Rassegna stampa 16 gennaio 2018 - patriarcatovenezia.it · identitario che cancella la qualità...

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RASSEGNA STAMPA di martedì 16 gennaio 2018 SOMMARIO “Ma che razza di uomo è - scrive Giuseppe Anzani sulla prima pagina di oggi di Avvenire - un uomo che parla di razza quando parla di uomini? Già nel mio dire 'razza' su lui e sulle sue parole (ma che razza di parole) nel senso di tipo, sento il brivido d’una parola sconcia e insanguinata dalla storia se riferita a una diversità biologica o antropologica fra esseri umani. Per gli alunni di anni lontani, c’erano carte geografiche della terra con i colori delle varie razze, bianca nera gialla rossa viola, prima che la Costituzione cacciasse quella parola dai confini dell’eguaglianza nei diritti umani. Appena più tardi l’Unesco affermava l’appartenenza di ogni essere umano all’unica specie (1950), e nel 1978 collegando la catastrofe della guerra mondiale anche «al dogma dell’ineguaglianza delle razze e degli uomini» condannava il razzismo come «contrario ai princìpi morali ed etici dell’umanità». Oggi non c’è più nessuno che sul piano scientifico accetti la teoria delle razze. Sul piano dell’analisi genetica non ha fondamento. Le differenze che caratterizzano popoli ed etnie sono costrutti socioculturali; e anziché ostacolare l’unità della specie umana sono esse stesse espressione di diritti umani («diritto alla differenza»). In realtà, la teoria delle razze è servita nella storia a separare, dominare, sterminare. Scorrono sullo sfondo in pochi attimi i secoli dello schiavismo codificato e accettato senza sussulti etici sopra la vita torturata di milioni di esseri «sub-umani»; i secoli del colonialismo sfruttatore dei «selvaggi» e massacratore dei popoli autoctoni; gli anni centrali dell’ultimo secolo di sangue, con la fornace della Shoah a tener pura la razza ariana. Un filo rosso lega tutte le tragedie, ed è il concetto di razza superiore e di razza inferiore, di confronto identitario che cancella la qualità umana di chi è reputato appunto sub-umano, selvaggio, impuro. Finché perdura questa concezione di valore e di dominio, che espelle gli inferiori o i barbari o i 'musi colorati' dalla cerchia della famiglia umana, non basterà aver bandito dai discorsi la parola razza, sostituendola con etnia. Perché l’inimicizia fra le etnie, che pure reciprocamente si includono nella famiglia umana, è identicamente capace di paura e di odio, a rischio di tragedia, come avvenuto nei decenni trascorsi. Io non penso nemmeno per un attimo che la gente lombarda abbia di questi pensieri. Anzi è la più accogliente d’Italia, ospitando 1,3 milioni di stranieri. Provenienti da un arcobaleno di decine di Paesi diversi. Lavorano, pagano le tasse, mandano i figli a scuola. Alle università di Lombardia sono iscritti quasi un quarto di tutti gli universitari stranieri in Italia. Apprendono la cultura 'nostra'. E poi non credo neppure che il candidato presidente lombardo Fontana abbia inteso di proposito di seminare odio o disprezzo. No. Paura sì, però, paura cavalcata elettoralmente con fantasmi di «estinzione dell’etnia». Ma qui, appunto, con l’identità minacciata si insinua la dottrina della purezza etnica e della contaminazione. E non si capisce che la soluzione non è il rifiuto, ma l’integrazione. Farli nostri è il loro divenire nostri. Noi e loro, e ci richiamiamo 'noi'. Lo slogan che «non possiamo prenderli tutti» non sbianca le parole sbagliate. Lo sappiamo tutti che 'tutti non possiamo prenderli' (e del resto, gran parte chiede di migrare altrove). Ma quelli che possiamo prendere prendiamoli con noi. Di una cosa siamo totalmente sicuri, che sono della nostra stessa razza. Umana” (a.p.) 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Vincere la paura Papa Francesco celebra la giornata mondiale del migrante e del rifugiato Accompagnatemi con la preghiera La richiesta del Pontefice durante l’Angelus alla vigilia del ventiduesimo viaggio internazionale

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RASSEGNA STAMPA di martedì 16 gennaio 2018

SOMMARIO

“Ma che razza di uomo è - scrive Giuseppe Anzani sulla prima pagina di oggi di Avvenire - un uomo che parla di razza quando parla di uomini? Già nel mio dire 'razza'

su lui e sulle sue parole (ma che razza di parole) nel senso di tipo, sento il brivido d’una parola sconcia e insanguinata dalla storia se riferita a una diversità biologica o

antropologica fra esseri umani. Per gli alunni di anni lontani, c’erano carte geografiche della terra con i colori delle varie razze, bianca nera gialla rossa viola, prima che la Costituzione cacciasse quella parola dai confini dell’eguaglianza nei diritti umani. Appena più tardi l’Unesco affermava l’appartenenza di ogni essere umano all’unica specie (1950), e nel 1978 collegando la catastrofe della guerra

mondiale anche «al dogma dell’ineguaglianza delle razze e degli uomini» condannava il razzismo come «contrario ai princìpi morali ed etici dell’umanità». Oggi non c’è più

nessuno che sul piano scientifico accetti la teoria delle razze. Sul piano dell’analisi genetica non ha fondamento. Le differenze che caratterizzano popoli ed etnie sono costrutti socioculturali; e anziché ostacolare l’unità della specie umana sono esse

stesse espressione di diritti umani («diritto alla differenza»). In realtà, la teoria delle razze è servita nella storia a separare, dominare, sterminare. Scorrono sullo sfondo in pochi attimi i secoli dello schiavismo codificato e accettato senza sussulti etici sopra la vita torturata di milioni di esseri «sub-umani»; i secoli del colonialismo sfruttatore dei «selvaggi» e massacratore dei popoli autoctoni; gli anni centrali dell’ultimo secolo di sangue, con la fornace della Shoah a tener pura la razza ariana. Un filo rosso lega

tutte le tragedie, ed è il concetto di razza superiore e di razza inferiore, di confronto identitario che cancella la qualità umana di chi è reputato appunto sub-umano,

selvaggio, impuro. Finché perdura questa concezione di valore e di dominio, che espelle gli inferiori o i barbari o i 'musi colorati' dalla cerchia della famiglia umana,

non basterà aver bandito dai discorsi la parola razza, sostituendola con etnia. Perché l’inimicizia fra le etnie, che pure reciprocamente si includono nella famiglia umana, è

identicamente capace di paura e di odio, a rischio di tragedia, come avvenuto nei decenni trascorsi. Io non penso nemmeno per un attimo che la gente lombarda abbia di questi pensieri. Anzi è la più accogliente d’Italia, ospitando 1,3 milioni di stranieri.

Provenienti da un arcobaleno di decine di Paesi diversi. Lavorano, pagano le tasse, mandano i figli a scuola. Alle università di Lombardia sono iscritti quasi un quarto di

tutti gli universitari stranieri in Italia. Apprendono la cultura 'nostra'. E poi non credo neppure che il candidato presidente lombardo Fontana abbia inteso di proposito di seminare odio o disprezzo. No. Paura sì, però, paura cavalcata elettoralmente con fantasmi di «estinzione dell’etnia». Ma qui, appunto, con l’identità minacciata si

insinua la dottrina della purezza etnica e della contaminazione. E non si capisce che la soluzione non è il rifiuto, ma l’integrazione. Farli nostri è il loro divenire nostri. Noi

e loro, e ci richiamiamo 'noi'. Lo slogan che «non possiamo prenderli tutti» non sbianca le parole sbagliate. Lo sappiamo tutti che 'tutti non possiamo prenderli' (e del

resto, gran parte chiede di migrare altrove). Ma quelli che possiamo prendere prendiamoli con noi. Di una cosa siamo totalmente sicuri, che sono della nostra stessa

razza. Umana” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Vincere la paura Papa Francesco celebra la giornata mondiale del migrante e del rifugiato Accompagnatemi con la preghiera La richiesta del Pontefice durante l’Angelus alla vigilia del ventiduesimo viaggio internazionale

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CORRIERE DELLA SERA Pag 8 La paura di Francesco: “Basta un incidente a innescare l’atomica” di Gian Guido Vecchi e Paolo Salom In volo verso il Cile: nuovo appello al disarmo nucleare. Il bambino e quel silenzio innaturale dopo la Bomba LA REPUBBLICA Pagg 6 – 7 Il Papa teme la guerra atomica: “Un incidente può innescarla” di Paolo Rodari America latina, i vescovi e le università: la Chiesa resiste a Francesco sui teologi della liberazione IL FOGLIO Pag 2 La pañolada davanti alla cattedrale di Santiago accoglie il Papa in Cile di Matteo Matzuzzi Bombe, proteste e vescovi insultati. Un viaggio difficile IL GAZZETTINO Pag 5 Il viaggio del Papa: “Temo la guerra nucleare” di Franca Giansoldati In volo verso l Cile, Francesco si confida: “Siamo al limite e ho paura per questo”. Bergoglio regala un’immagine di Nagasaki 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 I violenti e l’autorità svanita di Marco Demarco Bande giovanili Pag 21 Il peggior lunedì di Gaetano Cappelli Ieri era il Blue Monday, momento di malumore per eccellenza. Ma siamo sicuri che sia davvero meglio lo stress natalizio? LA REPUBBLICA Pag 18 La svolta Bocconi, stop a esami e tesi se è festa religiosa di Zita Dazzi 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 2 Materiali radioattivi, bonifica da 160 milioni di Alberto Vitucci Bufera sui Pili, l’area inquinata Pag 20 Venezia, museo a cielo aperto. E’ allarme chiese poco protette di Enrico Tantucci Dopo il furto a Palazzo Ducale cresce la preoccupazione per i tesori esposti senza sistemi di allarme. L’appello del Patriarca a intervenire, ma c’è l’incognita della multiproprietà tra Comune, Curia e Usl IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag X Una strada per don Fuin, via libera dalla Giunta di m.fus. Pag XXVII Gesù bambino nasce al Petrolchimico 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Eccesso di velocità, il parroco avverte: “Chi prende le multe si confessi” di Francesco Bottazzo A Bibione pubblicato sul bollettino parrocchiale l’invito di don Andrea Vena

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Pag 5 Il veglione-show del prete in chiesa: “Pagliaccio”. “No, ho l’ok del vescovo” di Matteo Sorio Polemica a Verona per un video che immortala il sacerdote alla festa di Capodanno IL GAZZETTINO Pag 6 Il parroco di Bibione: “Correre in auto, un peccato da confessare” di Marco Corazza … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Sta tornando l’Europa. E l’Italia che fa? di Franco Venturini Da Merkel a Macron LA STAMPA I due fronti della sfida sui migranti di Marcello Sorgi AVVENIRE Pag 1 Ma che razza di politica di Giuseppe Anzani Il peso dei concetti e delle scelte Pag 3 C’è vita oltre il biotestamento Felice Achilli: la relazione di cura vale più di un comma. Francesco D’Agostino: il dovere ultimo di affrontare la realtà Pag 24 Italiano, una lingua d’incenso di Giacomo Gambassi Da lavabo a pilatesco: il nostro vocabolario è ricco di parole e locuzioni di uso comune che derivano dal linguaggio della Chiesa IL GAZZETTINO Pag 1 La cura greca banco di prova per frenare i falchi della Ue di Giulio Sapelli Pag 3 Migranti, la linea dura vale quasi il 30% dei voti di Diodato Pirone Il tema è il secondo più sentito dagli elettori dopo quello del lavoro LA NUOVA Pag 1 Autoinganni del Carroccio in confusione di Mariano Maugeri Pag 1 I Cinque Stelle paradossi post moderni di Massimiliano Panarari

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Vincere la paura Papa Francesco celebra la giornata mondiale del migrante e del rifugiato I timori di chi accoglie e di chi viene accolto sono «pienamente comprensibili da un punto di vista umano», ma «il peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte, condizionino le nostre scelte, compromettano il rispetto e la generosità, alimentino l’odio e il rifiuto». Lo ha detto Papa Francesco durante la messa celebrata, domenica mattina 14 gennaio nella basilica di San Pietro, in occasione della giornata mondiale del migrante e del rifugiato.

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Quest’anno ho voluto celebrare la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato con una Messa a cui siete invitati in particolare voi, migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Alcuni siete arrivati da poco in Italia, altri da molti anni siete residenti e lavorate, e altri ancora costituiscono le cosiddette “seconde generazioni”. Per tutti è risuonata in questa assemblea la Parola di Dio, che oggi ci invita ad approfondire la speciale chiamata che il Signore rivolge ad ognuno di noi. Egli, come ha fatto con Samuele (cfr. 1 Sam 3, 3b-10.19) ci chiama per nome - ognuno di noi - e ci chiede di onorare il fatto che siamo stati creati quali esseri unici e irripetibili, tutti diversi tra noi e con un ruolo singolare nella storia del mondo. Nel Vangelo (cfr. Gv 1, 35-42) i due discepoli di Giovanni chiedono a Gesù: «Dove dimori?» (v. 38), lasciando intendere che dalla risposta a questa domanda dipende il loro giudizio sul maestro di Nazaret. La risposta di Gesù è chiara: «Venite e vedrete!» (v. 39), e apre a un incontro personale, che contempla un tempo adeguato per accogliere, conoscere e riconoscere l’altro. Nel messaggio per la Giornata di oggi ho scritto: «Ogni forestiero che bussa alla nostra porta è un’occasione di incontro con Gesù Cristo, il quale si identifica con lo straniero accolto o rifiutato di ogni epoca (cfr. Mt 25, 35.43)». E per il forestiero, il migrante, il rifugiato, il profugo e il richiedente asilo ogni porta della nuova terra è anche un’occasione di incontro con Gesù. Il suo invito «Venite e vedrete!» è oggi rivolto a tutti noi, comunità locali e nuovi arrivati. È un invito a superare le nostre paure per poter andare incontro all’altro, per accoglierlo, conoscerlo e riconoscerlo. È un invito che offre l’opportunità di farsi prossimo all’altro per vedere dove e come vive. Nel mondo di oggi, per i nuovi arrivati, accogliere, conoscere e riconoscere significa conoscere e rispettare le leggi, la cultura e le tradizioni dei Paesi in cui sono accolti. Significa pure comprendere le loro paure e apprensioni per il futuro. E per le comunità locali, accogliere, conoscere e riconoscere significa aprirsi alla ricchezza della diversità senza preconcetti, comprendere le potenzialità e le speranze dei nuovi arrivati, così come la loro vulnerabilità e i loro timori. L’incontro vero con l’altro non si ferma all’accoglienza, ma ci impegna tutti nelle altre tre azioni che ho evidenziato nel Messaggio per questa Giornata: proteggere, promuovere e integrare. E nell’incontro vero con il prossimo, saremo capaci di riconoscere Gesù Cristo che chiede di essere accolto, protetto, promosso e integrato? Come ci insegna la parabola evangelica del giudizio universale: il Signore era affamato, assetato, nudo, ammalato, straniero e in carcere, e da alcuni e stato soccorso mentre da altri no (cfr. Mt 25, 31-46). Questo incontro vero con il Cristo è fonte di salvezza, una salvezza che deve essere annunciata e portata a tutti, come ci mostra l’apostolo Andrea. Dopo aver rivelato al fratello Simone: «Abbiamo trovato il Messia» (Gv 1, 41), Andrea lo conduce da Gesù affinché faccia la stessa esperienza dell’incontro. Non è facile entrare nella cultura altrui, mettersi nei panni di persone così diverse da noi, comprenderne i pensieri e le esperienze. E così spesso rinunciamo all’incontro con l’altro e alziamo barriere per difenderci. Le comunità locali, a volte, hanno paura che i nuovi arrivati disturbino l’ordine costituito, “rubino” qualcosa di quanto si è faticosamente costruito. Anche i nuovi arrivati hanno delle paure: temono il confronto, il giudizio, la discriminazione, il fallimento. Queste paure sono legittime, fondate su dubbi pienamente comprensibili da un punto di vista umano. Avere dubbi e timori non è un peccato. Il peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte, condizionino le nostre scelte, compromettano il rispetto e la generosità, alimentino l’odio e il rifiuto. Il peccato è rinunciare all’incontro con l’altro, all’incontro con il diverso, all’incontro con il prossimo, che di fatto è un’occasione privilegiata di incontro con il Signore. Da questo incontro con Gesù presente nel povero, nello scartato, nel rifugiato, nel richiedente asilo, scaturisce la nostra preghiera di oggi. È una preghiera reciproca: migranti e rifugiati pregano per le comunità locali, e le comunità locali pregano per i nuovi arrivati e per i migranti di più lunga permanenza. Alla materna intercessione di Maria Santissima affidiamo le speranze di tutti i migranti e i rifugiati del mondo e le aspirazioni delle comunità che li accolgono, affinché, in conformità al supremo comandamento divino della carità e dell’amore al prossimo, impariamo tutti ad amare l’altro, lo straniero, come amiamo noi stessi. Accompagnatemi con la preghiera La richiesta del Pontefice durante l’Angelus alla vigilia del ventiduesimo viaggio internazionale

