Rassegna stampa 11 dic 2017 - patriarcatovenezia.it · IL GAZZETTINO DI VENEZIA di venerdì 8...

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 11 dicembre 2017 SOMMARIO Il più bel complimento a Maria è riconoscerla «piena di grazia». Il peccato? «Rende vecchi perché sclerotizza il cuore». Sono alcune delle parole del Papa prima della preghiera mariana dell’Angelus dell’8 dicembre scorso. Eccole per esteso: “Oggi contempliamo la bellezza di Maria Immacolata. Il Vangelo, che narra l’episodio dell’Annunciazione, ci aiuta a capire quello che festeggiamo, soprattutto attraverso il saluto dell’angelo. Egli si rivolge a Maria con una parola non facile da tradurre, che significa “colmata di grazia”, “creata dalla grazia”, «piena di grazia». Prima di chiamarla Maria, la chiama piena di grazia, e così rivela il nome nuovo che Dio le ha dato e che le si addice più del nome datole dai suoi genitori. Anche noi la chiamiamo così, ad ogni Ave Maria. Che cosa vuol dire piena di grazia? Che Maria è piena della presenza di Dio. E se è interamente abitata da Dio, non c’è posto in lei per il peccato. È una cosa straordinaria, perché tutto nel mondo, purtroppo, è contaminato dal male. Ciascuno di noi, guardandosi dentro, vede dei lati oscuri. Anche i più grandi santi erano peccatori e tutte le realtà, persino le più belle, sono intaccate dal male: tutte, tranne Maria. Lei è l’unica “oasi sempre verde” dell’umanità, la sola incontaminata, creata immacolata per accogliere pienamente, con il suo “sì”, Dio che veniva nel mondo e iniziare così una storia nuova. Ogni volta che la riconosciamo piena di grazia, le facciamo il complimento più grande, lo stesso che le fece Dio. Un bel complimento da fare a una signora è dirle, con garbo, che dimostra una giovane età. Quando diciamo a Maria piena di grazia, in un certo senso le diciamo anche questo, al livello più alto. Infatti la riconosciamo sempre giovane, perché mai invecchiata dal peccato. C’è una sola cosa che fa davvero invecchiare, invecchiare interiormente: non l’età, ma il peccato. Il peccato rende vecchi, perché sclerotizza il cuore. Lo chiude, lo rende inerte, lo fa sfiorire. Ma la piena di grazia è vuota di peccato. Allora è sempre giovane, è «più giovane del peccato», è «la più giovane del genere umano». La Chiesa oggi si complimenta con Maria chiamandola tutta bella, tota pulchra. Come la sua giovinezza non sta nell’età, così la sua bellezza non consiste nell’esteriorità. Maria, come mostra il Vangelo odierno, non eccelle in apparenza: di semplice famiglia, viveva umilmente a Nazaret, un paesino quasi sconosciuto. E non era famosa: anche quando l’angelo la visitò nessuno lo seppe, quel giorno non c’era lì alcun reporter. La Madonna non ebbe nemmeno una vita agiata, ma preoccupazioni e timori: fu «molto turbata», dice il Vangelo, e quando l’angelo «si allontanò da lei», i problemi aumentarono. Tuttavia, la piena di grazia ha vissuto una vita bella. Qual era il suo segreto? Possiamo coglierlo guardando ancora alla scena dell’Annunciazione. In molti dipinti Maria è raffigurata seduta davanti all’angelo con un piccolo libro in mano. Questo libro è la Scrittura. Così Maria era solita ascoltare Dio e intrattenersi con Lui. La Parola di Dio era il suo segreto: vicina al suo cuore, prese poi carne nel suo grembo. Rimanendo con Dio, dialogando con Lui in ogni circostanza, Maria ha reso bella la sua vita. Non l’apparenza, non ciò che passa, ma il cuore puntato verso Dio fa bella la vita. Guardiamo oggi con gioia alla piena di grazia. Chiediamole di aiutarci a rimanere giovani, dicendo “no” al peccato, e a vivere una vita bella, dicendo “sì” a Dio” (a.p.) 1 – IL PATRIARCA LA NUOVA di sabato 9 dicembre 2017 Pag 22 Il monito di Moraglia: “Non accontentavi degli slogan politici” di Nadia De Lazzari Il Patriarca: triste vedere persone che hanno preso commiato dall’idealità vera, dobbiamo imparare ad insegnare ai giovani. Azione cattolica, tutte le nomine dei presidenti

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 11 dicembre 2017

SOMMARIO

Il più bel complimento a Maria è riconoscerla «piena di grazia». Il peccato? «Rende vecchi perché sclerotizza il cuore». Sono alcune delle parole del Papa prima della preghiera mariana dell’Angelus dell’8 dicembre scorso. Eccole per esteso: “Oggi contempliamo la bellezza di Maria Immacolata. Il Vangelo, che narra l’episodio

dell’Annunciazione, ci aiuta a capire quello che festeggiamo, soprattutto attraverso il saluto dell’angelo. Egli si rivolge a Maria con una parola non facile da tradurre, che

significa “colmata di grazia”, “creata dalla grazia”, «piena di grazia». Prima di chiamarla Maria, la chiama piena di grazia, e così rivela il nome nuovo che Dio le ha dato e che le si addice più del nome datole dai suoi genitori. Anche noi la chiamiamo così, ad ogni Ave Maria. Che cosa vuol dire piena di grazia? Che Maria è piena della

presenza di Dio. E se è interamente abitata da Dio, non c’è posto in lei per il peccato. È una cosa straordinaria, perché tutto nel mondo, purtroppo, è contaminato dal male.

Ciascuno di noi, guardandosi dentro, vede dei lati oscuri. Anche i più grandi santi erano peccatori e tutte le realtà, persino le più belle, sono intaccate dal male: tutte, tranne Maria. Lei è l’unica “oasi sempre verde” dell’umanità, la sola incontaminata,

creata immacolata per accogliere pienamente, con il suo “sì”, Dio che veniva nel mondo e iniziare così una storia nuova. Ogni volta che la riconosciamo piena di grazia, le facciamo il complimento più grande, lo stesso che le fece Dio. Un bel complimento

da fare a una signora è dirle, con garbo, che dimostra una giovane età. Quando diciamo a Maria piena di grazia, in un certo senso le diciamo anche questo, al livello più alto. Infatti la riconosciamo sempre giovane, perché mai invecchiata dal peccato. C’è una sola cosa che fa davvero invecchiare, invecchiare interiormente: non l’età,

ma il peccato. Il peccato rende vecchi, perché sclerotizza il cuore. Lo chiude, lo rende inerte, lo fa sfiorire. Ma la piena di grazia è vuota di peccato. Allora è sempre

giovane, è «più giovane del peccato», è «la più giovane del genere umano». La Chiesa oggi si complimenta con Maria chiamandola tutta bella, tota pulchra. Come la sua

giovinezza non sta nell’età, così la sua bellezza non consiste nell’esteriorità. Maria, come mostra il Vangelo odierno, non eccelle in apparenza: di semplice famiglia,

viveva umilmente a Nazaret, un paesino quasi sconosciuto. E non era famosa: anche quando l’angelo la visitò nessuno lo seppe, quel giorno non c’era lì alcun reporter. La Madonna non ebbe nemmeno una vita agiata, ma preoccupazioni e timori: fu «molto

turbata», dice il Vangelo, e quando l’angelo «si allontanò da lei», i problemi aumentarono. Tuttavia, la piena di grazia ha vissuto una vita bella. Qual era il suo

segreto? Possiamo coglierlo guardando ancora alla scena dell’Annunciazione. In molti dipinti Maria è raffigurata seduta davanti all’angelo con un piccolo libro in mano.

Questo libro è la Scrittura. Così Maria era solita ascoltare Dio e intrattenersi con Lui. La Parola di Dio era il suo segreto: vicina al suo cuore, prese poi carne nel suo

grembo. Rimanendo con Dio, dialogando con Lui in ogni circostanza, Maria ha reso bella la sua vita. Non l’apparenza, non ciò che passa, ma il cuore puntato verso Dio fa bella la vita. Guardiamo oggi con gioia alla piena di grazia. Chiediamole di aiutarci a rimanere giovani, dicendo “no” al peccato, e a vivere una vita bella, dicendo “sì” a

Dio” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA LA NUOVA di sabato 9 dicembre 2017 Pag 22 Il monito di Moraglia: “Non accontentavi degli slogan politici” di Nadia De Lazzari Il Patriarca: triste vedere persone che hanno preso commiato dall’idealità vera, dobbiamo imparare ad insegnare ai giovani. Azione cattolica, tutte le nomine dei presidenti

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IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 9 dicembre 2017 Pag XVII Il Patriarca oggi a Oriago LA NUOVA di venerdì 8 dicembre 2017 Pag 23 San Camillo, Moraglia vicino ai lavoratori di Francesco Furlan Dopo il vertice in prefettura, ieri l’incontro con i rappresentanti sindacali. L’ipotesi Villa Salus 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 10 dicembre 2017 Pag VIII Chiesa gremita di bimbi per incontrare San Nicolò di L.M. Pag X Pronto il presepe per la chiesa di Carpenedo di Filomena Spolaor LA NUOVA di domenica 10 dicembre 2017 Pag 30 Sospese fino a Natale le messe in latino nella chiesa di Oriago di a.ab. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 9 dicembre 2017 Pag XVI Don Luigi: “Fatta la cosa giusta, basta cattiverie” di Luisa Giantin Il parroco di Gambarare: “Ospitati nell’emergenza” Pag XXVIII Salesiani, un secolo di storia a Venezia di Lorenzo Mayer A Castello si sono concluse le celebrazioni per il centenario, racchiuso in un libro LA NUOVA di sabato 9 dicembre 2017 Pag 25 La parrocchia adotta i terremotati di Rubina Bon Tre famiglie sostenute dalla comunità della Beata Vergine Addolorata. Domani un concerto Pag 30 Piove, salta la processione. Madonna dei Cavai in chiesa di a.ab. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di venerdì 8 dicembre 2017 Pag V In Basilica ordinati due nuovi diaconi di A.Spe. Pag VIII Castello, la festa per il centenario dei Salesiani di L.M. LA NUOVA di venerdì 8 dicembre 2017 Pag 32 “Madonna dei cavai”, oggi la processione a Gambarare tra religione e storia di a.ab. 3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 29 Dal sisma alla camorra le battaglie di don Riboldi, un vescovo di strada di Luigi Accattoli AVVENIRE di domenica 10 dicembre 2017 Pag 18 Il “Padre Nostro”, ecco come cambia in italiano di Mimmo Muolo e Daniele Zappalà Betori: traduzione Cei nel senso chiesto dal Papa. In Francia la novità è arrivata con l’Avvento Pag 19 “Amoris laetitia” si applica così. Via libera del Papa di Luciano Moia “Magistero ufficiale” le linee guida elaborate dai vescovi argentini Pag 23 Radcliffe. Credere, anche nel tempo incerto di Monica Mondo Dialogo con il domenicano inglese intorno al concetto di fede trattato nel suo ultimo libro “Il bordo del mistero”

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CORRIERE DELLA SERA di domenica 10 dicembre 2017 Pag 1 Il “Padre Nostro” nel destino di tutti di Emanuele Trevi Il Papa, la preghiera Pag 1 I complimenti all’inviato del Tg1. Il Papa e la lezione di comunicazione di Gian Guido Vecchi AVVENIRE di sabato 9 dicembre 2017 Pag 17 L’Angelus: “Non è l’età che invecchia, ma il peccato” IL FOGLIO di sabato 9 dicembre 2017 Pag XII Cristo sempre più a Est di Matteo Matzuzzi E’ l’Asia la sfida per la chiesa del Terzo millennio. Un continente immenso dove i cristiani sono ancora una minoranza quasi invisibile CORRIERE DELLA SERA di sabato 9 dicembre 2017 Pag 23 Il degrado della capitale, la preghiera di Francesco di Gian Guido Vecchi Pag 25 Non lasciarci cadere di Adriano Celentano Riflessione sulla frase “sbagliata” del Padre Nostro LA REPUBBLICA di sabato 9 dicembre 2017 Pag 26 L’inviato del Papa firma la svolta su Medjugorje: culto autorizzato di Paolo Rodari 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO IL GAZZETTINO Pag 1 Quei cinque “no” non negoziabili con i propri figli di Alessandra Graziottin CORRIERE DELLA SERA di sabato 9 dicembre 2017 Pag 1 Statalismi di ritorno in economia di Francesco Giavazzi Promesse ed elezioni AVVENIRE di venerdì 8 dicembre 2017 Pag 1 Non è un’Italia per giovani di Leonardo Becchetti Crescente miseria e giusti rimedi 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA di domenica 10 dicembre 2017 Pag 30 “Accogliere i profughi grande gesto di umanità” di Alessandro Abbadir IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 9 dicembre 2017 Pag IX Trivignano, writer in chiesa LA NUOVA di sabato 9 dicembre 2017 Pag 25 Chiusi 26 e 1 gennaio? «Elemosina» di Marta Artico Centri commerciali, don Torta: «Vogliono solo rifarsi la verginità». Ieri maxi store presi d'assalto Pag 26 Vandali a Trivignano, chiesa imbrattata di Simone Bianchi La scoperta ieri mattina nella parrocchia di San Pietro, lo sconcerto del parroco e dei fedeli Pag 35 Con il presepe di sabbia progetti per tutto il mondo di Giovanni Cagnassi Ieri l’apertura a Jesolo di “Sand Nativity”

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CORRIERE DEL VENETO di venerdì 8 dicembre 2017 Pag 9 Basilica, salta-code più caro per i restauri e la sicurezza. Ztl e ticket: record 100 milioni di Gi.Co e G.B. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di venerdì 8 dicembre 2017 Pag VI Un piano per salvare le opere d’arte dalle catastrofi di Giorgia Pradolin Protocollo tra più enti per intervenire nel salvataggio del patrimonio culturale Pag VI Mosaici e colonne, S. Marco rovinata da sale e turisti Tesserin: “Puntiamo a incrementare le visite prenotate con ticket” LA NUOVA di venerdì 8 dicembre 2017 Pag 21 “Il ticket è una forma di sicurezza” di Enrico Tantucci Il vicepresidente di Chorus favorevole al biglietto per prenotare l’entrata alla Basilica di San Marco 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO di domenica 10 dicembre 2017 Pag 3 Statuine, laboratori e un mini villaggio. Natale nelle scuole, è l’anno dei presepi di Gloria Bertasi Anticipate (di fatto) le direttive regionali Pag 9 Si getta nel vuoto a quindici anni. Il messaggio che turba: “Non conto” di Alessandro Macciò Torreglia, un lungo sms prima dell’addio. L’incredulità dei genitori: “C’è altro” Pag 9 Caro Dimitri, tu ci sei e ci servi ancora di Giovanni Montanaro IL GAZZETTINO di sabato 9 dicembre 2017 Pagg 2 – 3 L’addio di Dimitri: “Mi spiace lasciarvi, ma non so che fare” di Eugenio Garotto e Federica Cappellato L’ultimo messaggio inviato alla famiglia prima di lanciarsi nel vuoto. “Uno scritto agghiacciante, non è stato un atto impetuoso” … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il mercato e quel bacino di ostilità di Angelo Panebianco La soglia del 30% Pag 1 E se la Brexit fosse un’occasione? di Sergio Romano L’Europa e Londra Pag 1 “Gerusalemme non è solo mia” di Eshkol Nevo Non c’è futuro senza compromessi e senza vedere gli altri Pag 22 Il gelicidio di Paolo Virtuani Che cos’è e quando si verifica IL GAZZETTINO Pag 1 La corsa al voto e il vuoto di idee di Alessandro Campi LA NUOVA Pag 1 Liberi tutti, le piroette dei candidati di Francesco Jori CORRIERE DELLA SERA di domenica 10 dicembre 2017 Pag 1 I doni all’Europa di Trump di Franco Venturini L’unità per reazione

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Pag 1 Il rischio di non cogliere il segno dei nostri tempi di Antonio Polito Il sottosuolo e la nuova arena AVVENIRE di domenica 10 dicembre 2017 Pag 2 Antidoto al fascismo è l’educazione di Umberto Folena Irruzioni, provocazioni e consapevolezze da ritrovare Pag 3 La paranoia di uno, il cinismo di molti di Ferdinando Camon A proposito di delitti (facili ed economici) col tallio CORRIERE DEL VENETO di domenica 10 dicembre 2017 Pag 1 Serve una naja per gli immigrati di Paolo Costa Accogliere e selezionare IL GAZZETTINO di domenica 10 dicembre 2017 Pag 1 Così la mossa di Trump rafforzerà il ruolo di Putin di Romano Prodi LA NUOVA di domenica 10 dicembre 2017 Pag 1 Il futuro imprevedibile dei partiti di Fabio Bordignon Pag 1 Gerusalemme, Trump cambia le priorità di Gigi Riva Pag 4 La rimozione del passato che ha ingrossato il mare di Renzo Guolo LA REPUBBLICA di sabato 9 dicembre 2017 Pag 1 La minaccia che arriva dal passato di Ilvo Diamanti AVVENIRE di sabato 9 dicembre 2017 Pag 1 Nulla è facile né lo sarà di Giorgio Ferrari Via Morbida (per ora) alla Brexit Pag 3 Nella cura il vero criterio è la giusta proporzione di Roberto Colombo Ancora sull’intervento del Papa e il dibattito sul fine vita IL GAZZETTINO di sabato 9 dicembre 2017 Pag 1 Cosa insegna alla sinistra il confronto Italia – Germania di Luca Ricolfi LA NUOVA di sabato 9 dicembre 2017 Pag 1 Renzi cerca consensi senza alleati di Bruno Manfellotto CORRIERE DELLA SERA di venerdì 8 dicembre 2017 Pag 1 L’esperienza che serve in politica di Francesco Verderami La fuga dal Palazzo IL GAZZETTINO di venerdì 8 dicembre 2017 Pag 1 L’isolamento di Renzi non va sopravvalutato di Bruno Vespa LA NUOVA di venerdì 8 dicembre 2017 Pag 1 La pulsione destrorsa di Salvini di Mariano Maugeri Pag 2 E’ fascismo risorgente, non semplice folklore di Vittorio Emiliani Pag 10 Una logica delirante oltre la solitudine di Corrado De Rosa

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1 – IL PATRIARCA LA NUOVA di sabato 9 dicembre 2017 Pag 22 Il monito di Moraglia: “Non accontentavi degli slogan politici” di Nadia De Lazzari Il Patriarca: triste vedere persone che hanno preso commiato dall’idealità vera, dobbiamo imparare ad insegnare ai giovani. Azione cattolica, tutte le nomine dei presidenti «Siate politici; non faccio discorsi partitici. Vi raccomando l'attenzione alla città e l'impegno sociale e politico. È triste vedere delle persone che hanno preso il commiato dall'idealità vera, si sono ripiegate su se stesse e poi ripetono degli slogan. La politica, i politici ci abituano agli slogan ma siamo tutti politici, siamo tutti uomini. È facile ripiegare su degli slogan». Un patriarca Moraglia "politico" esigente, ieri, nella ricorrenza della solennità dell'Immacolata Concezione e nella Festa dell'Adesione dell'Azione Cattolica diocesana. La sua voce e il suo monito si sono elevati forti tra le volte musive della Basilica di San Marco gremita da oltre ottocento persone. A loro il presule ha consegnato punti importanti richiamando al dovere e alle responsabilità: «Vorrei, scandendole bene, che queste parole dette e vissute fossero anche oggetto di un esame di coscienza: apertura, interiorità, ecclesialità, gratuità, fraternità» . Su quest'ultima parola il Patriarca ha annotato: «Con tutti o con qualcuno? Escludendo qualcuno? Perché a turno diciamo: con quello no». Poi sulla responsabilità ha detto: «Dobbiamo essere capaci di testimoniare che le scelte sono faticose, talvolta ci vedono soli; è qualcosa che noi dobbiamo insegnare con la vita ai giovani. Deve diventare uno stile di vita. Cominciamo ad essere uomini e donne dei comandamenti». Una riflessione sul termine "gratitudine" . «Espressa agli altri è un modo di aiutarli, di aiutarci, di incoraggiarci», ha spiegato il Patriarca. Nell'elenco del presule anche le parole "rispetto e amore per il creato". «Vi auguro di scoprire le fonti francescane, il vero San Francesco che non era un ecologista. Vi auguro di avere quell'amore e quel rispetto per il creato che è espressione di una fede viva, che sa anche arrivare ai problemi ambientali e alle giuste politiche ambientali ma che nasce dal vero amor per il creato». Sul "dialogo" Moraglia si è soffermato a lungo precisando: «Quando non abbiamo da difendere una posizione è libero e permette l'incontro. L'aderente all'Azione Cattolica va là dove l'uomo vive. Ci deve andare in modo mariano con franchezza, audacia, libertà interiore» . Infine sul peccato ha osservato che «blocca le relazioni con Dio, il prossimo, se stessi. Fa vedere il bene ma fa obbedire ad un'altra legge. Il peccato ci porta ad autoassolversi, autogiustificarci». Nell'omelia il Patriarca ha ringraziato il presidente dell'Azione Cattolica diocesana Alessandro Molaro e i 1.200 iscritti. «Siete l'associazione che esprime una vicinanza, una realtà ecclesiale piena. È la vostra storia che lo dice. La vostra è una sfida e come tutte le sfide è qualcosa di difficile che, però, il nostro tempo ci richiede». A conclusione della messa una preghiera davanti alla Madonna Nicopeia. Nel giorno della "Festa dell'Adesione" dell'Azione cattolica veneziana (1.200 iscritti) il Patriarca ha consegnato le nomine triennali ai 21 presidenti parrocchiali e interparrocchiali. Lido: Marina Bada (gruppo interparrocchiale Sant'Antonio). Chirignago: Roberta Barbacane (San Giorgio martire). Stretti di Eraclea: Elisa Basso (San Tiziano Vescovo). Eraclea: Maria Antonella Bortoluzzo (Santa Maria Concetta). Mestre: Riccardo Bressan (Santa Maria del Carmelo), Gianluca De Mattia (San Marco evangelista), Chiara Guerra Galluzzi (Sacro Cuore di Gesù), Valentina Manente (San Giuseppe), Silvia Marchiori (Santa Barbara), Luca Planchenstainer (San Pietro Orseolo). Trivignano: Sonia Cecchinato (San Pietro Apostolo). Campalto: Daniele Conte (Santi Martino e Benedetto). Venezia: Paolo Da Ponte (gruppo interparrocchiale centro), Anna Tagliapietra (Unità Pastorale Dorsoduro). Favaro: Elisabetta D'Ambrosi (S. Leopoldo), Lisa Pasqualato (S. Pietro), Giovanni Stocco (S.Andrea); Quarto: Angelina Donà (S. Michele). Marghera: Michela Iannoli (S.Antonio). Oriago: Valeria Manderano (S. Maria Maddalena). Dese: Chiara Traversari (Natività). IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 9 dicembre 2017 Pag XVII Il Patriarca oggi a Oriago

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Tre settimane fa l'arrivo di 200 migranti a Mira. La prossima settimana se ne discuterà in consiglio comunale ma nel frattempo don Luigi Casarin, parroco di Gambarare, ha deciso di dire la sua con un intervento nel bollettino parrocchiale. A Gambarare sono stati ospitati in sala parrocchiale, nella notte tra giovedì 16 e venerdì 17 novembre, 55 richiedenti asilo poi, per le due notti successive altri 18 che sono stati ricollocati in altri centri nella giornata di lunedì 20 novembre. Tra le tante polemiche a Gambarare, attraverso i social, è stato proposto di boicottare il catechismo dei bambini e anche la Messa domenicale. «Credo, anzi crediamo - dice don Luigi riferendosi alla trentina di volontari presenti in quei giorni - di aver fatto una cosa giusta e buona in presenza di un'emergenza. Verso le 13 di giovedì il Comune mi ha chiesto di poter ospitare in parrocchia il gruppo di richiedenti asilo. Ho escluso categoricamente di ospitarli in chiesa e nelle aule del catechismo offrendo la possibilità di accoglierne una cinquantina nel salone del piano terra del Patronato sotto la responsabilità del Prefetto e della Questura. Quindi informo il Patriarca che appoggia questa mia disponibilità e chiede di fare altrettanto alle altre parrocchie del vicariato». Don Luigi ricorda la collaborazione degli Scout, del Gruppo Famiglie, di alcuni giovani e genitori, dell'associazione Dedalo che supportano l'accoglienza. «I profughi che si presentano come persone educate rispettose amabili afferma don Luigi - sono fratelli tra i più poveri e diseredati. Peccato che l'ostacolo della lingua impedisca di dialogare con loro. Pochissimi conoscono l'italiano». Ma don Luigi parla anche del rovescio della medaglia e di quelle polemiche sui social che ancora si trascinano. «Alcune persone hanno manifestato il loro dissenso scrivendo su Facebook e WhatsApp con ricostruzioni fantasiose di questa accoglienza commenta don Luigi - con valutazioni e preoccupazioni banali, sciocche e al limite dell'offensivo. Purtroppo la facilità di comunicare con questi strumenti fa perdere a molte persone il senso dell'obiettività e del rispetto. Una signora ci ha accusato di ospitare in patronato i profughi di non aver ospitato le vittime di tornado di qualche anno fa. Vorremmo informare questa cara signora che il patronato era stato messo immediatamente a disposizione ma non è stato necessario accogliere questi amici. Ad altre affermazioni non rispondo, tanto sono state banali, cattive e irrispettose. Qualcuno forse ha dimenticato la propria Fede commenta il parroco di Gambarare - Noi abbiamo risposto solo ad una emergenza. La parrocchia non può diventare un centro di accoglienza per i profughi». LA NUOVA di venerdì 8 dicembre 2017 Pag 23 San Camillo, Moraglia vicino ai lavoratori di Francesco Furlan Dopo il vertice in prefettura, ieri l’incontro con i rappresentanti sindacali. L’ipotesi Villa Salus Lido. Il Patriarcato di Venezia non è nelle condizioni di poter intervenire direttamente per acquisire la struttura in caso di cambio di proprietà, ma si augura che si individui presto una soluzione chiara, sia per il San Camillo che per i lavoratori e le loro famiglie. E' questo il messaggio che ieri il patriarca Francesco Moraglia ha voluto lanciare ai rappresentanti sindacali che gli avevano chiesto un incontro per porre all'attenzione della chiesa veneziana la questione del futuro dell'ospedale religioso gestito dai padri Camilliani. Il patriarca ha ascoltato con attenzione i rappresentanti dei lavoratori (Daniele Giordano della Cgil-Fp, Carlo Alzetta della Cisl-Fp e Pietro Polo della Uil-Fpl) che hanno sollevato le loro preoccupazioni relativamente alla vendita, al mantenimento dei posti di lavoro e della struttura nel luogo in cui è adesso, agli Alberoni. E ha dimostrato la sua vicinanza ai lavoratori e alle loro famiglie. Non si è sbilanciato oltre, anche se è probabile che - come è nella volontà del Vaticano - guardi con favore alla possibilità che l'ospedale possa restare nell'ambito della chiesa, con la gestione di un ordine religioso diverso da quello dei Camilliani. Come noto le proposte sul tavolo dei padri camilliani sono due. La prima - sulla quale nell'incontro di mercoledì con la prefettura sono stati molti abbottonati - è quella che riguarda l'interessamento dell'imprenditore Pontin e della clinica Pederzoli, che ha già presentato una proposta d'acquisto. Sarà anche non vincolante - come hanno spiegato i Camilliani l'altro giorno - ma è sul tavolo, e lo è dalla scorsa primavera, presentata dallo studio legale Dindo, Zorzi & Associati. La seconda, in ordine di tempo, è quella di Villa Salus, che ha inviato una lettera sia ai Camilliani che al Comune di Venezia.

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Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 10 dicembre 2017 Pag VIII Chiesa gremita di bimbi per incontrare San Nicolò di L.M. San Nicolò incontra tutti i bambini del Lido. La chiesa di San Nicolò era strapiena di gente, l'altro pomeriggio per l'arrivo del santo in carne ed ossa che con il suo bastone e una cesta piena di doni ha portato tanti piccoli omaggi ai bambini. Almeno trecento persone hanno partecipato all'incontro, bambini e ragazzi da tutta l'isola ma anche intere famiglie. Erano presenti il parroco di San Nicolò don Giancarlo Iannotta, e il coordinatore dell'equipe pastorale don Renato Mazzuia. Sono state preparate, dai ragazzi del Grest della Comunità pastorale del Lido due scenette che hanno presentato alcuni episodi della vita del santo. Il tema che ha accompagnato l'iniziativa è stato incentrato su come la vita di San Nicolò possa guidarci a vivere bene il Natale. Dopo l'incontro tutti i presenti si sono spostati nel chiostro di San Nicolò dove il Masci ha preparato per tutti cioccolata calda e caramelle. L'incontro con San Nicolò è ormai una bella tradizione che coinvolge non solo i ragazzi del catechismo, ma anche le scuole del Lido. E oggi Babbo Natale a Città Giardino dalle 14.30 alle 18 per una iniziativa organizzata in piazzale Sant'Antonio dall'associazione Nucleo di Protezione Civile. Pag X Pronto il presepe per la chiesa di Carpenedo di Filomena Spolaor Mestre. La magia di uno dei presepi artigianali più belli di Mestre si è svelata in questi giorni nei sotterranei del Centro Don Vecchi, in via dei 300 Campi, in attesa di poter essere ammirato in tutto il suo splendore nella chiesa dei Ss. Gervasio e Protasio di Carpenedo. Giuseppe Veggis, Giulio Leoni, e Franco Zaia non sono architetti né geometri ma tre nonni che custodiscono il progetto del presepe sempre in mente, a cui lavorano tutti i mesi dell'anno dal 2000. Lo realizziamo, lo distruggiamo, lo rifacciamo secondo il nostro gusto dice Giuseppe Veggis. I tre amici hanno creato un laboratorio artigianale in uno dei magazzini del Centro, dove si ritrovano ogni pomeriggio. Il presepe è costruito in scala 1 a 6, con le statue alte 30 centimetri, e tutti gli elementi architettonici e le suppellettili sono proporzionati. Le costruzioni sono composte di polistirolo e pasta modellabile das, che vengono poi trattate. Le tegole delle case sono costruite una alla volta, come i pavimenti delle case pezzo per pezzo. Per l'arredamento i tre presepisti si ispirano alla natura. Quando andiamo a passeggiare in montagna, raccogliamo gli alberelli malandati, i sassi, la ghiaia, muschio e fieno. Utilizziamo anche delle casse da frutta, e poi ricostruiamo in scala i particolari per creare un ambiente armonico racconta Veggis. La natività è al centro ed è il cuore del presepe. Nella chiesa di Carpenedo viene montato sul primo altare a destra. Le persone entrano avvolte dalla luce spiega Giulio Leoni, che si prende cura dell'impianto elettrico che rende il ciclo giorno-notte continuo. Davanti alla stalla ci sono il bue, l'asino con i sacchi pronto per la fuga in Egitto, le pecore al pascolo con lo zampognaro. Intorno è riprodotto un borgo contadino con le case e le cantine ricoperte di muschio e fieno raccolti sui monti. In profondità si vede un mulino da cui si sente scorrere l'acqua. Il presepe sarà visibile dal 16 dicembre fino al 2 febbraio, giorno dedicato alla Madonna Candelora. LA NUOVA di domenica 10 dicembre 2017 Pag 30 Sospese fino a Natale le messe in latino nella chiesa di Oriago di a.ab. Oriago. Niente messa in latino questo mese a Oriago nella chiesa di San Pietro. A comunicarlo gli "Amici della Messa tradizionale nel Veneziano", una trentina di persone in Riviera del Brenta. «Questo mese non sarà celebrata la consueta Messa tradizionale in latino (rito preconciliare) che si tiene normalmente ogni quarta domenica del mese alle 16 a Oriago. L'iniziativa è sospesa a dicembre a causa della concomitanza della vigilia di Natale e la conseguente impossibilità di utilizzare la chiesa, impegnata per le varie funzioni prenatalizie». La Messa Tridentina in latino (liberalizzata da Papa Benedetto XVI

