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RASSEGNA STAMPA di giovedì 16 giugno 2016 SOMMARIO “Dire che papa Bergoglio sta componendo con i suoi gesti una «enciclica» - scrive Mimmo Muolo su Avvenire di oggi - equivale a considerarli per quello che in realtà sono, veri atti magisteriali, sottraendoli in tal modo sia alla categoria interpretativa della semplice 'simpatia umana', sia a quella non meno inadeguata della 'rivoluzione'. Francesco non compie i suoi gesti spesso sorprendenti solo perché vuole accattivare con la simpatia, né tanto meno perché è un 'rivoluzionario'. Del resto, quest’ultima categoria non sarebbe poi neanche tanto nuova. A loro modo 'rivoluzionari' sono stati il Giovanni XXIII inventore del Concilio Vaticano II, il Paolo VI dei viaggi e della rinuncia a certi simboli del potere papale (la sedia gestatoria, la tiara), il Giovanni Paolo I del sorriso paterno e tanto più il Giovanni Paolo II delle molte innovazioni. Per non parlare infine della 'rivoluzione' forse più storicamente sorprendente di tutte: la rinuncia di Benedetto XVI. L’enciclica dei gesti, invece, viene 'composta' in base a una diversa ispirazione e chiede perciò di essere letta in un altro modo. Tutto nasce, infatti, dal realismo dell’esperienza pastorale e dalla capacità di ascoltare il mondo contemporaneo, ponendosi accanto agli uomini e alle donne del nostro tempo con lo stile del Viandante di Emmaus. In questo senso l’«enciclica dei gesti» è magistero in 3D che raggiunge in tempo reale anche chi un’enciclica vera non l’ha mai letta. Quei gesti inoltre sfuggono allo schematismo di chi ha sempre distinto tra magistero per così dire 'normale' (fatto cioè di discorsi e documenti) e la 'gustosa' eccezione dei comportamenti fuori protocollo. Con Francesco invece un gesto può valere più di un discorso. E in tal modo il magistero esce dai confini della carta per diventare carne e concretezza sotto i nostri occhi. 'FRATELLI E SORELLE, BUONASERA' - IL MODO DI PRESENTARSI - L’«enciclica dei gesti» trova il suo incipit in quel «Fratelli e sorelle, buonasera», pronunciato al suo primo affacciarsi da Papa. Il 13 marzo 2013 egli si presenta semplicemente con la veste bianca, senza la mozzetta rossa e la stola dei suoi predecessori. Una differenza che colpisce. Così come non può passare inosservata la sua richiesta al popolo di una preghiera perché il Signore benedica il nuovo vescovo di Roma, «prima ancora che il vescovo benedica il popolo». È l’annuncio di uno stile diverso, più libero e colloquiale, che non si limiterà a quel momento, ma continuerà ad esempio nell’augurio di «buon pranzo» con cui Bergoglio conclude i suoi Angelus domenicali e in tanti altri atteggiamenti. Un Papa per la gente e tra la gente, come quando - nella prima domenica da Pontefice - varca il cancello di Sant’Anna e si consegna all’abbraccio dei fedeli. RESIDENZA A SANTA MARTA - LA QUOTIDIANITÀ NORMALIZZATA - La sera stessa dell’elezione viene diffusa la foto del Papa che torna dal Palazzo Apostolico a Casa Santa Marta in pulmino insieme agli altri cardinali. La novità è tale che qualcuno pensa a un fotomontaggio. Ma è tutto vero. Come è vero (e nuovo) che al momento di prendere l’ascensore Francesco invita alcuni porporati a entrare con lui, che nei giorni seguenti si reca alla Casa del clero di via della Scrofa (dove ha alloggiato prima del conclave) per pagare il conto e che stabilisce la sua residenza a Santa Marta, rinunciando anche a Castel Gandolfo. Successivamente stupiranno la scelta di spostarsi dentro Roma con una semplice Ford Focus o (all’estero) con utilitarie, di portarsi la borsa da sé nei viaggi e di andare a comprarsi le lenti in un’ottica di via del Babuino. Sono gesti che parlano di una quotidianità papale 'desacralizzata'. Francesco resta a contatto con il mondo. E questo ne aumenta l’autorevolezza. PARLARE PER IMMAGINI - LA LINGUA CREATIVA DI BERGOGLIO - Il Papa parla per immagini. La Chiesa ospedale da campo, la Chiesa in uscita, i cristiani da pasticceria, la corruzione spuzza, la misericordina, mafiarsi, il clericalismo è un tango che si balla in due, l’ecumenismo del sangue, sono solo alcune delle sue espressioni più citate, spesso tratte dal vernacolo di Buenos Aires. Si potrebbe eccepire che le parole non sono gesti. Ma il gesto in questo caso consiste nel rifiuto dell’ecclesialese, in favore della lingua di tutti i giorni appresa nell’azione pastorale. Vino nuovo in otri

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 16 giugno 2016

SOMMARIO

“Dire che papa Bergoglio sta componendo con i suoi gesti una «enciclica» - scrive Mimmo Muolo su Avvenire di oggi - equivale a considerarli per quello che in realtà

sono, veri atti magisteriali, sottraendoli in tal modo sia alla categoria interpretativa della semplice 'simpatia umana', sia a quella non meno inadeguata della 'rivoluzione'. Francesco non compie i suoi gesti spesso sorprendenti solo perché vuole accattivare con la simpatia, né tanto meno perché è un 'rivoluzionario'. Del resto, quest’ultima

categoria non sarebbe poi neanche tanto nuova. A loro modo 'rivoluzionari' sono stati il Giovanni XXIII inventore del Concilio Vaticano II, il Paolo VI dei viaggi e della

rinuncia a certi simboli del potere papale (la sedia gestatoria, la tiara), il Giovanni Paolo I del sorriso paterno e tanto più il Giovanni Paolo II delle molte innovazioni. Per non parlare infine della 'rivoluzione' forse più storicamente sorprendente di tutte: la rinuncia di Benedetto XVI. L’enciclica dei gesti, invece, viene 'composta' in base a una

diversa ispirazione e chiede perciò di essere letta in un altro modo. Tutto nasce, infatti, dal realismo dell’esperienza pastorale e dalla capacità di ascoltare il mondo contemporaneo, ponendosi accanto agli uomini e alle donne del nostro tempo con lo stile del Viandante di Emmaus. In questo senso l’«enciclica dei gesti» è magistero in 3D che raggiunge in tempo reale anche chi un’enciclica vera non l’ha mai letta. Quei gesti inoltre sfuggono allo schematismo di chi ha sempre distinto tra magistero per così dire 'normale' (fatto cioè di discorsi e documenti) e la 'gustosa' eccezione dei

comportamenti fuori protocollo. Con Francesco invece un gesto può valere più di un discorso. E in tal modo il magistero esce dai confini della carta per diventare carne e

concretezza sotto i nostri occhi. 'FRATELLI E SORELLE, BUONASERA' - IL MODO DI PRESENTARSI - L’«enciclica dei gesti» trova il suo incipit in quel «Fratelli e sorelle, buonasera», pronunciato al suo primo affacciarsi da Papa. Il 13 marzo 2013 egli si presenta semplicemente con la veste bianca, senza la mozzetta rossa e la stola dei

suoi predecessori. Una differenza che colpisce. Così come non può passare inosservata la sua richiesta al popolo di una preghiera perché il Signore benedica il nuovo vescovo di Roma, «prima ancora che il vescovo benedica il popolo». È l’annuncio di uno stile diverso, più libero e colloquiale, che non si limiterà a quel momento, ma continuerà ad esempio nell’augurio di «buon pranzo» con cui Bergoglio conclude i suoi Angelus domenicali e in tanti altri atteggiamenti. Un Papa per la gente e tra la gente, come

quando - nella prima domenica da Pontefice - varca il cancello di Sant’Anna e si consegna all’abbraccio dei fedeli. RESIDENZA A SANTA MARTA - LA QUOTIDIANITÀ

NORMALIZZATA - La sera stessa dell’elezione viene diffusa la foto del Papa che torna dal Palazzo Apostolico a Casa Santa Marta in pulmino insieme agli altri cardinali. La

novità è tale che qualcuno pensa a un fotomontaggio. Ma è tutto vero. Come è vero (e nuovo) che al momento di prendere l’ascensore Francesco invita alcuni porporati a entrare con lui, che nei giorni seguenti si reca alla Casa del clero di via della Scrofa (dove ha alloggiato prima del conclave) per pagare il conto e che stabilisce la sua residenza a Santa Marta, rinunciando anche a Castel Gandolfo. Successivamente

stupiranno la scelta di spostarsi dentro Roma con una semplice Ford Focus o (all’estero) con utilitarie, di portarsi la borsa da sé nei viaggi e di andare a comprarsi

le lenti in un’ottica di via del Babuino. Sono gesti che parlano di una quotidianità papale 'desacralizzata'. Francesco resta a contatto con il mondo. E questo ne aumenta l’autorevolezza. PARLARE PER IMMAGINI - LA LINGUA CREATIVA DI BERGOGLIO - Il Papa

parla per immagini. La Chiesa ospedale da campo, la Chiesa in uscita, i cristiani da pasticceria, la corruzione spuzza, la misericordina, mafiarsi, il clericalismo è un tango che si balla in due, l’ecumenismo del sangue, sono solo alcune delle sue espressioni più citate, spesso tratte dal vernacolo di Buenos Aires. Si potrebbe eccepire che le

parole non sono gesti. Ma il gesto in questo caso consiste nel rifiuto dell’ecclesialese, in favore della lingua di tutti i giorni appresa nell’azione pastorale. Vino nuovo in otri

nuovi anche dal punto di vista del vocabolario. O se si vuole, pastore con l’odore della pecore, anche in campo linguistico. LAMPEDUSA, LESBO E IL MURO - DALLA PARTE

DEGLI ULTIMI - «Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri». Il manifesto programmatico del Pontificato, enunciato nel primo incontro con i giornalisti, riceve

dalla «enciclica dei gesti» la sua puntuale attuazione. Francesco è presente su tutte le frontiere della carità: migranti (le visite a Lampedusa e a Lesbo, la Messa al confine tra Usa e Messico, la sosta al Muro dei Territori palestinesi), senza tetto (il servizio

docce e il barbiere in piazza san Pietro, un dormitorio poco lontano, la Sistina aperta anche a loro, un pomeriggio al circo), tossicodipendenti e anziani (i gesti di

misericordia una volta al mese nell’Anno Santo), carceri. Ma è nella liturgia della lavanda dei piedi del Giovedì Santo che papa Bergoglio raggiunge il culmine di questa

attenzione. Fin dal primo anno esce dalla Basilica vaticana per ripetere in alcuni luoghi simbolo (un carcere minorile, un istituto per disabili, il Cara di Castelnuovo di

Porto) il gesto di Gesù. Il Papa vede nei poveri la carne di Cristo e con questa identificazione dà la migliore dimostrazione che la Chiesa non è semplicemente una

Ong. UN SELFIE CON FRANCESCO - IL PRIMO PAPA «SOCIAL» - Se Benedetto XVI è stato il primo Pontefice ad avere un account Twitter, Francesco ha confermato questa

presenza, allargandola recentemente anche a Instagram. Sul primo dei due social ha raggiunto quasi 30 milioni di followers e ha più retweet di Obama. Il Papa sceglie personalmente le frasi da postare, mentre su Instagram vengono rilanciate foto e

pensieri pensate come prolungamento della sua attività. Emblematico è a tal proposito il chirografo diffuso proprio per la Giornata delle Comunicazioni sociali. Un gesto di

grande attenzione al mondo del web, di cui Brgoglio dimostra di conoscere il linguaggio e le peculiarità. Come quando ad esempio non disdegna di posare per un selfie con i giovani. Il primo Papa social della storia esprime così la Chiesa in uscita

persino verso quello che alcuni chiamano «il sesto continente». IL MATE DALLA COPPA - BEATI I GIOVANI - Lo scorso 23 aprile hanno fatto il giro del mondo le immagini del

Papa che, seduto su una semplice sedia, confessava alcuni ragazzi in piazza San Pietro. Già altre volte Francesco era entrato in confessionale nella Basilica Vaticana,

dopo essersi lui stesso confessato come un semplice fedele. Ma quell’episodio si inserisce nel particolare capitolo dell’«enciclica dei gesti» che è il rapporto con i

giovani. Francesco, la Gmg l’ha ereditata da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI. Ma come si è visto a Rio de Janeiro subito l’ha interpretata a modo suo. Gioia e

preghiera, oggetti raccolti al volo a Copacabana e percorso delle beatitudini, il mate bevuto dalla coppa offertagli da un passante e celebrazione dei sacramenti. Così Bergoglio traduce per i giovani la Evangelii gaudium, ricordando loro che la vera

felicità «non è un’app che si scarica sul telefonino» e che vivere senza Gesù è come se per un cellulare non ci fosse campo. PRONTO, SONO FRANCESCO - C’È IL PAPA IN LINEA - 'Pronto, sono Papa Francesco'. Le telefonate 'private' del Papa sono ormai

diventate famose. Così come le interviste e alcune sue lettere agli amici o a personaggi del giornalismo, della cultura e persino della politica. Per non parlare poi

delle conferenze stampa in aereo, durante le quali egli risponde 'senza rete' alle domande. Destinatari privilegiati di questa parte dell’«enciclica dei gesti» sono i più lontani. E valga per tutti la battuta di Raoul Castro, dopo l’incontro in Vaticano che precedette la visita a Cuba: «Se continua così, potrei anche tornare ad andare a

Messa». Ma non è questione di proselitismo. La chiave interpretativa vera l’ha data proprio il Papa in un tweet di qualche giorno fa: «Ciò che diciamo e come lo diciamo, ogni parola e ogni gesto dovrebbe poter esprimere la compassione, la tenerezza e il perdono di Dio». L’«enciclica dei gesti» parla della misericordia. Così viene scritta. E

così va letta”.

Quattro nuovi sacerdoti per la Chiesa di Venezia: sono don Alessio Sottana, don Davide Rioda, don Federico Bertotto e don Massimiliano Causin. Il Patriarca

Francesco Moraglia imporrà loro le mani durante il rito di ordinazione che avverrà all’interno della Messa solenne in programma la mattina di sabato 18 giugno, alle ore 10.00, nella basilica cattedrale di S. Marco a Venezia. Don Alessio Sottana è il

più “anziano” con i suoi 40 anni e arriva dalla parrocchia mestrina di S. Maria Goretti; è laureato in informatica e, prima di entrare in Seminario, produceva

software per computer e poi… “mi sono re-innamorato di Dio”. Don Davide Rioda è, invece, il più “giovane” con i suoi 27 anni; diplomato al liceo classico, giunge dalla

parrocchia mestrina di S. Giovanni Evangelista ed in particolare dal Cammino neocatecumenale che è stato decisivo per la sua vocazione. Don Federico Bertotto ha 32 anni ed è originario anch’egli di Mestre, della parrocchia di S. Marco Evangelista;

laureato in Giurisprudenza a Padova, ha definitivamente maturato negli anni dell’Università la decisione di entrare in Seminario. Don Massimiliano Causin ha 28 anni ed arriva da Quarto d’Altino, parrocchia S. Michele Arcangelo; ha studiato al

Turistico e conosce bene le lingue straniere. Fondamentali per la sua vocazione sono state tre figure di sacerdoti via via incontrati. I quattro sacerdoti novelli

presiederanno poi, nella giornata di domenica 19 giugno, le loro “prime messe” nelle rispettive parrocchie d’origine: don Alessio alle ore 11.00 nella chiesa parrocchiale dei Ss. Gregorio Barbarigo e Maria Goretti di Mestre; don Davide alle ore 10.00 nella chiesa parrocchiale di S. Giovanni Evangelista di Mestre; don Federico alle ore 10.00 nella chiesa parrocchiale di S. Marco Evangelista di Mestre; don Massimiliano Causin alle ore 10.30 nella chiesa parrocchiale di S. Michele Arcangelo di Quarto d’Altino.

Tutti e quattro erano stati ordinati diaconi dal Patriarca Moraglia nell’ottobre 2015 e poi, a gruppi di due, hanno completato la loro formazione al sacerdozio

trascorrendo un paio di mesi nella missione diocesana di Ol Moran in Kenya. Nell’intervista rilasciata al settimanale diocesano Gente Veneta hanno ricordato così il loro periodo vissuto nella parrocchia africana: «Abbiamo potuto vedere, e

capire, come la Chiesa svolga quotidianamente, in quei luoghi, un ruolo essenziale per la vita della gente. Sono stati mesi intensi ed emozionanti. E tanto ricche sono state le esperienze che abbiamo vissuto. Inutile nasconderlo: sono stati anche mesi difficili e faticosi, un’occasione che ci ha messo in discussione, ma oggi possiamo

dire che ne è valsa la pena».