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La richiesta di preghiere alla vigilia della partenza per il Cile e il Perú e l’annuncio di un cambiamento di data per la celebrazione delle prossime giornate mondiali dei migranti e dei rifugiati hanno caratterizzato l’Angelus del 14 gennaio in piazza San Pietro. Prima della recita della preghiera mariana, come di consueto il Pontefice ha commentato il Vangelo domenicale. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Come nella festa dell’Epifania e in quella del Battesimo di Gesù, anche la pagina del Vangelo di oggi (cfr. Gv 1, 35-42) propone il tema della manifestazione del Signore. Questa volta è Giovanni il Battista che lo indica ai suoi discepoli come «l’Agnello di Dio» (v. 36), invitandoli così a seguire Lui. E così è per noi: Colui che abbiamo contemplato nel mistero del Natale, siamo ora chiamati a seguirlo nella vita quotidiana. Il Vangelo odierno, dunque, ci introduce perfettamente nel tempo liturgico ordinario, un tempo che serve ad animare e verificare il nostro cammino di fede nella vita consueta, in una dinamica che si muove tra epifania e sequela, tra manifestazione e vocazione. Il racconto del Vangelo indica le caratteristiche essenziali dell’itinerario di fede. C’è un itinerario di fede, e questo è l’itinerario dei discepoli di tutti i tempi, anche nostro, a partire dalla domanda che Gesù rivolge ai due che, spinti dal Battista, si mettono a seguirlo: «Che cosa cercate?» (v. 38). È la stessa domanda che, al mattino di Pasqua, il Risorto rivolgerà a Maria Maddalena: «Donna, chi cerchi?» (Gv 20, 15). Ognuno di noi, in quanto essere umano, è alla ricerca: ricerca di felicità, ricerca di amore, di vita buona e piena. Dio Padre ci ha dato tutto questo nel suo Figlio Gesù. In questa ricerca è fondamentale il ruolo di un vero testimone, di una persona che per prima ha fatto il cammino e ha incontrato il Signore. Nel Vangelo, Giovanni il Battista è questo testimone. Per questo può orientare i discepoli verso Gesù, che li coinvolge in una nuova esperienza dicendo: «Venite e vedrete» (v. 39). E quei due non potranno più dimenticare la bellezza di quell’incontro, al punto che l’evangelista ne annota persino l’ora: «Erano circa le quattro del pomeriggio» (ibid.). Soltanto un incontro personale con Gesù genera un cammino di fede e di discepolato. Potremmo fare tante esperienze, realizzare molte cose, stabilire rapporti con tante persone, ma solo l’appuntamento con Gesù, in quell’ora che Dio conosce, può dare senso pieno alla nostra vita e rendere fecondi i nostri progetti e le nostre iniziative. Non basta costruirsi un’immagine di Dio basata sul sentito dire; bisogna andare alla ricerca del Maestro divino e andare dove Lui abita. La richiesta dei due discepoli a Gesù: «Dove dimori?» (v. 38), ha un senso spirituale forte: esprime il desiderio di sapere dove abita il Maestro, per poter stare con Lui. La vita di fede consiste nel desiderio di stare con il Signore, e dunque in una ricerca continua del luogo dove Egli abita. Questo significa che siamo chiamati a superare una religiosità abitudinaria e scontata, ravvivando l’incontro con Gesù nella preghiera, nella meditazione della Parola di Dio e nella frequenza ai Sacramenti, per stare con Lui e portare frutto grazie a Lui, al suo aiuto, alla sua grazia. Cercare Gesù, incontrare Gesù, seguire Gesù: questo è il cammino. Cercare Gesù, incontrare Gesù, seguire Gesù. La Vergine Maria ci sostenga in questo proposito di seguire Gesù, di andare e stare dove Lui abita, per ascoltare la sua Parola di vita, per aderire a Lui che toglie il peccato del mondo, per ritrovare in Lui speranza e slancio spirituale. Al termine dell’Angelus il Pontefice ha annunciato che «d’ora in poi, per motivi pastorali, la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato sarà celebrata la seconda domenica di settembre», quindi ha chiesto preghiere per il suo viaggio in America latina. Cari fratelli e sorelle, oggi ricorre la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato. Questa mattina ho celebrato la Messa con un buon gruppo di migranti e rifugiati residenti nella diocesi di Roma. Nel mio messaggio per questa Giornata ho sottolineato che le migrazioni sono oggi un segno dei tempi. «Ogni forestiero che bussa alla nostra porta è un’occasione di incontro con Gesù Cristo, il quale si identifica con lo straniero accolto o rifiutato di ogni epoca (cfr. Mt 25, 35.43). [...] Al riguardo, desidero riaffermare che la nostra comune risposta si potrebbe articolare attorno a quattro verbi fondati sui principi della dottrina della Chiesa: accogliere, proteggere, promuovere e integrare». D’ora in poi, per motivi pastorali, la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato sarà celebrata la seconda domenica di settembre. La prossima, cioè la centocinquesima, sarà domenica 8 settembre 2019. Domani mi recherò in Cile e Perú. Vi

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chiedo di accompagnarmi con la preghiera in questo viaggio apostolico. Saluto tutti voi, romani e pellegrini: le famiglie, i gruppi parrocchiali, le associazioni. Un saluto speciale rivolgo alla comunità latinoamericana di Santa Lucia in Roma, che celebra 25 anni di fondazione. En este felíz aniversario, le pido al Señor que les colme de bendiciones para que puedan seguir dando testimonio de su fe en medio de las dificultades, alegrías, sacrificios y esperanzas de su experiencia migratoria. Gracias. E a tutti auguro una buona domenica. Mi raccomando, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci! CORRIERE DELLA SERA Pag 8 La paura di Francesco: “Basta un incidente a innescare l’atomica” di Gian Guido Vecchi e Paolo Salom In volo verso il Cile: nuovo appello al disarmo nucleare. Il bambino e quel silenzio innaturale dopo la Bomba Sull’aereo del Papa. La foto ritrae un bambino che stringe le labbra, lo sguardo triste e le braccia lungo i fianchi come fosse sull’attenti, il fratello più piccolo legato dietro le spalle, morto. Francesco ne ha fatte fare delle copie per donarle ai giornalisti che lo seguono sul volo verso il Cile. «L’ho trovata per caso, è stata scattata nel ’45 a Nagasaki, dopo l’esplosione della bomba. Il bimbo che porta il fratellino aspetta il suo turno davanti al crematorio. Quando l’ho vista, quando ho visto la tristezza di questo bambino, ho osato scrivere soltanto: “Il frutto della guerra”. Ho pensato di farla stampare e condividerla con voi perché un’immagine come questa commuove più di mille parole». Il Papa passa a salutare i giornalisti mentre l’aereo è ancora sul Mediterraneo. Ma davvero, gli chiedono, ha paura di una guerra nucleare? Il Papa annuisce: «Sì, ho davvero paura e penso che siamo al limite. Questo pericolo esiste veramente. E io ho paura di questo, basta un incidente. Di questo passo, la situazione rischia di precipitare. Bisogna eliminare le armi nucleari, adoperarci per il disarmo». Il volo è il più lungo tra quelli compiuti dal Pontefice in ventidue viaggi internazionali, 12.123 chilometri, quindici ore. Il programma è intensissimo: sei città in sette giorni, dieci voli. «Grazie per il vostro lavoro che sarà impegnativo, tre giorni un Paese, tre in un altro… In Cile ho studiato un anno, ho tanti amici; invece il Perù lo conosco meno, sono andato due o tre volte per convegni, incontri…». Francesco sorride sereno, come se la fatica non lo riguardasse, una giornalista gli dice: ma lei come fa, che cosa le dà il suo medico che lo prendo anch’io? E lui ride, «ma io non vado dal medico, vado dalla strega!». Al ritorno risponderà come sempre alle domande dei giornalisti, «ho sempre avuto paura delle interviste e guarda che lavoro mi è capitato…». Il volo AZ4000 è atterrato a Santiago prima di mezzanotte. Accolto dal canto dei bambini e dalla presidente uscente Michelle Bachelet, il Papa è andato subito a riposare nella nunziatura. Non sarà un viaggio facile, del resto. Il motto è «Vi do la mia pace». In Cile come in Perù la Chiesa è ai minimi storici di popolarità, tra gravi scandali di pedofilia nel clero e una gerarchia conservatrice percepita come distante dal popolo. Alla vigilia ci sono stati atti vandalici contro le chiese e contestazioni. Oggi Francesco si rivolgerà alle autorità alla Moneda, celebrerà la prima grande messa in un parco del centro, visiterà un carcere femminile. Un viaggio per mostrare il volto di una Chiesa attenta anzitutto «ai fratelli più bisognosi, a quanti sono scartati dalla società». E pronta a denunciare «la corruzione che impedisce lo sviluppo e il superamento della povertà e della miseria», spiegava il Segretario di Stato Pietro Parolin. In questi giorni, Francesco vedrà le vittime della dittatura di Pinochet, fuori programma è atteso un incontro privato con alcune vittime di preti pedofili. Dai Mapuche ai popoli dell’Amazzonia, sosterrà in particolare i diritti delle popolazioni indigene e la tutela dell’ambiente come «casa comune». Un’immagine vale più di mille parole. Così papa Francesco ha presentato lo scatto del bambino in attesa di consegnare il corpo del fratellino morto alla pira che lo trasformerà in cenere. Non è l’unica fotografia a raccontare la doppia tragedia di Hiroshima e Nagasaki. In quei giorni terribili che hanno chiuso l’estate del 1945, il Giappone è stato percorso da un’armata di fotografi e cameraman al seguito delle truppe americane. Ma il bambino di Nagasaki, il cui sguardo parla a tutti noi con una forza pari soltanto al suo apparente stoicismo, emerge dalle carte dell’epoca per la sua straordinaria attualità.

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L’autore, Joe O’Donnell (scomparso nel 2007), aveva soltanto 23 anni quando si trovò a documentare quanto accadeva alle porte della città giapponese devastata dalla seconda atomica il 9 agosto 1945. «Vidi un ragazzino di circa 10 anni - disse in seguito - che portava sulle spalle un bimbo più piccolo, come spesso accadeva nel Sol Levante, la testa reclinata quasi si fosse assopito all’improvviso. Dopo una decina di minuti, degli uomini con le maschere bianche sciolsero i lacci per prenderlo: solo allora capii che era già morto. Il fratello rimase immobile e osservò il rogo mordendosi le labbra fino a sanguinare. Poi si girò e si allontanò in silenzio». Ecco: quel silenzio, il silenzio innaturale che seguì le deflagrazioni nucleari, racchiuso in un’immagine, dice più di mille parole che cosa ci aspetterebbe se qualcuno deciderà mai di schiacciare il bottone: grosso o piccolo che sia. LA REPUBBLICA Pagg 6 – 7 Il Papa teme la guerra atomica: “Un incidente può innescarla” di Paolo Rodari America latina, i vescovi e le università: la Chiesa resiste a Francesco sui teologi della liberazione Santiago del Cile. Francesco ha paura. Lo ammette senza nascondersi: « Siamo al limite. Basta un incidente per innescare la guerra nucleare». Sono le nove del mattino. Il Papa vola verso Santiago del Cile, meta del suo 22° viaggio internazionale, il sesto in America Latina, che da giovedì tocca la terra peruviana per concludersi lunedì prossimo. Ha appena donato ai giornalisti un'immagine eloquente: una foto in bianco e nero scattata a Nagasaki nel '45 dal fotografo americano Joseph Roger O' Donnell. Un bambino aspetta di far cremare il fratellino minore deceduto in seguito ai bombardamenti atomici. Lo porta in spalla. Sembra che dorma, in realtà è morto. «Il frutto della guerra», scrive Francesco sul retro: «La tristezza del bambino solo si esprime nel suo gesto di mordersi le labbra che trasudano sangue». È questo che volete? Sembra dire il Papa che ha scelto il dono non a caso: «Commuove più di mille parole». Da settimane è preoccupato per l'escalation di minacce sull'asse Washington-Pyonyang. E le sue parole non nascondono l'inquietudine: «Questo pericolo esiste veramente. E io ho paura di questo, basta un incidente. Di questo passo la situazione rischia di precipitare. Bisogna eliminare le armi nucleari, adoperarci per il disarmo». I nunzi apostolici in tutto il mondo fanno pervenire Oltretevere notizie non rassicuranti. Ne ha parlato, Francesco, anche nel discorso ai diplomatici dell'8 gennaio, citando Giovanni XXIII, il Pontefice che all'esplodere della crisi dei missili a Cuba (ottobre '62) lanciò come extrema ratio un messaggio a «tutti gli uomini di buona volontà» per evitare «gli orrori della guerra». Occorre «sostenere ogni tentativo di dialogo nella penisola coreana», ha detto nel suo discorso Bergoglio. Il summit d'inizio novembre avvenuto in Vaticano sul disarmo nucleare ha acuito le preoccupazioni. Francesco ha compreso che la mediazione con Kim Jong-un è al limite dell'impossibile. Sono mesi che personalità della Chiesa allertano la Santa Sede. A fine agosto, dura fu un'uscita della Commissione giustizia e pace della Conferenza episcopale coreana all'indomani dell'ennesimo lancio di un missile da Pyongyang che, volando per 2.700 chilometri, si spezzò in tre parti nel Mare del Giappone: «La pace non può essere costruita mai attraverso l'equilibrio del potere delle armi, ma si realizza attraverso la fiducia mutua», si lesse in un comunicato. La Chiesa ha negli esponenti dell'Ostpolitk di casaroliana memoria dei maestri di diplomazia, capaci di parlare solo al momento opportuno e quando è davvero necessario. Così hanno condotto il pontificato di Wojtyla negli anni della Guerra fredda, così fanno oggi rimettendo la Santa Sede al centro dello scacchiere internazionale. Pietro Parolin, segretario di Stato presente sul volo verso il Cile, è oggi il massimo esponente di questa scuola. C'è anche lui dietro l'uscita di ieri del Papa: la decisione di donare l'istantanea del fotografo americano suona come un'ultima spiaggia prima del disastro. Francesco non ama la lettura del presente come scontro titanico fra la forza del bene e quella del male. Eppure è cosciente che i segni dell'Apocalisse, la fine vicina, sono reali. La sua risposta, tuttavia, non è una forza di fuoco maggiore, come anche una certa teologia cattolica ha sotteso giustificando l'interventismo di George Bush prima - «qualcosa di calvinista», lo definì Pio Laghi -, l'attivismo di Trump oggi che ha dichiarato essere «occhio per occhio» il suo passo biblico preferito, bensì una fiducia incondizionata nell'azione, mite e arrendevole, dello

