da forze diverse da quelle riconosciute nello Stato repubblicano e racconta nuovi capitoli di questo scollamento ad ogni tornata elettorale. Dunque, riecco Platì, quattromila anime inquiete, dove l’anno scorso non furono presentate liste per avversione «al governo» che aveva sciolto più volte il Comune per mafia. Il Pd calabrese aveva poi promosso manifestazioni nel Paese e aperto persino una sezione; mentre Renzi alla Leopolda aveva incoronato una ragazza di Reggio, Anna Rita Leonardi, candidata certa anzi certissima: beh, la sezione è abbandonata, più o meno come Anna Rita che s’è ritirata per l’assenza di compagni d’avventura e per l’ostilità del partito locale (è «straniera», e le rimproverano d’essere un prodotto dei social network paracadutato sull’Aspromonte). Correranno però due liste. La prima della figlia del sindaco al quale avevano sciolto il Comune per mafia. La seconda di un assicuratore accreditato di scarse possibilità di vittoria eppure preziosissimo: perché, se si fosse presentata una sola lista, la legge avrebbe richiesto l’improbabile quorum del 50,1 per cento, pena un nuovo commissariamento. A Platì sono così fieri dell’autonomia della politica (pur avendo, ahiloro, saltato diverse tornate elettorali) che quando la Leonardi s’era rivolta al procuratore Cafiero de Raho per un controllo di legalità sui nomi da candidare, molti avevano tuonato contro «lo Stato di polizia». Riecco San Luca, che si porta dietro l’etichetta di capitale mondiale della ‘ndrangheta (diffamazioni, certo: non fosse che la squadra locale scese in campo col lutto al braccio quando morì il capomafia e che qui si decise persino la strage di Duisburg). Sotto commissario prefettizio come Platì. Come a Platì l’anno scorso, qui non si presenterà nessuno alle elezioni di giugno. Motivo, identico. Anche se c’è chi lascia filtrare dalla piazza una ragione meno eversiva: «Il commissario Gullì ha fatto un grande lavoro, vorremmo che restasse». Idea stravagante perché l’ottimo Salvatore Gullì pare già destinato a più alto incarico; e perché sottende la promessa di una nuova faida tra cosche ove si dovesse scegliere un primo cittadino legato a una di esse. Riecco Rosarno, la città del clan Pesce, dove pezzi del Pd locale hanno abbattuto con una congiura Elisabetta Tripodi e dove ora, semplicemente, il partito di Renzi non presenterà liste (ce ne saranno due di centrodestra, una zeppa di transfughi della giunta di centrosinistra caduta). La Tripodi era la più resistente delle tre sindache pd che cinque anni fa scossero la Calabria: ha retto più a lungo di Maria Carmela Lanzetta, tornata alla sua farmacia di Monasterace dopo le minacce malavitose e un vero linciaggio mediatico, e di Carolina Girasole, sindaca di quella Isola di Capo Rizzuto dominata dal clan Arena, assolta dopo essere stata accusata lei stessa d’essere una pedina degli Arena in un’indagine dove erano sbagliate persino le traduzioni delle intercettazioni. Le «tre femminucce» ( copyri ght della Lanzetta, la più lunare e ironica) non avevano la bacchetta magica. Ma, in terre di

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consolidato e corrotto maschilismo, avevano levato un vento di novità rafforzato dal movimento delle pentite (Lea Garofalo, Giuseppina Pesce, Cetta Cacciola). Tutto finito. La Calabria della primavera 2016 sa di inverno. E se la comunità nazionale non se ne farà carico, tagliando con interventi se necessario eccezionali i viluppi mafiosi e familistici che la strangolano, dovrà fronteggiare presto ben altro che uno scontento. Pag 27 Il genocidio Isis e la guerra da vincere di Franco Venturini A parlare della crudeltà dell’Isis si rischia di apparire banali o ripetitivi. Decapitazioni (il marchio di fabbrica), torture, rapimenti, violenze sulle donne, persecuzioni delle minoranze, sono questi i biglietti da visita dei «purificatori» del Califfato. Senza contare le azioni di terrorismo che il quartier generale di Al Baghdadi gestisce in Europa e altrove. Non desta dunque sorpresa, ma soltanto ulteriore rabbia, l’accusa di genocidio che l’inviato dell’Onu Jan Kubis ha rivolto contro l’Isis parlando davanti al Consiglio di Sicurezza dopo la scoperta in Iraq di una cinquantina di fosse comuni nelle zone che erano state occupate dal Califfato e che ora l’esercito regolare ha riconquistato con l’aiuto delle forze speciali americane. A Ramadi sono stati trovati quaranta corpi sepolti in un campo di calcio. Resti umani sono stati rinvenuti anche a Sinjar, Anbar e Tikrit: in maggioranza sono stati liquidati soldati e donne, molte donne. E dire che quasi ovunque le popolazioni decimate dall’Isis appartenevano al campo sunnita, quello stesso campo che i fanatici del Califfato proclamano di voler «riportare sulla retta via del Corano». Uccisioni in massa di uomini e donne e rapimenti di fanciulle sono invece stati riservati agli infedeli, alla minoranza Yazida in particolare. Non sappiamo se e quando l’Onu renderà ufficiale la definizione di genocidio, operazione che in certi casi dovrebbe essere obbligatoria ma che in realtà comporta la necessità di conciliare sensibilità diverse. Peraltro all’Occidente non serve una patente pur tanto significativa. Chi decide nelle stanze dei bottoni occidentali conosce benissimo le gesta criminali dell’Isis, e comprende il loro legame con una strategia geopolitica lucida ed estremamente minacciosa per gli equilibri tanto mediorientali quanto europei e globali. È dunque lecito, tanto più davanti alle ultime orrende scoperte, domandarsi cosa stia facendo la cosiddetta comunità internazionale contro l’Isis. Non soltanto sul piano militare bensì anche su quello umanitario, raccomanda l’Onu. Certamente, ma nessuno è tanto ingenuo da pensare che la priorità non sia battere l’Isis sul suo unico terreno, quello della violenza, tentando contemporaneamente di portare sollievo a popolazioni affamate, sfollati, feriti (lo si sta facendo per quanto possibile in Siria). Battere l’Isis, dunque? Malgrado i buoni risultati ottenuti nel controllo dei suoi finanziamenti e malgrado i territori riconquistati, il traguardo appare ancora lontano. In Iraq gli sforzi della coalizione internazionale guidata dagli Usa (e della quale fa significativamente parte anche l’Italia, che tuttavia non combatte direttamente l’Isis) si volgono sempre di più verso la presa di Mosul. Esistono piani dettagliati, le forze speciali americane sono ora più numerose e presto disporranno dei micidiali elicotteri Apache, i reparti regolari iracheni addestrati anche dagli italiani vengono considerati idonei al combattimento, i Peshmerga curdi hanno dimostrato da tempo di esserlo. Ma sull’acceleratore prevale ancora il freno: il governo sciita di Baghdad è sotto accusa perché non ha mantenuto la promessa di concedere spazio a tutte le componenti etnico-religiose del Paese, far combattere insieme sunniti e sciiti risulta estremamente difficile, i curdi vogliono le loro garanzie per il dopo (e la Turchia mette il veto), abitanti sunniti di Mosul hanno fatto sapere di preferire la vita grama sotto l’Isis a una sanguinosa liberazione per mano degli sciiti. Si aspetta, ma gli orologi di Washington battono troppo lenti per autorizzare grandi ottimismi. In Siria il quadro è ancora più complesso. Anche lì molte ambizioni puntano a espugnare Raqqa, la vera capitale dell’Isis: quelle dell’esercito di Assad, che con l’appoggio aereo dei russi ritiene di potercela fare; quelle di un intricato mosaico di gruppi anti-Isis ma anche anti-Assad, mentre gli Usa restano a metà del guado tra collaborazione con Mosca e forniture d’armi ai ribelli; quelle ancor più contorte della Turchia (anti-curda e ora anche anti-Isis) e dell’Arabia Saudita (soprattutto anti-Iran). Se non si riuscirà a riconquistare Mosul entro l’anno, è ancor più improbabile che si riesca a riconquistare Raqqa. Salvo che Assad e Putin ce la facciano davvero. E poi c’è la Libia. Ci sono i legami che l’Isis intrattiene e moltiplica con Boko Haram in Nigeria. C’è il pericolo vitale che l’Isis rappresenta per la democrazia tunisina, l’unica che si è affermata dopo le Primavere arabe. C’è il generale

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Haftar che su mandato egiziano vuole provarci a battere l’Isis, e c’è la milizia di Misurata che vuole fare altrettanto. Ma noi, soprattutto noi europei e noi italiani, guardiamo piuttosto al «processo di stabilizzazione» della Libia, un processo che ben difficilmente avrà successo e al quale si può partecipare soltanto prendendo partito e favorendo involontariamente la frattura del Paese. La priorità è invece l’Isis. Come ovunque. LA REPUBBLICA di domenica 8 maggio 2016 Pag 11 “Salvate un luogo simbolo, senza alzare nuovi muri” di Paolo Berizzi Intervista a Ivo Muser, vescovo di Bolzano – Bressanone Bolzano. «Ci vuole il dialogo, gli steccati e le barriere non servono a niente». Ivo Muser, nato 54 anni fa a Brunico, è vescovo di Bolzano-Bressanone dal 2011. Scontri e feriti alla manifestazione al Brennero. Lei che cosa pensa della barriera? «Capisco i timori degli austriaci, ma la questione immigrati è una sfida che durerà anni, e non la si affronta costruendo gabbie e tirando su muri o barriere. L'accoglienza è la carta d'identità della fede, se Dio accoglie l'uomo, l'uomo deve accogliere l'uomo. Bisogna trovare soluzioni condivise: se invece ognuno fa per conto suo, e si chiude, e si isola, e erige steccati per dividere, non solo non risolvi il problema, ma rischi di peggiorare le cose». In che senso? «Le barriere evocano sempre divisioni. Se non creo dialogo rimango solo. I Paesi che chiudono i confini rischiano di restare isolati». Vienna pare non curarsene molto. Anzi, il leader della destra austriaca, Strache, ha proposto di unire Tirolo italiano e austriaco. Sentire parlare di ritorno del Tirolo italiano sotto l'Austria riapre le ferite della storia. «Da altoatesino non posso non ricordare che la nostra è una storia sofferta. Se pensiamo alla prima guerra mondiale, al fascismo, al nazionalsocialismo, dobbiamo dire che abbiamo fatto dei passi notevoli. Il Brennero è un luogo simbolo dell' Unione europea, un luogo di convivenza e di apertura. Questo simbolo deve restare intatto». Quanto pesa la componente propagandistica negli annunci di Vienna sui controlli ai confini? Italia e Germania sembrano avere lo stesso orientamento sulla politica di accoglienza dei migranti... «Ringrazio tutti coloro, politici, amministratori, volontari, società civile, che si adoperano per aiutare i migranti evitando i toni populisti e i facili slogan che fanno leva sulla paura». C'è chi considera i migranti alla stregua di numeri. Chi sono i migranti per lei? «Sono uomini, sono donne, sono bambini. Inserirli nella nostra società, nella nostra cultura, metterci in dialogo con loro: la strada è questa. Deve essere uno sforzo comune: da parte nostra e da parte loro. Venirsi incontro vuol dire questo. Dobbiamo aprire i nostri cuori a degli individui che sono persone fisiche. Che vengono qui perché nella loro patria non hanno prospettive future. I poveri di questo mondo non si fermano più. E noi abbiamo il dovere di accoglierli. In questa sfida siamo in gioco tutti: il singolo cittadino, il singolo cristiano, l'Italia, l'Austria, l'Europa». AVVENIRE di domenica 8 maggio 2016 Pag 2 Solo il voto sulla Brexit dirà il futuro di Londra di Marco Olivetti Le elezioni e la tenuta dei partiti tradizionali Le elezioni locali svoltesi nel Regno Unito giovedì scorso hanno fatto notizia sui media di tutto il mondo per l’elezione di Sadiq Khan alla carica di sindaco di Londra: il 45enne deputato laburista sarà il terzo musulmano a guidare una metropoli occidentale (dopo i sindaci di Rotterdam e di Calgary) e il primo a condurre l’amministrazione della capitale di un grande Stato europeo. Il dato ha soprattutto un rilievo simbolico, in quanto indica un percorso di integrazione riuscito per il figlio di un conducente di autobus pachistano, già membro del Parlamento e dello staff dell’ex leader del Labour Ed Milliband e culminata nella conquista della Greater London Authority, il governo metropolitano della capitale britannica che dal 2000 ha un mayor eletto a suffragio universale. Ma l’elezione di Khan è al tempo stesso la sconfitta di un candidato conservatore poco attraente, Zac