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nel 2007), tornerà domenica 28 gennaio alle 16, officiata, come sempre, dal sacerdote veronese don Bruno Gonzaga. Le messe in latino nel Miranese si terranno regolarmente nella chiesa di San Leopoldo Mandic a Mirano ogni seconda domenica del mese alle 8.45. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 9 dicembre 2017 Pag XVI Don Luigi: “Fatta la cosa giusta, basta cattiverie” di Luisa Giantin Il parroco di Gambarare: “Ospitati nell’emergenza” Tre settimane fa l'arrivo di 200 migranti a Mira. La prossima settimana se ne discuterà in consiglio comunale ma nel frattempo don Luigi Casarin, parroco di Gambarare, ha deciso di dire la sua con un intervento nel bollettino parrocchiale. A Gambarare sono stati ospitati in sala parrocchiale, nella notte tra giovedì 16 e venerdì 17 novembre, 55 richiedenti asilo poi, per le due notti successive altri 18 che sono stati ricollocati in altri centri nella giornata di lunedì 20 novembre. Tra le tante polemiche a Gambarare, attraverso i social, è stato proposto di boicottare il catechismo dei bambini e anche la Messa domenicale. «Credo, anzi crediamo - dice don Luigi riferendosi alla trentina di volontari presenti in quei giorni - di aver fatto una cosa giusta e buona in presenza di un'emergenza. Verso le 13 di giovedì il Comune mi ha chiesto di poter ospitare in parrocchia il gruppo di richiedenti asilo. Ho escluso categoricamente di ospitarli in chiesa e nelle aule del catechismo offrendo la possibilità di accoglierne una cinquantina nel salone del piano terra del Patronato sotto la responsabilità del Prefetto e della Questura. Quindi informo il Patriarca che appoggia questa mia disponibilità e chiede di fare altrettanto alle altre parrocchie del vicariato». Don Luigi ricorda la collaborazione degli Scout, del Gruppo Famiglie, di alcuni giovani e genitori, dell'associazione Dedalo che supportano l'accoglienza. «I profughi che si presentano come persone educate rispettose amabili afferma don Luigi - sono fratelli tra i più poveri e diseredati. Peccato che l'ostacolo della lingua impedisca di dialogare con loro. Pochissimi conoscono l'italiano». Ma don Luigi parla anche del rovescio della medaglia e di quelle polemiche sui social che ancora si trascinano. «Alcune persone hanno manifestato il loro dissenso scrivendo su Facebook e WhatsApp con ricostruzioni fantasiose di questa accoglienza commenta don Luigi - con valutazioni e preoccupazioni banali, sciocche e al limite dell'offensivo. Purtroppo la facilità di comunicare con questi strumenti fa perdere a molte persone il senso dell'obiettività e del rispetto. Una signora ci ha accusato di ospitare in patronato i profughi di non aver ospitato le vittime di tornado di qualche anno fa. Vorremmo informare questa cara signora che il patronato era stato messo immediatamente a disposizione ma non è stato necessario accogliere questi amici. Ad altre affermazioni non rispondo, tanto sono state banali, cattive e irrispettose. Qualcuno forse ha dimenticato la propria Fede commenta il parroco di Gambarare - Noi abbiamo risposto solo ad una emergenza. La parrocchia non può diventare un centro di accoglienza per i profughi». Pag XXVIII Salesiani, un secolo di storia a Venezia di Lorenzo Mayer A Castello si sono concluse le celebrazioni per il centenario, racchiuso in un libro Venezia. «I figli di Don Bosco non hanno ancora piantato le loro tende a Venezia e io vorrei che l'opera di merito che essi svolgono si estenda anche a questa povera diocesi». Così scriveva, nel lontanissimo 1895, il Patriarca di Venezia, Giuseppe Sarto. Parole che furono quasi profetiche perché quando, pochi anni dopo, salì al soglio pontificio come Papa Pio X, da Torino i Salesiani certo non poterono dire di no al desiderio del Santo Padre. Dunque ci fu la mediazione del Papa per far arrivare, nel secolo scorso, i Salesiani in laguna. IL LIBRO - E' questo uno dei tanti aneddoti gustosi riportati nel libro, ancora fresco di stampa, pubblicato per festeggiare il primo centenario della presenza dei Salesiani a Venezia e a Castello in particolare, presentato ieri in patronato Leone XIII, nella giornata che ha concluso le iniziative per questo importante compleanno. Un libro scritto da Piero Del Zotto, con la revisione, soprattutto per gli ultimi anni di don Pierpaolo Rossini, che ha avuto l'importanza di togliere un po' di polvere da notizie frammentarie ed imprecise, che riguardavano soprattutto i primi anni della presenza salesiana in città. Molte fonti erano andate perse. Del Zotto, con pazienza certosina, è riuscito a ricostruirli, con la pubblicazione anche di foto molto significative, riaffiorate dagli archivi. E come racconta

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lo stesso libro, anche se i Salesiani si insediarono ufficialmente a Venezia l'8 dicembre del 1917, appunto 100 anni fa, per rilevare il primo patronato, l'avvio della missione salesiana in centro storico risale ad alcuni anni prima, nel dicembre del 1911, e il primo salesiano, che, sebbene informalmente, svolgeva il compito di direttore di oratorio fu un portoghese. La pubblicazione riporta puntualmente nomi e conognomi dei sacerdoti, parroci e di tutto il personale salesiano. LA STORIA - Erano gli anni della guerra, dei bombardamenti austriaci, e per un periodo, i salesiani furono costretti, per un periodo, anche ad emigrare in terraferma, per poi tornare stabilmente in laguna, l'8 dicembre del 1917. Un compleanno che ieri ha unito in festa l'intera famiglia salesiana, un intero quartiere di Castello e un pezzo di città. Oggi i confratelli salesiani sono in 7: il parroco don Narciso Belfiore guida quattro parrocchie San Pietro, San Giuseppe, San Francesco di Paola, in via Garibaldi, e recentemente, dallo scorso agosto, si è aggiunta, alla cura pastorale dei salesiani, anche la parrocchia di Sant'Elena, con decreto del Patriarca Francesco Moraglia. Ma sempre il libro racconta che, quando i Salesiani vennero chiamati in aiuto a Venezia, vi era un'unica parrocchia con 14mila abitanti, e i religiosi offrirono il loro sostegno al parroco dell'epoca monsignor Cottini. Era il periodo in cui, come si legge dalle pagine del libro, Venezia passava Dalla povertà alla miseria. L'EREDITA' - La cosa certa è che il carisma di Don Bosco è vivo, e più che mai presente, al giorno d'oggi. Ieri in oratorio, tutte le parrocchie salesiane unite, hanno partecipato, in palestra, alla santa messa presieduta da don Fabio Attard, consigliere componente del Consiglio Generale dei Salesiani incaricato di seguire la Pastorale giovanile salesiana a livello mondiale, e concelebrata anche dall'Ispettore salesiano per il Triveneto, don Roberto Dal Molin, oltre naturalmente al parroco, al direttore dell'oratorio veneziano, don Massimo Schibotto, e a tutti i confratelli. La pioggia ha, in parte, disturbato la festa, ma non fatto cambiare i programmi. «Abbiamo quattro parrocchie a noi affidate ha detto il parroco don Narciso per il 2018 contiamo di portare avanti e consolidare la nostra attività, proseguendo in quanto stiamo già facendo». LA NUOVA di sabato 9 dicembre 2017 Pag 25 La parrocchia adotta i terremotati di Rubina Bon Tre famiglie sostenute dalla comunità della Beata Vergine Addolorata. Domani un concerto C'è un filo della solidarietà che collega la parrocchia della Beata Vergine Addolorata a tre famiglie che nel terremoto ad Arquata del Tronto nell'agosto 2016 hanno perso tutto: la casa, il lavoro, in un caso anche il bene più grande qual è una figlia di 9 anni. Tre famiglie con bambini che da maggio scorso, grazie al progetto promosso dal vescovo di Ascoli Piceno monsignor Giovanni D'Ercole - legato al carisma di don Orione così come l'istituto Berna della Bissuola - sono state "adottate" dalla comunità di via Servi di Maria e sostenute mensilmente - sarà così fino a dicembre 2018 - con un contributo raccolto tra i parrocchiani. Ventinove le famiglie mestrine che si sono impegnate per l'intero periodo con una cifra fissa, altri 85 contributi occasionali sono arrivati invece da singoli, associazioni, scuole. «Un progetto capace di coinvolgere molte persone, anche con piccole somme e in forma anonima», racconta il parroco don Mauro Haglich. C'è la coppia che ha festeggiato le nozze d'oro devolvendo i soldi dei regali per questa causa, e lo stesso ha fatto un neo laureato. Ci sono famiglie che in occasione del funerale di un proprio caro hanno chiesto offerte al posto dei fiori. E poi ci sono le iniziative parrocchiali per alimentare il fondo. Come il concerto "Note di speranza dopo le macerie" in programma domani alle 16.30 nella chiesa della Beata Vergine Addolorata (ingresso libero, offerte per il progetto) con il coro "Harmo'Nia", diretto dai maestri Nicola e Maria Chiara Ardolino. Le famiglie "adottate" saranno in collegamento da Arquata per salutare la comunità mestrina. Per l'ultima domenica di Carnevale è già in programma una commedia in dialetto veneziano. Due delle famiglie aiutate dalla parrocchia mestrina sono di Arquata, l'altra, che vive a Roma, era in vacanza dai parenti nelle Marche quando la terra aveva tremato. Proprio quest'ultima famiglia nel sisma ha perso una figlia. Ogni mese il comitato parrocchiale "Insieme per le Marche" invia in tutto 900 euro alle famiglie, divisi secondo le necessità. Ma la risposta della comunità è stata così forte

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che in alcuni mesi c'è la possibilità di inviare un extra. Tutto grazie al cuore grande dei mestrini. Pag 30 Piove, salta la processione. Madonna dei Cavai in chiesa di a.ab. Gambarare. È saltata a causa della pioggia per la prima volta dopo 21anni, la tradizionale processione della "Madonna dei Cavai" che si sarebbe dovuta tenere ieri per le strade della frazione. Tutto era pronto per il tradizionale rito religioso una tradizione che da secoli si ripete con il passaggio del corteo della statua della Madonna posta su un carro trainata da cavalli che dalla chiesa di San Giovanni Battista (una chiesa consacrata nel 1306), arriva fino a Piazza Vecchia e poi torna al duomo. Ieri però in chiesa a Gambarare visto il tempo inclemente le autorità religiose hanno deciso di sospendere il corteo. Si è tenuta regolarmente invece la tradizionale messa della Madonna Immacolata che è partita alle 14 con il canto dei Vespri. Un appuntamento a cui hanno partecipato centinaia di persone. «La comunità cristiana di Gambarare - ha detto il parroco monsignor Luigi Casarin - è qui riunita per celebrare questa importante festività anche se la processione non si è potuta tenere». Nonostante la pioggia però non sono mancati fuori dalla chiesa di San Giovanni Battista stand gastronomici e di leccornie per grandi e piccoli con tazze di vin brulè. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di venerdì 8 dicembre 2017 Pag V In Basilica ordinati due nuovi diaconi di A.Spe. Venezia. Francesco Andrighetti e Steven Ruzza: sono i due nuovi diaconi della Chiesa veneziana che il patriarca Francesco Moraglia ha ordinato ieri, nella vigilia dell'odierna festa dell'Immacolata concezione, in basilica a San Marco, presenti i compagni di Seminario, parenti e amici. Li hanno già soprannominati i diaconi filosofi appassionati di Vangelo, perché entrambi provengono da quegli studi: Andrighetti, 26 anni originario del Duomo di Mestre, sta per laurearsi con la magistrale a Ca' Foscari; traguardo che Ruzza, 30 anni di Caorle, ha già raggiunto prima con il titolo triennale a Trieste, poi con la specialistica a Padova. Entrambi hanno fatto esperienza pastorale in diverse parrocchie e realtà associative della diocesi. D'ora in poi possono essere già chiamati don anche se diventeranno sacerdoti più avanti, probabilmente a giugno. «La vostra chiamata al sacerdozio ordinato ha bisogno per realizzarsi del vostro sì ha detto mons. Moraglia nell'omelia Dio vuole aver bisogno degli uomini e invita, sollecita, illumina e, nello stesso tempo, domanda un'adesione libera, piena, per sempre». Ma il Patriarca ha ammonito: «Nella vita spirituale c'è modo e modo di rispondere, modo e modo di dire il proprio sì. L'obbedienza del discepolo non è quella del militare: Dio chiede che il nostro sì provenga da un cuore ben disposto. E un cuore ben disposto non significa che un'obbedienza non costi o che, talvolta, non costituisca un sacrificio. L'obbedienza si radica nell'amore, altrimenti è l'obbedienza della caserma e non del discepolo». Pag VIII Castello, la festa per il centenario dei Salesiani di L.M. Si concludono oggi le celebrazioni per il centenario della presenza dei Salesiani a Castello. Oggi le tre parrocchie salesiane di San Pietro, San Giuseppe e San Francesco di Paola, guidate dal parroco don Narciso Belfiore, si ritroveranno assieme: alle 10.30 la messa nella palestra dell'oratorio Leone XIII in calle San Domenico, presieduta da don Fabio Attard, consigliere per la Pastorale giovanile del Consiglio generale della Congregazione Salesiana. Don Attard arriverà appositamente da Roma e sarà il direttore dell'oratorio di Castello, don Massimo Schibotto a dargli il benvenuto. Al termine della celebrazione, in patronato, ma all'esterno seguirà il consueto Cerchio Mariano con tutti i presenti e la recita dell'Ave Maria. Alle 13 il buffet per circa 150 persone (che dovranno aver già prenotati).Alle 16, infine, lo spettacolo nel teatro del patronato Un Diario per Chiara Luce. LA NUOVA di venerdì 8 dicembre 2017 Pag 32 “Madonna dei cavai”, oggi la processione a Gambarare tra religione e storia di a.ab.

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Gambarare. Tutto pronto oggi alle 14, 30 per la tradizionale processione della "Madonna dei Cavai" di Gambarare di Mira. Una tradizione che da secoli si ripete con il passaggio del corteo religioso della statua della Madonna posta su un carro trainata da cavalli che dalla chiesa di San Giovanni Battista (una chiesa consacrata nel 1306) arriva fino a Piazza Vecchia e poi torna al duomo. In testa alla processione ci sarà il parroco del paese monsignor Luigi Casarin. Tutta Gambarare si vestirà a festa: ci saranno stand gastronomici e di leccornie per grandi e piccoli con tazze di vin brulè. Non mancheranno spettacoli per i più piccoli e cori natalizi sia al mattino che nel pomeriggio. La processione della "Madonna dei cavai" sarà preceduta alle 14 in chiesa a Gambarare dai canti dei vespri. Domenica alle 16 a Borbiago in chiesa il Concerto di Natale per voce e musiche del Venice Gospel Community Choir con la direttrice artistica Joselin St. Aimee. Al termine del concerto sarà offerto ai presenti pinza, panettone e vin brulè. Domenica 10 Dicembre invece torna il tradizionale "Mercatino di Natale" che si svolgerà a Bojon, in zona Centro Civico, dalle 9, 30 alle 18, 30 con musiche e addobbi, saranno presenti espositori di prodotti artigianali, alimentari, hobbysti, associazioni e negozianti. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 29 Dal sisma alla camorra le battaglie di don Riboldi, un vescovo di strada di Luigi Accattoli Era stato il prete dei terremotati in Sicilia e poi il vescovo del riscatto dalla camorra ad Acerra: Antonio Riboldi, 94 anni, è morto ieri all’alba a Stresa, in Piemonte, nella casa dei Rosminiani ai quali apparteneva. Aveva chiesto d’essere sepolto nella cattedrale di Acerra dove domani si farà il funerale e sarà lutto cittadino. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, siciliano, l’ha ricordato in un messaggio ai famigliari e alla congregazione dei Rosminiani. Lombardo di nascita, arriva nel Belice come parroco nel 1958 e lì vive il terremoto del 1968. Abita come tutti per un decennio in una baracca, dice messa all’aperto, diviene il portavoce dei senzacasa mentre la mafia si mangia i fondi della ricostruzione. Per scuotere dall’inerzia la gente e le autorità porta i bambini di Santa Ninfa a Roma: dal Papa, al Quirinale, in Parlamento. Del suo arrivo nel Belice, quando aveva 35 anni, così aveva parlato dopo mezzo secolo in un libro di memorie intitolato «I figli del terremoto» (pubblicato nel 2009): «Non ci fu accoglienza festosa, anzi. Santa Ninfa, allora, sembrava dominata dalla mafia rurale che aveva nelle mani tutto il paese e non permetteva alcuno spazio di libertà, di pensiero e di azione. Si doveva solo piegare la testa e accettarne le leggi. Ciò che fin dall’inizio non accettai, considerandola una grave offesa alla mia dignità». Nel 1978 Paolo VI lo nomina vescovo di Acerra, nel napoletano. Al momento della consacrazione a vescovo, in una spianata tra le baracche dei terremotati di Santa Ninfa, così ricorda il «lungo e impietoso deserto» che il popolo del Belice era stato costretto ad attraversare: «In questi anni sono passate davanti ai nostri occhi tutte le prove che un uomo può sopportare: povertà, emigrazione, umiliazioni per avere un pezzo di pane, disprezzo, emarginazione da ogni tentativo di lecito benessere, la vita inumana nelle baracche, l’esasperante attesa di una casa». Con le denunce, le testimonianze davanti ai magistrati e alle commissioni d’inchiesta, i libri e le mostre, le conferenze e le interviste, la partecipazione ai dibattiti televisivi e alle dirette delle celebrazioni papali don Riboldi è diventato, negli anni, il simbolo della via cristiana al riscatto del Belice e di Acerra, cioè delle popolazioni più derelitte in lotta per i propri diritti. Acerra è terra di camorra profonda. Al momento della nomina a vescovo dichiara a chi l’intervista nella baracca del Belice: «Credo che la situazione sia peggiore di qui. Continuerò là il mio lavoro». Alla domanda su che cosa avrebbe voluto suggerire agli altri vescovi diede una risposta alla papa Francesco: «Di scendere tra la gente, di togliere filtri e burocrazie, di farsi servi di tutti come dice il Vangelo: non c’è altra scelta per fare il vescovo oggi». Anche ad Acerra conquista l’affetto della popolazione e il rispetto degli stessi camorristi. Lo chiamano i pentiti che sono in carcere. Persino Raffaele Cutolo gli vuole parlare. Quando lascia il governo della diocesi si procura un sito

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Internet per continuare il suo lavoro di «annuncio del Vangelo ai poveri»: è uno dei primi vescovi della Penisola a mettere piede nella Rete. In ogni stagione della lunga vita Riboldi è stato una delle figure più convincenti di prete e di vescovo dei poveri nell’Italia degli ultimi decenni. AVVENIRE di domenica 10 dicembre 2017 Pag 18 Il “Padre Nostro”, ecco come cambia in italiano di Mimmo Muolo e Daniele Zappalà Betori: traduzione Cei nel senso chiesto dal Papa. In Francia la novità è arrivata con l’Avvento La traduzione italiana del Padre Nostro potrebbe cambiare presto. E proprio nel senso auspicato di recente da papa Francesco. Esiste infatti già una proposta della Cei - da «non indurci in tentazione» a «non abbandonarci alla tentazione» - recepita nella nuova traduzione della Bibbia Cei e nel Lezionario, ma ancora in attesa del via libera della Santa Sede per quanto riguarda l’uso liturgico nel Messale. Quando quel via libera arriverà, la preghiera insegnata da Gesù si potrà recitare con le parole «non abbandonarci alla tentazione» in tutte le occasioni. A ricostruire il lungo lavoro di vescovi, teologi e biblisti che ha portato alla nuova versione è il cardinale Giuseppe Betori, che afferma: «Bene ha fatto il Santo Padre a porre pubblicamente la questione e anche a rilevare che la Cei il suo passo l’ha già fatto». L’arcivescovo di Firenze, apprezzato biblista, ha seguito, infatti, il lavoro di traduzione fin dal 2000, quando era sottosegretario della Conferenza episcopale italiana. In tal modo è stato testimone oculare della convergenza sulla nuova formula - «non abbandonarci alla tentazione» di due personalità del calibro di Carlo Maria Martini e Giacomo Biffi, che non esita a definire «rispettivamente il miglior biblista e il miglior teologo all’epoca presenti nel Consiglio permanente della Cei». Eminenza, come andarono dunque le cose? L’inizio del lavoro risale in realtà al 1988, quando si decise di rivedere la vecchia traduzione del 1971, ripubblicata nel 1974 con alcune correzioni. Fu istituito un gruppo di lavoro di 15 biblisti coordinati successivamente da tre vescovi (prima Costanzo, poi Egger e infine Festorazzi), che sentì il parere di altri 60 biblisti. A sovrintendere questo gruppo di lavoro c’erano naturalmente la Commissione episcopale per la liturgia e il Consiglio permanente, all’interno del quale era stato creato un comitato ristretto composto dai cardinali Biffi e Martini e dagli arcivescovi Saldarini, Magrassi e Papa. Questo Comitato ricevette e vagliò anche la proposta di una nuova traduzione del Padre Nostro e, tra le diverse soluzioni, venne adottata la formula «non ab- bandonarci alla tentazione», sulla quale in particolare ci fu la convergenza di Martini e Biffi, i quali come è noto non sempre si ritrovavano sulle stesse posizioni. Ora, il fatto che ambedue avessero approvato questa traduzione fu garanzia per il Consiglio permanente, e poi per tutti i vescovi, della bontà della scelta. Eravamo ormai nell’anno 2000 e io fui presente a quella seduta in quanto sottosegretario della Cei. Fu dunque un lavoro di squadra. Esattamente. Fu un lavoro fatto dai migliori biblisti d’Italia, che furono guidati dai vescovi massimamente esperti in teologia e in Sacra Scrittura e che ebbe nei diversi passaggi del testo al vaglio del Consiglio Permanente la garanzia di un lavoro ben fatto, così da rassicurare l’intero episcopato. Perché si scelse proprio quella traduzione? Non è la traduzione più letterale, ma quella più vicina al contenuto effettivo della preghiera. In italiano, infatti, il verbo indurre non è l’equivalente del latino inducere o del greco eisferein, ma qualcosa in più. Il nostro verbo è costrittivo, mentre quelli latino e greco hanno soltanto un valore concessivo: in pratica lasciar entrare. I francesi hanno tradotto ne nous laisse pas entrer en tentation, cioè, «non lasciarci entrare in tentazione». C’è differenza? Noi abbiamo scelto una traduzione volutamente più ampia. «Non abbandonarci alla tentazione» può significare «non abbandonarci, affinché non cadiamo nella tentazione» - dunque come i francesi «non lasciare che entriamo nella tentazione» -, ma anche «non abbandonarci alla tentazione quando già siamo nella tentazione». C’è dunque maggiore ricchezza di significato perché chiediamo a Dio che resti al nostro fianco e ci preservi sia

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quando stiamo per entrare in tentazione, sia quando vi siamo già dentro. La Commissione degli esperti aveva fatto anche altre ipotesi, ma tutte più restrittive rispetto alla ricchezza di significato della traduzione poi scelta e approvata. Perché questa nuova traduzione non è ancora nell’uso liturgico? Nel 2001 la Congregazione per il culto emanò nuove disposizioni sulle traduzioni: la Liturgiam authenticam, che dovrà essere rivista, come ha segnalato papa Francesco dopo aver pubblicato il motu proprio Magnum Principium. Quel documento raccomandava traduzioni più letterali, per cui dovemmo rivedere tutto il lavoro di traduzione della Bibbia sotto la supervisione di un gruppetto di esperti guidati da tre vescovi: Caprioli, Monari e Bianchi. Insieme con loro lavorarono, oltre a me, otto biblisti di riconosciuto valore. Il tutto fu trasmesso ai vescovi, che suggerirono non poche modifiche, la maggior parte delle quali furono accolte, ma non toccarono la proposta di traduzione del Padre Nostro, e alla fine, nell’Assemblea della Cei del 2002, venne approvata l’intera traduzione con 202 “Sì” su 203 votanti. Il testo del Padre Nostro, se ben ricordo, fu votato e approvato a parte, per non avere nessun dubbio. La recognitio della Santa Sede arrivò nel 2007 e l’edizione della Bibbia Cei è quella del 2008. E per l’uso liturgico? In seguito si passò al Messale, perché il Padre Nostro si recita anche durante la Messa e in altri riti liturgici. La proposta fu quella di trasferire nel Messale la traduzione del Padre Nostro che era stata approvata nella Bibbia. E così avvenne. Questa traduzione, però, per poter entrare nell’uso liturgico deve essere “vidimata” dalla Santa Sede con quella che ora, in base alle nuove norme volute dal Papa, è una approbatio. Ma questo manca ancora. Non sappiamo se la Santa Sede ce la farà cambiare, ma si può pensare che il testo proposto venga approvato, considerato anche l’apprezzamento che sembra emergere per esso nelle parole del Santo Padre nella recente intervista sul Padre Nostro. Invece il nuovo Lezionario, cioè il libro delle letture durante la Messa, è già stato approvato dalla Santa Sede e qui il testo del Padre Nostro contiene la formula «non abbandonarci alla tentazione». In definitiva, quando arriverà l’approbatio, anche nella preghiera che recitiamo individualmente si dovrà dire «non abbandonarci alla tentazione»? Penso di sì, perché sarebbe strano avere una preghiera nella liturgia diversa da quella del catechismo e della vita spirituale. Forse ci vorrà un’altra approvazione da parte dei vescovi? Ma i vescovi una volta che hanno approvato il cambiamento per il Messale, ritengo che implicitamente l’hanno approvato anche per tutte le occasioni in cui si recita la preghiera del Signore. A porre l’attenzione sulla traduzione della preghiera insegnataci da Gesù è stato il Papa stesso. Nel corso della settima puntata del programma di Tv2000 “Padre nostro” condotto da don Marco Pozza, cappellano del carcere di Padova, Francesco ha infatti sottolineato come l’espressione secondo cui «“Dio induce in tentazione” non sia una buona traduzione». Anche i francesi – ha aggiunto il Papa – «hanno cambiato il testo con una traduzione che dice “non lasciarmi cadere nella tentazione”. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto. Un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito». Dalla conversazione del Papa con don Pozza è nato anche il libro “Padre nostro” di papa Francesco, edito da Rizzoli e dalla Libreria Editrice Vaticana (pagine 144; euro 16) in cui, tra l’altro, il Pontefice sottolinea che «quello che ti induce in tentazione è Satana, quello è l’ufficio di Satana». Parigi. Per i fedeli francesi, l’arrivo dell’Avvento ha recato un cambiamento non da poco: una nuova traduzione del Padre Nostro, variamente commentata da quando la Conferenza episcopale ha preso la decisione finale, durante la plenaria della scorsa primavera a Lourdes, dopo l’approvazione giunta dal Vaticano nel 2013. Il verso Et ne nous laisse pas entrer en tentation («E non lasciarci entrare in tentazione») ha sostituito la formulazione precedente Et ne nous soumets pas à la tentation («E non sottoporci alla tentazione »). Un modo, prima di tutto, per meglio rispettare il senso di “movimento” espresso dal verbo impiegato nella versione greca di riferimento, ma anche lo spirito d’insieme del Vangelo, ha spiegato padre Jacques Rideau, direttore del Seminario francese di Roma ed ex responsabile del servizio episcopale nazionale per la pastorale liturgica e sacramentale, sottolineando che «non si può dire che la traduzione del 1966

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fosse cattiva o difettosa». Quella traduzione venne adottata anche in uno spirito ecumenico, per condividere una versione comune con protestanti e ortodossi. Ma sul piano pastorale, ha aggiunto padre Rideau, la versione precedente poteva indurre i fedeli in errore, lasciando credere alla possibilità di una tentazione associata direttamente alla volontà divina. Talora mal compresa, la versione del 1966 poteva dunque generare un certo turbamento spirituale. Domenica scorsa, tutti i parroci hanno invitato i fedeli a conformarsi pian piano alla nuova versione, nonostante gli automatismi mnemonici di una preghiera tanto centrale nella vita dei cristiani. Ai microfoni delle radio diocesane, o nei forum su Internet di istituzioni e media cattolici, certi fedeli hanno confessato che non sarà facile abituarsi. Altri propongono traduzioni diverse considerate forse più congeniali. C’è poi chi ricorda che il cambiamento attuale sembra corrispondere a un ritorno alla versione precedente a quella del 1966, la quale recitava «E non lasciateci soccombere alla tentazione». Una versione giudicata da alcuni migliore rispetto a quella appena introdotta, per il fatto di esprimere in modo chiaro la forza delle tentazioni che conducono al peccato. In questo senso, il verbo «entrare» è considerato talora come neutro ed asettico. In occasione delle cerimonie ecumeniche sarà impiegata la nuova versione, secondo quanto raccomanda già il Consiglio delle Chiese cristiane in Francia (Cecef), dopo le approvazioni giunte dai rappresentanti protestanti e ortodossi. Pag 19 “Amoris laetitia” si applica così. Via libera del Papa di Luciano Moia “Magistero ufficiale” le linee guida elaborate dai vescovi argentini Adesso la “traccia” argentina per mettere a punto orientamenti pastorali su Amoris laetitia è “magistero autentico”. La decisione del Papa di pubblicare sugli Acta apostolicae sedis – la “Gazzetta ufficiale” della Santa Sede – la lettera dei vescovi della regione di Buenos Aires con i criteri applicativi del discusso capitolo VIII, “Accompagnare, discernere e integrare le fragilità” fa chiarezza, incoraggia e offre uno schema semplice ed efficace alle conferenze episcopali regionali e alle diocesi. Nei giorni scorsi il testo diffuso nel settembre 2016, con cui i vescovi argentini offrivano il loro contributo per una guida pastorale a proposito delle persone divorziate e risposate, è comparso sugli Acta (numero di ottobre 2016, pagg. 1071-1074). Insieme alla lettera dei vescovi, c’è – come più volte ribadito su queste pagine – la risposta di Francesco, esplicita e definitiva: «Il testo è molto buono e spiega in modo eccellente il capitolo VIII di Amoris laetitia. Non c’è altra interpretazione. Sono sicuro che farà molto bene». Parole difficilmente equivocabili, che però avevano fatto arricciare il naso ai soliti difensori del tempo che fu, secondo cui la lettera, essendo corrispondenza privata, non poteva rappresentare un riferimento valido e universale, soprattutto su un argomento così controverso. Ora il Rescriptum, cioè la nota finale al testo e alla risposta del Papa, firmata dal cardinale segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, chiude una volta per sempre lo stucchevole dibattito: «Il Papa ha deciso che i due documenti vanno intesi come magistero autentico (velut Magisterium authenticum)». Altro che corrispondenza privata, questo è invece lo schema che Francesco stesso indica per accompagnare le persone divorziate risposate che intendono riavvicinarsi alle comunità ecclesiali sulla via del pentimento e del discernimento, offrendo loro tutte le risorse concrete e spirituali di cui la Chiesa dispone, compresi “in alcuni casi”, anche i sacramenti. Non si tratta di un percorso né facile né banale, ma di un confronto complesso e denso di sofferenza che i vescovi argentini sintetizzano in dieci punti. Il spiega come il cammino penitenziale non debba obbligatoriamente concludersi con l’accesso ai sacramenti, ma possa comprendere «altre forme di integrazione proprie della vita della Chiesa» (n.4). E che, quando le circostanze lo permettono, rimane valida l’indicazione della “continenza sessuale”, come scriveva Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio. Poi lo snodo più contestato che i vescovi argentini argomentano in questo modo: «Se si giunge a riconoscere che, in un determinato caso, ci sono dei limiti personali che attenuano la responsabilità e la colpevolezza, particolarmente quando una persona consideri che cadrebbe in ulteriori mancanze danneggiando i figli della nuova unione, Amoris laetitia apre la possibilità dell’accesso ai sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucaristia» (n.6). In più punti, nel documento, si chiarisce che non si tratta di una norma valida in tutte le circostanze, ma di un cammino di discernimento dinamico, in cui i fedeli sono chiamati ad un confronto franco con la propria coscienza e con il sacerdote che li accompagna.