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Spirito. La sua forza? « Il silenzio», disse in un'omelia di fine 2013. L'Ostpolitik di Francesco si muove a 360 gradi, non solo sull'asse Usa-Corea ma anche sui quadranti Nord e Sud del mondo. Sono i Paesi poveri che possono dai confini favorire la sua «diplomazia della misericordia». Di qui la scelta di volare in Cile e Perù, territori meno centrali di altri. È mettendo a fuoco questi Paesi che i potenti del mondo possono convertire il proprio sguardo e di conseguenza l'agire. « Dopo il gelido inverno fiorisca la primavera», disse nel giugno 2015 in Bosnia, a Sarajevo, meta scelta proprio per la sua marginalità. Santiago del Cile. «Voglio essere chiaro: senz'altro Francesco rappresenta un momento favorevole per i teologi latinoamericani della liberazione. Ma se non cambia le strutture della Chiesa, la persecuzione nei nostri confronti probabilmente andrà avanti col prossimo Papa. Il cuore della persecuzione sta nel rapporto tra la Congregazione per la Dottrina della fede e i vescovi delle diocesi dove ci sono le università cattoliche. Le strutture della Chiesa sono premoderne, di fatto appartengono al tempo delle monarchie assolute. E così rendono possibile la violazione dei diritti umani nei confronti di certi teologi. Anni fa ho dovuto difendermi con la Congregazione senza aver diritto a un giusto processo. È stato un incubo. Mi sono ammalato». Sono trascorsi diversi anni dalle persecuzioni subite da diversi teologi della liberazione sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, ma poco è cambiato. Molti vescovi conservatori continuano, come accadeva in Argentina anche ai danni di Bergoglio, a trovare sponda oltre il Tevere e a bloccare, de facto, carriere e insegnamenti. In sostanza, quei teologi ritenuti non allineati subiscono censure spesso senza conoscerne il motivo. Fra questi il teologo gesuita cileno Jorge Costadoat. Professore dell'Università cattolica del Cile e direttore del Centro teologico Manuel Larraín, Costadoat fa parte degli scrittori di Reflexión y Liberación che tanto clamore aveva suscitato con la pubblicazione del resoconto dell'incontro del Papa con i vertici della Clar, la Confederazione latinoamericana dei religiosi, il 6 giugno 2013 e gli accenni attribuitigli sull'esistenza di una «lobby gay» in Vaticano. Da tre anni Costadoat, pur avendo una cattedra, non può insegnare dopo che il vescovo Ricardo Ezzati Andrello, arcivescovo di Santiago del Cile, gli ha tolto la cattedra perché il suo insegnamento è troppo in libertà. Dice: «Ho chiesto al rettore dell'università, al decano, al provinciale, nessuno ha saputo dirmi perché il vescovo mi ha cacciato dal piano di studi». Oltre a Costadoat, Josè Maria Castillo, 87 anni, uno dei più prestigiosi teologi europei. Gesuita, già docente di teologia a Granada e visiting professor alla Gregoriana, nell'88 per le sue posizioni critiche verso la Chiesa fu allontanato dall'insegnamento. Nel 2005, con altri 11 teologi europei e americani, firmò un "Appello alla chiarezza" nel tentativo di contrastare il processo di beatificazione di Wojtyla. Fu costretto a emigrare all'Universidad Centroamericana «José Simeon Cañas», in San Salvador, dove ha insegnato per anni. Racconta: «Nel 1988 Joseph Ratzinger, allora prefetto dell'ex Sant'Uffizio, l'arcivescovo di Madrid Ángel Suquía Goicoechea e il preposito generale dei gesuiti Peter Hans Kolvenbach si incontrarono e parlarono di me. Non so cosa si dissero. Sta di fatto che senza alcun processo e senza darmi alcuna spiegazione mi fu tolto l'insegnamento. Per anni ho vissuto con questa maledizione sulle spalle, guardato con sospetto da tutti. Ho atteso in silenzio, abbandonato da tutti. Fino a poche ore fa quando è suonato il telefono di casa. Era Francesco. Mi ha detto: "Prega per me". È consapevole delle ingiustizie che tanti teologi hanno subìto senza motivo». Secondo Castillo le censure sono ancora vive. Ritiene che Francesco sappia bene che esistono centinaia di teologi a cui la Chiesa ha proibito l'insegnamento per libri ritenuti dissonanti con la dottrina. E che se potesse riabiliterebbe tutti. «Ma le forze che lo contrastano sono molteplici», dice. Castillo pensa, ad esempio, a un episodio recente: «Non molto tempo fa sono stato invitato a tenere una conferenza in una diocesi italiana. Il vescovo, sentendo del mio arrivo, ha proibito a tutti gli istituti cattolici di ospitarmi. E ha avvisato tutti che non era opportuno venissero ad ascoltarmi. È questo il clima di paura che ancora esiste. Come esistono preti e vescovi che fanno la guerra al Papa». I motivi sono molteplici. Fra questi, problemi di carriera e prestigio personale. Dice Castillo: «Francesco vede intorno a sé una Chiesa che si fa bella della sua liturgia, che vive di denaro e ricchezze, che propone una religione pulita e linda senza incarnarsi nelle sofferenze degli uomini. Per lui non è facile. Incontra le stesse resistenze che incontrò Gesù dai leader religiosi del suo tempo». Per

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Costadoat il centro del problema sono le facoltà pontificie, per il rapporto che hanno con la Dottrina della fede: «Si tratta di un vincolo diabolico». IL FOGLIO Pag 2 La pañolada davanti alla cattedrale di Santiago accoglie il Papa in Cile di Matteo Matzuzzi Bombe, proteste e vescovi insultati. Un viaggio difficile Roma. Hanno tirato un comprensibile sospiro di sollievo, le autorità peruviane, quando hanno avuto conferma dai tecnici che l'incendio divampato sabato a Chorillos ai piedi del "Cristo del Pacifico", l'enorme statua alta 27 metri che ricorda il Redentore di Rio de Janeiro, era dovuto a cause accidentali. Un cortocircuito che nulla ha a che vedere con quanto sta capitando qualche migliaio di chilometri più a sud, in Cile, dove da giorni una serie di ordigni esplosivi posti dinanzi alle chiese sta rendendo complicato il viaggio del Papa iniziato ufficialmente ieri sera con l'arrivo a Santiago. Qualche mese fa si sarebbe detto che la doppia tappa latinoamericana non avrebbe destato particolari motivi di preoccupazione, i contesti "caldi" erano altri. Ma poi una serie di eventi, dichiarazioni e complicazioni ha chiarito che la ventiduesima missione di Francesco fuori dalle mura vaticane non sarebbe stata semplice, per usare le parole del segretario di stato, il cardinale Pietro Parolin. E' proprio il Cile a rappresentare il problema principale e non solo per l'ostilità della minoranza Mapuche, che ha protestato perché Francesco celebrerà la messa su quello che rivendicano essere il loro territorio. Sabato, sulla Nación di Buenos Aires è intervenuto padre Fernando Montes, già rettore per diciassette anni dell'Università Alberto Hurtado, provinciale gesuita in Cile e compagno di studi di Jorge Mario Bergoglio. Montes ha rilevato che "la chiesa cattolica, e in particolare la sua gerarchia, giocò qui un ruolo molto importante nella difesa dei diritti umani durante la dittatura. Finita quest'epoca, la chiesa era l'istituzione più rispettata nel paese, con più dell'80 per cento di approvazione. Oggi è una delle meno riconosciute in America latina". Un crollo verticale, dovuto a una molteplicità di fattori, dall'introduzione accelerata della modernità o postmodernità che ha mutato il ruolo della religione, la bassa capacità di leadership di una gerarchia meno sociale e più attenta all'etica sessuale e familiare e, infine, i casi di abusi sessuali da parte del clero. "Benché la fede popolare sia forte, le inchieste mostrano un apprezzamento molto basso per la chiesa e una diminuzione notevole di quanto si dichiarano cattolici, soprattutto tra i giovani. Il popolo cileno si aspetta di più dalla sua chiesa. Il clero giovane è in generale più conservatore e la chiesa è divenuta più clericale. Si chiede una maggiore partecipazione dei laici, in particolare della donna". Ma è sulla questione degli abusi che i rischi sono maggiori. "Per Francesco è particolarmente delicato il caso del vescovo di Osorno, Juan Barros". I fatti: nel gennaio di tre anni fa, il Papa nominò Barros capo della sperduta diocesi del Cile meridionale, nonostante il prescelto fosse stato vicinissimo al sacerdote Fernando Karadima, condannato per abusi sessuali e costretto nel 2011 dalla congregazione per la Dottrina della fede a ritirarsi a vita privata e invitato a pregare e pentirsi. Francesco ha sempre difeso la nomina di Barros, e in una conversazione del 2015 catturata da un microfono in piazza San Pietro, al termine dell'udienza generale, ribadiva che sul vescovo non c'era nulla, nessuna prova che lo collegasse agli abusi del suo mentore, se non dicerie. Nel frattempo, il presule prendeva possesso della diocesi, in una cerimonia tumultuosa: lancio di oggetti, urla in cattedrale, cartelli con frasi ingiuriose più degni d'una torcida curvaiola che d'una chiesa. Lo stesso Pontefice, privatamente, scriveva ai vescovi cileni una lettera - resa nota alla vigilia del viaggio dall'Associated Press - in cui si rammaricava della scelta, facendo intendere che avrebbe preferito un'altra soluzione. Sabato mattina, più di una ventina di manifestanti si sono riuniti davanti alla cattedrale di Santiago chiedendo l'immediata cacciata di mons. Barros, qualcuno ha accusato il cardinale Ricardo Ezzati di aver temporeggiato e altri hanno proposto di impedire l'ingresso del Papa in cattedrale se non arriverà una decisione in tempi brevi. IL GAZZETTINO Pag 5 Il viaggio del Papa: “Temo la guerra nucleare” di Franca Giansoldati In volo verso l Cile, Francesco si confida: “Siamo al limite e ho paura per questo”. Bergoglio regala un’immagine di Nagasaki

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DA BORDO DELL'AEREO PAPALE. Paura. Paura che qualcuno possa perdere il controllo. Il bottone nucleare resta un orizzonte sciagurato che non fa dormire sonni tranquilli nemmeno a Papa Francesco. La proliferazione delle armi atomiche la vede come qualcosa di spaventosamente vicino alla zona limite. LA DOMANDA - Sull'aereo papale che sta portando Bergoglio in Cile, prima tappa del suo sesto viaggio sudamericano, si lascia andare a una confidenza, provocato da una domanda che gli pongo impulsivamente mentre il pontefice sta salutando ciascuno dei 70 giornalisti sul volo, passando da ognuno, facendosi largo in una selva di telecamere. Poco prima il portavoce Greg Burke aveva fatto avere a ciascuno di noi un piccolo dono papale: una fotografia scattata a Nagasaki nel 1945 dal fotografo Joseph O'Donnell. In quella immagine è racchiusa tutta la tristezza di un bambino che sta aspettando il suo turno per far cremare il fratellino di pochi mesi che porta sulle spalle. Un corpicino dentro a una specie di zainetto. Dietro la fotografia è stata messa una dedica: «Il frutto della guerra». Chiedo al Papa se ha davvero paura di un conflitto nucleare, come se fosse qualcosa di minaccioso dietro l'angolo. Il volto ridente di Bergoglio si fa subito scuro. «Sì ho paura. Penso che siamo al limite e che esiste davvero questo rischio. Ho paura per questo. Basta qualcosa di minimo, un incidente che possa fare precipitare la situazione». Pausa. «Penso che si debba procedere alla distruzione delle armi nucleari». Dietro questo commento strappato a bruciapelo c'è l'attività dell'Iran, della Cina, degli Usa, della Corea del Nord. Ci sono le minacce lanciate a distanza dalle superpotenze. Ci sono i trattati internazionali che sembrano inceppati. L'argomento del nucleare non è la prima volta che viene affrontato da Francesco, lo aveva fatto anche durante l'udienza agli ambasciatori la scorsa settimana e c'è da scommettere che tornerà a parlarne, vista la gravità con la quale ha risposto alla domanda. I DONI - Sul volo altre domande si alternano ai saluti e alla pronta consegna di doni artigianali. I giornalisti peruviani gli fanno avere delle miniature di Madonne, la corrispondente del Figaro gli consegna due libri antichi, un cameraman un orologio di plastica. C'è chi gli fa firmare altri libri, chi gli suggerisce una lettura interessante dal titolo: «Quelli che stanno nelle tenebre», chi gli porta in dono il modellino di una jeep degli anni Cinquanta, molto simile a quella che utilizzava Alberto Hurtado, un santo cileno. La usava per raccogliere dalla strada i bambini dei quartieri poveri e portarli in parrocchia. Stavolta però niente selfie, né benedizioni registrate con l'ipad. Prima di partire il Papa, tramite la sala stampa, ha fatto sapere di non gradire troppo la sovra esposizione mediatica. Un'altra giornalista gli domanda cosa prende per essere sempre così in forma. Risposta bizzarra: «Non vado da un medico, preferisco andare da un strega». A molti è sorto il dubbio che volesse dire stregone, ma non ha fatto in tempo a chiederlo che il Papa se ne era già andato nel suo spazio davanti. LE PROTESTE - Il Papa ha ringraziato tutti e poi si è ritirato a riposare. «Sarà un viaggio noioso», ha detto accorgendosi però di avere inciampato in una gaffe involontaria. Si corregge. Intendeva dire che si tratta di un volo di 15 ore e che sarà particolarmente lungo, non noioso. Di quello che lo attende in Cile, però, nessun cenno. Non menziona a nessuno dei problemi che lo attendono al suo arrivo. Perché oltre ai fiori, alle bandiere, c'è il rischio di manifestazioni di protesta. I giornalisti cileni sul volo raccontano che l'attenzione del loro Paese è tutta rivolta alle proteste e ai casi di pedofilia che stanno scuotendo le coscienze. Ci sono stati episodi di sofferenza e il caso di un vescovo insabbiatore di un pedofilo nominato da Bergoglio nel 2015 che non intende lasciare l'incarico. Il Papa sembra appoggiarlo senza riserve. Un sondaggio recente ha fatto emergere che solo il 32% dei cittadini è a favore del viaggio. I restanti si dividono tra coloro che sono contrari (anche per le spese che ammontano a 10 milioni di dollari) e coloro che non sono proprio interessati. Per un Paese tradizionalmente cattolico non è certo un buon segnale. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 I violenti e l’autorità svanita di Marco Demarco