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Da mendicanti a discepoli All’udienza generale il Papa parla della guarigione del cieco di Gerico. E chiede di vincere la tentazione del fastidio di fronte a profughi e rifugiasti AVVENIRE Pag 3 Francesco, l’enciclica dei gesti. Un magistero in 3 dimensioni di Mimmo Muolo Lo “stile” che contraddistingue questo Papa LA REPUBBLICA Pag 35 Il Concilio panortodosso e il sale della Chiesa di Alberto Melloni 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Se la tigre è il padre di Elvira Serra Quando i genitori incitano (troppo) i figli CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Femminicidi, politica assente di Gabriella Imperatori I fatti, le colpe Pag 2 Più credito alle famiglie e meno alle imprese di Angela Pederiva Dossier-Bankitalia, prestiti selettivi nonostante la ripresa

IL GAZZETTINO Pag 1 E ora la svolta della meritocrazia nel pubblico impiego di Oscar Giannino 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 13 Accolto il ricorso: Chisso non doveva restare in prigione di Maurizio Dianese e Gianluca Amadori Scandalo Mose: da oggi in aula sfilano i testimoni-chiave IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag II Crociere e case per turisti, la rivoluzione di Brugnaro di Michele Fullin Grattacieli e grandi viali per unire Mestre e Marghera. E il Quadrante è da rivedere CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Il Mose sprofonda, perizia del Consorzio di Alberto Zorzi I cassoni abbassano il fondale alle bocche di porto fino a 3 centimetri l’anno. Assestamento? O rischio? Pagg 8 – 9 Brugnaro ferma i nuovi hotel e vuole i grattacieli a Mestre di Gloria Bertasi e Monica Zicchiero Presentato il Documento del sindaco, dalle Tresse ai nuovi hub. Critica l’opposizione: libro dei sogni. Un anno da sindaco, i voti delle categorie: “Edilizia e commercio, manca una strategia”. Ok solo sulla sicurezza LA NUOVA Pagg 2 – 3 Prostituzione. Stangata sui clienti, 40 multe in un mese di Carlo Mion Sulle strade mestrine presenti 60 lucciole, quasi tutte straniere 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 24 di Gente Veneta in uscita venerdì 17 giugno 2016: Pagg 1, 4 - 5 Apre la casa per i nuovi fragili di Giorgio Malavasi Sabato 18 alle 16.30, nei pressi del Terraglio, inaugurazione del “Don Vecchi” 6 della Fondazione Carpinetum. Per genitori separati, familiari di ammalati e disabili Pag 1 Il welfare pubblico impari dall’Islanda e dalla Chiesa di Giorgio Malavasi Pag 3 Il Patriarca: opere di misericordia per una fede viva di Serena Spinazzi Lucchesi Domenica i gruppi di Rinnovamento nello Spirito delle tre regioni nel Nordest hanno vissuto una giornata giubilare, dedicata alle opere di misericordia. Nell’omelia, mons. Francesco Moraglia ha ricordato come tali opere «obbediscono al realismo della fede che entra nella storia ed è in dialogo con le ferite degli uomini e delle donne del nostro tempo» Pag 6 Caritas e Porto, ponte umanitario verso la Grecia Fino a fine mese si raccolgono beni di prima necessità da inviare ai campi profughi di Atene e dintorni: coordina la Caritas mentre il Porto ha coinvolto una serie di soggetti per inviare il tutto tramite traghetto, tratta Venezia-Patrasso, l’11 luglio Pag 9 Sono 415 (in crescita) i giovani veneziani alla Gmg di Giorgio Malavasi Iscritti in aumento rispetto all’ultima edizione europea, a Madrid nel 2011. E ci sono ancora alcuni giorni, fino al 25 giugno, per le ultime iscrizioni. Don Pierpaolo Dal Corso: «La Gmg non è una cosa da vedere: in tivù è meglio. E’ da vivere, per capire, dal clima che si respira, che è un incontro con Cristo»

Pag 11 Don Giorgio Bagagiolo, da 70 anni prete di frontiera di Giorgio Malavasi Ordinato il 23 giugno 1946 dal patriarca Piazza, è stato parroco a San Giuseppe di Castello conquistandosi la stima della gente in una stagione di anticlericalismo. Poi a San Trovaso, nel momento più caldo del travaglio postconciliare. E’ stato anche fondatore della mensa Betania Pagg 12 – 13, 19 Grest, la carica dei 6000 di Francesca Catalano, Lorenzo Mayer e Riccardo Coppo Al Lido il Grest fa il bis e triplica le settimane: circa 50 le persone coinvolte, tra giovani animatori e adulti coinvolti nei vari servizi. Grande festa finale sabato 2 luglio. Iniziati i due Grest di Dorsoduro, San Polo e Santa Croce nel segno della collaborazione tra comunità: patronati, piscina e voga per 200 bambini. A Caorle l’estate si accende con la parrocchia Pag 18 L’abbraccio di Jesolo al suo antico Crocifisso di Pierpaolo Biral Venerdì scorso grande festa per il ritorno della tavola risalente al XIV secolo nella località d’origine: vi rimarrà fino al 16 ottobre. Il Patriarca e il sindaco Zoggia alla serata inaugurale: la tavola era custodita alle Gallerie dell’Accademia ma se ne erano perse le tracce. Grazie agli studi di Giuseppe Artesi e all’associazione Mons. Marcato il Crocifisso è ritornato … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 I rischi che corre l’Europa di Angelo Panebianco Da Londra a Trump Pag 3 La settimana di passione dell’Europa di Federico Fubini Pag 6 Una minoranza tiene in scacco tutto il Paese di Jean-Marie Colombani Dietro violenze e anarchie LA STAMPA Centrosinistra e sindrome dello scorpione di Marcello Sorgi AVVENIRE Pag 1 Ridateci Cattani di Marco Tarquinio “Gomorra” e la realtà antimafia Pag 2 Giovani migranti, patrimonio da difendere di Sandro Lagomarsini Negare lo status di rifugiati, un errore che va evitato IL FOGLIO Pag III Diario dalla persecuzione di Matteo Matzuzzi La fuga da Mosul la salvezza in Kurdistan. Tra i profughi iracheni di Erbil il racconto di mons. Cavina, vescovo embedded: “Il mondo non conosce questo martirio” LA NUOVA Pag 1 Elezioni guidate dalle paure di Fabio Bordignon

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Da mendicanti a discepoli

All’udienza generale il Papa parla della guarigione del cieco di Gerico. E chiede di vincere la tentazione del fastidio di fronte a profughi e rifugiasti «Da mendicanti a discepoli»: è questo il «passo» che i cristiani sono chiamati a compiere sull’esempio del cieco di Gerico, il quale una volta guarito «si incammina dietro al Signore entrando a far parte della sua comunità». Nel ricordare l’episodio evangelico narrato da Luca, il Papa ha invitato i fedeli riuniti in piazza San Pietro per l’udienza generale di mercoledì 15 giugno a evitare in particolare la tentazione del «fastidio» di fronte a bisognosi, ammalati, profughi e rifugiati. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Un giorno Gesù, avvicinandosi alla città di Gerico, compì il miracolo di ridare la vista a un cieco che mendicava lungo la strada (cfr. Lc 18, 35-43). Oggi vogliamo cogliere il significato di questo segno perché tocca anche noi direttamente. L’evangelista Luca dice che quel cieco era seduto sul bordo della strada a mendicare (cfr. v. 35). Un cieco a quei tempi - ma anche fino a non molto tempo fa - non poteva che vivere di elemosina. La figura di questo cieco rappresenta tante persone che, anche oggi, si trovano emarginate a causa di uno svantaggio fisico o di altro genere. È separato dalla folla, sta lì seduto mentre la gente passa indaffarata, assorta nei propri pensieri e in tante cose... E la strada, che può essere un luogo di incontro, per lui invece è il luogo della solitudine. Tanta folla che passa... E lui è solo. È triste l’immagine di un emarginato, soprattutto sullo sfondo della città di Gerico, la splendida e rigogliosa oasi nel deserto. Sappiamo che proprio a Gerico giunse il popolo di Israele al termine del lungo esodo dall’Egitto: quella città rappresenta la porta d’ingresso nella terra promessa. Ricordiamo le parole che Mosè pronuncia in quella circostanza: «Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso in una delle tue città nella terra che il Signore, tuo Dio, ti dà, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso. Poiché i bisognosi non mancheranno mai nella terra, allora io ti do questo comando e ti dico: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nella tua terra» (Dt 15, 7.11). È stridente il contrasto tra questa raccomandazione della Legge di Dio e la situazione descritta dal Vangelo: mentre il cieco grida invocando Gesù, la gente lo rimprovera per farlo tacere, come se non avesse diritto di parlare. Non hanno compassione di lui, anzi, provano fastidio per le sue grida. Quante volte noi, quando vediamo tanta gente nella strada - gente bisognosa, ammalata, che non ha da mangiare - sentiamo fastidio. Quante volte, quando ci troviamo davanti a tanti profughi e rifugiati, sentiamo fastidio. È una tentazione che tutti noi abbiamo. Tutti, anch’io! È per questo che la Parola di Dio ci ammonisce ricordandoci che l’indifferenza e l’ostilità rendono ciechi e sordi, impediscono di vedere i fratelli e non permettono di riconoscere in essi il Signore. Indifferenza e ostilità. E a volte questa indifferenza e ostilità diventano anche aggressione e insulto: “ma cacciateli via tutti questi!”, “metteteli in un’altra parte!”. Quest’aggressione è quello che faceva la gente quando il cieco gridava: “ma tu vai via, dai, non parlare, non gridare”. Notiamo un particolare interessante. L’Evangelista dice che qualcuno della folla spiegò al cieco il motivo di tutta quella gente dicendo: «Passa Gesù, il Nazareno!» (v. 37). Il passaggio di Gesù è indicato con lo stesso verbo con cui nel libro dell’Esodo si parla del passaggio dell’angelo sterminatore che salva gli Israeliti in terra d’Egitto (cfr. Es 12, 23). È il “passaggio” della pasqua, l’inizio della liberazione: quando passa Gesù, sempre c’è liberazione, sempre c’è salvezza! Al cieco, quindi, è come se venisse annunciata la sua pasqua. Senza lasciarsi intimorire, il cieco grida più volte verso Gesù riconoscendolo come il Figlio di Davide, il Messia atteso che, secondo il profeta Isaia, avrebbe aperto gli occhi ai ciechi (cfr. Is 35, 5). A differenza della folla, questo cieco vede con gli occhi della fede. Grazie ad essa la sua supplica ha una potente efficacia. Infatti, all’udirlo, «Gesù si fermò e ordinò che lo conducessero da lui» (v. 40). Così facendo Gesù toglie il cieco dal margine della strada e lo pone al centro dell’attenzione dei suoi discepoli e della folla. Pensiamo anche noi, quando siamo stati in situazioni brutte, anche situazioni di peccato, com’è stato proprio Gesù a prenderci per mano e a toglierci dal margine della strada e donarci la salvezza. Si realizza così un duplice passaggio. Primo: la gente aveva annunciato una buona novella al cieco, ma non voleva avere niente a che fare con lui; ora Gesù obbliga tutti a prendere coscienza che il buon annuncio implica porre al centro della propria strada colui che ne era escluso. Secondo: a sua volta, il cieco non vedeva,

ma la sua fede gli apre la via della salvezza, ed egli si ritrova in mezzo a quanti sono scesi in strada per vedere Gesù. Fratelli e sorelle, il passaggio del Signore è un incontro di misericordia che tutti unisce intorno a Lui per permettere di riconoscere chi ha bisogno di aiuto e di consolazione. Anche nella nostra vita Gesù passa; e quando passa Gesù, e io me ne accorgo, è un invito ad avvicinarmi a Lui, a essere più buono, a essere un cristiano migliore, a seguire Gesù. Gesù si rivolge al cieco e gli domanda: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (v. 41). Queste parole di Gesù sono impressionanti: il Figlio di Dio ora sta di fronte al cieco come un umile servo. Lui, Gesù, Dio, dice: “Ma cosa vuoi che io ti faccia? Come tu vuoi che io ti serva?” Dio si fa servo dell’uomo peccatore. E il cieco risponde a Gesù non più chiamandolo “Figlio di Davide”, ma “Signore”, il titolo che la Chiesa fin dagli inizi applica a Gesù Risorto. Il cieco chiede di poter vedere di nuovo e il suo desiderio viene esaudito: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato» (v. 42). Egli ha mostrato la sua fede invocando Gesù e volendo assolutamente incontrarlo, e questo gli ha portato in dono la salvezza. Grazie alla fede ora può vedere e, soprattutto, si sente amato da Gesù. Per questo il racconto termina riferendo che il cieco «cominciò a seguirlo glorificando Dio» (v. 43): si fa discepolo. Da mendicante a discepolo, anche questa è la nostra strada: tutti noi siamo mendicanti, tutti. Abbiamo bisogno sempre di salvezza. E tutti noi, tutti i giorni, dobbiamo fare questo passo: da mendicanti a discepoli. E così, il cieco si incammina dietro al Signore entrando a far parte della sua comunità. Colui che volevano far tacere, adesso testimonia ad alta voce il suo incontro con Gesù di Nazaret, e «tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio» (v. 43). Avviene un secondo miracolo: ciò che è accaduto al cieco fa sì che anche la gente finalmente veda. La stessa luce illumina tutti accomunandoli nella preghiera di lode. Così Gesù effonde la sua misericordia su tutti coloro che incontra: li chiama, li fa venire a sé, li raduna, li guarisce e li illumina, creando un nuovo popolo che celebra le meraviglie del suo amore misericordioso. Lasciamoci anche noi chiamare da Gesù, e lasciamoci guarire da Gesù, perdonare da Gesù, e andiamo dietro Gesù lodando Dio. Così sia! AVVENIRE Pag 3 Francesco, l’enciclica dei gesti. Un magistero in 3 dimensioni di Mimmo Muolo Lo “stile” che contraddistingue questo Papa In un recente incontro su «Comunicazione e misericordia», organizzato dalla Facoltà Auxilium e dall’Ufficio Comunicazioni sociali della Cei, suor Maria Antonia Chinello ha affermato che papa Francesco sta scrivendo con il suo pontificato una «enciclica dei gesti». Formula estremamente suggestiva, che tra l’altro ha il pregio di sgombrare il campo da due errate interpretazioni di quei gesti. L’enciclica è infatti la forma più alta del magistero pontificio. Dire dunque che papa Bergoglio sta componendo con i suoi gesti una «enciclica» equivale a considerarli per quello che in realtà sono, veri atti magisteriali, sottraendoli in tal modo sia alla categoria interpretativa della semplice 'simpatia umana', sia a quella non meno inadeguata della 'rivoluzione'. Francesco non compie i suoi gesti spesso sorprendenti solo perché vuole accattivare con la simpatia, né tanto meno perché è un 'rivoluzionario'. Del resto, quest’ultima categoria non sarebbe poi neanche tanto nuova. A loro modo 'rivoluzionari' sono stati il Giovanni XXIII inventore del Concilio Vaticano II, il Paolo VI dei viaggi e della rinuncia a certi simboli del potere papale (la sedia gestatoria, la tiara), il Giovanni Paolo I del sorriso paterno e tanto più il Giovanni Paolo II delle molte innovazioni. Per non parlare infine della 'rivoluzione' forse più storicamente sorprendente di tutte: la rinuncia di Benedetto XVI. L’enciclica dei gesti, invece, viene 'composta' in base a una diversa ispirazione e chiede perciò di essere letta in un altro modo. Tutto nasce, infatti, dal realismo dell’esperienza pastorale e dalla capacità di ascoltare il mondo contemporaneo, ponendosi accanto agli uomini e alle donne del nostro tempo con lo stile del Viandante di Emmaus. In questo senso l’«enciclica dei gesti» è magistero in 3D che raggiunge in tempo reale anche chi un’enciclica vera non l’ha mai letta. Quei gesti inoltre sfuggono allo schematismo di chi ha sempre distinto tra magistero per così dire 'normale' (fatto cioè di discorsi e documenti) e la 'gustosa' eccezione dei comportamenti fuori protocollo. Con Francesco invece un gesto può valere più di un discorso. E in tal modo il magistero esce dai confini della carta per diventare carne e concretezza sotto i nostri occhi.

'FRATELLI E SORELLE, BUONASERA' - IL MODO DI PRESENTARSI - L’«enciclica dei gesti» trova il suo incipit in quel «Fratelli e sorelle, buonasera», pronunciato al suo primo affacciarsi da Papa. Il 13 marzo 2013 egli si presenta semplicemente con la veste bianca, senza la mozzetta rossa e la stola dei suoi predecessori. Una differenza che colpisce. Così come non può passare inosservata la sua richiesta al popolo di una preghiera perché il Signore benedica il nuovo vescovo di Roma, «prima ancora che il vescovo benedica il popolo». È l’annuncio di uno stile diverso, più libero e colloquiale, che non si limiterà a quel momento, ma continuerà ad esempio nell’augurio di «buon pranzo» con cui Bergoglio conclude i suoi Angelus domenicali e in tanti altri atteggiamenti. Un Papa per la gente e tra la gente, come quando - nella prima domenica da Pontefice - varca il cancello di Sant’Anna e si consegna all’abbraccio dei fedeli. RESIDENZA A SANTA MARTA - LA QUOTIDIANITÀ NORMALIZZATA - La sera stessa dell’elezione viene diffusa la foto del Papa che torna dal Palazzo Apostolico a Casa Santa Marta in pulmino insieme agli altri cardinali. La novità è tale che qualcuno pensa a un fotomontaggio. Ma è tutto vero. Come è vero (e nuovo) che al momento di prendere l’ascensore Francesco invita alcuni porporati a entrare con lui, che nei giorni seguenti si reca alla Casa del clero di via della Scrofa (dove ha alloggiato prima del conclave) per pagare il conto e che stabilisce la sua residenza a Santa Marta, rinunciando anche a Castel Gandolfo. Successivamente stupiranno la scelta di spostarsi dentro Roma con una semplice Ford Focus o (all’estero) con utilitarie, di portarsi la borsa da sé nei viaggi e di andare a comprarsi le lenti in un’ottica di via del Babuino. Sono gesti che parlano di una quotidianità papale 'desacralizzata'. Francesco resta a contatto con il mondo. E questo ne aumenta l’autorevolezza. PARLARE PER IMMAGINI - LA LINGUA CREATIVA DI BERGOGLIO - Il Papa parla per immagini. La Chiesa ospedale da campo, la Chiesa in uscita, i cristiani da pasticceria, la corruzione spuzza, la misericordina, mafiarsi, il clericalismo è un tango che si balla in due, l’ecumenismo del sangue, sono solo alcune delle sue espressioni più citate, spesso tratte dal vernacolo di Buenos Aires. Si potrebbe eccepire che le parole non sono gesti. Ma il gesto in questo caso consiste nel rifiuto dell’ecclesialese, in favore della lingua di tutti i giorni appresa nell’azione pastorale. Vino nuovo in otri nuovi anche dal punto di vista del vocabolario. O se si vuole, pastore con l’odore della pecore, anche in campo linguistico. LAMPEDUSA, LESBO E IL MURO - DALLA PARTE DEGLI ULTIMI - «Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri». Il manifesto programmatico del Pontificato, enunciato nel primo incontro con i giornalisti, riceve dalla «enciclica dei gesti» la sua puntuale attuazione. Francesco è presente su tutte le frontiere della carità: migranti (le visite a Lampedusa e a Lesbo, la Messa al confine tra Usa e Messico, la sosta al Muro dei Territori palestinesi), senza tetto (il servizio docce e il barbiere in piazza san Pietro, un dormitorio poco lontano, la Sistina aperta anche a loro, un pomeriggio al circo), tossicodipendenti e anziani (i gesti di misericordia una volta al mese nell’Anno Santo), carceri. Ma è nella liturgia della lavanda dei piedi del Giovedì Santo che papa Bergoglio raggiunge il culmine di questa attenzione. Fin dal primo anno esce dalla Basilica vaticana per ripetere in alcuni luoghi simbolo (un carcere minorile, un istituto per disabili, il Cara di Castelnuovo di Porto) il gesto di Gesù. Il Papa vede nei poveri la carne di Cristo e con questa identificazione dà la migliore dimostrazione che la Chiesa non è semplicemente una Ong. UN SELFIE CON FRANCESCO - IL PRIMO PAPA «SOCIAL» - Se Benedetto XVI è stato il primo Pontefice ad avere un account Twitter, Francesco ha confermato questa presenza, allargandola recentemente anche a Instagram. Sul primo dei due social ha raggiunto quasi 30 milioni di followers e ha più retweet di Obama. Il Papa sceglie personalmente le frasi da postare, mentre su Instagram vengono rilanciate foto e pensieri pensate come prolungamento della sua attività. Emblematico è a tal proposito il chirografo diffuso proprio per la Giornata delle Comunicazioni sociali. Un gesto di grande attenzione al mondo del web, di cui Brgoglio dimostra di conoscere il linguaggio e le peculiarità. Come quando ad esempio non disdegna di posare per un selfie con i giovani. Il primo Papa social della storia esprime così la Chiesa in uscita persino verso quello che alcuni chiamano «il sesto continente». IL MATE DALLA COPPA - BEATI I GIOVANI - Lo scorso 23 aprile hanno fatto il giro del mondo le immagini del Papa che, seduto su una semplice sedia, confessava alcuni

