Rassegna stampa 4 luglio 2017 - patriarcatovenezia.it · Matteo Matzuzzi Fase 2 del pontificato,...

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RASSEGNA STAMPA di martedì 4 luglio 2017 SOMMARIO “Gli squilli dell’altra Venezia” è il titolo dell’editoriale di Claudia Fornasier che apre l’edizione odierna del Corriere del Veneto. Ecco le sue considerazioni: “La prima volta è stato il funerale di Venezia, nel 2009, un po’ protesta, un po’ goliardia, con qualche decina di persone. Sette anni dopo, alla protesta dei carrelli della spesa (organizzata dai giovani di Generazione 90), i veneziani in manifestazione erano 500 e altri 500 al corteo dei trolley e a quello delle lenzuola appese alle finestre dei palazzi, con lo slogan «Venezia è il mio futuro». Domenica i cittadini che sono sfilati tra le calli al grido di «mi no vado via» erano quadruplicati. In mezzo c’è stato il contestato referendum sulle navi fuori dalla laguna, organizzato dai No Nav, con i suoi 18 mila partecipanti. Per qualcuno sono i «nemici» della giunta Brugnaro, per altri la sinistra nostalgica, i reduci del movimento ambientalista. Loro si definiscono la città che resiste. Può darsi non siano rappresentativi di tutti i veneziani, ma sono il segnale di un malumore crescente e insieme di una spinta civica che non può essere liquidata con il timbro di «opposizione». Domenica in corteo c’era la sinistra ma anche la destra, proprietari di immobili, architetti, professionisti, dipendenti pubblici e gente che lavora nel turismo, pensionati, separatisti, anti separatisti, partigiani, artigiani, accomunati dal sentirsi ogni giorno più orfani di un tessuto sociale ed economico che possa definirsi «cittadino». Venezia non è l’unica città a soffrirne. Tutte le capitali dell’arte, soprattutto con centri storici piccoli, devono affrontare il paradosso di vivere e di «morire» di turismo. La città d’acqua ne è l’avanguardia, per i suoi numeri micro (l’estensione) e macro (29 milioni di turisti l’anno), per la rapidità con cui il fenomeno si espande alle isole e a Mestre, dove già scarseggiano le case in affitto a favore di Airbnb. E i proprietari non sono certo stranieri. «Mille a protestare, gli altri 49 mila a fare il check-in del b&b» ha titolato «Lo Schitto», giornale satirico popolare nei social network. Alla velocità di espansione del turismo non corrisponde la velocità delle idee e degli atti amministrativi adatti a gestire i nuovi fenomeni, per trovare un equilibrio tra l’immensa ricchezza che porta a tutta la Città metropolitana e gli effetti da tornado su attività storiche, affitti, prezzi, artigianato. Il governo non ha ancora indicato una strategia complessiva per le città d’arte e le loro specificità. La Regione ha votato una legge sul turismo adatta al Veneto ma non a Venezia. Il Comune ha mosso i primi passi con la delibera sul blocco dei cambi d’uso, ma con una lista di eccezioni così ampia da renderla meno coraggiosa di quanto poteva essere. Perfino l’Unesco di fronte alla complessità del problema e alla realizzabilità delle ipotesi in campo ha preso tempo... due anni. Ma tempo rischia di essercene poco. Perché rispetto ai grandi dibattiti del passato, oggi non c’è un progetto di Città metropolitana e c’è il quinto referendum per la separazione di Venezia e Mestre alle porte, a cui sempre più cittadini guardano come tentativo in extremis (qualcuno sì di interrompere l’esperienza Brugnaro) di risolvere il problema del turismo, con una sorta di autogestione. Sottovalutare o ridurre a «dissidio politico» i segnali di malessere crescente che arrivano da una parte di cittadinanza, è rischiare che la città dei «ponti», la più pluralista del Veneto, il capoluogo con ambizioni di metropoli del Nordest si ritrovi divisa in due, ridotta nel peso politico e delle possibilità, a causa dell’esasperazione. Urge fare sintesi politico-amministrativa. La aspettiamo da tempo. Ma il tempo sta per scadere” (a.p.) 2 – DIOCESI E PARROCCHIE AVVENIRE Pag 17 Jesolo, domani si riflette sul rapporto tra giovani, Web e fede IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Lido: in 600 partecipanti alla festa finale della terza edizione del Grest di

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RASSEGNA STAMPA di martedì 4 luglio 2017

SOMMARIO

“Gli squilli dell’altra Venezia” è il titolo dell’editoriale di Claudia Fornasier che apre l’edizione odierna del Corriere del Veneto. Ecco le sue considerazioni: “La prima

volta è stato il funerale di Venezia, nel 2009, un po’ protesta, un po’ goliardia, con qualche decina di persone. Sette anni dopo, alla protesta dei carrelli della spesa

(organizzata dai giovani di Generazione 90), i veneziani in manifestazione erano 500 e altri 500 al corteo dei trolley e a quello delle lenzuola appese alle finestre dei palazzi,

con lo slogan «Venezia è il mio futuro». Domenica i cittadini che sono sfilati tra le calli al grido di «mi no vado via» erano quadruplicati. In mezzo c’è stato il contestato referendum sulle navi fuori dalla laguna, organizzato dai No Nav, con i suoi 18 mila

partecipanti. Per qualcuno sono i «nemici» della giunta Brugnaro, per altri la sinistra nostalgica, i reduci del movimento ambientalista. Loro si definiscono la città che

resiste. Può darsi non siano rappresentativi di tutti i veneziani, ma sono il segnale di un malumore crescente e insieme di una spinta civica che non può essere liquidata

con il timbro di «opposizione». Domenica in corteo c’era la sinistra ma anche la destra, proprietari di immobili, architetti, professionisti, dipendenti pubblici e gente che lavora nel turismo, pensionati, separatisti, anti separatisti, partigiani, artigiani, accomunati dal sentirsi ogni giorno più orfani di un tessuto sociale ed economico che possa definirsi «cittadino». Venezia non è l’unica città a soffrirne. Tutte le capitali dell’arte, soprattutto con centri storici piccoli, devono affrontare il paradosso di

vivere e di «morire» di turismo. La città d’acqua ne è l’avanguardia, per i suoi numeri micro (l’estensione) e macro (29 milioni di turisti l’anno), per la rapidità con cui il fenomeno si espande alle isole e a Mestre, dove già scarseggiano le case in affitto a

favore di Airbnb. E i proprietari non sono certo stranieri. «Mille a protestare, gli altri 49 mila a fare il check-in del b&b» ha titolato «Lo Schitto», giornale satirico popolare nei social network. Alla velocità di espansione del turismo non corrisponde la velocità delle idee e degli atti amministrativi adatti a gestire i nuovi fenomeni, per trovare un equilibrio tra l’immensa ricchezza che porta a tutta la Città metropolitana e gli effetti

da tornado su attività storiche, affitti, prezzi, artigianato. Il governo non ha ancora indicato una strategia complessiva per le città d’arte e le loro specificità. La Regione

ha votato una legge sul turismo adatta al Veneto ma non a Venezia. Il Comune ha mosso i primi passi con la delibera sul blocco dei cambi d’uso, ma con una lista di

eccezioni così ampia da renderla meno coraggiosa di quanto poteva essere. Perfino l’Unesco di fronte alla complessità del problema e alla realizzabilità delle ipotesi in

campo ha preso tempo... due anni. Ma tempo rischia di essercene poco. Perché rispetto ai grandi dibattiti del passato, oggi non c’è un progetto di Città metropolitana

e c’è il quinto referendum per la separazione di Venezia e Mestre alle porte, a cui sempre più cittadini guardano come tentativo in extremis (qualcuno sì di

interrompere l’esperienza Brugnaro) di risolvere il problema del turismo, con una sorta di autogestione. Sottovalutare o ridurre a «dissidio politico» i segnali di

malessere crescente che arrivano da una parte di cittadinanza, è rischiare che la città dei «ponti», la più pluralista del Veneto, il capoluogo con ambizioni di metropoli del Nordest si ritrovi divisa in due, ridotta nel peso politico e delle possibilità, a causa

dell’esasperazione. Urge fare sintesi politico-amministrativa. La aspettiamo da tempo. Ma il tempo sta per scadere” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE AVVENIRE Pag 17 Jesolo, domani si riflette sul rapporto tra giovani, Web e fede IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Lido: in 600 partecipanti alla festa finale della terza edizione del Grest di

L.M. 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 7 Per una soluzione pacifica della crisi venezuelana Appello all’Angelus AVVENIRE Pag 2 Ma il breviario digitale è pratico (e anche il rosario è multitasking) di don Marco Sanavio Pag 23 La vita semplice di Bose di Lorenzo Fazzini La comunità monastica fondata da Enzo Bianchi vista dalla Francia LA STAMPA Boom di visite nei luoghi sacri ma è un turismo mordi e fuggi di Elisabetta Fagnola e Alberto Mattioli Da San Pietro a Loreto, sono più di 40 milioni i pellegrini in viaggio. Ma solo il 3 per cento prenota un hotel: gli altri si spostano in giornata. Il paese di Papa Roncalli teme l'invasione: "Non diventeremo la Disneyland della fede" IL FOGLIO Pag 2 Fedeli, obbedienti e flessibili. Così il Papa vuole i suoi collaboratori di Matteo Matzuzzi Fase 2 del pontificato, tra manovre curiali e tensioni africane IL FATTO QUOTIDIANO La scelta pericolosa di papa Francesco di Marco Marzano 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Le difficoltà dei figli nelle famiglie omosessuali di Lucetta Scaraffia 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Gli squilli dell’altra Venezia di Claudia Fornasier Pag 5 La Venezia che protesta irrita il sindaco: “Su turismo e licenze siamo i più concreti” di Martina Zambon e Elisa Lorenzini Venezia 2020: prove tecniche elettorali. “Sì a una lista civica come Padova” LA NUOVA Pagg 2 – 3 Locazioni a Venezia, tutte le colpe del boom di Vera Mantengoli e Alberto Vitucci L’assedio del turismo. Il governo: “Fermare gli hotel, anche in terraferma” Pag 22 Don Rinaldo sposa gli amici: in municipio con rito civile di Nadia De Lazzari La fascia tricolore al posto della tunica

8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pagg 14 – 15 Profughi ospiti del Nordest, pochi problemi nei comuni di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Quasi metà della popolazione li accoglie senza difficoltà. Per uno su quattro sono fonte

di disagio CORRIERE DEL VENETO Pag 3 “Piacere Jonathan, cerco pezzi per aggiustare gli uomini” di Emilio Randon Vicenza, una comunità di recupero per criminali e sbandati vista da dentro … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il doppio labirinto americano di Massimo Gaggi Casa Bianca e media Pag 16 L’ultimo Villaggio di Maurizio Porro Dal cabaret al cinema: addio al mattatore che creò il mito Fantozzi Pag 19 Ma Fantozzi oggi non esiste di Aldo Cazzullo Finzione e realtà AVVENIRE Pag 1 Nessuno sia scartato di Roberto Colombo Francesco e il piccolo Charlie Pag 3 Chi volta la faccia la perde e nega la vita di Paolo Lambruschi Migrazioni: si profila un pessimo euro-accordo Pag 5 “Non si trascuri il desiderio dei genitori” di Elisabetta Del Soldato Il Papa per Charlie. Il Bambino Gesù: “Pronti ad accoglierlo”. Trump in campo Pag 7 Paglia: “Per Charlie un sì alla vita. Non venga abbandonato” di Luciano Moia Pag 12 Doppia questione di credibilità Pag 25 Villaggio, il mestiere di ridere di Massimo Iondini, Guido Oldani e Massimiliano Castellani L’elogio: meritava il Nobel più di Fo. La critica: un cinico anticlericalismo IL GAZZETTINO Pag 5 Don Torta: “Voi responsabili per i fuori di testa” Pagg 6 – 7 L’ultimo tragico Fantozzi di Adriano De Grandis e Gloria Satta Quei personaggi universali come i suoi libri Pag 21 Serve una nuova Yalta per la scacchiera del Medio Oriente di Fabio Nicolucci LA NUOVA Pag 1 La partita in Europa non è chiusa di Francesco Morosini Pag 12 Don Torta al governo: “Evitate atti estremi” Pag 31 Il ragionier Ugo Fantozzi e la rivoluzione della lingua di Michele A. Cortelazzo CORRIERE DEL VENETO Pag 18 “Sarete responsabili dei gesti di chi è fuori di testa” di g.f. Il monito di don Torta alle istituzioni

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE AVVENIRE Pag 17 Jesolo, domani si riflette sul rapporto tra giovani, Web e fede Il rapporto tra giovani, fede e Web sarà al centro di Avvenire@jesolo, la festa con il quotidiano cattolico organizzata dalle parrocchie di Santa Maria Ausiliatrice e Santi Liberale e Mauro a Jesolo. Cuore dell’evento sarà l’incontro in programma domani sera alle 21, in piazza Marconi. Il tema prende spunto spunto dalla testimonianza di Carlo Acutis, il giovane milanese morto a 15 anni nel 2006 di cui è aperta la causa di beatificazione. Al dibattito prenderanno parte Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, Giovanni Maria Vian, direttore de L’Osservatore Romano, Sidi Perin, padrino di Cresima di Acutis. Il confronto sarà introdotto da monsignor Lucio Cilia e moderato da Giorgio Malavasi di Gente Veneta. La serata sarà chiusa dal patriarca di Venezia, Francesco Moraglia. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Lido: in 600 partecipanti alla festa finale della terza edizione del Grest di L.M. Oltre 600 partecipanti alla festa finale. Si è conclusa con un grande successo la terza edizione del Grest (nella foto) delle parrocchie del Lido. La serata conclusiva si è svolta nel patronato di Santa Maria Elisabetta e ha visto, dopo la celebrazione della messa, la cena all'aperto per tutti è uno spettacolo finale in cui bambini e ragazzi si sono esibiti rappresentando anche il contenuto dei laboratori a cui hanno partecipato nell'arco delle due settimane. Il Grest è un'esperienza molto diffusa nella diocesi in terraferma, ma rappresenta una novità per il Lido dove l'esperienza ha preso piede negli ultimi due anni. Quest'anno l'attività, coordinata dal parroco di Sant'Antonio Don Renato Mazzuia, è stata seguita da una sessantina di adulti e animatori con la partecipazione di 200 bambini e ragazzi di elementari e medie. La formula dell'esperienza è stata itinerante, coinvolgendo tre patronati con l'apertura a Sant'Antonio lo scorso 13 giugno, poi il passaggio a Sant'Ignazio, infine la conclusione a Santa Maria Elisabetta. Durante le attività sono state previste anche tre serate extra coinvolgendo i genitori. La festa finale ha avuto il supporto della Conad City Lido e della Coldiretti che hanno contribuito nella realizzazione della cena. Il Grest del Lido avrà ora un'appendice in settembre, da oggi, martedì a sabato, in cui bambini e ragazzi verranno aiutati a completare i compiti per le vacanze prima di tornare a scuola oltre a vivere alcune attività ludiche. Anche il patriarca monsignor Francesco Moraglia si è complimentato per la riuscita dell'iniziativa, sottolineando come il Grest sia un'esperienza che può cambiare la vita dei ragazzi ma anche delle loro famiglia. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 7 Per una soluzione pacifica della crisi venezuelana Appello all’Angelus Un «appello affinché si ponga fine alla violenza e si trovi una soluzione pacifica e democratica alla crisi» venezuelana è stato lanciato dal Papa al termine dell’Angelus del 2 luglio in piazza San Pietro. In precedenza, commentando come di consueto il vangelo domenicale, il Pontefice si era soffermato sulla parte conclusiva del discorso missionario di Gesù. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! L’odierna liturgia ci presenta le ultime battute del discorso missionario del capitolo 10 del Vangelo di Matteo (cfr. 10, 37-42), con il quale

Gesù istruisce i dodici apostoli nel momento in cui per la prima volta li invia in missione nei villaggi della Galilea e della Giudea. In questa parte finale Gesù sottolinea due aspetti essenziali per la vita del discepolo missionario: il primo, che il suo legame con Gesù è più forte di qualunque altro legame; il secondo, che il missionario non porta sé stesso, ma Gesù, e mediante Lui l’amore del Padre celeste. Questi due aspetti sono connessi, perché più Gesù è al centro del cuore e della vita del discepolo, più questo discepolo è “trasparente” alla sua presenza. Vanno insieme, tutti e due. «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me...» (v. 37), dice Gesù. L’affetto di un padre, la tenerezza di una madre, la dolce amicizia tra fratelli e sorelle, tutto questo, pur essendo molto buono e legittimo, non può essere anteposto a Cristo. Non perché Egli ci voglia senza cuore e privi di riconoscenza, anzi, al contrario, ma perché la condizione del discepolo esige un rapporto prioritario col maestro. Qualsiasi discepolo, sia un laico, una laica, un sacerdote, un vescovo: il rapporto prioritario. Forse la prima domanda che dobbiamo fare a un cristiano è: “Ma tu ti incontri con Gesù? Tu preghi Gesù?”. Il rapporto. Si potrebbe quasi parafrasare il Libro della Genesi: Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a Gesù Cristo e i due saranno una sola cosa (cfr. Gen 2, 24). Chi si lascia attrarre in questo vincolo di amore e di vita con il Signore Gesù, diventa un suo rappresentante, un suo “ambasciatore”, soprattutto con il modo di essere, di vivere. Al punto che Gesù stesso, inviando i discepoli in missione, dice loro: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato» (Mt 10, 40). Bisogna che la gente possa percepire che per quel discepolo Gesù è veramente “il Signore”, è veramente il centro della sua vita, il tutto della vita. Non importa se poi, come ogni persona umana, ha i suoi limiti e anche i suoi sbagli - purché abbia l’umiltà di riconoscerli -; l’importante è che non abbia il cuore doppio - e questo è pericoloso. Io sono cristiano, sono discepolo di Gesù, sono sacerdote, sono vescovo, ma ho il cuore doppio. No, questo non va. Non deve avere il cuore doppio, ma il cuore semplice, unito; che non tenga il piede in due scarpe, ma sia onesto con sé stesso e con gli altri. La doppiezza non è cristiana. Per questo Gesù prega il Padre affinché i discepoli non cadano nello spirito del mondo. O sei con Gesù, con lo spirito di Gesù, o sei con lo spirito del mondo. E qui la nostra esperienza di sacerdoti ci insegna una cosa molto bella, e una cosa molto importante: è proprio questa accoglienza del santo popolo fedele di Dio, è proprio quel «bicchiere d’acqua fresca» (v. 42) di cui parla il Signore oggi nel Vangelo, dato con fede affettuosa, che ti aiuta ad essere un buon prete! C’è una reciprocità anche nella missione: se tu lasci tutto per Gesù, la gente riconosce in te il Signore; ma nello stesso tempo ti aiuta a convertirti ogni giorno a Lui, a rinnovarti e purificarti dai compromessi e a superare le tentazioni. Quanto più un sacerdote è vicino al popolo di Dio, tanto più si sentirà prossimo a Gesù, e quanto più un sacerdote è vicino a Gesù, tanto più si sentirà prossimo al popolo di Dio. La Vergine Maria ha sperimentato in prima persona che cosa significa amare Gesù distaccandosi da sé stessa, dando un nuovo senso ai legami familiari, a partire dalla fede in Lui. Con la sua materna intercessione, ci aiuti ad essere liberi e lieti missionari del Vangelo. Al termine della preghiera mariana, dopo l’appello per il Venezuela, il Papa ha salutato i vari gruppi di fedeli presenti. Cari fratelli e sorelle, il 5 luglio ricorrerà la festa dell’indipendenza del Venezuela. Assicuro la mia preghiera per questa cara Nazione ed esprimo la mia vicinanza alle famiglie che hanno perso i loro figli nelle manifestazioni di piazza. Faccio appello affinché si ponga fine alla violenza e si trovi una soluzione pacifica e democratica alla crisi. Nostra Signora di Coromoto interceda per il Venezuela! E tutti noi preghiamo Nostra Signora di Coromoto per il Venezuela: “Ave o Maria,...”. Rivolgo il mio saluto a tutti voi, romani e pellegrini! Saluto in particolare i fedeli irlandesi di Belfast, e i giovani di Schattdorf (Svizzera) che hanno da poco ricevuto il sacramento della Confermazione. Saluto i vari gruppi parrocchiali e le associazioni, come pure i partecipanti al moto-pellegrinaggio da Cardito (Napoli). A tutti auguro una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci! AVVENIRE