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Cosa cambia con la pubblicazione di questo testo negli Acta? È facile immaginare che conferenze regionali e diocesi saranno incoraggiate a proporre, a loro volta, linee guida e orientamenti pastorali per accompagnare le persone separate in nuova unione alla riscoperta del loro cammino di fede. Per quanto riguarda la Chiesa italiana, hanno già pubblicato linee-guida importanti le Conferenze episcopali della Campania e della Sicilia. Altre hanno messo a punto Orientamenti già calibrati su quanto indicato dal Papa e si preparano ad annunciarne la pubblicazione. Un passo ormai irrinunciabile per togliere Amoris laetitia dal girone delle polemiche sterili e inserirla fruttuosamente nella realtà della vita quotidiana. «È possibile fare la Comunione per un divorziato risposato? La risposta è: in certi casi sì. Perché in certi casi? Perché la rottura del vincolo matrimoniale viola un precetto dato direttamente dal Signore e costituisce peccato grave. Questa regola è immutabile e rimane immutata. Come mai ci solo allora alcuni casi in cui è possibile essere ammessi ai sacramenti e quali sono?». Parla chiaro don Michele Aramini, docente di teologia morale all’Università Cattolica. Una scelta esplicita perché con il testo arrivato da pochi giorni in libreria – La famiglia nell’Amoris laetitia (Mipep-Docete, pagg.297, euro 8) – non intende aprire un dibattito per specialisti, ma rivolgersi direttamente alle persone per cui l’Esortazione postsinodale è stata pensata e scritta. Quindi, innanzi tutto le famiglie, tutte le famiglie, comprese quelle meno attrezzate per leggere e comprendere un documento come Amoris laetitia. Semplice sì, ma molto ampio, denso di rimandi e, soprattutto, nel capitolo VIII, con una serie tale di riflessioni importanti e tutt’altro che scontate. Don Aramini prende per mano anche i non addetti ai lavori e spiega loro il senso delle aperture decise da Francesco al termine del lungo percorso sinodale. Torniamo alla domanda più difficile: quali sono i casi in cui è possibile per un separato in nuova unione essere riammesso ai sacramenti? Il teologo parte dal caso più semplice, quello di colei che, senza colpa personale, è stata abbandonata dal coniuge e che, magari anche per assicurare ai figli una presenza educativa e un sostegno economico, ha accettato il divorzio e un matrimonio civile. «Se dopo attento discernimento è emerso che si è comportata bene con i figli – scrive Aramini – e anche con il coniuge che ha provocato la rottura, allora la riammissione ai sacramenti è la naturale conclusione del processo di discernimento ». Oltre a descrivere altri casi, l’autore offre due schede di approfondimento. In poche pagine riesce a spiegare cosa si intenda per discernimento e, con qualche ampiezza in più, ne descrive l’oggetto in modo altrettanto comprensibile, cioè il rapporto tra norma e coscienza. Al termine dei vari capitoli, che ripercorrono quelli dell’Esortazione post-sinodale, una serie di domande che trasformano il libro in un sussidio agevole per la catechesi parrocchiale e gli itinerari dei gruppi familiari. Tanti spunti per nuove prospettive. Tante domande aperte per nuovi percorsi di lettura capaci di far gustare in tutte le sue declinazioni la ricchezza dell’Esortazione postsinodale sull’amore familiare. Tanti gli esempi offerti da Amoris laetitia. La sapienza dell’amore. Fragilità e bellezza della relazione nel matrimonio e nella famiglia, a cura di Giuseppe Bonfrate e Humberto Miguel Yanez (Studium Edizioni, pagg. 240, euro 18). Testo prezioso, complesso e di grande interesse perché raccoglie i saggi di 13 esperti, docenti del Diploma di pastorale familiare della Pontificia Università Gregoriana e di altri teologi, dopo i due Forum organizzati nei mesi scorsi nell’ateneo dei gesuiti. La curiosità è alimentata subito dal prologo di Giuseppe Bonfrate che, tra l’altro, si chiede: «Cosa bisogna disimparare dopo Amoris laetitia?». L’elenco è lungo. Per esempio che «la spiritualità cristiana, e in particolare quella matrimoniale e familiare, non può discendere dall’alto, deduttivamente, solo come spiritualità degli ideali». Oppure che troppo spesso ai giovani sposi viene fatto un accompagnamento che non tiene conti dei loro linguaggi, dei loro orari, delle loro preoccupazioni concrete. Di grande spessore anche la riflessione di don Giampaolo Dianin, moralista e rettore del Seminario di Padova, che spiega come Francesco «si pone in continuità con Giovanni Paolo II, richiama continuamente il n.84 di Familiaris consortio, ma fa fare a quelle indicazioni dei passi ulteriori soprattutto a livello pastorale». Tra le altre sfide pastorali aperte dall’Esortazione postsinodale, don Dianin indica la necessità di «ripensare il modo con cui la Chiesa ha pensato e pensa la sessualità al di fuori del legame sponsale sacramentale». Compreso il tema delicato, «ma sempre più attuale delle relazioni omosessuali, tema con cui la Chiesa dovrà prima

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o poi confrontarsi con coraggio». Questioni aperte di cui gli autori non si nascondono la complessità e la difficoltà di approccio, come nell’approfondimento che Emilia Palladino dedica al tema delle convivenze. Davvero numerosi gli altri spunti su non possiamo dilungarci e a cui daremo spazio sul nostro mensile Noi famiglia & vita. Tra gli altri “Eros e dono nel legame di coppia” di Maria Cruciani e “L’inattesa convergenza tra Amoris laetitiae Chiese ortodosse sulle unioni irregolare”, analizzata da don Basilio Petrà. Pag 23 Radcliffe. Credere, anche nel tempo incerto di Monica Mondo Dialogo con il domenicano inglese intorno al concetto di fede trattato nel suo ultimo libro “Il bordo del mistero” Teologo, domenicano, biblista, docente a Oxford, consultore del Pontificio consiglio Giustizia e pace. Padre Timothy Radcliffe ha il sorriso di Fra Tuck, il compagno di Robin Hood, e non è purtroppo lo zio di Daniel Radcliffe, l’attore che impersona Harry Potter, anche se, spiega, gli piacciono molto i libri e i film di Harry Potter: sarebbe un bell’escamotage e un bel modo per attirare tanti giovani. E visto che il cristianesimo si diffonde per contagio, potrebbe forse nascondere la sua vera identità e dire che è davvero lo zio di Harry Potter. «Beh, sicuramente venderei molti più libri se facessi in questa maniera!». «Aver fede nel tempo dell’incertezza si può», come recita il sottotitolo del suo Il bordo del mistero edito per l’Italia dalla Emi (Pagine 144. Euro 14 ,00) «Sì, penso che sempre in periodi di incertezza si deve aver fede perché essere cristiano, essere credente non significa che hai tutte le risposte, ma significa che sei sempre in cerca, sei sempre all’inizio della tua indagine. E in tal senso essere cristiano significa sempre essere in un’avventura in cui c’è sempre bisogno dell’aiuto di tutti i tuoi amici, di tutte le persone che sono con te». Lei dice che viviamo «nel tempo del fondamentalismo, che è una caratteristica della modernità». In che senso? Prima c’era lo stesso, e i domenicani erano considerati maestri di rigore. “Domini canes”, si interpretava. «C’è una distinzione da fare tra rigore e fondamentalismo. Il fondamentalismo significa che in un solo linguaggio si possono avere tutte le risposte. Il fondamentalismo del XIX secolo è stato quello scientifico, si pensava che la scienza ti potesse rispondere a tutto. Oggi invece abbiamo un fondamentalismo economico e molti pensano che il mercato sia la soluzione di ogni bisogno. E poi c’è il fondamentalismo religioso. Il fondamentalismo si genera quando c’è un modo troppo semplicistico di descrivere le cose, e penso che la via d’uscita sia sempre impegnarsi con chi la pensa in maniera diversa, mentre i fondamentalisti non riescono a parlare con quelli che pensano diversamente da loro. Il rigore è ben altra cosa, rigore significa che si cerca di fare di tutto per comprendere i grandi interrogativi: l’analisi profonda è molto diversa dal fondamentalismo». «Amare la gente – scrive – significa trovare la giusta combinazione di offerta di spazio e dono di sé». Ovvero troppa o troppo poca libertà fanno male? «Se si parla a qualcuno bisogna sempre cercare di dargli spazio, perché possa mostrarsi l’altro, per ascoltare come parla, chi è veramente. Ogni volta che si parla con qualcuno ci si sorprende sempre, e gli devi dare lo spazio perché ti possa sorprendere, questo è il cuore di ogni buona e giusta conversazione. In qualunque amicizia si dà a chi hai di fronte la possibilità di essere diversa da quel che tu pensavi all’inizio e di non conformarsi alle tue idee iniziali su quella persona». Come si fa ad avere speranza? «Penso, in base alla mia esperienza, che se si vuole sperare bisogna rivolgersi soprattutto a quelli che sembrano non avere più speranza, e si apprenderà insieme a sperare. Ricordate, c’è stato a settembre uno spaventoso uragano a Houston: io sono stato sul posto per visitare tutte le aree devastate. La gente mi ha detto che all’inizio era molto arrabbiata, però quello che mi ha colpito è stato il loro coraggio, e anche la loro gioia di essere vivi. E questo ha aiutato anche me a sperare. Io andrò a Baghdad per trascorrere un po’ di tempo con fratelli e sorelle, e posso dire che se si vuole avere speranza si deve proprio andare a Baghdad, perché si incontrano persone la cui vita è veramente molto dura, non possiamo neanche immaginarlo. E si vede, si riscontra una speranza che non pensavi potesse esistere ». Senza perdono dei peccati non c’è speranza?

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«Sì, il contrario della felicità non è la tristezza ma avere un cuore duro che non ha più sentimenti. Quando si è in contatto con persone che soffrono ti si apre il cuore, e se il tuo cuore si spalanca puoi essere felice di nuovo. La cosa più importante per essere felici è rifuggire dalle tue piccole preoccupazioni. Quando tu sperimenti il dolore degli altri, smetti di pensare a te stesso e cominci a condividere quello che vivono loro e allora avrai una felicità enorme, avrai un’anima. Nel libro di Ezechiele si dice: “Toglierò i vostri cuori di pietra e vi renderò cuori di carne”, un cuore quindi che è in grado di sentire, di avere nuovamente sentimenti». Cito ancora da Il bordo del mistero: «La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che qualcosa ha senso». «Quando soffriamo talvolta pensiamo che le nostre vite non abbiano più significato, e ci chiediamo perché questa sofferenza, a cosa serva. Ma questa è una perdita di tempo! La nostra speranza è che alla fine vedremo come la nostra vita è un percorso, un viaggio verso la pienezza dell’amore, della comprensione. E quindi noi viaggiamo per cercare di capire chi siamo, per vedere i piccoli segni che ci fanno capire dove stiamo andando. Dobbiamo fidarci, e quando arriviamo alla pienezza d’amore e di vita, nonostante le prove che abbiamo passato, allora riscopriamo il significato. Adesso abbiamo soltanto qualche flash qua e là, che ci fa capire che siamo fatti per amare, amare totalmente. Arriveremo alla pienezza d’amore alla fine del nostro percorso e tutto quello che abbiamo vissuto, abbiamo sopportato, allora assume significato». «Il cristianesimo fa richieste francamente impossibili», scrive. Che non possiamo ottemperare da soli. Ci vuole la Chiesa, quindi? «Abbiamo bisogno gli uni degli altri. Perché tu puoi essere in grado di amare in un modo di cui io non sono capace e così io rispetto a te. Un amore incondizionato è impossibile, è un dono che viene dato a ognuno di noi poco a poco, nel tempo. La cosa più bella dell’essere umano è che è chiamato ad essere sempre qualcosa di più, più di quello che noi possiamo immaginare, pensare di essere. Domani incontrerai tuo fratello, tua sorella, tuo figlio, tua figlia, che ti insegneranno molto di più e ti faranno entrare in questa pienezza dell’amore. Penso che ogni volta che amiamo qualcuno di un amore vero, ci rendiamo conto del mistero trascendente dell’amore che va oltre tutto quello che riusciamo a immaginare di poter ricevere». «La modernità accetta la fede se rimane confinata nell’ambito privato o se ha un ruolo decorativo, senza invadere lo spazio pubblico». Se è irrilevante, dunque, da sacrestia. «E non può essere così! Penso per esempio a papa Francesco, che in questo momento si sta impegnando con i problemi umani immediati, e penso che il cattolicesimo è sempre affascinato dai drammi che la gente vive, qui ed ora. Aver fede non significa vivere in un piccolo mondo isolato, rimanere in un angolo, al sicuro, ma impegnarsi nella realtà. Ed è quello che fa il Papa andando a visitare i posti più difficili sulla Terra». Spesso crediamo che obbedire significhi abbandonare la ragione e la libertà. «Mi piace moltissimo l’origine del termine “obbedienza” che viene da ob audiens, che significa ascoltare profondamente. Per me essere obbediente nei confronti del mio fratello, come domenicano, non vuol dire smettere di pensare, “faccio quello che gli altri mi dicono”: no, io ascolto con tutta la mia intelligenza, con tutta la mia immaginazione e fantasia. Quindi la vera obbedienza è basata sull’intelligenza». «Il cristianesimo esalta la corporeità», sottolinea. Possiamo dire che è materialista più che spiritualista. «Penso che l’essenza del cristianesimo sia che Dio è diventato uno di noi, è diventato una persona come noi, si è fatta corpo. E il dono del cristianesimo è quando Gesù dice “questo è il mio corpo, lo do a voi”; non dice la mia mente, il mio spirito e la mia anima. Dobbiamo essere contenti di essere anche corporeità, e questo proprio quando molte persone odiano il loro corpo, quando la gente si vede troppo magra, troppo grassa, troppo bassa, troppo brutta. In questo momento dobbiamo riconoscere che possiamo abitare in un corpo perché siamo spirito che abita in un corpo, e dobbiamo amarlo questo corpo. Il cuore del cristianesimo è la santità dei nostri corpi». Anche la preghiera per noi europei, dalla Riforma in poi, è diventata un atto puramente mentale. «Invece dobbiamo pregare con un’esuberanza fisica». «La gran parte dei cristiani un tempo pregava con il corpo, per esempio san Domenico, fondatore del mio ordine, aveva nove modi di pregare col corpo. Anche Francesco

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d’Assisi diceva che tutto si può esprimere con il corpo ma noi oggi invece ci sediamo a un banco da soli, sembriamo un sacco di patate, non riusciamo più ad esprimere la spontaneità della nostra fede! Per pregare bene dobbiamo chiedere ai fratelli e sorelle africani di venirci a insegnare come si prega anche con il corpo». CORRIERE DELLA SERA di domenica 10 dicembre 2017 Pag 1 Il “Padre Nostro” nel destino di tutti di Emanuele Trevi Il Papa, la preghiera Non posso certo vantare conoscenze specialistiche, ma l’insoddisfazione di papa Francesco per la traduzione italiana corrente di un luogo cruciale del Padre Nostro mi sembra del tutto sensata: sia dal punto di vista della fede, che da quello della sua espressione nella nostra lingua. La notizia ha fatto scalpore: «non ci indurre in tentazione», sostiene Francesco, non rende giustizia alla bellezza e alla profondità dell’originale. Se interpreto bene, la critica non denuncia un errore vero e proprio. Non si tratta insomma di una questione filologica, come quella del famoso e discusso «cammello» che passerebbe per la cruna di un ago più facilmente di un ricco nel Regno dei Cieli. Con grande sensibilità, Francesco mi sembra alludere a un altro e più insidioso ordine di problemi, che può rendere «non buona» anche una traduzione formalmente accettabile. L’italiano diventerebbe in questo modo il veicolo di un pensiero inutile e fuorviante annidato proprio in un punto apicale del messaggio di Gesù e in una delle più belle preghiere della storia umana. Non vorrei peccare di narcisismo o futilità, ma alla lettura di questa notizia mi sono sentito risarcito di un disagio infantile. Anche se poi non diventeranno tutti uomini di fede, i bambini educati in scuole cattoliche possono nutrire dubbi teologici di straordinaria complessità. E la meravigliosa, ma certe volte perniciosa vaghezza dell’italiano può diventare una fonte inesauribile di incertezze. Sospetto che Francesco ne sappia qualcosa, per il fatto che gli è toccata in sorte una madrelingua che ha pregi e difetti molto simili ai nostri. Ebbene, «non ci indurre in tentazione» proprio non mi andava giù, ai bei tempi della scuola delle monache. Non che chiedessi spiegazioni: a quei tempi, eravamo bambini ubbidienti, e fin troppe cose ce le tenevamo per noi. Ma perché il Padre, che già era così addolorato dalla nostra fatale tendenza alla cattiveria, doveva anche indurci in tentazione? Che senso aveva, pensavo in segreto ogni mattina, dopo la recita della preghiera, quel comportarsi da Lucignolo con tutti noi, sventurati Pinocchi? E soprattutto: non era addirittura irrispettoso scongiurarlo di non aggravare le cose con un tale scherzo? Non sono un credente, e confesso che da adulto non avevo mai approfondito la questione, eppure la lettura di questa notizia mi ha commosso, se non altro perché ritengo che il Padre Nostro valga un po’ per tutti, che parli per tutti, che esprima cose che riguardano il destino di ognuno, la parte più nobile della nostra comprensione del mondo. E dato che le notizie che ci toccano sono davvero poche, ho colto al volo l’occasione e, interrotte le mie faccende, ho tirato giù un libro di Simone Weil, l’Attesa di Dio, vergognandomi un poco per la polvere che si era accumulata sopra dall’ultima volta che l’avevo preso in mano. Per tutta la vita, la grande mistica ha meditato sul Pater Noster. Per assimilarlo meglio, copiava l’originale dal Vangelo di Matteo. Lo recitava ogni mattina, sentendo il suo pensiero, come scrisse una volta, strappato dal suo corpo e trasportato «in un luogo fuori dello spazio». E ovviamente, cercò più volte di tradurlo, in quel francese che sapeva usare in maniera così personale e sorprendente, degna del confronto con Pascal. Ebbene, Simone Weil, su questo punto controverso dell’«indurci in tentazione», risolve in una maniera che, temo, sarebbe considerata non soddisfacente da Francesco: «Ne nous jette pas dans l’épreuve», ovvero «non metterci alla prova». Ma sono bellissime le considerazioni aggiunte nel 1941. Simone Weil interpreta la supplica nella chiave dell’ansia del futuro. Anche se «oggi» riceve il suo pane, il fedele sa che tutto, nella vita, è soggetto al mutamento e alla possibilità della perdita. Questo timore è registrato dalla preghiera come in un fedele diagramma, che inizia con la parola «Padre» e termina con il suo opposto, «male». Proprio nell’accettazione di questo rischio, pensa Simone Weil, consiste l’umiltà. Esiste dunque una paura buona, quella paura che è il paradossale «compimento della fiducia». Così vivono gli uomini, che abbiano una fede o che non ne siano capaci: temendo di perdere ciò che hanno, ma senza mai smettere di crederci. E questo vale anche per tutte le parole che cercano di esprimere la nostra condizione.

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Ogni traduzione è incerta e lacunosa. Gesù stesso non avrà certo insegnato la preghiera agli Apostoli nel greco di Matteo o di Luca. Bisogna essere grati a Francesco perché ci invita a praticare l’unica soluzione possibile, che è quella di non accontentarsi, di non impigrire nell’abitudine che è la madre dell’insignificanza, continuando a scavare, a studiare. Fino a che la fatale inadeguatezza di ogni parola umana, a forza di essere sollecitata, produca finalmente la sua scintilla di significato . Pag 21 I complimenti all’inviato del Tg1. Il Papa e la lezione di comunicazione di Gian Guido Vecchi «L’importante è che il messaggio arrivi». Di ritor-no dal Bangladesh, rispon-dendo ai giornalisti, Francesco ha offerto una lezione che andrebbe studiata nelle facoltà di comunicazione. Proprio come quando, nel giorno dell’Immacolata, si è fermato a salutare in diretta il giornalista del Tg1 Marco Clementi e lo ha ringraziato per un servizio dallo stesso Bangladesh, «è stato coraggioso lei con quel program-ma, è stato ben valutato!». In quasi cinque anni di pontificato, Bergoglio ha saputo conquistare tanti con la sua spontaneità. Il Papa che gestisce da sé la sua agenda, senza filtri, risponde alle lettere, telefona, nel caso lascia messaggi in segreteria che talvolta vengono presi per scherzi. Il Papa che esce dal Vaticano per cambiare gli occhiali o le scarpe e si stupisce dello stupore generale all’immagine di un pontefice che sale sull’aereo reggendo da sé il bagaglio a mano: «Portavo la borsa con me perché sempre ho fatto così: è normale. E dentro c’è il rasoio, il breviario, l’agenda, un libro da leggere… Dobbiamo abituarci ad essere normali». L’errore è considerare la «normalità» come qualcosa di ingenuo o naïf. O al contrario pensare ad una fredda «strategia» a tavolino. Per Francesco, comunicare significa entrare in dialogo con una persona. È una forma di testimonianza evangelica. Il modello del comunicatore è il Buon Samaritano: «Gesù inverte la prospettiva: non si tratta di riconoscere l’altro come un mio simile, ma della mia capacità di farmi simile all’altro. Comunicare significa prendere consapevolezza di essere umani, figli di Dio. Mi piace definire questo potere della comunicazione come “prossimità”». Così, ai giornalisti che gli chiede-vano perché avesse nominato i Rohingya a Dacca e non in Myanmar - dove il nome della minoranza musulmana è impronunciabile - ha risposto che un «adolescente in crisi» può «sbattere la porta in faccia», però così «il messaggio non arriva, si chiude». Comunicare è entrare in dialogo, «dire le cose passo passo, ascoltare le risposte». L’essenziale è che il messaggio passi: «Tante volte, anche nei media, le denunce fatte con aggressività chiudono il dialogo, e il messaggio non arriva». AVVENIRE di sabato 9 dicembre 2017 Pag 17 L’Angelus: “Non è l’età che invecchia, ma il peccato” La solennità dell’Immacolata Concezione al centro della riflessione di papa Francesco all’Angelus di ieri in piazza San Pietro. Parlando di Maria ha spiegato che il più bel complimento è riconoscerla «piena di grazia» e ha ricordato che il peccato «rende vecchi perché sclerotizza il cuore». Di seguito le parole del Papa prima della preghiera mariana. Cari fratelli e sorelle, buongiorno e buona festa! Oggi contempliamo la bellezza di Maria Immacolata. Il Vangelo, che narra l’episodio dell’Annunciazione, ci aiuta a capire quello che festeggiamo, soprattutto attraverso il saluto dell’angelo. Egli si rivolge a Maria con una parola non facile da tradurre, che significa “colmata di grazia”, “creata dalla grazia”, «piena di grazia» (Lc 1,28). Prima di chiamarla Maria, la chiama piena di grazia, e così rivela il nome nuovo che Dio le ha dato e che le si addice più del nome datole dai suoi genitori. Anche noi la chiamiamo così, ad ogni Ave Maria. Che cosa vuol dire piena di grazia? Che Maria è piena della presenza di Dio. E se è interamente abitata da Dio, non c’è posto in lei per il peccato. È una cosa straordinaria, perché tutto nel mondo, purtroppo, è contaminato dal male. Ciascuno di noi, guardandosi dentro, vede dei lati oscuri. Anche i più grandi santi erano peccatori e tutte le realtà, persino le più belle, sono intaccate dal male: tutte, tranne Maria. Lei è l’unica “oasi sempre verde” dell’umanità, la sola incontaminata, creata immacolata per accogliere pienamente, con il suo “sì”, Dio che veniva nel mondo e iniziare così una storia nuova. Ogni volta che la riconosciamo piena di grazia, le facciamo il complimento più grande, lo stesso che le

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fece Dio. Un bel complimento da fare a una signora è dirle, con garbo, che dimostra una giovane età. Quando diciamo a Maria piena di grazia, in un certo senso le diciamo anche questo, al livello più alto. Infatti la riconosciamo sempre giovane, perché mai invecchiata dal peccato. C’è una sola cosa che fa davvero invecchiare, invecchiare interiormente: non l’età, ma il peccato. Il peccato rende vecchi, perché sclerotizza il cuore. Lo chiude, lo rende inerte, lo fa sfiorire. Ma la piena di grazia è vuota di peccato. Allora è sempre giovane, è «più giovane del peccato», è «la più giovane del genere umano» (G. Bernanos, Diario di un curato di campagna, II, 1988, p. 175). La Chiesa oggi si complimenta con Maria chiamandola tutta bella, tota pulchra. Come la sua giovinezza non sta nell’età, così la sua bellezza non consiste nell’esteriorità. Maria, come mostra il Vangelo odierno, non eccelle in apparenza: di semplice famiglia, viveva umilmente a Nazaret, un paesino quasi sconosciuto. E non era famosa: anche quando l’angelo la visitò nessuno lo seppe, quel giorno non c’era lì alcun reporter. La Madonna non ebbe nemmeno una vita agiata, ma preoccupazioni e timori: fu «molto turbata» (v. 29), dice il Vangelo, e quando l’angelo «si allontanò da lei» (v. 38), i problemi aumentarono. Tuttavia, la piena di grazia ha vissuto una vita bella. Qual era il suo segreto? Possiamo coglierlo guardando ancora alla scena dell’Annunciazione. In molti dipinti Maria è raffigurata seduta davanti all’angelo con un piccolo libro in mano. Questo libro è la Scrittura. Così Maria era solita ascoltare Dio e intrattenersi con Lui. La Parola di Dio era il suo segreto: vicina al suo cuore, prese poi carne nel suo grembo. Rimanendo con Dio, dialogando con Lui in ogni circostanza, Maria ha reso bella la sua vita. Non l’apparenza, non ciò che passa, ma il cuore puntato verso Dio fa bella la vita. Guardiamo oggi con gioia alla piena di grazia. Chiediamole di aiutarci a rimanere giovani, dicendo “no” al peccato, e a vivere una vita bella, dicendo “sì” a Dio. Francesco IL FOGLIO di sabato 9 dicembre 2017 Pag XII Cristo sempre più a Est di Matteo Matzuzzi E’ l’Asia la sfida per la chiesa del Terzo millennio. Un continente immenso dove i cristiani sono ancora una minoranza quasi invisibile Testo non disponibile CORRIERE DELLA SERA di sabato 9 dicembre 2017 Pag 23 Il degrado della capitale, la preghiera di Francesco di Gian Guido Vecchi Scende dalla solita utilitaria, un cappotto bianco a proteggerlo dal freddo di questi giorni. «Madre Immacolata, per la quinta volta vengo ai tuoi piedi come vescovo di Roma, a renderti omaggio a nome di tutti gli abitanti di questa città…». Francesco solleva lo sguardo verso la statua della Madonna in cima alla colonna di piazza di Spagna, il tradizionale «atto di venerazione» nel giorno dell’Immacolata. E la sua preghiera è rivolta ai mali della capitale, e non solo: «O Madre, aiuta questa città a sviluppare gli “anticorpi” contro alcuni virus dei nostri tempi: l’indifferenza, che dice: “Non mi riguarda”; la maleducazione civica che disprezza il bene comune; la paura del diverso e dello straniero; il conformismo travestito da trasgressione; l’ipocrisia di accusare gli altri, mentre si fanno le stesse cose; la rassegnazione al degrado ambientale ed etico; lo sfruttamento di tanti uomini e donne. Aiutaci a respingere questi e altri virus con gli anticorpi che vengono del Vangelo». Accolto dall’arcivescovo vicario, Angelo De Donatis, Francesco ha stretto la mano e conversato sorridendo con la sindaca Virginia Raggi, quindi si è fermato a salutare e benedire malati, disabili, anziani e bambini. Le sue parole alla Vergine ricordano in particolare i fedeli e le persone più sofferenti: «Vogliamo ringraziarti per la costante premura con cui accompagni il nostro cammino, il cammino delle famiglie, delle parrocchie, delle comunità religiose; di quanti ogni giorno, a volte con fatica, attraversano Roma per andare al lavoro; dei malati, degli anziani, di tutti i poveri, di tante persone immigrate qui da terre di guerra e fame». Prima di andare in piazza di Spagna, il Papa ha pregato a Santa Maria Maggiore, di fronte alla «Salus Populi Romani», l’icona mariana cara in particolare alla Compagnia di Gesù. Rientrando in Vaticano, si è fermato davanti alla Madonna di Sant’Andrea delle Fratte, anch’essa

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legata ai confratelli gesuiti: in quel luogo, 175 anni fa, si convertì Alfonso Ratisbonne, «che da ateo e nemico della Chiesa divenne cristiano». Pag 25 Non lasciarci cadere di Adriano Celentano Riflessione sulla frase “sbagliata” del Padre Nostro Ha ragione il Papa quando dice che Dio non è un tentatore e che la frase tradotta dal Padre Nostro è sbagliata. Tant’è vero che se apriamo il Vangelo dell’ultima edizione a cura della Cei, noteremo che il problema era già stato affrontato sostituendo «Non indurci in tentazione» con la frase: «Non abbandonarci alla tentazione». Che però secondo il mio «parere-Rock» ancora non basta. La traduzione giusta è quella dei francesi: «Non lasciarci cadere nella tentazione» che vorrebbe dire: «Gesù se sto per affondare Salvami». Per cui ora che ci penso, cosa devo pensare, che Gesù non sapesse quello che diceva? Eh no ragazzi, così non va. Non vi pare vero di aver finalmente trovato un appiglio per screditarlo: «Non c’è malattia che Lui non possa sconfiggere, i ciechi riacquistano la vista, i sordi ci sentono, i paralitici camminano e i morti RISUSCITANO però Lui non sa quello che dice». Ma com’è possibile?!?... La verità è che Gesù, ancora una volta, fra le tante strade che portano a Dio ce ne indica un’altra che stiamo scoprendo solo 2.000 anni dopo. Non basta leggere le parole, a volte è molto più importante leggere «FRA» le parole. E se quando leggiamo stiamo attenti a quello che viene prima dell’ipotetico «sbaglio» e a quello che viene dopo, non possiamo non intendere che quel «Non indurci» rivolto a Dio, significa una cosa sola: «Signore, noi che per natura siamo indotti a peccare, a stuprare e a uccidere con ogni forma di violenza, FERMACI prima che anche l’Anima smarrisca la via...» quella via che segna l’unica direzione verso la felicità ETERNA!!! Dove le bellezze del Paradiso sono inimmaginabili, come disse San Paolo quando per pochi attimi fu rapito in Paradiso: «Nessuna penna è in grado di descrivere le strabilianti meraviglie del Paradiso». Una gioia così grande di fronte alla quale nessun comune mortale è in grado di reggere. Il cuore si spezzerebbe. Per cui Gesù non ha sbagliato ma ha soltanto voluto dire che chi ci induce a peccare è uno solo: Satana, e tuttavia se noi insistiamo sulla via del baratro, Dio non si oppone. Ecco che allora quel «Non indurci» è solo una preghiera, forse la preghiera più importante detta con forza. «Tu Padre non ti opponi e ci lasci liberi, ma se noi te lo chiediamo e tu puoi farlo, non lasciarci cadere nella tentazio-ne, non indurci in tentazio-ne». LA REPUBBLICA di sabato 9 dicembre 2017 Pag 26 L’inviato del Papa firma la svolta su Medjugorje: culto autorizzato di Paolo Rodari Testo non disponibile Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO IL GAZZETTINO Pag 1 Quei cinque “no” non negoziabili con i propri figli di Alessandra Graziottin Avere figli ben riusciti, oggi, sembra più difficile di ieri. I fattori extrafamiliari che possono interferire con la realizzazione emotiva, affettiva, cognitiva, scolastica e professionale di un figlio sono tanti e tali, dai social media alla facilità di accesso ad alcol e droghe, da inquietare a fondo più di un genitore. Viaggiando molto per lavoro, mi entusiasma conoscere Colleghi e Colleghe e i loro figli, dei Paesi più diversi. Medici, sì, ma il compito di essere un genitore sufficientemente buono, come diceva John Bowlby, ha alcuni denominatori comuni universali, al di là della professione: la necessità di mediare amore e tenerezza con autorevolezza e fermezza; l'attenzione a far sbocciare i talenti di un figlio, ma anche a vegliare su velleitarismi dispersivi; equilibrio dinamico tra ricerca di eccitazione/sperimentazione e autoprotezione; rispetto aperto a crescenti spazi di libertà decisionale ed esistenziale, da coniugare con educazione e rispetto di alcune

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regole di convivenza essenziali; non ultimo, equilibrio sottile e dinamico tra le seduzioni di un conformismo comportamentale e la capacità di essere se stessi senza attivare la modalità pappagallo, nel linguaggio e nei comportamenti. Quando incontro famiglie con figli sereni, solidi, affettuosi e realizzati, mi piace conversare con i genitori e i loro figli e sentire che cosa ha funzionato, in un mondo che è oggi un frullatore di famiglie. Da un lato ci vogliono certezze affettive: papà e mamma, anche separati, che diano la sicurezza di esserci e di amare il loro bambino, seppur con vite professionali impegnative. Che trovino il tempo di ascoltarli, con le antenne del cuore ben accese, e di accompagnarli a scuola, conversando e tenendo il cellulare spento; di fare sport insieme, che sia la bicicletta, il nuoto o la montagna. Genitori che, comunque vadano le cose, non usano i figli come proiettili nelle loro battaglie personali. E che mantengono un sostanziale rispetto tra loro, specialmente quando sono con i figli o cercano di scegliere insieme il meglio per il loro futuro. Rispetto: ecco un comportamento cardinale dei rapporti umani, familiari in primis. Non sempre facile da mantenere, ma degno di essere la Stella del Nord di ogni rapporto significativo. «Respect is the hardest challenge», il rispetto è la sfida più dura. Questo sul lato luminoso del rapporto genitori e figli. E sul lato oscuro, difficile, a volte conflittuale, qual è il segreto di figli ben riusciti? Ho trovato interessanti più di tutto i cinque no non negoziabili, espressi da Colleghi di Paesi remoti tra loro per cultura e tradizioni: Francia, Irlanda, Lettonia, Messico, Ucraina. «Mia moglie si è dedicata alle nostre figlie. Non è stato semplice, soprattutto con la prima, con cui ci capiamo al volo ma che è molto tosta. Brava a scuola, l'abbiamo incoraggiata nello sport per far esprimere la sua esuberante energia in modo sano. In casa nostra, le ho detto, su cinque cose il no non è negoziabile: niente alcol, droghe e fumo, niente piercing e tattoo fino ai 18 anni. Farai quello che vuoi quando sarai più grande e autonoma. Punto. Queste sono le regole». «In realtà aggiunge le discussioni ci sono state, eccome, ma mia moglie e io eravamo un fronte unito. Oggi Scarlett ha un lavoro che la entusiasma, un ragazzo che la adora ed è una giovane donna felice. E con noi genitori ha un rapporto bellissimo». L'ho conosciuta. Confermo. Ho ritrovato questo stile educativo in tante altre famiglie. Un Collega, separato da anni, mi ha fatto leggere il messaggio inviatogli dalla figlia, oggi ventottenne, con un bel lavoro nella moda a Parigi, il giorno del compleanno («Non credere che lo faccia vedere a tutti, anzi, solo a te, ma questa conversazione sui figli mi ha preso molto»). Una figlia, unica, con cui lo scontro su alcol e tattoo era stato, a suo dire, veramente duro. Scriveva la ragazza: «Caro Papà, abbiamo avuto momenti molto tesi, per la mia passione per i tattoo. Solo adesso capisco cosa vuol dire avere una pelle intatta e il cervello sano. Ho capito che sarebbe stato più facile per te dirmi di sì. E che mi hai dimostrato di volermi bene, proprio perché hai avuto il coraggio e la forza di dirmi di no. Ho avuto bisogno di anni, per capirlo (cuoricini). Perdonami. Buon compleanno Papà, con tutto il mio affetto». Amore sì, ma anche il coraggio di dare le regole, e saper dire di no. Nel rispetto reciproco. CORRIERE DELLA SERA di sabato 9 dicembre 2017 Pag 1 Statalismi di ritorno in economia di Francesco Giavazzi Promesse ed elezioni C’è una sorta di strabismo che colpisce i politici quando si avvicinano le elezioni. Volendo acquisire consenso, l’unica strada che riescono a percorrere è quella delle promesse. Promesse con cui vorrebbero rendersi paladini dei cittadini. E che quasi mai riescono a realizzare visto che, come spesso accade, sono promesse basate su maggiori spese che i conti dello Stato non consentono. Non è spiegabile altrimenti come negli ultimi anni si siano smarrite strade che ormai sembravano acquisite e che portavano benefici alla maggioranza dei cittadini, non a lobby organizzate. Il caso della concorrenza è emblematico. Ogni anno il governo, sulla base delle segnalazioni dell’Autorità antitrust, dovrebbe proporre al Parlamento una legge sulla concorrenza: lo prevede la legge 99 del 23 luglio 2009. In realtà in nove anni questo obbligo è stato rispettato solo una volta: dal governo Renzi nel 2015. E sì che i cittadini pensano che la concorrenza sia importante. Per l’84% degli italiani «amplia la libertà di scelta dei consumatori», per il 74% «consente un miglioramento della qualità di beni e servizi». (Dati dell’Eurobarometro, indagine della Commissione europea). Ci sono voluti 30 mesi perché quella legge sulla concorrenza venisse approvata dal Parlamento. In quei 30 mesi le

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mille piccole rendite (tutte sulle spalle dei cittadini) che il testo iniziale della legge cercava di ridurre vennero in gran parte salvate. Ad esempio continuando ad obbligare i cittadini a rivolgersi a un notaio per costituire una srl semplificata o per cederne le quote. O mantenendo il monopolio legale di Poste italiane sulla consegna degli atti giudiziari. Quegli interessi particolari però non si sono accontentati. Ad esempio, la legge sulla concorrenza faceva un piccolo passo avanti per liberalizzare le farmacie: non aumentava le licenze ma almeno consentiva di trasferirle a società di capitali, con ovvi vantaggi per i consumatori che avrebbero potuto beneficiare dei minori costi di gestione di una grande farmacia rispetto a una piccolina. Puntualmente pochi giorni fa è stato approvato un emendamento alla Legge di bilancio 2018 il cui scopo è dare un sussidio alla Cassa di previdenza dei farmacisti facendolo pagare alle società che acquisiranno farmacie. E ciò nonostante che quelle società e quei dipendenti già versino i contributi previdenziali. Insomma un regalo ai farmacisti che ostacolerà la crescita delle farmacie e quindi i benefici per i consumatori. Dopo le liberalizzazioni del secondo governo Prodi (2006-2008) il virus dell’anti-mercato si sta di nuovo diffondendo. Per evitare che aziende «strategiche» vengano acquistate da «stranieri», il ministro Calenda ha riattivato e rimesso a nuovo i «poteri speciali». Si tratta di norme che consentono al governo di porre un veto o comunque delle condizioni a qualunque passaggio di controllo su aziende ritenute strategiche. Comprensibile l’idea di evitare «scorrerie». Ma il rischio di un’estensione a dismisura è reale. E poiché a Bruxelles queste norme protezioniste hanno trovato la comprensibile opposizione dei Paesi dell’Europa del Nord, l’Italia ha deciso di fare da sola. Ma che cosa è un’azienda strategica? Passi per le aziende militari ma perché non anche il turismo? Siamo o no un Paese che vive di turismo? Si chiedeva ironicamente Franco Debenedetti sul Sole24Ore del 16 ottobre. Non essendo riusciti a convincere l’Europa ad adottare una tassa comune sugli acquisti fatti via internet, anche qui abbiamo fatto da soli introducendo la cosiddetta web tax. E abbiamo fatto un pasticcio. Questa tassa non colpirà giganti come Google, Amazon e Apple, che già hanno o avranno a breve una stabile organizzazione in Italia. Come ha scritto su «L’Economia» del Corriere il 20 novembre Giampaolo Galli, deputato del Pd, si rischia «davvero una beffa se alla fine la pagassero i consumatori e le imprese italiane». Oggi è l’anniversario della nascita di Carlo Azeglio Ciampi, 9 dicembre 1920. Da ministro del Tesoro, Ciampi trasferì al mercato, perlomeno in parte, la proprietà di Eni, Enel, Telecom, Autostrade, Aeroporti di Roma. Una stagione ormai lontana. Oggi si chiama privatizzazione la vendita di quote di aziende possedute dallo Stato alla Cassa depositi e prestiti, un ente del quale lo Stato ha la maggioranza assoluta. Una furbizia per fare cassa senza perdere il controllo delle aziende, e quindi il potere di nominarne gli amministratori. Come se gli investitori internazionali che possiedono il 40% del nostro debito pubblico non sapessero calcolare il nostro bilancio consolidato. C’è insomma una sorta di ritorno al passato. Quanto siano determinati politica e sindacato a riprendersi il controllo di ciò che per un momento avevano perduto lo si vedrà presto all’Inps. Il professor Tito Boeri (mio collega alla Bocconi) fu nominato presidente dell’Inps da Renzi tre anni fa. In precedenza i presidenti dell’Inps erano stati, a turno, i segretari generali dei tre maggiori sindacati: Cgil, Cisl e Uil, nominati come ricompensa il giorno in cui scadeva il loro incarico. Successivamente sono stati tecnici vicini alla politica e al governo, ad esempio l’avvocato Paolo Sassi, consigliere giuridico dell’allora ministro del Lavoro, Roberto Maroni, che lo nominò prima commissario straordinario e poi presidente dell’istituto. L’Inps da sempre è un’organizzazione in cui la fedeltà al sindacato conta molto di più della competenza: nel lavoro di tutti i giorni e soprattutto nella carriera. La scelta di Boeri di puntare sull’efficienza e la trasparenza - ad esempio riducendo le direzioni generali da 48 a 36 e arginando lo strapotere dei sindacati, specie in tema di nomine - ovviamente ha dato fastidio. «Una delle cose che dovremo fare l’anno prossimo è quella di riconquistare la gestione della previdenza» ha detto Carmelo Barbagallo, segretario generale della Uil. «Salviamo il soldato Boeri!» ha scritto sul Foglio Carlo Stagnaro. Un’altra accusa che gli viene rivolta sono le sue incursioni tra il tecnico e il politico cioè dire quello che pensa dei tentativi di disfare la riforma Fornero. C’è da chiedersi se sarebbe davvero un comportamento responsabile, quello di confinarsi nel silenzio del civil servant. Ma forse è quello che vorrebbe una larga maggioranza delle forze politiche impegnate a comprare consenso elettorale. Un consenso da ottenere oggi, a spese dei lavoratori e dei cittadini di domani.