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Goldsmith, figlio di un miliardario e per certi aspetti simbolo dei privilegi ereditari britannici – quasi quanto Khan lo è di un percorso di integrazione – e non certo un modello di 'vicinanza' agli abitanti di una città complessa, multietnica e multirazziale come Londra. Ed essa deve essere collocata sullo sfondo di un dato politico molto più articolato: oltre al risultato delle elezioni regionali in Scozia, Galles ed Irlanda del Nord, conta quello del rinnovo di 124 local councils in varie città inglesi. Si tratta tradizionalmente di un test importante, non solo per i destini del governo locale inglese (da secoli uno dei pilastri della democrazia d’Oltremanica), ma anche per il messaggio che esso trasmette al sistema politico nazionale, anche in vista dell’ormai prossimo referendum sull’Unione Europea in calendario per il prossimo 23 giugno, dato che nelle democrazie contemporanee le diverse consultazioni (nazionali e locali, elezioni e referendum) sono connesse fra loro. Da questo punto di vista, il passaggio elettorale di questa settimana ha una portata assai meno eclatante del risultato simbolico dell’elezione londinese. Nella sostanza il Partito Conservatore del primo ministro David Cameron ha mantenuto le sue posizioni e, pur perdendo la carica di sindaco di Londra, ha conquistato lo status di opposizione ufficiale nel Parlamento scozzese, sottraendola ai laburisti, in un contesto che ha visto la conferma (pur con una lieve flessione) dell’egemonia del Partito Nazionalista Scozzese (che ha conseguito la terza vittoria elettorale consecutiva nel Parlamento di Holyrood). I laburisti hanno tenuto in Galles (terra tradizionalmente rossa), ove sono stati i conservatori a perdere lo status di secondo partito, questa volta a vantaggio dei nazionalisti gallesi del Plaid Cymru (e a causa di una crescita degli eurofobi dell’UK independence party). Ma nel complesso i due grandi partiti hanno conservato le posizioni che avevano alla vigilia delle elezioni e ben pochi governi locali (salvo Londra) hanno cambiato colore: i conservatori non hanno subito il voto sanzione così frequente nella storia britannica per un partito di governo un anno dopo le elezioni generali. E nel campo laburista la leadership radicale di Jeremy Corbin non ha mostrato vistose crepe, dimostrando di non essere così disastrosa come alcuni temevano, ma senza dare prova di poter guidare il partito a una sfida vincente ai conservatori nelle elezioni generali del 2020. Vi è in fondo qualcosa di italiano, in queste elezioni inglesi in cui sembra che nessuno abbia davvero perso o davvero vinto, a parte Sadiq Khan e Zac Goldsmith. Un dato interlocutorio, dunque, ben diverso da altre recenti elezioni regionali in grandi Stati europei (in Baden Württemberg, Sassonia-Anhalt e Renania-Palatinato il 13 marzo e in Francia nel dicembre 2015) che avevano inviato chiari segnali di sfiducia verso i partiti tradizionali, con l’ascesa di forze anti-establishment e anti-Europa (i germanici di Afd e il Fronte Nazionale). I partiti tradizionali inglesi sono oggi molto più deboli rispetto a qualche anno fa (i conservatori si sono attestati sul 30%, poco sotto il 31 dei laburisti nel complesso del Regno Unito), ma non hanno accusato ulteriori cedimenti. Il risultato di giovedì, infine, dice abbastanza poco anche nella prospettiva dell’imminente referendum sulla Brexit, la cui campagna elettorale sta per entrare nella sua fase finale. Anche da questo punto di vista non ci sono segnali probanti, dato che i partiti tradizionali hanno mantenuto le posizioni e gli stessi eurofobi dell’Ukip non hanno fatto registrare se non progressi marginali. Del resto il grande confronto sulla Brexit si svolge soprattutto all’interno dei grandi partiti nazionali, anzitutto i conservatori (ma in misura minore pure i laburisti), dilaniati dal dilemma sul lasciare l’Unione o restarvi. Pag 3 Quel piccolo allarme per il “grande satrapo” di Giorgio Ferrari Gli sviluppi politici in Turchia, i calcoli di troppa Ue La precipitosa parabola discendente del premier turco Ahmet Davutoglu – destituito nello spazio di un mattino dopo nemmeno due anni alla guida del governo – ha tutto sommato avuto il pregio di chiarire definitivamente al mondo quanto fosse profonda la svolta autoritaria impressa alla Turchia dal presidente Erdogan: un uomo ormai solo al comando che è al contempo leader politico (l’Akp, il Partito per la giustizia e lo sviluppo di cui è al vertice gli ha garantito tre volte un successo elettorale plebiscitario), presidente della Repubblica e uomo forte che aspira alla modifica della Costituzione per assumere il controllo totale della nazione. Una deriva che era già ben chiara da almeno un paio d’anni, da quando cioè Erdogan era stato costretto ad accantonare il sogno neoottomano di assumere il ruolo di arbitro della regione, frantumatosi di fronte alla

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rovinosa partecipazione in chiave anti-Assad alla crisi siriana, alla guerra civile con i curdi del Pkk, alle ambiguità mostrate nei confronti del Daesh (formalmente un nemico, in realtà – come dimostrato dalle inchieste giornalistiche – spesso rifornito di armi e finanziamenti), all’inaspettato ritorno dell’Iran sulla scena politica internazionale e alla profonda crisi delle relazioni con la Russia di Vladimir Putin, che di fatto gli ha sfilato dalle mani il ruolo di grande player nel Medio Oriente. Ma più perdeva mordente all’esterno più Erdogan – quasi per un fatale contrappasso – serrava la morsa del suo potere all’interno del Paese. Le recenti condanne di due giornalisti del quotidiano d’opposizione Cumhuriyet per rivelazione di segreto di Stato nel processo per il passaggio di armi dei servizi segreti in Siria, la normalizzazione forzata di Zaman, altro foglio ostile al regime che fra una settimana potrebbe chiudere i battenti per pneumatico vuoto di lettori dopo che proprietà e direzione sono state sostituite manu militari nell’assordante silenzio di Bruxelles non fanno che allungare la lista dei giornalisti arrestati per aver scritto e pubblicato frasi e concetti giudicati eversivi: erano 76 già nel 2012, un record mondiale, più ancora che in Iran e in Cina, ma il numero attuale è probabilmente cresciuto. Non solo: tra pochi giorni si voterà un emendamento della Carta fondamentale per togliere l’immunità ai parlamentari indagati, mossa chiaramente concepita contro i deputati del partito filo-curdo Hdp, che rischiano il processo per collusione con il terrorismo. Con l’uscita di scena di Davutoglu, considerato troppo moderato e troppo incline alla mediazione con l’Occidente, la satrapia di Erdogan (ormai libera anche dell’influenza del suo più acerrimo rivale, Fetullah Gülen, che vive in esilio negli Stati Uniti) pare assumere la sua fisionomia definitiva, con buona pace di quell’Europa che si è eternamente sforzata di chiudere gli occhi sulla trasformazione della Turchia da nazione laica e kemalista a potentato fondato sul consenso delle classi medie (premiate da un boom economico durato quasi dieci anni) e dell’arretrato corpaccione anatolico (che sovrappone la legittima osservanza religiosa all’immagine vittoriosa del presidente). Abile come tutti i populisti e i dittatori nel fabbricare di continuo nemici e pericoli – di volta in volta i curdi, la stampa, il complotto interno dei nostalgici di Atatürk – Erdogan può fare affidamento sia sul diffuso consenso nelle élites del Paese sia sul clima di incertezza e di paura che predomina fra i suoi oppositori. Ma soprattutto può contare su due circostanze che si possono trasformare (e di fatto ormai lo sono) in due formidabili armi di ricatto: la guerra al Califfato in Siraq e la gestione di profughi e migranti. In entrambe il ruolo della Turchia è cruciale. Per questo Erdogan può alzare a piacimento la posta con Bruxelles, sia per ciò che concerne l’iter del negoziato di adesione all’Unione Europea sia per la liberalizzazione dei visti: in palio c’è il mantenimento di un accordo complicato, imperfetto e oneroso, ma comunque indispensabile. Nondimeno la sempre più pronunciata deriva autoritaria fa giustamente dire a Matteo Renzi che «la questione migratoria è tutt’altro che risolta: quello che accade in queste ore in Turchia pone un interrogativo sull’accordo tra Ue e Ankara». Interrogativo che tutti ci poniamo. E che vorremo risuonasse chiaro e forte e non rimanesse chiuso al di là delle Alpi nelle stanze di compensazione del potere per un mero calcolo di bottega. IL GAZZETTINO di domenica 8 maggio 2016 Pag 1 Turchia nella Ue, la strada resta in salita di Romano Prodi Anche se forse pochi se ne sono accorti, i negoziati per l'ingresso della Turchia nell'Unione Europea durano da oltre dieci anni e, se dovessero procedere allo stesso ritmo, durerebbero per molti altri decenni. Vi sono infatti ostacoli permanenti e costanti, come la divisione di Cipro, ed ostacoli che diminuiscono o si accrescono a seconda dell'andamento di particolari interessi o di specifiche tensioni politiche. Tuttavia, analizzando queste lunghe trattative, non si scorge mai una condivisa volontà di fondo per concludere il processo di adesione. Nonostante i tempi ormai biblici e la volontà di procedere nel lavoro comune, sono stati presi in esame meno della metà dei capitoli nei quali si dividono i negoziati mentre, nel dibattito politico, sono aumentati più i punti di dissenso che di consenso, con il rischio che quest'infinita catena di colloqui, facendo emergere più le diversità che le convergenze, finisca col mettere a rischio anche gli stretti rapporti che debbono essere in ogni caso costruiti fra l'Europa e quel formidabile paese che è la Turchia. In teoria anche le differenze nei negoziati avrebbero dovuto