ragazzi in piazza San Pietro. Già altre volte Francesco era entrato in confessionale nella Basilica Vaticana, dopo essersi lui stesso confessato come un semplice fedele. Ma quell’episodio si inserisce nel particolare capitolo dell’«enciclica dei gesti» che è il rapporto con i giovani. Francesco, la Gmg l’ha ereditata da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI. Ma come si è visto a Rio de Janeiro subito l’ha interpretata a modo suo. Gioia e preghiera, oggetti raccolti al volo a Copacabana e percorso delle beatitudini, il mate bevuto dalla coppa offertagli da un passante e celebrazione dei sacramenti. Così Bergoglio traduce per i giovani la Evangelii gaudium, ricordando loro che la vera felicità «non è un’app che si scarica sul telefonino» e che vivere senza Gesù è come se per un cellulare non ci fosse campo. PRONTO, SONO FRANCESCO - C’È IL PAPA IN LINEA - 'Pronto, sono Papa Francesco'. Le telefonate 'private' del Papa sono ormai diventate famose. Così come le interviste e alcune sue lettere agli amici o a personaggi del giornalismo, della cultura e persino della politica. Per non parlare poi delle conferenze stampa in aereo, durante le quali egli risponde 'senza rete' alle domande. Destinatari privilegiati di questa parte dell’«enciclica dei gesti» sono i più lontani. E valga per tutti la battuta di Raoul Castro, dopo l’incontro in Vaticano che precedette la visita a Cuba: «Se continua così, potrei anche tornare ad andare a Messa». Ma non è questione di proselitismo. La chiave interpretativa vera l’ha data proprio il Papa in un tweet di qualche giorno fa: «Ciò che diciamo e come lo diciamo, ogni parola e ogni gesto dovrebbe poter esprimere la compassione, la tenerezza e il perdono di Dio». L’«enciclica dei gesti» parla della misericordia. Così viene scritta. E così va letta. LA REPUBBLICA Pag 35 Il Concilio panortodosso e il sale della Chiesa di Alberto Melloni Siamo alla vigilia della domenica in cui i cristiani ortodossi festeggiano la Pentecoste. Festa che anche in Occidente dovrebbe essere preceduta da una "messa di mezzanotte", come quella di Natale e di Pasqua, ma che pochissime comunità celebrano, convinte dalla propria tiepidezza che vegliare in attesa dello Spirito sia semplicemente improponibile. Questa Pentecoste è la data d'inizio del concilio panortodosso. Il primo dopo 12 secoli, preparato dal 1961, quando un papa, san Giovanni del Concilio, sognava che il suo Vaticano II sarebbe stata un nuova Pentecoste, come fu. A più riprese, e ancora in gennaio a Chambesy, la "Sinassi dei Patriarchi" - l'organo che aduna i capi delle quattordici chiese della ortodossia - aveva confermato la data e trasferito la sede del concilio da Costantinopoli a Creta, per evitare che la crisi fra Putin ed Erdogan impedisse la venuta dei russi. Sempre la Sinassi aveva deciso di sottoporre al concilio cinque documenti, ora disponibili sul sito del concilio: quattro firmati da tutti i patriarchi; l'ultimo, sul matrimonio, con un voto contro. Eppure nonostante quella firma solenne, s'è aperta una crisi drammatica fra le chiese ortodosse su se/come/cosa sottoporre al concilio di Creta. Tre chiese su quattordici (Bulgaria, Antiochia, Georgia) hanno chiesto negli ultimi giorni di rinviare il concilio e ridiscutere i documenti preparatori. Una questione tipica di tutte le vigilie conciliari, in tutte le chiese: chi ha temuto che un concilio breve (16-26 giugno) si sarebbe limitato ad approvare senza modifiche quei cinque testi ha chiesto tempo, per garantirsi che nelle pieghe dei documenti emergessero i segni di un antagonismo "antioccidentale" che alcuni ambienti giudicano irrinunciabile. La Serbia ha ridiscusso la cosa, ma s'è schierata per il concilio. Invece lunedì scorso, il sinodo della chiesa russa ha deciso che, in assenza di tre chiese, nemmeno la Russia sarebbe andata a Creta. Non una adesione tout court al "rinvio", ma una posizione più sfumata: non esclude del tutto ripensamenti dell'ultimo minuto (nel 1962 Mosca mandò i propri osservatori al Vaticano II sul filo di lana) e mediazioni tipiche della fisiologia istituzionale dei concili, ma apre una crisi. Il rischio del fallimento del concilio, dunque, è reale. Ma non ha origini politiche e conseguenze teologiche: se mai viceversa. Il concilio - il padre di tutti i parlamenti - ha infatti una sua fisionomia politica. Ma ciò che decide di ogni concilio (e spesso dei parlamenti) è il modo in cui viene vissuto: un concilio che sappia pensarsi come evento di grazia, nel quale lo Spirito riunisce ciò che è diviso, suscita proprio per questo controspinte divisive, a cui si risponde teologicamente. Con la crisi di Creta la globalizzazione c'entra poco, la modernità niente: la questione è lo svelarsi di un deficit di fede, di cui la mondana

svogliatezza di tutte le chiese - chiesa cattolica inclusa - nel pregare per il concilio è stata la riprova. Questo deficit potrebbe portare ad un fallimento: e questo avrebbe conseguenze politiche. Le più gravi riguardano la Russia. Andrebbe perduto l'investimento fatto dal patriarca Kyril e da Putin sui rapporti con Roma, giacché il papa non può scegliersi i propri interlocutori: e Matteo Renzi, che sarà al Cremlino fra poche ore e che era sindaco quando la Russia prestò un'icona di Andrei Rublev all'Italia per celebrare l'edizione del concilio ecumenico Niceno II, potrebbe spendersi perché Putin consigli gli assenti ad imbarcarsi in ritardo per Creta. Per la Russia è in gioco anche altro. L'antica speranza dell'Ucraina di vedersi riconosciuta la "autocefalia" - cioè la costituzione in una chiesa autonoma nazionale rispetto al territorio canonico di Mosca - sarebbe oggettivamente incoraggiata dal frantumarsi della unità conciliare ottenuta nella Sinassi e getterebbe benzina sul fuoco della guerra che si combatte oltre lo Dnepr, che è anche una guerra di religione fra cristiani. Le altre chiese che al momento sono attestate sul fronte del rinvio-boicottaggio della convocazione conciliare, che pure avevano sottoscritto, non rischiano poco: assecondare o farsi assecondare da Mosca le grava di responsabilità che eccedono di molto il peso dei paesi con cui si identificano, anche in sede europea. Certo, l'Europa politica non s'è nemmeno accorta che per la prima volta un concilio veniva convocato sul suo territorio: ma una "Lady Pesc" come Federica Mogherini e il suo capo di gabinetto Stefano Manservisi, che è stato ambasciatore in Turchia, dovrebbero sapere quanto pesano l'ortodossia e i patriarcati nel quadrante balcanico, anatolico, medioorientale e interno. Il fiasco del concilio rafforzerebbe infatti le pulsioni nazional- autoritarie dei paesi "cattolici" dell' ex impero asburgico, aiuterebbe certamente Erdogan, e forse perfino lo Stato Islamico, che non è certo intimidito dalle intermittenti lamentele sulla persecuzione dei cristiani, ma solo dal rischio che la comunione fra cristiani dia un buon esempio all' islam sul modo di superare le guerre di religione fra musulmani da cui Is trae forza. Il fallimento del concilio, tuttavia, avrebbe risvolti seri anche a Roma. Papa Francesco ha posto la sinodalità e l'unità come centro della riforma della chiesa e del papato, nella logica tutta bergogliana della rivoluzione "a norme invariate" e a tempi indefiniti. Se il concilio panortodosso fallisse, sarebbe una vittoria per i molti nemici e per i finti sostenitori della sinodalità che è al cuore della ecclesiologia riformatrice e dell'ecumenismo di Francesco. Così il filo della matassa torna nelle mani di Bartholomeos, il patriarca ecumenico, arrivato a Creta ieri sera con il senso grave e la serenità di chi sa di essere - è non è la prima volta - davanti ad un momento supremo, a un "kairòs". Bartholomeos, ha già fatto sapere che il concilio "inizierà" oggi con la celebrazione della Pentecoste nella cattedrale di Heraklion, ha dalla sua un principio canonico intangibile che richiama il famoso "quod omnes tangit ab omnibus approbari debet" della chiesa latina. Quel che è deciso dalla Sinassi infatti non può essere cambiato senza una decisione della Sinassi, convocata per la mattina di domani a Kolymbari. Paradossalmente, dunque, la richiesta di rinvio rende ancor più necessario il concilio. Il concilio infatti potrebbe decidere conciliarmente, come procedere: se attendere gli assenti, con un gesto tipico di tutta la tradizione conciliare; se sospendere i lavori per qualche settimana o mese; se riconoscere, come fecero i vescovi cattolici al Vaticano II, che il materiale preparato a Chambesy va riformulato, perché quello scritto con l' inchiostro della paura appare ad alcuni troppo scuro e ad altri troppo chiaro. Ma il concilio potrebbe anche prendere atto del fallimento del suo carattere panortodosso. E riconsegnare ciascuno dei patriarcati ad una solitudine mondana, che li renderà meno liberi, meno in comunione e dunque, per definizione, meno cristiani. La decisione sul concilio insomma riguarderà tutti i cristiani e tutto il mondo. Nel mondo dove di globale c'è solo la divisione, le chiese possono assecondare lo spirito scismatico. Oppure lasciare che l' elica venga fatta soffiare in senso opposto dal Soffio che i discepoli sentono solo nel cuore del Silenzio più impalpabile. Quello che parlò a Elia sull'Oreb, quello che decide se le chiese nel mondo sono sale o sale insapore. 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Se la tigre è il padre di Elvira Serra Quando i genitori incitano (troppo) i figli

Suo figlio, lunedì sera, ha segnato il gol che ha chiuso la partita: 2-0 per l’Italia. Quando si sono sentiti, l’attaccante gli ha chiesto: «Contento, papà?». Risposta: «No, perché hai sbagliato un gol di testa. Io ti dico sempre che quando stai sul secondo palo non devi girare il collo». Roberto Pellè lo ha raccontato scherzando, ma non troppo, al telefono con Giorgio Lauro durante la puntata di martedì di Un giorno da pecora , su Radio 2. Geppi Cucciari, in diretta, non si è trattenuta: «Che palle questi padri perfezionisti!». Eppure quanto gli sono debitori i figli? Quanto conta, per esempio, nella carriera del centravanti del Southampton, essere stato chiamato Graziano in onore di Ciccio Graziani, campione del mondo nel 1982 con Bearzot? Quanto ha inciso, nella sua scelta a dieci anni di abbandonare il ballo latinoamericano che condivideva con la sorella Fabiana per dedicarsi soltanto al pallone, il fatto che il papà fosse stato un calciatore del Lecce in Serie C? E quanto contano, ancora oggi, i consigli non richiesti che si sente dare da questo rappresentante di caffè, nonno di quattro nipotine? Roberto Pellè, con noi, minimizza: «Cerco di stuzzicarlo in alcuni momenti per caricarlo. Per quel poco che ho giocato provo a dargli qualche suggerimento. Ma quando l’allievo supera il maestro bisogna arrendersi». Da una madre te lo aspetti. A parte quella interpretata da Anna Magnani per Luchino Visconti in Bellissima , ma era un film, una per tutte, vera verissima, è Amy Chua, professoressa di Legge a Yale, passata alla storia come la «mamma tigre». È lei che in questo terzo millennio ha rotto gli schemi, determinata sul serio a togliere cena, casa delle bambole e feste di compleanno alla piccola Lulu se non avesse imparato con il pianoforte l’impossibile Piccolo asino bianco di Jacques Ibert pur di farle scoprire quanto è bello poter imparare qualcosa che non considerava alla sua portata. Ma ci sono anche loro. Nel nome del padre o padre padrone, lo scarto è minimo. Basta una parola di troppo. Era certamente un padrone Mike Agassi, quando torturava Andre con la macchina spara palle nel giardino di casa. Nonostante tutto in Indoor , la replica letteraria all’ Open del figlio, lui non cerca assoluzioni, anzi: Andre avrebbe potuto vincere molto di più e giocare molto meglio. È stato certamente un padre Giorgio Cagnotto, quando ha saputo farsi (un po’) da parte e affidare la sua bambina a Oscar Bertone, con cui lei ha ricominciato a vincere. E hanno il marchio di fabbrica «Richard Williams» le coppe vinte da Venus e Serena, le sue campionesse. «Ci allenavamo mentre tutt’attorno fischiavano le pallottole delle gang rivali», avrebbero raccontato le due sorelle. «La verità è che non sapremo mai se Mozart sarebbe diventato Mozart senza un padre severo e austero come il suo», ragiona a voce alta Daniela Lucangeli, docente di Psicologia dello sviluppo e della socializzazione all’Università di Padova. Ma suggerisce di dare il giusto valore all’intonazione, al peso di un complimento o di un rimprovero, perché è l’emozione cui viene associato che condiziona il processo di autodeterminazione. «Soltanto Graziano Pellè può sapere se la risposta del padre al telefono sia stata uno scherzo tra di loro o no», aggiunge. «Per lui sarà determinante quello». Motivare i figli al successo va bene, purché non lo si consideri l’unica modalità per l’affermazione di sé. E conta il come. Per Malka Magalit, dell’Università di Tel Aviv, un incoraggiamento vale più di 89 rimproveri. «Purtroppo la maggioranza dei genitori ha l’atteggiamento di chi ha messo al mondo un grande campione quando non lo è. C’è un esercito di piccoli aspiranti al successo, in più ambiti, foraggiato da padri e madri che investono esageratamente su di loro», interviene Marco Dallari, ordinario di Pedagogia generale e sociale a Trento. Il corto circuito tra aspettative e proiezioni è pericoloso, la frustrazione è la sua naturale conseguenza. La psicologa dello sport Marisa Muzio non ha dubbi: «Siamo sicuri che un successo agonistico corrisponda alla felicità del ragazzo? Un genitore dovrebbe avere il coraggio di chiederselo. E di continuare a spronarlo e incoraggiarlo senza smettere di porsi questa domanda: mio figlio è contento?». CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Femminicidi, politica assente di Gabriella Imperatori I fatti, le colpe Negli anni Settanta le giovani donne, quando da «angeli del ciclostile», comode anche ai compagni per il lavoro oscuro e senza pretese, si sono avventurate nelle acque burrascose del femminismo, avevano adottato come divisa, nelle pubbliche manifestazioni, i gonnelloni a fiori, gli zoccoli e le chiome afro. Una specie di «totem», di simbolo identitario, scelto per distinguersi tanto dalle massaie succubi quanto dalle