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Bande giovanili A Napoli c’è una mamma ferita che pone domande e merita risposte. Una madre che non parla per «fatto personale» ma per dare voce a un’angoscia collettiva. Il tema è quello della sicurezza urbana, che è di ieri come di oggi, di Napoli come di Milano. Ovunque, dai tempi di Charles Dickens e di Oliver Twist, ci sono finestre rotte dai teppisti, e negli Usa - un quarto di secolo fa, ormai - ne hanno anche dedotto una fortunata teoria sulla tolleranza zero. Ovunque ci sono bande, gang, «paranze» o «paranzelle» (cioè non collegate alla criminalità organizzata) che spaccano nasi e spappolano milze per una bicicletta o un telefono cellulare. O che accoltellano e sparano per sancire il dominio territoriale. Ma altrove, come a New York, appunto, una soluzione si trova, o almeno si tenta, anche se le amministrazioni politiche cambiano colore e i «portatori ideologici» sono sindaci molto diversi come Rudolph Giuliani e Bill de Blasio. In Italia, invece, il dibattito sulle cose da fare da anni si avvita inutilmente su se stesso. E nell’inconsapevole rispetto di una drammaturgia consolidata, alla «Carnage» di Roman Polanski per intenderci, va avanti all’infinito. Anche nel film tutto inizia con un ragazzino che nel parco colpisce a bastonate al volto un coetaneo. Ma lì la divisione è tra genitori tolleranti e genitori intolleranti. Nella vita reale, quella degli opportunismi politici, invece, tutto si complica. E più si complica meno si decide. Ci sono i «contestualisti», secondo cui quasi tutto dipende dal contesto urbano e sociale. E ci sono i «liberali», per i quali neanche le periferie mai rammendate e la precarietà assoluta possono cancellare il libero arbitrio. Ci sono gli allarmisti-assolutisti («ora basta, la misura è colma») e i minimalisti-relativisti («niente panico, tutto il mondo è paese»). Ci sono quelli per cui molto dipende dal potere persuasivo di «Gomorra» e quelli che invece assolvono la fiction ma accusano la globalizzazione dei social e i video jihadisti. Mentre si discute, però, il sangue, come a Napoli, continua a scorrere: nelle piazze dei quartieri residenziali come davanti alle stazioni della metropolitana. Proprio da Napoli, però, ora viene questo documento eccezionale e coraggioso, che quasi appellandosi all’antica «parresia» greca dice a tutti verità scomode: ai potenti perché sono nelle istituzioni e ai potenti perché sono armati e minacciano. È la lettera che Maria Luisa Iavarone, la madre di Arturo, il ragazzo accoltellato alla gola e al petto, ha inviato al direttore de Il Mattino . Il senso è questo. Molti minori violenti di cui tanto si parla sono già «senza famiglia», perché hanno i genitori in carcere o impegnati a delinquere; o «senza scuola», perché non la frequentano o perché il sistema li lascia cinicamente indietro: evitiamo allora che restino anche senza Stato. Lo Stato delle leggi e delle regole. Di ciò che è lecito fare e di ciò che non lo è. Più che dal caso di suo figlio, per la cui aggressione di gruppo, dopo tre settimane, l’unico identificato è ancora solo un minorenne «che si trincera nel silenzio e aderisce completamente agli inviti degli amici di Facebook a “stare tranquillo”», la signora Iavarone parte da uno degli ultimi episodi napoletani. E segnala che «sono tutti tornati a casa, con una semplice denuncia, i quindici ragazzi che a calci e pugni hanno spappolato la milza a un loro coetaneo». La domanda è: se non i genitori, se non i professori, se non i giudici minorili che nell’aggressione di quindici contro uno non hanno ravvisato né il tentato omicidio né l’associazione a delinquere, chi, una volta tornati a casa, spiegherà a questi ragazzi che hanno sbagliato? «Non parlo - dice la madre di Arturo - da una posizione morale forcaiola, ma solo perché questa violenza insensata mi pare figlia di troppi sfilacciamenti e amnesie civili». In effetti, ciò che si chiede è uno Stato più autorevole e più responsabile. E un apparato meno conformista e meno compiaciuto. Se quattromila poliziotti e altrettanti carabinieri a Napoli sono pochi, bisogna trovarne altri. Se l’esercito guasta la vista ai turisti, pazienza, tanto i dati sui flussi sono confortanti. E se la popolazione non collabora alle indagini perché omertosa o impaurita, questo non costituisca un alibi per lo Stato ma uno stimolo a fare di più. Anche nel rammendare le periferie . Pag 21 Il peggior lunedì di Gaetano Cappelli Ieri era il Blue Monday, momento di malumore per eccellenza. Ma siamo sicuri che sia davvero meglio lo stress natalizio? Blue Monday? No, grazie! Noi italiani proprio non vogliano saperne; e questo dopo aver accolto, spesso con entusiasmo, le decine di piccole grandi novità che ci arrivano dal

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mondo anglosassone. Basti pensare, solo per rimanere in tema, alle code nei centri commerciali, appena prima di Natale, per gli sconti da capogiro del Black Friday. E dunque, come si spiega questa indifferenza a quella che i popoli nordici considerano una data ferale, essendo per la gran parte di loro il Blue Monday, davvero il lunedì più triste dell’anno? Per capirlo meglio andiamo alla sua origine. Pare tutto abbia avuto inizio, proprio come per Babbo Natale, da una campagna pubblicitaria. Nel 2005, all’agenzia di viaggi Sky Travel pensano di incrementare i profitti nel periodo morto post-natalizio. Che c’è di meglio di un bel viaggio per vincerne la tristezza? Incaricano così l’allor giovine Cliff Arnall, psicologo dell’università di Cardiff, perché calcoli con una formula «scientifica» quale sia il giorno più triste dell’anno ed ecco spuntare il Blue Monday. Ora vediamo, al di là della trovata geniale, quali sono le variabili che entrano nel calcolo. Ecco, insieme alle condizioni meteo, il calo di motivazione dopo le Feste e la difficoltà a riprendere a pieno regime, proprio il tempo che separa il giorno più triste dell’anno dal prossimo Natale. Ehi, ma qui c’è qualcosa che non ci convince. Già, perché che succede a Natale? Dell’ansia da regali non vogliamo parlarne? E acutizzata ulteriormente proprio dal suddetto Black Friday - «adesso comprano tutto, non troverò più niente» -. Ecche taglia porterà poi il cognato emigrato a Berlino, o la cognata di Belluno? Oddio c’è sempre il riciclo, ma con tutti rischi del caso. Come la volta che abbiamo regalato alla bellunese la camicetta con tanto di edelweiss. Le piaceranno abbiamo pensato. Essì tanto le piacciono che l’aveva regalata, due anni prima, a nostra figlia. E delle cene e i cenoni e i pranzi in famiglia con, appunto, i famigliari che se si vedono una volta all’anno un motivo pure ci sarà. E delle liti regolari tra coniugi? L’anno scorso dai tuoi quest’anno dai miei. O anche delle cene degli auguri in azienda ufficio ospedale e le conseguenti scenate con gli amanti - mai sul posto di lavoro, ammonivano i marpioni d’una volta -. Ma anche ad avergli dato retta, ai marpioni, si litiga comunque lo stesso con gli amanti e, vadassé, le amanti, stipendiate altrove. «Possibile non trovi un attimo per vederci. Allora non mi ami più o, barra, hai un altro?». E lo stress dei regali-clandestini, dove lo mettiamo? Con sempre il pericolo, soprattutto in provincia, che il dono sia notato da chi non dovrebbe. «Signora, belli sì», dice l’incauto commesso, degli orecchini che lei vuole regalare, sempre alla cognata di Belluno, «Li ha già presi suo marito». Traggedia! E ancora degli sms con gli auguri oracolari dei poeti della domenica e dei colleghi in pensione che ci invitano alla riscoperta del senso vero della vita; e delle tombolate tra amici? - «Massì dai, giusto per stare tutti insieme» -, quando per vincerne il tedio mortale - nella tombola riecheggia il suono cupo della tomba! -, berrete e mangerete come mai nella vita e di notte, insonni nel letto, vi apparirà quel conoscente ormai defunto che, con occhio gufagno, alla fine di ogni cena sospirando recitava: «L’infarto arriva sempre dopo ogni abboffata!», costringendo gli astanti all’opportuno gesto apotropaico: gli uomini con le mani al cavallo dei calzoni e le donne alle fibbie delle borse e alle cornucopie Chantecler; qualcuna veramente con un attimo d’incertezza in cui prima aveva guardato la testa del marito. Ma se, come pare, l’abbiamo scampata, non potremo che salutare, felici, il giorno più triste dell’anno declamando l’immortale battuta di Riccardo Garrone in Vacanze di Natale : «E anche ’sto Natale… se lo semo tolti dalle palle». LA REPUBBLICA Pag 18 La svolta Bocconi, stop a esami e tesi se è festa religiosa di Zita Dazzi Se hai l'esame nel giorno dell'Iftar, quando si rompe il digiuno nel mese sacro del Ramadan, puoi fartelo spostare. Idem se la discussione della tesi di laurea venisse fissata in coincidenza con Yom Kippur, la ricorrenza religiosa ebraica che celebra il giorno dell'espiazione. Diritto esteso agli studenti di ogni nazionalità e religione presenti all'università Bocconi di Milano, che brucia tutti sulla strada del rispetto delle diverse identità religiose. L'annuncio lo fa il rettore dell' ateneo, Gianmario Verona, nell'aula del consiglio comunale, durante la presentazione della Giornata della Memoria. «Il nostro fondatore voleva un'università che fosse un regalo per la Milano internazionale e aperta al futuro: ci stiamo lavorando anche oggi», dice Verona. La richiesta di rinvio dell'esame per festa religiosa è possibile già ora e dal prossimo anno accademico in via Sarfatti il calendario delle sessioni di esame e di laurea sarà impostato dall'ateneo in modo da rispettare le principali festività delle grandi fedi. Non ci sarà nemmeno da presentare il

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modulo, perché i docenti sapranno già in quali periodi dell'anno ebrei, musulmani, ortodossi, buddisti e induisti celebrano le ricorrenze legate alla fede. E in questi periodi, niente esami e niente lauree. Sono cose che cambiano la vita in un'università col 20 per cento di iscritti stranieri e 70 nazionalità diverse fra i 14mila studenti. Nei corsi in inglese, il 60 per cento, i ragazzi dall'estero sono oltre il 40 per cento. «Era inevitabile adeguarsi a questa realtà che cambia e che continua a stupirci - dice il rettore Verona - Abbiamo guardato le grandi università straniere e ci siamo uniformati, nel segno del rispetto della diversità». È una direzione imboccata con tanto entusiasmo che la Bocconi ha anche inaugurato uno spazio preghiera multireligioso, dove è normale incontrare giovani fedeli di Allah inchinati verso la Mecca sul loro tappetino. E non solo. Poiché la fede comanda anche allo stomaco, da quest'anno la App degli studenti ha una nuova funzionalità che permette a chi va in pausa pranzo o coffee break di capire se i piatti a disposizione in tutti i bar e le caffetterie dell' ateneo, rispettano la tradizione ebraica Kosher, o se la carne è macellata secondo il metodo Halal obbligatorio per gli islamici. Naturalmente la App spiega anche gli ingredienti usati nelle varie ricette e il rispetto dei precetti religiosi nella preparazione dei menù programmati giornalmente nelle mense e ristoranti dell' avanguardistica nuova sede su via Roentgen. Oltre che per l'architettura pluripremiata, la Bocconi vuole vincere anche sulla strada dell' integrazione multietnica. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 2 Materiali radioattivi, bonifica da 160 milioni di Alberto Vitucci Bufera sui Pili, l’area inquinata Marghera. Fosfogessi radioattivi nel sottosuolo dei Pili. Ancora presenti, insieme alle "vasche di decantazione", contenitori in metallo seppelliti insieme al materiale inquinato negli anni Settanta. Lo conferma una relazione consegnata al Magistrato alle Acque dal Consorzio Venezia Nuova nel 2011. Su quella base fu deciso di attuare interventi di emergenza come la conterminazione dei terreni, per evitare la diffusione dell'inquinamento in tutta la laguna. Lavori eseguiti allora dallo stesso Consorzio e dal Magistrato alle Acque, costati qualche decina di milioni di euro. Un problema da affrontare in via preliminare per qualunque progetto sia previsto nell'area. Tema sollevato di recente in alcune interrogazioni presentate al ministro per l'Ambiente al Senato da Felice Casson e in consiglio comunale dai rappresentanti del gruppo misto. Ma cosa sono i fosfogessi? All'epoca in cui era attiva a Marghera la produzione dei fertilizzanti chimici, c'era il problema degli scarti di lavorazione. E dell'elevata presenza di "uranio 238" nelle fosforiti e e nei loro derivati utilizzati per la produzione. Secondo gli studi del Ministero, ci sono in Italia alcune aree dove venivano stoccati e smaltiti i rifiuti tossici - oltre a Marghera, in Sicilia, Sardegna e Calabria - potenzialmente pericolosi per la popolazione. Un problema che si era posto qualche anno fa anche per la realizzazione del parco di San Giuliano, a Campalto e in altre aree di gronda lagunare dove venivano stoccati i rifiuti pericolosi, con una bonifica costata 29 milioni di euro. La presenza di radioattività era stata segnalata anche dai tecnici comunali, all'epoca dei rilievi per la realizzazione della pista ciclabile che dovrebbe passare proprio a margine dell'area dei Pili. Si tratta adesso di capire secondo quale normativa sarà fatta la bonifica. Ci sono in corso proposte della Regione e del Comune per modificare la normativa ritenuta troppo rigida sulla bonifica. La pulizia dei terreni, in sostanza, deve essere fatta tenendo presente il tipo di attività che saranno insediate. Lavori più profondi se si tratta di scuole, spettacoli e raduno di persone. Più "leggeri" se si trattasse di altre produzioni industriali. Le procedure prevedono la realizzazione di un "sarcofago" in cemento armato per isolare gli inquinanti. Ma qualche anno fa si è scoperto che resta il problema delle acque e dei percolati, che potrebbero inquinare la falda. Operazioni - e norme - da cui può dipendere la realizzazione dei progetti. La bonifica costa circa 400 euro a metro cubo. Per ripulire tutti i 40 ettari dei Pili (400 mila metri quadrati) sarebbero dunque necessari circa 160 milioni di euro. Cifra che può essere ridotta nel caso di lavorazioni più "leggere". O bonificando solo una parte dell'area, quella interessata ai lavori.