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rapidamente diminuire, mentre sono invece accresciuti le distanze che la storia, la geografia e la religione avevano costruito nei secoli fra la Turchia e l'Europa. Distanze che sono sempre state parte della complessità e della ricchezza del processo di allargamento. Dal lato europeo, nonostante la spinta all'adesione da parte degli Stati Uniti e il forte appoggio della Gran Bretagna, si è fatta più forte la paura derivante dalla dimensione stessa della Turchia che, avvicinandosi ai cento milioni di abitanti alla fine del prossimo decennio, costituirebbe il gruppo di gran lunga più numeroso del parlamento europeo e assorbirebbe una parte dominante delle risorse destinate alle politiche regionali. La crescente insicurezza dell'area geografica su cui insiste la Turchia (pensiamo solo alla Siria e all'Iraq) ha inoltre contribuito ad aumentare la diffidenza e la paura dei cittadini europei mentre, negli ultimi anni, i nostri responsabili politici hanno guardato con preoccupazione alla crescente gravità del conflitto fra il governo turco e i curdi. In un periodo di turbolenza, come quello in cui viviamo, la paura di portare nuovi conflitti all'interno dell'Unione ha ovviamente accresciuto la diffidenza dei cittadini e dei politici europei. Anche perché la Turchia non solo è diventata una potenza regionale, e quindi meno incline a condividere la propria sovranità, ma si è trasformata in uno Stato sempre più autoritario. Quando Erdogan era salito al potere lo avevamo salutato come colui che avrebbe portato avanti il processo di completa democratizzazione del sistema politico turco. La direzione di marcia è invece progressivamente cambiata verso un crescente autoritarismo, che ha colpito in modo sempre più duro ogni opposizione. Negli scorsi mesi il problema dei rifugiati ha spinto ad un accordo che avrebbe dovuto ridare vigore ai negoziati, tenendo conto del fatto che, con quasi due milioni di rifugiati che può spingere in ogni momento verso l'Europa, la Turchia è in possesso di una vera e propria arma atomica. A questo punto, quasi a ripetere l'inevitabilità di un destino, sono nati nuovi conflitti perché gli accordi prevedevano da un lato l'ingresso dei cittadini turchi nell'Unione Europea senza visto mentre, dall'altro, si richiedeva un cambiamento delle leggi nei confronti del terrorismo, in modo che non colpiscano, come ora regolarmente avviene, insieme ai terroristi, anche gli oppositori politici e i giornalisti troppo liberi. Su quest'ultimo punto il governo turco non ci sente e, per dare un messaggio concreto, da un lato è stato condannato a cinque anni e dieci mesi di carcere il direttore del principale giornale di opposizione e, nello stesso tempo, è stato costretto alle dimissioni il primo ministro Ahmet Davutoglu, che, volente o nolente, era stato il protagonista del processo di avvicinamento all'Europa negli ultimi anni. Tuttavia oggi ci troviamo proprio in un bel pasticcio: da un lato l'Europa non può rinunciare all'applicazione di diritti così fondamentali e, dall'altro, la Turchia controlla ancora il drammatico canale dell'emigrazione. Nei prossimi giorni si aprirà su questi temi un'ennesima difficile trattativa, della quale non siamo ancora in grado di prevedere l'esito finale. La cosa certa è che quest'episodio, invece di abbreviare i termini delle negoziazioni, li allungherà ancora. Forse fino alla fine dei tempi. Pag 1 I guai dei grillini sono ossigeno per il premier di Alberto Gentili Quella che si annunciava con una nuova giornata di passione, con i Cinque Stelle guidati da Luigi Di Maio in piazza a Lodi, si è trasformata per Matteo Renzi e il Pd nel D-day della Grande Riscossa. Per palazzo Chigi e per il quartier generale del Nazareno è un toccasana l'avviso di garanzia al sindaco cinquestelle di Livorno, arrivato proprio nelle ore in cui Beppe Grillo e i suoi sparavano a palle incatenate per l'arresto del primo cittadino dem di Lodi. Tant'è, che su ordine di Renzi, sono scesi in campo tutti. Dalla ministra Boschi al capogruppo Rosato, dal responsabile giustizia Ermini alla vicesegretaria Serracchiani. Obiettivo, irridere a Di Maio: «Piuttosto che a Lodi, vada a Livorno...». E accusare Grillo e i suoi di «doppia morale»: «Sono garantisti con se stessi e giustizialisti con gli altri». Per dirla con Ermini, «lo sciacallaggio non paga: chi usa fatti di cronaca giudiziaria e rivendica una presunta superiorità morale finisce per fare clamorose figuracce». Insomma, il nuovo scivolone grillino a Livorno (con il sindaco accusato di bancarotta fraudolenta) per Renzi è un'ottima notizia. Tanto più perché, a giudizio del premier, compone il puzzle con gli altri inciampi giudiziari dei Cinquestelle a Quartu e Bagheria: «Il 21% dei Comuni amministrati dal M5S ha problemi con la giustizia», fotografa la Boschi. Renzi adesso spera che «qualcosa si calmerà». «I casi di Lodi e Caserta sono brutti, ma sarebbero stati relegati alle cronache giudiziarie locali se

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non ci fosse stato il can-can politico-mediatico dei grillini», dice un renziano del Giglio Magico, «speriamo che questo salutare bagno nella realtà, scoprire che il mondo non si divide in buoni e cattivi, li convinca ad abbassare i toni». In ogni caso, confidando poco o nulla sul buonsenso dei Cinquestelle, a palazzo Chigi e al Nazareno si godono l'affaire livornese convinti di aver «finalmente la possibilità di rispondere colpo su colpo». E di poter affrontare i mesi da qui al referendum costituzionale di ottobre «con qualche arma in più»: «Fa benissimo il sindaco Nogarin a non dimettersi per un avviso di garanzia. Ma è evidente che questa decisione li rende più vulnerabili: dimostra che non esiste alcuna presunta diversità pentastellata. E poi come fa Grillo a dire a Nogarin di tenere duro e nello stesso tempo a fare sciacallaggio con gli esponenti del Pd inquisiti? La gente capirà quanto è pelosa questa doppia morale». Proprio di questo, oltre a lanciare un appello all'unità del partito in vista delle elezioni e a chiedere che ogni circolo del Pd diventi un comitato per il “sì” al referendum, Renzi parlerà domani in Direzione. Sono invece esclusi attacchi ai magistrati. Il premier non vuole la rissa con i giudici: «Siamo diversi, rispettiamo il lavoro dei magistrati chiedendogli di andare subito a sentenza e siamo il partito e il governo che più hanno fatto e fanno contro la corruzione». Ma allo stesso tempo Renzi è convinto che una parte dei pm lavori contro di lui: «Da qui al referendum d'ottobre sarà dura...». Per questo tiene caldo il caso-Morosini in Csm. «Quel togato di Magistratura democratica dicendo che il premier va fermato», spiegano al Nazareno, «è stato preso con le mani nella marmellata e serve a dimostrare al Paese che non è un'invenzione dire che alcuni pm sono mossi da un pregiudizio politico». Pag 4 Pd e giudici, contrappasso in politica di Mario Ajello La cosa più gustosa sarà quando, e forse non manca molto, da sinistra faranno l'elogio di Silvio Berlusconi. Come? Dicendo così: "Sui giudici aveva ragione lui". Perché, ohibò, dalle parti del Pd e della sinistra giornalistica e culturale, quella abituata per vent'anni a mostrificare chiunque tentasse una critica anche minima e non gridata al potere togato, si è arrivati a una scoperta sensazionale: cioè che i giudici non hanno sempre ragione. Finché colpivano l'avversario storico, che pure ben si prestava a ricevere i colpi, ma non tutti e non sempre, i magistrati erano il simbolo della Morale, i campioni dell'Etica, gli eroi della Legalità da venerare, gli idoli della religione giacobina contro il malaffare dell'Italia alle vongole, i Vendicatori senza macchia e senza paura. Ma adesso? Il Pd nel mirino delle toghe e che insieme ai suoi sostenitori critica le toghe, con le stesse parole più o meno di quelle a suo tempo usate dai berluscones, rappresenta l'incarnazione del contrappasso in politica. E si potrebbe riderne. Se la questione, ossia la questione giudiziaria in Italia, non fosse così seria. Pag 18 Bertinotti: io, comunista, con compagni credenti di Sergio Frigo L’ex presidente della Camera in Veneto presenta il suo libro e commenta l’enciclica di Francesco Di questi tempi la domanda su Fausto Bertinotti, inevitabile stante le sue frequentazioni con "quella" parte del mondo cattolico, è se l’ex presidente della Camera si sia avvicinato a Comunione e Liberazione. In subordine se si sia convertito. Per comodità partiamo da qui anche noi, nell’intervista che ha concesso al Gazzettino in occasione di un suo tour in Veneto per presentare il libro-dialogo "Sempre daccapo", che gli ha dedicato il direttore della Marcianum Press don Roberto Donadoni. E per sgombrare il campo diciamo subito che no, Bertinotti non solo non è diventato ciellino, ma nemmeno ha abiurato alla sua fede comunista. Quanto alla conversione, se è lecita un’impertinenza potremmo dire che a rischiare di convertirsi sono i suoi interlocutori: non solo l’editore-intervistatore, ma persino il cardinal Gianfranco Ravasi, che firma una prefazione che rivela una forte simpatia umana e un’attenzione "politica" affatto rituali. D’altro canto Bertinotti dà prova, nelle risposte a Donadoni, di avere in materia competenze fuori dal comune e una strumentazione culturale in grado di affrontare qualsiasi interlocutore. Il libro affronta i temi della globalizzazione, del socialismo e del cristianesimo, articolati in un’introduzione del curatore che svela i preliminari di un incontro, e nei quattro capitoli "Le sfide del nostro tempo", "La "terza via" al socialismo", "Socialismo e cristianesimo" e "Le domande ultime".