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AVVENIRE di venerdì 8 dicembre 2017 Pag 1 Non è un’Italia per giovani di Leonardo Becchetti Crescente miseria e giusti rimedi L’Italia non è un Paese per bambini, giovani e famiglie e il rischio di cadere in povertà è inversamente proporzionale all’età e alla dimensione della famiglia come ci confermano i dati dell’indagine Eu-Silc relativi al 2016 rilasciati giovedì 7 dicembre dall’Istat. Il dato medio nazionale è già impressionante perché il 30% degli italiani sono a rischio povertà, il valore più elevato dal 2004 a oggi (siamo al quintultimo posto in Europa seguiti solo da Romania, Bulgaria, Grecia e Lettonia). La percentuale sale però al 37% se guardiamo alle persone sole con meno di 65 anni e addirittura al 46% se ci concentriamo sulle famiglie con più di 4 figli. I dati sulla povertà indicano che, dietro un reddito medio disponibile che è tornato lentamente a crescere negli ultimi anni, resta la profonda frattura di una società divisa in due. Con un troncone che ha perso contatto con il gruppo di testa ed è risucchiato nella corsa verso il basso della remunerazione del lavoro a bassa qualifica per la concorrenza dell’automazione o dell’esercito di riserva mondiale del lavoro a basso costo. L’apparente contraddizione tra la ripartenza del Pil e del reddito medio disponibile e il peggioramento dei dati sul rischio povertà conferma che la lotta alla povertà non è soltanto questione di ricette per la crescita, ma riguarda crucialmente il modo in cui la nuova ricchezza creata viene redistribuita. Il «rancore che cresce» segnalato dal recente rapporto Censis non è dunque solo frutto di fake news, di notizie false e manipolate e tendenziose, ma anche di problemi economici profondi, che dobbiamo risolvere pure creando, nel segno dell’equità, opportune reti di protezione e reinserimento sociale. La drammaticità della situazione che stiamo vivendo è che essa, anche in prospettiva, sta tagliando fuori da opportunità di crescita sana e serena, da accesso a istruzione e salute una parte importante degli adulti di domani con conseguenze enormi sul capitale sociale, umano ed economico futuro dell’Italia. Un recente bando con risorse messe a disposizione dalle fondazioni bancarie e gestito da Fondazione con il Sud si propone oggi di immettere nel Paese risorse importanti per finanziare progetti di contrasto alla povertà educativa gestiti dalla comunità educante. Concetti come 'povertà educativa' e 'comunità educante' ci fanno capire che stiamo parlando di qualcosa di nuovo rispetto all’approccio tradizionale secondo il quale per uscire dalla povertà è sufficiente un mero trasferimento di risorse monetarie o di beni di prima necessità. Per gli addetti ai lavori che operano per risolvere questi problemi, è infatti chiaro dall’esperienza delle storie di caduta e uscita dalla povertà che la stessa è un fenomeno multidimensionale. E che la povertà economica è la cifra monetaria di un fenomeno che trae spesso origine da choc relazionali, di aspirazioni, stimoli e competenze. Se questo è vero, il trasferimento economico necessario per risalire la china è solo l’occasione utilizzata dalle organizzazioni per coinvolgere il beneficiario in un percorso di capacitazione che mira alla ricostruzione di una ricchezza di rete di relazioni e alla rigenerazione di desideri, stimoli e fiducia di sé. Le conseguenze sulle politiche sono evidenti. Per curare la piaga della povertà dei minori bisogna lavorare sulle famiglie affiancando nella rete di protezione universale del reddito d’inclusione (Rei), che prevede il trasferimento monetario ai beneficiari, la presa in carico da parte di realtà vocate del territorio, in grado di avviare un percorso di capacitazione lavorando sulle cause profonde (relazioni ferite, competenze, autostima). Importante dunque che una quota delle risorse previste per il Rei sia indirizzata a questo scopo anche se sarà essenziale nei prossimi anni portare il Rei (ormai misura strutturale) a regime arrivando a quei 7 miliardi necessari per far arrivare gli oltre quattro milioni e mezzo di poveri assoluti almeno alla soglia di povertà. Nel contempo sappiamo che ogni risorsa richiesta verso una destinazione particolare deve essere sottratta da qualche altro capitolo del bilancio pubblico. E dunque, è lecito domandarsi in conclusione se in un Paese come il nostro, sbilanciato verso la spesa pensionistica anche nel confronto con gli altri Paesi europei e con una dinamica demografica drammatica che è in parte conseguenza di queste scelte, abbia senso la battaglia per evitare l’adeguamento dell’età pensionabile alla crescita dell’aspettativa di vita. Fermo restando la necessità di andare oltre il dato medio e di tener conto dei lavori usuranti. Il nostro non è un Paese per giovani e tantomeno per bambini. Le generazioni più adulte che hanno avuto la fortuna di costruire il loro futuro

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in un’epoca migliore hanno oggi una responsabilità fondamentale. E sono chiamate a una forma di solidarietà intergenerazionale che prevede una maggiore attenzione nei progetti e nelle risorse alle nuove generazioni con maggiori investimenti verso le famiglie più in difficoltà dove le stesse nascono e si formano. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA di domenica 10 dicembre 2017 Pag 30 “Accogliere i profughi grande gesto di umanità” di Alessandro Abbadir Oriago. Il Comune di Mira ha ringraziato pubblicamente il Patriarca Francesco Moraglia per il suo grande gesto di umanità in favore dei profughi nelle scorse settimane: per aver cioè aperto le porte delle chiese e degli oratori in novembre a oltre 200 richiedenti asilo provenienti da Cona. A ricordarlo è stato ieri il vicesindaco Gabriele Bolzoni durante il rito di immissione canonica di don Cristiano Bobbo, parroco di San Pietro e da ieri anche delle parrocchie del Sacro Cuore di Ca' Sabbioni e di Santa Maria Maddalena, quella di Oriago centro. Una cerimonia di immissione, quella di don Cristiano, a cui hanno assistito centinaia di persone e che è stata celebrata dal Patriarca.«Nel presenziare e dare un saluto a don Cristiano Bobbo per il suo nuovo incarico a capo di tre parrocchie», ha detto nell'occasione il vicesindaco di Mira, Bolzoni, «mi sento di porre un particolare ringraziamento al Patriarca di Venezia Moraglia per l'apporto umanitario che ha voluto dimostrare in un momento di particolare emergenza sul tema dell'accoglienza. Un'azione che si è dimostrata con la sua decisione di aprire le strutture delle chiese di Mira Taglio, Oriago, Borbiago e Gambarare per far riparare dal freddo e sfamare oltre 200 profughi, che a piedi volevano raggiungere Venezia per chiedere al Prefetto un incontro risolutore relativo ai problemi collegati all'ex base militare di Cona. Anche il Comune di Mira», ha aggiunto Bolzoni, «si è adoperato in prima persona su questo tema, è sempre stato in stretto collegamento con il Prefetto per trovare una soluzione. Siamo intervenuti per fornire pasti caldi al gruppo di profughi facendo fronte all'emergenza. È chiaro che solo così possiamo dare risposte efficaci anche su temi come questi che sono di vera e propria trasformazione epocale». Il Patriarca di Venezia presentando don Cristiano Bobbo ha sottolineato come sia importante che le comunità di Oriago centro, San Pietro e Ca' Sabbioni accolgano con un abbraccio il loro nuovo parroco. «Il compito di don Cristiano», ha detto Moraglia, «sarà complicato, ma sarà svolto meglio se ci sarà sempre il grande supporto e l'amore di tutta la comunità cristiana». «Un incarico, quello che mi è stato assegnato», ha detto don Cristiano, «indicato con precisione, 9 anni. Sarà un cammino cristiano di crescita che faremo insieme» IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 9 dicembre 2017 Pag IX Trivignano, writer in chiesa Se ne sono accorti dopo la messa delle dieci perché nessuno aveva ancora aperto la porta laterale della chiesa di Trivignano. I writer di turno, però, avevano agito durante la notte. Le scritte e i disegni il giorno prima non c'erano, e ieri mattina il parroco don Claudio Gueraldi non ha visto nessuno all'opera. Non sono state fatte scritte o disegni blasfemi, o che richiamino a movimenti satanici, però gli ignoti hanno comunque rovinato una parete esterna della chiesa di San Pietro Apostolo. Il parroco ha chiamato la polizia e con loro ha preso a visionare le registrazioni delle telecamere di sorveglianza che sono sul davanti dell'edificio nella piazzetta che si affaccia su via Della Chiesa, per vedere se i ragazzi sono stati ripresi in flagrante mentre eseguivano la loro opera. LA NUOVA di sabato 9 dicembre 2017 Pag 25 Chiusi 26 e 1 gennaio? «Elemosina» di Marta Artico Centri commerciali, don Torta: «Vogliono solo rifarsi la verginità». Ieri maxi store presi d'assalto

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«Ci hanno preso tutto e adesso ci fanno l'elemosina per rifarsi la verginità». Don Enrico Torta, il parroco di Dese che da anni si batte per il riposo domenicale e festivo, non accetta compromessi. Il sacerdote interviene sulla scelta dei tre grossi centri commerciali veneziani, Valecenter di Marcon, Auchan di Mestre e Nave de Vero di Marghera, di non aprire a San Silvestro e Santo Stefano. «Sono piccoli passi diplomatici, perché centri come il Valecenter prolungano l'orario e fanno lavorare le commesse tutto il mese. Io li chiamerei contentini perché la gente non si ribelli, ci hanno preso tutte le domeniche e le feste dedicate alla famiglia e adesso per rifarsi la verginità ci fanno l'elemosina, un po' come le banche venete stanno facendo con le persone che hanno messo in ginocchio». E ancora: «Quello che serve è una legge nazionale che ci dia quello che ci è stato tolto. Nei Paesi avanzati nei giorni festivi si sta a casa, al massimo c'è un centro unico aperto. Lo fanno tutti, perché non noi?». Ieri, nel frattempo, le arterie viarie di accesso ai centri commerciali, erano bloccate. Automobilisti in fila per fare le compere. Tiziana D'Andrea, leader trevigiana del movimento Domenica No Grazie Italia, invece, plaude all'iniziativa dei templi dello shopping. Una materia sempre calda, tanto che l'assessore veneto Roberto Marcato ha convocato sindacati, categorie e attori della partita in Regione venerdì prossimo per rilanciare la delicata questione.«È sicuramente una bella iniziativa», spiega D'Andrea, «è magnifico che Venezia sia un esempio, perché come Domenica No Grazie Italia riceviamo segnalazioni di centri commerciali aperti anche il 26, come l'Ikea, è un'Italia a due velocità. Il 15 dicembre saremo in Regione per tenere alta l'asticella, il Veneto ha fatto pressione, ma la legge è nazionale. Quello di Venezia è sicuramente un esempio della buona politica e delle buona economia. E non mi dicano che c'è ripresa, perché la gente ha iniziato a fare i regali solo in questi giorni, tardi rispetto al solito. Gli altri anni si iniziava ben prima, il Black Friday è l'esempio lampante della crisi che continua a mordere». E ancora: «Adesso bisogna ricominciare a discuterne, puntare al 25 aprile, al Primo Maggio, ci sono Pasqua, Pasquetta, è necessario tracciare una linea e darsi delle regole che sono state eliminate con la liberalizzazione spinta». «Ad oggi», interviene l'assessore regionale Marcato, «abbiamo fatto tutto il possibile, la cosa drammatica è che al tavolo etico che abbiamo aperto sono tutti d'accordo sul fatto che non va bene, che il decreto Salva Italia va modificato e la proposta veneta è stata ampiamente condivisa, da destra a sinistra passando per i grillini, ma nonostante ciò è tutto fermo in commissione al Senato. Basterebbe che ci fosse la volontà politica di mandarlo avanti, che evidentemente manca». Continua: «Tra l'altro è dimostrato che la liberalizzazione spinta non ha portato un euro in più nelle casse dei lavoratori, delle grandi catene, di nessuno». L'assessore Marcato ha un asso nella manica per tentare di smuovere le acque: «Promuoverò una iniziativa per velocizzare i tempi, per questo ho invitato tutti in Regione la prossima settimana». Pag 26 Vandali a Trivignano, chiesa imbrattata di Simone Bianchi La scoperta ieri mattina nella parrocchia di San Pietro, lo sconcerto del parroco e dei fedeli Brutto risveglio, ieri mattina, per la comunità parrocchiale di Trivignano, per colpa di ignoti che la notte scorsa hanno imbrattato le pareti della chiesa di San Pietro utilizzando bombolette di spray nero. Nessuna scritta offensiva, volgarità contro la chiesa oppure svastiche come quelle apparse di recente in altri Comuni limitrofi. Solo graffiti, apparentemente senza significati precisi, ma talmente evidenti da rovinare parte delle pareti esterne della chiesa. Pareti che erano state rimesse a nuovo da poco e ora deturpate con lo spray.Ad accorgersene per primo attorno alle 11 di ieri è stato un signore che era uscito con una persona in carrozzina dopo la messa delle 10, e che ha subito dopo avvisato il parroco, dell'accaduto. «C'è inevitabilmente sdegno e fastidio per un gesto simile, ma almeno chi ha agito ha avuto il buon gusto di non scrivere volgarità o offendere qualcuno», testimonia don Claudio Gueraldi. «Niente a che vedere con quanto accadde tre anni fa al capitello mariano ai piedi del cavalcavia ferroviario che divide Trivignano e Zelarino». In quell'occasione, infatti, vennero gettate feci umane contro la statua della Madonna ospitata dentro il piccolo capitello. Ieri nella chiesa di San Pietro erano in programma due messe, alle 8 e alle 10, ma dopo la scoperta il passaparola è stato immediato tra i parrocchiani. «Ho subito chiamato la polizia, ed entro lunedì sporgerò denuncia», assicura il sacerdote di Trivignano. «Per fortuna tempo

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fa avevamo installato delle telecamere di sorveglianza davanti l'ingresso della chiesa e la canonica. Abbiamo già visionato le immagini, e si vedono dei gruppetti di persone aggirarsi in piena notte attorno alla chiesa. Di sicuro i graffiti sono stati fatti dopo le 23.30. Il mio auspicio è che non siano persone di Trivignano, dispiacerebbe davvero visto che la nostra chiesa è sempre stata molto frequentata e rispettata dai residenti. Non capisco il senso di questo gesto», conclude don Claudio Gueraldi. «Nelle prossime messe del weekend di sicuro metterò al corrente i fedeli su questa triste vicenda. Intanto abbiamo contattato un pittore di fiducia, quantomeno per capire come poter cancellare subito le scritte. Poi si vedrà come ridipingere le pareti esterne della chiesa». Pag 35 Con il presepe di sabbia progetti per tutto il mondo di Giovanni Cagnassi Ieri l’apertura a Jesolo di “Sand Nativity” Jesolo. Parte subito di slancio "Sand Nativity", che all'inaugurazione alla tensostruttura di piazza Marconi sotto la pioggia riscuote grande partecipazione nella comunità jesolana. Monsignor Lucio della parrocchia di piazza Trieste e il sindaco, Valerio Zoggia, sono entrati nell'esposizione che è diventata uno dei simboli del Natale di Jesolo e del Veneto e che il prossimo anno porterà alcune delle sculture di sabbia nientemeno che in Vaticano. Collegati a "Sand Nativity" ci sono anche numerosi progetti benefici nel mondo. Il comitato di piazza Marconi di Andrea Tauro ha pensato anche quest'anno alle luminarie. Presente all'inaugurazione, il direttore dell'Ente egiziano del Turismo in Italia, console Emad F. Abdalla, già arrivato per la mostra sull'Egitto che aprirà i battenti il 26 dicembre con tanto di piramide di sabbia dedicata. Dopo "Il Paese di Cioccolato" e "Jesolo Christmas Village", Jesolo entra davvero nel clima natalizio. Sono stati oltre un milione e 220 mila visitatori in questi 16 anni e oltre 650 mila euro raccolti e devoluti in beneficenza."Sand Nativity 2017" nasce attorno al tema "Va' e anche tu fa' lo stesso", proponendo la rappresentazione scenica di alcune parabole ed episodi del Vangelo incentrati sull'amore per il prossimo. Delle nove sculture, sei sono focalizzate sul Buon samaritano, il Figliol prodigo, "Lazzaro e il ricco Epulone" divisa in due parti, "La pecorella smarrita", "La moltiplicazione dei pani e dei pesci" e una racconta la "Vita quotidiana nell'antica Betlemme". Altre tre sculture si concentrano sui momenti chiave della venuta del Salvatore, dando forma all'Annunciazione, "I Re Magi" e naturalmente "La nascita di Gesù". Dieci gli artisti provenienti da Stati Uniti, Canada, Russia, Italia, Portogallo, Olanda, Repubblica Ceca e Lituania guidati dal direttore artistico Richard Varano, sono stati impegnati dal 23 novembre fino al 3 dicembre. Ad assistere i professionisti anche un gruppo di otto studenti del Liceo artistico Guggenheim di Venezia coordinati dal prof. Marco Lorusso e dalla dottoressa Elena Lana, jesolana "doc". Sei progetti verranno sostenuti con le offerte: la realizzazione di un pozzo artesiano a beneficio della popolazione della città di Macomia, in Mozambico; la realizzazione del centro "La Maria" nella metropoli di Cartagena de Indias, in Colombia; realizzazione di una biblioteca annessa al centro polifunzionale Casa Verona nella capitale della Guinea Bissau. La beneficenza coinvolgerà poi Avo(Associazione volontari ospedalieri), Lilt (Lega italiana per la lotta ai tumori). Tra i destinatari della solidarietà Telethon per il sostegno alla ricerca sulle malattie genetiche. CORRIERE DEL VENETO di venerdì 8 dicembre 2017 Pag 9 Basilica, salta-code più caro per i restauri e la sicurezza. Ztl e ticket: record 100 milioni di Gi.Co e G.B. Venezia. «Salta code» in basilica più caro, con l’arrivo del 2018 chi vorrà visitare San Marco senza dover aspettare in fila, sotto il sole e la caldana estiva (si prenota tra aprile e novembre) pagherà 3 euro, non più 2 euro come oggi. Per chi, invece, attendere che si smaltisca la coda non è un disagio eccessivo l’accesso resta gratuito. Ma gli verrà comunque dato un biglietto: è necessario sapere quante persone entrano in basilica. Per facilitare l’operazione, in questi giorni sono in corso i cantieri per il cablaggio con la fibra ottica. «Continuerà ad essere come accade da un anno, si pagherà solo per saltare la fila o per prenotare la visita ad un orario specifico - spiega il primo procuratore di San Marco Carlo Alberto Tesserin - vogliamo anche permettere ai visitatori di caricare sullo stesso tagliando i biglietti per il campanile, il museo marciano e la visita ai tesori, una

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possibilità che ora ci è preclusa». Cablare la basilica, proteggerne il narcete dall’acqua alta, mantenere affreschi, sculture, murature e pavimentazione ha costi molto elevati e servono molto fondi e le centinaia di migliaia di turisti che ogni anno visitano San Marco contribuiranno pagando i 3 euro di «salta code» a restauri, investimenti e manutenzioni. Il rincaro del servizio prenotazioni è l’unica novità del 2018. «Si tratta di un servizio extra, gestito da una società terza – dice don Antonio Senno, delegato del Patriarcato per la basilica di San Marco – Diverso il discorso per i musei: stiamo valutando il da farsi ma nessun aumento sul prezzo del biglietto è previsto nel corso del prossimo anno, al massimo se ne parlerà dal 2019». I turisti non stanno contribuendo solo ai lavori di conservazione della Basilica, tra imposta di soggiorno, ticket per le Ztl bus e della navigazione anche il bilancio comunale sta beneficiando per la presenza di milioni di turisti a Venezia. Il dato è emerso durante lo studio del documento finanziario per il 2018 del Comune, in questi giorni le commissioni stanno affrontato le spese, gli investimenti e le entrate di tutti i settori della macchina comunale e il capitolo dedicato alla Mobilità ci sono i numeri degli introiti da attività squisitamente turistiche. Solo di Ztl bus, ossia la tariffa che pagano le comitive che arrivano a Venezia in pullman, nel 2016, sono stati incassati 20 milioni e 250 mila mila euro, si sale a quasi 31 milioni di euro sul fronte navigazione, anche i lancioni granturismo pagano un balzello per ormeggiare in città. Si tratta del turismo «mordi e fuggi» tanto contrastato perché non porterebbe benefici ma solo disagi in centro storico. «A ben guardare - dice l’assessore alla Mobilità Renato Boraso - il turismo tra ztl e imposta di soggiorno porta 100 milioni di euro nelle casse pubbliche, si parla tanto dei danni e dei problemi per il numero eccessivo di visitatori senza tenere conto di quanto comunque viene versato all’amministrazione». I soldi delle varie tasse turistiche sono stati, ad esempio, usati per assumere i vigili stagionali il cui servizio è terminato a fine novembre e per altri interventi tra cui l’abbassamento dei prezzi delle strisce blu in tutto il territorio comunale. Quando la sperimentazione è stata avviata, i mancati guadagni sono stati coperti con fondi delle ztl bus. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di venerdì 8 dicembre 2017 Pag VI Un piano per salvare le opere d’arte dalle catastrofi di Giorgia Pradolin Protocollo tra più enti per intervenire nel salvataggio del patrimonio culturale Venezia. Mai più come nel 66. E' la frase che più è stata pronunciata ieri mattina a Palazzo Balbi, in occasione della firma al protocollo d'intesa per tutelare i beni culturali della città metropolitana di Venezia dalle emergenze idrogeologiche. Il ricordo dell'allagamento del 1966 è ancora vivido in laguna, e mise a dura prova non solo i veneziani ma anche i capolavori culturali che si trovavano custoditi in alcune strutture museali. IL PROTOCOLLO - E' un accordo di intenti tra enti e istituzioni, dove ognuno ha un compito preciso per quanto riguarda la formazione, il coordinamento, la previsione e la tutela di immobili e opere artistiche a rischio idraulico a Venezia e provincia. In caso di alluvioni, esondazioni fluviali e alta marea, alcuni vigili del fuoco saranno destinati ad interventi di salvaguardia e messa in sicurezza dei capolavori. La novità più significativa consiste nell'aver ideato una piattaforma interattiva territoriale che presto conterrà l'elenco di tutti i beni culturali di vari enti e istituzioni: Curia, Soprintendenza, Comune, ecc. Quindi, nel caso si verificassero situazioni emergenziali legate a fenomeni idrogeologici, i pompieri specializzati nelle delicate operazioni di recupero, avranno a disposizione mappe che permetteranno loro di conoscere non solo il posizionamento ma anche il pregio dell'opera a rischio. CHI FIRMA - Lunga la lista dei firmatari del documento: Prefettura (capofila), Regione, Città metropolitana, Comune, segretariato regionale del ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo per il Veneto, Soprintendenze lagunari e delle province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso, soprintendenza archivistica e bibliografica del Veneto e del Trentino Alto Adige, Polo museale del Veneto, Patriarcato, Procuratoria di San Marco, direzione interregionale dei vigili del fuoco Veneto e Trentino Alto Adige, Gallerie dell'Accademia, Archivio di Stato di Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. IL LAVORO - E' previsto un Comitato guida, presieduto dal prefetto, per il coordinamento delle iniziative. La Prefettura è capofila del progetto, a seguito delle alluvioni del 2010 e

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delle direttive del Ministero dell'Interno sulla tutela dei beni architettonici e paesaggistici legate alla valutazione del rischio idrogeologico, avviò il tavolo di lavoro fra gli enti custodi di beni culturali e le istituzioni preposte alla loro tutela. Nel protocollo è prevista l'attivazione di un sistema di allertamento con specifiche procedure di preavviso, in coordinamento con il Centro funzionale decentrato regionale della Protezione civile, supportato, per Venezia, dal Centro previsioni maree del Comune. Saranno individuate le zone a pericolosità idraulica o potenzialmente soggette a inondazioni. INTERVENTI - «Progetti come questo ha detto ieri l'assessore regionale alla Cultura, Cristiano Corazzari rappresentano una buona pratica di collaborazione interistituzionale per una gestione saggia del territorio». Il sindaco Luigi Brugnaro lo ha definito un documento pratico: «Un protocollo operativo che individua cosa deve essere fatto, e chi lo deve fare, in caso di emergenze naturali. Credo sia un esempio da trasferire anche in altre città italiane». Il prefetto Carlo Boffi ha ricordato l'obiettivo della prevenzione: «Chi interviene deve sapere prima dell'emergenza quale zona sarà a rischio, deve avere degli strumenti e soprattutto sapere come intervenire». e il direttore interregionale dei Vigili del Fuoco, Fabio Dattilo, lo ha definito «Un piano di prevenzione, dove ognuno sa cosa deve fare durante l'emergenza». Presenti ieri anche il direttore dei Beni culturali del Patriarcato, don Gianmatteo Caputo, il primo procuratore di San Marco, Carlo Alberto Tesserin, il capo di gabinetto della prefettura Natalino Manno, i rappresentanti delle Soprintendenze interessate. Pag VI Mosaici e colonne, S. Marco rovinata da sale e turisti Tesserin: “Puntiamo a incrementare le visite prenotate con ticket” Venezia. Mosaici e colonne della Basilica necessitano di una imponente e continua manutenzione, sia per il passaggio continuo dei visitatori che per l'acqua alta che ne invade gli interni, oltre ai suoi più di mille anni di storia. «Chiunque arrivi in Basilica è affascinato dalla bellezza dei mosaici - spiega il Primo procuratore di San Marco, Carlo Alberto Tesserin - 8.500 metri quadrati di mosaici, unica realtà al mondo. Le pareti della basilica, tutte di marmo, sono meno appariscenti ma altrettanto belle e soffrono molto: il sale risale nei contenitori dentro le colonne e quindi hanno bisogno di grande manutenzione. Se riusciamo a mettere in sicurezza il nartece, poi tutta la parte bassa, tutte le colonne e tutti i muri vanno rimessi a posto. Abbiamo un magazzino di marmi storici accantonati da secoli, per avere i pezzi sostitutivi, visto che i marmi di allora non si trovano più. Ma il lato più preoccupante - prosegue - rimane il pavimento: anche questo con i mosaici, che soffre di più dell'umidità e a cui vanno aggiunti i 10-15mila visitatori al giorno che vi camminano sopra. Per rifare un rosone di pavimento però servono circa due anni di lavoro». ACQUA ALTA - «Ora con 65 centimetri di marea il nartece della basilica va sott'acqua - riprende Tesserin - se lo si sistema, le volte in cui entra l'acqua si riducono a meno della metà. Ora ci ripariamo fino a 85 centimetri di marea, con le condutture attivate, e contiamo in futuro di non mettere più le passerelle per quella misura». E per la Piazza: «Il lavoro della messa in sicurezza per il 70% era già stato fatto, resta da fare un 30% e vale lo stesso concetto del nartece, alzando le perimetrazione dell'isola marciana bisogna provvedere che tutte le condutture siano isolate dalle infiltrazioni e avere le pompe che trasferiscono tutta l'acqua, anche quella piovana, in una vasca grande che dovrebbe essere realizzata ai Giardini, da dove una pompa la verserà in canale». SICUREZZA E TICKET - Tesserin ha poi parlato della necessità di unire l'aspetto economico a quello della sicurezza. «Grazie ad un accordo - ha spiegato - il Politecnico di Torino sta verificando i punti deboli relativi alla sicurezza. Anche per questo stiamo spingendo di più sulle prenotazioni, facendo in modo che la maggior parte della gente passi attraverso un tornello e dei controlli. Poi, una volta all'interno, lì è pieno di telecamere». Attualmente, la prenotazione per visitare la Basilica a una data ora esiste già e si può fare pagando un euro. Stiamo valutando la possibilità di aumentarlo, spingendo nel contempo sull'utilizzo delle prenotazioni da parte dei visitatori, in modo da poterne avere il controllo. In ogni caso, la Basilica sarà sempre aperta gratuitamente a chiunque voglia entrare per pregare e anche per chi vorrà stare in coda per ore. Ma speriamo siano una minoranza». Il sindaco Luigi Brugnaro vede con favore l'estensione per la Basilica di un accesso agevolato dietro pagamento di un ticket, il cui ricavato

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contribuirebbe a finanziare gli interventi di manutenzione e restauro dell'edificio. «Sono convinto - commenta - che parecchi visitatori della Basilica sarebbero disponibili a pagare un ticket pur di abbattere i tempi d'attesa. Anzi, potremmo adottare qualcosa del genere anche noi». LA NUOVA di venerdì 8 dicembre 2017 Pag 21 “Il ticket è una forma di sicurezza” di Enrico Tantucci Il vicepresidente di Chorus favorevole al biglietto per prenotare l’entrata alla Basilica di San Marco «Che anche per l'ingresso alla Basilica di san Marco si pensi all'introduzione di un biglietto d'ingresso, anche per motivi di controllo e sicurezza, mi pare inevitabile. E credo che, in prospettiva, quel biglietto finirà per diventare a pagamento, come del resto già avviene in molte chiese del Veneto e anche all'estero».È il commento-previsione di Giandomenico Romanelli, già direttore della Fondazione Musei Civici e ora anche vicepresidente di Chorus, il circuito delle chiese veneziane che hanno già introdotto il biglietto d'ingresso a pagamento, sulla decisione annunciata dal primo procuratore di San Marco Carlo Alberto Tesserin, di introdurre entro il 2018 un biglietto gratuito per tutti per entrare in Basilica. Ma che diventerà a pagamento, con un sovrapprezzo probabilmente di due euro, per chi deciderà di prenotare la visita, risparmiandosi così la lunga coda per entrare. Professor Romanelli, l'annuncio dell'introduzione di un ticket d'ingresso a San Marco la meraviglia? «No, direi che è nell'ordine delle cose. Mi sembra giusto e opportuno che, anche per motivi di sicurezza e controllo, la Procuratoria pensi all'introduzione di un ticket gratuito d'ingresso e anche che si introduca un sovrapprezzo per chi vuole evitare di aspettare e evitare la coda. È un modo intelligente anche per ricavare risorse per una manutenzione sempre più costosa. Per questo credo che il passaggio a un biglietto d'ingresso a pagamento per tutti, prima o poi si imporrà anche per San Marco».C'è un pronunciamento della Conferenza Episcopale Italiana contraria al biglietto d'ingresso a pagamento nelle chiese, però.«Che lascia però margini di tolleranza, tanto è vero che numerose chiese nel Veneto e in Italia hanno introdotto il biglietto a pagamento - al di fuori delle funzioni di culto - e lo stesso circuito delle chiese veneziane di Chorus altrimenti non esisterebbe. È l'unico modo per consentire anche alla chiese veneziane di sopravvivere». Altrimenti?«Altrimenti non ci sarebbe altro da fare che concentrare le funzioni di culto in un quarto delle chiese attualmente aperte in città e riservare gli altri tre quarti degli edifici per funzioni di tipo culturale e espositivo, ma sarebbe un fatto molto grave per la città. Per questo è indispensabile il biglietto d'ingresso e mi pare normale anche che la Procuratoria pensi di aumentare quello per la visita al tesoro marciano, alla Pala d'Oro e al Campanile di San Marco».A questo proposito, come funziona il circuito di Chorus? Aveva passato un momento difficile sul piano economico. «Ora per fortuna è passato e la situazione è tornata a essere stabile. Avevamo sofferto, sul piano delle presenze, l'uscita dal circuito della chiesa della Madonna dell'Orto e anche il venir meno di contributi pubblici e privati, come quello della Fondazione di Venezia. Adesso anche la situazione debitoria di Chorus si è risolta e il circuito continuerà a funzionare, fino a quando naturalmente la Curia lo permetterà». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO di domenica 10 dicembre 2017 Pag 3 Statuine, laboratori e un mini villaggio. Natale nelle scuole, è l’anno dei presepi di Gloria Bertasi Anticipate (di fatto) le direttive regionali Venezia. Qualche materna ha chiesto alle mamme e ai papà di portare una statuina, altre le realizzano nei laboratori di classe, e c’è addirittura una scuola, in un’isola sperduta della laguna, Sant’Erasmo, che quest’anno espone un presepe regalato da un esperto artigiano. Il Natale è alle porte e non c’è asilo e scuola del Veneto che, quest’anno, non lo festeggi tra recite e concerti, alberi addobbati e, soprattutto, presepi.