Pag 2 Ma il breviario digitale è pratico (e anche il rosario è multitasking) di don Marco Sanavio Caro direttore, nell’articolo pubblicato su “Avvenire” del 23 giugno 2017 don Mauro Leonardi suggerisce di fare esperienza della Liturgia delle ore sul breviario cartaceo, piuttosto che sullo smartphone (o tablet), per evitare di essere distratti non tanto e solo dalle notifiche, ma dal mezzo stesso. Posso comprendere le opportune ragioni che l’hanno portato a questa sua scelta, ma non condivido la prospettiva che traccia. In alcune occasioni, però, ritengo che noi stessi possiamo trasformare una modalità ritenuta multitasking in realtà “aumentata”, anche se il termine può risultare improprio rispetto all’accezione comune. Faccio un esempio per chiarire meglio il concetto: nel 2015, in occasione del Convegno ecclesiale nazionale di Firenze, contemporaneamente alle relazioni proposte all’assemblea dei convegnisti, venivano proposti alla base di due grandi schermi laterali che amplificavano la figura del relatore i tweet dei presenti. Parte di loro chiese di sospenderne la sovrimpressione perché distraevano mentre, per quanto mi riguarda, costituivano un piacevole stimolo e arricchimento dell’evento, tanto che riuscivo a seguire il senso della relazione e, contemporaneamente, a twittare. Alcuni hanno bisogno di prestare un’attenzione focale per favorire la concentrazione personale e, difficilmente, riescono a gestire più stimoli nello stesso momento. Immagino, ad esempio, la fatica a scrivere e concentrarsi nell’open space di una redazione giornalistica. La preghiera, comunque, è un’esperienza che richiede cura e disposizione di cuore e mente, ma questo non dipende certo dallo strumento utilizzato. I “Princìpi e norme per la Liturgia delle ore” indicano un percorso esigente e citano sant’Agostino che propone di «riconoscere l’eco delle nostre voci in quelle di Cristo e quelle di Cristo in noi». Questo si ottiene con le orecchie del credente, al di là di ogni strumento e della versatilità che vi possiamo riconoscere. A proposito della modalità “multitasking” va rilevato che esistono nella pratica dei cattolici preghiere, come la recita del rosario, che prevedono la meditazione di un mistero legato al percorso di fede della Chiesa, mentre si pronunciano parole altre rispetto all’orientamento del pensiero. Se questa modalità risulti più o meno distraente dipende più dalla disposizione dell’orante che da fattori esterni. La Liturgia delle ore, resa disponibile anche dalla Cei su dispositivi mobili risulta spesso una soluzione più pratica, portatile e leggera. Ognuno, poi, è libero di scegliere. Affermare che il dispositivo mobile vi provochi e vi tenti perché avete a disposizione anche le altre app – ha spiegato un amico docente ai suoi alunni, forniti di e-book – «è un po’ come evitare di utilizzare il coltello a tavola perché rammenta al cervello un’arma letale». Pag 23 La vita semplice di Bose di Lorenzo Fazzini La comunità monastica fondata da Enzo Bianchi vista dalla Francia Parafrasando il mitico De Gregori, si potrebbe dire che uno scrittore lo vedi dai dettagli e dai particolari. E infatti gli aneddoti sono fondamentali nella descrizione che Alexis Jenni – il romanziere affermatosi con L’arte francese della guerra (Mondadori) con cui nel 2011 vinse il Premio Goncourt – realizza nel suo Une vie simple (Albin Michel), da pochi giorni nelle librerie francesi. Si tratta di un ampio e appassionato ritratto dal vivo della comunità monastica di Bose e del suo fondatore, Enzo Bianchi. Anche qui «il tutto è nel frammento». Ovvero: la capacità di Jenni di scovare fatti, parole, episodi, aneddoti nella pluridecennale storia del gruppo di monaci e monache di stanza in Piemonte è davvero rimarchevole. E rende questa ricostruzione un racconto piacevolissimo e ricco di sorprese – con l’auspicio di averlo presto disponibile in italiano. Della vicenda di fratel Bianchi molto è noto: giovane studente di scienze politiche, astro nascente nella Dc piemontese, quindi la scelta di provare a vivere in comunità il Vangelo negli anni Sessanta sulla scia del Concilio con una profetica vocazione ecumenica (l’ambiente piemontese, con la presenza valdese, fu in questo dirimente); l’individuazione di una pieve romanica in disuso nei pressi di Biella come sede di questo esperimento; il periodo in assoluta solitudine, fino a quando nel 1968 arrivano i primi fratelli; e poi l’espansione negli anni Ottanta, fino ad avere oggi diverse altre sedi in Italia, Assisi, Toscana, Puglia, Lazio; quindi la notorietà mediatica, l’intensa predicazione in Italia e all’estero, i libri con le blasonate Einaudi e Rizzoli, oltre a varie case editrici (il bestseller? Pregare la Parola,

Gribaudi 1974: 1 milione di copie!); e poi il legame con pensatori, uomini e donne di cultura e di fede: André Louf, Arvo Pärt, Ignazio IV, per fare degli esempi. Sono molte le sorprese su Bose che si scoprono in questo racconto, sorprese che hanno un gusto a volte faceto a volte maledettamente serio. Come la notizia che Bianchi, figura universalmente riconosciuta come autorevole maestro spirituale, ha avuto anch’egli la sua notte oscura della fede. Aveva 42 anni e a un certo punto si è chiesto: «Perché hai fatto questo? Perché ti sei lanciato in questo sogno, troppo grande per te?». Dopo tre mesi di angoscia spirituale – racconta Jenni – Bianchi ha vissuto «una mutazione, un ravvedimento cristologico, passando da un’immagine di un Dio severo a quella di un Dio che non è altro se non misericordia». Sono interessanti anche le annotazioni storico-ecumeniche sul percorso di Bianchi e della comunità da lui fondata. Nel 1967 ecco il desiderio del patriarca Atenagora che il giovane monaco del Monferrato “sbarchi” in Grecia: «Bisogna che un giorno lei venga sul Monte Athos per fondare un monastero cattolico» gli disse il patriarca protagonista del celebre abbraccio con Paolo VI. Così come frère Roger di Taizè chiese a fratel Enzo di creare una branca cattolica della sua comunità ecumenica in Borgogna. Nel racconto di Jenni ritornano poi alcuni snodi di vita e di pensiero di Enzo Bianchi e della sua fondazione. Del periodo vissuto insieme all’abbé Pierre l’interessato ha più volte parlato come il momento in cui ha capito la centralità dei poveri nel cristianesimo. Ribadisce l’«insopportabilità» verso certi mondi cattolici che vogliono «appropriarsi» di altre tradizioni. Oppure la passione per la cucina dell’ex priore (a gennaio scorso ha lasciato la guida di Bose a Luciano Manicardi), intesa come espressione dell’amore per l’altro: «Cucinare e dire io ti amo significano la stessa cosa: è offrire e condividere quello che si ha di meglio». Ma, come si diceva prima, è nei dettagli che Jenni fa venire fuori alcune delle peculiarità maggiori di Bose. L’accoglienza, ad esempio. Per tutti, per tutte. Fratel Enzo racconta al suo interlocutore di quelle volte in cui, tornando da Torino in automobile, ha fatto autostop ad alcune prostitute. E come queste donne siano poi andate nella sua comunità per trovarvi aiuto e conforto, per esempio in occasione di momenti tragici come degli aborti. Oppure – un aneddoto che pare solo simpatico ma invece dice molto –: il fatto che il monastero sia aperto sempre, permette ai carabinieri che sono di pattuglia di notte nella zona di passare dal monastero per bersi un caffè. Ancora: il fatto che ultimamente anche a Bose non manchino migranti, poveri, profughi, famiglie in difficoltà che bussano per accoglienza, per un aiuto e un sostegno. E la bellezza. Jenni ne resta colpito. E ne chiede conto al fondatore. «Senza bellezza, non vi è povertà cristiana, vi è solo miseria», scandisce Bianchi. E Jenni, che ha goduto del buon cibo, delle camere spartane ma eleganti, che ha ispezionato la biblioteca di 80 mila volumi («il 40% in francese»), ha visto i laboratori di iconografia, la casa editrice Qiqajon (che ha appena tradotto un altro libro di Jenni, Il volto di tutti i volti), ha curiosato in cucina, ha parlato con monaci della prima ora e con monache più giovani, sancisce: «La bellezza non è una forma di lusso né un sottoprodotto della ricchezza, non è una vanità perseguita, non è una forma di orgoglio: la bellezza è uno stato di equilibrio, un’armonia vivente, una scelta giusta che si applica a tutti i dettagli del quotidiano». Eppoi a Bose – riferisce il romanziere transalpino – si ride. Si ride di gusto. Nei giorni passati in Piemonte per redigere questo libro egli – ammette – ha riso parecchio: «Ci è parsa l’espressione più evidente di una fraternità dove ciascuno può riconoscere i propri limiti senza farne un dramma, perché si sa amato, accolto, accettato». Ai lettori Jenni non nasconde le critiche che di tanto in tanto qualche gruppuscolo avanza a Bose e al suo ex priore, firma che i lettori di Avvenire conoscono da decenni: «Gli si rimprovera di non rispettare le regole della Chiesa sulla vita religiosa comune, di una lettura protestante del Vangelo, di elaborare una sorta di umanesimo che sarebbe fondamentalmente ateo. Si rimproverano a Bose le sue invenzioni, la sua libertà e creatività», in particolare il tratto ecumenico e di carattere misto, maschi e femmine insieme. Ma, anche dialogando con un maestro della teologia come Christoph Theobald, gesuita del Centre Sevre, Jenni arriva a formulare quella che può essere la miglior definizione di Bose, dove decine di migliaia di credenti e inquieti transitano ogni anno: un luogo in cui si vive una vita semplice alla sequela di Cristo, salvatore del mondo e maestro di umanità. Per tutti e per tutte. LA STAMPA

Boom di visite nei luoghi sacri ma è un turismo mordi e fuggi di Elisabetta Fagnola e Alberto Mattioli Da San Pietro a Loreto, sono più di 40 milioni i pellegrini in viaggio. Ma solo il 3 per cento prenota un hotel: gli altri si spostano in giornata. Il paese di Papa Roncalli teme l'invasione: "Non diventeremo la Disneyland della fede" Dino Bozonelos, ricercatore alla California State University di San Marcos, si chiede perché oltre 10 mila turisti l'anno si fermino al monastero greco ortodosso di Sant' Antony in Arizona: «È in mezzo al deserto, ma è il secondo luogo più visitato dell' Arizona, dopo il Gran Canyon. Non solo da fedeli, ma da turisti di tutto il mondo, affascinati dalla spiritualità del luogo». È un modo per spiegare come cambia il turismo religioso, che ogni anno, secondo gli ultimi dati disponibili dell'Organizzazione mondiale per il commercio, muove oltre 300 milioni di persone con un giro d'affari che nel mondo supera i 18 miliardi di dollari. Di certo, si può definire il turismo più antico, e anche il più complesso da misurare: nel rapporto 2016 del Wto, su 1186 milioni di viaggiatori, circa il 27 per cento, si è mosso per motivi religiosi o culturali. «Ma è difficile separare i due aspetti» spiega Mara Manente, direttrice del Ciset, il Centro internazionale di studi sull'economia del turismo Ca’ Foscari, che nel 2016 ha creato un dossier con gli ultimi dati disponibili: in Italia il turismo religioso muove, ogni anno, 40 milioni di persone, considerando pellegrini, vacanze, gite di un giorno. Un numero enorme, che si riduce di molto se si considera la quota di quelli che si fermano almeno una notte a dormire. Solo 1,3 milioni di viaggi, il 3% del totale, prevede pernottamenti, per una spesa di circa 2,5 miliardi di euro. «Molti non rientrano nella statistica perché scelgono soluzioni ricettive diverse, come quelle ecclesiastiche - precisa la ricercatrice - Molte sono gite di un giorno, ma sicuramente c'è ancora margine per intercettare meglio il flusso turistico». Il business complessivo sembra però più ampio: secondo un'analisi Coldiretti nel 2014, complice la canonizzazione dei due Papi, ha sfiorato i 5 miliardi di dollari. Trend in crescita, aggiunge Manente: «Se in media negli ultimi anni il turismo culturale cresce del 4% l'anno, possiamo immaginare che quello religioso vada di pari passo». Soprattutto perché quel turismo ha tanti volti: grandi pellegrinaggi nelle città sacre, visite a santuari e cattedrali, piccole escursioni e nuovi cammini che uniscono religione, storia, cultura e gastronomia. Un fenomeno economico e sociale che stuzzica anche il mondo accademico: oltre 60 ricercatori. dagli Usa all'Arabia Saudita, dalla Spagna all'Australia, si sono riuniti ad Armeno, sul lago d'Orta, per la nona Conferenza internazionale sul turismo religioso. Presto nascerà anche il primo "Institute of religious tourism and pilgrimage": «Oggi il pellegrinaggio è un modo per scoprire le radici della fede, ma anche per immergersi nella natura, nella storia dei luoghi o per ritrovare un'identità - spiegano Stefania Cerutti ed Elisa Piva, ricercatrici dell'Università del Piemonte Orientale, che ha organizzato l'evento -. Potremmo chiamarlo turismo spirituale: analizzarlo è il nostro compito». Ma quali sono i luoghi visitati? Quali sono le motivazioni? «I dati sono sottostimati, perché oltre alle grandi mete, La Mecca, Santiago de Compostela, Roma, Gerusalemme, o i grandi pellegrinaggi della religione induista, è il settore locale che cresce di molto. Pellegrini non necessariamente osservanti, più che altro alla ricerca della dimensione spirituale del viaggio», raccontano Razaq Raj della Leeds Beckett University e Kevin Griffin del Dublin Institute of Technology. Loro non hanno dubbi: «Dopo il boom economico c'è stato un crescendo di pellegrini, fino a 3 milioni per l'Hajj a La Mecca, 80-100 milioni nel 2013 ad Allahabad per la Kumbh Mela, il grande pellegrinaggio hindu - aggiunge Raj -. Il terrorismo non ha inciso molto: nel mondo musulmano ha portato a un maggiore interesse per le origini. Nel Regno Unito, per esempio, sempre più persone visitano luoghi sacri di altre religioni, spinti dal desiderio di conoscerle». Le grandi mete devozionali conservano la loro forza: il santuario della Madonna di Guadalupe in Messico accoglie ogni anno 10 milioni di fedeli, a Medjugorje, sempre secondo il Ciset, negli ultimi dieci anni, i pellegrini sono aumentati del 55 per cento, assestandosi sui 2 milioni l'anno. E il turismo in Terra Santa ad aprile ha segnato un record: «È il dato più alto dal 1948 a oggi - racconta Maria Leppakari, che dirige lo Swedish Theological Institute di Gerusalemme - Ad aprile ci sono stati 349 mila ingressi, 38 per cento in più rispetto ad aprile 2016». C'è poi l'immenso popolo dei pellegrini che scelgono percorsi devozionali o spirituali: nel 2016 dal cammino di Santiago de Compostela sono passate 278 mila persone (diecimila in più del 2015) altre 40 mila

lungo la via Francigena. E sotto la spinta delle nuove tecnologie è cambiato anche il modo di vivere il pellegrinaggio: «Anche l' Hajj, il grande pellegrinaggio a La Mecca, è diventato tecnologico - racconta Jahanzeeb Qurashi dell'Università di Birmingham - Ci sono app che aiutano a orientarsi o a scaricare contenuti». Nel monastero benedettino di Montserrat, in Catalogna, «i monaci hanno blog e profili social. Il direttore del museo ha 7mila follower - spiegano Silvia Aulet e Lluìs Prats dell'Università di Girona - Anche questo è utile a farsi conoscere». Cosa si muove attorno a un viaggio spirituale è difficile da quantificare: dall'hotel all'ostello, dal trekking alle mappe. Tutto è patrimonio importante per i piccoli territori, dove si moltiplicano i percorsi. «Tra quelli più battuti in Italia, oltre alla Francigena - sostiene Luca Bruschi dell'Associazione europea delle vie francigene - c'è il cammino di San Benedetto che da Norcia porta a Subiaco, con 4 mila turisti l'anno. Poi ci sono la Via degli Dei fra Bologna e Firenze, il cammino di San Francesco, tra Emilia e Umbria. Se si pensa che in media ogni pellegrino spende tra i 30 e i 60 euro al giorno, il conto dell' indotto è semplice. Si sta generando un' economia importante intorno a percorsi che hanno sì una base religiosa, ma che molto più spesso vengono scelti per riscoprire il piacere di camminare e ritrovare se stessi». «Sì, siamo felici. Ma non diventeremo una Disneyland della religione». Con parole diverse, lo ripetono tutti: il parroco, il sindaco, i passanti, perfino il nipote del Papa. Del resto, per diventare un supermercato della fede, Sotto il Monte non è nemmeno attrezzato. La notizia è arrivata da Roma la settimana scorsa. Tramite la Segreteria di Stato, Papa Francesco ha fatto sapere di aver benevolmente accolto la richiesta del vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi, perché Papa Giovanni XXIII torni a casa. Quando, non si sa. La data ipotizzabile è intorno ai primi di giugno dell'anno prossimo, perché Roncalli morì il 3 giugno 1963. Dove andrà il Papa buono e, dal 2014, anche santo, invece, è certo: una breve sosta a Bergamo, in Cattedrale, e poi due settimane di esposizione a Sotto il Monte, il paese dove nacque nel 1881, figlio di mezzadri, quarto di tredici fratelli. «Ma è ancora tutto da stabilire e da studiare», spiega il sindaco del paese («sì, mi chiami sindaco con la "o", per favore»), Maria Grazia Dadda. Non si sa nemmeno come l'urna con i resti del Vigesimoterzo arriverà da Roma. «A me - dice Dadda - piacerebbe che viaggiasse in treno. Da Papa, lo prese per un famoso pellegrinaggio a Loreto. Mi sembra che per la gente possa essere un'occasione, anche soltanto di vederlo passare», chissà. Probabile che si scateni un grandioso pellegrinaggio di massa. Sotto il Monte non sembra però il posto adatto per il kolossal. È un paesino di 4.506 abitanti così lindo che sembra appena uscito dalla lavatrice, e con la sconcertante caratteristica che il monte, in effetti, non c'è: semmai, una collinetta. Offre tanto verde, aria buona, una doppia chiesa tenuta benissimo, i luoghi del Papa, un «giardino della Pace» e un' overdose di tranquillità. Qui, avere come concittadino il Pontefice più popolare dell'era pretelevisiva non è mai diventato un business. A parte gli anniversari, Papa Giovanni «fa» una media, più o meno, di duemila pellegrini alla settimana. C'è un negozio di souvenir che propone una svendita, tutto ribassato al 50%, un infopoint davanti alla chiesa (chiuso, con un cartello che annuncia la lieta novella del ritorno a casa del «corpo venerato»), le strade si chiamano «viale Pacem in terris» o «piazza Concilio Vaticano II». Stop. Nulla di paragonabile a gigantismi turistico-religiosi tipo Lourdes o, per restare ai santi più pop, San Giovanni Rotondo. «Meglio così», spiega Claudio Dolcini, il monsignore in polo amaranto con il logo JXXIII che manda avanti due parrocchie insieme all'anziano don Angelo, in talare preconciliare, e al giovane don Leonardo, in maglietta senza griffe papale. Spiega Dolcini: «Vorremmo che il ritorno a casa di Giovanni XXIII fosse l'occasione per un rilancio attento e non solo devozionale che questo grande personaggio merita. Per carità, va benissimo l'icona un po' dolciastra del Papa buono, di "date una carezza ai vostri bambini" e così via. Ma Giovanni XXIII non è stato solo questo. È stato il Papa che ha voluto il Concilio e rinnovato la Chiesa. Spero che sia l'occasione per parlare del suo messaggio». Il sindaco, in carica dal '14, eletta con una lista civica, cattolica, di professione maestra, in giunta una pronipote del Papa, è in linea con il parroco: «Non voglio vedere quest'occasione come un business. Noi vogliamo difendere la nostra semplicità. Certo, ci sarà molto da lavorare, decidere dove esporre l'urna, predisporre delle navette per la stazione più vicina e dei parcheggi per i pullman, organizzare la sicurezza. Crede che dal Vaticano mi manderanno qualche guardia svizzera? Però vorremmo restare noi stessi». Simone Gusmini, titolare con la