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Come mai questo "incontro" con un movimento cattolico considerato il più incline a far derivare scelte politiche dalla propria fede, cosa che lei nel libro stigmatizza? «Premetto di aver sempre interloquito proficuamente, nella mia vita politica, con i movimenti e i protagonisti più diversi all’interno del cattolicesimo, e non solo. In Cl, a partire dai dialoghi col successore di don Giussani Julian Carron, ho ritrovato una comunità viva, che riflette nel suo agire un comune pensare: un popolo, in altre parole, che presenta delle similitudini (anche se non mi sfuggono le differenze) col popolo del movimento operaio, nel quale mi sono sempre riconosciuto». Ci si riconosce ancora? «Certamente si, ma non posso non registrare che siamo stati sconfitti, e la sconfitta è iniziata proprio quando eravamo vicini alla vittoria. Negli ultimi decenni del ’900 il movimento operaio alleato con la contestazione studentesca nello scontro col capitalismo fordista ha conseguito grandi obiettivi sul terreno dell’uguaglianza, del welfare e dei diritti civili. Poi però è stato travolto dal fallimento del socialismo reale e dalla controffensiva delle élites conservatrici, guidate dalla Thatcher e da Reagan, e in Italia dalle sconfitte sulla scala mobile e dalla marcia dei 40mila alla Fiat. Questo ha innescato quello che Gallino definisce un "conflitto di classe alla rovescia", dei potenti contro i deboli, e ha aperto la strada al nuovo capitalismo, con cui oggi tutti facciamo le spese». Che caratteristiche ha? «Il capitalismo finanziario neo-liberista produce - in favore delle classi dirigenti - maggiore disuguaglianza, impoverimento dei ceti medi, politiche securitarie per assicurarsi la tenuta: è la società degli 85 uomini più ricchi del mondo che possiedono beni pari ai 3,5 miliardi più poveri. Ma quel che è peggio è che questo modello, che sta mostrando da tempo le sue crepe, sta in piedi perchè contestualmente ha saputo imporre la cultura post-moderna che postula la fine delle ideologie, e con esse anche qualsiasi contestazione al modello dominante del mercato: fino ad arrivare allo svuotamento dello stesso diritto di voto». Intravede una via d’uscita? «Visto il fallimento della vecchia sinistra, bisogna ricominciare daccapo, ecco il senso del libro: ma in questo daccapo, ormai fuori dalla politica che è morta, ci stanno i movimenti che vediamo sorgere qua e là nel mondo, alimentando un conflitto sociale e delle forme di solidarietà che l’ordocapitalismo non riesce a controllare: dagli Indignados a Occupy al parigino Nuit debuot, a Sander; ma a pieno titolo a mio parere ci stanno anche gli uomini di fede, che sono capaci di vedere oltre l’ideologia del mercato che si pretende unica e indiscutibile». Possiamo dire che Bertinotti rimane un comunista che ha trovato nei credenti dei compagni di strada? «Mi pare una sintesi adeguata». LA NUOVA di domenica 8 maggio 2016 Pag 1 Un voto per le città, non su Renzi di Francesco Jori Le elezioni del pom e del pam. Il voto amministrativo di giugno nasce all’insegna di un bizzarro bipartitismo all’italiana: il Partito dell’Osanniamo Matteo contro quello dell’Abbattiamo Matteo. Solo le prove generali, d’altra parte, di quello che accadrà a ottobre con il referendum sulla Costituzione: il significato dei singoli appuntamenti si stinge pressoché del tutto, per lasciare il passo a un pronunciamento sulle sorti di un singolo uomo. Non una novità, comunque: per vent’anni la mediocre politichetta nostrana è vissuta su un analogo referendum permanente su Berlusconi; Renzi oggi ne raccoglie il testimone, e come il Cavaliere deve temere molto più i nemici interni di quelli esterni. Eppure il test di giugno avrebbe tutti i requisiti per meritare ben altro approccio. Dai quasi 3 milioni di abitanti di Roma ai 38 della minuscola Morterone lombarda, la chiamata alle urne riguarda il 17 per cento degli italiani, per un totale di 1.371 Comuni, di cui 26 capoluogo: incluse alcune delle maggiori città d’Italia, dalla stessa capitale a Milano, da Torino a Bologna, da Napoli a Cagliari. Il profilo veneto in questo caso rimane basso: la chiamata riguarda oltre 500mila elettori di 82 Comuni, ma tra di essi non ci sono capoluoghi, anche se nell’elenco figura Chioggia che ha più abitanti di Belluno e quasi quanto Rovigo. In larga maggioranza prevale nettamente il dato locale, il che renderà difficile misurare lo stato di salute dei partiti principali. Ma nel resto d’Italia, ci

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sono centri in cui la partita ha un indubbio rilievo anche nazionale: su un versante per capire se il centrodestra riuscirà a ricomporre i cocci, e come gestirà la sfida interna della leadership; sull’altro per verificare se e in che misura l’inesausta guerriglia casalinga del centrosinistra riuscirà a cecchinare Renzi. In mezzo, un check-up significativo pure per i 5Stelle, cui potrebbe dare una mano il burrascoso meteo giudiziario. E tuttavia, proprio per il loro rilievo si tratta di città che hanno assoluto bisogno di essere amministrate per ciò che sono, non per ciò che rappresentano; anche perché alcune di loro, Roma in testa, sono in vistoso dissesto. In linea generale, se si guarda all’insieme delle liste si possono cogliere alcune costanti per nulla lusinghiere: a cominciare dalla vistosa fatica di tutti i partiti, senza eccezioni, nel trovare candidati autorevoli e condivisi; e dalla tendenza, nella ricerca del nome, a privilegiare l’immagine sulla preparazione. Col risultato che questo magari aiuta a brindare la sera delle elezioni; ma rende molto problematico governare per i cinque anni successivi, con molte coalizioni che si sfaldano per strada, e non pochi sedicenti leader che si rivelano un clamoroso flop. È un quadro che aiuta anche a toccare con mano quanto scaduta sia la figura del sindaco rispetto alla prima stagione dell’elezione diretta, a metà anni Novanta: quando il Nordest si era rivelato laboratorio nazionale di ceto politico e di contenuti d’avanguardia ispirati a quel federalismo che allora sembrava una passione condivisa (anche se per molti solo in modo strumentale), e su cui oggi grava un immeritato discredito. Ma il dato principale del prossimo voto riguarda il massiccio astensionismo annunciato: che molti politici scaricano fin d’ora sulla data scelta dal governo. E ci vuole davvero una dose industriale di ipocrisia per addossare al calendario le responsabilità di una diserzione dalle urne che da anni viene alimentata dai fatti & misfatti di quel che resta dei partiti. Eppure, se vuole davvero cominciare a recuperare consenso, è proprio dai Comuni che la politica deve ripartire: non riducendoli al retrobottega dei giochi romani, ma facendone il serbatoio di personale preparato e di pratiche virtuose. Altrimenti, a perdere non sarà un partito o un leader, ma il Paese. Pag 5 Intervenire su stipendi e carriere di Gianfranco Pasquino Quando i dirigenti dei partiti indeboliscono la loro struttura, la aprono agli arrivisti, non controllano la selezione del personale, non sanno escludere chi fa politica non per vocazione, ma per carriera, qualsiasi tipo di corruzione è in agguato e sarà sicuramente praticato dalle Alpi alla Sicilia. Quando i partiti, i loro dirigenti, i loro rappresentanti al governo e all’opposizione si rivelano disposti a tutto pur di mantenere le cariche ottenute e di proseguire la carriera, tutti gli operatori economici, ma soprattutto quelli che in un mercato aperto e competitivo non riuscirebbero a vincere, entrano in relazioni di scambi perversi con quei politici. Negli scambi, inevitabilmente, sono coinvolti anche i burocrati, nominati e promossi dai politici, che traggono il massimo del vantaggio dal loro ruolo cruciale di intermediari, ma, spesso, anche essendo coloro che danno attuazione alle decisioni. Alla fine della filiera si trova la magistratura il cui compito costituzionale è scoprire, processare, punire i responsabili della corruzione che stravolge la vita della collettività e le attività economiche, sociali, politiche. È indispensabile prendere le mosse da queste considerazioni, accompagnandole con il dato della corruzione percepita che pone l’Italia al 63esimo posto nella classifica di Transparency International - ai primi posti stanno i paesi con il più basso livello di corruzione, scandinavi e anglosassoni. Risanare un Paese profondamente corrotto richiede colpire la testa della corruzione, cioè la politica e le burocrazie pubbliche. La legge Severino che, appena approvata, è stata abbondantemente e subdolamente criticata da parlamentari, politici e loro giornalisti di riferimento, va proprio nel senso giusto. Data la vastità della rete di corruzione politica in Italia e la sua straordinaria capacità di riprodursi (inimitabile esempio di “energie rinnovabili”), il contrasto va effettuato, non tanto con l’inasprimento delle pene detentive che, naturalmente, non debbono neppure essere addolcite, ma colpendo politici e burocrati in quello che hanno di più caro: il posto di “lavoro” e le prospettive di carriera. Per quanto riguarda i detentori di cariche elettive, il primo passo è l’immediata sospensione. A condanna acquisita, il secondo passo è la decadenza dalla carica. Infine, il terzo e ultimo passo è la decisiva sanzione dell’ineleggibilità, un po’ come è stata comminata a Berlusconi ma, a mio parere, l’ineleggibilità dovrebbe essere definitiva. Per i burocrati coinvolti in casi di corruzione la sequenza delle pene dovrebbe riguardare,

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innanzitutto, lo stipendio, anche per indennizzare lo Stato (cioè i cittadini) dei danni che hanno subìto; poi, la retrocessione nelle mansioni e quindi nello stipendio; infine, il licenziamento, accompagnato nei casi più gravi anche dalla rivalsa dello Stato sulla pensione eventualmente maturata. Se queste mie riflessioni e proposte hanno qualche validità, i dirigenti di partito e i politici dovrebbero rivisitare in severità la legge Severino e le sue clausole e lavorare sulla riforma della burocrazia predisposta dal ministro Marianna Madia affinchè si giunga ad una rapida e, soprattutto, certa applicazione delle sanzioni da me indicate. Potremo anche valutare la reale volontà dei politici di combattere la corruzione nei loro ranghi e in quelli della burocrazia dalla celerità e dalla sistematicità dei loro interventi e dal loro non intralcio, ma sostegno alle inchieste della magistratura. Quando l’Europa ci guarda è soprattutto la corruzione italiana che vede e l’inadeguatezza degli interventi con i quali ridurla. Meno corruzione, percepita e praticata, più affidabilità: questa sarebbe l’Italia che va avanti. Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di sabato 7 maggio 2016 Pag 1 Lo spettro della piccola Inghilterra di Beppe Severgnini Analisi di un voto «Quando, dopo mesi di viaggio, si ritorna in Inghilterra, si riesce ad assaporare, annusare e sentire la differenza nell’atmosfera, fisica e morale; la curiosa, umida, franca, gioviale, spensierata, antica e tranquilla assenza di forma d’ogni cosa». Così John Galsworthy, l’autore della Saga dei Forsyte, vedeva il suo Paese: intimo e accogliente, capace di trovare quotidiane consolazioni e di cavarsela alla meno peggio. La cosa incredibile è questa: esiste un’Inghilterra che, un secolo dopo, la pensa allo stesso modo. È difficile dire se avrà i numeri per trascinare il Regno Unito fuori dall’Europa, nel referendum del 23 giugno: ma ci proverà. Di certo, guadagna terreno. Mentre Londra elegge il primo sindaco musulmano - Sadiq Khan, avvocato laburista e sorridente - il resto della nazione dimostra un umore diverso. Nel test più importante prima delle elezioni politiche del 2020 - voto municipale in Inghilterra, voto regionale in Scozia, Galles e Irlanda del Nord - il partito antieuropeo di Nigel Farage (Ukip) cresce; il Partito laburista di Jeremy Corbyn, favorevole a rimanere della Ue, cala in Galles e precipita in Scozia, dove si lascia scavalcare dai conservatori. Sempre più divisi tra loro, dopo che il sindaco uscente di Londra, Boris Johnson, s’è schierato per l’abbandono della Ue (Brexit). In un’intervista televisiva, Farage mette allegramente il dito nella piaga. Jeremy Corbyn, dice, «è poco patriottico», «rifiuta d’affrontare il problema dell’immigrazione» e si dimostra «very metropolitan». «Molto metropolitano. Quasi un’offesa, per l’Inghilterra sparsa tra prati e saliscendi, innamorata della birra tiepida e del cricket, sospettosa dei forestieri: soprattutto quando le suggeriscono come vivere. Little England, la chiamano. Ha prodotto ottima letteratura e ancora produce buone marmellate. Ama le proprie abitudini e crede nell’autosufficienza dell’isola. Questa «piccola Inghilterra» non decide più l’indirizzo della nazione; ma potrebbe avere la forza di spingere il Regno Unito fuori dall’Europa, in giugno. Londra è lontana, politicamente e psicologicamente. I London Fields di Martin Amis, per i little Englanders, stanno su un’altra galassia. Il voto di ieri l’ha dimostrato. La capitale - prima in Europa - ha scelto un sindaco di famiglia pakistana. Sadiq Khan ha 45 anni, è il quinto di otto figli di un guidatore di autobus nato a Karachi. Fino a 24 anni è vissuto in una casa popolare a South London, condividendo un letto a castello. Poi l’impegno politico e l’ascesa nel Partito laburista, che a Londra - dopo l’era di Kenneth Livingstone detto Red Ken, «Ken il rosso» - aveva bisogno di facce nuove. Sadiq Khan è un musulmano cosmopolita: uno di quelli che, in Europa, si sentono a casa. «Londra ha dato a me e alla mia famiglia la possibilità di realizzare il nostro potenziale», spiega tranquillo. Più che un ringraziamento, un manifesto dell’Inghilterra di successo, quella che ha saputo trasformare il potere imperiale in influenza globale. Una storia che finirebbe bruscamente il 23 giugno 2016, se la maggioranza degli elettori decidesse di lasciare l’Unione Europea. Non è detto che accada, per fortuna. Spiega Fabio Cavalera sul Corriere: «In Scozia, in Galles e in Inghilterra prevale - per ora - lo schieramento europeista, vale a dire gli indipendentisti, più gli ammaccati laburisti e i conservatori