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Polemiche politiche e autorizzazioni paesaggistiche ed edilizie a parte, ci sono da risolvere in via preliminare i problemi dell'inquinamento dell'area. Che non dispone nemmeno di un impianto per lo smaltimento delle acque meteoriche. L'autorizzazione rilasciata qualche anno fa dai vertici del Magistrato alle Acque Mayerle e Caielli era stata revocata poco dopo dallo stesso Magistrato perché ritenuta illegittima. Oggi in caso di piogge l'area viene allagata, e lo svuotamento viene concesso di volta in volta in deroga tramite pompe idrauliche. Pag 20 Venezia, museo a cielo aperto. E’ allarme chiese poco protette di Enrico Tantucci Dopo il furto a Palazzo Ducale cresce la preoccupazione per i tesori esposti senza sistemi di allarme. L’appello del Patriarca a intervenire, ma c’è l’incognita della multiproprietà tra Comune, Curia e Usl Chiese chiuse e chiese a rischio. Di recente, dopo il clamoroso furto di gioielli dalla collezione della famiglia reale del Qatar esposti a Palazzo Ducale, di cui ancora si cercano i responsabili, lo stesso Patriarca i Venezia Francesco Moraglia ha espresso timori ricorrenti per la sicurezza all'interno delle chiese cittadine necessariamente esposte al rischio di sottrazioni di opere d'arte, come avvenuto ormai oltre vent'anni fa per la meraviglia pala d'altare della Madonna con Bambino di Giovanni Bellini conservata nella chiesa della Madonna dell'Orto, portata via e mai più ritrovata. Ma accanto questo c'è anche il problema sempre più pressante delle chiese chiuse. Sono oltre 30 chiese quelle «mappate»anche da una ricerca dello Iuav che non sono più utilizzate per il culto e che rischiano perciò di diventare "invisibili" anche per i patrimoni architettonici e artistici al loro interno. Le chiese non più utilizzate per il culto si avviano appunto all'abbandono, chiuse per anni senza che si intervenga più. È il caso della bellissima chiesa delle Terese, la cui proprietà si palleggiando da anni Curia e Comune, ma che intanto sta là, con i vetri rotti e sempre più degradata. Ma nulla più si sa, ad esempio, delle condizioni della chiesa di San Giovanni Novo, per un breve periodo sede del Museo Guidi, prima che il Comune decidesse di rifiutare la donazione degli eredi del pittore, e da allora irrimediabilmente vuota. Precarie sono anche le condizioni della chiesa di Santa Maria del Pianto, che il Comune voleva riservare per i funerali laici e che invece, dopo il no della Curia, è rimasta così com'è. A rendere tutto più difficile, la multiproprietà delle chiese veneziane. Parte di esse non appartengono più solo alla Curia, ma anche al Comune, all'Usl, ai privati. Di certo c'è solo il pessimo stato di conservazione di buona parte di esse. A questo tema è in parte dedicato anche il convegno «Vuoto/pieno - i caratteri della Venezia che cambia» che l'Iuav organizza domani (dalle 14.30) e giovedì nella sua sede dei Tolentini, curato dalle docenti Monica Centanni, Laura Fregolent e Sara Marini. La prima sessione è dedicata proprio a «L'arcipelago delle chiese chiuse di Venezia: eredità, usi, progetti a confronto», interrogandosi sul fatti che trasformazioni che interessano questi manufatti sono il riflesso della perdita di abitanti del centro storico, sanciscono usi e assenze nel tessuto urbano, rappresentano occasioni per definire una nuova idea di città. Attraverso il confronto tra diverse esperienze progettuali l'incontro vuole servire a verificare le possibilità concrete di riuso di questi spazi. Per questo è particolarmente atteso l'intervento di Don Gianmatteo Caputo, delegato patriarcale per i Beni culturali è intervenuto qualche tempo fa a questo proposito all'Assemblea dei Comitati privati per chiarire l'apertura fatta nella stessa occasione dal patriarca Francesco Moraglia al riuso delle chiese oggi non più utilizzate o che non hanno più funzioni di culto. Sono in tutto una decina le chiese su cui la Curia sta ragionando per riaprirle, con funzioni che però non tradiscano il senso dei luoghi, per progetti condivisi anche dal Patriarcato. La prima che dovrebbe essere riaperta è quella di San Fantin. Grazie anche a un contributo della Regione sarà realizzato un nuovo sistema di illuminazione e un nuovo riscaldamento sotto un pavimento "flottante", installato e che consentirà alla chiesa di poter essere utilizzata per più funzioni. L'altro edificio su cui si interverrà è il Tempio Votivo del Lido, su cui è già partito il restauro finanziato anche dal Comune e che sarà così recuperato, dopo anni di chiusura, a un uso continuativo anche nella parte superiore. IL GAZZETTINO DI VENEZIA

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Pag X Una strada per don Fuin, via libera dalla Giunta di m.fus. La nuova strada, tra via Perlan e via Mattuglie, avrà un nome: via don Ettore Fuin. Con una delibera del 9 gennaio, la Giunta comunale ha accolto la richiesta dei residenti della Gazzera e della parrocchia di Santa Barbara, portata avanti anche dalla municipalità di Chirignago e Zelarino. La via, su cui si affacciano i 60 nuovi palazzi e ancora priva di denominazione, sarà quinti intitolata a colui che il quartiere lo ha, in un certo senso, inventato. Come sarà scritto sulle indicazioni, don Ettore Fuin è infatti fondatore e primo parroco della parrocchia Santa Barbara (1922-2001). Era stato lui, sessant'anni fa, a realizzare la scuola, l'asilo, a far costruire la chiesa e il patronato, dando vita a una comunità molto vivace in un quartiere in forte espansione, di cui è stato parroco dal 1955 al 1987. L'idea è nata nell'estate del 2016, su iniziativa dell'attuale parroco don Guido Scattolin e dei suoi collaboratori, che avevano pubblicato un libro sulla storia del quartiere, partendo proprio dalla visione di don Ettore Fuin, a 15 anni dalla sua scomparsa: «Chiediamo a gran voce che la nuova strada tra via Perlan e via Mattuglie venga intitolata alla memoria del compianto don Ettore, primo parroco ed energico promotore della nascita della comunità e dei servizi, allora inesistenti, utili a tutta la zona». La proposta era stata quindi oggetto di una raccolta firme che in pochissimo tempo aveva raccolto 404 sottoscrizioni. Come per l'auditorium Lippiello alla Cipressina, i presupposti per portare avanti la proposta c'erano tutti: Fuin è morto più di dieci anni fa e intorno alla sua figura c'era un ampio consenso. Come da regolamento, quindi, la proposta era passata prima in commissione e poi in consiglio municipale, dove l'idea era stata approvata a larga maggioranza. Durante il passaggio in commissione era emersa anche l'ipotesi di intitolare la nuova strada a Valeria Solesin, ma al voto finale ha prevalso la scelta del prelato che ha lasciato un forte ricordo di sé nella comunità della Gazzera. Con il sostegno di tutti i consiglieri (fatta eccezione per il Movimento 5 stelle) la palla era passata all'ufficio toponomastica del Comune e all'assessore Paola Mar. Dopo un anno e mezzo, con i lavori conclusi, è arrivato anche il sì della giunta e ora si attende la comunicazione della data dell'inaugurazione. La strada è destinata a diventare un'alternativa a via Perlan, mettendo in sicurezza la zona delle scuole, e quindi un punto di snodo fondamentale per la viabilità della zona. Pag XXVII Gesù bambino nasce al Petrolchimico Mestre. Gesù bambino adagiato fra i filamenti in plastica prodotta al Petrolchimico, o nei sacchi di vetro grezzo che esce dai forni della Pilkington. In occasione di Natale il gruppo San Vincenzo Taliercio ha realizzato due presepi simbolici, molto apprezzati dai lavoratori, alle portinerie dei luoghi di lavoro. Lo stesso Gruppo San Vincenzo ha animato con il Coro delle cime la messa di Natale celebrata dal Patriarca Francesco Moraglia al Vega e da don Marco De Rossi per gli operai del Petrolchimico. Nel periodo di Natale il coro è stato impegnato ad animare altre celebrazioni in ospedale e in varie parrocchie di Mestre. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Eccesso di velocità, il parroco avverte: “Chi prende le multe si confessi” di Francesco Bottazzo A Bibione pubblicato sul bollettino parrocchiale l’invito di don Andrea Vena Venezia. Lo confessa subito: «Sì, anch’io ho preso una multa, ma mai per eccesso di velocità». Anche perché su quelle è arrivata la «bacchettata» dello stesso don Andrea Vena, sacerdote a Bibione nel litorale veneziano. «Chi corre troppo mette in pericolo la propria e la vita altrui, fa peccato e si deve confessare», ha scritto il sacerdote sul bollettino parrocchiale della domenica di Santa Maria Assunta. Tutto è cominciato con la richiesta di aiuto del comandante della polizia locale di diffondere la notizia dell’installazione di due autovelox fissi nel territorio comunale (hanno cominciato a

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funzionare ieri, il timore era la solita pioggia di multe nei primi giorni). E don Andrea l’ha fatto, a modo suo: «Lo dico sempre, il Vangelo non si ferma in chiesa ma si traduce nel vivere quotidiano. Chi è cristiano ad esempio deve guidare con prudenza». E chi trasgredisce prende una multa e chiede perdono a Dio («Essere consapevoli di aver commesso un peccato significa riconoscere di essere venuti meno ad un patto con il Signore», precisa). Del resto l’aveva sottolineato anche Papa Francesco ricevendo lo scorso novembre in udienza la polizia stradale. Bergoglio aveva criticato «lo scarso senso di responsabilità da parte di molti conducenti, che sembrano spesso non avvedersi delle conseguenze anche gravi della loro disattenzione, per esempio, con l’uso improprio dei cellulari, o della loro sregolatezza». Non si rispettano le regole di convivenza e di bene comune, per usare le parole di don Vena, capace di sottolineare con ironia che «tra il dire e il fare c’è sempre il pedale» (quello della macchina). Correre troppo come rubare, come evadere le tasse o inquinare («Lo ha detto anche il Papa nell’ Enciclica Laudato sì»), sottolinea il sacerdote. «Ma anche giocare alle slot. E’ un peccato buttare via i soldi, disperdere il patrimonio che abbiamo ricevuto, il ragionamento vale per ogni trasgressione». Qualcuno li chiama peccati «moderni» (anche se le multe per eccesso ci sono sempre state), per il parroco di Bibione sono peccati e basta: «Come non obbedire ai genitori per i bambini», spiega. «E così, accade raramente, ma qualche volta qualcuno mi ha confessato una guida imprudente con l’auto. Io ho solo approfittato dei nuovi autovelox per ricordarlo anche ai miei parrocchiani che non me ne hanno mai parlato... Ho dato una notizia aggiungendo una riflessione ai cristiani della mia comunità, non pensavo di creare tutta questa sorpresa: mi stanno chiamando giornali italiani e stranieri, eppure mi sembra di dire cose ovvie». Ma don Vena, 49 anni originario di Porcia, non è mai stato banale: è salito alle cronache un anno fa per aver smascherato con lo smartphone collegato al sistema di videosorveglianza l’ennesimo furto in chiesa, per aver officiato messa in spiaggia pur di coinvolgere anche i turisti («Siamo una parrocchia di 2500 persone che in estate diventano duecentomila», ha confidato in una trasmissione televisiva), o ancora per aver istituito la notte bianca, non per fare shopping, ma per confessarsi, con preti a disposizione tutta la notte. «E’ un problema di coscienza - sottolinea -. Se corro a cento all’ora dove posso andare a 50, sono incosciente; se parcheggio sul marciapiede anche, siamo chiamati ad agire con coscienza. Questa cosa ci aiuta a riflettere... Quante famiglie mi chiedono aiuto perché sperperano i soldi in modo incosciente». C’è ancora la multa di Don Andrea... «Mi sono trovato in quelle zone vietate in cui non si può passare - ricorda - non è sempre facile accorgersi». Forse in quel caso non si sarà confessato. Pag 5 Il veglione-show del prete in chiesa: “Pagliaccio”. “No, ho l’ok del vescovo” di Matteo Sorio Polemica a Verona per un video che immortala il sacerdote alla festa di Capodanno Verona. «Non giudicate secondo l’apparenza». Era Giovanni, 7:24. Gli effetti collaterali dell’apparenza, don Paolo Pasetto, li conosce bene. Vedi il ritrovarsi al centro di un articolo come quello uscito tre giorni fa sul quotidiano cattolico online «La nuova bussola quotidiana», sede a Monza, «un gruppo di giornalisti cattolici» accomunati «dalla passione per la fede» e dalla campagna «#salviamolenostrechiese». Titolo dell’articolo, «Sbando ecclesiale: chiesa-circo e parroco-pagliaccio». Tema, quella «sfrontatezza liturgica» di don Paolo che «va avanti da tempo». Motore scatenante, un video in cui lui, durante la tradizionale cena di fine anno con le famiglie in difficoltà, «fa le capriole in chiesa». La chiesa è quella di Marcellise, unità pastorale di San Martino Buon Albergo, nel Veronese. Anni 43, capelli lunghi, barba idem, sandali ai piedi «perché mi ricordano sempre il valore dell’essenzialità», don Paolo Pasetto è parroco dal 2012. In paese, dicono, c’è chi lo ama e chi no, zero vie di mezzo. Lui dice che «bisogna rimettere al centro della comunità i poveri, gli ultimi, gli emarginati, e diventare un po’ più umani, entrando in contatto con la carne sofferente delle persone». Per andare oltre le apparenze, allora, bisogna fare un salto lì. Alla Chiesa di San Pietro in Cattedra. Dove il vescovo, monsignor Giuseppe Zenti, è già stato ospite e interlocutore: «Lui conosce le nostre attività e la tradizione della cena di fine anno», assicura don Pasetto. «Ci siamo impegnati ad avere più dialogo con l’unità pastorale - prosegue il sacerdote - lui ha riconosciuto che le cose che si fanno qui a Marcellise non si possono fare altrove». E

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dove le foto della cena dell’ultimo dell’anno sono incorniciate su una parete della canonica. «È da cinque anni che organizziamo la cena con le famiglie in difficoltà, sono prevalentemente famiglie straniere ma anche di San Martino, non si paga e ognuno porta qualcosa», racconta Anna, una delle tante persone che danno una mano a don Paolo. «Dopo la cena c’è sempre una piccola rappresentazione - racconta la volontaria - in questo caso una satira degli attacchi a don Paolo, per sdrammatizzare. Dalle 23.30 in poi si medita e riflette: altroché conto alla rovescia com’è stato scritto in quell’articolo…». Il suo ruolo, nella vita, se l’è ritagliato anche lui, don Paolo. «Dopo i vent’anni ho iniziato le esperienze di servizio, aiuto, volontariato in strada, seguendo poveri o ragazzi che si facevano d’eroina. Nel ’99 ho lasciato le altre attività, il lavoro da ingegnere e le lezioni di chitarra, per dedicarmi a tutto ciò insieme agli altri volontari. Nel 2004 siamo andati a parlare col parroco di Soave dell’epoca: cercavamo un posto e lui ci ha suggerito di rimettere in piedi la canonica di Fittà, a Soave. Da lì abbiamo sviluppato realtà di sostegno e relazioni con chi si occupa di chi è in difficoltà, cioè cooperative, Sert, associazioni. Nel 2012 sono diventato prete, studiando proprio con Cottarelli, e il vescovo mi ha mandato qui a Marcellise». Quella Marcellise dove don Paolo Pasetto è quasi un prete carbonaro. «Fra “colleghi” che condividono questo tipo di sensibilità ci si trova spesso per confrontarsi. Uno di noi, don Bruno Pozzetti, amava definirci “i diversamenti preti”. Io credo che il Vangelo si annunci col modo di vivere, bontà, povertà, attenzione per gli altri». Il che suona molto in armonia con Papa Francesco. «Qualche segnale buono l’ha dato. Ma le cose che dice le vivevano già, prima di lui, don Milani e don Mazzolari». Quel Mazzolari che don Paolo Pasetto cita quasi a memoria: «Diceva che i poveri sono come i bambini: quando entrano in casa ti “destabilizzano”, però quanta energia portano…». IL GAZZETTINO Pag 6 Il parroco di Bibione: “Correre in auto, un peccato da confessare” di Marco Corazza Bibione (Venezia). Che il parroco di Bibione fosse un grande comunicatore lo sapevano anche nella Chiesa Cattolica, ma che don Andrea Vena potesse sfondare mediaticamente oltreconfine, mettendo anche i cristiani automobilisti in castigo, non se lo aspettava nessuno. All'indomani della notizia pubblicata domenica sul Gazzettino in cui don Andrea ricordava, attraverso il bollettino parrocchiale, che erano stati installati due nuovi autovelox alle porte di Bibione e che l'eccesso di velocità va confessato essendo un peccato, il parroco è stato preso d'assalto dai giornali, radio e televisioni. «Il telefono non smette di suonare - ammette don Andrea - molti altri sono venuti direttamente in canonica. Tutti mi chiedono spiegazioni sul motivo per cui è peccato infrangere il codice stradale. Io sostengo che, essendo un eccesso, va confessato, anche perché chi corre mette a rischio la propria e altrui vita». E don Andrea Vena sostiene tra l'altro di rifarsi direttamente a Papa Francesco che a fine novembre durante l'Agnelus ribadì: «Esorto gli autisti alla prudenza e al rispetto delle norme, quale prima forma di tutela di sé e degli altri. C'è uno scarso senso di responsabilità da parte di molti conducenti, che sembrano spesso non avvedersi delle conseguenze anche gravi della loro disattenzione (per esempio con l'uso improprio dei cellulari) o della loro sregolatezza». RICERCATO - Un contesto ripreso dal parroco di Bibione, che ha fatto così il giro d'Europa. «Dai principali quotidiani d'Italia, a Rai e Mediaset mi hanno cercato tutti», ammette don Andrea, le cui ripetute prese di posizione sui più svariati temi hanno sollevato anche qualche perplessità in Comune. Addirittura la notizia è stato ripresa anche dai siti esteri sparsi nel vecchio Continente. E pensare che era stato lo stesso sindaco di San Michele/Bibione, Pasqualino Codognotto, a chiedere di divulgare al massimo la notizia dell'installazione dei due nuovi velox. «Prima della entrata in funzione abbiamo chiesto a tutti di far sapere che ci sono i due nuovi misuratori di velocità» aveva riferito il primo cittadino. L'assist è stato colto dal parroco che, a modo suo, ha saputo dare la massima visibilità, dopo che il comandante della Polizia locale Andrea Gallo gli ha inviato la comunicazione dell'installazione. Detto, fatto! Se in passato il prete ed il sindaco rispecchiavano proprio la saga di don Camillo e Peppone, sempre pronti a punzecchiarsi (ciascuno con le sue ragioni), in questo caso sono stati pronti a passarsi la palla con risultati... mondiali. Solo nei mesi scorsi il vulcanico sacerdote aveva attaccato