moglie dell'hostaria «Don Lisander» (risotto - ottimo -, sorbetto, birra e caffè per 8 euro e 50, l'Italia è ancora un Paese meraviglioso) dice che «una kermesse della fede non la vuole nessuno, ma bisogna pur lavorare. Credo che sarà una bella occasione anche per noi». Ultima parola al nipote, Beltramino Roncalli, 78 anni, solido e atticciato come lo zio: «Lui voleva tornare a Sotto il Monte. Non ci riuscì da vivo, è un' enorme gioia che lo possa fare da morto. Pensi che quando era patriarca di Venezia gli mostrarono la tomba che gli avevano destinato, in San Marco. Mi raccontò che, visto che lo spazio gli sembrava un po' stretto, si stese per vedere se ci entrava. Poi la storia è andata diversamente. Anch'io penso che si debba ricordare come un grande Papa riformatore e come autore della "Pacem in terris", che è ancora perfettamente valida. E credo che Francesco gli si ispiri molto». Già, ma come il Papa del Concilio si concilia con le masse che sicuramente arriveranno? «Vengano pure. Ma non ci trasformeremo in un'altra San Giovanni Rotondo. Per me, a Sotto il Monte di gente ce n'è già anche troppa». IL FOGLIO Pag 2 Fedeli, obbedienti e flessibili. Così il Papa vuole i suoi collaboratori di Matteo Matzuzzi Fase 2 del pontificato, tra manovre curiali e tensioni africane Roma. Che il Papa argentino e il cardinale tedesco non fossero in sintonia significa ribadire un'ovvietà. Per Francesco, Gerhard Ludwig Müller - il prefetto della Dottrina della fede sostituito sabato scorso - scontava il peccato originale di essere "rigido" e la traduzione perfetta del pensiero papale la diede a mezzo intervista ben tre anni fa l'ascoltatissimo Oscar Rodríguez Maradiaga, il porporato honduregno che Bergoglio ha messo alla guida del C9 e che è tra i massimi consulenti del corrente pontificato: "E' un tedesco, un professore di Teologia tedesco. Nella sua testa c'è solo il vero e il falso. Però io dico: fratello mio, il mondo non è così, tu dovresti essere un po' flessibile quando ascolti altre voci. E quindi non solo ascoltare e dire no". Non è tanto questione di orientamento, progressista o conservatore, il tema dell'epurazione del prefetto della congregazione per la Dottrina della fede a neppure 70 anni d'età. Né di mirare a cambiare la dottrina cambiando gli uomini che guidano i dicasteri vaticani. E' che il Papa pretende fedeli esecutori della rivoluzione messa in campo all'alba del pontificato e cioè uomini impegnati a gettare le fondamenta dell'ospedale da campo aperto a tutto il popolo fedele (e non) di Dio. Francesco non vuole tentennamenti né tollera le troppe esternazioni fuori linea. Uno può pensarla come vuole sui massimi sistemi, essere d'accordo o no con la svolta pastorale da lui inaugurata, tendere più dalla parte di Müller o della sua antitesi Victor Manuel Fernández, l'autorevole vescovo teologo argentino autore del saggio Sáname con tu boca. El arte de besar. Ma Francesco non ammette il controcanto né le titubanze. Ecco perché la scelta del gesuita Luis Francisco Ladaria Ferrer, il settantatreenne ex professore della Gregoriana apprezzato assai da Benedetto XVI, non può essere letta usando il solito schema conservatori vs progressisti. Ladaria Ferrer si definì "teo logicamente moderato" in un'intervista neppure troppo vecchia concessa al mensile 30 Giorni, ma in realtà ha sempre avuto fama di conservatore all'interno della Compagnia. Tra i due sinodi, mentre i padri già s'accapigliavano sui sacramenti, l'allora numero 2 del Sant'Uffizio scriveva che no, la comunione ai divorziati non poteva proprio essere data se i partner divorziati e risposati civilmente non avessero deciso di vivere come fratello e sorella. Una risposta, questa, che potrebbe senza problemi far parte dei famosi dubia spediti a Santa Marta la scorsa estate. Francesco è un Papa che decide spesso in solitudine, che gestisce da sé la propria agenda. Disse nella sua prima grande intervista alla Civiltà Cattolica che è vero, un certo "autoritarismo" nel governo della chiesa lui ce l'ha, anche perché l'ha sperimentato nella Compagnia di Gesù, il cui capo è pur sempre un generale cui è dovuta obbedienza assoluta e fedeltà totale. Sono questi i due elementi che il gesuita Bergoglio chiede ai collaboratori. Di conservatori, dopotutto, non ne ha solo congedati, ma pure promossi (Robert Sarah su tutti, benché in una fase del pontificato più tranquilla, non ancora così caratterizzata da fronde, veline giornalistiche e scosse telluriche sul solito tema degli scandali sessuali). In ogni caso, con il cambio di guida alla Dottrina della fede inizia la seconda fase dell'èra bergogliana, probabilmente quella della stabilizzazione delle linee-guida diramate ormai quattro anni fa. Una fase che però non si preannuncia per nulla

tranquilla, se è vero che dalla Nigeria è giunta la risposta all'ultimatum papale di qualche settimana fa alla diocesi di Ahiara, che da anni impedisce al vescovo regolarmente eletto (nominato da Joseph Ratzinger nel 2012) di fare il proprio ingresso. Francesco, ricevendo una nutrita delegazione del clero locale, aveva chiesto un atto d'obbedienza formale e per iscritto entro trenta giorni da parte di tutti, preti, religiosi e religiose. Obbedienza totale al Papa, senza distinguo o precisazioni. Pena, la sospensione a divinis. Sabato, quando alla scadenza dell'aut aut mancava poco più d'una settimana, in tremila (comprese decine di sacerdoti) hanno occupato la locale cattedrale, ribadendo che il vescovo Peter Okpaleke lì non metterà mai piede. Il presidente del consiglio diocesano ha detto che l'obiettivo della protesta (iniziata con la preghiera del Rosario) non è "il Sommo Pontefice Francesco", bensì proprio il vescovo designato, reo d'appartenere a un'etnia diversa. La soluzione non pare imminente e il caso rischia di tornare presto a Roma, sulla scrivania lignea di Santa Marta. IL FATTO QUOTIDIANO La scelta pericolosa di papa Francesco di Marco Marzano La prudenza è, in questi casi, sempre d'obbligo, ma la scelta papale di Luis Ladaria Ferrer come nuovo prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede potrebbe rivelarsi drammaticamente sbagliata. E non solo perché, come scrivono Espresso e Repubblica (lo stesso giornale che a firma di Alberto Melloni esaltava l'ennesima scelta "rivoluzionaria" del papa), è accusato di aver coperto le attività di un prete pedofilo, ordinando di non rivelare l'esistenza di una condanna canonica contro di lui e quindi consentendogli di continuare a molestare bambini anche senza tonaca. Ricordiamo che Francesco ha già ha dovuto privarsi, per ragioni analoghe, legate alla pedofilia, del suo ministro dell'Economia cardinal George Pell, dimessosi dall'incarico ed emigrato in Australia per difendersi di fronte a un tribunale. L'altro problema, a proposito di Ladaria, è che egli è noto negli ambienti gesuitici ed ecclesiali per essere un conservatore tenace, come segnalato dal fatto che è stato messo nella Congregazione da Joseph Ratzinger. Ladaria ha fatto per anni il vice di Müller e nel 2014, mica cento anni fa, rispondendo a un prete francese che chiedeva se un prete potesse assolvere un divorziato risposato consentendogli l'accesso alla comunione, scriveva: "Non si può assolvere validamente un divorziato risposato che non prenda la ferma risoluzione di 'non peccare più' e quindi si astenga dagli atti proprio dei coniugi, e facendo in questo senso tutto quello che è in suo potere", ovvero assumendosi l'impegno di vivere con il nuovo coniuge in piena continenza, da fratello e sorella. È una frase che non stupisce perché ribadisce il dettato della Familiaris Consortio di Giovanni Paolo II e perché, negando ogni apertura alla riammissione all'eucaristia dei divorziati risposati, sostiene esattamente quello che il silurato cardinal Müller è andato dicendo e scrivendo dopo l'approvazione dell'esortazione apostolica Amoris Laetitia: cioè che non è cambiato niente rispetto al passato, che le apertura di Amoris Laetitia sono un parto della fantasia di qualche visionario e che la Chiesa è attestata, su questi problemi, sulle posizioni intransigenti di sempre. Il segnale che papa Francesco sembra aver dato al mondo intero con questa nomina è quello di una brusca frenata del già timido processo riformatore. Cosa abbia pesato di più nella mente del papa a noi non è dato di sapere: può darsi che abbia intravisto la mobilitazione aggressiva di tanti conservatori e che questo l'abbia indotto a cedere e a nominare uno di loro nella delicatissima posizione di numero tre della Chiesa mondiale (il numero due è il Segretario di Stato Pietro Parolin). Può invece darsi che egli stesso si sia spaventato, come già avvenne per Paolo VI, per le conseguenze dei pur minimi cambiamenti introdotti sino a qui per la tenuta complessiva della Chiesa. Può ancora darsi che, affascinato dagli effetti della comunicazione personale e del suo carisma, egli non tenga in nessun conto (si veda il recente libro di Gian Enrico Rusconi sul papa "teologo narrativo") gli aspetti teologici, privilegiando quelli pastorali e i gesti clamorosi, e quindi ritenga inoffensivo un conservatore come Ladaria al vertice dell'organismo che stabilisce la rotta dottrinaria e ideologica della grande barca ecclesiale. Sia come sia, la scelta sembra regressiva, e sembra indurre un deciso affievolimento delle speranze che qualcuno ancora nutriva nel papato argentino. Francesco si sta rivelando, con le sue gigantesche ambiguità, un meraviglioso investimento per la Chiesa Cattolica: da un lato assicura il rilancio di una immagine

appannata grazie alla sua effervescente simpatia, alla semplicità del suo linguaggio e all' efficacia di qualche frase gettata come per caso nel mezzo di una conferenza stampa (la più famosa è stata ovviamente quel "chi sono io per giudicare un omosessuale?" che ha fatto il giro del mondo e che si è poi rivelata, per ammissione dello stesso Francesco, una citazione del catechismo), dall' altro, non fa un solo graffio all’apparato istituzionale, anzi lo preserva e lo protegge da ogni attacco esterno, in assoluta continuità con i predecessori, che però avevano il torto di essere meno amichevoli e di apparire più severi, più burberi. E di mostrarsi meno dimessi, più solenni nell' incedere, più seriosi e distanti dagli umori popolari di questo straordinario pastore argentino. Che riesce a nascondere magnificamente il fatto di essere il capo di un'organizzazione che continua a non cambiare. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Le difficoltà dei figli nelle famiglie omosessuali di Lucetta Scaraffia L’opposizione al progetto di formarsi una famiglia con la fecondazione assistita o con l’adozione si è basata finora su principi astratti, da alcuni interpretati come pregiudizi. Ma oggi abbiamo argomenti più concreti: da circa una decina di anni la sociologia, specialmente quella di tradizione anglosassone, ha sviluppato una serie di ricerche sugli effetti che può avere su un minore l’essere cresciuto da una coppia omosessuale. In genere, gli autori delle ricerche sono partiti con il progetto di dare un’immagine positiva di questa esperienza. Un punto di vista “di parte”, che viene rivelato dalle metodologie seguite, e soprattutto dal fatto che a essere interrogati sono quasi sempre i genitori, i quali ovviamente sono interessati a fornire una rappresentazione positiva e rassicurante della loro condizione, e in particolare a trasmettere la serenità dei figli. Per ragioni di età - le esperienze di procreazione attraverso l’ingegneria genetica sono relativamente recenti - di rado i figli hanno potuto essere esaminati come testimoni attendibili: in moltissime situazioni, infatti, il percorso è lungi dall’essere compiuto, e quindi non può ancora essere concettualizzato dai protagonisti. Una revisione critica delle ricerche fatte è offerta, oggi, dallo studio di Elena Canzi Omogenitorialità, filiazione e dintorni (Milano, Vita e Pensiero, 2017, pagine 144, euro 15), che procede a una puntuale e acuta disamina di queste indagini, delle quali denuncia i limiti di metodo, ma anche prendendo in esame le possibili conclusioni. Nel loro complesso, le ricerche vorrebbero dimostrare che non ci sono differenze fra i bambini che vivono in famiglie omosessuali e gli altri, focalizzandosi su due fattori: la qualità della relazione — in genere come è percepita dai genitori - e l’adattamento psicosociale. Seguono invece con molta minore attenzione i nodi relativi alla costruzione dell’identità, centrali soprattutto nell’adolescenza, nonché quelli legati all’origine, cioè alla ricerca del genitore mancante. Un altro limite rilevato è che nel campione in genere si mettono insieme i figli di coppie eterosessuali nelle quali successivamente un componente ha scelto una relazione omosessuale con i figli progettati fin dall’inizio da una coppia omosessuale, che ovviamente sono caratterizzati da problemi molto differenti. Le coppie omosessuali con figli, oggi, sono in larga maggioranza coppie di donne, e prevedono quindi la gravidanza di una delle due, esperienza che successivamente pone molte difficoltà alla cosiddetta “madre sociale”. Infatti, «se la presenza nella coppia di una madre e di un padre dà luogo a forme di attaccamento costitutivamente differenti, che non si prestano perciò a confronti e rendono facilmente accettabili eventuali preferenze, la presenza di due genitori dello stesso sesso inevitabilmente introduce il tema del confronto e l’interrogativo su quale dei due membri della coppia sia preferito dal figlio» scrive Canzi. Anche nel caso di coppia maschile questo nodo emerge con forza, ma con caratteristiche differenti: il necessario ricorso alla maternità surrogata infatti mette i due uomini su un piano paritario, anche se ovviamente il patrimonio genetico è trasmesso solo da uno dei due, e questo crea comunque una difficoltà. I figli nati dall’acquisto di seme rivelano poi di sentirsi disturbati dal fatto che il denaro svolga un ruolo decisivo nel loro concepimento, mentre si dichiarano a favore dell’adozione. Tuttavia, senza dubbio la coppia genitoriale

omosessuale realizza comportamenti più equilibrati nella divisione del lavoro domestico, si ispira a valori meno convenzionali, e le vengono pure attribuiti migliori indici di capacità comunicative e di risoluzione dei problemi rispetto ai genitori eterosessuali. Le indagini, come si è già rilevato, risultano in genere sbilanciate sul versante affettivo e dell’accudimento, cioè su atteggiamenti e comportamenti materni, mentre sono poco interessate a indagare come venga affrontata la funzione paterna. Un altro punto debole sta nelle difficoltà spesso provate dalle famiglie di origine della coppia di assistere e di aiutare figli o figlie che scelgono l’omogenitorialità, fatto che rende più difficile la vita della nuova famiglia. Una domanda che si sono posti i ricercatori è relativa all’orientamento sessuale dei figli: avere genitori omosessuali induce a una scelta omosessuale? La risposta che ci si aspetterebbe è che dimostrino in questo ambito maggiore anticonformismo, ma non è sempre così: spesso l’eterosessualità del figlio viene esibita per confermare la “normalità” della famiglia. Ma, esaminando le inchieste nella loro totalità, «sembra di poter rintracciare un trend comune, ossia una maggior probabilità di atteggiamenti e comportamenti omosessuali», specialmente nei figli di coppie costituite da due donne. L’analisi del rendimento scolastico conferma pure che i figli di coppie omosessuali - se in maggioranza sviluppano livelli più elevati di rendimento - sono anche indotti a maggior uso di alcool e droghe, riportano livelli minori di autonomia e invece livelli superiori di ansia. E, paradossalmente, la stabilità del legame familiare, quindi anche il matrimonio, che per i figli di coppie eterosessuali costituisce una condizione positiva per la crescita, per loro diventa un ostacolo: «Sembrerebbe quasi che per i figli delle coppie omosessuali vivere in una famiglia ufficialmente riconosciuta e stabile venga percepita come condizione vincolata, senza possibilità di nuovi sviluppi». Inoltre, all’interno della dinamica relazionale, queste ricerche non mettono in evidenza le difficoltà legate alla figura del genitore “sociale”, quello cioè che non ha legame biologico con il figlio, verso il quale può verificarsi una sorta di rovesciamento protettivo da parte del ragazzo. Ed è sempre questa figura che costituisce un problema quando si va alla ricerca del genitore mancante. Ma, soprattutto, le indagini non esplorano i sentimenti provati dai figli nei confronti del genitore mancante, il cosiddetto “donatore” di gamete, difficoltà che concerne anche coppie eterosessuali che hanno praticato l’inseminazione eterologa. Canzi rileva il fatto che la letteratura scientifica su questo tema raramente utilizza in proposito il termine “origine”, preferendo la definizione di “parentela genetica”, per cui le domande dei figli su questo punto vengono definite come “curiosità”, termine decisamente meno pregno di significato che non “ricerca delle origini”. Per di più, pochissime sono le ricerche che valutano se vi siano differenze tra i figli con donatore conosciuto o sconosciuto in termini di sviluppo psicologico e di benessere. Anche se risulta evidente che i figli con donatore sconosciuto subiscono una più pesante stigmatizzazione da parte dei compagni. Certo, il problema dell’assenza dei genitori si pone anche nell’adozione. Qui, tuttavia, il genitore adottivo «non si sostituisce, ma piuttosto si fa carico di quel dolore di origine e lo ripara», mentre diverso è il percorso di chi per scelta procrea figli “orfani”. Come affrontare questo nodo cruciale se i genitori stessi sono responsabili del “vuoto di origine”? La ricerca del donatore da parte dei figli in questi casi, infatti, è difficile e faticosa, perché «è potentemente in contrasto con la scelta procreativa fatta dai genitori, specialmente nel caso in cui scelgono un donatore anonimo». Il rapporto più difficile è soprattutto quello con i coetanei, che spesso li sottopongono a derisione e bullismo, facendo emergere sentimenti di inferiorità e anormalità. Una stigmatizzazione che provoca diverse strategie adattative, nelle quali prevale quella di negare il problema, confessando la propria condizione solo a poche persone scelte. Certo, la partecipazione alla vita di comunità omosessuali, con figli relativi, può aiutare a rendere meno pesante questa situazione. In sostanza, «i figli di coppie omosessuali riportano maggior ricorso all’assistenza pubblica, minor identificazione eterosessuale, maggior frequenza di relazioni omosessuali e minor senso di sicurezza sperimentato nella famiglia di origine». Emerge così un quadro complesso e certamente non univoco, dal quale però si deduce che è davvero difficile sostenere che non esista alcuna differenza tra i figli di famiglie eterosessuali e quelli di famiglie omosessuali. Torna al sommario

7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Gli squilli dell’altra Venezia di Claudia Fornasier La prima volta è stato il funerale di Venezia, nel 2009, un po’ protesta, un po’ goliardia, con qualche decina di persone. Sette anni dopo, alla protesta dei carrelli della spesa (organizzata dai giovani di Generazione 90), i veneziani in manifestazione erano 500 e altri 500 al corteo dei trolley e a quello delle lenzuola appese alle finestre dei palazzi, con lo slogan «Venezia è il mio futuro». Domenica i cittadini che sono sfilati tra le calli al grido di «mi no vado via» erano quadruplicati. In mezzo c’è stato il contestato referendum sulle navi fuori dalla laguna, organizzato dai No Nav, con i suoi 18 mila partecipanti. Per qualcuno sono i «nemici» della giunta Brugnaro, per altri la sinistra nostalgica, i reduci del movimento ambientalista. Loro si definiscono la città che resiste. Può darsi non siano rappresentativi di tutti i veneziani, ma sono il segnale di un malumore crescente e insieme di una spinta civica che non può essere liquidata con il timbro di «opposizione». Domenica in corteo c’era la sinistra ma anche la destra, proprietari di immobili, architetti, professionisti, dipendenti pubblici e gente che lavora nel turismo, pensionati, separatisti, anti separatisti, partigiani, artigiani, accomunati dal sentirsi ogni giorno più orfani di un tessuto sociale ed economico che possa definirsi «cittadino». Venezia non è l’unica città a soffrirne. Tutte le capitali dell’arte, soprattutto con centri storici piccoli, devono affrontare il paradosso di vivere e di «morire» di turismo. La città d’acqua ne è l’avanguardia, per i suoi numeri micro (l’estensione) e macro (29 milioni di turisti l’anno), per la rapidità con cui il fenomeno si espande alle isole e a Mestre, dove già scarseggiano le case in affitto a favore di Airbnb. E i proprietari non sono certo stranieri. «Mille a protestare, gli altri 49 mila a fare il check-in del b&b» ha titolato «Lo Schitto», giornale satirico popolare nei social network. Alla velocità di espansione del turismo non corrisponde la velocità delle idee e degli atti amministrativi adatti a gestire i nuovi fenomeni, per trovare un equilibrio tra l’immensa ricchezza che porta a tutta la Città metropolitana e gli effetti da tornado su attività storiche, affitti, prezzi, artigianato. Il governo non ha ancora indicato una strategia complessiva per le città d’arte e le loro specificità. La Regione ha votato una legge sul turismo adatta al Veneto ma non a Venezia. Il Comune ha mosso i primi passi con la delibera sul blocco dei cambi d’uso, ma con una lista di eccezioni così ampia da renderla meno coraggiosa di quanto poteva essere. Perfino l’Unesco di fronte alla complessità del problema e alla realizzabilità delle ipotesi in campo ha preso tempo... due anni. Ma tempo rischia di essercene poco. Perché rispetto ai grandi dibattiti del passato, oggi non c’è un progetto di Città metropolitana e c’è il quinto referendum per la separazione di Venezia e Mestre alle porte, a cui sempre più cittadini guardano come tentativo in extremis (qualcuno sì di interrompere l’esperienza Brugnaro) di risolvere il problema del turismo, con una sorta di autogestione. Sottovalutare o ridurre a «dissidio politico» i segnali di malessere crescente che arrivano da una parte di cittadinanza, è rischiare che la città dei «ponti», la più pluralista del Veneto, il capoluogo con ambizioni di metropoli del Nordest si ritrovi divisa in due, ridotta nel peso politico e delle possibilità, a causa dell’esasperazione. Urge fare sintesi politico-amministrativa. La aspettiamo da tempo. Ma il tempo sta per scadere. Pag 5 La Venezia che protesta irrita il sindaco: “Su turismo e licenze siamo i più concreti” di Martina Zambon e Elisa Lorenzini Venezia 2020: prove tecniche elettorali. “Sì a una lista civica come Padova” Venezia. « No vado via gnanca mi, resto, ci divertiremo». Commenta con una battuta, il sindaco Luigi Brugnaro, la manifestazione dei residenti del centro storico che domenica, al grido «#minovadovia» (io non vado via) ha «sfrattato», anche solo per un paio d’ore, i turisti e denunciato i prezzi, esosi, delle case, la moria di negozi di vicinato, il problema delle grandi navi. Dietro al sorriso del sindaco, resta la contrapposizione, forte, fra quelle che sembrano due anime, inconciliabili, della città. «È la scelta fra chi continua a chiedere in qualche modo denaro, case gratis e chi vuole farla ripartire, la città. – ha detto Brugnaro ieri all’assemblea di Ance (Associazione costruttori edili) –. Siamo l’unica