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sensibili ai richiami di David Cameron». Riassumendo: l’euroscetticismo avanza, ma non ha sfondato. Tutto si deciderà fra sette settimane, probabilmente per pochi voti. Che dire, a chi in Gran Bretagna intende mettere il proprio destino nelle mani astute di Nigel Farage, nelle mani goffe di Boris Johnson o nelle mani deboli di Jeremy Corbyn? Forse una frase dell’autore citato in apertura, John Galsworthy. «Chi non pensa al futuro, forse non ne avrà uno», ha scritto. Pag 1 America, il patto da non svilire di Daniele Manca Ttip e i negoziati sul commercio Dobbiamo prepararci a un altro muro? E questa volta non tra i confini dei Paesi del Vecchio Continente ma addirittura tra Europa e Stati Uniti? La scorsa settimana si è concluso a New York un altro round negoziale sul Ttip. Dietro quella sigla si cela uno dei più importanti passaggi per fare sì che la globalizzazione non sia un processo selvaggio, quanto sia governata da regole e disposizioni condivise. È il Trattato sugli investimenti e il commercio tra Europa e Stati Uniti. Il fatto che abbia tra i suoi scopi la possibilità di rendere più fluidi e naturali i commerci da una parte all’altra dell’Atlantico, abbattendo dazi e dogane, l’ha subito fatto finire nel mirino di chi teme che dietro di esso ci siano soltanto interessi economici, a cominciare da quelli delle multinazionali. Al punto di chiederne il blocco. Il timore, esplicitato in decine di manifestazioni che hanno attraversato l’Europa (oggi i comitati #StopTtip si ritroveranno a Roma), è che il trattato sia una sorta di cavallo di Troia americano per abbassare gli standard qualitativi europei in fatto di agroalimentare, sicurezza del lavoro, persino rispetto dei diritti umani. Ma, verrebbe da dire, proprio per questo esistono i negoziati e i trattati: per evitare fenomeni incontrollati. Tanto più che l’Europa non appare certo unita in una trattativa che sta andando avanti ormai dal 2013. Nel frattempo, il 5 ottobre del 2015 gli Stati Uniti assieme ad altri 11 partner che si affacciano sul Pacifico, hanno siglato il Trans Pacific Partnership. Un patto che riguarda ben oltre un terzo del commercio mondiale (Cina esclusa che non faceva parte della trattativa). Ma che soprattutto fissa principi, dalla sostenibilità ambientale alla difesa della proprietà intellettuale, con i quali anche l’Europa dovrà fare i conti se non vorrà ritrovarsi ai margini. Il rischio vero è che di quel trattato davvero non se ne parli più. Nonostante la spinta di Obama, la sua presidenza è ormai agli sgoccioli, l’America avrà a che fare con un nuovo o una nuova presidente. E se Hillary Clinton sarà in continuità, è nota l’allergia di Donald Trump a questo tipo di accordi. L’Europa da parte sua è divisa. La Francia, per motivi elettorali interni, frena. Alle perplessità di François Hollande si sono aggiunte quelle più esplicite del ministro al Commercio estero Matthias Fekl. Angela Merkel, sponsor l’anno scorso del Ttip, è apparsa più fredda. L’Italia, sebbene Carlo Calenda, prima nelle sue funzioni di viceministro e oggi ambasciatore a Bruxelles, sia stato tra i promotori e sostenitori della trattativa, vede una politica distratta e un’opinione pubblica più pronta a dividersi che a valutare vantaggi e svantaggi. Eppure in ballo ci sono regole che permetterebbero alle nostre piccole e medie imprese di accedere all’enorme mercato americano, oltre che di difendere i prodotti del made in Italy. Si potrebbero affermare principi europei su agricoltura, sanità, farmaci. Basti pensare al caso dei polli e tacchini lavati con il cloro. Mentre per l’Europa l’operazione è vietata finché non si dimostri che non è pericolosa, negli Stati Uniti l’operazione è permessa finché non si dimostri che è dannosa. Un cambio di prospettive di non poco conto. Per quale motivo dovrebbe prevalere la visione americana invece di quella europea? Perché dobbiamo dare per scontato che gli accordi siano sempre al ribasso? Si preferisce fare leva sui sentimenti della paura. Pur di non affrontare i problemi li si negano. Come quando si disse che con il negoziato si permetteva l’arrivo indiscriminato degli Ogm in Europa. Cosa non vera. Certo, una delle accuse è proprio che le trattative siano state condotte tenendo all’oscuro i cittadini. Ma al mandato che i 28 Paesi dell’Unione hanno conferito all’unanimità ai negoziatori si è aggiunto un altro importante atto. L’8 luglio scorso il Parlamento europeo ha approvato con 436 voti favorevoli (241 contrari e 32 astenuti) una risoluzione che vincola la trattativa e il suo eventuale esito a chiari principi. Come quello della trasparenza, o l’esplicita esclusione dei servizi pubblici dalle trattative, fino alla non negoziabilità degli standard che attengono alla sicurezza degli alimenti, benessere, salute degli animali, ambiente e protezione dei lavoratori; non ultima, la piena sovranità degli Stati che

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possono abrogare qualsiasi misura nell’interesse pubblico. Al di là degli aspetti e benefici economici, l’accordo, se mai si farà, dovrà essere approvato dalla Commissione di Bruxelles, ma anche dal Consiglio oltre che dai Parlamenti nazionali ed europeo. Arrendersi al fatto che il nostro ruolo è quello al massimo di porre veti, peraltro ininfluenti sull’intero processo della globalizzazione, sarebbe una condanna. Una condanna a competere, cittadini, imprese e Paesi, con regole che ovviamente a quel punto saranno decise dai più forti. Pag 1 La scelta (difficile) del ministro per lo Sviluppo di Francesco Verderami Quando era al governo, Berlusconi impiegò centocinquantuno giorni per sostituire Scajola con Romani al ministero per lo Sviluppo economico. Impossibile battere quel record. Ma il fatto che a più di un mese dalle dimissioni della Guidi non sia stato ancora scelto un sostituto, evidenzia per Renzi un problema di penuria di classe dirigente. Perché non c’è dubbio che se il premier avesse individuato una soluzione l’avrebbe già indicata al capo dello Stato. E dunque le discussioni sul profilo tecnico o politico nel metro di selezione del candidato, la volontà di mantenere un equilibrio tra generi nel governo, e il conseguente balletto mediatico sul nome della nomina, sono l’effetto non la causa dell’impasse. Il garbuglio è un altro, emerge da una battuta pronunciata da Renzi al termine dell’ennesima fumata nera: «Mi serve uno che sia all’altezza». Così il premier ha fatto mostra di essere consapevole del suo problema: quello di non avere personale a sufficienza, soprattutto nel Pd. È una sorta di crisi di vocazione o una mancanza di talenti. Di sicuro è un fatto senza precedenti per un partito erede della tradizione comunista, che ha sempre tradizionalmente espresso personalità nel campo delle relazioni industriali e sindacali: perché quello del lavoro - nelle sue varie espressioni - è stato per decenni il core business della sinistra. Da quando la Guidi ha lasciato lo Sviluppo economico, a palazzo Chigi ogni settimana si è chiusa con la promessa di risolvere la pratica per la settimana successiva. Sebbene la settimana scorsa il premier abbia ammesso che «siamo ancora in alto mare», e questa settimana abbia dovuto depennare (quasi) tutti i nomi della lista. Errani, Bellanova, De Micheli, Testa: ogni soluzione ha la sua controindicazione, per ragioni politiche, per lo standing inadeguato, per i rischi di insorgenti conflitto d’interessi... Renzi si è dovuto convincere che anche De Vincenti, il più accreditato, non poteva essere trasferito. Intanto perché il sottosegretario vuole rimanere alla presidenza del Consiglio, eppoi perché lo stesso premier si è reso conto che - dopo aver già spostato Delrio alle Infrastrutture - trovare per quel ruolo un terzo sostituto dopo due anni di governo non sarebbe opportuno. Né sarebbe possibile richiamare oggi Calenda dalla missione diplomatica, visto che è appena partito per Bruxelles. Proprio questo gioco di incastri, dove girano sempre i soliti nomi, è rivelatore della penuria di classe dirigente. Ed è un segnale preoccupante per chi - inseguendo il blairismo e puntando sul ricambio generazionale - si ritrova sguarnito di uomini e donne con cui dar seguito alla svolta. È come se dietro la rottamazione non ci fosse (quasi) nulla. Perciò è indicativo il modo in cui, qualche sera fa, Renzi si è rivolto ad alcuni rappresentanti del suo gruppo dirigente. La tensione legata all’offensiva giudiziaria e all’offuscamento d’immagine del Pd era altissima nella stanza, quando il premier si è sfogato: «...E non riusciamo a far passare il messaggio che stiamo facendo le riforme». Il fatto è che nel Pd si avverte un certo scollamento, se è vero che un esponente di lungo corso come il governatore del Lazio, ha deciso di centellinare la partecipazione alla campagna elettorale per le Amministrative. «Mi sono arrivati centinaia di inviti», ha raccontato ad un compagno Zingaretti: «Ma di questi candidati ne conosco pochissimi. E allora ho deciso di andare solo da quelli che puntano alla riconferma. Per sicurezza». Per la sostituzione della Guidi la prossima settimana potrebbe essere quella buona. O forse bisognerà attendere ancora un’altra settimana, proprio a ridosso dell’assemblea di Confindustria, convocata per fine mese: si noterebbe se si aprisse in assenza del ministro. Dal dicastero lo hanno segnalato. Non passa sera senza che arrivino segnalazioni a palazzo Chigi: dall’accumulo di dossier, fino alle «sollecitazioni» del Parlamento, dove giacciono provvedimenti come quello sulla concorrenza, fermo alla commissione Industria del Senato. I centocinquantuno giorni di interim di Berlusconi sono un record che Renzi non potrà mai battere. Ma nei cinque mesi di supplenza, il premier dell’epoca - muovendosi al limite dei conflitti d’interesse - si occupò di quel