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l'amministrazione comunale per l'immagine di Bibione apparsa sulla stampa internazionale, quando sulla fine dell'estate le piogge avevano allagato il centro, convincendo qualche turista ad usare la tavola da surf tra le vie del salotto della località turistica. Una scesa in campo che non piacque al sindaco, pronto a richiamare il prelato. Ora, come nella famosa saga di Guareschi, si è passati nel periodo della distensione. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Sta tornando l’Europa. E l’Italia che fa? di Franco Venturini Da Merkel a Macron Mentre la svolta politica tedesca prepara il rilancio dell’Europa, un quesito che ci riguarda percorre le cancellerie della Ue: cosa dice, cosa fa l’Italia? Noi lo sappiamo bene, e lo sanno anche gli ambasciatori dei Paesi europei. Ogni giorno, gli ambasciatori, hanno il tormento di dover riferire alle loro capitali: l’Italia è impegnata in un viaggio della fantasia chiamato campagna elettorale, nel quale ad ogni tappa questo o quel protagonista costruisce il suo Palazzo Potemkin (dal nome del principe russo che per allietare la zarina Caterina II le faceva trovare lungo il cammino edifici dotati soltanto della facciata). Cosa vede, infatti, chi dal resto dell’Europa prova a captare i complessi segnali italiani? Vede che il Movimento 5 Stelle, primo partito italiano secondo i sondaggi, propone di cancellare la legge Fornero sulle pensioni (costo minimo per l’erario 25 miliardi l’anno). E che il candidato premier Luigi Di Maio afferma di voler tagliare il debito pubblico italiano del 40 per cento in otto anni, traguardo che Alberto Alesina e Francesco Giavazzi su queste colonne hanno assimilato alle favole. Vede altresì che la Lega condivide la cancellazione totale della Fornero e che Forza Italia, sua partner di coalizione, pare orientata ad associarsi dopo aver inizialmente sostenuto una parziale correzione della legge. Vede che il Partito democratico lancia l’abolizione del canone tv senza preoccuparsi del futuro dell’informazione televisiva pubblica e del suo impatto culturale. Vede che in questo campo Liberi e Uguali è andato oltre, sposando l’eliminazione delle tasse universitarie senza pensare al finanziamento degli atenei e alla qualità dello studio che deve andare di pari passo con l’auspicato aumento dell’occupazione. Questi sono i biglietti da visita che l’Italia sta distribuendo in Europa con l’approssimarsi dell’appuntamento elettorale del 4 marzo. Sarebbero davvero ingiusti o prevenuti, i nostri soci dell’Unione e dell’Eurogruppo, se scorgessero in questa giostra di propaganda e di provincialismo l’emergere di un populismo collettivo, meno aggressivo nella forma ma di certo più esteso di quelli che hanno scosso una dopo l’altra l’Olanda, la Francia, la Germania, persino l’Austria? Eppure esistono ragioni molto serie e molto concrete che dovrebbero indurre la nostra politica, tutta la nostra politica, a disegnare scenari futuri invece di limitarsi a battere la grancassa per distruggere quelli passati, oltretutto in un momento di crescita economica. Se il congresso della Spd non silurerà domenica l’accordo raggiunto tra Angela Merkel e Martin Schultz, la Germania avrà presto un nuovo governo fortemente europeista. L’asse franco-tedesco rinascerà più forte di prima, anche se a Berlino nessun politico, nemmeno Schultz, può permettersi di venir meno alle regole collettive per una severa gestione finanziaria. Oppure immaginare che l’Europa diventi quella tanto paventata «transfer union» che porterebbe la Germania a dover garantire per i debiti degli altri. La discussione con Macron sulle riforme da introdurre nell’Eurogruppo non sarà una passeggiata, ma produrrà comunque, per reciproco interesse, una maggiore integrazione europea accanto alle «diverse velocità» sancite lo scorso marzo a Roma. E per chiarire a tutti quale vento tiri, lunedì prossimo i Parlamenti tedesco e francese voteranno una risoluzione volta a creare un inedito «spazio economico franco-tedesco». L’Europa, insomma, si appresta a rimettersi in moto dopo una lunga stasi. L’Italia è pronta a fare la sua parte? Oggi no, per ragioni diverse. Per l’andamento di una campagna elettorale che va corretta in fretta, come abbiamo visto. Ma anche perché una vicinanza franco-tedesca troppo marcata non ha mai fatto piacere alla nostra diplomazia e alla nostra politica, come se esistessero spinte alternative capaci di far progredire il progetto

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europeo. Certo, al cospetto del duo trainante noi dobbiamo avere il peso necessario per difendere i nostri interessi, più che mai in un periodo di riforme. E possiamo legittimamente aspirare a far parte del «nocciolo duro» dell’Unione, senza pretendere di farlo in sostituzione di qualcun altro (la Francia, di solito). Ma i galloni si meritano, nelle proposte, nelle iniziative, nei numeri (ancora brutti) dell’economia, nella credibilità politica. Emmanuel Macron è venuto a proporci un Trattato del Quirinale tra Italia e Francia, ma non farà mai passare in secondo piano il Trattato dell’Eliseo tra Francia e Germania. Semmai, Parigi vuole incoraggiare una riscossa europeista della nostra politica interna. E vuole acquisire un maggior potere contrattuale verso Berlino, essendo le istanze francesi e quelle italiane assai simili su punti qualificanti. I giochi europei ricominciano, è normale. E l’Italia deve evitare di scoprirsi domani fuori dai giochi. Deve evitare che una campagna elettorale autolesionista faccia dimenticare quanto è stato fatto sui migranti. Deve riaffermare la sua dignità europea di Paese fondatore, ora che questa qualifica riprende quota in tempi di Brexit, di legittime divergenze transatlantiche e ancor più di lontananza del gruppo orientale di Visegrad. L’Europa sta già cambiando, mentre i nostri comizi guardano indietro. LA STAMPA I due fronti della sfida sui migranti di Marcello Sorgi Era inevitabile che il problema dell’immigrazione facesse irruzione nella campagna elettorale, dato che è stato argomento continuo di polemiche da almeno tre anni. Ma era francamente imprevedibile che Fontana, il neo-candidato leghista alla guida della Regione Lombardia, a una delle sue prime uscite paventasse addirittura la scomparsa della «razza bianca», un rischio mai minacciato neppure dal suo leader Salvini, pur avvezzo a parlare in termini crudi di immigrati, e di «ruspe» come rimedio per spazzare via i campi profughi dalle periferie delle nostre città. I paradossi di questa vicenda sono due. Il primo è che per quanto il centrodestra, soprattutto al Nord dove mira a stravincere, e dove l’immigrazione è argomento ultrasensibile, punti a farne il tema-chiave della propria propaganda, il problema degli sbarchi nel corso del 2017 ha subito un drastico ridimensionamento. Basta solo leggere i dati pubblicati sul sito del ministero dell’Interno per rendersi conto di cosa è accaduto. Dai 181.436 sbarchi del 2016 (con 5022 morti annegati nel Canale di Sicilia) si è passati ai 119.247 dell’anno appena concluso, con un decremento del 34 per cento: vuol dire che per ogni tre immigrati giunti due anni fa, l’anno scorso ne sono arrivati due. Se poi si passa a scomporre questi dati, si scopre che nella prima metà del 2017, da gennaio a giugno, si erano registrati oltre 83.000 arrivi, con un incremento, in questo caso, sul periodo corrispondente del 2016, del 18 per cento. Da luglio a dicembre, invece, sono approdati sulle coste siciliane (ma anche, in misura assai minore, calabresi, pugliesi e campane) «solo» 36.000 profughi, il 67 per cento in meno. Significa, per usare lo stesso paragone, che per ogni tre immigrati sbarcati nel 2016, nella seconda parte del 2017 ha toccato terra solo uno, o anche meno. Con un flusso come questo, che, va detto, non è affatto facile tenere costante, quest’anno il totale degli sbarchi potrebbe addirittura dimezzarsi. Si può discutere sul fatto che centomila o cinquantamila immigrati siano ancora troppi per l’Italia. E può darsi che effettivamente lo siano, è da vedere. Ma se contemporaneamente cominciasse a funzionare un po’ meglio il meccanismo della redistribuzione in Europa - che prevedeva che 160.000 fossero accolti nei Paesi partner dell’Unione, mentre ne sono stati ricollocati solo 31.000, e non soltanto dall’Italia - il problema, se non proprio risolto, potrebbe essere considerato gestibile, come appunto ha cominciato ad essere negli ultimi mesi. Il merito di questo capovolgimento della situazione, e della reale cancellazione della pretesa «invasione» degli immigrati (quella, per intendersi, di cui parla tutti i giorni Salvini e il gruppo dirigente della Lega e che ha portato Fontana a lanciare il grottesco allarme per la «razza bianca») è del ministro dell’Interno Minniti. Minniti è stato anche criticato da chi pensa che nel chiudere gli accordi che ha firmato in Libia con il nuovo (ma non dappertutto riconosciuto) governo, con le milizie e con le tribù, per frenare il flusso delle partenze, abbia adoperato forse troppa disinvoltura, senza curarsi, o senza curarsene troppo, del destino di coloro che avevano attraversato il deserto per imbarcarsi e venivano invece bloccati, non sempre in condizioni decenti o umanitarie, prima di affacciarsi sul mare. Un’inchiesta

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dell’Associated Press ha documentato come alcuni degli interlocutori del nostro ministro potessero essere precedentemente impegnati nel traffico di migranti, e forse proprio per questo si siano rivelati così efficaci nel rallentarlo. Dubbi e accuse da dimostrare, ovviamente. Mentre è sicuro che da quando Minniti, a febbraio 2017, ha firmato il primo accordo, nel giro di alcune settimane il grande fiume della migrazione ha cominciato a prosciugarsi. Qui però si materializza il secondo paradosso di questa storia. Un governo normale, una coalizione normale, un partito normale avrebbero tutto l’interesse a valorizzare il lavoro del proprio ministro. Se non lo fanno, o non lo possono fare, è perché all’interno di quel governo, di quella coalizione che peraltro deve ancora nascere e di quel partito esiste una scuola di pensiero che considera il lavoro di Minniti discutibile, non in linea con lo spirito di solidarietà che il Pd e il centrosinistra dovrebbero dimostrare, o addirittura contrario al dovere di accoglienza verso i disperati che arrivano dall’Africa. Non li sfiora l’idea che questi legittimi sentimenti possano trovare migliori soddisfazioni se il numero dei profughi diminuisce, anziché aumentare a dismisura, com’era accaduto nel 2014, ’15 e ’16. E soprattutto, al momento, nel Pd e nel centrosinistra l’immigrazione è tabù: perché se la Bonino si accorge di quel che ha combinato Minniti, potrebbe saltare la coalizione con i Radicali. AVVENIRE Pag 1 Ma che razza di politica di Giuseppe Anzani Il peso dei concetti e delle scelte

Ma che razza di uomo è un uomo che parla di razza quando parla di uomini? Già nel mio dire 'razza' su lui e sulle sue parole (ma che razza di parole) nel senso di tipo, sento il brivido d’una parola sconcia e insanguinata dalla storia se riferita a una diversità biologica o antropologica fra esseri umani. Per gli alunni di anni lontani, c’erano carte geografiche della terra con i colori delle varie razze, bianca nera gialla rossa viola, prima che la Costituzione cacciasse quella parola dai confini dell’eguaglianza nei diritti umani. Appena più tardi l’Unesco affermava l’appartenenza di ogni essere umano all’unica specie (1950), e nel 1978 collegando la catastrofe della guerra mondiale anche «al dogma dell’ineguaglianza delle razze e degli uomini» condannava il razzismo come «contrario ai princìpi morali ed etici dell’umanità». Oggi non c’è più nessuno che sul piano scientifico accetti la teoria delle razze. Sul piano dell’analisi genetica non ha fondamento. Le differenze che caratterizzano popoli ed etnie sono costrutti socioculturali; e anziché ostacolare l’unità della specie umana sono esse stesse espressione di diritti umani («diritto alla differenza»). In realtà, la teoria delle razze è servita nella storia a separare, dominare, sterminare. Scorrono sullo sfondo in pochi attimi i secoli dello schiavismo codificato e accettato senza sussulti etici sopra la vita torturata di milioni di esseri «sub-umani»; i secoli del colonialismo sfruttatore dei «selvaggi» e massacratore dei popoli autoctoni; gli anni centrali dell’ultimo secolo di sangue, con la fornace della Shoah a tener pura la razza ariana. Un filo rosso lega tutte le tragedie, ed è il concetto di razza superiore e di razza inferiore, di confronto identitario che cancella la qualità umana di chi è reputato appunto sub-umano, selvaggio, impuro. Finché perdura questa concezione di valore e di dominio, che espelle gli inferiori o i barbari o i 'musi colorati' dalla cerchia della famiglia umana, non basterà aver bandito dai discorsi la parola razza, sostituendola con etnia. Perché l’inimicizia fra le etnie, che pure reciprocamente si includono nella famiglia umana, è identicamente capace di paura e di odio, a rischio di tragedia, come avvenuto nei decenni trascorsi. Io non penso nemmeno per un attimo che la gente lombarda abbia di questi pensieri. Anzi è la più accogliente d’Italia, ospitando 1,3 milioni di stranieri. Provenienti da un arcobaleno di decine di Paesi diversi. Lavorano, pagano le tasse, mandano i figli a scuola. Alle università di Lombardia sono iscritti quasi un quarto di tutti gli universitari stranieri in Italia. Apprendono la cultura 'nostra'. E poi non credo neppure che il candidato presidente lombardo Fontana abbia inteso di proposito di seminare odio o disprezzo. No. Paura sì, però, paura cavalcata elettoralmente con fantasmi di «estinzione dell’etnia». Ma qui, appunto, con l’identità minacciata si insinua la dottrina della purezza etnica e della contaminazione. E non si capisce che la soluzione non è il rifiuto, ma l’integrazione. Farli nostri è il loro divenire nostri. Noi e loro, e ci richiamiamo 'noi'. Lo slogan che «non possiamo prenderli tutti» non sbianca le parole sbagliate. Lo sappiamo

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tutti che 'tutti non possiamo prenderli' (e del resto, gran parte chiede di migrare altrove). Ma quelli che possiamo prendere prendiamoli con noi. Di una cosa siamo totalmente sicuri, che sono della nostra stessa razza. Umana.