giunta che ha messo mano al cambio di destinazione d’uso». E via, ad elencare i provvedimenti per arginare l’invasione turistica: «All’Unesco abbiamo presentato un piano concreto. I manifestanti sono pochi, minoranza». Quanto all’Unesco, in questi giorni si sta svolgendo a Cracovia la 41ma sessione del World Heritage Committee e domani, sempre che lo chieda un commissario, si riparlerà del caso Venezia. Altrimenti, passerà, senza dibattito, la risoluzione che dà due anni di tempo (pena l’inserimento di Venezia nella blacklist dei siti a rischio) per mettere in campo azioni concrete di salvaguardia storico-ambientale, gestione dei flussi turisti e sulle grandi navi. Ieri, in un’intervista al Corriere delle Sera, la sovrintendente regionale Renata Codello ha promosso l’ipotesi di introdurre un limite agli ingressi in piazza San Marco. «Il ticket d’accesso non è preso in considerazione, bisogna far pagare una tassa di soggiorno ai b&b, agli alloggi turistici. Il costo in più dei rifiuti per i turisti è di molti milioni - ha detto -. L’idea dei tornelli è respingente, bisogna limitare l’affollamento in area marciana con strumenti tecnologici di informazione». Codello vede il bicchiere mezzo pieno, «calano gli abitanti ma ci sono anche fenomeni nuovi: quindici anni fa non si trovava un supermercato, adesso sì». A dar manforte al sindaco, gli assessori Paola Mar (Turismo) e Michele Zuin (Bilancio). «Trovo strano – chiosa Mar - che nel momento in cui l’Unesco ci concede due anni per realizzare il nostro piano di contenimento, si manifesti contro. Ma parliamo dell’1 per cento della popolazione che sia l’amministrazione che l’Unesco hanno ascoltato e dei cui suggerimenti si è tenuto conto». Lo spettro che si agita, anche nella manifestazione di domenica, è quello del quinto referendum di separazione tra centro storico e terraferma. «Il rischio c’è ed è concreto, ipotizzando la divisione anche solo sul piano del bilancio ci sarebbe una sola definizione: apocalisse - dice Zuin -. Ne uscirebbero due città più povere e arrabbiate». Vista da fuori, Venezia con i suoi oltre 20 milioni di turisti è esempio da sfuggire. «Dobbiamo prevenire quello che stiamo vedendo a a Venezia: il nemico è il turismo mordi e fuggi», dice il sindaco di Firenze Dario Nardella. Per il rettore di Iuav Alberto Ferlenga è una questione di vasi comunicanti: «La via per non trasformare Venezia in cartolina è reimmettere funzioni, studenti, residenti, che portano con sé bar, locali, negozi, vita. È una questione di vuoto e pieno», dice. Il prossimo convegno di Iuav sul tema di intitolerà «Vuoto per Pieno» o «Vuoto a Perdere», non è ancora deciso. Il senso, però, resta quello. Venezia. «La prossima volta per riunirci chiederemo la Scuola grande della Misericordia, ormai siamo troppi e non ci stiamo più né a San Leonardo né all’Ateneo Veneto». Suona da sfida al sindaco Luigi Brugnaro, ma la frase del portavoce del Gruppo 25 aprile Marco Gasparinetti, che domenica con «Mi no vado via» ha portato in piazza a manifestare duemila persone, racconta di un movimento in continua crescita. In un anno di manifestazioni, a partire da quella contro la vendita della casa del custode dei Giardini Papadopoli del 13 agosto scorso, i numeri sono più che raddoppiati, abbracciando un arcobaleno di posizioni distanti tra loro. Ci sono i favorevoli alla separazione di Venezia in due Comuni (città d’acqua da un lato, di terra dall’altro) ma c’è anche chi è contrario. Ci sono i centri sociali e, al loro fianco, i boy scout. Ci sono il gruppo di trentenni Generazione 90, gli artigiani e WSM (W San Marco). E ancora: il Forum Futuro Arsenale e l’associazione Masegni&Nizioleti contro chi deturpa con scritte e graffiti i muri dei palazzi storici. Qualcuno vorrebbe già fare la conta e convocare degli «Stati generali» della città. È l’idea della presidente di Italia Nostra Lidia Fersuoch, che affida il compito a Gasparinetti, con l’obiettivo di creare un movimento eterogeneo capace di creare uno schieramento alternativo, «anti fucsia» (il colore della lista civica di Brugnaro). Gasparinetti, sui social network, replica a Fersuoch: «Mi sembra più giusto che coordini Italia Nostra». Per Gasparinetti, non c’è motivo di premere sull’acceleratore e propone di convocare a settembre l’assemblea. Prima però vanno contate le teste, solo così, numeri alla mano, si può ponderare il peso delle forze in campo. «Il movimento può fungere da collante per creare una lista sul modello di quella padovana. Siamo disposti a sostenere un candidato sindaco davvero civico, non chi già proviene dalla politica, i trombati delle precedenti tornate. Le nostre proposte le abbiamo già fatte e presentate a gennaio, frutto di un’operazione di ascolto sestiere per sestiere e siamo contrari a programmi calati dall’alto», dice Gasparinetti, precisando di non avere alcuna intenzione di interloquire con Brugnaro. Di mezzo, c’è l’incognita del referendum per la creazione di due Comuni. Qualcuno incanala il malcontento veneziano in chiave separatista, altri

rigettano l’ipotese e altri ancora lasciano libertà di scelta come il 25 aprile. Dice Tommaso Cacciari leader No Nav e dei centri sociali: «È prematuro ipotizzare uno sbocco politico per il movimento ma ha un roseo futuro. Ogni associazione ha mobilitato i suoi, facendo un passo indietro sulla paternità dell’evento. È un gesto di maturità e di voglia di proseguire nel cammino, in vista, anche, delle amministrative: è stato un bel dato che non ci fossero partiti, anzi stiano nelle retrovie perché di danni ne hanno già fatti abbastanza». Secondo Pietro Bortoluzzi, consigliere di Fratelli d’Italia della Municipalità di Venezia insulare, «è un risveglio di coscienza dopo una continuità amministrativa durata trent’anni». Lorenzo Pesola, presidente dell’associazione Poveglia per tutti (l’isola messa al bando dal Demanio su cui Brugnaro voleva realizzare un ospedale per le malattie alimentari) la protesta nasce dallo sgomento per come vanno le cose e «la speranza è che per le prossime elezioni si costruisca un programma più complesso e più audace dell’attuale». In piazza, domenica, c’era anche Confartigianato. «La manifestazione, per noi, è solo un’iniziativa per mettere in luce i problemi della città, dice il segretario Gianni De Checchi. «Il nostro obiettivo è influenzare questa amministrazione, nessuno si è espresso sul futuro del movimento», dice Gabriele Piasentini di Generazione 90. LA NUOVA Pagg 2 – 3 Locazioni a Venezia, tutte le colpe del boom di Vera Mantengoli e Alberto Vitucci L’assedio del turismo. Il governo: “Fermare gli hotel, anche in terraferma” Venezia. Spopolamento, affitti selvaggi e ruolo delle istituzioni. Come sono collegate queste realtà? Ne parla il veneziano Tommaso Bortoluzzi, 44 anni, commercialista, consulente di Abbav Assimpresa Turismo ed esperto di locazioni turistiche ed extra alberghiero. Perché non si affitta più ai residenti e quali incentivi servirebbero? «Al di là del fatto che l'immobile è più monitorato e può essere utilizzato dal proprietario in ogni momento, c'è una grossa diffidenza ad affittare ai residenti perché negli ultimi anni, con la crisi, è più facile perdere il lavoro e non riuscire più a pagare l'affitto. L'Agenzia delle entrate vuole comunque che il proprietario paghi lo stesso l'imposta fino allo sfratto e per questo molti preferiscono non rischiare. L'incentivo potrebbe essere garantire uno sfratto più veloce e non pretendere che il proprietario paghi l'imposta quando non riceve l'affitto». Secondo lei l'affitto selvaggio ai turisti è la causa dello spopolamento? «Non credo, lo spopolamento è iniziato prima. Penso che a Venezia manchino dei lavori alternativi al turismo. La famiglia che ha un B&B e si sostenta grazie al turista riesce a rimanere qui. Il problema è che, nonostante la Legge speciale del 31 maggio 1995 dica che è il Comune che dovrebbe elaborare progetti per la realizzazione di fognature, la responsabilità ora è scaricata sul singolo cittadino che, se vuole aprire un B&B, deve fare le fosse settiche. Chi non ce la fa opta così per la locazione turistica». Cosa comporta la locazione turistica? «Le locazioni turistiche sono sempre esistite, ma adesso con le piattaforme e con il turismo delle città d'arte è scoppiato il boom. La caratteristica, come impone l'articolo 27 bis 2013 della Regione, è che non si debbano erogare servizi se non in caso la pulizia dell'alloggio e il cambio di biancheria, ma solo quando cambia l'ospite. Questo tipo di locazione è disciplinato dal Codice civile che permette, sia nel caso di locazione turistica che in quello di locazione abitativa, di utilizzare la cedolare secca. C'è una vecchia consulenza giuridica del Veneto che dice che con più di due appartamenti si presume che tu sia imprenditore, ma in realtà sta al ministero delle Finanze dire quando uno è imprenditore o no». Quali sono le modifiche del recente Dl 50/2017, i cui provvedimenti dovrebbero arrivare a fine luglio? «Lo Stato per fare cassa ha detto: se sei locazione turistica ti impongo di versarmi l'imposta, cioè il 21% di ritenuta. Peccato però che tutte le piattaforme non abbiano nessuna intenzione di diventare sostituto d'imposta. Per cui, se ad esempio Airbnb non paga la ritenuta, chi ha sempre approfittato a non pagare continuerà a non farlo». Ci sono delle soluzioni? «Le piattaforme a fine anno dovrebbero dire all'Agenzia delle entrate: "Mario Rossi ha ricevuto dal mio sito 5. 000 euro di prenotazioni" in modo che si possa verificare quanto uno dichiara, come si fa in Usa. Un'altra possibilità è di chiedere al Comune il numero del protocollo che garantisce che l'immobile è regolare, in modo che venga pubblicato sulla piattaforma». Come si potrebbe migliorare questa situazione? «Bisogna dialogare e

incrociare i dati. Per esempio in genere quando una persona registra gli ospiti, deve mandare i dati alla questura che fa una verifica. Se lo stesso file fosse inviato anche a Comune, Regione e Agenzia delle entrate, si avrebbe una percezione dei numeri e di quanto si affitta». Il Comune non può sapere chi circola nel suo territorio? «Il Dl/50 non mi sembra uno strumento adatto a implementare una riforma organica delle locazioni turistiche, come sarebbe necessario. È stato pensato solo per fare cassa». Venezia. «Bisogna fermare il proliferare degli alberghi, anche in terraferma. E il dilagare dei Bed and breakfast, allargando l'area interessata al blocco dei cambi d'uso, introducendo la tassa di soggiorno. Quanto alle botteghe storiche, il governo ha dato degli strumenti, Firenze li ha applicati. È il Comune che adesso deve intervenire». Ilaria Borletti Buitoni, sottosegretaria ai Beni culturali, è pessimista. Anni di denunce, prima con il Fai, il Fondo per l'Ambiente italiano di cui era presidente. Poi dai banchi del governo di cui fa parte in difesa delle città d'arte, chiedendo provvedimenti per spostare le grandi navi da San Marco e per arginare l'invasione dei turisti. Ma i risultati concreti non arrivano. E la situazione peggiora. Il turismo da risorsa sta diventando una minaccia per Venezia. Molto più dell'acqua alta per cui lo Stato ha speso sei miliardi di euro. Sul fronte turistico, tanti buoni propositi. Risultati, pochi. Sottosegretaria Borletti, di turismo si parla da anni. Ma Venezia è ancora invasa.«Ci sono tanti buoni progetti in cantiere, adesso vogliamo vederli realizzati. A cominciare dal controllo di quante persone arrivano, agli itinerari alternativi».I veneziani non vedono inversione di rotta. Domenica c'è stata la grande manifestazione in difesa della città. «Le manifestazioni come quella contro i flussi turistici, cosi come il referendum sulle Grandi Navi vanno sempre ascoltate con attenzione. Soprattutto perché vi hanno partecipato moltissimi cittadini». Il faro dell'Unesco si è spento. Allo Stato e al Comune è stata concessa la proroga. E la sentenza è stata rinviata «La proroga concessa dall'Unesco di un anno è un ultimatum e non verrà ulteriormente prorogato, quindi l'allarme rimane. Siamo comunque sotto gli occhi del mondo e dobbiamo realizzare quello che abbiamo promesso,. Altrimenti Venezia e l'Italia faranno una pessima figura».Qualcosa è stato fatto; il blocco dei cambi d'uso. «La delibera approvata dal Comune sui cambi d'uso a metà giugno è un piccolo e timido passo in avanti. Ci sono molte deroghe e possibilità di avviare lo stesso attività ricettive. E poi non riguarda tutta la città, lasciando fuori zone importanti. Resta il grande problema degli alberghi in terraferma e dei Bed and breakfast. Comunque é un passo avanti che va colto positivamente». I turisti sono troppi. «Si dovrà arrivare a una forma di prenotazione e di ticket, sia per regolare i flussi che per decongestionare la città».Intanto le botteghe chiudono e aprono i bar. «Gli strumenti per tutelarle adesso ci sono, Firenze ci ha provato. Ma servono anche incentivi economici». Anche per le grandi navi la soluzione tarda ad arrivare.«Siamo tutti in attesa della soluzione che il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio proporrà per Venezia, Da parte mia avevo chiesto di allargare il bacino a tutto l'Alto Adriatico. È evidente che l'unica risposta a questo problema sarebbe impedire da domani l'accesso delle navi nel bacino di San Marco. Ma non si può fare, abbiamo visto». Lei è un esponente di governo, perché le decisioni tardano ad arrivare? «Mi sento delusa dal fatto che sul problema del paesaggio il nostro ministero è sempre l'ultimo ad essere chiamato in causa: Venezia è il paesaggio più importante che esiste in Italia, eppure il Mibact viene chiamato in causa solo in parte e viene ascoltato poco, o su questioni marginali». Allora aspettiamo? «Ho fiducia. Intanto. E faccio una piccola proposta: attiviamo volontari che insegnino ai turisti come comportarsi e dove andare. Gli angeli della città. Non risolverà i grandi problemi, ma aiuterà a mantenere un minimo di decoro e a restituire dignità a Venezia e ai suoi abitanti». Pag 22 Don Rinaldo sposa gli amici: in municipio con rito civile di Nadia De Lazzari La fascia tricolore al posto della tunica

Don Rinaldo Gusso indossa la fascia tricolore da sindaco e celebra le nozze con rito civile. È successo lo scorso sabato nella sala matrimoni a Mestre. Il sacerdote, classe 1933, che vive a Carpenedo e collabora con numerose parrocchie in particolare con quella di San Pietro Orseolo, ha sposato in qualità di ufficiale di stato civile una coppia di amici. «Per me è stata la prima volta. Li ho sposati non come prete bensì come libero

cittadino. In Diocesi non conosco confratelli che abbiamo officiato una tale cerimonia civile», spiega con orgoglio don Rinaldo che subito aggiunge «Gli sposi hanno espresso il desiderio di convolare a nozze in municipio con una cerimonia intima e familiare. Ne abbiamo parlato e ben volentieri ho dato una risposta affermativa. È una bella decisione quella dei Comuni di concedere la delega ai cittadini ed è una bella libertà quella di scegliere di sposarsi in chiesa o in municipio. Nel 1968 noi preti abbiamo indirizzato i giovani di allora a distinguere le due realtà dando così un input alla società civile». Nella sala gremita di parenti e amici e addobbata di fiori sono risuonate le suggestive note della marcia nuziale. A presenziale al rito, anche il cane della coppia. Tre sono stati i momenti della celebrazione: la lettura degli articoli del codice civile, la pubblica dichiarazione di volontà di coniugarsi, la lettura dell'atto di matrimonio con la sottoscrizione degli sposi, dei testimoni e dell'ufficiale di stato civile. A conclusione, agli sposi don Rinaldo ha donato la Costituzione italiana e la Bibbia e ha detto: «Civilmente seguiamo queste regole ma è la Parola di Dio che ci aiuta a interpretarle, magari anche a cambiarle se necessario».

Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pagg 14 – 15 Profughi ospiti del Nordest, pochi problemi nei comuni di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Quasi metà della popolazione li accoglie senza difficoltà. Per uno su quattro sono fonte di disagio L'Osservatorio sul Nordest, curato da Demos per Il Gazzettino, si occupa oggi della percezione di eventuali disagi legati alla presenza dei profughi nei comuni. Il 25% dichiara che sono presenti e che questo provoca dei problemi, mentre la maggioranza relativa (44%), pur nella condizione di ospitarli, non ha riscontrato difficoltà legate alla loro permanenza. Il 20% degli intervistati, invece, dichiara che nel proprio territorio comunale non ci sono profughi. Piuttosto consistente la quota di intervistati che non si esprime (11%). Il tema dei profughi appare sempre particolarmente caldo. Sono ancora ben presenti, e non accennano a diminuire, le polemiche scoppiate recentemente sul ruolo delle Organizzazioni non governative che operano nelle acque del Mediterraneo. Al contempo, le risposte continentali su questo tema tardano ad arrivare. A parte qualche parola di solidarietà, i principali partner europei non sembrano voler comprendere che un fenomeno di questa portata non può essere lasciato sulle (fragili) spalle di Paesi come l'Italia e la Grecia, ma deve avere una regia e una strategia complessiva che permetta all'Europa di governarlo. In questi anni, l'Italia ha cercato di resistere e per ora le tensioni sono state limitate. Anche nel Nordest, area piuttosto reattiva sull'argomento, i dati che abbiamo rilevano mostrano che il 44% degli intervistati dichiara di risiedere in comuni che ospitano profughi, ma che da questa presenza non hanno registrato problemi. Il 25%, invece, ritiene che nel proprio territorio la presenza di richiedenti asilo abbia procurato problemi e il 20% vive in realtà in cui non ci sono profughi. Rispetto al settembre scorso, però, possiamo osservare come siano diminuiti gli intervistati che dichiarano di vivere in comuni privi di profughi (-3 punti percentuali), mentre nello stesso arco di tempo sembra essere aumentata la quota di residenti in comuni che li ospitano e che hanno avuto dei problemi legati alla loro presenza (+7 punti percentuali). Sostanzialmente stabile, invece, la percentuale di nordestini che giudica la presenza dei richiedenti asilo nel proprio Comune non problematica (44%). Come si caratterizzano dal punto di vista sociale queste percezioni? Coloro che non ritengono di avere profughi presenti nel proprio territorio comunale sono in misura maggiore giovani under-25 (32%), oltre a persone di età centrale (35-54 anni, 25-26%). Dal punto di vista socio-professionale, invece, ritroviamo soprattutto operai (27%) e studenti (28%), disoccupati (34%) e imprenditori (40%). Chi invece sa di avere profughi presenti nel proprio comune, e a seguito di questo ha notato l'insorgere di problemi, ha in misura maggiore tra i 35 e i 44 anni (29%), mentre guardando alle professioni emerge una certa presenza di liberi professionisti (39) e casalinghe (30%). Quanti vivono in realtà che