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Due anni fa, tra mille polemiche, in alcuni istituti i simboli cristiani erano stati banditi in rispetto della società multi-culturale ma i tempi sono cambiati e, oggi, nelle scuole è tornato il presepe. Maestre, professori e dirigenti scolastici hanno cioè anticipato la decisione della Regione Veneto di finanziarne, per il 2018, la realizzazione in tutti gli istituti. Merito del lavoro di integrazione, portato avanti nelle scuole, tra vecchi e nuovi cittadini, ma anche di una circolare dell’Ufficio scolastico regionale che ribadisce l’importanza del rispetto della nostra tradizione. Il documento è nato nel pieno della bufera scoppiata, nel 2015, per la scelta di alcune scuole di ridimensionare il Natale, evitando simboli religiosi e spingendo per celebrazioni multiculturali. L’invito di Daniela Beltrame, direttore dell’Ufficio scolastico regionale, invitava «ad accogliere e organizzare, nel rispetto dell’autonomia scolastica, rappresentazioni del messaggio pacificatore del Natale, simbolo di fratellanza». La circolare, «che è tutt’ora valida», sottolinea Beltrame ha fugato ogni dubbio o remora sulla presenza di simboli cristiani nelle scuole tant’è che quest’anno in una delle elementari più multiculturali del Veneziano, la Grimani di Marghera, frequentata da alunni provenienti da ogni angolo del mondo, il 19, i bambini festeggeranno il Natale nella vicina chiesa di Sant’Antonio. «A dire la verità, abbiamo già iniziato le celebrazioni con il concerto della Fenice a scuola a fine novembre - dice entusiasta la dirigente Gelsomina D’Anna -. Il nostro è un istituto complesso ma è al contempo accogliente e ricco d’umanità, quando abbiamo proposto la recita in parrocchia temevamo che qualche genitore dicesse di no e invece le prime ad aderire sono state proprio le famiglie di altre religioni». A Sant’Antonio, vicino al presepe ci saranno bimbi induisti, musulmani e cattolici, tutti insieme a cantare «Bianco Natale», senza il timore di offendere qualcuno. Ed è sempre D’Anna che (per colpa o per merito delle reggenze legate alla strutturale mancanza di dirigenti scolastici che la portano gestisce anche l’elementare di Sant’Erasmo) ha detto subito sì al villaggio di Natale realizzato dall’artigiano Silvio Busetti per i bimbi dell’isola. Distante quasi un’ora di vaporetto da Venezia, tra i 723 residenti ci sono solo undici bambini tra i 6 e i 10 anni e studiano in una delle poche «pluriclasse» della nostra regione. Ed è per loro che è nato il villaggio natalizio. Ma non è l’unico del Veneto. «In tutti i nostri asili e scuole materne ci sono albero e presepe e non è una questione religiosa: fa parte della nostra tradizione - dice Stefano Cecchin, presidente di Fism Veneto - siamo scuole paritarie ma accogliamo bimbi di tutte le religioni, ciò non toglie che il presepe e in generale le feste di Natale sono parte della cultura italiana ed è giusto che ci siano». Anche i sindacati confermano. «Con tutti i problemi che ci sono, nessuno si pone più problemi etici sul Natale, si festeggia ovunque», dice Lorenzo Gaggino, portavoce dell’associazione dei presidi. Aggiunge Sandra Biolo, segretaria di Cisl scuola: «Non mi risulta che ci siano scuole che abbiano rinunciato ai festeggiamenti». Sul presepe a scuola non ha nulla da eccepire (da anni ormai) neppure la comunità musulmana in Veneto. Abdallah Khezraji dell’associazione Hilal e riferimento della comunità marocchina in regione si concede però una chiosa: «Ormai i nostri bimbi hanno l’albero di Natale a casa, il presepe non è mai stato un problema. Mi chiedo, però, se quei fondi regionali non sarebbero stati più utili ad esempio per la mediazione culturale e il sostegno di cui le scuole tanto hanno bisogno». Pag 9 Si getta nel vuoto a quindici anni. Il messaggio che turba: “Non conto” di Alessandro Macciò Torreglia, un lungo sms prima dell’addio. L’incredulità dei genitori: “C’è altro” Torreglia (Padova). Mercoledì pomeriggio, dopo aver raggiunto il Monte Pirio in cima ai Colli Euganei, si è affidato a WhatsApp e ha mandato un messaggio di addio ai famigliari sul cellulare della mamma. Dimitri, 15 anni di Torreglia, è stato ritrovato senza vita poche ore dopo in fondo ad un dirupo. E le sue ultime parole tolgono il respiro: «Mi dispiace lasciarvi così, è che non so come continuare», scrive Dimitri, che si definisce «insoddisfatto e indolente». Le cause non sono chiare, mentre il malessere e la determinazione sono evidenti: «Non riesco a piangere nemmeno prima di morire - si legge nell’annuncio, reso ancora più stridente dall’impiego degli smile -. Ce ne vuole di coraggio per andarsene, anche solo per fare un passo». Oltre ai genitori, Dimitri ha lasciato tre fratelli; sul suicidio non ci sono molti dubbi, ma la famiglia non vuole rassegnarsi. «Abbiamo deciso di divulgare il testo integrale del messaggio perché

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vogliamo dimostrare quanto è assurdo - spiega Rossella, la mamma -. Siamo una famiglia molto unita e avevamo un buon rapporto con Dimitri, ora vogliamo la verità: per noi il caso non è chiuso, non si può insabbiare tutto». Prima del messaggio, non c’era nulla che facesse presagire la tragedia: «Dimitri era tornato da scuola un po’ pensieroso ma sereno - racconta Rossella -. Dopo pranzo non sapeva se andare in mansarda a suonare il basso o uscire a fare una passeggiata, e ha scelto la seconda perché c’era il sole. Inoltre aveva promesso ad un amico che il giorno dopo gli avrebbe portato il regalo di compleanno e poco prima di uscire aveva parlato dei compiti con una compagna di classe». Nemmeno il messaggio è sufficiente a spiegare il gesto: «Il nostro sospetto è che sia successo qualcosa di losco - dice la mamma -. Forse Dimitri è stato involontario testimone di qualcosa che non doveva vedere ed è stato costretto a scrivere quel messaggio senza senso. Chi lo conosce e lo ha letto, ha pensato che l’abbia scritto qualcun altro: Dimitri era tutto il contrario di quelle parole». In attesa dell’autopsia, la salma resta a disposizione dell’autorità giudiziaria e dunque la data del funerale non è ancora stata fissata. Oltre alla famiglia e alla comunità di Torreglia, la scomparsa del 15enne ha gettato nello sconforto anche gli studenti e gli insegnanti del liceo Marchesi di Padova: «Dimitri era molto amato, un vero e proprio punto di riferimento per la sua classe - dice Antonella Visentin, la preside -. Giovedì mattina c’è stato un momento di confronto e sono venuti a scuola anche i genitori dei suoi compagni: i ragazzi hanno bisogno di affrontare l’accaduto tra di loro e con gli adulti, dopo il ponte gli proporremo di partecipare ad un progetto per il sostegno all’elaborazione del lutto. Prima di Natale inoltre ci sarà un’assemblea d’istituto con un esperto esterno sulla gestione delle emozioni, già programmata dagli studenti prima della tragedia». Pag 9 Caro Dimitri, tu ci sei e ci servi ancora di Giovanni Montanaro Sai, Dimitri, non è facile scriverti qualcosa di sensato. Anche perché, se ho capito un poco com’eri fatto, tu te ne accorgeresti subito, della retorica, delle frasi preconfezionate, delle stupidaggini che si dicono in questi casi, quando si ha ben poco da dire. È che ho letto quello che hai scritto, tu, su WhatsApp, anche se forse non dovevo nemmeno leggerlo, non volevi che nessuno lo leggesse, a parte i tuoi genitori. Beh, mi è sembrato davvero uno spreco che tu te ne sia andato; eri lucido, intelligente, prezioso. Eri sportivo? Per che squadra tifavi? Eri pigro? Furbo? Chi c’era, che si era innamorato di te? Non mi meraviglia, sai, Dimitri, non sei mica il solo, tu. Ognuno di noi ha qualcuno che se n’è andato senza un motivo. Che si è buttato da un tetto, si è impiccato ad un albero, si è sparato con la pistola del padre, è entrato in brutti giri e ha trovato solo un modo per uscirne. Io penso ai miei, di morti, e, ti assicuro, ognuno, aveva qualcosa di speciale, qualcosa che mi manca. Sì, lo so che della retorica ti accorgi subito, ma ti giuro che è così. È che la vita è una brutta bestia, quando ti prende male. Quando diventa buia, che non puoi farci niente. C’è la malattia, la depressione. Ma c’è anche che capita a tutti, sai. Di non vedere niente. Di essere persi. Soli. Di essere stanchi, stanchissimi, senza forze, e proprio in quel momento ti arriva una cosa in più, da fare, e non ci riesce. Ti capita di non sapere che fare. Di sentirti insoddisfatto; peggio, incapace. Di prendere le frasi che altri ti dicono, magari sovrappensiero, e di condannarti per quelle. Capita da sempre, è vero. Ma forse è anche questo tempo. Che ci fa sentire tutti anormali, e nessuno speciale. Pare sempre che gli altri non abbiano i problemi che hai tu, che vada bene a tutti fuorché a te, ma non è mica vero. Siamo tutti, sai, in bilico su una voragine. In questo mondo assurdo che ci dice di vergognarci per i nostri corpi. Di vergognarci se non ce la facciamo. Di vergognarci se non abbiamo un lavoro. Anzi, avere un lavoro è un favore; e fare un figlio, è un privilegio. Che razza di mondo è? Dovremmo ridergli dietro, altro che prenderlo sul serio, ma mica si riesce. Io, però, credo che tu ce l’avresti fatta; nel modo in cui ce la facciamo tutti, sai, senza farcela mai davvero, senza perdere mai la speranza, senza perdere la paura. Senza riuscire a cambiare, a migliorarci. Ma rimanendo. Perché c’è sempre qualcuno che si aggrappa a te, che ha bisogno di te anche se non te ne accorgi, anche se ti manda a quel paese. E penso agli altri Dimitri, come te, quelli che salgono sulla stessa rupe, e guardano da basso. Il vuoto spaventa, qualche volta pare bello. Forse, avrei dovuto scrivere a loro, e un po’ scrivere a te è come scrivere a loro. Mi verrebbe da parlargli. Da strattonarli, svegliarli, per fargli capire quanto sono importanti. Quanto è bella la vita, comunque. Forse, però, volevo dirti solo

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una cosa. La tua vita non è finita qui. Tu ci sei ancora, tu servi ancora. Ci sono le tue foto, le tue parole, le scarpe, la felicità che hai dato senza rendertene conto. Come ci sono ancora, sai, i miei morti, e quelli che abbiamo tutti, che pensavamo che li avremmo dimenticati, e invece non li dimentichiamo, e tornano, quando meno li aspetti, in un sorriso, un modo di dire, una pagina facebook, un posto dove siamo stati insieme. E servono, sai, per capire cosa devo fare. Ma quanto ci fanno arrabbiare, che se ne sono andati. IL GAZZETTINO di sabato 9 dicembre 2017 Pagg 2 – 3 L’addio di Dimitri: “Mi spiace lasciarvi, ma non so che fare” di Eugenio Garotto e Federica Cappellato L’ultimo messaggio inviato alla famiglia prima di lanciarsi nel vuoto. “Uno scritto agghiacciante, non è stato un atto impetuoso” In realtà non so bene cosa dire. Mi son divertito per il tempo passato con voi, in particolare quest'ultimo anno. È solo che sono un eterno insoddisfatto e indolente, non so che fare. Mi dispiace lasciarvi così, è che non so come continuare e piuttosto che persistere nell'infastidire voi, le uniche persone a cui tengo, preferisco andare via io, per sempre. Non so che farmene di tutto ciò, di tutto l'Amore e le risorse che mi avete messo a disposizione, son privo di fantasia, un bambinone. Ciao ciao Mamma, Papà, (...) Vi prego, continuate senza me, è l'ultimo e grande favore che ho da chiedervi. Sarebbe stato più bello un foglio scritto, ma fino in ultima ero indeciso. Per le mie cose, manga, lego, vestiti e simili, fatte tutto voi, é vostro più che di diritto. Ormai son qui, sullo spiazzo di pietre del Pirio, a poco mi butto giù, quindi sapete dove trovarmi. Ciao Ciao. Non riesco a piangere neanche prima di morire. Non sapevo se non dire niente, ma piuttosto che lasciarvi in ansia ho preferito avvertirvi, che lo sappiate. La colpa è mia e solo mia. Spero solo di non averlo scritto invano, di sopravvivere alla fine dopo la caduta e di vivere da disabile. Sono egoista fino alla fine. Bacioni. Ce ne vuole di coraggio per andarsene, anche solo per fare un passo. Me ne rendo conto solo ora. Torreglia (Padova). Il cellulare di Dimitri sta ancora squillando. E il padre vuole andare a cercarlo fra le rocce e la vegetazione del dirupo dove è stato trovato il corpo del suo ragazzo. Non si rassegnano ad una morte senza un perché i famigliari dell'adolescente di Torreglia che mercoledì si è tolto la vita gettandosi dal Monte Pirio dei Colli Euganei. Papà e fratello chiedono al Gazzettino di pubblicare integralmente l'ultimo messaggio che il giovane ha scritto su Whatsapp prima di lanciarsi nel vuoto. Un dramma che ha lasciato annichilita l'intera comunità del piccolo centro ai piedi degli Euganei. Una scelta irrevocabile, letta per prima dalla madre che, disperata, ha dato l'allarme ai carabinieri, facendo scattare la battuta di ricerca conclusasi con il ritrovamento del cadavere, poco prima delle 20. Parole che lacerano quelle con le quali Dimitri dà l'addio ai suoi cari dichiarandosi eterno insoddisfatto, indolente, un bambinone. Termini che suonano assurdi, incomprensibili, al papà e al fratello che, sotto la pioggia battente davanti all'ingresso della loro abitazione, ancora si aggrappano a una diversa dinamica: quella dell'incidente, della caduta accidentale. IL RICORDO - «Dimitri non aveva un motivo al mondo per togliersi la vita esordisce il padre, la voce flebile, lo sguardo sempre fisso a terra, scuotendo di continuo il capo - Era un ragazzo forte, robusto, una roccia. A scuola andava bene. Era sempre sereno in famiglia. Non ci ha mai dato preoccupazioni». «E neppure è stato mai vittima di un atto di bullismo interviene il fratello -. Aveva un ottimo rapporto con i compagni e gli insegnanti». Per la famiglia (Dimitri lascia nel dolore altri tre fratelli), è una precisazione importante. Troppo spesso, quando un adolescente compie una scelta così estrema, emergono violenze e umiliazioni da parte dei coetanei. Ma per carattere, spiegano i suoi cari, lui non avrebbe accettato vessazioni. E si sarebbe difeso molto bene da aggressioni fisiche. Anche sul fronte del profitto scolastico tutto appariva normale: gli stessi

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professori del liceo Marchesi di Padova, dove Dimitri era iscritto, negano difficoltà o problemi legati al suo rendimento. Insomma, un alunno normale e ben inserito. «Era uno dei migliori della sua classe», assicura il papà. Quindi, ripercorrendo con la mente un film dell'orrore che scorre all'infinito da due giorni, torna a quanto accaduto mercoledì. «Dimitri è uscito di casa verso le 15, come faceva spesso, per una delle sue abituali passeggiate. Gli piaceva camminare. E ha percorso la stessa via che abbiamo fatto tante volte nelle nostre escursioni». Dopo poche centinaia di metri, ha infatti imboccato la strada, lunga un paio di chilometri e tutta in salita, che lo ha portato alle pendici del Monte Pirio, sbucando proprio nelle vicinanze dell'omonimo ristorante. I SALUTI - Una quarantina di minuti a buon passo, per un ragazzo della sua età che si trovi in perfetta forma fisica. Poi ha preso il sentiero Colli Euganei che dopo un breve percorso asfaltato si trasforma in un tratturo sterrato. Più o meno altri venti minuti, muovendosi fra la fitta vegetazione. Quindi, una volta arrivato nel punto conosciuto come Roccette del Pirio, impervio e difficilmente raggiungibile dai veicoli, è salito su un masso e si è lanciato nello strapiombo. Un volo di una ventina di metri che non gli ha lasciato scampo. Ma prima ha digitato le ultime righe sullo smartphone e le ha spedite alla famiglia. Pensieri, che ora genitori e fratelli chiedono al nostro giornale di rendere pubblici. Mi dispiace lasciarvi così scrive il quindicenne - È che non so come continuare e piuttosto che persistere nell'infastidire voi, le uniche persone a cui tengo, preferisco andare via io, per sempre. Una dichiarazione raggelante, seguita dai saluti ai suoi cari e dalle commoventi disposizioni per i Lego e i vestiti (fate tutto voi) per concludere con una frase secca: Ce ne vuole di coraggio, per andarsene, anche solo per fare un passo. Me ne rendo conto solo ora. Frasi che sembrano indicare chiaramente la volontà di farla finita. Ma che il papà respinge d'istinto, con la disperazione di chi non si rassegna a un gesto che per lui resta indecifrabile. I NUMERI BLOCCATI - «Più che l'annuncio della decisione di suicidarsi, sembra quasi una richiesta di aiuto», afferma il padre. Dimitri fornisce delle precise indicazioni sul luogo dove si trova mentre compone freneticamente il messaggio. Un particolare, questo, a cui il genitore si aggrappa con tenacia: «Per me, è come se volesse dirci: Sono qui. Venite a prendermi, vi sto aspettando. Forse non si è tolto la vita. Magari è scivolato». Si tratta solo del comprensibile tentativo di dare una spiegazione razionale alla tragedia che ha sprofondato nel dolore sei persone, oppure la dinamica è diversa dalla ricostruzione che ne hanno fatto sia i carabinieri, che hanno individuato il corpo in fondo al dirupo, sia i vigili del fuoco che hanno eseguito le difficili operazioni di recupero del cadavere? Padre e fratello non scartano a priori l'ipotesi di una disgrazia: «In quel punto è facile perdere l'equilibrio oppure inciampare. Il buio cala presto in questa stagione. Forse non ha visto dove metteva i piedi ed è precipitato». Ma un particolare stride nella ricostruzione: nel pomeriggio, Dimitri aveva bloccato tutti i numeri degli amici memorizzati in rubrica. Come a voler interrompere qualsiasi contatto che non fosse, nel momento estremo, quello con i suoi cari. Il cellulare non è ancora stato ritrovato e viene ricercato dai militari dell'Arma sul luogo della tragedia. Lo ha perso nella caduta o forse lo ha gettato prima di saltare nel vuoto? Anche questo non si saprà mai. «Continua a suonare conclude il papà - non è stato danneggiato. Ora parto, vado lassù, e lo cerco anch'io. Ci deve essere un'altra spiegazione. Non mi rassegno». «Lo scritto che questo ragazzo ha lasciato è agghiacciante. Sembra semplicemente dica: me ne vado, non so cosa fare di me stesso, sono pigro, non vedo un futuro. Lo stato d'animo che emerge dalle sue ultime parole è quello di una persona non impulsiva, con un certo grado di meditazione. Il fatto poi che abbia avuto un'ora di tempo per camminare in salita prima di lanciarsi nel vuoto, già quello interrompe l'impetuosità dell'atto». Parla uno dei massimi esperti mondiali di comportamenti suicidari: il professor Diego De Leo, emerito di psichiatria, recentemente premiato dall'American Foundation for Suicide Prevention e l'International Academy for Suicide Research con il Morselli Award per le sue lunghissime e approfondite ricerche su chi, la vita, se la toglie. Professor De Leo, che lettura dà del messaggio inviato da Dimitri alla famiglia prima di lanciarsi nel vuoto? «Da quel messaggio si evince che il ragazzo si sente probabilmente in colpa, incapace di ossequiare le aspettative che evidentemente sentiva su di sé, comunque sapeva che avrebbe potuto fare di più. La delusione da se stesso, la convinzione di non avere

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prospettive di miglioramento, l'impossibilità di cambiare viste le sue caratteristiche di personalità. E poi la preparazione e la freddezza: quel salutare i suoi cari, che sarebbero andati avanti meglio senza di lui per via del convincimento che, da grandi, non si combinerà niente di buono...». Sono caratteristiche che rientrano in un modello già visto e sentito? «Purtroppo sì, l'idea di famiglie che vanno avanti meglio senza è una costante. Questi sono ragazzini, non hanno esperienze di vita, non sono fatti scafati, hanno visioni cognitive come dire a cannocchiale, vedono solo una soluzione, il bianco o il nero». Può esserci stato un motivo scatenante? «Le parole indicano una calma pazzesca e anche un certo distacco. Ci sono anche individui che, come dire, fare e non fare è la stessa cosa: massì, anche se mi impegno non cambia niente. Leggo l'assenza di un motivo scatenante e la presenza di una sensazione generalizzata di fallimento, di disturbo che si vuole togliere. L'idea che mi sono fatto è che non ci siano malattie mentali, anche perché a quindici anni sono ancora molto poco pronunciate, poco protagoniste sulla scena. Però c'è questo senso di non farcela, di essere insufficienti, incapaci di motivazioni, privi di entusiasmi. Colgo nel messaggio anche l'assenza di particolari emozioni, di interessamento per questo o per quello. Vedo una indolenza che del resto lui stesso dichiara». Forse anche perché figlio di una società non meritocratica? «Una società che non premia il merito e non allena alle frustrazioni perché tutto è facile. Ma non allenare alle frustrazioni significa vedere davanti a sé difficoltà insormontabili perché alle spalle non c'è training. Se lo scoglio si chiama vita io sicuramente non ho i mezzi per farcela, quindi diventa una cosa che non interessa, non voglio fare, non voglio andare oltre: siamo su questa lunghezza d'onda». Cosa si può fare se si ha un figlio teenager più rassegnato che entusiasta delle cose del mondo? «Intanto bisognerebbe aver cominciato prima a fare. A quindici anni è un po' troppo tardi. In linea generale torna il solito leit motiv: sono molti i genitori che rendono tutto troppo agevole, danno ai figli tutto quello che hanno perché così pensano di essere bravi padri e brave madri. In realtà bisognerebbe essere genitori che producono gratificazioni solo se queste sono motivate: parlo delle regole dell'incoraggiamento, del periodare motivazionale. La società premia chi non ha fatto nulla solo per il fatto di esistere? Mah!». Ogni volta che c'è un suicidio, in tutte le redazioni ci si domanda se e quale spazio dare alla notizia. Non c'è una regola valida sempre, a parte quella del rispetto e della cautela nei confronti della vittima e dei suoi famigliari. Ma ci sono casi in cui è non solo opportuno, ma anche doveroso approfondire i motivi di un gesto così tragico: quello del ragazzo di Torreglia è uno di questi. È doveroso sia per assecondare la richiesta dei genitori, sia per offrire all'attenzione di chiunque ogni elemento utile a capire che cosa può passare nella mente di un adolescente o di una persona in una situazione emotivamente delicata. Nessuno è al riparo dall'imponderabile; conoscere ed interrogarsi per comprendere, è un dovere per tutti. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il mercato e quel bacino di ostilità di Angelo Panebianco La soglia del 30% Sabato scorso, sulla prima pagina di questo giornale, c’erano una notizia e un commento, apparentemente senza legami fra loro, che, insieme, attestavano l’esistenza di persistenze, di continuità storiche, confermavano il fatto che gli orientamenti di fondo di questo Paese non siano mai davvero cambiati, siano oggi gli stessi di molti decenni fa. La notizia consisteva nel risultato di un sondaggio che dà il movimento dei 5 Stelle al 29,1 per cento e lo conferma, nelle intenzioni di voto degli italiani, come primo partito. Il commento era quello di Francesco Giavazzi che documentava la rimonta dello statalismo

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dopo una breve stagione, durata pochi anni, in cui era sembrato in ritirata, che descriveva una classe politico-parlamentare di nuovo preda di una frenesia anti mercato come dimostrano tanti provvedimenti sfornati recentemente dal Parlamento. Pochi, mi pare, hanno notato che i 5 Stelle raggiungono, per lo meno nei sondaggi, più o meno la stessa percentuale di consensi che era propria del Partito comunista all’epoca della cosiddetta Prima Repubblica. Vero, una cosa sono le intenzioni di voto e un’altra cosa sono i voti ma, tenendo conto del fatto che spesso i partiti antisistema sono sottorappresentati nei sondaggi, il sospetto è che, proprio come ai tempi del Pci, ci sia grosso modo un terzo degli italiani disponibile a votare per un partito programmaticamente ostile alla democrazia liberale. I 5 Stelle non sono l’unico partito di questo tipo? Anche questo è vero. Ma era vero pure nella Prima Repubblica: oltre al Pci c’era l’Msi e c’erano componenti illiberali (di minoranza) all’interno della Democrazia cristiana e del Partito socialista. Se si tirano le somme si vede che ben poco è cambiato, poniamo, rispetto agli anni Sessanta dello scorso secolo: la percentuale di elettori attratti da partiti e gruppi illiberali è oggi più o meno la stessa di allora. Ma le persistenze non si fermano qui. Nel suo editoriale («Statalismi di ritorno in economia») Francesco Giavazzi ha mostrato come la classe politico-parlamentare non abbia ormai più remore nell’alzare la bandiera di un nuovo statalismo. Osserva Giavazzi che: «Dopo le liberalizzazioni del secondo governo Prodi (2006-2008) il virus dell’anti mercato si sta di nuovo diffondendo». Al punto che, truffaldinamente, si è arrivati a chiamare «privatizzazione» la vendita di quote di aziende possedute dallo Stato alla Cassa depositi e prestiti, un ente che è nelle mani dello stesso Stato. Proprio come ai tempi della Prima Repubblica il controllo statale sui gangli vitali dell’economia è tornato a essere un ideale di vita pubblica e, per quel che è possibile (Europa permettendo), anche una pratica politica. Quando finì la Prima Repubblica, ufficialmente a causa della corruzione, in realtà a causa di uno spettacolare «fallimento dello Stato» dovuto all’accumulazione di un debito pubblico gigantesco e fuori controllo, si affermò ed ebbe una qualche fortuna per un certo periodo - benché ciò andasse contro le tradizioni del Paese - l’idea che bisognasse dare molto più spazio di un tempo alle forze del mercato. Quella breve stagione sembra ora alle nostre spalle. Si torna agli antichi vizi. Ma i provvedimenti statalisti che danneggiano i consumatori, generando le rendite politiche di cui ha parlato Giavazzi, non sarebbero possibili se il Paese non fosse attraversato, oggi come un tempo, da vigorose correnti anti mercato, se il mercato non fosse avversato da un cospicuo numero di nostri concittadini. Ancora una volta, le intenzioni di voto sono rivelatrici: se è molto ampio il bacino elettorale in cui possono pescare i gruppi politici illiberali, ancora più ampio appare quello in cui sono diffusi orientamenti anti mercato. Grosso modo la metà degli elettori di questo Paese sembra disponibile a votare per gruppi politici (di destra o di sinistra) più o meno esplicitamente statalisti. Il cosiddetto «sovranismo», la critica dell’economia aperta, il favore per il protezionismo, non sono invenzioni estemporanee, intercettano una domanda diffusa, di protezione statale dal mercato. Non ci sarebbe lo statalismo di ritorno di cui ha parlato Giavazzi se non ci fosse nel Paese quella domanda. Se gli orientamenti di fondo in materia di mercato o di democrazia liberale non sono cambiati rispetto a trenta o quaranta anni fa è però cambiato il contesto. Ai tempi della Guerra fredda era il sistema delle alleanze internazionali a proteggerci, almeno in parte, da noi stessi, dalle nostre peggiori inclinazioni. Oggi un’Europa in crisi non ne ha la forza. Le componenti, fortunatamente non sparute, della società italiana che non si arrendono all’idea di un futuro «peronista» (illiberale e sta-talista) devono arrangiarsi, contare solo sulle proprie forze. Fallito il tentativo di creare una democrazia maggioritaria, prevale la frammentazione politica e i poteri di veto sono forti diffusi e radicati, come, del resto, lo erano un tempo. In queste condizioni, chi-unque vinca le prossime elezioni (ammesso che qualcuno le vinca) non avrà la forza per imporre le sue scelte. Più che una resa dei conti fra amici e nemici della società aperta si prevede un lungo periodo di stallo. Pag 1 E se la Brexit fosse un’occasione? di Sergio Romano L’Europa e Londra A Bruxelles, negli scorsi giorni, la Premier britannica Theresa May e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker hanno raggiunto una intesa che dovrebbe

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risolvere una buona parte dei problemi creati dal referendum del 23 giugno 2016. Ma in Gran Bretagna esistono ancora uomini politici per cui la Brexit è un errore a cui è possibile rimediare con una coraggiosa correzione di rotta. Uno di questi è Nick Clegg, capo dei liberal-democratici dal 2007 al 2015 e vice Premier per cinque anni nel governo di David Cameron. Le sue credenziali europee sono impeccabili. Ha una moglie spagnola e tre figli con nomi latini. Ha avuto incarichi impegnativi alla Commissione di Bruxelles, parla cinque lingue ed è stato membro del Parlamento europeo. In un libro apparso recentemente (How to stop Brexit and make Britain great again, come fermare la Brexit e ridare alla Gran Bretagna la sua grandezza) Clegg cerca di spiegare ai suoi connazionali quali e quanti vantaggi il Regno Unito abbia ricevuto dall’Unione Europea negli anni in cui ne faceva parte. Ha potuto lasciare una forte impronta nazionale sulle principali caratteristiche del mercato unico. Ha ottenuto, grazie alla tenacia e alla grinta di Margaret Thatcher, un considerevole sconto sul suo contributo finanziario alla politica agricola comune (85 miliardi di sterline dal 1985 a oggi). È stato esentato (nel gergo dell’Ue ha «opted out») dagli accordi di Schengen per l’apertura delle frontiere ai cittadini dell’Ue; dall’introduzione dell’euro; dalla piena adesione alla co0perazione giudiziaria e di polizia in materia di diritto penale; dal rispetto di tutte le clausole della Carta dei diritti fondamentali. Vi è una materia, tuttavia, in cui non ha chiesto esenzioni. Quando si parla di difesa preferisce partecipare alle discussioni comuni; ma soltanto per opporre il suo veto a ogni progetto di unione militare. Finché la difesa dell’Europa sarà lasciata alla Nato, la Gran Bretagna, grazie ai suoi rapporti con gli Stati Uniti, sarà più atlantica che europea. Naturalmente questa generosa elargizione di licenze ha incoraggiato altri Paesi ad avanzare richieste analoghe per le materie in cui non volevano rinunciare alla loro sovranità. Non è tutto. L’ironia della storia ha voluto che tutte queste eccezioni venissero elargite alla Gran Bretagna dopo negoziati in cui la lingua di lavoro (soprattutto negli incontri informali, spesso decisivi) fosse quasi sempre l’inglese. Clegg osserva nel suo libro che l’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità economica europea, come si chiamava ancora nel 1973, ha avuto l’effetto di ridurre considerevolmente l’uso del francese. Sappiamo quanto sia utile, per una grande organizzazione multinazionale avere una lingua veicolare. Ma l’Europa unita non può rinunciare alla ricchezza del suo straordinario retaggio culturale. Le intenzioni di Clegg sono certamente onorevoli. Crede nell’Europa, teme che il suo Paese piombi in una sorta di ombroso provincialismo e cerca di spiegare ai suoi connazionali che possono ancora battersi per ottenere un nuovo referendum. Ma nelle sue considerazioni vi è anche un argomento nazionale. Quando deve giustificare la sua posizione dice al lettore: «La Gran Bretagna, come membro dell’Unione Europea, ha sempre goduto di uno statuto speciale; se volessimo, potremmo continuare a goderne. Sarebbe la logica continuazione di quanto abbiamo già realizzato in numerose occasioni». Se questa è la posizione di un sincero europeista britannico, dovremmo considerare la Brexit una occasione da cogliere piuttosto che un errore da correggere. Sul Corriere di ieri Franco Venturini ha ricordato che le politiche di Trump stanno rendendo l’Europa più adulta e più unita. L’assenza della Gran Bretagna, se lo vogliamo, potrebbe avere lo stesso effetto. Pag 1 “Gerusalemme non è solo mia” di Eshkol Nevo Non c’è futuro senza compromessi e senza vedere gli altri Mi hanno chiesto di scrivere della «mia» Gerusalemme. Il fatto è, ho pensato, che non è mai stata solo mia. L’ho capito dal primo momento, che non era solo mia. Nel quartiere di Gerusalemme in cui sono nato, vivevano anche molti ultraortodossi. Fin da piccolissimo, ho avuto ben chiaro che nella «mia» città vivevano persone assai diverse da me. Nel vestire. Nello stile di vita. La memoria è sempre selettiva, ma di quei tempi non ricordo sommosse. O conflitti. Vivevamo fianco a fianco. Giocavamo, bambini con i cernecchi e bambini senza cernecchi, tutti insieme. Dall’altra parte della strada si levavano le mura della Città Vecchia. Ancora oltre, Gerusalemme Est. Era prima dell’Intifada, e la Città Vecchia era ancora il luogo dove passeggiavo con i miei genitori. Senza timori. Anche lì vedevo persone che vivevano, si vestivano, parlavano, in modo diverso. Non ricordo che allora l’arabo fosse una lingua minacciosa. Tutt’al più incuriosiva. I miei genitori mi portarono al Kotel, il Muro del Pianto, a infilare un foglietto in una fessura fra le pietre, e poi mi mostrarono la Cupola d’Oro spiegando che