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ministero dove Renzi non mette piede e non mette firme, al punto che anche le strutture tecniche sono ormai scadute, e c’è chi teme che la Corte dei Conti decida di intervenire. Serve chiudere il dossier, serve «uno all’altezza». Pagg 2 – 3 Il figlio dell’autista che tiene assieme business e Corano di Fabio Cavalera e Paola De Carolis Sadiq Khan volto di una città dai 300 dialetti. La scrittrice Shamsie: “Siamo la vera capitale multiculturale” Londra. «Voglio essere il sindaco di tutti i londinesi». Sembra una frase banale, buttata lì a conclusione di una campagna elettorale importante. Ma detta da Sadiq Khan, che stacca di 14 punti l’avversario conservatore Zac Goldsmith e diventa sindaco di Londra, ha un senso preciso. Lo ha per la sua storia di figlio di immigrati pachistani (il padre era conducente di autobus), per il suo impegno di avvocato a difesa di diritti civili, per la sua fede musulmana, per il suo laburismo lontano dai fantasmi di Tony Blair e di Jeremy Corbyn, per il rifiuto degli estremismi e dei populismi. «Ho la mia visione, le mie idee, le mie politiche». Un suo collaboratore confida al Guardian: «Vince Sadiq Khan, non vince Jeremy Corbyn». Fotografia perfetta. Sadiq Khan è un uomo trasversale, che piace alla sinistra, al centro e un po’ alla destra. E’ diversissimo da Boris Johnson, stravagante ma efficiente sindaco conservatore per otto anni. Ma con Boris Johnson condivide la virtù di cercare e trovare consensi oltre lo steccato ideologico e religioso. Esprime bene ciò che è diventata questa straordinaria e contraddittoria megalopoli. Londra è multietnica con il 55 per cento dei residenti «non bianchi britannici» (ultimo censimento). Ed è una città laburista: un milione e mezzo di voti lo scorso anno alle consultazioni generali contro 1 milione e 200 mila conservatori e 45 deputati su 73 eletti ai Comuni. Anche nel momento di maggiore declino a livello nazionale, Londra non volta le spalle al Labour. Boris Johnson nel 2008 e nel 2012 era riuscito a spezzare l’incantesimo ma fu per la sua personalità e per il suo apparire fuori dagli schemi. Trionfò lui, non trionfarono i tory . E così, a parti invertite, è oggi. Sadiq Khan può contare sulla base tradizionale laburista e la unisce ma Londra è una città pragmatica, di 300 dialetti, di forti enclave musulmane, di aree ebraiche, di quartieri hindu, e non è sufficiente ancorarsi a vecchi valori. Occorre avere idee per fare correre la città, per mediare fra l’opulenza e la povertà che c’è, per accogliere i capitali dal mondo e per garantire servizi a chi è in condizioni di marginalità, per favorire il business e per contrastare chi approfitta del potere e dei soldi. Sadiq Khan interpreta la dinamicità sociale, economica, politica di questa Londra. E’ il fattore personale, non il fattore di appartenenza a un partito, che ha un ruolo decisivo. Sadiq Khan è giovane (46 anni) in una capitale giovane. E’ progressista e moderato in una capitale progressista e moderata. Propone cose di sinistra e cose che di sinistra non sono. Assicura il congelamento per quattro anni delle tariffe dei trasporti, vuole che gli affitti siano proporzionati al reddito, promette la precedenza ai londinesi nella corsa alla case, invoca gli investimenti immobiliari privati ma intende istituire un albo o un registro dei proprietari «cannibali» o in malafede. Lo ripete spesso: «Se si è ostili pregiudizialmente al business si dà l’impressione di non capire a pieno ciò che fa pulsare l’economia». Nella «sua» Londra prefigura la pedonalizzazione di Oxford Street e la realizzazione di «rotte» libere dai gas del traffico per i bambini che camminano verso le scuole. Vincola il suo mandato a una più stretta collaborazione con le comunità religiose ma chiede una maggiore presenza della polizia in metropolitana e sugli autobus, doterà gli agenti di telecamere mobili per controlli efficaci e preventivi. La sicurezza non è un monopolio dei conservatori. Lo hanno bollato come «amico» dei predicatori musulmani integralisti. Sadiq Khan è un avvocato e ha risposto con calma: «Può essere che un legale incontri nell’ambito della sua professione certi individui. Ciò non significa condividere una sola virgola delle loro farneticazioni». Le accuse più che colpirlo lo hanno rafforzato. A Londra le strumentalizzazioni emotive non funzionano. Non è un volto nuovo perché è stato già ministro dei trasporti nel 2009, parlamentare e ministro laburista ombra della giustizia, ma Sadiq Khan è comunque il simbolo moderno della problematicità londinese che si proietta nel futuro. «Una Londra fuori dall’Europa non è proprio immaginabile». La sua campagna elettorale non è chiusa. Adesso per un mese girerà per contrastare le suggestioni della Brexit.

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Londra. Nata in Pakistan, cresciuta negli Usa, cittadina britannica: Kamila Shamsie si sente oggi «un po’ più orgogliosa di essere londinese». L’elezione di Sadiq Khan, sottolinea l’autrice di «Sale e zafferano» e «Ombre bruciate», nonché editorialista del Guardian , è un risultato che «’dice tanto sul carattere di questa città. E’ un grande traguardo per tutti i londinesi». Cosa significa per la comunità musulmana che sia stato eletto Khan? «Al National Theatre, proprio a due passi da City Hall, dove si trova l’ufficio del sindaco, è andata in scena nelle ultime settimane una piece sui giovani che si sono legati all’Isis, scritta con testimonianze vere di studenti musulmani di Londra. Uno racconta che sta attento a non usare parole come “esplosione” in pubblico, un altro che sa benissimo che se poggia lo zainetto per terra per sistemarsi la giacca la gente si preoccupa. In questo clima di diffidenza e paranoia il valore simbolico dell’elezione di un sindaco musulmano è enorme». E per lei personalmente? «Vuol dire più di quanto avrei immaginato qualche mese fa. Allora mi sarei accontentata di un candidato laburista piuttosto che uno conservatore, ma la campagna di Zac Goldsmith ha trasformato la scelta del sindaco in un esame per Londra e per tutti i suoi abitanti. La gioia che provo adesso è più per la città che ho adottato che per Sadiq Khan. Mi piacciono diverse sue iniziative, ma dobbiamo vedere cosa farà come sindaco prima di valutare». L’hanno sorpresa i toni negativi della campagna dell’opposizione? «Inizialmente sì. Zac Goldsmith ha la reputazione di essere un uomo integro, ma ho letto Shakespeare: so che quando c’è odore di potere la gente è pronta a fare di tutto. Avremmo dovuto capire che tipo di campagna intendeva condurre quando ha scelto Lynton Crosby (già stratega di David Cameron e del sindaco uscente Boris Johnson, n.d.r.) La reputazione di Crosby non è per la decenza ma per la vittoria ad ogni costo». Crede che l’arrivo di Khan a City Hall migliorerà le relazioni tra musulmani e non? «Sarà più facile per un ragazzo musulmano pronunciare la parola esplosione? Non credo. La campagna piena di odio rivolta nei confronti del nuovo sindaco, però, ha evidenziato quanto sia difficile essere un musulmano nella sfera pubblica e allo stesso tempo quanto sia facile per gli altri assegnarti l’etichetta di estremista anche quando quello che hai fatto nella tua vita è sempre andato nella direzione opposta. Questo non è un problema che sparirà perché è stato eletto Khan, ma se Goldsmith, con la sua campagna, l’avesse spuntata allora il danno alle relazioni tra musulmani e non sarebbe stato grave. Oggi invece possiamo festeggiare tutti, musulmani e non. Forse potremmo anche permetterci “un’esplosione” di fiochi d’artificio». Il multiculturalismo di Londra, del quale si parla tanto, è reale, secondo lei, o è solo superficiale? «Non può essere solo superficiale o non avremmo avuto questo risultato. Un mio amico di New York mi ha detto recentemente che Londra sembra più multiculturale di qualsiasi altra città, New York inclusa, perché in giro ci sono più coppie miste. Credo sia un buon parametro. Non vuol dire che non ci siano razzismo, isolazionismo o altre forme di bigotteria, ma tutto sommato credo che Londra abbia trovato la formula giusta». Lei ha preso di recente la cittadinanza britannica. Si sente più orgogliosa di essere britannica? «Ho sempre un po’ di diffidenza nei confronti di qualsiasi tipo di orgoglio nazionale, ma sono sicuramente più orgogliosa di Londra». Pag 6 Un altolà al “trumpismo” anche nella Chiesa di Massimo Franco La seconda sferzata di papa Francesco è figlia di un allarme crescente. Spiegare perché parlò di «Europa nonna sterile» nella sua visita-lampo a Strasburgo nel novembre del 2014, e evocare invece un’immagine di «madre accogliente» del Vecchio Continente, significa proporre un’alleanza contro i populismi. È una mano tesa a leader spaventati da opinioni pubbliche euroscettiche; e incapaci di trovare una strategia per fermare una cultura delle barriere che sgretola la Ue. Ma è una proposta di alleanza alle sue condizioni, controcorrente. Ricevendo il Premio Carlo Magno ieri in Vaticano davanti alle massime autorità dell’Ue, Francesco si presenta come leader dell’«Internazionale del dialogo» contro quella dei «muri». Offre un solido sostegno etico a governi che