ospitano richiedenti asilo senza che questo abbia portato a tensioni sono soprattutto persone adulte (50%), anziane (53%) e quanti sono impiegati (52%). Consideriamo infine l'influenza degli orientamenti politici. Guardando ai dati, osserviamo che hanno rilevato problemi soprattutto gli elettori di Forza Italia, della Lega Nord o del M5s. Anche tra questi, però, la maggioranza relativa vive in realtà in cui la presenza dei profughi non ha portato disagi. Così, il 30% degli elettori di Forza Italia ha percepito problemi legati alla presenza dei profughi, ma il 47% no; il 31% degli elettori della Lega ha percepito problemi legati alla presenza dei profughi, ma il 40% no; il 31% degli elettori del M5s ha percepito problemi legati alla presenza dei profughi, ma il 42% no. Oltre ad un monitoraggio sulle presenze, o meglio sulla percezione delle presenze, dei profughi a Nordest, il sondaggio rivela anche in parte l’atmosfera dell’incontro tra chi accoglie e chi viene ospitato. E a vincere è l’approccio positivo e virtuoso di veneti, trentini e friulani in questo nuovo dialogo. Una mappatura della tolleranza che contrasta per certi versi con i diffusi allarmismi sull’emergenza migranti e la microcriminalità. Ma tutto si comprende guardando alla nostra storia per Sara Tonolo, professore di Diritto internazionale e Direttore del Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Trieste: «Il Nordest è un territorio di confine, da lungo tempo attraversato dai migranti, in ragione degli eventi storici che li hanno prodotti, come ad esempio la guerra nella ex Jugoslavia – spiega la professoressa Tonolo - E le azioni intraprese per l’accoglienza hanno sicuramente diffuso una più ampia conoscenza del problema tra i cittadini. Inoltre i giovani hanno avuto la percezione dell’integrazione a partire dai loro studi scolastici, per la presenza elevata di stranieri nelle classi. Ormai credo sia generalmente noto che il migrante è la persona che si sposta da un paese all’altro, costretto, spinto o motivato da ragioni lavorative, economiche, sociali, ambientali, personali, nella prospettiva di acquisire una condizione migliore; il profugo è un richiedente asilo o protezione umanitaria». Vicino a chi accoglie c’è sempre chi esprime diffidenza e paura. «Credo si tratti di un atteggiamento dettato dalla congiuntura economica, non certo risolta, e dalle aumentate difficoltà in ordine al lavoro (perduto o non trovato) dei cittadini, che li induce a considerare lo straniero come un possibile concorrente nell’acquisizione di risorse economiche, e fonte di danno per la sottrazione delle stesse». Negli ultimi giorni sono sbarcati migliaia di migranti. Accoglierli diventa sempre più difficile. E l’emergenza cresce. «Vero, dal momento che il nodo centrale rimane la regola secondo la quale il richiedente asilo che non può essere respinto (in base alla Convenzione di Ginevra del 1951) deve ottenere l’accertamento dell’identità e provenienza e la valutazione della sua domanda nel paese di primo ingresso. Tale circostanza dà luogo a un numero elevato di domande e tempi lunghi per il loro esame e alla tendenza di molti tra i profughi a sfuggire a tali accertamenti per raggiungere un paese più gradito per l’ottenimento della qualifica di rifugiato e conseguente residenza. L’azione dell’Ue, finora limitata a qualche intervento finanziario o di supporto logistico, si sta orientando verso la ripartizione tra i paesi membri di quote di richiedenti asilo o in alternativa per una contribuzione finanziaria. Molto importante, per questo, è la revisione delle ben note regole di Dublino, la cui applicazione ha evidenziato forti problematiche. A livello italiano, il lavoro delle Commissioni preposte all’esame delle richieste d’asilo è molto complesso e lungo per disporre le diverse forme di protezione previste dalle norme internazionali e interne. Occorre sicuramente un’organizzazione più forte ed efficace, cui il Ministero dell’Interno sta rivolgendo la propria attenzione avendo bandito un concorso per accesso di nuovi funzionari addetti proprio alle commissioni territoriali». Si fa abbastanza per creare l’incontro ‘più giusto’ ed equilibrato tra culture e mondi così distanti? «Si può sempre migliorare, concentrandosi soprattutto sulla creazione di figure professionali che si dedichino all’accoglienza. All’Università di Trieste, ad esempio, abbiamo da poco un nuovo corso di laurea magistrale in Diplomazia e Cooperazione internazionale, attivo presso la sede di Gorizia del Dipartimento di Scienze politiche e sociali, proprio per corrispondere alle nuove esigenze della vita di relazione internazionale, formando esperti della cooperazione, anche alla luce della creazione dell’Agenzia italiana della cooperazione nel 2016». CORRIERE DEL VENETO Pag 3 “Piacere Jonathan, cerco pezzi per aggiustare gli uomini” di Emilio Randon

Vicenza, una comunità di recupero per criminali e sbandati vista da dentro Vicenza. L’officina del signor «Jonathan» assembla uomini. Gli arrivano smontati - assassini, ladri, rapinatori, il carcere glieli manda alla rinfusa – e il suo lavoro consiste nel mettere insieme i pezzi. Talvolta ci riesce, talvolta no, quasi sempre ne manca uno. Trovare il pezzo mancante è la sua specialità. In questo si fa aiutare da Stefania e Lorenzo, due part-time. Dire che i pezzi li fabbrica a mano sarebbe corretto se non fosse che deve metterci anche l’anima. Inoltre non ci sono manuali da consultare, né istruzioni per l’uso – lui dice che non c’è nemmeno un regolamento, «ci sono solo regole» anche se poi, parlandogli, intuisci che da qualche parte deve aver imparato: in seminario forse, l’unica scuola probabilmente in grado di fornire una sufficiente preparazione in materia – in ogni caso, quando «Jonathan» ha fortuna e trova il pezzo mancante, l’uomo viene fuori intero o quasi, diversamente il lavoro resta incompleto. L’ «officina» di cui parliamo è un’associazione di promozione sociale. Si chiama «Progetto Jonathan» e sorge in via della Paglia alla periferia di Vicenza in un vecchio casale che le suore della Divina Volontà hanno dato in comodato. Attualmente ospita otto persone più quattro o cinque esterni che vanno e vengono e ha anche una presidente, Emma Rossi. Uno degli esterni, recentemente, è uscito e non è più rientrato, fatto irrilevante in sé - capita, c’è chi evade, chi latita, chi torna e chiede scusa – e nessun giornale ci avrebbe fatto caso se lui non fosse il celebre Gianni Giada, ex «contabile» della mala del Brenta chiamato anche il «doge nero» a cui il giudice ha revocato la semilibertà per certe lettere che da due anni scriveva a una ragazza, una ex-volontaria del «Progetto Jonathan», lettere dal contenuto assai poco dogale, diciamo pure oscene. Stalking. Nei giorni successivi altre due ragazze hanno lamentato lo stesso trattamento. Gianni Giada è un esempio di pezzo mancante. E potremmo partire da qui per raccontare i fallimenti del nostro «meccanico» o anche dei suoi successi che sono in quantità superiore e dei quali - ed è questo il bello - «non se ne ha prova se non quando arrivano». Il «controllo di qualità» è difficile e i riscontri possono saltare gli anni, per non dire dell’opinione comune secondo cui i criminali restano sempre criminali, cosa su cui «Jonathan» non avrebbe nulla da obiettare sennonché l’argomento è banale. Dopo aver spillato l’acqua fresca dal pozzo artesiano del cortile e riempitomi il bicchiere - lui mi guarda dritto e dice: «Di ogni uomo che entra qui dentro ricevo tre versioni, quella raccontata dai giornali, quella fornita dai carabinieri e quella che dice lui. Nessuna delle tre è vera, tanto vale farne a meno. So tuttavia che chi viene qui dà sempre colpa agli altri: qualcuno li ha traditi o sono stati beccati o li hanno mal consigliati, dicono tutto meno quella che mi interessa sentire: che hanno fatto del male a qualcuno e che a quel qualcuno pensano. E’ il loro pezzo mancante, la parte che non hanno. Procurargliela, o almeno provarci, è il mio lavoro. Si chiama lavoro di «riparazione». In quel momento si apre il cancello e una volante dei Carabinieri scarica un nuovo ospite, Ghezzim, albanese, 20 anni, privo di tutto, anche delle mutande di scorta. Jonathan lo affida a Rubin, un correligionario sperimentato e freddo – «Rubin sparava e sparava dritto» – il fatto è che Ghezzim prima di essere arrestato in Italia ha passato due anni chiuso in casa in Albania per via del Kanun (legge del sangue: tu hai ammazzato mio figlio, io mi prendo il tuo, la vendetta tuttavia non si consuma in casa della vittima, deve avvenire all’aperto, quindi, finché uno resta in casa, è al sicuro), per questo Ghezzim si sente al sicuro e ti guarda con gli occhi di un cane che ha trovato il padrone. «Riparazione, adesso comincia a parlarne anche il Ministero di Giustizia, e che cosa sia è presto detto: non è un indennizzo, non è il perdono delle vittime, è il processo alla fine del quale il reo si rende conto del male che ha fatto, è il sentimento con cui può riscattare se stesso e riconciliarsi con la società». Non accade sempre e, se accade, lo si sa dopo, talvolta mai. Con Pietro è accaduto. A Milano aveva ucciso un uomo e qui al «Progetto Jonathan» ci era arrivato con la faccia del ‘ndranghetista ribattuto: «Che ci fate voi qua – ha chiesto ai volontari della struttura – fate del bene? Coglioni!» . «Pietro si è diplomato ragioniere, è uscito e si è laureato con una tesi sul no-profit proprio lui che era un profit allo stato puro (ho a che fare con te solo se mi conviene), poi è tornato in Calabria e sul campo del padre morto, a Mesoraca, a 750 metri sul mare, ha piantato ulivi. Ora produce olio, le etichette delle prime bottiglie le abbiamo stampate insieme, qui al Jonathan, le cassette di legno per le confezioni natalizie le ha costruite Ancagiuna, un falegname peruviano, un omicida». Il pezzo mancante è stato trovato per Darlinton, nigeriano, la famiglia sterminata da Boko

Haram. A Lampedusa qualcuno gli ha detto «butta la cima», lui l’ha buttata e la polizia lo ha arrestato come scafista. «Qui si pagava l’affitto portando in giro la droga, 45 euro a consegna. Diceva di essere un sarto. Allora gli ho messo davanti una vecchia Paf, una macchina da cucire che apparteneva a mio padre e gli ho intimato: adesso cuci. Lui ha tirato fuori la spolina, ha infilato il filo nell’ago e in quel momento ho visto mio padre, anche mio padre faceva il sarto». «Un altro è Pino, uno che ha conosciuto qui la sua donna e mi ha voluto come testimone al suo matrimonio. Forse ti serve qualcuno di meglio, ho chiesto. No, ha risposto, questa è la mia casa. Un altro ancora è Bilan che se ne andò. Dopo sei anni tornò, mise sul tavolo una busta con la raccomandazione di aprila dopo. Dentro c’erano 300 euro e un biglietto: «Sei anni mi ci sono voluti, solo al terzo ho capito il bene che mi avete fatto». I pezzi che mancano a volte tornano in maniera criptica. Come per Super, un georgiano che sapeva solo dire Super perché non conosceva altre parole in italiano. Un giorno «Jonathan» ha ricevuto una chiamata dalla Svizzera, dall’altro capo del filo solo una parola: «Super». E nient’altro. «Jonathan», l’aggiusta-uomini che non vuole il suo nome sul giornale, manda avanti la baracca assemblando componenti di plastica per una ditta di accessori per cani, la Mps, 5 mila di fatturato al mese, il resto gli viene dalla pubblica generosità. Ma gli uomini restano la sua specialità e, anche se i pezzi mancanti sono difficili da trovare, non dovrebbe essere difficile aumentare la produzione. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il doppio labirinto americano di Massimo Gaggi Casa Bianca e media Prima l’illusione: Donald Trump alla Casa Bianca avrebbe smesso di comportarsi da bullo digitale per assumere un atteggiamento più presidenziale. Quando, dopo l’insediamento, il nuovo commander-in-chief ha continuato a menare fendenti contro la stampa e a distillare affermazioni false, i giornalisti si sono convinti che prima o poi il leader si sarebbe autoaffondato con le sue reazioni impulsive, la mancanza di autocontrollo, gli insulti. L’ipersensibilità di Trump nei confronti della stampa, la sua ossessione per reti tv come Cnn e Msnbc e i quotidiani «liberal» , dal New York Times al Washington Post, davano ai giornalisti mainstream la sensazione di aver riconquistato il centro del ring dopo lo smarrimento (e l’autocritica) seguito all’elezione del presidente miliardario. Ma Trump continua ad andare avanti a testa bassa coi suoi attacchi sempre più grotteschi ed estremi contro i «media» che a loro volta reagiscono con lo sdegno e la pratica del fact checking , la verifica dei fatti, che, giorno dopo giorno, si rivelano armi sempre più spuntate, almeno davanti all’elettorato conservatore. Con la pesantezza e anche la volgarità dei suoi attacchi - dagli insulti alle donne a sortite che possono essere interpretate da qualcuno come un’incitazione alla violenza contro i giornalisti - Trump fa perdere prestigio all’istituzione presidenziale, dando la sensazione di correre a perdifiato in un tunnel buio. Ma ora anche la stampa comincia a temere di essere finita in una galleria senza uscita. E deve chiedersi se non abbia ragione il guru del marketing Seth Godin secondo il quale, in qualunque settore uno opera, vende «non per quello che è capace di fare ma per la sua capacità di sedurre con la storia che racconta». Fin qui Trump ha raccontato soprattutto la storia di una grande congiura della stampa contro di lui: dei 121 tweet sicuramente scritti di suo pugno dal presidente tra quelli diffusi a giugno, solo 3 toccano problemi politici reali, tutti gli altri sono attacchi contro i media. Una situazione paradossale, senza precedenti nella storia americana, che lascia di sasso le cancellerie di tutto il mondo, ma anche i media: ogni mattina le reti tv mettono in piedi lo spettacolo dell’indignazione. Ogni giorno dicono che è stato toccato il fondo salvo scoprire il giorno dopo che Trump non si fa problemi a scendere ancora più in basso con accuse volgari e affermazioni non vere. Poi anche i media incappano nei loro errori: il servizio sulla connection russa di un assistente di Trump durante la transizione che la Cnn ha dovuto ritirare, mettendo alla porta i tre autori e i divi televisivi che usano metafore sanguinose contro il presidente, dandogli l’opportunità di replicare sullo stesso

terreno con ancor più durezza, incurante del fatto che le parole del capo della superpotenza hanno un peso molto maggiore. I media dimostrano la falsità di molte affermazioni del leader, Maureen Dowd sul New York Times afferma che l’America è governata da un cronista della pagina dei pettegolezzi, ma Trump si beffa dei critici accusando i giornali di essere loro la vera fabbriche delle falsità, mentre dà quasi ragione alla Dowd quando fa capire che può usare il National Enquirer, un giornale scandalistico, come manganello per punire gli avversari. L’indignazione di una parte dell’opinione pubblica contro Trump sale e con essa si moltiplicano gli ascolti delle reti tv e gli abbonamenti alla stampa liberal: «The Donald» sembra sempre sul punto di precipitare all’inferno. Ma questa è solo una parte della storia. L’altra la si è vista sabato quando, davanti a una vasta platea di veterani e attivisti di organizzazioni religiose, Trump, anziché parlare di patria e fede, ha attaccato la Cnn definendo il suo «giornalismo spazzatura». Parole accolte da una vera ovazione della folla. E ancora: Trump, sepolto dalle critiche democratiche ma anche repubblicane dopo aver attaccato la conduttrice della Msnbc Mika Brzezinski tirando in ballo la sua plastica facciale, non solo non fa marcia indietro, ma rivendica il suo stile mediatico: «Uso le reti sociali in modo modernamente presidenziale». Insomma, c’è del metodo nel bullismo di Trump: il suo stile piace a chi lo ha votato, mentre gli avversari non hanno strumenti per detronizzarlo. «The Donald» alimenta la narrativa della stampa che ha congiurato contro di lui («non mi volevano alla Casa Bianca, ma ho vinto io e loro non possono farci niente») perché si sente a suo agio e dà il meglio di sé quando mena pugni su un ring. E, probabilmente, anche perché per ora deve giocare con storie e suggestioni non avendo fatti concreti da offrire agli americani: la sua controriforma sanitaria è ferma al Senato, mentre della riforma fiscale della quale si è tanto parlato deve essere ancora scritta la prima pagina. Ma, intanto, lui resta in sella. Gli unici a poterlo disarcionare sono i parlamentari del suo partito: i primi ad essere allarmati e spaventati per le mosse di Trump che desertifica il terreno politico dei repubblicani. Che però, deboli e traballanti essi stessi davanti all’elettorato di destra, non hanno il coraggio di sfidarlo in campo aperto. Pag 16 L’ultimo Villaggio di Maurizio Porro Dal cabaret al cinema: addio al mattatore che creò il mito Fantozzi Se ne è andato Villaggio, ma Fantozzi gli sopravvivrà come Charlot sopravvive a Chaplin, Hulot a Tati, Clouseau a Sellers. Ma adesso chi dirà alla fine del cineforum che La Corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca? Era una falsità cinefila ma una verità sociologica. L’attore è morto ieri all’alba a Roma stroncato dal cuore e dal diabete e sarà ricordato con cerimonia laica domani (alle 18.30) alla Casa del cinema. Prima, invece, camera ardente in Campidoglio dalle 9.30 alle 16.30. Ha portato via il suo corredo di stramberie, la sua moda e soprattutto la maschera di Fantozzi, travet umiliato e offeso nato dall’osservazione di una middle class angariata dal Padrone (vedi romanzo di Parise) e dalla esperienza di impiegato. Un Paperino ad orario fisso, cartoon vivente in cui tutti ci siamo identificati, molto i bambini. Villaggio è stato una macchina da guerra: libri, cabaret, teatro, cinema, radio, tv. Nato il 30 dicembre del 1932 a Genova, dove visse anni scapigliati per affinità elettiva con Fabrizio De André con cui fu entertainer in crociere, poi scese dalla nave passando al cabaret, fino al serio avviso di chiamata dello Stabile di Genova nel ‘66. Figlio di ingegnere siciliano e madre veneziana insegnante di tedesco, fratello gemello di un ingegnere, Villaggio fu il «disonore» della famiglia, assunto all’Italsider ma presto cabarettista. Dai microfoni radio del «Sabato del villaggio» all’exploit nel ‘68 con «Quelli della domenica», miniera di talenti: Villaggio si sdoppia in Franz e Fracchia. Finché la metamorfosi si compie col popolare rag. Fantozzi Ugo, disperato fumetto della società dei consumi. Record di incassi - Fantozzi è la commedia dell’arte impiegatizia: i patetici cenoni l’ultimo dell’anno e le gite fuori porta, il pronti via per timbrare all’uscita e l’inchino al boss sul divano di pelle umana. Complici la paziente moglie Milena Vukotic, la scimmiesca figlia che era poi l’attore tunisino Plinio Fernando, il miope Filini-Gigi Reder collega d’ufficio, il vendicativo capo personale Umberto D’Orsi, Anna Mazzamauro, la signorina Silvani («Fantozzi è l’unico che mi ha davvero amata»). Mentre nel ’70 parte con Brancaleone di Monicelli, Villaggio fa il guastatore a Sanremo, ma la fama sta nella cassetta di sicurezza