Pag 3 C’è vita oltre il biotestamento Felice Achilli: la relazione di cura vale più di un comma. Francesco D’Agostino: il dovere ultimo di affrontare la realtà (Felice Achilli) Viviamo in un tempo difficile e affascinante insieme, soprattutto in medicina. Lo sviluppo straordinario della conoscenza e della tecnologia ha consentito di raggiungere risultati assolutamente positivi, inimmaginabili solo alcuni decenni fa. Nello stesso tempo ci scontriamo quotidianamente con una disponibilità di risorse, umane e terapeutiche, non illimitate che obbligano chi ha la responsabilità della gestione della cura, a operare scelte di trattamenti che sempre più debbono essere non solo efficaci ma anche proporzionati ed efficienti (sostenibili) per il sistema. Lo sottolineava bene papa Francesco nel recente Messaggio al Meeting europeo della World Medical Association: «Trattamenti progressivamente più sofisticati e costosi sono accessibili a fasce sempre più ristrette e privilegiate di persone e di popolazioni, ponendo serie domande sulla sostenibilità dei servizi sanitari. Una tendenza per così dire sistemica all’incremento dell’ineguaglianza terapeutica». È esperienza di ogni medico, a qualsiasi livello operi, che la valutazione circa l’opportunità clinica di un trattamento terapeutico, dal più semplice e meno costoso sino ai farmaci e alle procedure a più alto costo, rappresenti una sfida quotidiana non semplice, soprattutto per la tipologia di malati che oggi giungono all’osservazione (ospedaliera e non), e che l’abbandono terapeutico, più che l’accanimento, rappresenti oggi il rischio maggiore. In sanità dare prevalenza al solo criterio puramente economico dell’utilizzo del minimo di risorse per rispondere al maggior numero di bisogni risulta inadeguato e potenzialmente nocivo. Il rischio di sottomettere la salute all’economia è oggi assai più che un problema teorico. Tale esigenza 'economica' costituisce un elemento non secondario nelle scelte che riguardano proprio quella popolazione che consuma la più elevata percentuale delle risorse sanitarie. Il malato dovrà fare il proprio cammino, dovrà affrontare il suo problema secondo le possibilità concesse dalla malattia che ha, ma egli pone a chi lo assiste – a tutte le persone che entrano in rapporto con lui – domande di aiuto, di cura, fino alla ineludibile domanda sul significato di ciò che gli accade. Per stare di fronte alla sofferenza degli uomini occorre mettersi in gioco personalmente tenendo presente anche questa domanda ultima. Proprio perché la cura sia adeguata occorre che la medicina non dimentichi questo livello dell’umano che emerge nell’esperienza del dolore. Per questo l’accanimento terapeutico, così come l’abbandono terapeutico, sono atteggiamenti inadeguati, innanzitutto perché riducono la domanda del malato: tentano di soffocarla con l’attivismo titanico o con il sottrarsi alla relazione di cura. Tutto questo rimane drammatico, richiede continue decisioni e verifiche, e va affrontato caso per caso. Cercare di 'normare' una relazione di cura con una legge più che contribuire a riaffermare la necessità di un consenso sempre più consapevole del paziente sino alla possibilità di rifiutare o interrompere i trattamenti finisce per sancire una frattura insanabile tra chi cura e chi è curato, legati invece non tanto da un 'interesse' se pur asimmetrico ma dalla stessa domanda di significato, il cui affronto è decisivo per vivere ciascuno il proprio percorso umano. C’è come una tentazione mortale a cui chi sceglie la cura dell’uomo malato come propria 'missione' non deve cedere: la presunzione di autoreferenzialità della medicina, e la sostituzione del principio della responsabilità con quello della regola, con conseguente riduzione del medico a applicatore di protocolli e di prestazioni tecniche. Negli ultimi 20 anni ciò che è veramente cambiato è l’idea che ogni aspetto del comportamento individuale debba essere sottomesso a una regola, convinti che ciò sia l’unico modo di tutelare la bontà dell’agire umano. Ne deriva un eccesso normativo, a tutti i livelli, fino a implicare la giurisprudenza di cui la legge sul biotestamento è solo l’ultimo esempio. Ma la realtà clinica ci chiede ben altro. La sfida che ogni giorno ci viene proposta dall’incontro con l’uomo sofferente ci costringe a esporci, a prendere una posizione, a entrare realmente in rapporto con l’altro. Papa Francesco ci indica un percorso che sfida ognuno, indipendentemente dal suo credo: «L’imperativo categorico è quello di non abbandonare mai il malato. L’angoscia della

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condizione che ci porta sulla soglia del limite umano supremo, e le scelte difficili che occorre assumere, ci espongono alla tentazione di sottrarci alla relazione. Ma questo è il luogo in cui ci vengono chiesti amore e vicinanza, più di ogni altra cosa, riconoscendo il limite che tutti ci accomuna, e proprio lì rendendoci solidali». Non crediamo che la legge approvata in Parlamento cambi sostanzialmente la vera sfida che le professioni sanitarie hanno davanti a loro, non solo relativamente alle cure di fine vita, ma in generale nella relazione medico-paziente: la necessità di un’esperienza umana integrale nel proprio lavoro. È innegabile tuttavia che essa inutilmente irrigidisce i rapporti tra medico, paziente e parenti/tutori, aumentando il rischio di conflitti, ed è per questo potenzialmente dannosa. A tale proposito sarebbe opportuno almeno introdurre, come sostenuto dagli ambienti cattolici e riconosciuto dalla stessa ministra della Salute Beatrice Lorenzin, l’obiezione di coscienza nel caso il medico non sia d’accordo con le disposizioni di fine vita o con le decisioni dei parenti/tutori. Invitiamo tutti i professionisti a compiere ogni sforzo per riportare l’attenzione di tutti sulla vera natura del rapporto che costituisce tutte le professioni sanitarie (di cui il fine vita è solo un parte), perché solo in tale relazione meglio possono essere prese tutte le decisioni nella ricerca, umile, del vero bene per ogni uomo. (Francesco D’Agostino) Assuntina Morresi è convinta che la legge sul consenso informato e sulle Dat, approvata lo scorso 14 dicembre, «cambi radicalmente alcuni paradigmi fondamentali della nostra società». Gian Luigi Gigli sostiene che «non è rispettosa della libertà dei medici, come delle istituzioni sanitarie ispirate da idealità che porterebbero a non applicare norme da cui possa derivare la volontaria anticipazione della morte del paziente». Martina Pastorelli rileva che nella legge non si fa cenno all’obiezione di coscienza, che è «un valore anche laico… e che fonda i diritti umani perché insegna che lo Stato non è l’ultimo depositario del Bene». In tre appassionati articoli, apparsi mercoledì su 'Avvenire' continuando il dibattito aperto dall’editoriale del direttore Tarquinio dopo l’approvazione della nuova normativa da parte del Parlamento, si sostiene, sotto diverse angolature, che la prossima legislatura dovrà sciogliere «i nodi di una legge controversa». Sono perfettamente d’accordo: a una condizione, però. Che prima di tornare ad affrontare questi nodi, li si sappia esattamente individuare. Cosa che purtroppo nessuno degli autori dei tre ultimi articoli compie, a mio parere, in modo soddisfacente: essi entrano, con efficacia, nei particolari della nuova legge, ma non sembrano volerne percepire il senso globale. Il cuore della questione, infatti, possiamo racchiuderlo in questa considerazione (amara, ma inoppugnabile): la nuova legge sancisce il consolidarsi della bioetica (come 'nuovo' paradigma morale) al posto dell’etica medica tradizionale. Sancisce legalmente il passaggio da un’etica medica classica, ippocratica, paternalistica ad un’etica medica post-classica, postippocratica, anti-paternalistica. Introduce in modo irreversibile un’antropologia del consenso informato come base indiscutibile di ogni pratica medica. Si noti che, contrariamente a quanto pensa la professoressa Morresi, non è la nuova legge a cambiare il paradigma sanitario della nostra società; è l’avvenuto cambiamento di questo paradigma che, dopo anni di durissimi e faticosissimi dibattiti, si è alla fine consolidato legalmente anche in Italia, come era inevitabile che avvenisse. Dobbiamo compiacercene? Per nulla. Dobbiamo reagire? Certamente, e in modo appropriato. La nuova legge è qualificata da un paradigma che un cattolico non può condividere: un paradigma individualistico, funzionalistico, economicistico e soprattutto eticamente freddo. Ma è il paradigma oggi dominante nell’Occidente secolarizzato; ha un formidabile ancoraggio giuridico (l’art. 32 della nostra Cost. che fino a epoche recentissime non abbiamo mai voluto prendere sul serio), è calibrato sui protocolli sanitari più consolidati, risponde nel modo ottimale alla psicologia dominante oggi tra i medici, ma soprattutto prende atto del profondo mutamento che ha eroso la dimensione personalistica della medicina e ne ha esaltato la dimensione tecnologica. La lotta contro questo paradigma potrà anche assumere le forme di una battaglia per modificare la legge appena approvata; ma non è primariamente attraverso battaglie parlamentari che si muta l’etica della medicina contemporanea. Peraltro, la nuova legge nasce da mediazioni faticose e preziose, che i suoi avversari non sottolineano adeguatamente e che potrebbero anche andare perse, ove la legge venisse riformulata. Si legga il solo art. 1. Il suo 2° comma, ad esempio, esalta «la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico» e dà doveroso spazio al

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coinvolgimento delle famiglie dei pazienti; il comma 5 impone al medico ogni azione di sostegno, anche psicologico, al paziente competente e informato che intenda rinunciare alle cure, per indurlo a ritornare sulla propria decisione; il comma 7 stabilisce che nelle situazioni di emergenza bisogna comunque assicurare al malato le cure necessarie; il comma 10 introduce il principio secondo cui la formazione dei medici comprende quella «in materia di relazione e di comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative» e infine il 6° comma stabilisce il diritto del medico a rifiutare le indicazioni del paziente, quando queste esigano trattamenti «contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alla buone pratiche clinico-assistenziali». Il che esclude - ribadisco un parere che anch’io ho già espresso anche su queste colonne - che la legge sulle Dat possa essere interpretata, come molti avventatamente fanno, come un’«apertura all’eutanasia». Quale dovrebbe essere, in conclusione, il corretto atteggiamento dei cattolici nei confronti della legge? Lo riassumerei in tre punti. In primo luogo, cercare di depoliticizzarla: le grandi questioni di etica pubblica vanno sottratte, nei limiti del possibile, alle battaglie parlamentari, che riescono solo a involgarirle e a strumentalizzarle. In secondo luogo, i cattolici devono riconoscere la pervasiva dimensione secolare assunta oggi dalla medicina; accettare questa dimensione non significa ovviamente umiliare eticamente le pratiche mediche, ma affidare la loro dimensione spirituale alla pastorale prima che al diritto. In terzo luogo, operare nei confronti dell’autodeterminazione del malato lo stesso sforzo ermeneutico che venne operato dai cattolici nei confronti dell’autodeterminazione democraticoelettorale: come ogni singolo voto in democrazia è insindacabile (ma non sacro!), così va ritenuta insindacabile (ma non sacra!) la volontà del paziente nel paradigma post-ippocratico. Ci aspettano tempi difficili, di riformulazione di idee che ci sembravano immutabili; ma abbiamo il dovere di rispondere sempre alle provocazioni della realtà, anche quando essa non è come vorremmo che fosse. Pag 24 Italiano, una lingua d’incenso di Giacomo Gambassi Da lavabo a pilatesco: il nostro vocabolario è ricco di parole e locuzioni di uso comune che derivano dal linguaggio della Chiesa Se oggi un politico può essere definito un “sepolcro imbiancato” da qualcuno che lo taccia di ipocrisia oppure se può essere chiamato un “giuda” perché magari ha tradito il suo partito, lo dobbiamo alla lingua della Chiesa. Se un parlamentare che ritorna nel raggruppamento in cui è stato eletto può essere apostrofato come “figliol prodigo” oppure un sindacalista che vuol rovesciare il tavolo di una trattativa viene descritto come colui che “semina zizzania”, lo dobbiamo al vocabolario evangelico. Se in televisione Il grande fratello, reality emblema della volgarità, ha il suo “confessionale” oppure è possibile parlare di “via crucis” per un lavoratore che attende l’agognata assunzione, è merito dell’italiano ecclesiastico. Che ci ha regalato anche l’espressione “mea culpa”, cara a chi riconosce i propri errori persino in pubblico, oppure la locuzione altrettanto familiare “Deo gratias” che spesso viene usata in modo per lo più sarcastico quando si è finalmente concluso un incontro noioso o è giunto il ritardatario di turno. «La lingua della comunità cristiana non soltanto ha arricchito l’italiano, ma l’ha talmente plasmato che parole risalenti al cristianesimo delle origini o comunque di matrice cattolica sono entrate a far parte del parlato e dello scritto quotidiano e da tempo hanno acquistato un senso traslato fino a diventare metafore di cui magari non si conoscono bene le radici», spiega Rita Librandi, docente di Linguistica italiana e Storia della lingua all’Università “L’Orientale” di Napoli e autrice del libro L’italiano della Chiesa (Carocci; pagine 128; euro 12,00). Subito la studiosa cita un esempio: «La locuzione “capro espiratorio”, utilizzata per indicare chi sconta colpe altrui, è popolare. Eppure soltanto i credenti colti sono ancora in grado di ricondurla al passo dell’Antico Testamento dove si descrive il rito con cui gli ebrei sacrificavano un capro per chiedere perdono dei propri peccati. Infatti, nel Levitico, il sommo sacerdote Aronne sorteggiava tra due capri quello da uccidere per offrirlo in segno di espiazione al Signore e quello da lasciare libero nel deserto». Se si apre un dizionario e si cerca un termine ecclesiastico, non è raro che venga classificato come vocabolo di settore. «È indubbio che il linguaggio della Chiesa sia di per sé specialistico – afferma Librandi –. Esso ha uno statuto proprio che è legato all’ambito biblico, teologico, spirituale. Le parole della fede possono essere ritenute