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combattono una narrativa plasmata dalla paura e dal razzismo, oltre che dall’insicurezza economica. Mette in guardia sul pericolo di «creare coalizioni militari» che moltiplicano e non risolvono i problemi. E addita una ricostruzione a partire dai valori dei padri costituenti. Ma l’impressione è che non parli solo alle istituzioni civili. Per quanto non evocate, destinatarie delle parole papali sono anche le Chiese europee. L’appello riguarda il modello di cristianesimo che la crisi sta facendo emergere. Anzi, «i» modelli, perché le timidezze sui migranti di alcune conferenze episcopali, l’ostilità a volte pregiudiziale verso l’Islam sono pezzi della «cultura dei muri». Nel gennaio del 2016 è stato il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna e suo collaboratore, a dire che «la Cortina di ferro esiste di nuovo, in altro modo». Sullo sfondo di quanto avviene nella sua Austria, con la barriera al Brennero, le sue parole appaiono quasi profetiche. E il pontefice ieri le ha ribadite e rese più solenni, denunciando una sorta di oblio collettivo della storia: come se il continente avesse dimenticato «l’ampiezza dell’anima europea», che è sempre stata «dinamica e multiculturale». Per Francesco si tratta di una sfida da vincere soprattutto dentro la Chiesa. La prevalenza di una lettura non inclusiva del cattolicesimo e più in generale del cristianesimo, significherebbe la sconfitta della sua idea di religione. Vorrebbe dire assecondare un cattolicesimo nazionalista e xenofobico, come quello che sta prendendo piede in nazioni come la Polonia; o che perseguono in Italia movimenti come la Lega Nord, e in Francia il Front National. Ma Francesco guarda all’intero Occidente, che ha «accerchiato» pronunciando discorsi dalle periferie del mondo; e ponendolo adesso di fronte alle proprie contraddizioni e fragilità direttamente dal Vaticano. Non esiste solo Donald Trump. Esistono anche i «Trump europei», e un «trumpismo religioso» al quale Francesco ha dato un altolà. Pag 17 Kim e l’elogio della Bomba di Guido Santevecchi Reportage dalla Corea del Nord Eccoci davanti a un brutto palazzone grigio che i nordcoreani chiamano Casa della Cultura. Sulla facciata le gigantografie di Kim Il Sung, fondatore della Repubblica, e del figlio Kim Jong-il, entrambi defunti. Sono le 10 del mattino e all’interno Kim Jong-un, 33 anni (forse, perché la data di nascita è uno dei molti misteri statali) sta tenendo il discorso d’apertura del Congresso del Partito dei Lavoratori, che non veniva convocato da 36 anni. Una delle poche cose che si possono affermare con sicurezza sul Paese più isolato del mondo è che al suo leader piace l’imprevedibilità. Per settimane la propaganda di Pyongyang aveva preparato il popolo e il pianeta a un grande annuncio di Kim davanti ai 3500 delegati del Congresso. Ma invece di trasmetterle in diretta, fino a notte nessuna parola del leader era stata diffusa. La tv di Stato, al posto dell’evento, ha mandato un vecchio film sulla guerra anti giapponese, concerti di bambini con chitarre e fisarmoniche, documentari, inni patriottici e tre notiziari senza la notizia. Kim Jong-un avrà avuto le sue ragioni per temporeggiare. La tv è stata autorizzata a diffondere il discorso solo alle 10 di sera, con una dozzina di ore di ritardo, quando i nordcoreani di solito hanno già spento la luce. Kim, in gessato scuro extralarge, ha parlato per una decina di minuti, suscitando applausi frenetici in sala. La durata delle ovazioni ha superato quella di un discorso che non sembra epocale. L’illusione di una svolta l’avevano data i nordcoreani che ci hanno accompagnati (scortati) alla Casa della Cultura, accanto alla smisurata stele posata su due archi dedicata all’Eterno Presidente Kim Il Sung. Le aperture alla stampa straniera si sono fermate qui, a duecento passi dall’ingresso: non ci è stato consentito di entrare, solo di restare nella piazza per un paio d’ore. C’era un discreto movimento di abitanti di Pyongyang, che passavano o si erano radunati su una collinetta, non si è capito se più per interesse verso il congresso o per godersi la novità della presenza di giornalisti e tv venuti dall’estero. Diversi, quando abbiamo cercato di avvicinarli, si sono voltati e sono scappati via. Ma alcuni si sono fermati, prima con sguardi duri, poi compiaciuti del nostro interesse e finalmente sorridenti. Choi Siwon, conducente d’autobus: «Il Congresso? Io ho un amore enorme per il Partito e il Rispettato Maresciallo Kim ama il suo popolo, quindi annuncerà sicuramente qualcosa di grande per la gente». Più articolato Jong Song Nam, studente di IT, 19 anni: «Dopo 36 anni dall’ultimo Congresso il popolo è molto cambiato, ma l’entusiasmo è lo stesso»; «l’America? Uhm, ha diviso il nostro Paese in due, l’unico modo di fare la pace sarebbe il loro ritiro completo dal Sud»; «le nostre armi nucleari?

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Sono orgoglioso, gli americani ci hanno sempre minacciato, ora invece possiamo difenderci e raggiungere grandi obiettivi per l’economia». Li Ok Mi, casalinga di 40 anni sta andando a fare la spesa: «Comprerò uova, le farò semplici, bollite. Vorrei decisioni per migliorare la vita del popolo». Spera e crede in misure per alzare la qualità della vita quotidiana anche la signora Kim Su Ryou, 31 anni, carina e madre di una bambina di 7 anni. «Scrivete la realtà che vedete qui, non mentite», ci dice; aggiunge che «l’America resta il nemico, fin dal 1950, quando ci colpì con brutalità». Bene, scriviamo tutto le assicuro, ma quali sono in concreto le misure per la gente che vorrebbe dal Rispettato Maresciallo Kim Jong-un? La signora si perde: «Non so che cosa decideranno, spero che il Paese diventi più potente». Ma per sé cosa vorrebbe, poter viaggiare all’estero magari? «No, mi piace vivere qui». Più prodotti? Paga migliore? Scuote la testa disorientata. E per sua figlia, quando crescerà? «Vorrei che diventasse membro del Partito». Le risposte sembravano autentiche, segno che questi cittadini di Pyongyang non hanno tempo e voglia di sperare in qualcosa che non sia «l’amore del Rispettato Maresciallo Kim Jong-un». Questo Congresso del Partito dei Lavoratori, solo il settimo nei circa settant’anni della sua storia, è il primo dal 1980. Quando si tenne il sesto, Kim Jong-un non era ancora nato e il nonno Kim Il Sung annunciò che il suo successore sarebbe stato il figlio Kim Jong-il: la nascita della Dinastia Kim. Il secondo Kim non convocò alcun congresso nei suoi 17 anni di dominio (è morto nel 2011). Ora il terzo Kim utilizza lo strumento dell’assemblea suprema del partito per proporsi come diretto erede del nonno, del quale sembra avere il carisma e la capacità di comunicare con il suo popolo. Kim ieri ha detto che la Corea del Nord «ha una potente forza deterrente nucleare», ha elencato per nome cinquanta eroi della Repubblica e detto che il Paese diventerà «più prospero». Pare di capire che il progetto nucleare proseguirà simultaneamente allo sviluppo di un’economia oggi arretratissima. Una sorta di promessa «burro e cannoni», che in coreano si definisce «Byungjin», «linee parallele». E queste linee parallele dovrebbero sostituire la linea unica del padre di Kim, il «Songun» che significava «prima le forze armate». Quindi, Kim Jong-un avrebbe deciso di convocare il congresso dopo 36 anni per riaffermare la superiorità del partito (e la propria). «In questi 36 anni sono stati ottenuti risultati miracolosi», dice Kim con molta immaginazione. Ma a Pyongyang qualche segno di novità si coglie davvero: si vedono taxi e alcune auto private, anche se le strade sono poco trafficate, i numerosi vigili urbani del tutto inoperosi e la notte le strade tornano deserte; ci sono interi quartieri residenziali nuovi; si notano numerosi chioschi per la vendita di bibite e cibo, segno forse di una nascente impresa familiare. Di fronte ai chioschi abbiamo visto qualche fila di cittadini: i risultati miracolosi al momento sono solo questi. IL GAZZETTINO di sabato 7 maggio 2016 Pag 1 Il coraggio di una riforma radicale di Bruno Vespa Le ultime vicende giudiziarie del Pd confermano che quando un partito gestisce gran parte del potere nazionale e locale ha le sue cadute, senza che questo lo trasformi in una associazione per delinquere. Come accadde e accade a uomini di Forza Italia, alcuni degli inquisiti vengono sottoposti a misure eccessive,altri saranno assolti. E’ in ogni caso scontato che nessuno potrà rivendicare primati d’intangibilità morale, con la parziale eccezione del Movimento Cinque Stelle e dei partiti che comunque hanno ancora troppo pochi luoghi di governo per accedere a una statistica nazionale. Come accadde tuttavia a Forza Italia quando Berlusconi era al potere, sembra di intravedere una maggiore "attenzione" della magistratura al partito dell’attuale maggioranza, quasi a ribadire che il vero potere in Italia è quello dei giudici. L’intervista del "Foglio" di Piergiorgio Morosini, consigliere di Magistratura Democratica al Csm, è in questo senso esemplare. Il magistrato non ha detto testualmente “Perché Renzi va fermato”, ma ne ha spiegato le ragioni in maniera analitica: “Se passa la riforma costituzionale, Renzi farà come Reagan: un’infornata autoritaria di giudici della Corte costituzionale e di membri laici del CSM allineati col suo pensiero”. Un cittadino ha tutto il diritto di pensare quello che crede. Un magistrato, per di più investito di una funzione istituzionale, non può fare una campagna né a favore né contro un governo. E invece fin da gennaio Magistratura democratica ha creato una struttura "militare" distribuita sul territorio e confermata da Morosini per votare No al referendum d’autunno. Il consigliere, che è persona seria,

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ammette inoltre di non poterne più del Consiglio superiore della magistratura “perché qui tutto è politica. La politica entra da tutte le parti: correnti, membri laici…”. Il punto è questo: la magistratura fa politica. Quando la Costituente decise di rendere il pubblico ministero indipendente dal potere esecutivo, al contrario di quanto accade con sfumature diverse negli altri paesi, nessuno – mi avrebbe detto Andreotti – pensava alla formazione di correnti e a una politicizzazione così strutturata della magistratura. Da molti anni i giudici fanno politica, talvolta forzano o disapplicano leggi votate dal Parlamento e oggi si battono pubblicamente per bocciare una riforma costituzionale – buona o cattiva che sia – votata dalle Camere a maggioranza assoluta. Renzi ha pensato di dare una lezione ai giudici anticipandone il pensionamento a 70 anni e riducendogli le ferie. Per una volta ha peccato di ingenuità. Guai a ferire leggermente l’orso, ricordano i cacciatori: diventa più pericoloso. L’autoriforma del Consiglio superiore della magistratura è una barzelletta. Il governo faccia una legge che imponga il sorteggio dei magistrati da mandare al Csm formando rose ristrette su cui votare. E’ il minimo sindacale. In ogni caso, fino a quando una maggioranza parlamentare non avrà il coraggio di fare una radicale riforma dell’intero ordinamento, il potere dei giudici resterà di gran lunga quello prevalente sugli altri. Pag 1 La prima volta di Londra: un sindaco musulmano di Giuliano Da Empoli A poco più di un mese dal referendum sull’Europa, il risultato delle elezioni inglesi di giovedì è tutt’altro che incoraggiante. Trasmette piuttosto la sensazione di un Paese disorientato e confuso, attraversato da pulsioni contraddittorie che nessuno, né la maggioranza né l’opposizione, sembra avere la forza di governare. Da una parte c’è Londra, che elegge il suo primo sindaco musulmano, Sadiq Kahn, premiando un laburista pragmatico che ha assai poco a che vedere con la linea attuale del partito, e penalizzando i conservatori che avevano scelto un candidato più a suo agio nei saloni di Mayfair che tra gli elettori della città più cosmopolita d’Europa. All’estremo opposto c’è la Scozia, dove il Labour, storicamente dominante, è praticamente sparito, sostituito dal partito indipendentista scozzese e, a partire da ieri, anche dai conservatori che sono diventati la principale forza di opposizione della regione. Nel mezzo, il resto della Gran Bretagna, dove i risultati sono più o meno stazionari: il Labour guadagna qualche seggio in Galles, i liberal-democratici si riprendono un po’ dopo l’apocalisse dell’anno scorso, così come il partito xenofobo Ukip, mentre i conservatori arretrano leggermente senza subire alcun tracollo. In pratica, nessuno vince e nessuno perde: una vera e propria eresia in questo sistema abituato da sempre alla chiarezza brutale del regime maggioritario. E di rado si è sentito un così caloroso invito a costruire un nuovo futuro a partire dall’identità europea che, secondo il Pontefice, sarebbe sempre stata «dinamica e multiculturale». Per quanto il ritratto storico di Bergoglio sia troppo benevolo verso il vecchio Continente che, oltre ad essere patria dell’umanesimo, ha infiammato il mondo con due guerre mondiali, ha inventato i totalitarismi, ha prodotto lo sterminio degli ebrei, il suo è un invito a guardare avanti. Come spesso nei discorsi di questo Papa, pure quello di ieri si colloca su un doppio registro, teologico-morale e politico. Che cosa è se non un ragionamento politico quello a favore di un’Europa dell’«economia sociale» rispetto al «profitto»? E che cosa è se non un invito politico quello a «costruire ponti e abbattere muri», cioè ad accogliere gli immigrati? Beninteso, la Chiesa ha non solo il diritto ma addirittura il dovere di esprimere posizioni politiche e del resto nella storia, pure di questo secolo, le “divisioni del Vaticano”, come diceva spregiativamente Stalin, hanno pesato, e quasi sempre a favore della democrazia e della libertà. Il suo discorso è improntato, ed è ovvio lo sia, ai valori della religione che, più di tutte quelle monoteistiche, afferma l’uguaglianza degli uomini. Per cui sarebbe curioso sentire un Papa invitare alla chiusura delle frontiere o a scacciare i bisognosi. La Chiesa, ci insegna Max Weber, è detentrice dell’etica della convinzione e da questa non può né deve allontanarsi. Ben diversa però deve essere l’ottica della politica. I governanti, per citare ancora Max Weber, sono o almeno dovrebbero essere dominati dall’etica della responsabilità rispetto a quella della convinzione. E quando la politica ha anteposto la seconda alla prima, i risultati sono stati sempre disastrosi. Inoltre la politica dovrebbe conoscere quella che gli scienziati sociali chiamano eterogenesi dei fini, cioè che le decisioni non ponderate possono produrre l’effetto opposto a quello desiderato. Nello