dell’irresistibilmente crudele Fantozzi. Furono record d’incassi lungo una saga di 10 episodi, figlia di una commedia all’italiana deformata all’inizio dallo spiritoso Luciano Salce (quasi 8 milioni di biglietti nel ‘75), passata in eredità a Neri Parenti. Gag e capitomboli ripetitivi con Fantozzi che resuscita, va in pensione, subisce, va alla riscossa, torna, vince la lotteria, viene congelato, clonato. Poi i campioni d’incasso: Le comiche, Grandi magazzini, I pompieri, Scuola di ladri. Villaggio sapeva fare il mattatore ma anche dividere la scena, possedeva innata la goliardia che ogni tanto si ritorceva contro (Il vizietto a teatro con Dorelli) mentre il ritorno alle scene è siglato dal Piccolo di Milano con l’Avaro nel ‘97 partito da un’intuizione di Strehler. I sogni mostruosamente proibiti di Villaggio, indistinguibili nella memoria dall’alter ego diplomato in ragioneria, passarono dopo Salce (Il Bel Paese ) con Steno, Corbucci, Castellano e Pipolo, i Vanzina. Fu notato da Loy (Sistemo l’America e torno ), Del Fra, Samperi, Cervi, Ponzi, Pompucci, Oldoini; ancora Monicelli (Cari fottutissimi amici), Gassman regista (Senza famiglia), Nichetti (Palla di neve), Salvatores (Denti). Elogio della follia - I fiori all’occhiello, a parte il David condiviso con Volontè e il Leone a Venezia nel ‘92, furono tre film da libri: Io speriamo che me la cavo di Wertmuller da Marcello D’Orta, La leggenda del bosco vecchio di Olmi, da Buzzati, La voce della Luna, da Cavazzoni. Fellini (con cui girerà per una banca i suoi ultimi spot con incubi freudiani) gli affida nel film, elogio della follia e profetica fu l’ultima battuta su «quel» bisogno di silenzio ancora inevaso. Villaggio mostrò così l’animo nascosto, delicato, infelice, oltre l’obbligo della risata, del cinismo, del suo buffo look no dieta. L’attore aveva accumulato il talento divertendosi a disperderlo in mille rivoli: vendutissimi i romanzi fantozziani, meno quelli biografici, già parte di un finale di partita che lo stesso Villaggio non sapeva come giocarsi e che indubbiamente gli ha riservato anni tristi del clown che non sa invecchiare. Pag 19 Ma Fantozzi oggi non esiste di Aldo Cazzullo Finzione e realtà «Prenderò l’autobus al volo». E la signora Pina, preoccupatissima: «Ugo, non l’hai mai fatto, non hai il fisico adatto». E lui, con espressione eroica: «Non l’ho mai fatto, ma l’ho sempre sognato». È stato un parastatale di Genova a inventare l’ultima maschera italiana, raccontarla in libri venduti a milioni di copie, recitarla in tv e al cinema. All’apparenza perdente, in realtà indistruttibile, il ragionier Ugo Fantozzi è il mediocre che di fronte all’ennesimo insulto - «coglionazzo!» - del direttore naturale trova il coraggio di ribellarsi e pure di rapirgli la madre («prendo la vecchia!»), che finiva per innamorarsi di lui: «È il mio uomo, io lo amo!». Oppure costringe il direttore cinefilo a guardare in ginocchio sui ceci Giovannona coscialunga , L’Esorciccio e La polizia s’incazza («al terzo giorno la polizia si incazzò davvero: Fantozzi arrendetevi!». «Mai! Non ci avrete mai! Forse…»). Con le donne non aveva mai avuto fortuna. «Signorina, posso averla a pranzo da Gigi il troione? Ho prenotato da due mesi…». Ma la signorina Silvani non lo voleva e non lo valeva. «Fantozzi, lei è anche poeta!» lo irrideva prima di sputare nel trucco. Gli preferiva il geometra Calboni, belloccio e volgare («capocordata fu messo imprudentemente Calboni…»). E lui a inventarsi ogni volta una magia: «Sono stato azzurro di sci…». Per poi tornare sconsolato dalla moglie, «chiedendosi come sempre senza risposta cosa mai l’avesse spinto un giorno a sposare quella sorta di curioso animale domestico». «Pina, tu mi ami?». «Io ti stimo moltissimo». Così lui si gettava per la disperazione in camera mentre lei lo avvertiva troppo tardi: «Ugo attento ho già separato i letti…». Ma quando la moglie si innamorò di Cecco, il nipote del fornaio, «un orrendo butterato di ventisei anni dal culo molto basso e dall’alito pestilenziale tipo fogna di Calcutta» (uno strepitoso Diego Abatantuono giovane), Fantozzi trovava l’orgoglio di affrontare il rivale: «Lei insidia la mia famiglia!». «Famiglia? Ma che bella collezione di mostri!». L’altro mostro era la figlia Mariangela, che amava teneramente pur vedendo in lei la conferma della propria mediocrità. Perché questo va detto: Paolo Villaggio non era buono. Lui stesso si descriveva nella copertina dei suoi libri come «cattivo, invidioso e di animo volgare. Ha le braccia corte con due artigli da topo che usa come mani. Tutto questo gli provoca gravi ansie, che placa mangiando di notte cibo adulterato nudo in piedi di fronte al frigorifero aperto». Più semplicemente, era spietato nel mostrare a noi italiani come siamo davvero: opportunisti, familisti, conservatori. In

politica Paolo Villaggio, che votava comunista, faceva recitare a Ugo Fantozzi la parte del piccolo borghese reazionario. Memorabile la sua lettera all’ Europeo del 1974, dopo la caduta del regime salazarista: «Il Portogallo era l’ultimo paradiso. I contadini legati all’aratro lavoravano ventisei ore al giorno lungo le dolci rive del Tago… Ora solo la Spagna resiste, con il suo magnifico e indomito Caudillo». Anche il ragioniere ebbe la sua fiammata rivoluzionaria, grazie a Folagra, il collega extraparlamentare, culminata con il memorabile incontro con il megadirettore naturale: la poltrona in pelle umana, la serra di piante di ficus, il naif jugoslavo alle pareti, e ovviamente l’acquario dei dipendenti; verrà riassunto come parafulmine, dopo essere stato spugnetta umana per francobolli. Villaggio nella vita ha fatto molto altro, dai versi geniali del «Ritorno di Carlo Martello dalla battaglia di Poitiers» per il suo amico Fabrizio De André a filmetti dimenticabili. Con il suo sarcasmo ha allietato la vecchiaia di Gassman, Tognazzi e altri grandi della commedia all’italiana. Ma la sua biografia finisce per confondersi con il suo personaggio, lui sì immortale; anche se il creatore ieri se n’è andato, e l’impiegato di concetto da tempo non esiste più. Proprio l’epica della sconfitta aveva reso Fantozzi-Villaggio un vincente. «Ho sempre perso tutto: due guerre mondiali, otto campionati di calcio consecutivi, la faccia e la testa per una donna forse mostruosa». La stessa confusione tra la maschera e il suo inventore, come Charlie Chaplin-Charlot, denota quanto fosse profonda la sua intuizione, quanto ci abbia smascherati, denudati, rivelati a noi stessi. Con Paolo Villaggio se ne va la nostra parte migliore: quella che non l’ha mai fatto, ma l’ha sempre sognato. AVVENIRE Pag 1 Nessuno sia scartato di Roberto Colombo Francesco e il piccolo Charlie L’attesa di un ulteriore intervento di papa Francesco sulla drammatica vicenda umana del bambino malato Charlie e dei suoi genitori era grande sia tra i cattolici che tra i non credenti che riconoscono e stimano la grande autorità morale e spirituale, senza confini di religione e di patria, del successore di Pietro. Ancor più viva lo era tra le mamme e i papà che in ogni parte del mondo seguono con trepidazione e angoscia le sorti – ormai legate a un esile, ma tenace, filo di speranza – di questo “loro” figlio. Anche in questa circostanza, l’attesa non è stata vana. Domenica sera il comunicato della Sala stampa vaticana ci ha informati che il Papa «segue con affetto e commozione la vicenda del piccolo Charlie Gard ed esprime la propria vicinanza ai suoi genitori. Per essi prega, auspicando che non si trascuri il loro desiderio di accompagnare e curare sino alla fine il proprio bimbo». Il desiderio di ogni genitore che ama il proprio figlio e ha offerto la sua vita per lui è quello di stargli accanto, in qualunque condizione fisica egli si trovi, di curarlo personalmente e instancabilmente e vederlo curato senza desistenza dai professionisti della salute ai quali è temporaneamente affidato a motivo di una sua malattia. È un desiderio genuino, ragionevole e originario, non un surrogato irrazionale dell’affetto materno e paterno, e neppure un derivato di concezioni o condizionamenti culturali e sociali. Un desiderio inciso nella natura sorgiva della genitorialità e nel fondamentale ruolo sociale dei genitori, e come tale fonte del diritto-dovere riconosciuto al padre e alla madre di essere i primi e prioritari custodi e promotori del bene dei propri figli, come recitano le carte nazionali e le convenzioni internazionali. Nessun rescritto umano può cancellare ciò che Dio ha inscritto nel cuore dell’uomo e della donna chiamandoli a diventare suoi collaboratori nella procreazione e nella custodia della vita umana, che è sempre un bene. Anche il Dipartimento della salute britannico – in una guida destinata ai genitori dei piccoli pazienti dal titolo “Che cosa avete i diritto di aspettarvi” – si attende «che i genitori prendano le decisioni sulla cura della salute dei loro figli basate su quello che essi intuiscono sia il “benessere” o il “miglior interesse” del bambino ». È una intuizione del cuore e della ragione di una madre e di un padre che sta alla base di quella che lo stesso documento del Servizio sanitario nazionale inglese chiama «responsabilità genitoriale» e che papa Francesco chiede di non trascurare anche nel delicato e complesso caso di Charlie. Di fronte alla vita e alla morte di un bambino malato, le giuste prerogative della professionalità medica e il necessario diritto positivo della giurisprudenza sono chiamati a essere discreti, a fare generoso spazio – ancor più che in altre situazioni cliniche – alle attese dei genitori e al loro diritto naturale di non

vedere, fino alla fine dei suoi giorni sulla terra, il proprio figlio privato dell’accompagnamento umano, che solo l’intimità con la mamma e il papà può offrire, e della cura medica appropriata, sia di natura “terapeutica” che di “supporto vitale”. Anche se questa decisione last minute comportasse la modifica di un protocollo clinico costato lunga fatica di studio e di discussione dei dati diagnostici e prognostici tra i medici cha hanno in cura il piccolo paziente, o richiedesse una “seconda lettura” dei pronunciamenti delle Corti che hanno affrontato il contenzioso nei mesi scorsi, questo travaglio non sarebbe senza merito né resterebbe senza unanime riconoscimento. Inchinarsi di fronte alla vita che ancora anima l’esistenza di questo bambino e sorregge quella dei suoi genitori è un gesto grande, degno di grandi medici e di grandi giuristi, assai più che restare attaccati all’idea che sulla “qualità” e sulle “aspettative” di questa vita si è costruita. La medicina e la legge sono fatte per l’uomo, non l’uomo per la medicina e la legge. E l’offerta di cura “senza se e senza ma” per Charlie arrivata, in eloquente coincidenza con la pressante preghiera di papa Francesco, dall’eccellente Ospedale romano (e vaticano) Bambino Gesù lo ha ricordato al mondo intero. Ancora una volta il Papa, che non si stanca di denunciare la «cultura dello scarto», è stato capace di scuoterci ricordandoci che le idee umane si possono (e, in alcuni casi, si devono) scartare, mentre la vita dell’uomo – che eccede ogni idea che su di essa possiamo farci – non può mai essere gettata via: va amata, accompagnata e curata sino alla fine. Pag 3 Chi volta la faccia la perde e nega la vita di Paolo Lambruschi Migrazioni: si profila un pessimo euro-accordo Mentre il supertrafficante di uomini, l’inafferrabile eritreo Medhanie , si fa beffe della magistratura italiana – che pensa di averlo a processo a Palermo – rilasciando, liberissimo, interviste al 'Wall Street Journal', ora paradossalmente rischiano di essere davvero le Ong a 'pagare' per aver tratto in salvo decine di migliaia di vite umane. Esattamente un terzo dei non sommersi e salvati del totale di coloro che sono stati raccolti nelle acque del Mediterraneo centrale dall’estate 2014. Al vertice Ue di Tallinn, l’Italia – sostenuta a parole da Francia e Germania – proporrà un codice di condotta ancora oscuro che dovrebbe limitare l’attività di salvataggio nelle acque libiche delle navi delle organizzazioni non governative. In aggiunta, secondo alcune indiscrezioni, il piano Ue vieterebbe loro di sbarcare i migranti sulle navi di Eunavfor Med, il dispositivo navale di Bruxelles. Quindi diminuirebbe la capacità di salvataggio, perché le navi delle Ong dovrebbero trasportare direttamente in porto i profughi. Se davvero dovessero essere queste le intenzioni, non è retorico cominciare a domandarsi ad alta voce chi salverà le persone migranti – uomini, donne e bambini – aggrappate a barchini sempre più precari mentre le barche delle Ong navigano lontano. Saranno le navi di Frontex? Oppure non ci sarà più nessuno a vigilare e soccorrere in mare aperto? Colpisce il voltafaccia di Parigi che in sole 24 ore passa dalla solidarietà a Roma al 'no' all’apertura del porto di Marsiglia all’accoglienza (in stretta compagnia con Madrid), dimostrando ancora una volta l’indifferenza europea di fronte alla più grossa crisi umanitaria dal 1945. È bene ribadirlo: si tratta di una crisi umanitaria, perché le cifre – circa 85 mila arrivi in sei mesi – non consentono di parlare di emergenza né di invasione. Ciò non significa, né giustifica, che il peso dell’accoglienza debba ricadere tutto sul nostro Paese. Ma dove sia la solidarietà europea, come dimostra il 'no' francese, resta ancora una volta da capire, visto che per giunta i ricollocamenti dei richiedenti asilo tra i veri Paesi dell’Unione, pur aumentati, restano troppo bassi. Quanto alle Ong, sono state accusate di tutto da sei mesi a questa parte, con una campagna politicomediatica senza precedenti, che ha sollevato uno tsunami anti-solidale e dai contorni xenofobi. Il Parlamento ha organizzato numerose audizioni per capirne di più, sono state aperte inchieste da tre Procure, eppure non è ancora emersa una prova a loro carico. Ciò nonostante è rimasto il fango. Per rinfrescarci la memoria, allora, è necessario ricordare che l’iniziativa di salvare vite umane con 'navi private' è partita per colmare il buco lasciato in mare dai governi dei Paesi Ue dopo la fine dell’operazione 'Mare Nostrum' e mentre si stavano moltiplicando i naufragi e l’opinione pubblica si divideva tra pianto e indignazione. L’Italia, che nel 2013, dopo la strage del 3 ottobre a Lampedusa, mise in mare in solitudine per volere dell’allora premier Enrico Letta le navi della Marina militare per l’operazione 'Mare Nostrum', ha diritto di pretendere chiarezza e trasparenza da chi porta in salvo nei porti

nazionali migliaia di persone, ma non può né deve limitare gli interventi umanitari pena la perdita di una credibilità internazionale ampiamente meritata e una perdita più vasta, e dal valore ancor più incalcolabile, di vite umane innocenti. Non sono ammessi sgambetti meschini, insomma. La vita umana ha la precedenza assoluta, questo è scritto nel dna italico. Neppure si può accettare a cuor leggero che altri denari dei contribuenti europei vadano a finanziare la Guardia costiera libica sui cui pesano le accuse di crimini contro l’umanità. Prima di metterla in sostanza a sorvegliare i confini europei spostati sulla costa africana, si chiarisca a chi essa è fedele, se al governo di Tripoli o alle milizie o agli stessi trafficanti. Torniamo a dirlo forte: la fame, le guerre e la carestia, diceva ancora ieri il Papa alla Fao, non faranno che aumentare i flussi migratori. Entro 30 anni la popolazione africana raddoppierà, dicono i demografi, mentre quella europea diminuirà ancora. L’impegno vero per dare alle persone la libertà di non partire dall’Africa inizia non da pseudo blocchi di porti o mettendo ostacoli a chi soccorre le vite umane in barba ai diktat di Bruxelles, ma dalla lotta alla povertà e da un aiuto vero alla sviluppo. Magari facendo autocritica e iniziando a combattere traffico di armi e corruzione, acerrimi nemici dello sviluppo. Pag 5 “Non si trascuri il desiderio dei genitori” di Elisabetta Del Soldato Il Papa per Charlie. Il Bambino Gesù: “Pronti ad accoglierlo”. Trump in campo Londra. La Gran Bretagna, l’Europa e il mondo intero vivono con il fiato sospeso in attesa che si sappia cosa accadrà a Charlie Gard, il bambino – che proprio oggi compie 11 mesi – affetto da una rara malattia genetica del mitocondrio al quale i medici del Great Ormond Street Hospital di Londra vorrebbero staccare la spina (venerdì scorso hanno “concesso” ai genitori tutto il fine settimana per stare ancora un po’ con il loro piccolo). Milioni di persone in tutto il mondo chiedono che sia esaudito il desiderio di mamma e papà, Connie Yates e Chris Gard: portarlo negli Stati Uniti dove lo attendono cure sperimentali che secondo la coppia potrebbero salvarlo. Il Papa ha espresso sostegno alla famiglia del bambino. «Il Santo Padre segue con affetto e commozione la vicenda del piccolo Charlie Gard ed esprime la propria vicinanza ai suoi genitori – ha fatto sapere il direttore della Sala Stampa Vaticana, Greg Burke –. Per essi prega, auspicando che non si trascuri il loro desiderio di accompagnare e curare sino alla fine il proprio bimbo». Su Twitter ieri si è espresso il presidente americano Donald Trump: «Se possiamo aiutare il piccolo #CharlieGard, come i nostri amici britannici e il Papa – ha scritto – saremmo felici di farlo». La Casa Bianca ha precisato che il presidente non ha parlato direttamente con i familiari del bimbo – in quanto non vuole esercitare pressione in alcun modo – ma che ci sono stati contatti con membri dell’Amministrazione. Il particolare interesse del Papa e dell’Italia intera nella vicenda di Charlie non è passato inosservato: i media inglesi stanno dando grande risalto a questo aspetto. «In Italia – ha scritto il Daily Mail – la storia di Charlie ha toccato milioni di persone e raggiunto il Vaticano». In effetti, la mobilitazione per salvare Charlie dal destino stabilito dai medici di Londra – e approvato dalla giustizia britannica e poi europea –, è molto forte nel nostro Paese. Oltre cento sono state le veglie organizzate in tutta la penisola, da Trieste a Milazzo, da Imperia a Napoli. Ieri, poi, l’ospedale Bambino Gesù e l’ospedale Gemelli di Roma si sono detti disponibili ad aprire le porte al piccolo. «Siamo vicini ai genitori nella preghiera – ha fatto sapere la presidente del Bambino Gesù, Mariella Enoc –, e disposti ad accogliere Charlie presso di noi se questo è il loro desiderio». Sappiamo che il caso «è disperato», ha continuato Enoc, «e che a quanto risulta non esistono terapie efficaci, ma ho chiesto al direttore sanitario di verificare con l’ospedale di Londra dove è in cura Charlie se ci sono le condizioni sanitarie per un eventuale trasferimento del piccolo presso di noi». Nel pomeriggio è arrivata anche l’offerta della Comunità Papa Giovanni XXIII, che si è detta «pronta a ospitare la famiglia Gard nella nostra casa di Roma per permettergli di accudire il loro bimbo». Tante, tante preghiere, ma anche rosari, Messe e vespri – accomunate da un unico desiderio: che venga lasciata a Charlie la libertà di vivere – si sono tenute nel fine settimana in tutta Europa e a San Paolo, Belo Horizonte e Rio de Janeiro. Ma anche a Londra, nella terra della politcal correctness, dove la popolazione è abituata a rispettare il giudizio della scienza, molti sono scesi in piazza a protestare. «Staccare la spina a Charlie equivale a un puro omicidio – dice ad Avvenire Alex Nagel, studente di marketing che domenica ha organizzato una manifestazione

fuori da Buckingham Palace –. E non permettergli di essere trasportato a casa per trascorrere in famiglia le ultime ore della sua vita equivale a una detenzione forzata». Erano centinaia gli inglesi che sventolando palloncini blu e cartelloni con su scritto «Salvate Charlie» o «Rilasciate Charlie»: si sono radunati domenica nel centro di Londra. Molti di loro sono tornati a Buckingham Palace anche ieri, nella speranza che la loro presenza possa far cambiare idea ai giudici e ai medici. Molti disabili e moltissime mamme con i passeggini hanno circondato la residenza londinese della regina. «Vogliamo che Charlie sia portato a casa. Vogliamo che sia portato negli Stati Uniti a curarsi», ha spiegato con forza Hattie Boardman, una donna di 25 anni che spingeva la sedia a rotelle della madre di 60 anni. Ieri l’attesa di sapere quando i medici avrebbero staccato la spinta al respiratore artificiale che tiene in vita il piccolo è diventata intollerabile. I genitori, dopo aver ottenuto la concessione dai medici di dargli qualche giorno in più – invece di staccare la spina venerdì scorso –, hanno chiesto al pubblico di rispettare la loro privacy in queste ultime ore preziose. Avrebbero voluto portare Charlie a casa, per il primo bagnetto. Ma non è stato concesso loro neanche questo. Sono rimasti in ospedale a vegliarlo, giorno e notte. Continuando a sperare, un minuto dopo l’altro. Pag 7 Paglia: “Per Charlie un sì alla vita. Non venga abbandonato” di Luciano Moia «Accompagnare la vita: nuove responsabilità nell’era tecnologica». È il titolo della prossima assemblea generale della Pontificia Accademia per la vita che si terrà in ottobre. Mentre ne parliamo con il presidente, l’arcivescovo Vincenzo Paglia, la sorte del piccolo Charlie Gard è legata alle decisioni dei medici che hanno concesso ai genitori ancora qualche giorno per il distacco. Vita, tecnologia, e accompagnamento sembrano proprio le tre grandi e complesse questioni che si intrecciano dietro il caso del bambino inglese. Arcivescovo Paglia, come si dovrebbe accompagnare alla fine questo piccolo se davvero non c’è alcuna possibilità di salvarlo, senza che questo delicato e straziante momento prenda da una parte la deriva dell’accanimento e dall’altra quello dell’eutanasia? Proprio pronunciando un triplice no: all’eutanasia attiva o passiva, all’abbandono e all’accanimento terapeutico. Tenendo presente che il grande sì va invece pronunciato nei confronti dell’accompagnamento e del prendersi cura, che non vuol dire sempre guarire, ma sempre vuol dire commuoversi e stare accanto a chi soffre in ogni momento e in ogni circostanza. E si tratta di un atteggiamento che dovrebbe essere condiviso da parte di tutti. È questo il senso della cosiddetta alleanza terapeutica? Sì, e vorrei sottolinearlo in maniera ancora più forte, ci vuole un’alleanza d’amore che deve coinvolgere il malato, quando è possibile, ma anche i familiari, i medici, gli amici. È in questo circolo d’amore che si afferma il valore della vita senza senza se e senza, e nello stesso tempo si evita quella dittatura della tecnica che ci fa dimenticare i limiti invalicabili dell’esistenza umana, ma oscura anche le impensabili risorse della volontà umana di viverli insieme, con amore. Per i credenti la preghiera fa parte di questa alleanza, nella quale coinvolgiamo Dio stesso. In questo caso però l’alleanza terapeutica non sembra aver funzionato... Purtroppo quando si affida la decisione a un tribunale, vuol dire che l’alleanza terapeutica non esiste più. E questo vanifica l’accompagnamento per far prevalere posizioni astratte e anche ideologiche. E qui ha ragione il Papa quando auspica che non venga trascurato il desiderio dei genitori di Charlie «di accompagnare e curare sino alla fine il proprio bimbo». Il tema della responsabilità è proprio quello che avete messo al centro dell’Assemblea generale del prossimo ottobre. Perché la decisione di far dialogare responsabilità e tecnologia? Perché tocchiamo una delle questioni cruciali del mondo contemporaneo che riguarda il rischio di una dittatura della tecnica che rende l’uomo strumento e oggetto manipolabile e non più fine da onorare, facendogli così perdere quel primato che sia la cultura cattolica sia la cultura laica gli riconoscono. Non si tratta di parlare in astratto della vita