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Gerusalemme, come era sacra per gli ebrei, era sacra per i musulmani. Non ricordo di averci trovato una contraddizione, da bambino. Poi lasciammo Gerusalemme per trasferirci a Haifa, e ci tornammo quando avevo dodici anni. Gerusalemme è montuosa, non ci sono molti posti dove andare in bicicletta, ma nel quartiere dove abitavamo noi, si poteva. Di Shabbat uscivo in bici e gironzolavo per i sentierini del parco pubblico, Gan Saker. Nei grandi prati, facevano pic-nic e giocavano a calcio poveri e ricchi, religiosi e laici, arabi ed ebrei. Tornando da Gan Saker, mi fermavo nel centro della Valle della Croce, nel luogo in cui, secondo la tradizione, crebbe l’albero con cui i romani fabbricarono la croce di Gesù. Mi capitava di passare in mezzo a gruppi di pellegrini che si recavano a visitare il monastero. A volte, nelle arroventate giornate estive, anch’io entravo nel monastero, per godermi l’aria sempre fresca del chiostro. A quel punto sapevo e avevo studiato già abbastanza da sapere che Gerusalemme non appartiene solo agli ebrei e ai musulmani, bensì anche ai cristiani. Il venerdì andavo con mio papà al mercato Machane Yehuda. A fare la spesa per Shabbat. Da tutte le macchine ferme nell’immancabile ingorgo di via Agrippas, arrivava la canzone in testa alla hit parade dell’epoca, Linda, Linda . Il cantante si chiamava Haim Moshe. Le parole erano tutte in arabo. Alle 17 un uomo passava per il mercato suonando lo shofar per segnalare ai venditori e agli acquirenti l’approssimarsi dell’entrata dello Shabbat: era il momento di chiudere gli affari e tornarsene a casa. Anche noi obbedivamo, trascinavamo i sacchetti di frutta e verdura alla macchina e prendevamo la strada di casa. Anche se non abbiamo mai osservato lo Shabbat. Non mi sembrava strano. Faceva parte del fatto di vivere a Gerusalemme. Lasciammo Gerusalemme nel 1985. Nel 1987 scoppiò l’Intifada e i rapporti fra arabi ed ebrei si caricarono di una profonda tensione. Di violenza trattenuta, e non trattenuta. Tornai comunque a Gerusalemme nel 1993 per incontrare l’amore della mia vita. Lei studiava all’Università Ebraica. Io mi ero appena congedato. Degli amici in comune ci fecero conoscere. Passai a prenderla nel suo appartamento in via Moshe Hagiz, in un quartiere abitato prevalentemente da ultraortodossi. Il primo bacio ce lo scambiammo in via Hatibonim, nel quartiere di Rehavia, non lontano dal Monastero della Valle della Croce. In men che non si dica Gerusalemme si riempì di pietre miliari, posti romantici, che diventavano «nostri» senza che nessuno fosse davvero solamente «nostro». Non il bellissimo quartiere diviso di Abu Tor. Non la passeggiata vicino al Palazzo del Governo mandatario, Armon Hanetziv. Non Talitha Kumi, nello spiazzo del vecchio Mashbir. Persino il primo appartamento in cui andammo a convivere, a Maoz Zion, sulla strada per Gerusalemme, era stato costruito sulle rovine di una casa araba, nel villaggio Castel, i cui abitanti erano fuggiti durante quella che noi chiamiamo Guerra d’Indipendenza, e i palestinesi chiamano Nakba. Amo Gerusalemme di tutto cuore. Di tanto in tanto ci torno, e mentre salgo per la strada tortuosa fino all’ingresso della città, il cuore mi batte di nostalgia. Anche dopo aver visitato tante celebri città in tutto il mondo, continuo a trovare Gerusalemme la più bella di tutte. Ma non l’ho mai considerata solo «mia». O solo «nostra». Chi ama Gerusalemme davvero, e non solo come slogan politico, non ha bisogno che il presidente degli Stati Uniti gli dica che è la capitale di Israele. È ovvio, che sia la capitale d’Israele. Gli ebrei hanno pregato in direzione di Gerusalemme per i duemila anni di diaspora. Aggiungendo «L’anno prossimo nella Gerusalemme ricostruita». Senza Gerusalemme, con il profondo anelito che rappresenta, non sarebbe esistita l’immigrazione sionista in Terra d’Israele, non sarebbe esistito uno Stato per gli ebrei. Senza Gerusalemme non esisterebbe Tel Aviv. Ma chi ama davvero Gerusalemme sa anche che la sua esistenza si fonda su un delicatissimo sistema di equilibri e compromessi. Non sono sicuro che Donald Trump se ne renda conto. Non sono sicuro che sappia di cosa parla, quando parla di Gerusalemme. Gerusalemme può rappresentare l’inizio della risoluzione del conflitto, se ricorderemo che non è solo nostra. E rispetteremo il rapporto intenso e profondo che i credenti delle altre religioni hanno con lei. Gerusalemme potrebbe anche diventare il fiammifero che innesca l’ordigno esplosivo, se ci crogioleremo nelle dichiarazioni di un presidente americano non particolarmente saggio e dimenticheremo che non lui, ma noi e i nostri figli, dobbiamo vivere da queste parti. E che da queste parti non c’è futuro senza compromessi e senza vedere l’altro. Anche a Gerusalemme. Pag 22 Il gelicidio di Paolo Virtuani Che cos’è e quando si verifica

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1 Cos’è il gelicidio? È un sottile strato di ghiaccio trasparente, chiamato anche vetrone, che si forma su strade e marciapiedi. 2 Quando si verifica? Quando la temperatura è intorno o poco sotto lo zero termico e piove (poco) al posto di nevicare: se la pioggia cade su una superficie più fredda, può gelare. Può avvenire anche quando ha smesso di piovere, le nuvole vengono spazzate dal vento e passa un fronte freddo che fa crollare in pochi minuti le temperature. Oppure quando nevica, la neve si scioglie a contatto con le strade e il velo d’acqua che si è formato gela se la temperatura scende rapidamente sotto lo zero. 3 È pericoloso? Sì, specialmente quando si forma su strade e marciapiedi. È difficile notarlo e può provocare cadute e slittamenti di autoveicoli. 4 Come si evita? Si può evitare preventivamente spargendo sale o altri composti antigelo sulle strade, sui gradini esterni e sui marciapiedi. La lastra di ghiaccio sui vetri delle auto non è facile da togliere a meno di usare acqua calda o alcol, oppure raschiando con una palettina facendo attenzione a non rovinare il parabrezza. 5 È un fenomeno diffuso? In Italia avviene di rado, nella maggior parte dei casi in Pianura padana o nelle vallate appenniniche tosco-emiliane a causa di particolari condizioni atmosferiche: quando a contatto o nei pressi del terreno c’è uno strato di aria più fredda rispetto a livelli più alti. Nel Nord Europa le condizioni adatte al gelicidio sono più frequenti. Il velo d’acqua al suolo ghiaccia in breve tempo e le strade diventano piste di pattinaggio. In questo caso in Francia si parla di verglas («vetro-ghiaccio»). 6 Il gelicidio è simile alla brina? Il gelicidio è un fenomeno diverso dalla brina. Quest’ultima non è dovuta alla pioggia o all’acqua di fusione della neve, ma al vapore acqueo contenuto nell’aria. Se la temperatura scende sotto lo zero, in assenza di vento, il vapore ghiaccia sulle superfici più fredde. 7 Il gelicidio è un sinonimo della galaverna? Gelicidio, brina e galaverna sotto il profilo fisico e meteorologico sono fenomeni diversi. La galaverna si origina dalla nebbia che si ghiaccia quando si scende sotto zero. In questo caso il ghiaccio assume una forma aghiforme. La galaverna può essere anche indotta: viene usata nelle coltivazioni di frutta per preservare in primavera i fiori dalle gelate notturne. Con spruzzatori viene deposta una nebulizzazione di acqua sulle gemme, questa gela formando uno strato protettivo che al mattino si scioglie. IL GAZZETTINO Pag 1 La corsa al voto e il vuoto di idee di Alessandro Campi Indizi crescenti, che rischiano di diventare una prova schiacciante, fanno temere che la prossima campagna elettorale possa essere la più brutta della nostra storia recente. Oltre che la più inutile, se è vero quel che molti, tra osservatori ed esponenti del Palazzo, pronosticano: vale a dire che all'indomani del voto non ci saranno né un vincitore effettivo né una maggioranza parlamentare minimamente coesa. Il che aprirebbe la strada, inevitabilmente, a soluzioni di ripiego e per definizione precarie: dal governo di minoranza a quello del presidente, dalla grande coalizione all'ennesimo esecutivo tecnico. Senza contare la possibilità reale, nel caso di uno stallo parlamentare perdurante, di dover tornare al voto dopo pochi mesi. Di battaglie elettorali segnate da insulti e polemiche, persino da tentativi di mettere fuori gioco l'avversario con mezzi poco ortodossi, ne abbiano conosciute diverse nel passato. L'intera Seconda Repubblica,

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segnata dalla divisione profonda tra berlusconiani e antiberlusconiani, è stata caratterizzata da una forte polarizzazione A livello di propaganda e di opinione pubblica e da un clima di virulenta contrapposizione ideologica. Dal 1994 in avanti lo scontro tra partiti e coalizioni ha assunto spesso i toni della crociata. Ma tra un'invettiva e un'accusa sanguinosa, tra una rissa televisiva e una palese bugia, appariva comunque chiaro quel che differenziava i contendenti sul piano dei programmi, degli obiettivi e delle potenziali decisioni una volta conquistato il governo del Paese: dall'economia alle politiche sociali, dai temi istituzionali a quelli della giustizia, dalle tasse alla politica estera. Quella che oggi abbiamo dinnanzi è invece una dialettica tra partiti che si sta sempre più impoverendo, semplificando e banalizzando. I temi di discussioni delle prossime elezioni come si evince dalla discussione e dalla cronaca politica delle ultime settimane rischiano infatti di essere non la disoccupazione giovanile, la scuola, l'Europa, la riduzione della spesa pubblica, il controllo sulle banche o il rilancio delle imprese, ma il ritorno del fascismo, l'uso delle fake news e l'invasione dell'Italia ad opera di orde di immigrati clandestini. Intendiamoci, il successo tra i giovani di mitologie e simbolismi ispirati al fascismo, la manipolazione delle informazioni con l'obiettivo di influenzare la politica e lo stesso gioco democratico e la gestione dei flussi di popolazione dall'Africa verso l'Europa sono tre temi reali e importanti. Il problema è il modo strumentale, polemico e drammatizzante con cui essi vengono presentati e affrontati, sino a farne le emergenze o minacce assolute rispetto alle quali gli italiani dovranno decidere il giorno del voto da che parte stare. L'impressione è che i partiti, a pochi mesi dall'appuntamento cruciale con le urne, stiano in realtà vivendo un serio e preoccupante vuoto di idee e di capacità propositiva. Rispetto all'acutezza della crisi economica e sociale nella quale l'Italia è ancora immersa nessuno di essi sembra avere ricette o soluzioni razionali da proporre all'attenzione dei cittadini. Si preferisce perciò puntare sulle emozioni, sull'istintività e sulla facile demagogia. C'è sicuramente un problema di gruppi dirigenti: obsoleti, autoreferenziali, spesso semplicemente dilettanteschi nel loro modo di affrontare i problemi. Forse agisce anche il convincimento che ci aspettano anni difficili, al limite dell'ingovernabilità, per cui meglio sarebbe starsene alla finestra invece di assumersi responsabilità di governo. Ma probabilmente non aiuta, più prosaicamente, la legge elettorale che ci si è dati. Prendiamo ad esempio gli eterogenei cartelli elettorali che si stanno creando a sinistra come a destra: non potendo contare sulla forza aggregante di leadership salde e riconosciute come tali, l'unico collante per tenere insieme forze e sigle sin troppo diverse tra di loro finiscono per essere le paure, gli allarmismi e i fantasmi ideologici che si è in grado di suscitare nei rispettivi elettorati. Per gli uni, sembra trattarsi dell'antifascismo militante. Per gli altri, dello spauracchio di un'immigrazione fuori controllo e, più in generale, dell'insicurezza collettiva. Quanto al M5S, nonostante i tentativi per accreditarsi come una forza potenziale di governo, resta un movimento più a suo agio con l'opposizione, la protesta e la denuncia. Ciò che promette, giocando sul risentimento sociale e sulla disaffezione per la politica tradizionale di molti italiani, è lo scardinamento dell'attuale sistema di potere, ma non si riesce a capire in vista di quale alternativa realisticamente praticabile. Se a tutto questo aggiungiamo poi l'ossessione della lotta contro le fake news, con i partiti che si accusano a vicenda di avvelenare i pozzi della discussione pubblica e di essere al servizio di potenze straniere, si capisce a quale miserando confronto elettorale stiamo per andare incontro. Come impedire un simile scenario, che rischia di consegnare all'astensionismo ancora più italiani che nel recente passato? Serve probabilmente una scelta nel segno della responsabilità. chiaro che nessun partito, in questa particolare contingenza, può offrire agli italiani ricette sicure per i loro problemi. Ma si possono comunque avanzare proposte e soluzioni che siano almeno credibili e ragionevolmente praticabili, tra le quali poter effettuare una scelta minimamente ponderata. In campagna elettorale fare promesse (non sempre realizzabili) è normale. Non è normale invece pensare di raggranellare voti giocando sulla frustrazione e sulle ansie degli elettori, o assecondandone i cattivi umori. Il gradimento di cui in questo momento gode l'esecutivo Gentiloni dovrebbe insegnare ai partiti, mentre si apprestano ad affilare le armi per lo scontro di primavera, che la serietà, il pragmatismo, quel minimo di riformismo che le finanze pubbliche ci consentono, la rinuncia ai toni forti, al velleitarismo e alle promesse impossibili è esattamente ciò di cui i cittadini sentono più il bisogno. Basterà mettere a frutto questa

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semplice lezione per avere un confronto elettorale che sia serio, civile e forse persino utile per l'Italia. LA NUOVA Pag 1 Liberi tutti, le piroette dei candidati di Francesco Jori Rompete le righe. In largo anticipo sulla chiamata alle urne, i partiti di ogni forma e colore si mettono in libera uscita, per dedicarsi alla caccia all'elettore perduto: incentivati in questo da una sciagurata legge elettorale che solletica il peggio della furbizie politica d'accatto, e che di fatto rappresenta un incentivo alla frammentazione. A suo tempo, il Mattarellum spacciato come il toccasana per semplificare il quadro, portò a triplicare i partiti addirittura nel maggioritario, mica nel proporzionale. Oggi, il Rosatellum ispirato a una sorta di bricolage della scheda promette di surclassare quell'infausto primato; e già i movimenti in atto ancor prima del voto legittimano la previsione. A sinistra, tra chi se ne va, chi si riaggrega, chi getta la spugna, chi scomunica tutti tranne se stesso, il traffico è da ore di punta nei giorni di pioggia, secondo le peggiori tradizioni della casa. Ma non gira diversamente a destra, dove chi un tempo proclamava che con certa gente non avrebbe mai bevuto neppure un caffè, ora non solo lo condivide ma prima ci mette antipasto, primo, secondo, contorno e dolce. Né si sottrae ai giri di valzer il pur lillipuziano centro, dove i pochi inquilini riescono a far credere di essere tanti (nove sigle ad oggi! ), da quanto volteggiano a tutto campo offrendosi al miglior acquirente. E non bastasse la fibrillazione dei partiti, ci si mettono i tanti singoli politici disposti a sposare qualsiasi causa e a servire qualsiasi padrone pur di garantirsi la conferma: un seggio val bene una piroetta. Come dimostra del resto già la legislatura che volge al termine, dove un parlamentare su tre ha cambiato disinvoltamente casacca. Tanto rumore per nulla, verrebbe da dire. Malgrado la moltiplicazione patologica dell'offerta politica, e un massiccio investimento in comunicazione, la stagione della cosiddetta seconda Repubblica ha provocato una vistosa disaffezione dei potenziali acquirenti; al punto che ormai quattro italiani su dieci girano al largo dalle urne, e i sondaggi sul prossimo test di primavera confermano la tendenza. È un paradosso apparente, perché i protagonisti del mercato elettorale sono i cosiddetti "partiti personali": dal loro inventore Berlusconi al suo odierno competitore Renzi e al catalizzatore pro-tempore degli incazzati a prescindere Grillo; fino a soggetti di dimensioni più ridotte come il Salvini della Lega o esigue come la Meloni di Fratelli d'Italia. Talmente ad personam, da spingersi a cambiare non solo i contenuti, ma pure il logo e il packaging: alimentando così esodi di naufraghi dissidenti, che approdano a lidi un tempo bollati come il peggio del peggio: ultimi della serie, i neo-sovranisti in rotta con la Meloni, impegnati a tessere elogi di quel Salvini di cui fino a poco tempo fa dicevano peste e corna. La spiegazione di questo ormai vistoso scarto tra eccesso di offerta e scarsità di domanda non sta solo nel fallimento della formula del partito personale, ma anche nella mediocrità degli autoproclamati leader. Non è un virus solo italiano: basta un'occhiata all'Europa, e un raffronto con le figure di riferimento del passato, per constatare la differenza. Ma da noi la situazione è decisamente peggiore: la quinta riforma elettorale in soli 25 anni, già caratterizzati di loro dalla fragilità di qualsiasi maggioranza, si prepara a consegnare il Paese a una situazione di instabilità permanente; con il rischio concreto di dover tornare a votare di lì a pochi mesi, o in alternativa di dar vita a pastrocchi comunque di respiro corto. Vota oggi, te ne pentirai domani, suggeriva un poster di una vecchia campagna elettorale inglese. Quasi metà degli italiani hanno già metabolizzato il pentimento: preferendo evitare di mettere una croce su un qualsiasi simbolo oggi, piuttosto che doverla portare per i cinque anni a venire. CORRIERE DELLA SERA di domenica 10 dicembre 2017 Pag 1 I doni all’Europa di Trump di Franco Venturini L’unità per reazione Non se la prenda l’Alto Rappresentante Federica Mogherini, ma è ormai evidente che la vera forza propulsiva della politica estera europea risiede in America e si chiama Donald Trump. Non sono forse le assai discutibili iniziative del presidente Usa a far nascere per

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reazione una identità internazionale europea fino a ieri latitante? E non è il capo della Casa Bianca, con le infauste ricadute della sua America first, a mettere finalmente l’Europa davanti allo specchio della Storia, e a costringerla a diventare adulta? I populismi non ancora battuti, la Brexit all’ovest e i nazionalismi di Visegrad all’est, le migrazioni fuori controllo, le solite gelosie di parte, le elezioni che promettono ingovernabilità (Italia) o che dalle urne faticano a estrarre un governo (Germania), tutto questo avrebbe potuto affondare la barca europea. Ma in realtà l’Europa, quasi senza accorgersene, è diventata un indispensabile fattore di equilibrio in un disordine mondiale che Trump cavalca con gli eccessi di chi, dopo dieci mesi di potere, si sente già in campagna per la rielezione. Si diceva, un tempo, che quando le acque dell’Atlantico si increspavano era la riva europea a smarrirsi e a dividersi. Oggi è vero il contrario: ogni volta che l’America si allontana dai suoi alleati europei (che tali restano, s’intende) è l’Europa a salire un gradino unitario ed è l’America a rivelare le sue profonde divisioni politiche e culturali. I «favori» di Donald Trump alla Ue sono ormai numerosi. Il primo fu la dissociazione di Washington dagli accordi di Parigi per la difesa dell’ambiente. Gli europei, tutti, strinsero i ranghi nel criticare la mancanza di responsabilità della superpotenza amica. E quando Trump accenna a fare marcia indietro suggerendo che le intese potrebbero essere modificate, l’Europa (sin qui) tiene duro. Venne poi la nuova filosofia americana sul commercio internazionale, e prese forma l’opposizione (con l’Europa quasi unita) al ritorno del protezionismo. Non basta. Prim’ancora di diventare presidente Trump aveva definito «obsoleta» la Nato, aveva reclamato (con qualche ragione) contributi finanziari più consistenti da parte degli alleati europei, e si era mostrato restio a confermare la validità del cruciale articolo 5 del Trattato atlantico. I Paesi europei membri dell’Alleanza trovarono senza fatica un fronte comune: la Nato è ancora necessaria, si pagherà di più ma non nei tempi e nei modi voluti dagli Usa, e serve da parte di Trump una conferma solenne ed esplicita (che poi venne) degli impegni di difesa reciproca contenuti nell’articolo 5. Più di recente, nello scorso ottobre, Trump rifiutò di «certificare» il rispetto da parte dell’Iran degli accordi nucleari conclusi a Vienna nel 2015. La palla fu passata al Congresso (che si appresta a decidere su eventuali nuove sanzioni contro Teheran), ma gli europei insorsero subito contro i pericoli che la decisione del presidente Usa comportava per il mondo intero, e non furono imbarazzati dal trovarsi fianco a fianco con Russia e Cina. Un corso accelerato di autonomia in politica estera, si direbbe. Ma dovevano ancora venire il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e l’annuncio del conseguente trasferimento dell’ambasciata Usa. Ancora una volta, in questi giorni, l’America appare isolata soprattutto dai suoi alleati. Ancora una volta la volontà di Trump di soddisfare la sua base e di essere «nuovo» e «diverso» (soprattutto da Obama) preoccupa gli europei ma non li induce al silenzio. La dichiarazione comune fatta all’Onu da Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Svezia è la punta di un iceberg che presto potrebbe prendere altre forme comuni, e che esprime in termini energici il dissenso europeo nei confronti della linea americana. È peraltro evidente anche agli europei, con Emmanuel Macron che continua a sostituirsi all’indebolito ruolo guida di Angela Merkel, che la formula dei «due Stati» non deve impedire la nascita di piani di pace diversi e più efficaci. Ma il punto è che Trump ha deciso le sue mosse senza avere un piano di pace, promettendolo soltanto e affidando all’Arabia Saudita un sondaggio (svelato dal New York Times) a dir poco catastrofico per i palestinesi. Il premier israeliano Netanyahu, dal suo punto di vista, ha ragione ad esultare. Ma per il resto gli Usa si sono raramente trovati tanto isolati e rischiano di essersi delegittimati per quando un piano di pace più presentabile sarà (forse) pronto. L’Europa è contraria, e lo dice a gran voce. Aveva mai avuto tanti battesimi del fuoco in meno di un anno, la politica estera europea? Beninteso le occasioni che Trump fornisce all’Europa sulla scena internazionale non riusciranno a guarire la Ue dai suoi numerosi malanni interni. Cruciali saranno la natura politica del prossimo governo tedesco, la qualità di una rilanciata intesa franco-tedesca e il contenimento dell’effetto destabilizzante che potrebbero avere le elezioni italiane. La grande partita del futuro è ancora aperta, ma almeno nel settore qualificante della presenza internazionale l’Europa potrà contare ancora a lungo sul suo fornitore Donald Trump. Pag 1 Il rischio di non cogliere il segno dei nostri tempi di Antonio Polito

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Il sottosuolo e la nuova arena Che in Italia ci siano ancora i fascisti è fuor di dubbio. Se è per questo ci sono anche i comunisti. Solo che dei secondi non si accorge nessuno perché il mondo in cui viviamo ne ha sterilizzato l’ideologia; mentre disoccupazione di massa, migrazioni epocali, xenofobia sembrano essere diventati la cifra del nostro tempo e non solo in Italia, proprio come negli anni 30 del secolo scorso. Si spiega così perché chi aveva finora vissuto nel sottosuolo nostalgico delle croci runiche e dei fasci littori possa oggi credere di aver qualcosa da dire nell’arena pubblica della modernità. E i nuovi fascisti lo fanno con i metodi che gli sono propri, aggressivi, intimidatori, quando non apertamente violenti. Ogni sforzo affinché quei metodi vengano respinti e impediti dalla legalità repubblicana è dunque sacrosanto, e spetta innanzitutto alla forza coercitiva dello Stato. Allo stesso modo vanno isolati i tentativi di intimidire la libertà di espressione, che riguardi un’associazione di volontari o la stampa indipendente (come è accaduto nella irruzione di Como o nella gazzarra davanti alla sede di Repubblica). Ma stabilito che il pericolo rappresentato dai fascisti esiste e va tenuto a bada, forse è un errore di prospettiva credere che ci sia anche un pericolo fascismo. Che cioè quel coacervo di idee e sentimenti che nel 1919 sfociò a Piazza San Sepolcro a Milano nella fondazione dei Fasci di Mussolini, ad opera di militanti provenienti dalla sinistra, possa oggi ripresentarsi nelle stesse forme politiche e con lo stesso messaggio. Ai nostri giorni la xenofobia e l’odio trovano differenti canali per trasformarsi in politica, molto più subdoli e complessi, per esempio sulla Rete; e così anche la rabbia dei giovani per la condizione economica cui temono di essere destinati sta in realtà provocando più astensione che mobilitazione politica. Ecco perché manifestazioni come quelle di ieri a Como, pur nobili nei loro intenti, rischiano di non cogliere nel segno del tempo. Bella Ciao e Calamandrei sono patrimonio della nostra Repubblica, ma in assenza del fascismo contro cui quelle bandiere furono alzate rischiano di essere usati come strumenti di una battaglia politica partigiana sì, ma non nel senso buono. Prova ne sia che questo nuovo antifascismo non fa più l’unità del cosiddetto arco costituzionale, e anzi viene osteggiato da forze come il M5S e la Lega, le quali sanno benissimo di avere nel loro elettorato pulsioni anti-politiche e anti-immigrati, ma che hanno trovato forme diverse, e bisogna ammettere pacifiche e democratiche, di esprimersi. Il peggiore dei torti che si potrebbe fare al fondamento antifascista del nostro regime costituzionale sarebbe dunque quello di usarlo a corrente alternata e ognuno per i suoi fini, a Ostia la Raggi e i Cinquestelle a Como Renzi e l’Anpi (finalmente riuniti nella lotta, dopo tanto litigare), così da inzaccherarlo con la polemica politica del momento. Oppure discriminare l’antifascista dal fascista sulla base del grado di apertura agli immigrati (anche al povero Minniti è capitato in passato di sentirsi dare del fascista per questo). Verrebbe da dire che l’antifascismo è una cosa troppo seria per lasciarlo fare ai politici in campagna elettorale. I valori repubblicani devono unire, non dividere. E oggi non ci pare proprio ci sia il bisogno di dividersi sul fascismo, pagina nera e finita della storia d’Italia. AVVENIRE di domenica 10 dicembre 2017 Pag 2 Antidoto al fascismo è l’educazione di Umberto Folena Irruzioni, provocazioni e consapevolezze da ritrovare «I fascisti sono una trascurabile maggioranza». Quando Ennio Flaiano annotava il suo pensiero sul Diario Notturno era il 1956 e il fascismo era ufficialmente defunto e sepolto da 11 anni. Oggi è defunto e sepolto da 71 anni eppure ieri a Como si è tenuta una manifestazione nazionale antifascista. I fascisti dunque ci sono ancora? E quanti sarebbero? A giudicare dalle irruzioni di teste rasate di questi mesi e, con improvvisa frequenza, di qualche giorno fa ci sono. Le differenze con i bisnonni sono abissali, a tal punto da far dire che sono 'fascisti immaginari'. Quelli erano reduci di una guerra mai finita, temprati dalla trincea, incapaci di sentirsi in pace e 'condannati' al menar le mani come unica possibile modalità politica e comunicativa. Questi sono reduci di una crisi, forse mai finita, temprati dai social network, e cercano palcoscenici e consensi dotati di un armamentario retorico basico. E quanti sono, dunque? Pochi, stando al sommario censimento di gruppi e gruppuscoli. Un’enormità, se si dà retta a Flaiano. Il geniale abruzzese, però, non pensava al fascismo come categoria politica, ma spirituale. Anche

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oggi, se c’interroghiamo sui «valori del fascismo», ne vien fuori un elenco ineccepibile – patria, nazione, Stato, famiglia e, senza chiedere il permesso al Padrone di casa, Chiesa – ridotto a un banale armamentario retorico vuoto come un soufflé; e posticcio, perché agli italiani bisognava pur dare qualcosa in cui credere. E le idee? Il fascismo non ebbe né mai si diede un’ideologia, e in questo la differenza con altri fenomeni con alcune importanti analogie, come il nazismo, è marcata. Lo stesso Mussolini, nella voce 'Fascismo' dell’Enciclopedia Italiana, da lui stesso redatta, scrive che all’inizio fu 'azione', un movimento di protesta che si alimentava di rancore. Allora l’Italia usciva da una guerra vinta ma la sensazione di molti era di non aver vinto un bel nulla e di stare peggio di prima; oggi l’Italia pare uscita dalla crisi, ma la sensazione di molti è di non esserci usciti per nulla e di stare peggio di prima. Il rancore (vedi il Rapporto Censis) è il sentimento prevalente, potenzialmente distruttivo, e il fascismo ha sempre saputo impugnarlo e volgerlo a suo favore. Il fascismo come categoria spirituale non è mai morto. È sepolto, sì, in fondo all’anima di molti, ma pronto a riprender vita. Per questo è difficile combatterlo. Fosse soltanto una categoria ideologica o politica, una manifestazione potrebbe anche servire, per negare il disprezzo fascista della democrazia e dei valori dell’accoglienza e della convivenza, soprattutto dell’uguaglianza, così tenacemente negata da Mussolini. Ma che fare di fronte a una categoria dell’anima? Farà sorridere, ma la soluzione la indica da tempo la Chiesa cattolica, e sta nell’educazione. L’Italia, per tutelare se stessa e salvare i suoi cittadini, non investirà mai abbastanza in educazione. Un’educazione libera, innanzitutto dal piccolo demone della paura che, alimentata ad arte, è il primo strumento di controllo degli individui, e delle masse, da parte dei politici spregiudicati. L’educazione ti fa distinguere la realtà dall’allucinazione, la verità dalla falsità, il bello dal brutto, il bene dal male. In altri termini ti rende libero; e questo potrebbe non essere apprezzato da chi sa come un individuo libero voterà come pare a lui, secondo coscienza. E i gruppi neofascisti? Dobbiamo ignorarli con una scrollata di spalle? No, ma nemmeno fermarci a loro. Faremmo come quei tali che, di fronte al dito che indica la luna, si aggrappano al dito. Quei gruppi sono uno dei tanti sintomi del virus che infetta l’anima; il sintomo va combattuto ma ben sapendo che la malattia è altra cosa. Anche Ennio Flaiano, in fondo al suo 1956, sembrava saperlo e, da ottimo 'educatore ironico', non ci lasciava soli. Dopo aver denunciato il male, infatti, suggeriva pure la terapia: «Un giorno – concludeva – il fascismo sarà curato con la psicoanalisi». Forse basterebbe un piccolo esercito di educatori, ossia di maestri, imprenditori, politici e - azzardiamo preti capaci di immettere nello sfibrato corpo della nazione i provvidenziali anticorpi, prima che il virus, sotto spoglie adattate ai tempi, riemerga con tutta la sua forza distruttiva. Pag 3 La paranoia di uno, il cinismo di molti di Ferdinando Camon A proposito di delitti (facili ed economici) col tallio Ha comprato il veleno per topi nella mia città, non lontano da casa mia, lo ha messo nelle bevande di nonno, nonna e zia, e li ha ammazzati. Parlo del ragazzone di 27 anni, palestrato, nerboruto, noto come l’avvelenatore del tallio. Quando succedono queste cose, le commentiamo a caldo, perché radio, tv e giornali ci chiamano, e diciamo quel che comprendiamo in quel momento. Ma un giorno dopo, due giorni dopo, ne sappiamo di più, e facciamo qualche passo in più verso la verità. E le nostre idee cambiano. La strage col tallio ha ormai qualche settimana, la scoperta del colpevole ha qualche giorno, e in questo frattempo abbiamo appreso qualcosa di rivelativo, dalle confessioni del ragazzo e dei suoi parenti. E cioè: l’importanza del computer nella costruzione del mondoa- parte, nel quale il ragazzo s’era rifugiato per scappare fuori dalla vita vissuta. Viveva in un sistema collaterale. Sistema collaterale con termine greco si dice para-noia. Non aveva amici, non fidanzata, non studi, non interessi. Non lavoro. Niente. La perdita del lavoro gli aveva svuotato il mondo. Aveva solo il computer. Il computer era tutto. Questa strage rivela l’alienazione che s’ingenera nei ragazzi nell’epoca del computer. Una volta dicevamo che dalle scuole superiori i ragazzi vivono in un altro mondo, ma adesso possiamo dire che cominciano dalle scuole inferiori, perché adesso hanno telefonini che sono computer. Con potenza, giga, memoria, velocità. Quando esplose il fenomeno dell’iPhone i dirigenti della Nokia si riunirono per valutare la minaccia sul loro mercato, e conclusero: 'Tranquilli, è soltanto un computer che manda telefonate'. Che