signorine-bene in tailleur Chanel. Oggi la divisa-totem sono le scarpe rosse, coerenti con i drappi vermigli stesi dalla Boldrini alle finestre del suo studio a Montecitorio. Rossi come il sangue delle troppe donne uccise: per brama di possesso, per rabbia, invidia, gelosia patologica che nulla hanno a che fare con l’amore ma rivelano immaturità, incapacità di gestire la sofferenza, di superare un rifiuto, quando una donna si stanca di essere proprietà privata. E rivendica, spesso inconsapevolmente, quel rivoluzionario «Io sono mia» (non tua, né di alcun altro) che era stato uno dei più incisivi slogan di un passato non tanto remoto. Slogan che, per le più acculturate, rimandava alle lotte iniziate con la Rivoluzione francese, riprese nel prefascismo dalle intellettuali, messo in pratica da scrittrici come Sibilla Aleramo, che lasciò il marito e fu costretta a rinunciare al figlio per sottrarsi alla violenza del coniuge e vivere la vita a cui aspirava. E più tardi da Simone De Beauvoir, che teorizzò nel «Secondo sesso» e praticò nella vita privata il diritto della donna alla proprietà di sé stessa: molto prima delle lotte per i diritti civili che han portato, anche in Italia, a leggi non più liberticide, e che però non bastano. Una strada lunga e accidentata, non ancora del tutto percorsa se ciò che è stato ottenuto sulla carta, cioè un’emancipazione da ingiustizie e pregiudizi, troppe donne lo stanno pagando, con una violenza maschile che viene da lontano, che è forse insita nel dna e può essere corretta solo con l’educazione. Una violenza scambiata per amore, spesso seguita da suicidio e perfino da uccisione dei figli, che prima di morire han dovuto assistere alla brutale uccisione delle madri. Gli assassini sono spesso persone senza precedenti penali, senza malattie mentali conclamate. Ma la violenza finale è spesso preceduta da segnali sottovalutati, da piccole violenze psicologiche destinate a un’escalation di rabbia, aggressività, rancore, odio, bisogno ossessivo di controllo. Si parla sempre (io stessa l’ho fatto più volte) di compiti formativi di famiglia e scuola, di educazione al rispetto, all’autocritica, perfino al saper riconoscer in sé l’istinto arcaico del potere. Non pochissimi intellettuali (però non certo tutti) cominciano a scriverne, qualcuno ad ammettere di provare sentimenti ostili o irritati se la compagna è più brava, ha più successo, guadagna di più. Ebbene, questi riconoscimenti, queste autocritiche, sono un punto di partenza perché tutti gli uomini si liberino da pregiudizi, bisogno di sentirsi «il capo»(nella coppia, in famiglia, in ufficio) riconoscendo la parità delle compagne e il loro diritto di appartenere a sé stesse. Colpisce invece l’assordante silenzio dei politici maschi, colpisce, qui in Veneto, la decisione del governatore Zaia di dimezzare i fondi ai centri antiviolenza. Non bastano le leggi, non bastano i media, non basta la scuola se la politica, in tutt’altre faccende affaccendata, non si rende conto che l’ondata furiosa di femminicidi è, anche, sua responsabilità. Pag 2 Più credito alle famiglie e meno alle imprese di Angela Pederiva Dossier-Bankitalia, prestiti selettivi nonostante la ripresa Finalmente la ripresa c’è, ma inaspettatamente senza credito. Se infatti aumentano i finanziamenti e i mutui a favore delle famiglie, complessivamente diminuiscono i prestiti nei confronti delle imprese, peraltro secondo la dinamica per cui accelerano le erogazioni alle aziende «sicure» e rallentano le concessioni alle ditte «vulnerabili» e «rischiose». A scattare la fotografia di un Veneto intenzionato a ripartire, ma scottato dai travagli del sistema creditizio, è l’annuale rapporto della Banca d’Italia sull’economia regionale, presentato ieri a Venezia. Crescita e cautela - La premessa dello studio è incoraggiante: «Nel 2015 l’attività economica in Veneto è moderatamente cresciuta». L’avverbio non è stato scelto a caso, rivela l’analista Massimo Gallo, perché accanto al recupero dei consumi, al consolidamento degli investimenti e all’incremento delle esportazioni, visibili anche nel primo trimestre del 2015, va considerato pure un elemento di cautela: «Il rallentamento delle economie emergenti potrebbe indebolire lo sviluppo delle vendite all’estero, componente che costituisce da tempo un importante volano per lo sviluppo dell’economia regionale». Il tutto con una postilla che non dev’essere mai scordata: per quanto sia il migliore dal 2007, questo nuovo complesso di dati è comunque «lontano dalle serie storiche registrate prima della crisi». Prestiti e depositi - Detto questo, colpisce un’evidenza: proprio nel primo anno che consente un prudente ottimismo, «dopo ben sette di vacche magre», gli impieghi bancari hanno subìto un vistoso calo. Se nel 2013 i prestiti in Veneto ammontavano a

160 miliardi, poi saliti nel 2014 a 162, nel 2015 sono infatti scesi a 156, secondo una diminuzione che ha particolarmente bersagliato il triangolo Verona-Vicenza-Treviso. Speculare a questa tendenza appare l’andamento dei depositi, anch’essi variati di sei miliardi nel giro di dodici mesi, ma in senso opposto: dai 95 del 2013, ai 99 del 2014, ai 105 del 2015. Famiglie - Stando al report di Bankitalia, dunque, i rubinetti si sono chiusi. Non per tutti, però. I finanziamenti alle famiglie mostrano difatti una moderata ripresa (+1,1% nel 2015, +1,2% nel primo trimestre del 2016), «grazie alla crescita del credito al consumo (+3,9%), finalizzato in particolare all’acquisto di autovetture, e dei mutui per l’acquisto delle abitazioni (+0,5%), favorita dalla flessione dei prezzi degli immobili e da condizioni di offerta più distese sia in termini di spread applicati alla clientela, anche quella giudicata più rischiosa, sia in termini di quantità offerte». Dei nuclei familiari, quindi, le banche sembrano fidarsi, tanto da aver loro accordato lo scorso anno un +62,6% di nuove erogazioni. Imprese - E le aziende? Per loro i prestiti sono invece diminuiti (-3,2% l’anno passato, -2,3% a marzo scorso), con una flessione più accentuata per il comparto edile (-8,4%) rispetto al manifatturiero (-2,3%) e ai servizi (-2,6%). «A una debole domanda di credito, soprattutto da parte di quelle imprese che più hanno beneficiato dei miglioramenti di redditività e liquidità e quindi in grado di autofinanziarsi - osservano gli autori della rilevazione - si sono associate condizioni di offerta ancora selettive nei confronti delle imprese più rischiose». Eloquenti sono i risultati dell’analisi effettuata su un campione di oltre 52.000 società di capitale venete, incrociando i rating di Cerved Group e le segnalazioni alla Centrale dei rischi: «I prestiti alle imprese sicure, già in crescita nel 2014, hanno accelerato nel 2015 (4,2%), mentre quelli alle imprese vulnerabili e rischiose hanno accentuato la flessione (rispettivamente -4,5% e -5,7%)». Sofferenze e merito - Il tema è inevitabilmente intrecciato con la qualità del credito. «Il rapporto tra banche e imprese - sottolinea Gallo - è cambiato. La crisi ha acceso un faro sulla rischiosità del credito alle aziende, ora costrette a curare in maniera particolare gli aspetti di trasparenza e comunicazione, mentre gli istituti hanno adottato criteri di selezione più rigorosi, soprattutto nella valutazione degli indici di bilancio. In questo modo sono uscite dal mercato le ditte peggiori e quelle rimaste hanno migliorato la loro struttura finanziaria». Le sofferenze restano un problema, visto che la loro incidenza sui prestiti totali è salita dal 17,6% al 20,2% nel giro di un anno, ma per contro i crediti deteriorati sono scesi dal 12,3% all’11,6%, grazie al calo dello scadimento dei crediti in bonis . Curiosità: il tasso di ingresso in sofferenza dei prestiti alle piccole imprese si mantiene inferiore a quello medio della categoria: 3,6% contro 4,1% nel 2015, 3,4% a 3,8% nel primo trimestre del 2016. Ma il merito non basta, neanche qui: quando si parla di interessi, alle aziende medio-grandi viene applicato un tasso del 4,51%-4,36%, alle piccole del 7,39%-7,21%. Risparmio - Com’era già emerso allo scoppio della crisi del debito sovrano nel 2011, così anche nell’annus horribilis per le banche venete si è confermata la preferenza delle famiglie venete per gli investimenti a basso rischio e facilmente liquidabili. Ecco allora spiegate la crescita dei depositi in conto corrente (+10,6%) e la riduzione di obbligazioni (-26,4%), depositi a risparmio (-2,3%) e ovviamente azioni (-4%). «Saremo in grado solo tra un anno di valutare l’impatto della crisi delle ex Popolari sulla ricchezza delle famiglie e sullo sviluppo complessivo - osserva Maurizio Trifilidis, direttore della sede regionale di Bankitalia - ma intanto dobbiamo rilevare un grosso problema di educazione finanziaria, anche in ordine ai rischi delle operazioni speculative. Per questo, oltre ai progetti di formazione per gli insegnanti, la Banca d’Italia ha avviato pure i corsi per i soci delle Bcc». Enti locali - In uno scenario caratterizzato dalla ripresa di produzione, fatturato, investimenti e occupazione («positivi decontribuzione e Jobs Act»), dove perfino il settore delle costruzioni ha cessato di contrarsi, gli enti locali vedono un contenimento della spesa per il personale e per la sanità. «Ma la nota dolente - rimarca l’analista Paolo Chiades - riguarda il calo della spesa per investimenti: -13,2%, in linea con un trend negativo iniziato nel 2010 e, quanto ai Comuni, addirittura nel 2005». Della serie: poveri sindaci. IL GAZZETTINO

Pag 1 E ora la svolta della meritocrazia nel pubblico impiego di Oscar Giannino Siamo finalmente alla svolta contro gli assenteisti pubblici? Speriamo di sì. Anche se un dubbio resta lecito. Ieri è stata una giornata importante. Prima un nuovo scandalo, a comprovare che i furbetti pubblico del cartellino continuano a sfidare la legge. Poi, la risposta tanto attesa del governo. L'ennesimo pugno nell'occhio a milioni di lavoratori italiani onesti, pubblici e privati, è stato portato da un nuovo gruppo di assenteisti pubblici sorpresi a farsi i fatti propri, al distretto 13 della ASL di Caserta: 9 arrestati dai carabinieri, altri 7 sospesi dal servizio, 5 dirigenti tra i raggiunti da avviso di garanzia per truffa, false attestazioni o certificazioni, con l'aggravante del danno a ente pubblico. I fatti significativi sono due. Primo: la segnalazione ai magistrati non veniva dai dirigenti pubblici, ma da comuni cittadini. Secondo: la piaga dell'assenteismo pubblico è persistente e tenace, perché le collusioni sono tante. La risposta del governo sta nell'approvazione definitiva ieri di un decreto delegato ad hoc su questa materia, nell'ambito dell'attuazione della legge delega di riforma della PA. Abbiamo spiegato molte volte che già nelle norme vigenti da molti anni l'assenteismo pubblico era giusta causa per licenziamento del pubblico dipendente infedele. Sta di fatto che la loro applicazione è stata rarissima. Nel 2014 solo 220 sono stati i licenziati pubblici per cause disciplinari, lo 0,0069% dei dipendenti statali in Italia, e di questi 99 per assenze ingiustificate, 78 per reati, 35 per altre gravi mancanze disciplinari, 7 per doppio lavoro non autorizzato. Mentre numerose e reiterate sono state le sentenze di reintegra del dipendente pubblico sanzionato, anche con esplicito rinvio alla necessità di attendere la fine sino alla Cassazione dell'eventuale procedimento penale, malgrado la riforma del 2009 intendesse escludere proprio tale ipotesi. Di fronte a ciò la riforma Madia, cioè la legge delega124/2015, all'articolo 17, comma 1, lettera s), ha indicato al legislatore delegato la necessità di introdurre "norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l'esercizio dell'azione disciplinare". E finalmente ieri queste norme sono arrivate. L'opposizione ovviamente le criticherà, ma bisogna oggettivamente riconoscere che una forte stretta c'è. La domanda a questo punto diventa: avranno miglior effetto queste nuove norme più cogenti, rispetto a quelle che le hanno invano precedute? La risposta non può dipendere dalla simpatia o meno verso il governo Renzi, né può significare disconoscere che la buona volontà il governo ce l'ha messa, per non rassegnarsi allo scandalo che continua. Bisogna invece essere realisti. Purtroppo, i troppi casi che emergono ogni settimana nella PA, a macchia di leopardo in tutta Italia, mostrano che sinora né le vecchie norme né l'annuncio del giro di vite in arrivo hanno eradicato la malapianta assenteista. Quando e dove essa è diffusa nella PA, sembra assumere tutti i caratteri di una questione culturale prima che deontologica, di condizionamento ambientale, di emulazione negativa, di omologazione a prassi impunite e tollerate da una dirigenza che a propria volta ne approfitta, di condotte che finiscono per estendersi a catena anche tra chi prima era onesto. Ecco, ora che c'è la norma "cattiva ma giusta", come l'ha definita Renzi, viene il più difficile. Cioè la battaglia non per abbattere l'assenteismo pubblico per effetto della paura, di perdere il posto e di una condanna penale, ma per conquistare i cuori e le menti dei dipendenti pubblici, per cambiare la testa a chi per anni si è rassegnato alle furbizie e le ha praticate anch'egli. A questo fine servono nuovi contratti nella PA e salari di merito veri, cioè con parametri oggettivi capaci di premiare chi ottiene risultati tangibili, rispetto al disincentivo da riservare a chi li fallisce. E un'impostazione nuova delle responsabilità dirigenziali: per loro non solo premi di risultato su metriche oggettive come per i dipendenti, ma anche riconoscimenti retributivi per chi motiva meglio al risultato le strutture funzionali e i dipendenti loro sottoposti. L'orgoglio della PA deve vivere di risultati e di trasparenza. Ci vorranno anni, ma chi pensa sia impossibile non ha idea di quanti, tra i 3,2 milioni di dipendenti pubblici, siano i primi a non poterne più dell'andazzo antimeritocratico che vivono in ufficio tutti i giorni. 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO

Pag 13 Accolto il ricorso: Chisso non doveva restare in prigione di Maurizio Dianese e Gianluca Amadori Scandalo Mose: da oggi in aula sfilano i testimoni-chiave Aveva ragione il suo avvocato: Renato Chisso non doveva passare il Natale in galera. E i giudici devono riconsiderare il loro no anche a proposito del lavoro esterno: l’ex assessore regionale alle Infrastrutture ne ha diritto. La sentenza della Cassazione emessa dalla prima sezione non lascia molti dubbi soprattutto sul punto nodale della carcerazione visto che annulla senza rinvio l’ordinanza che aveva riportato in carcere Chisso. Perché si può pensare tutto il male possibile della legge svuotacarceri – inventata per evitare che l’Italia continuasse ad essere condannata dall’Unione europea a pagare multe milionarie per il sovraffollamento delle celle – ma la legge va applicata. Questo dice la Cassazione e questo ricorda la Suprema corte ai giudici veneziani. Ed è esattamente quello che sosteneva il legale di Chisso, l’avv. Antonio Forza. Che, infatti, vince su tutto il fronte visto che la Cassazione boccia e annulla il provvedimento che, a metà dicembre dello scorso anno, aveva riportato Chisso in carcere per scontare il residuo pena di 10 mesi. Il decreto svuota carceri dice infatti che sotto i 18 mesi la pena detentiva deve essere scontata a casa. Secondo il Tribunale del riesame di Venezia, Chisso invece doveva tornare in galera – dove era rimasto dal 4 giugno al 13 ottobre 2014 – in quanto soggetto pericoloso, capace di reiterare il reato di corruzione. L’ex assessore regionale alle Infrastrutture era stato coinvolto nello scandalo Mose e, secondo l’accusa, faceva parte di quel mondo del malaffare messo in piedi da Giovanni Mazzacurati il quale, con i soldi dei cittadini, finanziava e corrompeva tutto e tutti. A ottobre Chisso aveva patteggiato 2 anni e 10 mesi ed era tornato a casa, a Favaro, da dove era stato prelevato di nuovo dai carabinieri a dicembre. Secondo i giudici per restare ai domiciliari Chisso avrebbe tra l’altro anche dovuto mostrarsi pentito di quel che aveva fatto e invece l’ex assessore continuava a proclamarsi innocente. Ma l’avv. Forza - e la Corte di Cassazione è d’accordo con lui – ha fatto notare che Chisso si era dimesso il giorno dell’arresto dalla carica di assessore e dunque il reato di corruzione di pubblico ufficiale non poteva più commetterlo, mentre, per quanto riguarda il pentimento, secondo Forza - e la Cassazione gli ha dato ragione – la legge non prevede affatto che il detenuto, per scontare il carcere a casa debba battersi il petto e cospargersi il capo di cenere. Il punto nodale, va detto, sta in realtà nel fatto che a Chisso non sono stati trovati i soldi della corruzione – circa 6 milioni di euro - e questo ha convinto i giudici ad usare il pugno di ferro nei suoi confronti. E’ anche vero che a distanza di due anni dall’arresto, comunque, la Finanza non è riuscita a trovare a Chisso il becco di un quattrino, il che fa supporre che almeno una parte di soldi – quelli che l’ex assessore non ha speso nelle campagne elettorali per sé e i suoi compagni di partito - siano rimasti appiccicati alle dita anche di qualcun altro che ha ben pensato di tenerseli e continuare ancora oggi a fare la bella vita, giurando però di averli consegnati all’ex assessore. Intanto in ogni caso il periodo di detenzione di Renato Chisso – tra galera vera e domiciliari – è arrivato agli sgoccioli visto che l’ex assessore regionale dovrebbe tornare libero alla fine di questo mese. Entra nel vivo il processo agli ultimi otto imputati coinvolti nell’inchiesta sullo scandalo Mose. Conclusa la fase delle eccezioni preliminari, questa mattina inizieranno a sfilare, di fronte al Tribunale di Venezia, i primi testimoni citati dalla Procura per cercare di dimostrare la fondatezza delle accuse formulate. I pm Carlo Nordio, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini hanno deciso di rinviare l’audizione dei finanzieri che hanno condotto le indagini, impegnati in corsi di formazione ed esami, citando due coimputati, usciti con il patteggiamento, e il medico di fiducia di Giovanni Mazzacurati, la dottoressa Maria Sanna, la quale durante le indagini ha riferito di aver visitato l’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova nei giorni successivi all’arresto, nell’estate del 2013, e di averlo trovato provato, ma lucido. Testimonianza che la Procura ritiene di centrale importanza per confermare la credibilità delle confessioni di Mazzacurati, messe in discussione dalla difesa, in particolare quella dell’ex sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, la quale vuole dimostrare che il manager era già malato e i suoi ricordi appannati, non attendibili. Dopo il medico saranno ascoltati i trevigiani Pio Savioli e Federico Sutto: il primo, in qualità di presidente (e poi consulente) del Consorzio Coveco, e di consigliere