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specifico, ci sarebbe da eccepire se le forze politiche o peggio i governi volessero tradurre in misure i moniti del Papa sull’immigrazione. In primo luogo perché la politica deve avere una sua autonomia di giudizio dalla Chiesa, altrimenti si ricadrebbe in forme di clericalismo. Quello che si ritrova in tante forze politiche progressiste, non solo italiane, che per una vita si sono battute contro le ingerenze della Chiesa fino all’anticlericalismo più estremo e oggi sono diventate “bergogliane”, per quanto a corrente alternata, come si vede sulla questione dei matrimoni omosessuali. In secondo luogo, la linea direttrice degli esecutivi deve essere la difesa dei loro cittadini. E una politica di apertura delle frontiere indiscriminata, un invito a tutta la miseria del mondo a riversarsi sull’Europa, farebbe in poco tempo saltare il patto civile, produrrebbe gli effetti contrari a quelli desiderati, e insomma disintegrerebbe il Vecchio Continente. Che, come ci insegna la storia, sarà pure un Paradiso, ma nei momenti di crisi si popola di diavoli. LA NUOVA di sabato 7 maggio 2016 Pag 1 Manette, affari e politica di Bruno Manfellotto E dunque: può un magistrato parlare, dibattere, dire ciò che pensa? Certo che sì, è un cittadino anche lui, e poi qui straparlano politici giornalisti architetti attricette e grandi chef… Ma sarebbe buona regola che lo facesse citando fatti, dati e vicende, senza facili generalizzazioni, tipo oggi si ruba più di ieri, la corruzione ha vinto e via denunciando. E può un magistrato esprimere opinioni su vicende politiche? Un prudenziale silenzio sarebbe d’oro, ma nella società dei talk show, di Facebook e Twitter, come si fa ad alzare cartelli di divieto? E dunque sì, che si esprima pure, ma almeno eviti di condurre in prima persona campagne elettorali per un partito o per il sì o il no a un referendum. Non è ipocrisia, non è solo buon senso: il cittadino ha il diritto di pretendere che si amministri giustizia con spirito terzo e non in odio o a favore di questo o di quello. E comunque anche i magistrati devono muoversi entro confini precisi che consentano a tutti di valutarne i comportamenti. Ci risiamo. Non è la prima volta che politica e giustizia entrano in rotta di collisione. Stavolta è successo per le interviste bomba di Piercamillo Davigo, pm di “Mani Pulite” e poi illustre giudice di Cassazione - ma è segretario dell’Anm, il sindacato dei magistrati, è forse pensabile mettergli il bavaglio? -, e per le dichiarazioni off record, ma poi stampate sul “Foglio”, di Piergiorgio Morosini, consigliere del Csm in quota Md, corrente di sinistra dei magistrati, il quale, oltre a dire peste e corna di politici e colleghi, ci ha anche informato di battersi per il no al referendum di ottobre. Che è come dire no a Matteo Renzi. Se poi tutto questo gran vociare alla vigilia di importanti elezioni e del referendum sulla riforma costituzionale cade a cavallo delle inchieste su Tempa Rossa, petrolio e affari, su Stefano Graziano, politica e mafia, su Simone Uggetti, piscine e appalti di favore, e su Renato Soru, evasione fiscale, tutti in casa Pd, la storia si colora di sospetti, di complottismo e di scontro frontale. Più volte in passato, di fronte a inchieste giudiziarie su sindaci deputati e assessori, Giorgio Napolitano aveva messo in guardia da un sostegno all’operato della magistratura acritico e pregiudiziale, come era accaduto per la prima inchiesta su Tangentopoli e nel ventennio successivo per indagini e sentenze sul governo ad personam di Silvio Berlusconi (corruzione di giudici, conflitti di interesse, bunga bunga): quando verrà il momento di censurare qualche eccesso, lasciava intendere il Presidente, sarà più difficile motivare un diverso punto di vista. Una conferma dei “caveat” di Napolitano si è avuta in queste ore, per esempio con le dichiarazioni a ruota libera di Morosini e con le manette ai polsi del sindaco di Lodi. Qui però ci si è divisi amabilmente e politicamente sull’opportunità o meno del provvedimento di arresto (ieri confermato dal gip), con l’effetto di nascondere la sostanza degli avvenimenti, una squallida vicenda di mala amministrazione, i suoi dettagli e le intercettazioni talmente chiare ed evidenti che Uggetti non ha potuto fare altro che confessare confermando tutto. Così non si può andare avanti. Ma spetta proprio alla politica darsi da fare per spezzare una spirale che essa stessa ha avviato, e intanto evitare di avvelenare il voto. Il lento declino dei partiti, la loro sempre più scarsa presenza sul territorio, la difficoltà di vigilare sul rispetto di regole minime di comportamento e perfino di compilare liste elettorali con nomi indiscutibili, li ha spinti sempre più a delegare di fatto alla magistratura il compito di selezionare i gruppi dirigenti eliminando corrotti e corrompibili e sanzionando pratiche illecite o solo discutibili. Con il risultato di rendere sempre meno credibile sia la politica

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sia la magistratura spesso costretta a svolgere compiti incoerenti con il suo ruolo. Il salto di qualità della criminalità e delle mafie, sempre più lontane da lupara e kalashnikov e sempre più infiltrate nei gangli della Pubblica amministrazione, ha fatto il resto. Non c’è molto tempo per evitare che, finito il clamore della battaglia, si possano solo contare morti e feriti. E piangere sulle occasioni perdute. CORRIERE DEL VENETO di sabato 7 maggio 2016 Pag 1 I due volti dei flussi migratori di Piero Formica Oltre i “muri” Quella che fu l’Austria Felix alza un «muro» (in realtà una rete metallica di 300 metri peraltro scavalcabile) al Brennero. Alla moltitudine che fuggendo dalla guerra è alla ricerca di una voce amica giunge dal di là del «muro» un urlo di rigetto. È un coro che intona «non possiamo accoglierli tutti». Dove quel «tutti» - nella piena comprensione del fatto che accogliere tutti appare assai problematico - cela concetti indeterminati. Appaiono in tutta evidenza le braccia e le gambe di chi fugge dalla guerra, dalle privazioni della libertà personale, dalla povertà. In ombra, poco o nulla s’intravede del loro potenziale intellettuale. Non si pensa ai lavori scoraggianti che quelle persone copriranno al posto nostro. Peggio, non si riflette sulle intelligenze che riceviamo. È grazie ai flussi migratori che i paesi d’accoglienza sono avanzati nello sviluppo sociale ed economico, stringendo legami con persone e mercati di città e paesi distanti. Le comunità, le città inclusive sono più intelligenti giacché vedono nell’immigrazione e nella crescita della popolazione una leva di progresso, e agiscono conseguentemente. Le ricerche condotte dimostrano che densità e diversità degli abitanti di una città fanno crescere numero e frequenza delle interazioni. Le città che non sono in grado di attrarre e trattenere i migranti e, tra loro, i talenti rimpiccioliscono. I loro abitanti votano con i piedi anziché con la testa (per non dire col cuore). Mentre è proprio sull’influenza reciproca tra i diversi che si fonda il rinascimento imprenditoriale di cui tanto s’avverte la necessità in Veneto. Il monito del sommo Dante risuona tuttora forte: «La mescolanza delle genti è causa dei mali delle città». Un ammonimento, però, che ha significato affatto diverso da quello comunemente inteso. Sarebbero, invece, da osservare con attenzione le correnti migratorie e il dialogo tra genti di molteplice provenienza ed estrazione che scaturì durante il Rinascimento. Effetti perversi dell’immigrazione e messa a repentaglio dei valori modellati dall’omogeneità etnica sono figure retoriche che prevalgono nel dibattito corrente. La lunga lista delle degenerazioni provocate dell’onda migratoria comprende squilibri etnici e generazionali (giovani gli stranieri e anziani i veneti), recrudescenza delle problematiche di sicurezza, riduzione dei valori immobiliari nei quartieri con addensamento di stranieri e abbassamento della qualità dell’istruzione. Tutte degenerazioni che mettono a dura prova una qualsiasi ipotesi di integrazione. Trascurati, invece, i vantaggi dell’interazione tra culture diverse, con ricadute positive sull’istruzione delle nuove generazioni, e il potenziale d’imprenditorialità che l’immigrazione dischiude e sfrutta. Per il Veneto che aspira al rinnovamento, le norme tanto invocate per la regolazione dei flussi migratori andrebbero accompagnate da interventi che facilitino le comunità d’immigrati ad autorganizzarsi per darsi un’identità e una visibilità collettiva. Se ciò accadesse, quelle comunità costruirebbero dei ponti tra i paesi d’origine e il Veneto. Un fatto, questo, di grande rilievo poiché l’internazionalizzazione delle piccole imprese venete corre anche lungo i canali di comunicazione aperti dagli immigrati e, in particolare, da quelli tra loro che qui hanno colto l’opportunità di creare imprese. Torna al sommario