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errore! Sono morti, o feriti a morte, per quell’errore. Questo ragazzone pluriomicida ha 27 anni, è nel massimo della vita e della vitalità. Eppure viveva fuori della vita. Guardando nella sua biografia, si può dedurre che la fuoriuscita dalla vita sia coincisa con l’espulsione dal lavoro. Da quel momento (sto cercando di capire, ma gli elementi non sono molti) s’è rifugiato nel suo mondo interiore e ha odiato il mondo esteriore, e in primo luogo i parenti più stretti. Che erano quelli che veramente lo amavano. Che cosa c’è di meno odiabile di un nonno ultranovantenne? Il nonno ultranovantenne è sempre perdonanza e mai rimprovero: è una fortuna avere un nonno vecchissimo, è la relazione più dolce della vita. Questo ragazzotto di 27 anni ha pianificato lo sterminio del nonno, di 94 anni, della nonna, di 91, della zia, di 67 anni, ha fatto tabula rasa intorno a sé delle relazioni affettuose. Se ha avuto giuoco facile, facilissimo, è colpa nostra. Se avesse comprato una pistola, senza mostrar documenti, l’armeria sarebbe sotto inchiesta. Invece ha comprato il veleno, e tutto è filato liscio. Ha contattato il negozio via email, il negozio ha risposto per la stessa via, ha concordato il prezzo, 248 euro per sei flaconi di veleno, le email le firmava con falso nome, nessuno ci ha badato, s’è presentato a ritirare il veleno sempre con quel falso nome, ha pagato in contanti e nessuno gli ha chiesto un documento. Per fare tre vittime ha impiegato un solo flacone, il che vuol dire 41,3 euro. Fanno 13,7 euro a testa. È un super-killer superrisparmioso. Sto dicendo: uccidere è facile e col veleno è economico. C’è una certa protezione della vita dalle armi da fuoco, ma evidentemente non dai veleni. Questo ragazzo non aveva con i parenti un rapporto di odio e di amore, ma di disprezzo: nel suo sistema morale li giudicava 'impuri', il che vuol dire indegni di vivere, e nella tecnica omicida ha usato il veleno per topi, considerati da tanti sub-animali, oggetto universale di disprezzo e di ribrezzo. Il tallio aveva avuto un certo, tiepido controllo al tempo in cui serviva per tagliare la droga. Oggi è, come s’è visto, in libera vendita. Qui l’ha comprato un ragazzo delirante, e l’hanno servito commessi di negozio. È stato facile. Troppo. Quelli che sono morti e quelli che si sono salvati per puro caso, sono vittime di una diabolica volontà (dell’omicida), ma anche di una altrettanto diabolica permissione di far circolare i veleni, come se tra miele e veleno non ci fosse differenza. Malato (quasi sicuramente) l’assassino, ma cinica (sicuramente) la società. CORRIERE DEL VENETO di domenica 10 dicembre 2017 Pag 1 Serve una naja per gli immigrati di Paolo Costa Accogliere e selezionare La rivolta dei migranti usciti dalla base di Cona non ha avuto conseguenze drammatiche solo grazie alla professionalità del prefetto di Venezia Boffi, alla collaborazione del Patriarca Moraglia e dei tanti volontari che anche in questa occasione hanno testimoniato la solidarietà dei veneti verso i meno fortunati. Ma la tentata «marcia su Venezia» ha messo drammaticamente in evidenza le falle del sistema di accoglienza italiano e il mancato superamento della logica emergenziale che lo ha finora caratterizzato. Falle provocate dall’assurdità organizzativa di distribuire gli immigrati su tutto il territorio nazionale; e in una frammentarietà di strutture, nella maggior parte temporanee, individuate con la corresponsabilità forzata delle comunità locali. Ma la falla più grave è concettuale. E sta nell’immaginare di essere ancora di fronte ad una emergenza temporanea. Emergenza che si potrebbe considerare tale se avessimo a che fare solo con rifugiati - coloro che scappano dal loro paese per sfuggire a violazioni dei diritti umani - e non anche con migranti economici, quelli che cercano in Europa opportunità di lavoro e di benessere non ottenibili nei loro paesi di nascita. Non è questo il caso dell’Italia, dove la maggior parte dei richiedenti asilo - diversamente da quanto accade nel resto d’Europa - viene dall’Africa sub-sahariana (Nigeria, Gambia, Mali, Senegal ): origine che rende difficile la separazione dei due fenomeni. Se il flusso dei rifugiati potrebbe ancora esser trattato come un fatto emergenziale, temporaneo, (ma chi può scommettere su un imminente spegnimento di tutti i focolai di instabilità mondiale?), i migranti economici costituiranno invece un fatto strutturale, persistente, almeno per tutto il secolo a venire. Un fatto che sta a noi subire come minaccia o trasformare in opportunità. Perché se da domani dovessimo chiudere le frontiere italiane ad ogni flusso migratorio (non accettando alcuno straniero, ma anche impedendo ai nostri giovani di cercare lavoro all’estero e agli anziani di andare a godersi la pensione in Portogallo) la

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popolazione italiana perderebbe in cinquant’anni il 25% della sua consistenza passando dai 60 milioni di oggi ai 43 milioni del 2066. Le conseguenze drammatiche di questa tendenza si presenterebbero ben prima con un ulteriore declino della crescita e della nostra competitività, oltre che con l’insostenibilità finanziaria dell’intero sistema di welfare. Il dramma è evitabile (stime Istat), nel senso che perderemmo solo il 12% della popolazione (7,5 milioni di abitanti in meno nel 2066), solo con un flusso di immigrati dall’estero di almeno 300 mila unità all’anno (sperando che gli emigrati italiani verso l’estero non superino le 130.000 unità annue). Nello stesso periodo l’Africa è, e rimarrà, in pieno boom demografico, con il Sub Sahara che nello stesso periodo più che raddoppierà la sua popolazione superando i 2 miliardi e mezzo di abitanti (sì 2,5 miliardi!). E’ evidente la necessità di puntare a contenerne la spinta alla emigrazione verso l’Europa con un piano di aiuti proporzionato – e, purtroppo, ben superiore ai 50 miliardi di euro che il Presidente del Parlamento europeo Tajani ha proposto all’Unione Europea di mobilitare: la Cina, per capirsi, si sta muovendo fuori dei suoi confini in Africa ed Asia con piani del valore di oltre un trilione di dollari! -. Ma anche così un travaso di popolazione dall’Africa in espansione demografica e l’Europa in crisi di popolazione è nell’ordine delle cose. Che fare dunque? Come gestire il fenomeno? La via è obbligata. Esercitare, quanto più possibile in sede coordinata comunitaria, il diritto, sancito dai trattati europei, di ogni stato membro dell’Unione a determinare il volume di ingresso nel proprio territorio dei «cittadini di paesi terzi, provenienti da paesi terzi, allo scopo di cercarvi un lavoro dipendente o autonomo». Nel caso dell’Italia questo vorrebbe dire fissare noi, non farcelo imporre, il volume di 400.000 immigrati annui (comprensivi dei rifugiati, che purtroppo continueranno a lasciare le aree di instabilità) che servono per mantenere i nostri equilibri demografici Ma, e qui si ritorna a Cona, questo significa riorganizzare il sistema di accoglienza nazionale in modo ordinato e permanente per usare il tempo e i modi del processo di accoglienza per preparare i migliori candidati all’integrazione. Una sorta di «naja» per candidati neo-italiani. Magari realizzata ricostruendo l’organizzazione, le procedure e la logistica con la quale fino a qualche tempo fa si gestiva la leva militare obbligatoria dei nostri giovani. Un volume di 400.000 persone, dello stesso ordine di grandezza di una classe di diciottenni italiani, da far passare ogni anno attraverso un efficiente sistema di accoglienza. Formare, impiegandoli in modo utile, 400.000 nuovi italiani ogni anno, ad un costo non diverso da quello oggi «sperperato» in un sistema di accoglienza raffazzonato, è una sfida all’altezza delle possibilità del paese oltre che delle sue necessità. IL GAZZETTINO di domenica 10 dicembre 2017 Pag 1 Così la mossa di Trump rafforzerà il ruolo di Putin di Romano Prodi La decisione di Trump di trasferire l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme non è certo una sorpresa perché era da tempo annunciata e perché tutti conosciamo la robustezza dei legami fra gli Stati Uniti ed Israele. Si tratta di legami che risalgono a tempi lontani e che, anche se ulteriormente rafforzati nell'ultima Presidenza, sono tradizionalmente condivisi sia dalla maggioranza sia dei democratici che dei repubblicani. Fino ad ora tuttavia il considerare Gerusalemme come capitale di Israele senza tenere conto della presenza araba era soprattutto un obiettivo di lungo periodo e, nella sostanza, uno strumento di politica interna. Nessuno l'aveva tradotto in un progetto concreto, proprio per le ripercussioni internazionali che questa decisione avrebbe avuto. Evidentemente Trump ha pensato che gli interessi di politica interna fossero superiori ai pericoli di carattere internazionale. In primo luogo per la debolezza dell'autorità palestinese e lo scarso rilievo dei suoi leader, a cominciare da Abu Mazen, che non ha certo il prestigio e la forza del suo predecessore. In secondo luogo Trump conta sul fatto che, dopo un infinito periodo di emarginazione e di frustrazione, la capacità di ribellione del popolo palestinese appare molto affievolita e, certamente, assai inferiore a quanto avvenuto in passato. La stessa città di Gerusalemme è sempre più dominata, con rapporti di forza del tutto sbilanciati, dalla presenza israeliana. Sulla debolezza della reazione palestinese Trump ha, almeno fino ad ora, avuto sostanzialmente ragione. Episodi di ribellione e di violenza vi sono stati, così come manifestazioni e cortei antiamericani e antiisraeliani in tutte le città del Medio-Oriente. Sono stati tuttavia (almeno fino al momento presente) episodi minori rispetto a quanto abbiamo visto nelle

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intifada del passato. Se la debolezza e l'isolamento palestinese hanno certo favorito l'azione di Trump ben diverso è il quadro allargando lo sguardo allo scenario internazionale. In primo luogo la reazione dei maggiori paesi europei è stata negativa ed unitaria come mai era stata nei confronti di una importante presa di posizione degli Stati Uniti. Francia, Italia e Germania e perfino la Gran Bretagna, così corteggiata in occasione della Brexit, si sono opposte alla decisione di Trump. E lo hanno fatto con forza, ribadendo che Gerusalemme non è la capitale di Israele ma di due nazioni e che il suo status può essere deciso solo da negoziati tra israeliani e palestinesi. Una reazione così robusta non alleggerisce certo le tensioni già esistenti fra i maggiori paesi europei e gli Stati Uniti. Anche se Trump tiene poco conto dell'Europa non sono certo decisioni di questo tipo che possano favorire rapporti più costruttivi. Le conseguenze più pesanti riguardano tuttavia la posizione americana in Medio Oriente. Prima di tutto le relazioni con la Turchia, che si è fatta paladina della posizione palestinese. Sono ben note le tensioni già esistenti fra Turchia e Stati Uniti, soprattutto in conseguenza delle ripetute accuse al governo americano di proteggere il più grande oppositore di Erdogan, ma il fossato viene molto allargato da questa nuova così grave divergenza. Non possiamo infatti sottostimare l'importanza di questi eventi che, se ripetuti, finiranno col mettere in discussione le fondamenta stessa della NATO, che vede il principale motore negli Stati Uniti ma che ha nella Turchia il tradizionale baluardo nel Medio Oriente. In quest'area così delicata per i rapporti tra le grandi potenze la conseguenza più immediata di questa decisione è il rafforzamento della Russia, grande protettrice della mezzaluna sciita che dall'Iran passa per l'Iraq e la Siria, fino ad arrivare, attraverso gli Hezbollah libanesi, alle porte di Israele. La solidarietà contro il comune nemico contribuirà infatti a superare molte delle divergenze ancora esistenti fra questi paesi. Si complicano infine le relazioni fra Stati Uniti e Arabia Saudita e diventa assai più debole la prospettiva dell'accordo strategico che già si andava profilando fra Arabia Saudita e Israele in funzione anti-iraniana. Non è infatti facile stringere un'alleanza con Israele nel momento in cui questo paese ritorna ad essere il principale nemico di tutti i paesi arabi. Il mondo islamico, tradizionalmente così frammentato è infatti quasi obbligato a trovare una sua compattezza di fronte al tentativo di mutare lo status di Gerusalemme, città da tutti ritenuta sacra e simbolica. Tirando le somme mi sembra che, almeno fino ad ora, la decisione di Trump gli abbia dato ben pochi risultati positivi. È assai probabile che gli sia stata di giovamento nei rapporti politici interni in un momento per lui assai complicato, ma certamente ha accentuato l'imprevedibilità e l'isolamento della politica americana proprio in un periodo in cui si vanno riorganizzando i rapporti di forza nello scacchiere internazionale. Mi auguro solo che queste decisioni così convulse e così fondate su esclusivi obiettivi di politica interna non mettano ulteriormente a rischio gli equilibri necessari ad evitare l'esplosione del Medio Oriente. LA NUOVA di domenica 10 dicembre 2017 Pag 1 Il futuro imprevedibile dei partiti di Fabio Bordignon Non è escluso che qualcuno possa vincere, e le quotazioni del centrodestra sono in ascesa. Ma per strappare una maggioranza, alle #Politiche2018, bisognerà stravincere. E se anche a qualcuno riuscisse il colpaccio, la maggioranza si reggerebbe comunque su numeri incerti ed equilibri fragili. Per questo, leader e partiti sembrano in attesa: non tanto del voto, ma di una legislatura travagliata, breve, forse brevissima. A essere in gioco non è solo la prospettiva delle larghe intese, che in molti indicano come esito più probabile. Sembra diffusa la convinzione che le elezioni della prossima primavera siano solo un passaggio interlocutorio: il giro di warm-up di una corsa dalla lunghezza ancora indefinita. Al più, un giro di qualificazione: utile a guadagnare le prime file, sulle future griglie di partenza. Certo, un esito spagnolo, con due elezioni in poco più di sei mesi, appare poco probabile: una soluzione, da noi, alla fine si trova sempre... Almeno fino a ieri. Ma molti sembrano scommettere sul fatto che quella soluzione, questa volta, possa non essere durevole. Berlusconi e Renzi partono da avversari, ma sono al tempo stesso i leader di una coalizione-ombra. Il Cavaliere ha ben due opzioni possibili, che lo mettono in una condizione invidiabile. Può puntare a vincere, con la coalizione di centrodestra: difficile, ma non impossibile. Ma ha anche un piano B, che porta al Nazareno di governo. Il segretario del Pd, uomo solo (non più al comando), non può che puntare tutto su se

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stesso. Sapendo però che la sua sfida è anche interna all'area di centrosinistra, con chi - dentro il Pd o alla sua sinistra - scommette su una "catastrofe democratica" e il conseguente superamento del renzismo. Simile il destino di Salvini, la cui corsa elettorale serve a misurare gli equilibri nel centrodestra e contenere il "ritorno" di Berlusconi. Ma anche a tenere a bada la corrente nordista della Lega (non più Nord), che potrebbe tornare a farsi sentire, se il progetto nazionale del segretario dovesse fallire. C'è poi chi, per strategia o annusando il rischio di una debacle, sceglie addirittura di "saltare un giro". È il caso di Angelino Alfano e Giuliano Pisapia, che in settimana hanno annunciato (per ragioni diverse) la loro decisione di non candidarsi, e non è ancora chiaro cosa sarà delle rispettive creature politiche, a rischio estinzione ancor prima del battesimo elettorale. Tutt'altro discorso quello che riguarda Alessandro Di Battista, che resterà fermo ai box. Per occuparsi della famiglia, dei viaggi, dei libri... Ma anche - aggiungiamo noi - per poter assumere, un domani, la guida del M5S (evitando lo sbarramento dei due mandati). Nell'immediato, quello di Di Battista si presenta come un gesto nobile: di chi rinuncia alla poltrona, proprio oggi che il M5S vola nei sondaggi e si dice pronto a formare il prossimo governo, in caso di affermazione come primo partito. Ma gli stessi 5Stelle sanno bene che difficilmente otterranno il mandato, e con ogni probabilità torneranno a sedersi sui banchi dell'opposizione. Il sospetto è che sia proprio questo l'esito più gradito, soprattutto se si trattasse di fare da opposizione a un governo Renzi-Berlusconi: barricate in Parlamento, e Di Battista a occupare (e aizzare) la piazza. Fuori dal Palazzo, d'altronde, si gode di una posizione propizia, come hanno dimostrato, nell'ultima legislatura, i casi di Renzi, di Grillo, e in fondo dello stesso Berlusconi, che sta già correndo da leader-incandidabile. Leader e partiti eternamente schiacciati sul presente sembrano dunque, per una volta, adottare uno sguardo lungo. Che si proietta ben oltre l'immediato, oltre la campagna elettorale, persino oltre le trattative post-voto. Quel che ci troviamo di fronte, tuttavia, non sono programmi di ampio respiro, per le future generazioni, per l'Italia di domani. Bensì piani improvvisati e calcoli spesso azzardati. Si guarda al futuro: un futuro per tutti imprevedibile. Pag 1 Gerusalemme, Trump cambia le priorità di Gigi Riva La questione palestinese era scivolata molto in basso nell'agenda del mondo arabo e, più in generale, del mondo musulmano. Ristagnava nel limbo dove si accantonano problemi troppo incancreniti per suscitare altro da un pensiero distratto. Gli stessi diretti interessati vivevano la rassegnazione di chi sa che le proprie forze non bastano e gli aiuti esterni sono una chimera. Alcuni sporadici attentati, fatti coi coltelli o con le automobili, avevano fatto credere allo scoppio di una terza Intifada quando erano invece la dimostrazione di un'impotenza. La decisione di Donald Trump di spostare l'ambasciata americana a Gerusalemme, dunque di riconoscere la città santa per le tre religioni monoteiste come capitale indivisibile di Israele, ha avuto l'effetto di ribaltare le priorità. Perché Gerusalemme è un simbolo non solo per i palestinesi ma per il miliardo e passa di credenti musulmani sparsi dalla catena dell'Atlante all'Indonesia. Impossibile credere che il temporaneo inquilino della Casa Bianca non abbia considerato gli effetti della sua rotonda firma sotto la svolta epocale. Più di tutto contava, per lui, tenere fede alle promesse fatte ai generosi finanziatori ebrei (anche se la maggioranza degli ebrei americani vota democratico) e cristiani evangelici della sua vittoriosa campagna elettorale. La politica interna anteposta alle conseguenze nella più delicata e infiammabile fetta di pianeta. Dove rischiano di saltare per aria equilibri già peraltro precarissimi e nuove alleanze che si stavano delineando sul futuro assetto del Medioriente. Non è un mistero che l'erede al trono saudita, il principe Mohammed bin Salman, 32 anni, avesse in animo di avviare un nuovo corso nei rapporti con Israele che sarebbe potuto sfociare persino nel riconoscimento sempre negato. Un'alleanza inedita in funzione anti-ayatollah perché lo spauracchio maggiore, per gli israeliani e per i sauditi sunniti, è l'Iran sciita, in forte espansione d'influenza e, chissà, con la prospettiva di dotarsi della bomba nucleare, nonostante gli accordi raggiunti con la comunità internazionale. Ma ora, se Teheran urla forte contro Gerusalemme capitale, Riyad, colta di sorpresa, è al minimo critica e resta in attesa di sviluppi. Il regno dei Saud controlla i due principali luoghi santi dell'Islam, la Mecca e Medina. Il terzo è la Gerusalemme da cui leggenda vuole che Maometto ascese al cielo. Impossibile lasciarla ad altre religioni.

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Come conferma un retroscena della trattativa di pace di Camp David 2000 tra israeliani e palestinesi sotto l'egida di Clinton, fallita sulla linea del traguardo. Era tutto pronto, le delegazioni erano andate a dormire con l'accordo raggiunto che prevedeva Gerusalemme capitale dei due Stati. Di notte l'allora re Fahd telefonò a Yasser Arafat per diffidarlo dal siglare la partizione perché Gerusalemme non era affar suo ma di tutto l'Islam. Ad occhi sauditi non era accettabile una divisione, figurarsi un abbandono totale. Non basta, l'Erdogan di quella Turchia che pure è membro Nato, già riavvicinatosi alla Russia di Putin, minaccia di porsi come capopopolo della rivolta, dice di voler rompere le relazioni con Israele. E del resto il sultano di Ankara è uno dei più fulgidi rappresentanti della Fratellanza musulmana declinata in salsa turca. Finisce allora che un popolo abbandonato al suo destino dagli stessi correligionari, ritrovi una solidarietà inaspettata non tanto per un'occupazione ormai vecchia di 50 anni ma perché è stato toccato il più universale dei suoi simboli. E grazie a questa rottura dell'isolamento scenda massicciamente in piazza, a Gaza come in Cisgiordania, come non si vedeva da tempo. Il tutto mentre Hamas lancia lo slogan della Terza Intifada. Se sia un fuoco di paglia o l'inizio di una sollevazione lo dirà il tempo. La superiorità militare di Israele resta schiacciante, gli effetti pratici dell'annuncio di Trump saranno visibili solo fra i due anni necessari per costruire l'ambasciata e organizzare il trasloco. Il tempo potrebbe affievolire la protesta. E comunque solo posporla nella terra in cui le pietre contano sempre assai più delle sofferenze quotidiane. Pag 4 La rimozione del passato che ha ingrossato il mare di Renzo Guolo Da dove sale l'Onda Nera che lambisce l'Italia? Da più di un mare: da quello della Rimozione, da quello del Silenzio, da quello dello Straniero. Impossibile spiegare il ritorno di fiamma del neofascismo italiano senza passare per tutti i mari che quell'Onda spingono e mandano a infrangersi contro argini che sembrano aver perso la loro capacità di resistenza. Il Mare della Rimozione è quello più profondo. Nata antifascista la Repubblica ha fatto subito i conti con la Guerra Fredda: dagli anni Cinquanta sino agli anni Ottanta, il motivo dominante è stato l'anticomunismo, non l'antifascismo. Il giudizio sul fascismo sarà collocato non alla base del patto di cittadinanza ma nel dimenticatoio funzionale a erigere una solida barriera contro i "rossi". Il pericolo è l'Unione Sovietica, non più partiti ormai popolati da reduci politicamente marginali e segnati dalla cruenta fine dei loro leader fondatori. Anche perché altre sono, ormai, le formazioni più rispettabili che fanno da diga al comunismo. La parte dell'Onda proveniente da quel Mare eroderà irreversibilmente le spiagge mentali dell'Italia repubblicana, consentendo una relativizzazione della memoria intrisa di autoassolventi polarizzazioni storiche: le bonifiche al posto delle leggi razziali, l'esaltazione del consenso al posto della tragedia della guerra, la difesa dell'onore contro la scelta resistenziale. A quell'onda si è sommata quella, successiva, sospinta dal Mare del Silenzio. Gli anni Settanta sono stati anni durissimi e cupi, ma possono essere davvero superati senza aver fatto pubblicamente i conti con la stagione del terrorismo: non solo quello di estrema sinistra, ma anche quello, stragista e ricco di complicità istituzionali, di estrema destra? Possibile che il tutto sia consegnato alla sola, parziale, verità giudiziaria senza aver fatto i conti con la verità storica? Passo non certo necessario per rispondere all'invocazione del Pasolini del "Io so..." che pure indicava chi fossero e dove andassero cercati i responsabili delle stragi che insanguinavano il Paese, ma perché solo sulla memoria si può costruire il futuro. Non è avvenuto. E un lato oscuro continua a ipotecare la storia della Repubblica. Quei conti la politica, avvinghiata al segreto, ai mandanti tanto potenti quanto innominabili, non li ha mai fatti. ll discorso implicito è stato: l'eredità della guerra fredda si supera solo a patto del silenzio. Contando sul fatto che ciascuno, vittime e protagonisti di quegli anni davvero di piombo, tacessero. Quelli che la guerra segreta l'avevano scatenata per non confessare l'inconfessabile, quelli che l'avevano subita per non ammettere di essere dalla parte sconfitta. Un silenzio, del quale hanno beneficiato anche gli uomini in nero che di quella guerra sono stati sovente protagonisti. Un silenzio che, contrariamente a contesti in cui le guerre civili sono state davvero finite perché esplicitate anche con le parole, ha consentito a molti di superare il passato senza mai fare i conti con esso. Rendendo più esteso il trasformismo utilitaristico della stagione politica post-guerra fredda, dove non contano i valori ma i numeri. Quando quella duplice onda si è unita con

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quella proveniente dal Mare dello Straniero, si è ingrossata. Anche perché, nel frattempo, la parte più fragile della popolazione è stata abbandonata a se stessa, privata di rappresentanza proprio da quelle forze un tempo portavoce dei più deboli. Rimosso il passato, grazie anche alla Rete che tutto appiattisce, il fascismo di oggi non sembra più riconducibile alle sue responsabilità storiche e alla sua originaria cultura politica. Appare, ai più, come il fautore del "prima gli italiani", schierato dalla parte dei perdenti nostrani della globalizzazione contro gli "invasori". In un drammatico collasso della memoria che rischia di travolgere tutti. Torna al sommario LA REPUBBLICA di sabato 9 dicembre 2017 Pag 1 La minaccia che arriva dal passato di Ilvo Diamanti Testo non disponibile AVVENIRE di sabato 9 dicembre 2017 Pag 1 Nulla è facile né lo sarà di Giorgio Ferrari Via Morbida (per ora) alla Brexit Non meravigliamoci se gli irriducibili del leave (come Nigel Farage) gridano al tradimento, se preoccupati e sgomenti gli irlandesi si domandano se il confine fra l’Ulster e l’Irlanda resterà aperto o diventerà un’area di tollerato contrabbando di merci, se gli scozzesi già compulsano con acribia ogni capitolato dell’accordo per accaparrarsi un vantaggio giuridico in vista di una futura separazione da Londra e neppure se altri fervidi sostenitori del divorzio fra il Regno Unito e l’Europa comunitaria (come il ministro degli Esteri Boris Johnson) stiano in prudente silenzio: perché l’agreement raggiunto ieri all’alba a Bruxelles fra il premier Theresa May e il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker – accordo che dovrà comunque ricevere l’approvazione dal vertice dei capi di Stato e di governo Ue del 15 dicembre prossimo – assomiglia più a un accomodamento che a un divorzio. Meglio per tutti, si dirà: più amichevolmente ci si lascia e migliori potranno essere le relazioni future. L’accomodamento, frutto di lunga e operosa trattativa («un tiro alla fune, più che altro, quasi una drôle de guerre », mormorano in varie cancellerie), si rivela come previsto piuttosto oneroso per Londra – che pagherà tra 40 e i 45 miliardi di euro, (l’Europa chiedeva tra 60 e 80, May all’origine ne offriva 20) – e non implicherà una frontiera fisica fra Dublino e Belfast; in compenso tutelerà gli oltre 3 milioni di cittadini dell’Unione che lavorano nel Regno Unito sottoponendoli al diritto britannico, riconoscendo il ruolo della Corte di Giustizia Europea come arbitro ultimo nell’interpretazione della legislazione Ue, ma al contempo svincolando l’Isola dalla giurisdizione della Corte Europea di Strasburgo. Non solo: sganciandosi dall’Europa la Gran Bretagna si scuote di dosso – e ciò non le fa onore – i dossier europei più spinosi, dall’armonizzazione fiscale all’immigrazione, dalla sicurezza delle frontiere alle discipline di bilancio, gli stessi cioè sui quali è sempre stata riottosa ed evasiva. All’accordo finale si è giunti fra faticosi compromessi e sottili limature. Entrambe le parti ne avevano gran bisogno: May per rimanere in sella e mettere a segno un successo politico dopo mesi di rovesci – elettorali e non – allontanando il rischio che a succederle potesse essere l’antieuropeista convinto Boris Johnson, fautore di una hard-Brexit; l’Europa per non scivolare in un tormentoso e logorante conflitto. Per questo i tre punti principali su cui ci si è accordati hanno richiesto saggezza e buon senso. Soprattutto sul fronte interno: Londra ha dovuto apportare ben sei modifiche rispetto al prospetto originale per accontentare gli unionisti nord-irlandesi, quella parte cioè dell’elettorato protestante che vuole rimanere a tutti i costi attaccata al Regno Unito e guardava e guarda a ogni euro-cedimento come a un primo passo verso l’unificazione dell’Irlanda. Come dice il premier italiano Gentiloni, «L’Italia non è mai stata per il no deal. Su Brexit è stato raggiunto un accordo positivo. Sono certo che il Consiglio Ue sarà rilanciato'. La City e la sterlina hanno istantaneamente celebrato l’evento. Meno di buon umore il ventre molle del Regno, istigato e indotto all’uscita dall’Europa da promesse immantenibili e oggi perplesso, confuso, forse anche in parte pentito di quella scelta. In ogni caso ora si apre un periodo di transizione, una gestione meticcia, con leggi europee

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e dispositivi britannici, insomma, un pasticcio – un vero e proprio ircocervo, a dirla con un figlio illustre della Britannia, Guglielmo di Ockham – che rende ancor più evanescente e indecifrabile il concetto stesso di Brexit: e lo si vedrà nella seconda fase, quando nei prossimi 15 mesi (l’uscita è fissata per il mese di marzo 2019 e non è scontato che all’epoca la May e altri leader europei saranno ancora al loro posto) si discuteranno le relazioni commerciali fra Regno Unito e Unione Europea. E allora sì – Margaret Thatcher docet, con i suoi sconti, le sue esenzioni, i suoi micragnosi calcoli di bottega – ci sarà battaglia vera. Ma a questa schermaglia Bruxelles è da sempre abituata: in fondo, i rapporti con Londra sono sempre stati una soft-Brexit. «Separarsi – ha detto il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk – è difficile. Ma separarsi e costruire una nuova relazione è molto più difficile». Tanto che Oltremanica più di qualcuno vorrebbe tornare indietro. Non sarebbe facile neanche questo. Ma stiamo all’oggi e al domani previsto e prevedibile: qui si misureranno maturità e lungimiranza di tutti. Pag 3 Nella cura il vero criterio è la giusta proporzione di Roberto Colombo Ancora sull’intervento del Papa e il dibattito sul fine vita Il recente intervento di papa Francesco sulla cura dei malati che versano in condizioni cliniche definite di 'fine vita' ha avuto ampia recezione e riacceso un dibattito inconcluso medicalmente, eticamente e politicamente, suscitando anche interpretazioni o speculazioni divergenti. È inequivocabile, dalle espressioni usate, dal contesto in cui sono inserite e dai documenti magisteriali citati, che il Santo Padre intende escludere in modo categorico sia l’accanimento terapeutico sia l’eutanasia. Questa lettura è stata offerta in un’intervista dal destinatario stesso del messaggio, il presidente della Pontificia Accademia per la Vita, e da autorevoli commentatori cattolici e laici. La possibilità logica, clinica ed etica di tenere coerentemente insieme le due negazioni, quella dell’accanimento terapeutico e quella dell’eutanasia omissiva (in cui la morte è provocata anzitempo dalla deliberata mancanza di una azione che si sarebbe potuto compiere o non interrompere), trova il suo centro di gravità nel concetto di 'proporzionalità delle cure' cui è sottoposto il paziente, come esplicitamente richiamato da papa Francesco. Il punto critico (e decisivo per rendere piena ragione del duplice e inseparabile rifiuto dell’accanimento terapeutico e dell’eutanasia) è costituito dal modo di intendere – e, conseguentemente, di applicare nella deliberazione etico-clinica – questa 'proporzione'. Proporzione dice rapporto, relazione ponderata, confronto, corrispondenza, armonia. E suppone due dimensioni da paragonare. Nel caso in questione (un malato sottoposto a un trattamento), quali sono i due termini da considerare per verificare se esista proporzione o sproporzione? Il primo è fuori discussione: il trattamento in oggetto, per il quale si deve decidere se intraprenderlo o non iniziarlo, se continuarlo o sospenderlo. Quanto al secondo termine, si aprono due percorsi. Uno di essi assume come elemento di paragone l’effetto inteso e atteso del trattamento rispetto alla condizione clinica del paziente, ossia quali siano le specifiche risposte fisiopatologiche al trattamento stesso: positive (miglioramento o stabilizzazione), nulle (invarianza o variazioni non significative) oppure negative (peggioramento o destabilizzazione). Così, nel singolo paziente, in qualunque condizione clinica si trovi, si valuterà caso per caso (a partire dal suo stato fisiopatologico) la proporzione o sproporzione di ogni trattamento (diagnostico, terapeutico, analgesico, riabilitativo, ventilatorio, nutrizionale o idratativo) rispetto all’effetto per il quale il trattamento stesso è clinicamente indicato. Per esempio, la ventilazione meccanica ha la sua ragione d’essere applicata quando, assicurando un adeguato volume di gas ai polmoni, favorisce attraverso la perfusione ematica l’ossigenazione dei tessuti, il metabolismo aerobico, l’equilibrio acidobase e la funzionalità degli organi. Se la fisiologia di un paziente è a tal punto compromessa da non beneficiare più della ventilazione, questa diventa 'futile' (secondo il concetto clinico di futility) e può arrecare danno anziché o più che beneficio. La ventilazione andrà sospesa o non iniziata in qualunque paziente per il quale essa risulta un trattamento sproporzionato in tale preciso senso: sia esso un bambino, un giovane o un anziano, affetto da qualsiasi malattia in ogni sua fase. Nessun criterio estrinseco (rispetto a quello fisiopatologico clinico, ultimamente volto alla tutela della vita e ad evitare gravose sofferenze al malato) entra in gioco nella valutazione della proporzionalità o meno del trattamento. Si realizza così un trattamento