del Cvn, ha ammesso di aver partecipato al "sistema corruttivo" messo in piedi per molti anni attorno ai lavori per la realizzazione del Mose, illustrando agli inquirenti i meccanismi del suo funzionamento, i ruoli delle varie imprese fin dall’inizio degli anni Novanta. Il Coveco, appartenente al sistema delle coop rosse, si occupava in particolare di assicurare fondi e finanziamenti ad esponenti della sinistra. Sutto, uno degli uomini di fiducia di Mazzacurati, è ritenuto dalla Procura un teste chiave per provare, tra gli altri, il finanziamento illecito che l’allora presidente del Cvn ha dichiarato di aver versato ad Orsoni per la campagna elettorale del 2010. Nell’interrogatorio del 23 ottobre 2014 (poche settimane prima di patteggiare 2 anni di reclusione) raccontò le modalità con cui, nella primavera del 2010, avrebbe consegnato il denaro al candidato sindaco: «Ho chiamato al cellulare il prof. Orsoni, ci siamo fissati un appuntamento... e mi sono recato al suo studio la mattina dopo, attorno alle 8, 8 e mezza. Mi ha accolto una segretaria... poi è venuto il professore, siamo andati in studio, ci siamo salutati, io ho consegnato la busta chiusa del denaro... meglio, gliel’ho appoggiata sopra il tavolo, ci siamo salutati... sono tornato in Consorzio e ho avvisato l’ing. Mazzacurati». Circostanza negata con decisione da Orsoni. L’inchiesta sul Mose ebbe l’accelerazione definitiva nella primavera del 2013, dopo l’arresto dell’allora amministratore della Mantovani, Piergiorgio Baita, in relazione al false fatture per 8 milioni di euro, emesse per costituire i fondi neri necessari a pagare le "mazzette". Poi fu arrestato e confessò Mazzacurati e si aggiunsero nuovi tasselli probatori. Infine le confessioni di molti imprenditori, dopo gli arresti del giugno 2014. Quasi tutti gli indagati hanno patteggiato. Il dibattimento, tra gli altri, riguarda l’ex ministro all’Ambiente, Altero Matteoli, e l’ex presidente del Consiglio regionale del Veneto, Lia Sartori. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag II Crociere e case per turisti, la rivoluzione di Brugnaro di Michele Fullin Grattacieli e grandi viali per unire Mestre e Marghera. E il Quadrante è da rivedere Novantatre minuti di discorso, 69 pagine fitte di idee per cambiare la città. Con particolare riferimento al mantenimento della crocieristica alla Marittima, alla limitazione delle attività prettamente turistiche, al miglioramento dello standard di vita della gente. È il "documento del sindaco" che dà l’avvio all’iter per l’approvazione del Piano degli interventi, vale a dire l’esecuzione in fatti concreti di quanto il Pat (Piano di assetto del territorio) approvato nel 2014 aveva previsto dal punto di vista normativo. In questo documento, il sindaco Luigi Brugnaro ha raccolto un po’ tutte le idee che aveva "sparato" nel corso dell’anno nelle occasioni più disparate, che qui vengono raccolte in un testo organizzato. «Abbiamo fatto un lavoro straordinario - ha detto Brugnaro in apertura della riunione del Consiglio comunale, che si è svolta a un anno esatto dalla sua elezione - e insieme, maggioranza e anche opposizione possiamo davvero fare qualcosa per cambiare la città. Dopo aver approvato il Piano anticorruzione - ha aggiunto - la prossima settimana approveremo il piano di ristrutturazione del personale, per snellire e far funzionare meglio la macchina comunale». Da una parte il documento ricalca i pilastri del Pat dell’amministrazione Orsoni e del commissario Zappalorto: no al consumo del territorio, sì al riuso, città verticale a Mestre e Marghera, più residenza e servizi a Venezia, cintura verde per contenere l'espansione abitativa e mobilità sostenibile. Dall’altra, prende decisamente le distanze, come nel caso delle grandi navi. Prevedendo l’ipotesi del canale Tresse Nuovo e il mantenimento della Marittima come terminal, il sindaco pone le basi per una modifica al Pat, che affermava esplicitamente l’estromissione di quel traffico dalla laguna. Ma c’è anche la volontà di rivedere alcune previsioni sul Quadrante di Tessera e si pone l’accento sull’esigenza di limitare i cambi d’uso a destinazione ricettiva degli immobili a Venezia. «Una prima strategia, a breve - ha detto il sindaco - è contenere la progressiva occupazione del patrimonio residenziale cittadino da parte di attività ricettive alberghiere ed extralberghiere, attraverso la revisione delle norme che disciplinano i cambi d’uso. Il Comune valuterà caso per caso e i criteri riguarderanno in primis la qualità delle strutture, la capacità di innescare la riqualificazione degli spazi pubblici circostanti, l’impatto occupazionale». Si prevede anche un aggiornamento della disciplina degli standard urbanistici e della loro monetizzazione anche a Venezia. «L’impossibilità di realizzare parcheggi o aree verdi non può tradursi - ha continuato - in un semplice vantaggio per l’operatore privato.

Un’iniquità peraltro nei confronti di chi opera in terraferma». Ci sono anche delle azioni mirate sulle singole isole, per farle uscire dalla stagnazione in cui si trovano tutte. Maurizio Crovato (Brugnaro sindaco) ha parlato vi visione innovativa, ma l’opposizione vuole vederci chiaro. Elena la Rocca (M5S): «Mi pare che si privilegino i grandi investimenti, il grande capitale e per la gente comune rimanga ben poco». Giovanni Pellizzato (gruppo Casson) ha auspicato un maggior coraggio sulla residenzialità e soprattutto sulla condivisione di un tema tanto importante. Davide Scano (M5S) ha detto senza mezzi termini: «I cambi d’uso a Venezia vanno bloccati e basta. Quanto agli standard urbanistici, mi par di capire che si tratta di un’ammissione che per tutte le trasformazioni a Venezia a quasi nessuno gli uffici hanno chiesto di pagare. Questo è molto grave». CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Il Mose sprofonda, perizia del Consorzio di Alberto Zorzi I cassoni abbassano il fondale alle bocche di porto fino a 3 centimetri l’anno. Assestamento? O rischio? Venezia. «Sprofonda» la centrale Enel di Porto Tolle: 15 millimetri all’anno. E anche la torre Aquileia di Jesolo, uno dei grattacieli simbolo (nel bene e nel male, visto che ora 43 appartamenti invenduti sono andati all’asta) della rinascita della stazione balneare più famosa del Veneto, dall’inaugurazione del 2009 a oggi si è «assestata» un bel po’. Ma soprattutto, nelle immagini delle ricerche che negli ultimi anni il Cnr sta facendo sulla subsidenza (cioè, detto in parole più semplici, lo sprofondamento) delle coste venete, i punti più rossi si trovano sulle opere del Mose. Il team guidato da Luigi Tosi (dell’Ismar-Cnr, ovvero l’Istituto di scienze marine) e Pietro Teatini (Ingegneria civile e ambientale dell’Università di Padova) da tempo utilizza i satelliti per misurare i movimenti delle terre emerse dell’area lagunare e costiera e di recente ha pubblicato risultati che in un certo senso sono preoccupanti. «Una subsidenza oltre i 3 millimetri all’anno è già un valore importante, tanto più se combinata all’eustatismo, cioè all’innalzamento del livello del mare, che è anch’esso di 2-3 millimetri», spiega Tosi. In alcune aree del Mose alle bocche di porto si è andati sotto anche di 30 millimetri l’anno dal 2009 a oggi. Nelle piantine a intensità di colori, si parte dal verde per le zone più stabili, e si arriva al rosso fuoco, passando per il giallo, laddove lo sprofondamento è più lento. L’allarme è evidente: se il Mose va giù di 3 centimetri all’anno sotto l’enorme peso delle sue stesse opere, cioè i cassoni di calcestruzzo o le scogliere di sassi da migliaia di tonnellate, come farà a difendere Venezia per un secolo? «Noi non possiamo dire oggi se questo trend continuerà così per anni o se a breve si fermerà - continua Tosi - i modelli ci dicono che potrebbe continuare, magari in maniera più attenuata, anche perché resta la componente naturale della subsidenza, legata per esempio alle estrazioni di acqua». Al Consorzio Venezia Nuova, il pool di imprese che sta costruendo il sistema di dighe che dovrebbe salvare la città dall’acqua alta, in realtà al momento sono più preoccupati per un’altra questione che è collegata: il problema non è solo che i cassoni si stanno assestando e sprofondano – che era previsto dai progettisti dell’opera, posti di fronte al problema inedito di depositare sul fondo delle bocche di porto delle enormi strutture di calcestruzzo – ma che c’è il rischio che si muovano in maniera diversa, creando dei disallineamenti o dei dislivelli. Ed è proprio per questo che i commissari nominati dal prefetto di Roma dopo lo scandalo delle mazzette e degli arresti, tra le tante cose che stanno controllando, hanno segnato come prioritarie le verifiche alla stabilità dei cassoni, nonostante tutte le assicurazioni (e rassicurazioni) date dai progettisti della Technital. Per sicurezza il Consorzio è pronto a dare un incarico di consulenza al dipartimento di Ingegneria civile e ambientale dell’Università La Sapienza di Roma – ritenuto il migliore tra gli atenei italiani – per monitorare la situazione, anche applicando dei sensori sui cassoni e studiarne così ogni minimo scostamento. E’ evidente che il disallineamento di questi ultimi creerebbe dei problemi enormi al sistema, se superasse quei piccoli termini di tolleranza previsti. Tosi, ma anche Pierpaolo Campostrini, direttore del Corila (quel Consorzio ricerche laguna che coordina varie università e da anni monitora i vari impatti del Mose), colgono l’occasione per lanciare un nuovo appello a chi di dovere: «Quello che manca è un monitoraggio costante della subsidenza lagunare - spiega Campostrini - siccome non è più prevista come obbligatoria dalle direttive europee è stata messa da

parte, ma è un fenomeno che va tenuto d’occhio con grande attenzione». Secondo la ricerca Venezia città storica non è in pericolo, visto che cede solo 1,2 millimetri all’anno in media, con punte di 4 in alcune zone. «Oltre alle bocche di porto negli ultimi anni si sono abbassati molto la zona di Jesolo e il Delta del Po, con punte di 20 millimetri», conclude lo studioso dell’Ismar. Pagg 8 – 9 Brugnaro ferma i nuovi hotel e vuole i grattacieli a Mestre di Gloria Bertasi e Monica Zicchiero Presentato il Documento del sindaco, dalle Tresse ai nuovi hub. Critica l’opposizione: libro dei sogni. Un anno da sindaco, i voti delle categorie: “Edilizia e commercio, manca una strategia”. Ok solo sulla sicurezza Venezia. Nuove regole per irrigidire i cambi di destinazione d’uso a Venezia, green economy e rilancio dell’industria a Marghera, grattacieli e alta velocità a Mestre. Per spingere all’uso dei mezzi pubblici il sindaco pensa di creare interscambi tra diverse forme di trasporto con hub intermodali simili a quello di piazzale Cialdini. E a sostegno del commercio locale arriveranno norme per limitare il boom di esercizi per i turisti. Ieri, in consiglio comunale, Luigi Brugnaro ha presentato il suo Documento per il piano degli interventi, un corposo «libro dei sogni» che in 71 pagine compendia la visione urbanistica della città della sindaco fucsia. «E’ un documento molto importante - ha detto -. Lo presento oggi (ieri, ndr) 15 giugno, una piacevole coincidenza: un anno fa abbiamo vinto le elezioni». Un anno dopo la vittoria fucsia al ballottaggio, molto del programma elettorale e degli annunci di Brugnaro hanno preso forma nel «Documento del sindaco», un obbligo di legge che però,«non è un mero adempimento, ma è fondamentale per far sì che il Piano degli interventi - realizzato attraverso un percorso di consultazione - abbia contenuti condivisi ed inclusivi». A Venezia, la ricetta del sindaco per tutelare e sostenere la residenza passa per la revisione delle norme edilizie sui cambi di destinazione d’uso. L’idea è di contenere il boom di hotel e attività extra-alberghiera valutando caso per caso le richieste di insediamento e ampliamento. Se le strutture proposte saranno «d’alta gamma», se innescheranno cioè processi di riqualificazione e aumenteranno l’occupazione e indotto economico otterranno il via libera. Non ci saranno però sconti sugli oneri di urbanizzazione e standard urbanistici. A Venezia infatti non è possibile realizzare parcheggi o verde pubblico, come in terraferma, ma i privati sono sempre stati esentati anche dalla monetizzazione. Un caso emblematico è il Fondaco dei Tedeschi su cui, durante l’amministrazione di Giorgio Orsoni, era stato sollevato il problema da ambientalisti e M5S. Alla fine gli oneri non erano stati conteggiati ma ora Brugnaro vuole cambiare le regole. «Il fatto che non si possano fare verde o parcheggi non può tradursi in un vantaggio per il privato e a un’iniquità per chi opera in terraferma», dice il sindaco. In arrivo nuove regole anche per le attività commerciali: «Si valuteranno specifiche disposizioni per limitare l’espansione di esercizi destinati a turisti a favore di attività per la residenza». Un aiuto sulla vicenda è arrivato ieri dal governo che ha approvato una norma per aiuterà le città d’arte nella tutela del commercio storico. D’intesa con le Regioni i Comuni potranno individuare zone di pregio storico e artistico dove potranno essere vietate attività non compatibili. A Venezia, per ora, ci sono le liberalizzazioni non si applicano a San Marco e Rialto, così il divieto potrebbe essere allargato. In terraferma, largo allo sviluppo in verticale, con grattacieli che liberano aree verdi. Tra i punti fermi di Brugnaro ci sono sport ed intrattenimento per favorire la socialità e il contenitore ideale per unire le due attività è il Quadrante di Tessera che potrebbe ingrandirsi o prendere una nuova forma. «Le previsioni del precedente accordo di programma potranno essere riviste - dice il sindaco - interessando anche aree poste in adiacenza o alternative al perimetro iniziale». I piccoli centri urbani, che siano Malamocco, Sant’Erasmo o Trivignano, saranno sostenuti e rivitalizzati con azioni adeguate al contesto economico e sociale. Inoltre, tutto il territorio dovrà beneficiare del turismo con accoglienza diffusa (si prevedono più punti informativi per smistare i visitatori) e il sostegno ad attività tradizionali come diportistica, pesca e l’uso di forti, mulini e manufatti che spingano a forme «slow» di vacanza. Una cintura verde dovrà circondare il Comune e se ci sono opere «incongrue» con il contesto saranno delocalizzate. Le grandi navi invece devono restare a Venezia e passare dal nuovo canale delle Tresse. Duri i grillini Elena La Rocca e Davide Scano: «Il

documento richiama politiche del passato». Complimenti al sindaco dai consiglieri fucsia: «Finalmente si fa chiarezza su molte questioni», ha detto Paolo Pellegrini. Per Giovanni Pelizzato (Lista Casson), ci sono molti punti positivi ma, ha promesso, «contrasteremo le Tresse». «Questo documento non ricalca quelli di passate amministrazioni, andateli a leggere, sono online - ha risposto l’assessore all’Urbanistica Massimiliamo De Martin -. E’ un atto molto coraggioso». Venezia. Promosso dalle categorie per l’impegno per la sicurezza, lo sforzo di avvicinare la Biennale ai cittadini e la due diligence sul bilancio comunale. Ma anche bocciato sul commercio, sull’efficienza degli uffici dell’Edilizia privata e la delega alla cultura. Rimandato infine sui rapporti con i comitati internazionali, le politiche sociali, la gestione dei flussi turistici, la pianificazione urbanistica. Ad un anno esatto dall’elezione, anche la città dà i voti al sindaco Luigi Brugnaro e alla sua amministrazione sulla scorta del «Pagellone» del Corriere del Veneto elaborato in base al fact checking, ovvero il controllo di quanto del programma elettorale è stato attuato. La «giuria» delle categorie conferma il giudizio con qualche giallo in più e qualche rosso in meno. Il giudizio più severo è quello di Maurizio Franceschi, Confesercenti: «Devo dare il bollino rosso su quasi tutto – sospira - Pure sui parcheggi e la sospensione della Ztl la giunta ha ricalcato le decisioni di amministrazioni precedenti». Il tema centrale è ovviamente il commercio. «Manca una strategia, non ho visto nessuna progettualità e, anzi, ho sentito parlare di opportunità di lavoro per nuovi insediamenti vicino alla Nave de Vero - continua Franceschi - A dirla tutta, neanche un semplice atto amministrativo come l’applicazione della diffida amministrativa è stato fatto». La diffida è una specie di cartellino giallo, un avviso all’esercente a mettersi in regola prima di comminare la sanzione. Pure cambiare i connotati al bagno di casa o ristrutturare la zona giorno non è diventata un’operazione più semplice per i cittadini. «L’andamento generale della concessione dei permessi potrebbe anche essere rallentato – osserva la presidente dell’Ordine degli Architetti, Anna Buzzacchi –. Non c’è certezza interpretativa sui tempi, né semplificazione». Abaco e Regolamento edilizio nuovi sono al palo (bollino rosso) e si attendeva con ansia il documento del sindaco sulla pianificazione della città, presentato ieri in giunta (bollino giallo). Gli architetti, in compenso, plaudono alla collaborazione con la Biennale e con l’Ordine che avvicina i cittadini alla Mostra d’Architettura: un verde meritato. Il giudizio più articolato arriva dal presidente dell’Associazione Veneziana Albergatori Vittorio Bonacini: bene le operazioni contro gli affittacamere abusivi, bene la due diligence sulle spese della macchina comunale, ma sul giudizio complessivo dell’attuale amministrazione non possono che gravare l’eredità delle precedenti e le politiche nazionali. «Sui flussi turistici non siamo stati snobbati e ciò ci dà speranza - spiega - La cultura? Il sindaco ha referati pesanti, con simpatia gli diciamo che sarebbe bene che si alleggerisse». Giudizio sospeso sui flussi da parte dell’ Associazione Piazza San Marco: «I pontili separati non bastano – osserva il presidente Alberto Nardi - Sarebbe necessaria una campagna di moralizzazione sul fatto che il turista non è un pollo che si spenna, a partire da noi categorie, con pesanti sanzioni. Il primo anno è servito a studiare. Adesso serve fare». Nì anche da Franca Coin, presidente della Venice International Foundation: «Da venti anni siamo affiancati ai Musei Civici con fondi, progetti, energie. Quando ho chiesto un incontro al sindaco, ha risposto che non aveva tempo. Mai più sentito. Adesso siamo impegnati con la gipsoteca Canova di Possagno». Anche le politiche sociali non sembrano ancora pervenute, dice Don Dino Pistolato: «Stiamo a vedere, nella speranza che si presenti una programmazione che sblocchi l’aggregazione, il superamento delle diffidenze e vada oltre gli interventi di sicurezza nelle zone come via Piave». Sulla sicurezza, il comitato Mestre Off Limits dà la promozione. «Con tutte i limiti di competenza causati da carenze nelle leggi nazionali, l’impegno si vede», approva il presidente Fabrizio Coniglio. LA NUOVA Pagg 2 – 3 Prostituzione. Stangata sui clienti, 40 multe in un mese di Carlo Mion Sulle strade mestrine presenti 60 lucciole, quasi tutte straniere Marghera. Strade del sesso, clienti fotografati con le prostitute. «Così pagano subito». È questa la nuova strategia contro il mercato del sesso a pagamento da parte degli agenti