ma delle persone umane in tutto il loro sviluppo, dal concepimento sino alla morte naturale. È indispensabile che la visione evangelica e quella umanistica stringano un’alleanza per accompagnare l’uomo, evitando che venga travolto dallo tsunami della tecnica che stravolgerebbe la vita, facendola uscire a forza dall’umanità dei suoi affetti e dei suoi legami. Se accettiamo questo svuotamento e questo sequestro, come resterà umano il nostro cammino insieme? In che maniera generazione e genitorialità – un altro dei temi in programma all’assemblea di ottobre – interrogano il binomio responsabilità- tecnologia? Qui si apre la riflessione sulla cura della dignità di ogni persona umana nelle diverse età della vita, e sul reciproco sostegno tra i generi e le generazioni. Dobbiamo ribadire l’esigenza di difendere ogni singola persona da tutte le possibili forme di strumentalizzazione e sostenerne la dignità. In questo contesto va iscritta anche la promozione di un’autentica ecologia umana che aiuti a ritrovare l’equilibrio tra Creato e persona umana. Responsabilità, tecnologia, cultura dello scarto – si parlerà anche di questo ad ottobre – richiamano la sciagura rappresentata dai milioni di bambini che ogni giorno nel mondo vengono scartati prima di nascere, e non soltanto perché affetti da qualche patologia. Nei giorni scorsi ha fatto molto discutere il fatto che sia stato scelto, tra i nuovi membri della Pontificia Accademia per la vita, il filosofo anglicano Nigel Biggar perché si sarebbe pronunciato a favore dell’aborto. Cosa c’è di vero in queste accuse? Quasi nulla. Si è trattato di una grande bolla mediatica. Biggar non solo è contrario all’aborto, ma mi ha confermato che combatterà contro questo tipo di cultura negativa in linea con la dottrina cattolica sul fine vita. Del resto basta leggere con attenzione quello che affermava già nel 2011, nel dialogo con Peter Singer finito sotto accusa. Sia prima, sia dopo la frase in cui sembra aprire all’aborto, in realtà si esprime «per tracciare una linea in maniera molto più conservativa» (sono proprio le sue parole) a difesa della vita. Certo, è stato facile leggere in modo malevolo un ragionamento complesso come quello da lui proposto. Anche su altre nomine si sono però sollevati distinguo e perplessità... Il Papa ha voluto che tra gli accademici ci fossero anche persone di altre tradizioni cristiane e di altre religioni perché spera in una grande intesa trasversale per riaffermare il valore della vita e della dignità di ogni persona. E questo è un obiettivo assolutamente accettato e sostenuto da tutti i membri nominati. Di fronte alle grandi frontiere dell’umano non c’è bisogno di alzare steccati, ma di cercare ovunque alleati convinti che siano anche scienziati preparati. A proposito di manipolazioni mediatiche si continua a ripetere da settimane che sarebbe stata formata una commissione segreta per la 'revisione' di Humanae vitae di cui lei sarebbe il grande regista. Ed è stato stilato anche un presunto elenco di esperti e di teologi – da Pierangelo Sequeri e Gilfredo Marengo – che sarebbero coinvolti in questo progetto. C’è qualcosa di vero in tutto questo? Proprio nulla. La verità è un’altra. Paolo VI aveva intuito che il futuro umano del pianeta si sarebbe giocato sul tema della generazione. È su questo tema che dobbiamo riflettere insieme con coraggio, con audacia e con intelligenza. La cultura contemporanea arranca, manca di parole adeguate e non di rado arretra. È un tempo opportuno perché la Chiesa aiuti tutti a reinventare la forza della generatività mentre il mondo rischia sterilità, ripiegamento su se stesso, angoscia. Un esempio è il rischio di semplificazione della differenza – anche di genere – per l’incapacità a viverla e a sostenerla. Pensa al problema della cosiddetta cultura gender? Certo, al problema del gender, ma anche a quello di un’Europa che non fa figli e che invecchia sempre di più, allo squilibrio interno delle generazioni, all’evaporazione della figura del padre, alla fatica educativa che si ritrova in tutto l’Occidente. Riflettere su tutto questo vuol dire obbedire alla profezia dell’Humanae vitae per affrontare questi enormi problemi, che avevano già trovato in quell’enciclica una grande e profetica ispirazione. Altro che commissione per liquidarla! Pag 12 Doppia questione di credibilità Mettere sommariamente in discussione l’onorabilità e la credibilità di un ospedale pediatrico considerato (in virtù dei risultati e non di invenzioni) un’eccellenza a livello

internazionale, non è un buon servizio che si fa alla sanità e nemmeno all’informazione. Già, perché pubblicare un’inchiesta - basata secondo il 'Bambino Gesù' soltanto sulle accuse anonime di «un gruppo di dipendenti ed ex-dipendenti» - pur avendo avuto la possibilità di consultare un rapporto ufficiale e certificato che smonta le accuse punto per punto, rischia di mettere in discussione anche l’autorevolezza di una grande e importante agenzia di stampa come l’Associated Press. È un vero peccato. La verifica, e la comparazione, delle informazioni e delle fonti non è una regola alla quale si può derogare, nemmeno quando la voglia dello scoop, vero o presunto, è più forte che in altri casi. Chissà poi perché stavolta era così forte. Forse perché c’è di mezzo un ente promosso dal Vaticano? Pag 25 Villaggio, il mestiere di ridere di Massimo Iondini, Guido Oldani e Massimiliano Castellani L’elogio: meritava il Nobel più di Fo. La critica: un cinico anticlericalismo «La vecchiaia? È una malattia. Fra trecento o quattrocento anni la medicina la sconfiggerà. Però dobbiamo almeno evitare il fumo e il cibo...». Sarcasmo, provocazione, paradosso, insofferenza, cinismo, ironia, come quando disse che se mai i suoi funerali fossero stati celebrati in chiesa, li avrebbe voluti a San Pietro. «Sono inviperito per questa tendenza che esiste soprattutto in Italia, forse per le sue radici cattoliche, di riconoscere i meriti degli artisti solo dopo la morte. Come se la morte nobilitasse» ebbe a dire in un’altra occasione. Anche questo era Paolo Villaggio, morto ieri mattina a 84 anni (era nato il 30 dicembre 1932) in una clinica di Roma, dove era ricoverato da giorni per le conseguenze del diabete di cui soffriva da tempo. I suoi funerali non saranno ovviamente in San Pietro né in nessun’altra chiesa di quella cattolicità che l’anticlericale Villaggio attaccava spesso e volentieri. Come Alberto Sordi, ma assai meno ampiamente, anche Paolo Villaggio ha raccontato al cinema gli italiani, con le loro maschere quotidiane, le bassezze, le meschinità, le quotidiane miserie. Per farlo si è calato con la penna (ha scritto una trentina di libri) e nel piccolo e grande schermo, incarnando per decenni il suo personaggio per antonomasia, il ragionier Ugo Fantozzi, la maschera italiana più famosa degli anni 70 e 80. «La gente mi incontra per strada e mi dice grazie: con Fantozzi ci ha insegnato molte cose, prima di tutto ad accettarci» amava ricordare l’attore genovese. È nel 1971 che Rizzoli pubblica i suoi racconti su Fantozzi, già usciti sull’Europeo. Il successo è immediato e quattro anni dopo arriva il primo di una celebre e fortunata serie di film, quel Fantozzi del 1975 diretto dal non meno caustico Luciano Salce. La fenomenologia di Fantozzi è satira pura: la totale assenza di qualità, la sua Bianchina da postumo boom economico, la derelitta moglie Pina (interpretata dalla grande Milena Vukotic) e la loro orrenda figlia Mariangela (a vestirne i panni era un uomo, l’attore Plinio Fernando). «Fantozzi all’inizio ci faceva ridere, veniva considerato un vicino di casa cretino – diceva della sua creatura Villaggio due anni fa in occasione del ritorno in sala, per il quarantennale, del primo dei dieci film della serie – . Poi lentamente noi italiani ci siamo scoperti, proprio come lui, almeno per l’80% incapaci di essere competitivi e per una buona parte purtroppo anche dei falliti rispetto alle proprie aspirazioni. In tempi di esodati e di Jobs Act, Fantozzi è un tragicomico leader. Un bel paradosso». In quei film Villaggio sfoderava tutto il sarcasmo e la cattiveria di una società e di un mondo del lavoro in cui gli ingranaggi finiscono con lo stritolare soprattutto gli ultimi. Una fotografia anche dei vizi e dei tic di una società ipocrita e stereotipata. Ma la carriera di Villaggio comincia con la televisione alla fine degli anni 60, a Quelli della domenica dove debuttano i personaggi del Professor Krantz e di Giandomenico Fracchia, altro tragicomico impiegato, sorta di antenato di Fantozzi, che sprofondava nella poltrona “Sacco” mentre davanti al grande capo (Gianni Agus) gli si intrecciavano i “diti”. Poi Canzonissima e, alla radio, la domenica mattina, Gran Varietà. Con lui autori e compagni di strada come Enrico Vaime, Cochi e Renato, Ric e Gian. Arriva il momento d’oro di Villaggio che gira con Mario Monicelli Brancaleone alle crociate e recita per Pupi Avati e Nanni Loy. Per lui in tutto una settantina di film in carriera tra cui spiccano, per qualità interpretativa e prestigio di firma, La voce della luna in coppia con Benigni (l’ultimo film di Federico Fellini), Il segreto del bosco vecchio di Olmi (tratto da Dino Buzzati) e Io speriamo che me la cavo di Lina Wertmuller (tratto dal libro di Marcello d’Orta). Nel 1992 arriva il Leone d’oro alla carriera, poi il David di

Donatello e nel 2000 il Pardo d’onore a Locarno. Ma Villaggio non è stato solo attore e scrittore. Del resto nel suo Fantozzi si può percepire una sorta di critica a un modello sociale e politico-industriale, frutto anche della sua giovanile esperienza lavorativa come impiegato all’Italsider. Villaggio si tuffò così anche nella politica (passando dal Pci al Movimento 5Stelle), candidandosi persino un paio di volte, ma senza successo, nelle file di Democrazia proletaria nell’87 e dei Radicali nel ’94. Innumerevoli per tutta la giornata di ieri gli omaggi delle istituzioni («attore di talento che ha saputo raccontare con acume ed efficacia vizi e virtù degli italiani» ha scritto il presidente Mattarella), del mondo sindacale («ha interpretato le frustrazioni e la voglia di emancipazione di tanti italiani» ha detto il segretario della Cisl, Annamaria Furlan), dei media (compreso l’Osservatore Romano) e dello spettacolo, a partire dal suo talent scout Maurizio Costanzo. «Un giorno – racconta –, consigliato da Squarzina, vidi in un teatrino questo impiegato dell’Italsider. Impazzii: con Villaggio ci vedemmo a cena e lui firmò su un tovagliolo un contratto per il cabaret che stavo lanciando in quel periodo a Roma, Sette per Otto. Venne e fece il botto: il botteghino apriva alle 17, alle 17,20 era già esaurito. Lo videro gli alti dirigenti della Rai e lo portarono a Milano per Quelli della domenica». «Ciao papà, ora sei di nuovo libero di volare», ha scritto ieri con un post su facebook, la figlia Elisabetta che, recentemente, aveva accusato il mondo del cinema di averlo dimenticato. Ieri, insieme al fratello Pierfrancesco e alla loro mamma Maura, ha accolto gli amici alla clinica dove l’attore è morto all’alba. Entrambi hanno ammesso di aver avuto con il padre «un rapporto complesso». «Non è stato un rapporto facile, perché mio padre era assente, come molti di quelli che fanno questo mestiere – ha spiegato Pierfrancesco –. Ma ultimamente ho avuto occasione di stare vicino a lui, perché abbiamo lavorato insieme. E questo ci ha permesso di instaurare un rapporto che non c’era mai stato». Domani l’ultimo saluto, con la camera ardente in Campidoglio e una cerimonia laica. Ma a ricordarlo sarà presto soprattutto un film postumo intitolato La voce di Fantozzi con la regia di Mario Sesti. È l’opera testamentaria per la quale lo stesso Villaggio ha anche scritto nuovi dialoghi. Nel film anche le testimonianze, tra gli altri, di Benigni, Dario Fo, Lino Banfi, Fiorello, Renzo Arbore e Costanzo. Nell’inquadratura, realizzata a casa sua, che chiude La voce di Fantozzi, Villaggio tiene in mano il ciak del film. Mi è facile immaginare la mamma di Villaggio Paolo, studente così così. Sarà stato difficile, per lui, sostenere il confronto con un gemello bravissimo a scuola e la madre che scuote il capo, perché in una gara a due, le posizioni in classifica non possono essere tante. Forse incomincia così l’altalena della formazione profonda di un interprete della cultura contemporanea, che va al tramonto. Villaggio, con il suo amarissimo genere comico, dà lustro alla rifulgente epica della mediocrità. Questo autore coglie che l’unica maniera per vivere accettabilmente è quella di schierarsi con il nemico e gioire eroicamente del male e la beffa che l’avversario ci muove persino quasi senza ostilità, per sola fede nel «poterazzo», come lo avrebbe denominato Giovanni Testori. Ogni sconfitta è drammaticamente allegra e piagnucolosa; lo scatto subito cancellato, di ribellione, è per dare gloria maggiore alla imminente spietata ed accresciuta sconfitta successiva. Villaggio è stato interprete così drammatico da essere comico di questo tempo. Se i suoi spettatori hanno riso, anziché suicidarsi, è perché non hanno deliberatamente voluto riconoscersi in Fracchia, che è il nostro vero monumento nazionale, forse persino planetario. Se il premio Nobel fosse meno servizievole di quanto non lo sia, Paolo Villaggio l’avrebbe potuto ottenere. Il suo è un contributo indispensabile alla conoscenza della nostra umanità. Dario Fo necessitava del medioevo o della politica del momento, Villaggio dava fiato all’assoluto dell’anima disgraziata. Mi amareggiò sentirlo dire che non era mai diventato amico delle persone con cui aveva lavorato: neppure del ragionier Filini, miopissimo suo gemello nella mediocrità del racconto. Amavo la sua obesità e il suo notturno bulimico scassinare il frigorifero di casa. Me lo hanno raccontato trasandato e solo, davanti al bicchiere in un angolo di bar. Alla tua salute, Paolo Villaggio. Del parlare bene di lui o addirittura del creare il suo “santino” post mortem, forse a Paolo Villaggio sarebbero girate le scatole. La parola «santino» non rientrava nel suo pur ricco vocabolario, così come aborriva le «radici cattoliche » che considerava quasi un’erba gramigna e ce lo ha sempre rinfacciato con una discreta dose di cinico

villaggismo. Del resto era e rimarrà un “fottutissimo amico” dell’altrettanto agnostico Mario Monicelli, con il quale ora da qualche parte, magari, continuerà a rileggere le pagine di un’autobiografia terrena che volle intitolare Vita, morte e miracoli di un pezzo di m..... Un materialismo storico e insofferente ha permeato la filosofia cruda dell’ex impiegato d’Italia convinto che l’unico essere immanente fosse il fantozziano “Mega Direttore” «colui che nessun impiegato al mondo era mai riuscito soltanto a vedere. Correva anzi voce che non esistesse neppure che non fosse un uomo, ma solo un’entità astratta». Il problema di Villaggio è sempre stato quello di avere la capacità e la profonda leggerezza nel raggiungere le alte quote dell’esilarante per poi degradare nelle fanghiglie del politicamente scorrettissimo. Come quando durante le Paralimpiadi di Londra 2012 se ne uscì con «questi Giochi paralimpici mi fanno tristezza: sembrano riconoscenza o esaltazione della disgrazia». Noi gli ricordammo che di triste c’era soltanto il suo brontolismo votato alla costante ricerca del tetro paradosso. Molto meglio il sano Villaggio agonistico e ridanciano che in doppio con Adriano Panatta scrisse Lei non sa chi eravamo noi. Libro che ha pagine discrete ma non insuperabili, come invece restano episodi come la partita di tennis Fantozzi-Filini con il surreale scambio di battute: «Filini: Allora, ragionere, che fa? Batti? Fantozzi: Ma... mi dà del tu? Filini: No, no! Dicevo: batti lei? Fantozzi: Ah, congiuntivo! Filini: Sì!». IL GAZZETTINO Pag 5 Don Torta: “Voi responsabili per i fuori di testa” Venezia - «Cari fratelli, in nome di Dio trovate una soluzione. Se qualcosa di positivo non verrà deciso, sarete responsabili di ciò che molte persone deboli, ormai stressate e fuori di testa, potrebbero compiere». È il passaggio di una lettera che don Enrico Torta, parroco di Dese e coordinatore di un gruppo di associazioni di risparmiatori delle ex banche popolari venete, ha inviato al Capo dello Stato, al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro dell'economia e delle finanze e a tutti i parlamentari invocando interventi a favore di chi ha perso i soldi nelle azioni delle ex popolari. Pagg 6 – 7 L’ultimo tragico Fantozzi di Adriano De Grandis e Gloria Satta Quei personaggi universali come i suoi libri A Paolo Villaggio appartengono alcune delle decisive maschere tragicomiche, quasi grottesche, dell'ultimo Novecento, capaci di raccontare, come forse nessun'altra, il servilismo strisciante e la pusillanimità di un ceto medio soffocato dal Potere, rappresentato soprattutto nel mondo del lavoro, e incapace di avere una dignità: in questo gli impiegati Fracchia e, successivamente, Fantozzi rappresentano quella classe sociale, parzialmente elevata per studi e rango, ma succube della propria mediocrità, non senza il puntuale accanimento della sfortuna. Basterebbe solo questo per ricordare l'attore, morto ieri a Roma a 84 anni dopo complicazioni del diabete, di cui soffriva, come uno degli artefici principali della comicità italiana, la cui nazional-popolarità rappresentava il tono decisivo per renderla efficace ed esaltarla a figurazione emblematica e politica, come nella migliore nostra tradizione. Ma Villaggio è stato anche molto altro. Nato a Genova, gemello, il giorno prima di San Silvestro del 1932, da padre palermitano e madre veneziana, di famiglia borghese, da giovane lavora come impiegato all'Italsider, dove mette sicuramente a fuoco i suoi futuri personaggi, e dopo esperienze varie conosce Fabrizio De André, diventandone grande amico e scrivendo per lui i testi di Il fannullone e soprattutto Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, che oltre al successo ha anche guai con l'ottusità della censura. Ma è l'incontro successivo con Maurizio Costanzo che spalanca le porte alla sua folgorante carriera. Erano gli anni più creativi della Rai e Villaggio piomba con il professor Kranz a Quelli della domenica (1968), una specie di caricaturale prestigiatore tedesco, che al grido di Chi viene voi adesso? aggrediva il pubblico (in questo fu senza dubbio profetico di molta televisione a venire), dimostrandosi in realtà il primo dei suoi popolari personaggi inetti. Sullo stesso palcoscenico nacque anche Fracchia (indispensabile ricordare l'insuperabile spalla di Gianni Agus), con il quale Villaggio divenne immediatamente popolare, dando vita a tormentoni ancora oggi nella memoria da Com'è umano, lei a Mi si sono intrecciati i diti. Tuttavia è con Fantozzi che Villaggio inventa il suo capolavoro: un vero e proprio avatar,