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giusto per tutti (che non è identico in tutti, perché ognuno risponde a esso in modo individuale, a seconda delle proprie condizioni cliniche) e non si attuano discriminazioni, quanto alle cure, tra persone o categorie di soggetti diverse (per esempio, tra pazienti con lesioni non di tipo cerebrale e quelli in stati privi di coscienza o con coscienza minima). In questa precisa accezione di mancata proporzionalità, la sospensione di un trattamento non configura un atto di eutanasia omissiva. È quanto afferma la Congregazione per la dottrina della fede nella risposta del 2007 al quesito sulla somministrazione di alimenti e di fluidi ai pazienti in stato vegetativo: è un atto moralmente dovuto, ma solo «nella misura in cui, e fino a quando, dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente». Precisando, nella nota di commento, che occorre infatti considerare il caso in cui, «per complicazioni sopraggiunte, il paziente possa non riuscire ad assimilare il cibo e i liquidi, diventando così del tutto inutile la loro somministrazione. Infine, non si scarta assolutamente la possibilità che in qualche raro caso l’alimentazione e l’idratazione artificiali possano comportare per il paziente un’eccessiva gravosità o un rilevante disagio fisico legato, per esempio, a complicanze nell’uso di ausili strumentali» utilizzati per somministrare i nutrienti, l’acqua e gli elettroliti. Nessun trattamento è dovuto sempre, per sempre e in tutti i soggetti in qualunque condizione clinica si trovino. In questa considerazione, non può avere valore vincolante per il medico una richiesta del paziente, scritta anticipatamente rispetto al manifestarsi del reale quadro clinico, circa l’applicazione o sospensione di determinati trattamenti. Diverso è l’altro modo di assumere il secondo termine della proporzione dei trattamenti. Esso viene ravvisato non nella ratio del trattamento stesso, ma in una 'misura', un 'indicatore' o un 'parametro' che qualifica il paziente secondo criteri derivati dalla presunta 'qualità' o 'quantità residuale' della sua vita, oppure da una interpretazione della sua volontà esplicita o supposta di non voler continuare la propria esistenza terrena. Così facendo, il giudizio di mancata proporzionalità del trattamento assume come termine di paragone non la realtà obiettiva della condizione clinica che il medico accerta e comunica, ricercando nel dialogo con il paziente (o chi lo rappresenta) una decisione condivisa per la cura della sua vita fino al tramonto (secondo la evangelica 'prossimità responsabile' richiamata da papa Francesco; cfr. Lc 10, 25-37), ma bensì un 'pregiudizio' sul valore della vita di un malato in funzione della situazione in cui si trova o del significato attribuito alle parole da lui espresse in altre circostanze. L’estrinsecismo di questa interpretazione del criterio di proporzionalità dei trattamenti non consente di raccogliere integralmente il forte appello del Santo Padre ad escludere sia l’accanimento terapeutico sia l’eutanasia (anche nella forma omissiva) e alimenta quella 'cultura dello scarto' più volte denunciata da papa Francesco anche in riferimento al bene personale e comune della vita umana, da tutelare e promuovere sempre, e non solo quando appare individualmente o socialmente 'attraente' o 'utile'. IL GAZZETTINO di sabato 9 dicembre 2017 Pag 1 Cosa insegna alla sinistra il confronto Italia – Germania di Luca Ricolfi Pensavo che, alla fine, il tentativo di Piero Fassino di unire il centrosinistra sarebbe andato in porto. E invece si è complicato. Prima l'annuncio che Pietro Grasso avrebbe guidato una lista di sinistra purosangue, denominata Liberi e uguali, con dentro Mdp (Bersani-D'Alema-Speranza), Sinistra Italiana (Fratoianni), Possibile (Civati). Poi la notizia della rinuncia di Pisapia, che avrebbe dovuto guidare una lista di sinistra meticcia, su cui far confluire un segmento elettorale molto importante: quello di quanti non amano Renzi ma non vogliono disperdere il voto. Questo doppio fallimento consegna al Pd e al suo leader un problema molto serio: come evitare che, con un Pd sempre più indistinguibile dalla figura di Renzi, l'elettorato di sinistra-sinistra si diriga verso i due unici sbocchi possibili, ovvero Liberi e uguali, il neo-nato partito di Pietro Grasso, e il Movimento Cinque Stelle, che non pochi elettori percepiscono come una formazione di sinistra anomala, ma pur sempre di sinistra. Una percezione, bisogna dire, che le ultime esternazioni di Di Maio rendono tutto sommato plausibile: tassare i ricchi, reintrodurre l'articolo 18, sussidiare i poveri, sono tutte misure che piacciono a una parte non trascurabile dell'elettorato progressista. Non ci fosse quella fastidiosa (e politicamente scorrettissima) critica delle politiche di accoglienza, non ci fosse quell'attenzione ai

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piccoli imprenditori e al lavoro autonomo, non ci fosse quella un po' aberrante forma di democrazia del web il partitone di sinistra-sinistra, sognato da milioni di nostalgici del tempo che fu, ci sarebbe già, perché ci ha pensato Grillo a fondarlo, giusto dieci anni fa. Ma che cosa sposta, la nascita di Liberi e uguali, avvenuta quasi in simultanea con l'estinzione di Campo progressista, il movimento di Giuliano Pisapia? La mia impressione è che l'effetto in termini di seggi complessivi per il centrosinistra potrebbe essere modesto. L'esistenza di una lista di sinistra purosangue, che corre separata dal Pd, tende infatti a produrre due conseguenze di segno opposto: fa perdere seggi nella parte maggioritaria, ma ne fa guadagnare in quella proporzionale. Le simulazioni suggeriscono che diversi candidati Pd potrebbero non farcela a causa della concorrenza fratricida di Liberi e uguali, ma alcuni sondaggi suggeriscono anche che una parte dell'elettorato di sinistra potrebbe scegliere Liberi e uguali anziché il Movimento Cinque Stelle. Quale possa essere il saldo fra questi due movimenti nessuno lo sa, ma il paradosso è che un successo elettorale a due cifre della lista di Grasso dissanguerebbe non solo il Pd ma anche, o forse ancora più, il Movimento Cinque Stelle. Un meccanismo che è già visibile nei sondaggi delle ultime settimane, la maggior parte dei quali vedono i Cinque Stelle in costante discesa. Ben più importante dell'impatto in termini di seggi, invece, potrebbe rivelarsi l'impatto della nuova lista sugli equilibri parlamentari complessivi, ossia, in definitiva, sul funzionamento del nostro sistema politico. Un successo a due cifre (intorno al 10%) di una lista di sinistra-sinistra, accompagnato da una prestazione mediocre del Pd (fra il 25 e il 30%), renderebbe improvvisamente lo stato della nostra sinistra alquanto simile a quello della sinistra in Germania negli ultimi 12 anni. Lì le forze riformiste, ovvero la somma di socialdemocratici (Spd) e Verdi, devono accontentarsi del 30% circa dei consensi, perché il 10% è congelato in una lista di estrema sinistra (la Linke), nata dalla fusione fra gli ex comunisti dell'Est e gli scissionisti duri e puri della Spd, guidati da Oskar Lafontaine. È forse istruttivo ricordare come quella lista nacque. Oskar Lafontaine negli anni '90 era stato il presidente della Spd, e aveva contribuito a portare al governo Gerhard Schröder, l'ultimo cancelliere socialdemocratico della storia tedesca prima del lungo regno di Angela Merkel. Ma quel cancelliere, nei primi anni 2000, avrebbe impresso alla politica tedesca una spinta riformista tanto decisiva per la salvezza dell'economia tedesca (allora la Germania era considerata il malato d'Europa), quanto indigeribile per la sinistra Spd, ostile alle riforme del mercato del lavoro (le famose riforme Hartz), attuate dal secondo governo Schröder fra il 2003 e il 2005. È contro questa svolta riformista radicale (e, aggiungo io, assai coraggiosa) che nasce, in Germania, una sinistra fondamentalista e anti-governativa, che riunisce gli ex comunisti dell'Est e gli scissionisti socialdemocratici. Da allora la Germania è salva (è l'unico Stato dell'euro che ha retto bene alla lunga crisi di questi anni), ma i benefici della svolta riformista sono stati in massima parte incassati dall'opposizione, ossia dal partito popolare (Cdu/Csu) di Angela Merkel, che regna incontrastata da 12 anni, ora con l'appoggio dei socialdemocratici (1° e 3° governo Merkel), ora con quello dei liberali (2° governo Merkel). Ai socialdemocratici, da allora, non è mai più stato possibile guidare un governo, e anche ora, dopo le elezioni del 2017 in cui hanno toccato il fondo (20,5% dei voti), il massimo in cui possono sperare è di partecipare al 4° governo della signora Merkel. Non c'è bisogno di sottolineare le analogie con la situazione italiana, dove la nascita di una lista di sinistra-sinistra si deve in gran parte al rifiuto delle riforme del mercato del lavoro, peraltro assai più blande di quelle tedesche, attuate da governi di sinistra riformista, e specialmente dal governo Renzi con il Jobs Act; e dove è perfettamente possibile che la presenza stabile di una lista di sinistra purosangue, che sequestra il 10% dell'elettorato, sbarri per lungo tempo alla sinistra riformista l'accesso al governo. Quel che è più interessante, semmai, sono le differenze con la situazione tedesca. La prima differenza è che, in Germania, le forze genuinamente populiste, rappresentate soprattutto da Alternative für Deutschland di Alice Weidel, raccolgono meno del 15% dell'elettorato, mentre in Italia, in base agli ultimi sondaggi, i tre partiti populisiti (Cinque Stelle, Lega, Fratelli d'Italia) sfiorano il 50%. La seconda differenza è che, in Germania, il baricentro delle forze riformiste è decisamente spostato a destra, dove i popolari della Merkel e i liberali attraggono il 45% dei consensi, contro il 30% circa di socialdemocratici e verdi, mentre in Italia il baricentro delle forze riformiste è a sinistra, dove il Pd attira il 25-30% dei consensi, e Forza Italia poco più del 15%. Questo significa che un ipotetico governo di Grosse-Koalition (ma, dati i numeri, sarebbe meglio

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cominciare a chiamarlo di Kleine Koalition, di piccola coalizione) in Italia sarebbe un governo di sinistra allargato alla destra, mentre in Germania se riusciranno a vararlo sarà un governo di destra allargato alla sinistra. La differenza più importante, tuttavia, a me pare ancora un'altra: quando la Merkel ebbe ad insediarsi al potere (2005), il duro lavoro delle riforme più impopolari era già stato in gran parte compiuto dal suo predecessore socialdemocratico, il cancelliere Schröder. In Italia, invece, chiunque governi dopo Renzi erediterà un Paese in cui qualcosa si è cominciato a fare, ma il più deve essere ancora fatto. Il debito pubblico è ancora lì; le tasse sono scese, ma di pochi decimali; il Pil è ripartito, ma ancora troppo lentamente; burocrazia e giustizia civile continuano ad essere un freno alla crescita. Insomma, in Italia il cantiere delle riforme è appena stato aperto, e ci vorranno parecchi anni per raccogliere i frutti del lavoro che si è iniziato a fare. Quindi, in fondo, la questione è assai semplice. Salvo sorprese, la nascita di una Linke italiana renderà più difficile sia la formazione di un governo Cinque Stelle, sia la formazione di un governo di sinistra, guidato dal Pd. Questo significa che, se escludiamo l'ipotesi di un governo di unità popolare, guidato dalla troika Di Maio-Renzi-Grasso, le alternative realistiche in campo restano solo due: una vittoria del centrodestra, o la formazione di un governo di Kleine Koalition Pd-Forza Italia. Ma in entrambi i casi la mission sarebbe la stessa: portare a termine un lavoro che, con le riforme di questi anni, è soltanto iniziato. LA NUOVA di sabato 9 dicembre 2017 Pag 1 Renzi cerca consensi senza alleati di Bruno Manfellotto Meglio soli che male accompagnati, sembra teorizzare Matteo Renzi senza dirlo apertamente, ma certamente pensandolo. Con Giuliano Pisapia è finita come sapete, con il campo (progressista) attraversato da truppe in rotta, diaspore, ricerca disperata di una terra d'approdo. Forse un giorno sapremo com'è andata, insomma se è stato Pisapia a fare mille difficoltà (questa della rinuncia da parte del Pd all'approvazione della legge sullo ius soli è chiaramente solo una facile scusa); se è stato Renzi che proprio non ne voleva sapere; o semplicemente «la colla non ha funzionato», come ha commentato Romano Prodi con bonaria saggezza, come a dire che se non c'è amore o chimica la coppia scoppia, o nemmeno nasce. Nonostante la tenacia di Piero Fassino. Con Mdp è andata come è andata, compreso lo smacco di vedere Pietro Grasso mollare il partito che lo aveva portato alla presidenza del Senato per diventare il "front man" del nuovo movimento che si presenta agli elettori come il massimo competitor del Pd. Anzi, proprio la comune e condivisa idiosincrasia per Renzi ha generato il miracolo di una piccola unità, quella di mettere insieme brandelli e leaderini di sinistra altrimenti in lotta tra loro: Pippo Civati, Roberto Speranza, Nicola Fratoianni. Di Prodi e Veltroni, infine, qui si registrano generosità e disponibilità, e chissà se ce la faranno ad abbandonare il ruolo di riserve della Repubblica cui sembrano destinati. Alla fine, insomma, Renzi deve fare a meno della sua ala sinistra, sia di quella degli scissionisti, sia di quella chiamata a raccolta dall'ex sindaco di Milano. E forse, si diceva, è contento così. Non è un'affermazione azzardata. In fondo, tutta la sua storia di leader politico sembra andare in direzione ostinata e contraria a quella di una vasta alleanza a sinistra, e qui non gioca solo l'evidente difficoltà di scendere a patti con i Bersani e i D'Alema che gli hanno dichiarato guerra un anno fa. No, è il punto d'arrivo di una strategia generale nella quale il segretario del Pd continua a credere. Ricordate? Renzi esordì dichiarando, sulla scia di Tony Blair ma anche di un Massimo D'Alema d'antan molto diverso dall'attuale, che, per vincere, la sinistra ha bisogno di conquistare consensi al centro dello schieramento politico. Con tale obiettivo è stata impostata una parte consistente dell'attività di governo, ma adesso a questo si ispira anche la rinnovata alleanza con i cattolici di Pier Ferdinando Casini (presidente accorto della scivolosa Commissione parlamentare d'inchiesta sulle banche) e Beatrice Lorenzin, e (si spera) con il cartello laico-europeista che Emma Bonino sta cercando di costruire. Non c'è più Pisapia, appunto, ma nelle liste compariranno certamente suoi seguaci: testimoni, però, non co-protagonisti. E poi c'è la visione stessa della politica incarnata dal segretario del Pd. Che potremmo chiamare della scelta drastica, del sì o no alla sua visione, del referendum continuo. Sì, è un vero paradosso: nonostante sia uscito sconfitto dall'appuntamento del 4 dicembre sul quale aveva puntato tutto, Matteo Renzi continua a sperare che il suo popolo, quello che lo

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aveva accolto tre anni fa regalandogli il trionfo alle elezioni europee, e un anno fa ha votato sì, comprenda l'importanza della posta in gioco, torni alle urne, e scelga proprio lui. Sembra dire: se devo vincere, voglio farlo da solo; se devo perdere, ne prenderò atto, ma misurando la forza reale di ogni giocatore in campo. Per ricominciare. È questa la conseguenza diretta del primo, forte messaggio lanciato da Renzi: la rottamazione. Che in parole povere, fuori dagli slogan, voleva e vuole dire basta con la nostalgia del grande partito organizzato e diffuso sul territorio, con le fatiganti discussioni di segreteria, con le correnti mascherate e, soprattutto, con gli ex campioni post comunisti. E allora perché pensare ad alleanze proprio con chi incarna, ai suoi occhi, tutto ciò che vuole cancellare? Perché cedere proprio adesso? Dunque si marcia così, e può finalmente cominciare la vera campagna elettorale. Soli. Ma vincenti? CORRIERE DELLA SERA di venerdì 8 dicembre 2017 Pag 1 L’esperienza che serve in politica di Francesco Verderami La fuga dal Palazzo Nelle professioni e nei mestieri l’esperienza, insieme all’innovazione, è considerata una risorsa da custodire e valorizzare per vincere le sfide del mercato. In politica invece è passata da anni l’idea che il cambio sistematico delle schiere parlamentari sia l’antidoto al professionismo di Palazzo, lo strumento più valido per rigenerare il sistema. È un falso mito con cui si tendono a coprire vuoti progettuali e a perpetuare leadership in crisi. Ma è un meccanismo che, applicato in modo radicale, finisce per danneggiare i cittadini. A furia di rinnovare, infatti, si rischia di non avere personale adeguato a svolgere i compiti istituzionali. Già la legislatura che sta per finire ha rappresentato una novità storica, visto che - per ragioni diverse - i leader delle maggiori forze non sedevano tra gli scranni di Camera e Senato. In più si assiste ora a una fuga dal Parlamento. A prescindere dal giudizio soggettivo, è innegabile che persone come Alfano, Di Battista e Pisapia avrebbero potuto dare un maggior contributo rispetto a un neoeletto che avrà bisogno di tempo per formarsi. Ma i partiti non sembrano curarsi di questo problema: applicano lo spoil-system come un maquillage per tentare di conquistare consensi, e lo gestiscono arbitrariamente, sfruttando i modelli elettorali, senza lasciare l’ultima parola alle urne. L’inesperienza però non paga, specie ora che le scelte nazionali influenzano e sono influenzate dalle scelte sovranazionali. Ed era inevitabile che l’assenza di apprendistato in Parlamento si riverberasse nel tempo sulla qualità dei governi. Non sono mancati casi di ministri in balia della burocrazia italiana e della tecnocrazia europea, rette - quelle sì - da strutture longeve ed esperte, capaci di muoversi nel labirinto delle regole e di influenzare se non addirittura orientare le decisioni sui dossier. Di qui le periodiche polemiche sull’«assenza della politica» nella formulazione delle leggi e delle direttive comunitarie. Ma il danno è (anche) conseguenza di quel raggiro culturale, perché la mancanza di peso e di autorevolezza a un tavolo di trattative sconta (anche) la mancanza della conoscenza. Fin dal sorgere della Seconda Repubblica l’opzione nuovista è stata la risposta alle incrostazioni di potere del vecchio sistema e alle sue degenerazioni. Purtroppo si è finito per gettare il bambino insieme all’acqua sporca: non solo il problema si è riproposto, ma in molti casi i partiti hanno spacciato come ricambio generazionale il meccanismo della cooptazione. Così il rinnovamento dei gruppi dirigenti - che è fondamentale in politica - si è inceppato. È vero, ci sono delle eccezioni, che non a caso rimandano agli unici partiti i cui vertici sono rimasti «scalabili»: il Pd e la Lega. Ma la legge elettorale appena varata, e che porta di fatto dei «nominati» in Parlamento, alimenta il sospetto che i rispettivi leader abbiano voluto riprodurre un modello di controllo simile a quello di Forza Italia e del Movimento 5 Stelle. La politica italiana appare così un mondo alla rovescia. Evoca la trasfusione della «società civile» nelle liste per garantirsi un’altra legislatura di immortalità. Propone agli elettori il cambiamento per scongiurare il rinnovamento. E intanto a ogni tornata elettorale si abbassa il rating dei rappresentanti, che magari avrebbero delle potenzialità se gli venisse concesso del tempo, se il loro tempo non fosse contingentato, se in un breve volgere anche loro non diventassero il vecchio da sostituire, sacrificati sull’altare di una falsa credenza. Nelle altre democrazie occidentali l’apprendistato nelle istituzioni è considerato invece un investimento sul futuro dei partiti e quindi anche del Paese, garantisce la crescita di nuove generazioni che vengono addestrate all’esercizio della responsabilità. Non

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esistono «sinedri», non ci sono «ras» e non si bada nemmeno alla data di nascita, che è un altro falso mito: i leader perdenti si dimettono e le forze sconfitte si attrezzano alla successiva sfida con un rinnovato gruppo dirigente e un altro programma. Cambiano i vertici non le basi parlamentari, il cui destino è affidato al giudizio dei cittadini. È la selezione elettorale, la via darwiniana alla politica che consente alla lunga di avere politici esperti, non parlamentari usa e getta. IL GAZZETTINO di venerdì 8 dicembre 2017 Pag 1 L’isolamento di Renzi non va sopravvalutato di Bruno Vespa Quando gli ho mostrato il suo primo intervento a Porta a porta nel 2002, Angelino Alfano si è commosso. Era un deputato di prima nomina incaricato per la stima di Berlusconi come relatore della legge finanziaria. In quindici anni ha realizzato il sogno di ogni politico: segretario del suo partito e ministro di Giustizia, Interno ed Esteri, cosa mai accaduta prima nella storia d'Italia. La sua scelta di lasciare il parlamento è frutto di una maturazione personale: anche in famiglia quattro anni di bombardamento come traditore' e poltronista' ha lasciato qualche segno. Ma è frutto anche della difficoltà di condurre unito il suo partito all'approdo renziano. Alternativa Popolare è spaccata: Beatrice Lorenzin è già con Renzi, Maurizio Lupi è con un piede nel centrodestra, a meno che il Pd non trasformi la sua in una lista del governo' guidata da Paolo Gentiloni. E se Lupi andasse a destra portandosi dietro quelli che sentono il profumo della rinascita di Berlusconi e hanno un elettorato che mai ha votato a sinistra, farebbe una differenza (anche psicologica) non da poco. Non ci meraviglia, al contrario, il gesto di Giuliano Pisapia. Dall'avvocato Pisapia ci faremmo difendere in ogni momento: è preparato e garantista. Ma il politico Pisapia è troppo indeciso, ondeggiante, poco risoluto per acquisire la leadership di qualcosa. Così Matteo Renzi si trova senza un pezzo importante dell'ala destra dello schieramento e senza il simbolo dell'ala sinistra, che in termini di voti non gli avrebbe portato molto, ma era (o almeno sembrava) decisivo per l'immagine della coalizione. Renzi contava di prendere un cinque per cento dalla somma dei partiti minori. Ne prenderà circa la metà, ma l'isolamento di cui si parla in queste ore non va sopravalutato per almeno due ragioni. La prima: l'uomo è tosto, ha cominciato la sua campagna elettorale per tempo con il treno e ha dalla sua un governo rispettabile e rispettato. La seconda: come ha detto Bersani a Porta a porta, è probabile che Liberi e uguali non succhi voti al Pd, ma a chi già non lo votava più. Paradossalmente è da mettere nel conto che la nuova Cosa rossa guidata da Pietro Grasso possa infastidire più il Movimento 5 Stelle che il partito di Renzi, anche se tecnicamente la presenza di una nuova forza significativa di sinistra in ogni collegio può avvantaggiare il Cavaliere. Mentre il centrodestra può sperare nella difficilissima conquista di una maggioranza assoluta, il Pd deve battersi (e non sarà affatto facile) per conquistare la prima posizione come partito. Non basta certo per governare, ma serve a dimostrare che il partito è più che vivo. Essenziale in questo momento. LA NUOVA di venerdì 8 dicembre 2017 Pag 1 La pulsione destrorsa di Salvini di Mariano Maugeri C'è qualcosa che sfugge nella campagna acquisiti di Matteo Salvini. Se la politica, come diceva il commercialista craxiano Rino Formica, è sangue e m..., le elezioni di marzo potrebbero rappresentare una delle tappe terminali della via crucis raccontata così lucidamente da Enrico Berlinguer nella celeberrima intervista rilasciata a Eugenio Scalfari il 28 luglio 1981. "I partiti non fanno più politica" disse uno sconsolato segretario del Pci. E profetizzò: "I partiti hanno degenerato, e questa è l'origine dei malanni d'Italia". Da quell'intervista sono trascorsi 36 travagliatissimi anni. Inutile soffermarsi sullo stato di salute della democrazia e dei partiti (uno è la conseguenza dell'altro), argomento che meriterebbe una lunga analisi a sé. Utile invece scandagliare le scelte dei giovani leoni alla guida di quel che è sopravvissuto del sistema dei partiti, perché dalla dinamica dei sommovimenti si possono ricavare indicazioni preziose sulle sorti che attendono questo disgraziato Paese. Non giriamoci attorno: le elezioni di marzo saranno uno spettacolo per nulla edificante. Una competizione sfrenata con i soliti defatiganti corpo a corpo. La sinistra è frantumata, ma a destra il guanto di sfida lanciato da Salvini ("il leader che

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avrà un voto in più sarà premier") aizzerà una guerra senza quartiere all'ultimo consenso. L'esordio ha avuto come teatro le regionali siciliane. Salvini ha festeggiato il suo primo deputato regionale, Toni Rizzotto, detentore di un pacchetto di 4mila voti, un politico di lungo corso che nella sua vita ha militato in molte formazioni politiche: dalla vecchia Dc a Forza Italia passando per il movimento per l'autonomia di Raffaele Lombardo. Un curriculum che si spiega da sé. Ma Salvini ha voluto preparare lo sbarco in Sicilia con cura, individuando già nel 2014 il plenipotenziario della campagna isolana. Dopo tanto meditare, la scelta è caduta su Angelo Attaguile, classe '47, un democristiano navigato poi folgorato come Rizzotto dall'Mpa, e figlio di un ex senatore e ministro Dc. Una dinastia di politici e notabili, come in Sicilia ce ne sono tante. Rizzotto e Attaguile saranno anche persone più che affidabili per i meccanismi che regolano il funzionamento dei partiti, ma possono essere le punte di attacco di un partito/movimento che inneggia a cambiamenti radicali? Con i vecchi leoni della Dc si rifà solo la bruttissima copia della Dc. Un'ovvietà che il leader leghista finge di non voler capire. Errare è umano, ma il bis Salvini lo ha fatto all'inizio di dicembre, quando a Montecitorio l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno e l'ex governatore del Lazio Francesco Storace hanno presentato la loro nuova creatura politica, il Polo sovranista, con tanto di endorsement per Salvini premier. Con Storace e Alemanno - quest'ultimo sotto processo a Roma per corruzione e finanziamento illecito - c'era pure Roberto Menia, vicesegretario del nuovo partito e una volta plenipotenziario giuliano di Gianfranco Fini. Chiaro il senso politico dell'operazione: Salvini vuole sottrarre voti alla Meloni (c'è un'inimicizia inestirpabile tra la leader di Fdl e gli ex camerati di Alleanza nazionale) e si accredita in quell'arcipelago della destra che va da Casapound agli ex colonnelli attempati di Fini. Pessimo il segnale che si lancia al movimento. Si tratta di alleanze con personaggi usurati e ormai alla fine della loro parabola politica, nate nelle segrete stanze di Montecitorio e dintorni. E la nuova classe dirigente leghista? E lo scouting sul territorio, che una volta era l'indiscutibile punto di forza della Lega? Per uno come Salvini che da militante leghista era a capo del gruppo "comunisti padani" è un triplo salto mortale. Chissà che ne penseranno i leghisti progressisti. O i partigiani del federalismo che aborrono la retorica sulla Patria così cara agli ex fascisti. La mutagenesi salviniana è senza limiti e confini. Vincere e vinceremo, questo è l'unico verbo che conta, in una pulsione, l'ennesima, di chiaro stampo destrorso. Pag 2 E’ fascismo risorgente, non semplice folklore di Vittorio Emiliani Da troppo tempo si rincorrono per l'Italia e per l'Europa i segnali gravi e inquietanti di un nuovo fascismo, razzista, antisemita, violento. Ma tali segnali vengono relegati negli album del folklore mussoliniano e quindi lasciati senza risposta. Il fascismo, va sempre ricordato, precorse il nazismo. Mussolini fu di esempio a Hitler. Tuttavia, prima la legge Scelba, poi la legge Mancino contro i rigurgiti di un nuovo fascismo sono rimaste largamente inapplicate, anche quando la palese, fanatica esaltazione del ventennio mussoliniano esigeva interventi immediati. Tanto più che la scuola, anche quella superiore, non forniva ai più giovani gli strumenti culturali per capire quanto di reazionario recasse in corpo il fascismo anche quando si riverniciava all'esterno coi colori di una politica sociale. A lungo le stesse forze di polizia sono state largamente tolleranti nei confronti di una violenza "nera" diffusa che poi è tralignata in terrorismo e in stragismo ancor più "nero". Quando sono venuto a Roma, a metà degli anni '70, in Prati o a Balduina era rischioso girare con giornali come l'Unità, il Manifesto o l'Avanti!, si poteva venire insultati o addirittura malmenati. Si sapeva benissimo che i raid violenti partivano dalla sezione missina di viale Medaglie d'oro e tuttavia ci volle l'assassinio di un ventenne di sinistra, Walter Rossi, nei pressi per ottenerne la chiusura. Sempre a Roma il terrorismo "nero" fu non meno spietato di quello delle Br. Quando un povero tipografo del mio giornale, il Messaggero, venne assassinato dai Nar perché scambiato per un cronista, antifascista impegnato (come il giornale di allora), nessun alto dirigente del Msi sentì il bisogno di telefonare o di telegrafare per condolersi. Lo fece soltanto il direttore del Secolo d'Italia, Franz Maria D'Asaro. E anche ora, quanti contorcimenti, in televisione, di Giorgia Meloni o di Ignazio La Russa, per dissociarsi dai violenti di CasaPound, quanta sordina dei giornali di destra, per lo più berlusconiani, per minimizzare i raid squadristici, le manifestazioni di aperta nostalgia del fascismo, le

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irruzioni nei consigli comunali o nelle sedi di pacifiche associazioni, a intimidire, tacitare, imbavagliare. E il fenomeno non è più solo romano e non si limita a un pur pericoloso folklore. Il web, la rete dei siti neofascisti (tanti) esalta al massimo una inaccettabile violenza contro le persone additate quali bersagli da colpire, oggi con le parole più estreme, domani chissà: tocca al deputato milanese del Pd, di famiglia israelita, Emanuele Fiano, presentatore di una nuova legge contro il fascismo, tocca alla presidente della Camera, Laura Boldrini. Almeno chi va ad intimidire la redazione di Repubblica e de L'Espresso, paradossalmente, rischia di venire individuato e scoperto, mentre chi quotidianamente istiga alla violenza fisica dietro l'anonimato del web è ancor più vigliacco e pericoloso. Senza contare le mille falsità storiche spacciate su siti come ilduce.net dove si racconta quale verità conclamata che Mussolini difese gli ebrei jugoslavi (chissà perché non quelli italiani rastrellati per essere mandati a Fossoli e poi in Germania) o protesse gli omosessuali. Balle gigantesche. L'altro bersaglio di questo fascismo risorgente (pericolosamente, insisto, risorgente) sono gli immigrati, soprattutto gli africani che la propaganda mussoliniana indicava come il pericolo incombente e che, secondo l'odierno "manifesto" di Giorgia Meloni, autoproclamatasi leader del centrodestra, mettono in pericolo la nostra "identità italiana" e quindi nazionale. A essa - ma Meloni lo sa bene - andrebbe ricordato, senza fare ricorso a discorsi ideali di fratellanza universale, che in un Paese in piena denatalità e quindi rapidamente invecchiato come il nostro, fra i più "vecchi" del pianeta, quegli immigrati sono più che mai essenziali: letteralmente per tenere in piedi la baracca dell'economia. Pag 10 Una logica delirante oltre la solitudine di Corrado De Rosa All'inizio vuole fare come Abby e Martha Brewster, le anziane affittacamere della commedia di Frank Capra, che, in Arsenico e vecchi merletti, "aiutano" gli inquilini a lasciare la vita con il sorriso sulle labbra. Solo che per acquistare l'Arsenico è necessario lasciare traccia della transazione e dichiarare a cosa servirà. Di certo non può dire: "A sterminare una famiglia, la mia". Allora Mattia Del Zotto ripiega sul Tallio, il metallo grigio che nel tempo ha fatto vittime di carta, per esempio in Un cavallo per la strega di Agatha Christie, e in carne e ossa. Un piano con note grottesche, come quella raccomandazione rivolta al venditore e lasciata in bozze nel pc: "Mi raccomando, non mi fate pagare due volte l'Iva", ma un piano dettagliato, preciso. Non sono la lucidità e la capacità di finalizzazione che alzano o abbassano il gradiente di follia in un comportamento come questo. Non è la maggiore o minore capacità di mimetizzarsi a dirci se le azioni di Mattia Del Zotto siano frutto di malattia mentale oppure no, e poco si può dire a caldo e senza conoscere in dettaglio le pieghe del suo percorso di vita. Però nella vicenda personale del ventisettenne di Nova Milanese c'è qualcosa che ci fa pensare a una logica delirante, a un'idea malata che annulla l'umanità delle vittime trattate come oggetti guasti. La corda pazza di tutta questa storia è un intreccio di fili in cui scorrono tracce di misticismo, di rapporti umani impoveriti, di un isolamento sempre più malato e di una religiosità che ha lasciato la strada della fede per catapultarsi nel vaneggiamento. Mattia Del Zotto è legato a un gruppo religioso ma sono anni che non entra in una chiesa. Usa "gloriosoDIO" come password del computer e se in televisione vede papa Francesco rivolgere un sorriso a chi balla il tango, s'indigna ed esprime giudizi durissimi nei confronti del Pontefice. È ossessionato dal risparmio: i termosifoni sempre spenti, il consumo di elettricità ridotto al minimo. Introverso, chiuso, senza un lavoro, senza una relazione affettiva, senza amici. Non guida più la macchina, non tocca alcolici, elimina i dolci dalla dieta. Il suo è un ritorno mortifero all'essenziale. La sua finestra sul mondo è il monitor del computer attraverso cui seleziona gli interessi da coltivare, che sono quelli che nutrono e confermano una selva di pensieri resistenti a ogni critica. Difficile pensare che dietro le rinunce cui si era sottoposto ci fosse, o ci fosse solo, una difficoltà economica. Piuttosto, le certezze inconfutabili di Mattia Del Zotto sembrano impregnate di delirio: non sono elevazione dello spirito, hanno le sembianze della punizione e della purificazione. L'unica cosa che, infatti, risponde a chi gli chiede: "Perché lo hai fatto?", è proprio: "Per eliminare gli impuri". Lui dice che si è convertito all'ebraismo, chi gli sta vicino sostiene che sia legato a una setta. Su questa strana militanza, per ora si sa poco. Potrebbe trattarsi di un tentativo auto-assolutorio, probabilmente inconsapevole, di chi non è riuscito a vedere lo sfacelo della mente di una

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persona cara. Oppure della difficoltà di riconoscere le stimmate del disagio psichico che fa attribuire la deriva esistenziale a una causa esterna come il lavaggio del cervello. Si intuisce, comunque, che alcuni aspetti del modo di essere di Mattia Del Zotto sono complementari al lato oscuro delle organizzazioni settarie, alle loro tipiche caratteristiche psico-sociali che possono creare ingranaggi perfetti nel radicamento di convinzioni malate. Da un lato, la richiesta di coesione interna, la chiusura verso quello che è fuori da quel mondo, il dogmatismo, la rottura con la chiesa istituzionale e il fondamentalismo religioso. Dall'altro il bisogno di sentirsi parte di una comunità per superare il disagio della solitudine, la voglia di sconfiggere il dolore e il proprio senso d'inadeguatezza, la possibilità di intravedere uno scopo, una missione. In questo caso, di purezza delirante. Torna al sommario