del commissariato di via Cosenz. Nessuna contestazione sul fatto ma clienti convocati in commissariato. Per paura che la scappatella venga allo scoperto, saldano subito la sanzione. Nell'ultimo mese: 40 multe da 350 euro, per un totale di 14mila euro. La telefonata arrivava solitamente all’ora di pranzo quando gli agenti erano sicuri di trovare la persona che cercavano. Il tenore della chiamata era più o meno questo: «Buongiorno, polizia. Lei è convocato in commissariato». Se non trovavano il diretto interessato il messaggio veniva lasciato a chi rispondeva. O meglio il poliziotto chiedeva quando poteva trovare il diretto interessato. Destinatari della chiamata, tutti clienti sorpresi in compagnia delle prostitute lungo le strade di Marghera dove è vietato fermarsi e contattare le ragazze. Gli uomini non sanno il motivo della convocazione da parte della polizia: solo una volta arrivati in commissariato vengono mostrate loro le foto della fermata a rischio. Contrariamente a quanto fatto sinora, le infrazioni a carico dei numerosi clienti di prostitute non sono avvenute mediante “contestazioni immediate” sul posto, bensì attraverso la “contestazione differita” a seguito di riscontro fotografico della violazione amministrativa. In particolare gli agenti del commissariato di via Cosenz sono intervenuti in abiti civili, posizionandosi in orari e luoghi sempre diversi ma interdetti alla prostituzione dall'ordinanza del Comune. Dopo aver colto in flagranza il cliente, la situazione vietata viene accertata e documentata attraverso diverse fotografie che immortalano inequivocabilmente l’approccio e il successivo allontanamento dopo avere consumato il rapporto. Scatta poi la convocazione e la presentazione delle "prove". Il cliente non può fare altro che prendere atto dell’illecito e della relativa sanzione pecuniaria. Il fatto di correre il rischio di essere fotografati, unito alla preoccupazione che eventuali familiari possano poi venire a conoscenza delle abitudini, ha causato un’evidente riduzione di clienti che richiedono prestazioni sessuali nelle zone interessate dal divieto, tra la centrale via Fratelli Bandiera e le vie limitrofe che la collegano a via dell’Elettricità, costringendo di conseguenza le stesse prostitute a spostarsi in altre zone. Visti i risultati, i servizi di controllo verranno predisposti con regolarità dal commissariato anche nei prossimi mesi con l'obiettivo di garantire il decoro urbano e la sicurezza pubblica. Un tipo di intervento che consente maggiori risultati con l’impiego di un minor numero di uomini. Mestre. Nei primi cinque mesi dell’anno sono state censite sulle strade della prostituzione mestrina una sessantina di persone che vendono il proprio corpo per soldi. Mediamente ogni sera, sono in strada una trentina tra prostitute e trans. La maggiore densità di “lucciole” è presente in via Fratelli Bandiera con una media di 12-15 ragazze e alcuni trans. Sul Terraglio la pressione delle forze dell’ordine da tempo ha allontanato le ragazze spostandole soprattutto in provincia di Treviso. I dati si possono confrontare con quelli dello scorso anno. Già dall’anno scorso il numero di ragazze sulle strade era in diminuzione. Nel 2013 le ragazze erano 106, mentre lo scorso anno 77 e nel 2014 erano 71. Il fenomeno della prostituzione interessa principalmente giovani donne provenienti in particolare da Bulgaria, Romania, Ungheria, Cina e Albania e Nigeria. Solo quattro le italiane censite mentre i trans provengono da Equador, Perù e Colombia. L'età delle prostitute è compresa tra i 18 e i 59 anni, con un età media nella zona del Terraglio di 25 anni, nella zona di Marghera di 27 anni e nella zona di via Piave di 46 anni. I vari gruppi si sono spartiti i marciapiedi. A Marghera prevalgono le prostitute bulgare (84%); sul Terraglio le romene (61%) e le ungheresi (29%); nel Rione Piave le cinesi (55%) che sono più presenti comunque nelle case più che nelle strade. L'età media, per etnia, delle prostitute varia dai 23 anni di romene e ungheresi (le più giovani), ai 27 anni delle bulgare, ai 40 anni dei trans sud americani, fino ai 50 anni delle cinesi. Le sanzioni nei confronti di chi consuma rapporti sessuali a pagamento ha permesso di individuare, lo scorso anno, 300 trasgressori diversi. Pochi i recidivi. In prevalenza sono italiani (73%) e il loro numero non cala. La presenza di clienti stranieri è rilevante per la sola zona di Marghera (39%). La fascia d'età è ampia: si va dai 18 agli 84 anni (un solo caso), con un'età media per la zona Terraglio di 47 anni, per quella di Marghera di 43 anni e per la zona di via Piave di 49 anni. Il dato del 2015 è in linea con i dati del 2014 ma si nota un aumento di prostitute di nazionalità bulgara (passate da 31 a 40) mentre le rumene sono diminuite (da 17 a 13). Trend in linea anche nei primi cinque mesi di quest’anno. Le prostitute ungheresi sono passate da 2 a 9. Le cinesi crescono: dall'unica in attività nel 2013 si arriva alle 6 del 2015 ma erano 8 nel 2014.

La scelta del Comune di Venezia di puntare allo "zoning" per tutelare i cittadini che subiscono il fenomeno della prostituzione sotto le proprie abitazioni, unitamente all’offerta di protezione sociale a chi decide di uscire dal sistema di sfruttamento e attuare azioni di prevenzione sanitaria e di contatto diretto con chi si prostituisce, rappresentano i tre obiettivi fondamentali che hanno ispirato l'ordinanza comunale che prevede sanzioni a chi ferma e tratta la prestazioni con le prostitute. In particolare l’ordinanza riguarda le tradizionali strade del sesso di Mestre e Marghera: Terraglio, Quartiere Piave e via Fratelli Bandiera a Marghera. La sanzione previste per i trasgressori è di 350 euro. Nella vicina provincia di Treviso la multa raggiunge i 500 euro. Stranamente si stanno ottenendo maggiori risultati a Mestre che a Preganziol e Mogliano. … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 I rischi che corre l’Europa di Angelo Panebianco Da Londra a Trump Ipotizzare il peggio può aiutare ad aguzzare l’ingegno, a ricercare le soluzioni se il peggio si realizzasse. In questo momento, l’Europa è con il fiato sospeso in attesa del referendum britannico del 23 giugno. Ma le tegole che potrebbero cadere in testa all’Europa nel giro di pochi mesi sono due. Nello scenario più cupo, la Gran Bretagna abbandona l’Unione Europea e pochi mesi dopo Donald Trump viene eletto presidente degli Stati Uniti. Se questi due eventi si realizzassero entrambi, l’Europa si troverebbe a fare i conti con un mondo completamente diverso rispetto a quello fin qui conosciuto e dovrebbe molto presto scegliere fra rassegnarsi alla propria definitiva implosione o impegnarsi in una radicale riorganizzazione di se stessa. Le conseguenze di una vittoria dei fautori dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione - tutti gli osservatori concordano - sono imprevedibili. I danni economici per la Gran Bretagna sarebbero, presumibilmente, ingenti ma lo sarebbero anche per gli altri Paesi europei data la stretta interdipendenza esistente. I danni politici sono ancora meno calcolabili. È vero che l’Unione sarebbe forse tentata di trattare con la massima durezza la Gran Bretagna allo scopo di farle pagare un prezzo economico salatissimo cercando così di scoraggiare il contagio, di rendere il più possibile difficile la vita agli imitatori, a tutti coloro che in giro per l’Unione vorrebbero seguire le orme del Regno Unito. È anche vero che la Gran Bretagna non è la Grecia e che colpirla troppo duramente potrebbe rivelarsi un boomerang, provocare danni altrettanto gravi ai Paesi membri, come hanno giustamente osservato Alesina e Giavazzi sul Corriere di due giorni fa. In ogni caso, le conseguenze di Brexit sarebbero di vasta portata. Il prestigio e la reputazione dell’Unione, già piuttosto bassi di questi tempi, diminuirebbero ancora nel momento in cui uno Stato membro così importante se ne andasse sbattendo la porta. Lungo tutta la loro storia, le istituzioni europee avevano potuto contare sul fatto che i vari Paesi facessero la fila per entrare, non per uscire. Inoltre, la Brexit modificherebbe i rapporti di forza dentro l’Unione facendo venire meno un contrappeso, che comunque esisteva, rispetto alla potenza tedesca. Da ultimo (ma questo pare interessare solo ai pochi europei che ancora hanno a cuore l’economia liberale), verrebbe meno un elemento di resistenza a quegli eccessi di dirigismo economico sempre troppo apprezzati e praticati sul Continente. In ogni caso, la natura dell’Unione cambierebbe. Ma l’attenzione spasmodica per la possibile tegola numero 1, la Brexit, non dovrebbe farci dimenticare la possibilità che ci arrivi in testa, nel giro di pochi mesi, anche la tegola numero 2. Forse (qualunque europeo dovrebbe augurarselo) Hillary Clinton vincerà le elezioni presidenziali americane. E forse no. Data la scarsa simpatia che l’ex segretario di Stato riscuote persino fra gli elettori democratici, date le affinità di fondo (il comune sentire economicamente protezionista e politicamente isolazionista) che esistono fra l’elettorato che ha votato Sanders e quello che vota Trump, una vittoria finale di quest’ultimo non può essere esclusa. Fuori dagli Stati Uniti, chi più potrebbe rallegrarsi per il trionfo di Trump sarebbe Vladimir Putin. Trump significherebbe il definitivo affossamento del trattato di libero scambio fra Europa e Stati Uniti. Ma significherebbe, soprattutto, l’apertura di una crisi, la più grave da quando

l’organizzazione esiste, della Nato. Gli Stati Uniti di Trump pretenderebbero, come egli ha già anticipato, un impegno finanziario assai più ampio dell’attuale da parte dei Paesi membri dell’organizzazione. Ma l’America ha sempre accettato fino ad oggi di sopportare gli oneri finanziari maggiori in cambio del riconoscimento della sua leadership da parte degli europei. Un diverso atteggiamento significherebbe rinunciare alla leadership. E poiché i Paesi europei membri della Nato difficilmente potrebbero accedere alle richieste americane, la conseguenza sarebbe una crisi del sistema di sicurezza occidentale. Si sfregherebbero le mani soddisfatti tutti coloro che, da sempre, vogliono sbarazzarsi dell’«impero» americano. Ma si aprirebbe anche una voragine: chi potrebbe, e come, sostituire la Nato come garante della sicurezza europea? Nascerebbe finalmente il famoso «esercito europeo» sognato da sempre dai federalisti spinelliani? Chi conosce lo stato dell’Europa sa che questa è solo un’illusione. In materia di sicurezza, gli europei, senza gli americani, sono in grado di combinare poco o nulla. È anche la ragione per cui Putin brinderebbe a champagne in caso di elezione di Trump. La sua influenza politica sull’Europa (come sul Medio Oriente) si accrescerebbe. I gravissimi problemi economici della Russia non impedirebbero alla più grande potenza militare che incombe sui nostri confini orientali di sfruttare ogni occasione per condizionarci sul piano politico. Per la gioia dei tanti amici europeo-occidentali dell’uomo forte di Mosca. Già duramente provati a causa dell’incapacità di trovare soluzioni condivise nel governo dei flussi migratori, gli europei si troverebbero a dover fronteggiare la peggiore combinazione possibile: i danni economici e politici provocati da Brexit e l’avvento di un presidente americano isolazionista e protezionista. Se ci arrivassero addosso tutte e due le tegole, l’Europa continentale dovrebbe decidere in fretta - prossime elezioni francesi e tedesche permettendo - come riorganizzarsi. Si noti per giunta che una riorganizzazione, che a quel punto dovrebbe anche farsi carico della sicurezza (un tema con cui l’Europa, nonostante Maastricht, non ha alcuna dimestichezza) in una Unione resa ancora più «tedesca» di oggi dall’uscita della Gran Bretagna, richiederebbe di essere condotta con grande tatto e abilità: per non alimentare sentimenti ancora più forti di quelli che già oggi circolano di ostilità per la Germania. Magari poi il fosco scenario sopra immaginato non si realizzerà. La Gran Bretagna resterà nell’Unione (i fautori del Remain vinceranno con un buon margine) e Trump verrà sonoramente sconfitto da Hillary Clinton. L’Europa, allora, continuerà a galleggiare restando così come è oggi ancora per un po’. Pag 3 La settimana di passione dell’Europa di Federico Fubini Comunque vada il referendum sulla Brexit, David Cameron deve aver già capito che ha fallito tutti i suoi calcoli meno uno. Quello che non aveva fatto: trovare uno stratagemma per distrarre i mercati dalle altre trappole di cui è disseminato questo inizio d’estate per l’Europa. Nel 2015 il premier di Londra aveva promesso un referendum sulla rottura britannica con l’Unione Europea, sicuro che non si sarebbe mai tenuto. Credeva che i suoi Tory sarebbero tornati al potere solo in cordata con i liberal-democratici e contava che questi ultimi avrebbero impedito il referendum. I sondaggi, già allora, lo accecavano: il premier ha stravinto, governa da solo e ora deve onorare la promessa. Non ha alcun controllo sugli effetti che essa rischia di avere nel resto d’Europa: per ora fa dimenticare gli altri snodi pericolosi dei prossimi giorni; tra non molto invece potrebbe amplificarne l’impatto. Perché questo referendum non è la sola curva pericolosa dell’estate. Tra tre giorni l’Europa assisterà ai ballottaggi delle amministrative in Italia. Al primo turno il bel risultato delle forze contrarie all’euro era stato accolto sui mercati con un’impennata di dodici punti del costo del debito italiano, ben oltre le medie del Sud Europa in quelle ore. Una vittoria degli euroscettici d’Italia al secondo turno non passerebbe inosservata. Due giorni dopo la Corte costituzionale tedesca decide sulla legittimità delle Omt, l’ombrello della Banca centrale europea che dall’estate 2012 tiene l’Italia e la Spagna al sicuro. Se Karlsruhe vietasse alla Bundesbank di partecipare alle Omt, l’architettura dell’euro ne uscirebbe più fragile. Quindi dopo altri due giorni i britannici vanno alle urne e domenica 26 gli spagnoli rivotano dopo sette mesi di stallo. Podemos, il partito anti-sistema, è già salito dal 20,7% del dicembre scorso al 25,6% degli ultimi sondaggi e potrebbe diventare prima forza in coalizione con i socialisti del Psoe. Infine un disastro ormai in corso (per ora) al rallentatore. Le regole europee sul bail-in, che impone perdite sui creditori, hanno messo in ginocchio il sistema bancario in