che ancora oggi porta tantissima gente a fare l'immediata liaison. Fantozzi, la cui sudditanza psicologica è diventata perfino proverbiale con il termine fantozziano, compare per la prima volta anch'esso in Quelli della domenica, poi sulle pagine dell'Europeo in forma di racconto per diventare (1971) un libro, subito best-seller, anche grazie agli azzeccati personaggi di contorno, soprattutto la moglie Pina. Infine, assecondato dalla sagace regia di Luciano Salce, anche un film (1975). La genialità del ragioniere, prototipo dell'universalmente sfigato (si pensi alla famosa nuvola che in un giorno di sole colpisce di pioggia solo lui) finisce per occupare una decina di film fino a Fantozzi 2000 La clonazione (1999), all'interno della quale si sviluppa una cosmogonia irripetibile che spiega, come raramente accade, i riflessi di un Paese intero, nei suoi aspetti più meschini. Inevitabile ricordare almeno gli apporti determinanti, nella lunga serie, di Anna Mazzamauro (signorina Silvani), Liù Bosisio e Milena Vukotic (quest'ultime alternative moglie Pina), e Plinio Fernando (nei panni dell'orrenda figlia Mariangela, non caso interpretata da un uomo). All'interno di questa invidiabile carrellata (quasi mai comunque all'altezza dei primi episodi), della quale Villaggio ha cofirmato con Neri Parenti la regia di Fantozzi contro tutti (1980), i riferimenti noti si sprecano: da quello celeberrimo di La corazzata Potiomkin è una cagata pazzesca (da Il secondo tragico Fantozzi), slogan diventato una specie di ribellione al Sistema di Pensiero intellettuale; all'episodio veneziano di Fantozzi va in pensione, dove il ragioniere finisce per essere aggredito e lubrificato a dovere dai colombi di Piazza San Marco. Proprio Venezia darà a Villaggio il riconoscimento più prestigioso con il Leone alla Carriera, alla Mostra del 1992. Sarebbe ingiusto ricordare Villaggio attore solo con le sue maschere celebri. Il suo cinema è ricco di prove alternative, dalle commedie più dimenticate al cinema d'autore, nel quale si contano almeno Brancaleone alle crociate (Monicelli, 1970), Non toccare la donna bianca (Ferreri, 1974), Il segreto del bosco vecchio (Olmi, 1993), Denti (Salvatores, 2000) e ovviamente soprattutto La voce della luna (Fellini, 1990), dove l'attore genovese, a fianco di Roberto Benigni, girovaga per la campagna padana, in cerca di un mondo alternativo e poetico. E soprattutto silenzioso. Attore di cinema e teatro (da ricordare anche la sua collaborazione con Renato Pozzetto nella serie de Le comiche), personaggio televisivo, giornalista, scrittore e sceneggiatore, Paolo Villaggio è stato sempre un alternativo anche in politica (fu vicino al Pci, Dp, e ai radicali), caustico, controcorrente e polemico, come gli accadde nel 2011 quando bollò i friulani come popolo ubriacone, suscitando proteste e indignazioni. Ma con lui scompare forse l'artista di cinema e tv più originale e geniale dell'Italia degli ultimi cinquant'anni. Il dizionario: A come antonomasia. «Ho capito di aver creato qualcosa di universale», diceva Paolo Villaggio, «quando i giornali hanno iniziato a scrivere fantozzi con la lettera minuscola: non era più un personaggio ma un'antonomasia». B come botteghino. Sono stati mostruosi gli incassi generati dalla serie Fantozzi: dieci titoli che tra il 1975 e i Novanta consolidano il mito dell'impiegato perdente che incarna ed esorcizza le frustrazioni dell'intero genere umano. C come cognome. Visto dalla prospettiva di Fantozzi, il mondo sideralmente lontano dell'aristocrazia si sostanzia nel cognome di una mitica contessa: Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare. D come denti. Villaggio era molto affezionato al film Denti di Salvatores, in cui interpreta l'odontoiatra che popola gli incubi di Sergio Rubini. E come Eisentstein. Definire «una cagata pazzesca» La corazzata Potemkin, capolavoro del regista sovietico, rappresenta la ribellione al conformismo intellettuale. F come Fracchia. Giandomenico Fracchia, impiegato timidissimo e frustratissimo, è uno dei primi personaggi creati da Villaggio e il preludio di Fantozzi. G come Genova. Villaggio era molto legato alla sua città che oggi programma di intitolargli una strada . I come intellettuali. La regista Francesca Archibugi, con cui avrebbe girato il film Questioni di cuore, incarnava agli occhi di Villaggio il cinema intellettualistico e un po' snob. Tormentone dell'attore: «Quando la incontro non mi saluta mai». L come letteratura. Si sentiva più uno scrittore che un attore: i libri su Fantozzi sono stati tradotti in tutto il mondo.

N come nuvola. È quella che insegue, tragicamente e comicamente, Fantozzi. Sfigato anche quando va in vacanza. P come premi. Tra Eat it - mangiala, la commedia di Casaretti che nel 1968 segna l'esordio di Villaggio sullo schermo, e l'ultima apparizione in Tutto tutto niente niente di Manfredonia (2012) ci sono oltre 70 film, un Leone d'oro alla carriera vinto a Venezia nel 1992, un Pardo d'onore a Locarno (2000), un paio di David di Donatello, un Nastro d'argento. Q come quaderni. Lo strumento di lavoro del maestro di Io speriamo che me la cavo, il film di Lina Wertmuller ispirato al best seller di Marcello D'Orta. Uno dei ruoli più toccanti di Villaggio. R come ricordi. Il cinema italiano negli ultimi anni lo aveva abbandonato. Ma l'attore reagiva con ironia: «Il set mi manca», diceva, «così oggi preferisco vivere dei ricordi». S come svolta. È un incontro decisivo quello con Federico Fellini che, nel 1989, sfocia nel film La voce della luna, protagonisti Villaggio e Roberto Benigni. Gli anni Novanta sono scanditi dalle incursioni sempre più frequenti dell'attore nel grande cinema d'autore. Con Ermanno Olmi gira Il segreto del bosco vecchio nel ruolo del colonnello incattivito da una vecchiaia senza affetti. T come tragedia. L'aggettivo tragico, inteso in senso surreale, definisce l'intera epopea di Fantozzi. U come umanità. Tra le battute più felici e citate di Villaggio, rimane «com'è umano, lei», pronunciata dal sottoposto vessato al sadico superiore. E la poltrona di pelle umana è tuttora sinonimo di potere. Z come zavorra. Tra le cose che Villaggio detestava c'erano la retorica, la banalità, il conformismo. Pag 21 Serve una nuova Yalta per la scacchiera del Medio Oriente di Fabio Nicolucci Malgrado numerose guerre ne sconvolgano l'assetto, o forse proprio per questo, il medioriente è di nuovo al centro degli interessi della politica mondiale. Conseguenza del fatto che le carte mediorientali sono tornate in cima alla pila nella prima cancelleria d'occidente, cioè la Casa Bianca. E come è d'uso dalla fine della Guerra Fredda in poi, è stato un Presidente repubblicano a declinare questo tema come principale nell'elaborazione della politica estera, al contrario dell'impostazione più globalista degli altri due presidenti democratici. Dove Clinton si era occupato più di temi europei la riunificazione della Germania e poi la guerra nei Balcani ed Obama invece aveva spostato il baricentro verso il Pacifico. Malgrado infatti le ricorrenti tensioni marittime con la Cina e il dossier nordcoreano, il presidente Usa sembra voler interpretare il suo motto make America great again in salsa mediorientale piuttosto che globale. Ma la sua apparente facilità finisce non appena l'Air Force One decolla da Washington o, se si preferisce, compare in bacheca l'ultimo tweet di quello che la sempre più avversa stampa irride come Twitter in Chief, parodiando il titolo di Commander in Chief. Perché sul medioriente si addensano tensioni che non nascono solo qui. E la cui soluzione per questo può venire solo da una risistemazione complessiva di un nuovo ordine che le armonizzi in una nuova Yalta. Se però l'approccio da sistemico diviene causale ed episodico, come è stato per esempio durante la recente visita di Trump in Arabia Saudita, invece di chiudere vecchie questioni si aprono nuove crisi. Come quella all'interno del campo sunnita del Golfo tra Qatar e Arabia Saudita. Mettendo infatti in una celebrazione del Gulf Cooperation Council le mani insieme al re saudita sulla palla di vetro illuminata nella penombra in una scena alla Darth Fener, Trump ha fatto gli stessi danni che fece l'ambasciatrice Usa in Iraq nel 1990 quando, rispondendo in modo evasivo ad un Saddam Hussein che gli chiedeva cosa gli Usa pensassero del Kuwait, fu interpretata come un via libera Usa all'invasione. Così oggi è scoppiata una crisi tra il Qatar e altri 4 paesi del GCC di cui non si intravede la fine anche se appare chiara la strumentalità, visto che la scusa saudita per il blocco economico in atto sarebbe la lotta al terrorismo ma tra le richieste dell'ultimatum a Doha vi sono la chiusura di Al Jazira, la fine dei rapporti con l'Iran e la chiusura della nuova base turca nell'Emirato. Perché l'interventismo postmoderno e quasi surreale di Trump non avrà effetti migliori della politica delle tre scimmiette non vedo, non sento e non parlo - che ha segnato la fredda

realpolitik regionale dell'era Obama dopo il 2011, con la notevole eccezione dell'accordo con l'Iran. La cui centralità dirimente del resto è dimostrata dal fatto che proprio sul posto dell'Iran nel nuovo medioriente si stanno aggregando interessi e fazioni, così come stanno nascendo tre blocchi geopolitici. Il primo è rappresentato da un rinnovato protagonismo russo in Siria ma anche in Libia, con aperture verso l'Iran. Si tratta di elementi caratteristici della politica prima sovietica e poi russa. Una familiarità probabilmente irresistibile per un Trump che pare molto innovativo ma è in realtà in politica estera vicino a consonanze ideologiche assai datate. Perché il secondo blocco è proprio quello che sta nascendo con la riscoperta, dopo la diffidenza post 11 settembre, di un asse tra Arabia Saudita e Usa. Dove l'unico elemento di novità sarebbe l'inclusione di Israele, i cui rapporti con i sauditi come campioni di un sunnismo scelto come partner nella regione soprattutto contro l'Iran - sono in grande spolvero. Il terzo blocco è quindi quello dell'Iran, la cui potenza specifica è cresciuta dopo la consegna dell'Iraq alla sua maggioranza sciita nel 2003. E l'Iran che in Europa guarda alla Francia di Macron - si appoggia sempre più alla Cina, infatti inclusa nel gigantesco contratto ventennale da 5 miliardi di dollari siglato ieri con Total. Su questi grandi blocchi si stanno definendo dunque le alleanze nelle guerre in corso, compresa quella contro l'Isis. Se non saranno scomposti da una nuova visione politica all'altezza, la partita tra i tre blocchi sarà perduta da chi rimarrà solo. LA NUOVA Pag 1 La partita in Europa non è chiusa di Francesco Morosini Forse il governo italiano, al fine di evitare un ancor peggiore patatrac creditizio a Nordest (e non solo) e chiudere la vicenda di Veneto Banca (Vb) e Popolare di Vicenza (Bpvi), ha affondato l’Unione bancaria europea. Esagerato? Forse; ma il pericolo c’è. D’altronde, questo potrebbe essere l’effetto dell’operazione Intesa Sanpaolo/governo in quanto in sostanziale deroga - come appare dal decreto legge ora in via d’approvazione in Parlamento - sia rispetto alla Brrd (la cosiddetta “Direttiva europea sul bail in”) che alla normativa nazionale sulla Lca (liquidazione coatta amministrativa) delle banche in dissesto. Allora, quale potrebbe essere il motivo del possibile infanticidio italico della neonata Unione bancaria? Il nostro giocare con le regole ed esporre eccessivamente il contribuente nell’operazione (quasi facendo del bail in un parziale bail out). Ecco ciò che potrebbe dare un ottimo pretesto ad altri, ad esempio ai tedeschi, per rifiutarsi di condividere il presupposto base necessario all'esistenza dell'Unione bancaria medesima: la condivisione del rischio. Che poi pure potrebbe voler dire il profilarsi di una sorta di bad bank pubblica che, qualora divenisse una costante dei salvataggi bancari Italian Style, scaricherebbe pure i futuri salvataggi bancari sul debito pubblico. Insomma, così la prospettiva è di passare dal bail in bancario al bail in del debito pubblico. Naturalmente, decidere da parte del ministero dell'Economia e Finanza (Mef), ovvero vincolati dalle esigenze di consenso della maggioranza, dai paletti delle Autorità europee e delle varie corporazioni in gioco, è difficile e ciò ha reso l'operazione Intesa Sanpaolo/governo la più facile da percorrere. Fatte però due scelte politiche poste in premessa e, quindi, da valutare come tali, anche nei costi, da parte dell'opinione pubblica: la prima è di evitare di toccare le obbligazioni senior (meno rischiose delle subordinate in caso di dissesto aziendale); la seconda, di trovare il "pronto soccorso" di un istituzione creditizia - al secolo Intesa Sanpaolo che, non a caso, è un po' il dominus ed un po' la fatina bianca della vicenda - onde così evitare gli aspetti più puntuti, dunque politicamente più dolenti, di una Lca canonica (rientro degli affidamenti, per dire il più hard). Così, invece, trovato il soccorritore che si prende al prezzo simbolico di un euro la "parte sana" di Vb e Bpvi (forse anche a risarcimento del miliardo e mezzo perso da Intesa Sanpaolo con il Fondo Atlante), si può poi optare per una sorta di Lca soft. Vuol dire, se si esclude il contribuente, limitare le perdite, salvo ristoro dal realizzo per liquidazione delle parti "malate" delle medesime Vb Bpvi, agli azionisti e agli obbligazionisti subordinati di queste ultime. Cionondimeno, con la Lca secondo ordinamento, ma politicamente e socialmente difficilmente proponibile, forse l'esborso di denaro pubblico sarebbe risultato minore in quanto lo Stato avrebbe potuto guadagnare dalla gestione liquidatoria delle parti sane delle due banche. Però, a ciò manca la prova controfattuale; e, comunque, così Intesa Sanpaolo toglie parecchie castagne dal fuoco

alla politica, sia essa di maggioranza che di opposizione. Il finanziamento pubblico di circa 4 miliardi di euro per l'acquisizione degli asset sani delle due banche venete da parte di Intesa Sanpaolo, onde evitarne ricadute sulla capitalizzazione, è un problema in termini di normativa europea. Una difficile partita tra Bruxelles e Roma. La cosa influenzerà pure il dibattito parlamentare? Quanto alla questione del ristoro dei creditori di Vb e Bpvi, il punto è che, a complicare la cosa, il diritto bancario già dal 1936, scostandosi in ciò dal diritto fallimentare, antepone ai loro interessi la continuità operativa della banca o, almeno, dei suoi rami sopravvissuti. In altri termini, guardando al caso di Vb e Bpvi, manca ai creditori la possibilità di agire sugli asset buoni, dovendosi fermare agli attivi in liquidazione della bad bank, che è il meno. Attenzione, ciò non è un caso; difatti, se da decenni ciò fa parte del nostro ordinamento è per un fine di ordine pubblico economico: la tutela prioritaria della stabilità e funzionalità del sistema creditizio. Ora il decreto legge sull'operazione Intesa Sanpaolo/governo è in Parlamento; comunque vada il voto, c'è ancora molto da discutere sulla vicenda. Pag 12 Don Torta al governo: “Evitate atti estremi” «Cari fratelli, in nome di Dio trovate una soluzione. Se qualcosa di positivo non verrà deciso, sarete responsabili di ciò che molte persone deboli, ormai stressate e fuori di testa, potrebbero compiere». È il passaggio di una lettera che don Enrico Torta, parroco di Dese e coordinatore di un gruppo di associazioni di risparmiatori, ha inviato a Mattarella, Gentiloni, al ministro Padoan e ai parlamentari invocando interventi a favore degli azionisti azzerati. «Vi chiedo con il cuore in mano di non macchiarvi di questa grande ingiustizia, che disonora la nostra cultura secolare». Rispetto all'«operazione Intesa» precisa: «Avete accettato le ossa e donato la carne dei poveri, che è la carne di Cristo: Caino e Giuda non devono essere i vostri consiglieri». Pag 31 Il ragionier Ugo Fantozzi e la rivoluzione della lingua di Michele A. Cortelazzo La notizia della morte di Paolo Villaggio mi ha raggiunto a Sappada dove ad ogni inizio di luglio si incontrano i dialettologi italiani. Per una fortuita coincidenza, nel volume che raccoglie i contributi dello scorso anno (edito dalla Cleup), si trova anche uno scritto di Lorenzo Coveri sul dialetto nei comici liguri, con un fugace riferimento a Paolo Villaggio: fugace perché Villaggio ha sempre rinunciato al dialetto materno, che pure gli era congeniale. Il genovese è assente anche nel film "A tu per tu", del 1984, nel quale il tartassato di turno ha sì una marcata cadenza ligure, ma come espressione dialettale usa solo «scià me scuse», al posto del fantozziano «scusi», pronunciato, come quasi tutte le espressioni servili e impacciate dell'impiegato per antonomasia, con un fil di voce. Il contributo di Paolo Villaggio alla lingua italiana è stato ampio, anche se costituito non da un insieme sistematico, bensì da singole fortunate espressioni. Io stesso, poco fa, ho usato l'aggettivo fantozziano, diventato ormai patrimonio comune, nel significato "che ricorda i modi goffi e impacciati del ragionier Fantozzi", come scrivono i vocabolari. Lo stesso cognome Fantozzi ha assunto, per antonomasia, il significato di "sfigato": come non ricordare la famosa "nuvola dell'impiegato", che accompagna il ragionier Fantozzi in ferie, chiamata anche "la nuvola di Fantozzi" (e una volta mi hanno stupito due colleghi stranieri, un tedesco e un greco, non italianisti, che conoscevano bene il significato dell'espressione).Ma sono numerose le parole del personaggio Fantozzi che ne hanno caratterizzato la figura e che si sono trasferite nell'uso colloquiale: l'antifrastico leggerissimo, a indicare qualcosa di copioso (per esempio "una leggerissima sudorazione"), l'iperbolico mostruoso e poi, seleziono da un articolo di Claudio Giunta nell'Internazionale del 2015, merdaccia, coglionazzo, poltrona in pelle umana, direttore galattico, Dir. Gen. Lup. Mann. Gran Farabut: tutte parole e immagini che rappresentano il senso di frustrazione del dipendente che subisce i soprusi di chi si trova in posizioni di rilievo nella scala gerarchica aziendale. Questo lessico, notava Giunta, «è diventato ormai - e stabilmente - lessico famigliare degli italiani, quasi senza distinzioni di ceto, istruzione, provenienza geografica». Così come è diventato proverbiale, e in quanto tale applicabile alle più diverse situazioni, il commento all'ennesima proiezione, con dibattito, della Corazzata Kotiomkin (mascheramento di Potëmkin): «una cagata pazzesca»,

spesso modificato pudicamente in «una boiata pazzesca».Si deve a Villaggio anche la più forte censura del "congiuntivo all'italiana", cioè dell'incapacità di molti italiani, che pure sanno che in certi contesti va usato il congiuntivo, di coniugarlo correttamente: i vari vadi, venghi, ma anche di chi (accolto come titolo del suo Prontuario comico della lingua italiana del 2011) e batti, nello scambio di battute, nel campo di tennis, tra la spalla Filini che lancia l'invito «Allora, ragioniere, che fa? Batti?» e Fantozzi che si risente: «Ma... mi dà del tu?», cui segue il chiarimento: «No, no! Dicevo: batti lei?», «Ah, congiuntivo!»: una critica sottile ma feroce, al presunto declino del congiuntivo, più potente di mille post degli odierni grammar nazi. Del resto, nella sua scrittura, Villaggio è stato sempre abile a destreggiarsi tra i registri dell'italiano, a partire dal 1963, quando scrisse il suo testo migliore, quello della canzone "Carlo Martello torna dalla battaglia di Poitiers", musicata e cantata da Fabrizio De Andrè: forme auliche, coloriture regionali, espressioni basse si alternano, secondo uno spirito goliardico, dando una rappresentazione del potere e della società che non ha certo perso validità nel corso degli anni: «Veloce lo arpiona la pulzella / repente una parcella presenta al suo signor / "deh, proprio perché voi siete il sire / fan zinquemila lire, è un prezzo di favor". / "È mai possibile, porco d'un cane, / che le avventure in codesto reame / debban risolversi tutte con grandi puttane". CORRIERE DEL VENETO Pag 18 “Sarete responsabili dei gesti di chi è fuori di testa” di g.f. Il monito di don Torta alle istituzioni Dese (Venezia). «Caino e Giuda non siano i vostri consiglieri». Affilato come non mai, è a Capo dello Stato, premier e ministro dell’Economia che si è rivolto ieri don Enrico Torta, coordinatore delle associazioni di «soci traditi» delle ex banche popolari venete, in una lettera aperta. Nella sostanza è una supplica ad individuare una soluzione accettabile per tutte le persone che nelle casse di Montebelluna e Vicenza avevano riposto i risparmi di una vita in forma di azioni. Ma il documento mette anche un carico da novanta sotto il profilo morale. «Se qualcosa di positivo non verrà deciso - avverte il sacerdote, parroco di Dese - sarete responsabili di ciò che molte persone deboli, ormai stressate e fuori di testa, potrebbero compiere». Rispetto all’«operazione Intesa», infine, dopo aver accusato anche Bankitalia e Consob, il religioso sostiene che «donando le due Banche a Intesa per un euro, avete accettato ‘le ossa’ e avete donato ‘la carne dei poveri’, che è la carne di Cristo». Torna al sommario