Portogallo. Lisbona rischia di dover chiedere un nuovo salvataggio entro l’anno, specie se la Brexit si avverasse gettando nel caos i mercati. Cameron non aveva previsto che la sua trovata avrebbe rischiato d’innescare un altro giro della macchina infernale della crisi. Ma non è il solo ad aver sbagliato tutti i calcoli . Pag 6 Una minoranza tiene in scacco tutto il Paese di Jean-Marie Colombani Dietro violenze e anarchie Vi sta dall’esterno, la Francia sembra sprofondata nel caos, addirittura nell’anarchia, come diceva il generale de Gaulle. Da una parte i dimostranti che non smettono di protestare contro la riforma del diritto del lavoro; dall’altra, orde di teppisti e sovversivi che spaccano tutto quello che trovano sul loro cammino; scioperi a destra e a manca; un nuovo attentato terroristico che ha provocato la morte di un agente di polizia e della sua compagna; e in vista delle partite di Euro 2016, la discesa degli hooligan venuti stavolta dalla Russia per fare a botte con i tifosi inglesi avvinazzati, con pestaggi di una violenza inaudita… Sono immagini, queste, che ovviamente hanno fatto il giro del mondo nelle televisioni e sulle reti dei social e che non invitano affatto, malgrado il grandissimo richiamo turistico della Francia, a venire ad assaporare la sua leggendaria - e oggi forse svanita? - douceur de vivre! Ma la realtà, vissuta dall’interno, è diversa. Anche se ciò che è effettivamente «percepito», come si dice per la meteorologia, non lascia molto spazio all’ottimismo. Vediamo le problematiche per ordine di gravità. Il campionato europeo di calcio si sta svolgendo in un ottimo quadro organizzativo, e ha contribuito a rilanciare l’entusiasmo per la squadra nazionale, anche se non è più, come nel 1998, composta da «giocatori neri e nordafricani». La stragrande maggioranza dei francesi si augura che questa manifestazione rappresenti quanto più possibile una celebrazione dello sport, e al contempo una forza unificatrice per il Paese. Anche se, tra le opposizioni al governo, non mancano coloro che vorrebbero rovinare la festa, per negare a François Hollande e a Manuel Valls il merito di un campionato di calcio riuscito. A dire il vero, esiste un’organizzazione che fa di tutto per rovinare la festa : si tratta della Cgt. Questo sindacato si è messo alla testa della contestazione per respingere la legge del lavoro, la quale propone una riforma assai modesta del codice del lavoro, ma assolutamente indispensabile a un Paese che non riesce a uscire dalla disoccupazione di massa (sempre ferma al 10 percento della popolazione attiva). Se si guarda ai fatti, e non a quanto «percepito» dall’opinione pubblica, queste manifestazioni trovano sempre meno adesioni. Il numero dei manifestanti si riduce e non ha mai raggiunto l’ampiezza, per esempio, delle proteste contro la riforma delle pensioni voluta da Nicolas Sarkozy nel 2010. Gli scioperi a tutto campo indetti dalla Cgt (raffinerie, centrali nucleari, trasporti pubblici, raccolta dei rifiuti) non hanno mai paralizzato il Paese né dato vita a un movimento nazionale come quello del dicembre 1995, nato per contrastare le riforme di Alain Juppé, che era riuscito a paralizzare la Francia. Questo perché ci si è semplicemente dimenticati di una realtà, e cioè che i sindacati ostili sono in minoranza. Gli altri, i sindacati riformisti, primo tra tutti la Cfdt, sono favorevoli alla riforma e a ragion veduta: difatti hanno partecipato alla sua stesura, ottenendo l’introduzione di numerosi e sostanziali emendamenti. Ed eccoci arrivati al nocciolo del problema: la Cgt, fortissima soprattutto nel settore del pubblico impiego, sta per passare in secondo piano, cedendo il passo alla Cfdt, che ben presto diventerà il primo sindacato in Francia. Stiamo perciò assistendo a un tentativo assai patetico per trovare una nuova legittimazione attraverso il lancio di questo movimento. Inoltre, al congresso della Cgt, che si è tenuto all’inizio dell’anno, abbiamo assistito alla disfatta dei riformisti a favore dell’ala di estrema sinistra del sindacato, ormai dominata da un pensiero e da certi riflessi più trotzkisti che comunisti. Questa alleanza del nuovo segretario generale, Philippe Martinez, appoggiato dall’estrema sinistra, ha innescato una radicalizzazione del sindacato che, a mio parere, non farà altro che accelerarne la ritirata. È un’evoluzione, questa, che va di pari passo con la lotta dell’estrema sinistra politica e di coloro che vengono definiti i «ribelli» del partito socialista, i quali hanno giurato una guerra spietata contro François Hollande e Manuel Valls, con l’intento di squalificarli dalle elezioni presidenziali del 2017. Costoro hanno rispolverato gli slogan e i comportamenti tipici dell’estrema sinistra tra le due guerre : il nemico non è più la destra, bensì i «socialtraditori», accusando di tradimento, ovviamente, chiunque sia schierato con la

socialdemocrazia. In primo luogo, quindi, François Hollande. Tutto questo senza prendere minimamente in considerazione il contesto odierno, che è innanzitutto, e soprattutto, dominato dal terrorismo. Al punto tale che, dalla Cgt all’estrema sinistra, passando per i «ribelli», si creano allarmismi per la morte delle libertà civili ogni qualvolta il governo mostra la volontà di rafforzare il suo arsenale giuridico per combattere il terrorismo. L’omicidio di un poliziotto per mano di un simpatizzante dell’Isis è venuto a ricordare al Paese, ahimè, che la massima emergenza resta la lotta al terrorismo. Da questo punto di vista, malgrado la gravità della minaccia e il ricordo delle recenti tragedie del 2015, non resta traccia del sentimento di unità nazionale. L’opposizione, stavolta di destra e di estrema destra, ha preferito reagire alla situazione rincarando la dose. È assai triste constatare come le stesse persone che hanno condannato duramente le prese di posizione di Donald Trump - realmente odiose - dopo la tragedia di Orlando, non si facciano scrupolo ad assumerne gli stessi toni. Nel frattempo, il presidente e il suo governo governano, proseguono nella lotta al terrorismo e fanno segnare, sul fronte economico, numerosi successi che vengono tuttavia eclissati dal rumore di fondo: previsioni di crescita in rialzo, disoccupazione in calo. Ma in che senso siamo davanti a una situazione pericolosa? Perché c’è tensione nell’aria e si avverte un nervosismo strisciante. Perché c’è un’estrema sinistra violenta che tenta, attraverso la provocazione, di innescare scontri dai quali pensa di approfittare, raccogliendo consensi. Ma soprattutto perché il presidente e il governo sono in questo momento molto deboli davanti all’opinione pubblica. L’ordine è quello di tener duro. La riforma del lavoro sarà finalmente varata, ma se si dovesse arrivare a una prova di forza, il presidente potrebbe essere penalizzato a causa della sua impopolarità. Tutti sembrano convinti della vittoria della destra nel 2017. Meglio però essere prudenti: sarebbe un errore credere che i giochi siano già fatti. LA STAMPA Centrosinistra e sindrome dello scorpione di Marcello Sorgi Benché abbia smentito di essere pronto a votare a Roma per la Raggi, aiutando la candidata sindaca del Movimento 5 stelle favorita alla vigilia, non ci sono dubbi su cosa abbia in testa Massimo D’Alema, l’avversario più dichiarato di Renzi nel Pd. D’Alema è sicuro che domenica il premier andrà incontro a una brutta sconfitta nei ballottaggi e già adesso cerchi di scaricare su altri il conto che tocca a lui pagare. Non serve neppure scervellarsi per capire ciò che sta accadendo nel partito del presidente del Consiglio. Se le previsioni della vigilia saranno confermate dai risultati di domenica 19, stiamo per assistere a uno dei più classici suicidi del centrosinistra messi a punto negli ultimi vent’anni, non diverso, forse solo più grave, per coazione a ripetere e compulsività, degne di attenta analisi psicologica. A seguire il percorso storico: nel ’94, dopo la prima sconfitta contro Berlusconi, Occhetto fu fatto fuori dallo stesso D’Alema, che mal tollerò, poi, la nascita dell’Ulivo e la vittoria di Prodi nelle elezioni del ’96, e provvide a liberarsene, per interposto Bertinotti, nell’autunno di due anni dopo. Sostituendosi a lui alla guida del governo, salvo essere deposto nel 2000 da Veltroni, intanto divenuto segretario del Pds, dopo il magro risultato della tornata di regionali su cui il «leader Maximo» si era pure permesso di scommettere. Prodi aveva fatto in tempo a ricandidarsi, nel 2006, e a vincere di nuovo, sebbene stentatamente, le elezioni contro Berlusconi, che il centrosinistra dopo neanche due anni provvedeva ad azzopparlo. Per mano di Mastella, ministro di Grazia e giustizia inquisito dalla stessa magistratura che doveva governare, e abbandonato alla deriva, ma sotto sotto anche di Veltroni, tornato in auge nel 2007 per costruire, sulle ceneri del centro e della sinistra - Margherita e Ds - il Pd. Acclamato nel 2008 come primo candidato premier del nuovo partito unico del centrosinistra, a Veltroni furono fatali la sconfitta contro Berlusconi e un paio di débâcles in successivi mini-test regionali. Dopo i quali, D’Alema già preparava dietro le quinte l’avvento della segreteria Bersani, a sua volta sepolto dalla «non vittoria» come lui stesso la definì, del 2013, e dalla fallimentare gestione della corsa al Quirinale finita con la rielezione di Napolitano. Anche Renzi, che allora era soltanto il sindaco di Firenze, fu accusato in quell’occasione di aver armato una pattuglia di pugnalatori per infoltire la schiera dei franchi tiratori che bloccarono l’elezione di Prodi alla Presidenza della Repubblica. Ma questa dei complotti e dei tradimenti orditi e rinfacciati è una costante

della vicenda del centrosinistra. E se nelle faide degli ultimi anni le impronte dei killer portano sempre a sinistra, la tecnica è spiccatamente democristiana, tal che si può dire che i Democrat degli Anni Duemila sono diventati gli eredi migliori dell’antica tradizione scudocrociata che fino agli ultimi anni del Novecento vedeva riuniti, a Piazza del Gesù o alla Camilluccia, i capicorrente Dc per trovare il modo di eliminare uno dopo l’altro, con minor spargimento di sangue possibile, il segretario e il presidente del Consiglio pro-tempore, e riaprire la partita interna dando le carte di una nuova spartizione del potere. Si dirà che anche il centrodestra a un certo punto si è ammalato di faide interne, consunzione e frammentazione, fino a ridursi a pezzi com’è ridotto e a guardare come un miracolo la riunificazione di Milano sotto l’ombrello del tecnico Parisi. Ma alla crisi dell’ex schieramento berlusconiano non fu estranea quella personale del proprio leader, travolto da scandali personali, condanne giudiziarie, dalla decadenza da senatore imposta dalla legge Severino e alla fine anche dalla frettolosa rinuncia al patto del Nazareno e alla politica delle larghe intese con Renzi, che gli aveva consentito di restare a galla, malgrado le avversità e l’evidente conclusione del suo ciclo politico. Ciò che invece si va delineando nel centrosinistra contiene elementi di novità legati all’evoluzione del quadro politico. A parte la rimarchevole costanza di D’Alema nel ritrovarsi, in situazioni diverse e con qualche annetto in più sulle spalle, nei pressi del patibolo destinato al segretario-premier, a rendere più facili le manovre contro un leader come Renzi, che ha ancora il controllo del partito e del governo, ha contribuito la crisi del bipolarismo e l’avvento del terzo polo rappresentato da M5s. Finché il gioco era centrodestra contro centrosinistra, infatti, e finché l’unico collante di quest’ultimo era rappresentato dall’antiberlusconismo, i complotti nascevano e morivano all’interno dello stesso schieramento, senza o quasi sponde esterne. Mentre adesso, all’ombra dei ballottaggi e degli schieramenti trasversali di avversari interni e esterni, è diventato più semplice colpire Renzi e nascondere subito dopo la mano, scaricando le colpe sull’astensione o sulla destra che vota per i 5 stelle, e spera che gli restituiscano il favore a Milano. Al di là della tecnica facilitata dall’arrivo del tripolarismo, gli effetti, però, come in passato, saranno gli stessi: grazie alla resa nei conti nel partito e alla defezione (o al tradimento verso i 5 stelle) degli elettori di sinistra, il Pd sarà sconfitto a Roma, a Torino e a Milano - più Napoli, dove ha già perso, e magari Trieste, dove rischia molto. Di conseguenza, dovrà lasciare le amministrazioni di grandi città che da tempo controllava, preparandosi a perdere il referendum costituzionale di ottobre, dato che le due anime del partito si presenteranno schierate sugli opposti fronti del Sì e del No, e a tornare presto all’opposizione, dopo la caduta, difficilmente evitabile a quel punto, del governo. AVVENIRE Pag 1 Ridateci Cattani di Marco Tarquinio “Gomorra” e la realtà antimafia Ridateci Cattani. Corrado Cattani, commissario di Polizia, sintesi (tele)visiva della battaglia eroica e feriale degli uomini e delle donne della legge contro la piovra mafiosa. Ridateci la sua vita e anche la sua morte, dure e generose, tenacemente e mai disperatamente indocili al male e alle ragioni che inducono a commetterlo o anche solo a metterlo in scena, comunque questo avvenga. Ridateci don Diana. Don Peppe Diana, prete e scout. Martire vero dell’amore che tutto abbraccia e tutto comprende, e che proprio per questo mai chiude gli occhi sulla sopraffazione malavitosa, mai si rassegna alla violenza che umilia e uccide e nulla, proprio nulla, concede al falso quieto vivere e allo strapotere dei boss. Martire vero dell’amore per Cristo e per un popolo a cui apparterrà per sempre e di cui ha saputo diventare padre. Ridateci Impastato. Peppino Impastato, cronista, poeta, figlio ribelle. Ridateci la sua voce e le sue mani capaci di far lievitare il pane della giustizia. Ridateci il senso della sua caduta sul campo. Come schiacciato dall’odio e dall’ombra immane del sacrificio di Aldo Moro in un 9 maggio insanguinato e divenuto crinale atroce nel nostro tempo civile, e invece no. Invece ancora e sempre in piedi, in faccia ai capi delle cosche, alla testa e nella testa di tutti quelli che resistono. Ridateceli, presto. Ridateceli nei mille e mille nomi e gesti quotidiani di civiltà e di legalità da cui è possibile distillare gesti e nomi che non siano più soltanto i nomi e i gesti di 'Gomorra', che qui neanche vogliamo citare dopo la lunga teoria inanellata dalla seconda serie che ha appena finito di celebrare i suoi fasti televisivi e

'social'. Ridateci Cattani, don Diana, Impastato e con loro e con quelli come loro, che sono tanti e non meno veri di ogni 'malamente' e infinitamente più coraggiosi, ridateci la parte giusta e brutalmente amputata della realtà di un Paese e del suo Sud piagato, certamente, dalle mafie, ma non piegato dentro a una notte di un solo colore, l’abbacinante nerosangue di un universo camorrista che si avvolge su se stesso. Diciamo che è un appello a tutti coloro che scrivono per la televisione e per il cinema, e a tutti coloro che ciò che è scritto traducono in narrazione per immagini e questa narrazione producono e mettono in circolo. Un appello senza esclusioni. Rivolto per cominciare, proprio a coloro che hanno inventato l’epopea orribile e totalitaria dei gomorristi e, tra questi, prima che a ogni altro, a Roberto Saviano (l’inventore del 'marchio' e il primo ideatore della serie) e a Stefano Bises (gran maestro di sceneggiatura, che intervistiamo proprio oggi). Anche se ci è stato fatto sapere che la terza serie di 'Gomorra' resterà ancorata alla formula ipercriminale che ha funzionato sin qui e che si vende bene in tutto il mondo, non rinunciamo a sperare in uno scarto, in un ripensamento, in un colpo di genio. Il genio buono dell’anticamorra. Che non ha muscoli magici, ma umanità e coraggio. Lo scriviamo oggi questo appello, a serie conclusa e a bilanci trionfali già fatti, per non sembrare quelli che lanciano il 'boicottaggio'. Non ci interessa, non vogliamo far mancare neanche uno spettatore a nessuno. Ma non vogliamo nemmeno che in racconti che si insediano nella memoria collettiva e nell’immaginario comune e che viaggiano per il mondo si continui a far mancare un pezzo fondamentale di realtà, la parte luminosa e non meno spettacolare che anche sotto le Vele di Scampia, quelle Vele che 'Gomorra' riconsegna al mito esclusivo e repellente dell’anti- Stato, viene costruita ogni giorno da educatori ed educatrici, sacerdoti e suore, uomini e donne in divisa, volontari, artisti, sportivi, padri e madri di famiglia che non sono camorristi e non vogliono esserlo, che sono cittadini, e cristiani, e uomini e donne giusti. «Non è una questione etico morale, ma di realismo». Michele Placido, il grande attore che diede volto e profondità al personaggio di Corrado Cattani, martedì 14 giugno lo ha detto senza polemiche inutili e senza giri di parole alla nostra Angela Calvini. È lo stesso «realismo» che ha spinto un salesiano come don Antonio Carbone a scrivere a questo giornale per spiegare perché, invece delle immagini e dei versetti «urlanti » del vangelo di 'Gomorra', tra i suoi ragazzi di Torre Annunziata avrebbe continuato a seminare e a raccogliere semi anti-camorra come quelli sparsi durante un incontro con Raffaele Cantone. E questo stesso «realismo», oltre che una commozione e una gratitudine indicibili, ci ha portato a inchinarci – con un editoriale di Antonio Maria Mira – davanti ai carabinieri e ai poliziotti che hanno concretamente frapposto la propria vita, sino a perderla o a vederla sconvolta, tra il male arrogante delle mafie e noi tutti. Tutto questo non si può e non si deve cancellare, neanche per fiction. Pag 2 Giovani migranti, patrimonio da difendere di Sandro Lagomarsini Negare lo status di rifugiati, un errore che va evitato «Vìctimae paschali laudes immolent christiani». Per molti anni ho cantato da solo, nella Messa di Pasqua: «Alla vittima pasquale alzino lodi i cristiani». Quest’anno c’era anche Brandon, con la sua bella pronuncia latina, a domandare con me: «Raccontaci, Maria, che hai visto sulla via?». Può essere orgoglioso, l’anziano missionario irlandese John Jacky Sharp, di questo ragazzo del Gambia che egli ha formato alla fede. A Pentecoste, sempre assieme a Brandon, ho cantato «Veni, Sancte Spiritus»: «Vieni Spirito Santo e manda a noi dal cielo un raggio della tua luce». Con Brandon sono arrivati anche Edy della Costa d’Avorio, Kassimian della Nigeria, Patrick del Ghana. Tutti insieme accanto all’altare, anche se in gradi diversi nel cammino della vita cristiana, hanno testimoniato che il soffio dello Spirito è giunto alle terre che si affacciano sul Golfo di Guinea. Il sabato prima di Pentecoste avevo a scuola Abubakar, il quale in Costa d’Avorio ha frequentato solo la scuola coranica. Vorrei assicurare il suo maestro che egli fa onore al suo nome, perché oggi si impegna a leggere e a scrivere quel francese che già sa parlare. Anche Diakis, che lo zio non ha potuto mandare a scuola quando si è preso cura di lui e dei suoi sei fratelli orfani, ora sta imparando sia l’italiano che la lettura e la scrittura del francese. Ha cominciato a combattere con l’alfabeto pure Maliki, superando la fatica dei suoi 38 anni. A volte, quando passo dal Centro Cri, Bakary è intento alla lettura del Corano; ogni giovedì, assieme a Kader, viene a studiare la Costituzione

italiana. Mohammed, orgoglioso della sua cultura Tamashek, ormai parla anche la nostra lingua; ha ricevuto applausi per la sua partecipazione a un concerto di chitarre e ora sta imparando le canzoni di De André. Ismael, con una frequenza assidua, ha fatto tali progressi da poter tradurre direttamente in italiano, davanti alla Commissione per i rifugiati, le risposte di due ragazzi bambara. Eppure né la padronanza della lingua, né il suo lungo curriculum di studi e lavoro gli danno la sicurezza che la sua domanda sia accolta. Tutti insieme, i pochi cristiani e i molti musulmani, durante lo scorso Natale hanno condiviso la festa con la comunità locale, esibendosi in musiche, balli e ritornelli nella lingua wolof, comune a Senegal e Gambia. Quali errori, quali calcoli sbagliati hanno portato questi giovani a naufragare sulle coste italiane? Fu un calcolo avventato la ricerca del lavoro nella ricca e promettente Libia? È stata colpa loro il disastro politico e militare in cui sono rimasti intrappolati? Non abbiamo, noi, responsabilità sugli eventi che li hanno travolti? In ogni caso, è impossibile non parteggiare per loro, una volta conosciuti i loro volti, i loro nomi, le loro storie. Qualcuno dirà che le mie considerazioni non risolvono i problemi generali dell’immigrazione. Posso concederlo. Con qualche aggiunta. È buona cosa che l’Europa non penalizzi l’Italia per le spese affrontate nella assistenza ai migranti. Ma, oltre a questo, dovrebbe esserci un riconoscimento attivo per questo impegno finanziario e umano, pubblico e privato, che ha già prodotto enormi risultati di integrazione. In un quadro generale di crisi demografica, questi giovani sono diventati patrimonio prezioso per l’Italia e per l’Europa. Perché dunque non trovare una formula che impedisca di scaricarli – negando loro lo status di rifugiati – in una assurda e pericolosa situazione di 'irregolarità'? L’Ufficio 'Migrantes' ha fatto questa stessa richiesta invocando ragioni umanitarie. Penso si possano invocare pure le ragioni di buona politica. IL FOGLIO Pag III Diario dalla persecuzione di Matteo Matzuzzi La fuga da Mosul la salvezza in Kurdistan. Tra i profughi iracheni di Erbil il racconto di mons. Cavina, vescovo embedded: “Il mondo non conosce questo martirio” “Nel mondo non si conosce il martirio che la chiesa in Iraq sta vivendo", dice al Foglio mons. Francesco Cavina, vescovo di Carpi, che lo scorso aprile ha compiuto un viaggio nel Kurdistan iracheno, raccogliendo in un diario le impressioni, i dialoghi, gli incontri avuti in quei quattro giorni che - ammette - hanno lasciato tracce profonde: "Riconsoco che ho ricevuto un dono molto più grande di quello che ho portato; dono che si esprime nella dignità con cui questi fratelli vivono la loro condizione". E' impressionante, spiega il presule, vedere come queste persone "sono grate per tutto quello che ricevono d' aiuto e grati a Dio per aver conservato la loro vita. Ma ancor di più per aver conservato la fede per la quale sono stati disposti a rinunciare a tutto pur di non perdere il vero tesoro della vita che è Cristo e la propria appartenenza al suo corpo mistico, che è la chiesa". La situazione sul terreno è drammatica, l'appello costante è a non essere dimenticati, a non essere lasciati soli. "I cristiani percepiscono un senso profondo di solitudine in quanto con l'avanzare delle milizie jihadiste si sono sentiti traditi dalle istituzioni del governo, ma ancor più dolorosamente da coloro che ritenevano amici, che non solo non li hanno difesi, ma denunciati. E una volta che i cristiani hanno abbandonato le loro case, le hanno occupate. Dei loro beni, hanno fatto razzia". Non vogliono rassegnarsi a essere profughi per sempre; il loro massimo desiderio è di tornare nelle città e nei villaggi in cui sono nati e hanno vissuto. Ricorda, mons. Cavina - che per quindici anni ha lavorato in Segreteria di stato, presso la sezione per i Rapporti con gli stati - ciò che disse Bashar Warda, vescovo di Erbil, durante l' incontro dello scorso 1° aprile: "Io credo che la risposta unica al male sia quella di rimanere e portare il nome di Gesù". C'è quasi paura di spostarsi, anche di abbandonare la sistemazione nel campo profughi, spesso precaria e a volte con condizioni igieniche indescrivibili: "Accanto a strutture ben organizzate, infatti, ce ne sono altre che ricordano un vero girone dell' inferno dantesco", spiega il vescovo di Carpi descrivendo un campo che accoglie circa mille persone e che per servizi igienici ha delle buche scavate nel terreno ricoperte di sassi. "Mi sono sentito angosciato e impotente, alla vista di quelle condizioni". Eppure, non se ne vogliono andare, nonostante a molti sia stata offerta una soluzione migliore. Il motivo del diniego è sempre lo stesso: "Temono diventi una sistemazione definitiva. Loro, però, desiderano

solo ritornare a casa". La persecuzione è nelle parole di quanti l' hanno vissuta. "Il 3 agosto di due anni fa ci hanno detto che dovevamo abbandonare le nostre case perché la situazione qui a Mosul era molto difficile. Tutti i cristiani erano fuggiti e anche noi dovevamo partire", ha raccontato una giovane suora che ha studiato in Italia. "Sono rimasti il prete con tre o quattro giovani per difendere la chiesa. Il 5 agosto è stato ucciso un giovane diacono, ma l'obiettivo era uccidere il prete. Il 6 agosto noi eravamo in una zona vicina a Kilkesh. Alle 11 di notte hanno cominciato a sparare e hanno detto che tutti i cristiani dovevano uscire da quella città perché l'Isis era entrato prima a Qaraqosh e poi a Kilkesh e in altre zone. La situazione era talmente problematica che ci hanno detto di scappare nonostante gli spari". Poi, aggiunge la religiosa, "abbiamo sentito che le nostre case erano state prese dall' Isis". L'impressione che si ha, sottolinea il vescovo di Carpi, "è che lo Stato islamico - e non solo questo - persegua l'obiettivo di eliminare la presenza dei cristiani dal paese costringendoli a emigrare. Si tratterebbe di una violenza che va ben oltre l'aspetto religioso. I cristiani, infatti, non accettano di essere definiti come una minoranza religiosa da tollerare. Rivendicano a pieno diritto, invece, il diritto di cittadinanza". Yohanna Petros Mouche è il vescovo siro-cattolico di Mosul. Oggi, con la sua comunità, è a Erbil, dopo la fuga precipitosa nel 2014. Il pericolo maggiore è la dispersione dei fedeli, l'interrogativo è come sia possibile in questa situazione assicurare un futuro, un lavoro, a quanti sono stati costretti all' esodo dopo che sulle loro case era stato impresso il marchio di "nazareno". "Molti - dice Mouche - non hanno il denaro per seppellire i morti e quindi c'è la necessità di avere cimiteri propri. Un altro problema è il mantenimento dei campi profughi, e poi ci sono le spese per il trasporto degli studenti dai campi profughi alle scuole". Qualcosa si muove, certo: sono stati realizzati due panifici, qualche centro per produrre l'olio di sesamo. Se manca il lavoro, la gente se ne va. A Erbil erano giunti cinquantaduemila cristiani. Oggi sono rimasti trentamila. Il Patriarca caldeo di Baghdad, mar Louis Raphaël I Sako, anch'egli incontrato da Cavina a Erbil (assieme al vescovo di Ventimiglia -Sanremo, mons. Antonio Suetta e al direttore di Aiuto alla Chiesa che soffre - Italia, Alessandro Monteduro), spiega che la vicinanza spirituale è molto più importante dell'aiuto economico. E' una costante, questa, che si può toccare con mano ogni volta che si parla con qualche esponente del clero in Siria o Iraq. Lo stesso affermò, sempre al Foglio, il parroco della cattedrale latina di Aleppo, frate Ibrahim Alsabagh, quando sottolineò la grande esperienza di fede sperimentata mentre le bombe cadevano sulla cupola della chiesa ove si celebrava la messa, lo scorso ottobre. "Non è importante l'aiuto economico, ma l'appoggio umano e spirituale, perché le persone si sentono incoraggiate", osserva Sako. L'immagine più eloquente di questo lo si è avuto entrando alla scuola "L'Annunciazione" delle Suore domenicane di Santa Caterina da Siena, una congregazione di diritto pontificio presente a Ebil. Ricorda mons. Cavina che nell'istituto sono presenti quattrocentotrenta bambini, tutti profughi cristiani. Erano di più, all'inizio. Molte famiglie, però, hanno preferito scappare, cercando futura all'estero. La scuola - gratuita - ha l'obiettivo principale di far dimenticare il dramma vissuto. "I bambini sorridono, sì. Ma nei loro occhi si vede un velo di tristezza", riconosce il vescovo di Carpi. Le suore dell'istituto a Mosul gestivano una scuola materna, un orfanotrofio e una casa per religiose anziane. Dopo la fuga precipitosa, quindici di esse sono morte, sfinite dagli spostamenti avventurosi e dal dolore per aver abbandonato la terra dove avevano sempre operato. I bambini salutano quando vedono entrare degli sconosciuti: "Siamo stati accolti con l'invocazione 'Dio è amore!', e ci hanno quindi cantato una canzone in italiano, 'La stella di Natale'. In un'altra classe hanno pregato l'Angelo di Dio e poi abbiamo partecipato con loro all'adorazione". Bambini che, dopo aver perso tutto, adorano il Santissimo Sacramento, cosa che pare incredibile alle latitudini occidentali avvezze ormai a confrontarsi con una fede divenuta via via sempre più tiepida: "Il Santissimo era esposto su un tavolo rotondo e tutt' attorno erano disposti i bambini in cerchio, con le mani giunte e inghinocchiati all' orientale. Hanno pregato, cantato e sono rimasti in silenzio. Mi ha impressionato - dice mons. Cavina - la loro compostezza e attenzione. Molti pregavano e cantavano a occhi chiusi". A Ozal City, periferia di Ankawa, si sono stabilite settecentottantadue famiglie fuggite da Qaraqosh. Sono siro-cattolici. In ogni casa sono accolte tre famiglie: venti persone con un solo bagno e una sola cucina. Una delle prime cose che hanno fatto al termine della loro peregrinazione è stata costruire la loro chiesa. E' stato messo in piedi anche un asilo. "In stanze di

quattordici metri quadrati, stanno diciannove bambini", dice mons. Cavina, che aggiunge: "Ho chiesto alla responsabile, suor Maria, come riesca a gestire tanti bambini in spazi così ristretti. Mi ha risposto che l'amore e la necessità aguzza il cervello e la creatività". Qaraqosh aveva cinquantamila abitanti. Oggi è deserta. I pochi cristiani rimasti si sono convertiti all' islam o pagano la jyzia, la tassa riservata agli infedeli, antico retaggio ottomano. Intanto, l'appello di Aiuto alla Chiesa che soffre-Italia lanciato sul Foglio la scorsa settimana affinché anche il Parlamento del nostro paese riconosca il genocidio in corso continua a registrare adesioni (sono già decine i deputati e i senatori che hanno sottoscritto la richiesta). Anche l'arcivescovo siro-cattolico di Mosul, mons. Mouche, ha sposato la causa: "Chiedo personalmente al governo italiano di aiutarci, attraverso il riconoscimento ufficiale del genocidio, a tornare nelle nostre terre e a continuare a vivere nel nostro paese. Ringrazio Dio - ha aggiunto - che tante persone e alcune istituzioni abbiano finalmente iniziato a riconoscere quanto è accaduto alla nostra comunità, che è un autentico genocidio. Per conservare la nostra fede abbiamo lasciato tutto: le nostre case, i nostri averi. I jihadisti hanno distrutto il nostro patrimonio storico, religioso e culturale, hanno impedito ai nostri bambini di tornare a scuola, vietano la celebrazione della liturgia in molte aree storicamente cristiane. Per noi questo è un grande genocidio", ha proseguito il presule. A giudizio di mons. Mouche, se più paesi riconoscono il genocidio, ciò potrà contribuire a mettere più pressione sul governo iracheno affinché lavori per proteggere con più vigore le minoranze oggi minacciate. Solo così, insomma, Baghdad potrebbe impegnarsi "maggiormente ad aiutarci a tornare nei nostri villaggi, a ricostruire le case distrutte e a garantirci sicurezza. Se non fosse stato per la chiesa locale e per quanti ci hanno aiutato - ha aggiunto - queste persone non avrebbero di che vivere". Nei giorni scorsi, era stato il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio consiglio per il Dialogo interreligioso ad appoggiare l'iniziativa: "I cristiani vengono uccisi, minacciati, ridotti al silenzio o cacciati via, con le chiese che vengono distrutte o rischiano di trasformarsi in musei. Il cristianesimo rischia di non essere più presente, proprio nella terra in cui è nata la fede di Cristo. Nel 1910, il venti per cento della popolazione mediorientale era cristiana. Ora è meno del quattro per cento. Evidentemente - sottolineava ancora Tauran - c'è un piano d'azione per cancellare il cristianesimo dal medio oriente e questo può chiamarsi (o quantomeno richiamare) il genocidio". LA NUOVA Pag 1 Elezioni guidate dalle paure di Fabio Bordignon Il primo motore del comportamento di voto sembra, ormai, sempre lo stesso: la paura. Più precisamente, le paure. Paure di segno diverso, che possono portare ad esiti diametralmente opposti: il successo del variegato fronte dei populismi, oppure la conferma di un altrettanto eterogeneo fronte della stabilità. È un confronto che sta emergendo in diversi paesi, in Europa e fuori dal vecchio continente. E potrebbe risultare determinante negli appuntamenti elettorali dei prossimi giorni: dai ballottaggi di domenica al referendum sulla Brexit. È la paura a formare il terreno comune sul quale, da un po’ di tempo e un po’ in tutte le democrazie, prosperano nuovi soggetti politici, antagonisti e radicali. La paura connessa alla crisi economica. E alla presenza straniera. La paura che si trasforma in rabbia nei confronti della politica e delle istituzioni. È quanto sta accadendo nel Regno Unito, i cui cittadini sono chiamati a pronunciarsi sul divorzio dall’Ue. Una prospettiva che, però, a sua volta, produce paura. La Brexit: spaventa i mercati e, di riflesso, spaventa i cittadini. Preoccupati per le conseguenze di quello che, su molti aspetti, si presenta come un salto nel buio. Del quale è difficile calcolare – anche solo immaginare – i rischi, e le possibili conseguenze. In situazioni come queste, le incognite connesse alla defezione possono pesare. Più del desiderio di abbattere il sistema. Avendo come esito la riconferma degli assetti pre-esistenti. E degli attori che se ne fanno garanti. È una dinamica che abbiamo già osservato in altre occasioni, quando le forze populiste sembravano sul punto di tagliare i propri traguardi. Una parte degli elettori che, in precedenza, avevano alimentato l’onda della protesta alla fine hanno esitato. Guidati dalla prudenza. E dalla paura. È successo in Austria, in occasione del ballottaggio delle recenti presidenziali. È successo in Francia, all’epoca delle ultime regionali, quando l’avanzata del Front Natonal ha trovato la strada sbarrata dalla

ricomposizione di un fronte repubblicano. In Italia, il primo turno delle Comunali sembra avere determinato uno svolgimento quasi opposto. Salvini prova a vestire i panni del Berlusconi dei primi anni Novanta – ai tempi dell’endorsement a Gianfranco Fini nella corsa per il Campidoglio – dando il proprio appoggio alle candidate grilline a Roma e Torino. Nel frattempo, attorno ai candidati 5S – ma anche a quelli leghisti o della sinistra-sinistra, come De Magistris a Napoli – sembrano potersi saldare populismi di ogni colore politico. Se non un fronte anti-repubblicano, sicuramente un fronte anti-establishment. E anti-renziano. La spinta all’aggregazione, tuttavia, è visibile anche sul versante opposto: all’interno dell’(ipotetico) schieramento anti-populista. Se Forza Italia conferma (per il momento) l’archiviazione del patto del Nazareno, l’ex-candidato berlusconiano a Roma, Bertolaso, annuncia il proprio sostegno al democratico Giachetti. Così come il forzista Osvaldo Napoli, a Torino, si schiera per Fassino. Nel frattempo, i candidati Pd puntano il dito contro l’inesperienza degli avversari, ne denunciano l’inadeguatezza e l’avventurismo, il potenziale isolamento nazionale. Arrivano a ventilare – come ha fatto Maria Elena Boschi – l'interruzione dei finanziamenti statali per i comuni “ribelli”. Stesso schema di gioco in vista del Referendum di ottobre, quando – rimarca Renzi, minacciando le proprie dimissioni – un successo del No aprirebbe una nuova fase di instabilità politica e turbolenze economiche. Assistiamo, così, al confronto tra paure di segno diverso. Dietro alle quali si scorgono nuove fratture. E nuovi schemi politici. Di fronte alla scheda del ballottaggio, gli elettori potrebbero – forse – sentirsi più “liberi” di mandare un (ulteriore) segnale di rottura. Ma, quando in gioco ci saranno gli equilibri nazionali, le cose potrebbero in parte cambiare. La partita è solo all’inizio. Ma una previsione è – forse – già possibile: a spuntarla, nel medio-lungo periodo, sarà chi riuscirà ad suggerire uno spiraglio. Oltre le opposte paure.