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tecnicismi. Ma hanno una peculiarità: molte rientrano nell’italiano di base, ossia in quel bacino di 6 o 7mila parole che formano il lessico del cittadino medio. Prendiamo il vocabolo “battesimo”. Consultando il Grande Dizionario De Mauro in sei volumi edito da Utet, il lemma è contrassegnato dalla sigla “Ts”, cioè tecnico-specialistico. Ma al tempo stesso appartiene all’italiano di base. Di fatto un termine che ha un significato circoscritto perché rinvia a un sacramento è diventato patrimonio di un’ampissima fetta della popolazione». Così accade che lo si possa impiegare per riferirsi al primo volo in aereo che non a caso è chiamato il “battesimo dell’aria”. «La stessa cosa non è avvenuta e non avviene per i tecnicismi della medicina, della matematica o della finanza», chiarisce la linguista. Un altro caso di scuola? Pilato. Se nel Nuovo Testamento è giustamente un nome proprio, la lingua di tutti i giorni vuole che “pilato” sia chiunque per vigliaccheria o quieto vivere non si assume le proprie responsabilità. E la sua vitalità lessicale ha prodotto negli ultimi decenni una lunga serie di derivati: da “pilatesco” al neologismo “pilatescamente”, al centro addirittura di una sentenza della Corte di Cassazione nel 2014. Persino la parola “lavabo”, intesa come lavandino, ha genesi religiose: deriva dal futuro latino lavabo («laverò») che si legge in un versetto del Salmo 26 ed era ripetuto dal sacerdote al momento di lavarsi le mani durante la Messa. Che dire poi delle parole conclusive di una celebrazione eucaristica, “La Messa è finita”, trasformate da Nanni Moretti nel titolo di un suo film del 1985. Oppure di “unto del Signore” con cui Silvio Berlusconi si presentò a una convention politica del 1994. «La pratica religiosa è parte fondamentale della vita degli italiani – osserva la docente –. E anche quando la società si è progressivamente laicizzata, con l’unificazione del Paese e soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, l’educazione religiosa e ancora di più il sentimento cristiano non sono venuti meno. Ecco perché il nostro parlare contempla vocaboli e immagine bibliche nonostante un individuo possa non essere credente». Non è l’unico lascito linguistico della comunità ecclesiale. «Oggi la Chiesa è il principale megafono dell’italiano all’estero – sottolinea Librandi –. Benché resti il latino la sua lingua ufficiale, quella più usata è la nostra. Pensiamo agli interventi in italiano dei Pontefici che hanno un’eco planetaria oppure al fatto che moltissimi sacerdoti, religiosi e religiose dei cinque continenti, impegnati negli studi a Roma, siano tenuti a imparare l’italiano. Questo fa sì che la nostra sia una sorta di lingua veicolare all’interno del mondo ecclesiale». La Chiesa è anche una straordinaria scuola di “lettere”: dal Verbo ai verbi. «La comunicazione è la parole d’ordine del nostro tempo che ha facilitato la globalizzazione – dice la linguista –. Tuttavia sul fronte della comunicazione nessuno può insegnare alla Chiesa. Anche se parla un linguaggio specialistico, è in grado di spiegare alla gente concetti complessi in modo comprensibile. Lo fa, come testimonia già la Sacra Scrittura, con riferimenti alla vita concreta, con metafore, con similitudini. Anche così il vocabolario ecclesiale si è fatto bagaglio condiviso. Tutto ciò sfata il falso mito di una Chiesa oscurantista, disinteressata alle persone comuni: puntando sulla predicazione e sulla catechesi ha educato anche linguisticamente per secoli gli italiani, ben prima che l’Italia ci fosse in quanto tale». E ancora oggi la Chiesa arricchisce il dizionario collettivo. «Lo dimostra papa Francesco. Alcune sue intuizioni sono diventate espressioni linguistiche in voga: da “Chiesa in uscita” a “cultura dello scarto”, passando per “globalizzazione dell’indifferenza” o “Terza guerra mondiale a pezzi” – conclude la studiosa –. La loro fortuna è connessa principalmente alla cassa di risonanza mediatica che le porta nelle case. Certo, non sappiamo quanto resisteranno nel tempo. Però si sono ritagliate un posto d’onore negli scritti e nelle conversazioni di questi anni». IL GAZZETTINO Pag 1 La cura greca banco di prova per frenare i falchi della Ue di Giulio Sapelli La Grecia continua a essere un punto di riferimento per capire quale potrà essere il futuro dell'Europa. Una domanda tanto più importante in queste ore, quando in Germania la crisi di governo non è ancora conclusa per le resistenze che l'Spd manifesta in merito al programma di austerity che sino a oggi costituisce il cuore della politica economica dell'Unione Europea. Nell'agosto del 2018 scadrà il piano di bail-out, ossia il terzo piano di salvataggio che ha determinato, come i precedenti, la nuova fisionomia dell'economia e della società greca. Se si fa riferimento ai rapporti finanziari della Grecia con i mercati internazionali, i dati sono positivi: lo spread tra i titoli pubblici nazionali e il

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decennale tedesco ha raggiunto quota 336, livello più basso dal 2010 e dopo aver raggiunto il picco di 3.440 nel 2012. Se ragioniamo sulla base di questi dati possiamo essere ottimisti, come lo sono molti dei tecnocrati europei e come lo è stato recentemente il commissario Pierre Moscovici; e possiamo pensare che dopo l'agosto 2018 la Grecia potrà fare da sé senza bisogno di salvataggi internazionali. Del resto, il piano d'intervento fatto proprio dall'Ue sotto la pressione del Fondo monetario internazionale, è stato il più imponente della storia, per un totale di 326 miliardi di euro. Già nel settembre 2017 i ministri delle Finanze dell'Unione Europea avevano dichiarato l'uscita della Grecia dalla procedura per deficit eccessivo, cui era stata sottoposta per l'elevato rapporto deficit/Pil, giunto oltre il 15%. Oggi quel valore è decisamente migliorato e si prevede che scenda sotto il 3%, come del resto è indicato dal Patto di stabilità. Ma se si guarda alle conseguenze sociali di queste misure di austerità, emerge una situazione che è tutt'altro che positiva. Dal 2010 la Grecia ha perso un terzo del suo Pil e mezzo milione di greci sono emigrati all'estero mentre, nello stesso arco di tempo, il 20% più povero della popolazione ha perso il 42% del potere d'acquisto e il tasso di disoccupazione ruota attorno al 21%, ossia tra i più alti d'Europa, nonostante la diminuzione che è avvenuta negli ultimi due anni. Se si guarda poi agli stipendi medi e ai redditi dei lavoratori, questi sono costantemente diminuiti, con un incremento spettacolare della povertà e un abbassamento drastico dei redditi dei pensionati. Del resto, gli aiuti che sono giunti alla Grecia, sono serviti per pagare il debito ai creditori internazionali e dell'Ue, ma non per dar vita a nuovi investimenti oppure per ridurre in minima parte l'austerità per avere spazio di manovra rispetto alle emergenze, come quelle dei flussi migratori che hanno profondamente colpito l'economia greca. Vale la pena di considerare anche, cosa che in genere non viene fatto, che i soli settori dell'economia greca che sono migliorati sono quelli in qualche modo connessi alla stessa situazione di crisi che ho ora richiamato. Si conferma così la tesi dell'economista Albert Hirschman che, studiando settant'anni or sono le crisi dell'America del Sud, riteneva che più che i piani di salvataggio, per la ripresa economica di quei paesi bisognava piuttosto puntare sullo sviluppo endogeno, guardando proprio alle modificazioni strutturali prodotte dalla crisi. La Grecia è un esempio di questo: il turismo ha avuto uno sviluppo spettacolare per il crollo del prezzo dei servizi dovuto alla deflazione in corso, mentre il settore manifatturiero che più è cresciuto - peraltro tra i pochi ad aver aumentato produzione ed esportazione negli ultimi cinque anni (64%) - è quello della produzione di alcolici, grazie al ritorno nelle campagne e nelle isole delle famiglie impoverite che prima vivevano nelle città e che, con i loro risparmi, hanno rimesso in moto le produzioni agricole e agro-industriali tradizionali. Anche l'olio di oliva ha aumentato non solo la qualità ma anche la quantità, prodotta ed esportata. Il tutto usando spesso le catene migratorie, ossia la diaspora greca all'estero, soprattutto in Australia e negli Stati Uniti. D'altra parte, settori stabili sono rimasti l'industria chimica e tutte le attività legate al trasporto, per l'arrivo di investimenti stranieri connessi soprattutto alle privatizzazioni dei porti e delle imprese del trasporto locale, dei porti e degli aeroporti. I costi sociali sono tuttavia altissimi, e la società greca oggi, che comincia a sentire il leggero miglioramento della situazione economica, proprio per questo ha dato vita a un'ondata di mobilitazione collettiva che si è espressa soprattutto con i grandi scioperi di massa che si sono via via ampliati raggiungendo, in questi giorni, un livello sinora mai visto. Dinanzi a tali mobilitazioni, ispirate soprattutto dagli antichi quadri del Partito comunista dell'interno e della stessa Syriza (il partito del premier Alexis Tsipras), il governo non ha saputo fare altro che emanare una nuova legge che innalza il quorum del referendum, che già oggi è necessario per proclamare legalmente uno sciopero, sconfessando così le stesse promesse elettorali di Tsipras che quel referendum dichiarava di voler eliminare. Sicché imponenti sono gli scioperi nel settore pubblico, guidati da un carismatico dirigente del movimento operaio, Odyssseus Trivalas, fatto che crea non poche difficoltà al governo e in primo luogo a Tsipras. Il governo greco è così stretto tra Scilla e Cariddi. Da un lato se si obbedisce alle misure imposte dalla Troika si può pensare di riconquistare una sorta di nuova indipendenza nella politica economica: prospettiva che nell'ultima visita di Tsipras negli Stati Uniti ha avuto l'incoraggiamento di Donald Trump e della direttrice del Fmi, Christine Lagarde. Entrambi hanno ribadito che, oltre al programma di salvataggio in corso, si dovrà passare alla cancellazione del debito greco, per aumentare - ha affermato Trump - la cooperazione economica Grecia-Usa. Ma se si

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guarda verso Cariddi, si corre il rischio di perdere le prossime elezioni che si terranno nel 2019, sfidando quell'innaturale coalizione di governo tra Syriza e Anel, partito della destra nazionalista. I sondaggi danno in testa oggi il partito di centro-destra Nea Demokratia, con il 33%, mentre Tsipras è al 15,5% e Anel al 7,5%. Per questo l'obiettivo principale di Tsipras, oggi, è di ottenere una ristrutturazione del debito, raggiungendo una scadenza decennale, così da poter attuare delle politiche espansive, senza più carichi fiscali e attacchi all'occupazione, soprattutto nel settore pubblico. Se il governo greco raggiungerà quest'obiettivo, sarà evidente che è possibile intravedere una via alternativa all'austerità, così come sta accadendo con successo in Portogallo. Quella civilissima nazione troppo dimenticata ma che potrebbe avere, unitamente alla Grecia, un ruolo esemplare per rinnovare profondamente l'Unione Europea. Pag 3 Migranti, la linea dura vale quasi il 30% dei voti di Diodato Pirone Il tema è il secondo più sentito dagli elettori dopo quello del lavoro Il martellamento sul tema dell'immigrazione dei leader del centro-destra, le dichiarazioni del capo dei 5Stelle, Luigi Di Maio, e le sortite elettorali programmate dal ministro dell'Interno, il Pd Marco Minniti, che nel 2017 ha messo un freno agli sbarchi di profughi, ha alla base una spiegazione semplicissima: attaccare o contrastare gli immigrati porta voti. Quanti? Fra il 25 e il 30%. Tutti i carotaggi dei sondaggisti concordano sul fatto che quasi un terzo degli italiani voteranno per i partiti che promettono rigore su questo punto. Con alcuni dettagli estremamente interessanti: ad esempio il 20% dell'elettorato di centro-sinistra (quindi poco meno di due milioni di italiani orientati a sinistra) sono sensibili al tema e vedono con allarme e preoccupazione la condivisione con famiglie di immigrati di strumenti di assistenza e di welfare come le case popolari o la sanità gratuita. «L'immigrazione è il secondo tema più sentito dagli italiani dopo quello del lavoro che tuttavia lo distanzia nettamente - spiega Enzo Risso, direttore dell'istituto demoscopico triestino SWG - Si tratta di un argomento trasversale che tocca soprattutto le fasce medio-basse della popolazione». PIOGGIA DI NUMERI - Risso correda le sue considerazioni con una pioggia di numeri e tabelle. Se il lavoro è considerata la prima emergenza dal 54% degli italiani, la parola d'ordine bloccare gli immigrati è gradita al 28% degli elettori. Non solo. Se si analizza la tabella della SWG pubblicata in alto e dedicata ai driver del voto si osserva che il tema delle tasse è considerato il più importante (58%) ma che quello del Pensare prima agli italiani è il secondo come importanza (48%) e contribuisce a determinare l'orientamento di voto del 30% degli italiani. «In realtà quella tabella è interessante anche perché evidenzia i diversi umori degli italiani sul tema dell'immigrazione - spiega Risso - Infatti, una linea più dura come quella rappresentata dallo slogan Fermare gli immigrati raccoglie un consenso inferiore del 5% circa rispetto al più morbido Pensare prima gli italiani». «Il contrasto all'immigrazione piace moltissimo agli italiani - conferma Antonio Noto, direttore Ipr - E' una molla più forte al Nord che al Sud e molto robusta nelle periferie dei grandi centri urbani. Sarà certamente uno dei temi che determinerà il risultato delle elezioni del 4 marzo». «Quota 30%» è il numero presente anche nelle analisi di altri sondaggisti. «Secondo le nostre rilevazioni un terzo degli italiani non sta avvertendo la ripresa ed è la stessa fascia di popolazione che vede ridursi contemporaneamente i suoi livelli di protezione sociale - spiega Carlo Buttaroni direttore di Tencé - E' evidente che questi segmenti di elettori, concentrati nelle periferie delle grandi città, non vedano di buon occhio il flusso migratorio verso l'Italia e non si accorgono neanche della sua diminuzione perché la presenza dei migranti arrivati negli anni scorsi non è stata ancora smaltita. Le parole d'ordine anti-immigrati sono rivolte quasi esclusivamente a questi elettori». Non a caso, comunque, il ministro del governo Gentiloni maggiormente popolare in questo momento è quel Marco Minniti che dal Viminale ha fatto in modo di ridurre drasticamente gli sbarchi sulle coste italiane durante il 2017. «Minniti piace al 25% degli italiani - conferma Risso -. Ed ha lo stesso livello di consenso di Pier Carlo Padoan che guida il Tesoro. No, decisamente non è un dato casuale». LA NUOVA Pag 1 Autoinganni del Carroccio in confusione di Mariano Maugeri

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Diceva Abramo Lincoln: "Potete ingannare tutti per qualche tempo e qualcuno per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre". La Lega è nel caos, un caos che genera paradossi e inganni. In questo caso, almeno dopo le dimissioni di Bobo Maroni, trattatasi di autoinganno. Che le fratture tra bossiani e salviniani fossero sempre più scomposte è cosa nota. Nessuno però avrebbe scommesso un cent che nel bel mezzo di una trattativa delicatissima tra Stato e Regione Lombardia, il principale protagonista di una trattativa che il 22 ottobre aveva chiamato il popolo lombardo al referendum si sfilasse dal negoziato. Col risultato - primo paradosso - di ritrovarsi a un tavolo in cui le figure apicali, il primo ministro Paolo Gentiloni che gestisce gli Affari regionali ad interim dopo le dimissioni del ministro Enrico Costa, e l'ex governatore lombardo sono dimissionari. Che credibilità può avere siffatta trattativa? L'ha capito al volo il povero Luca Zaia - ormai sempre più isolato e unica anima nordista sopravvissuta (e sopportata) nella Lega salviniana - che il 10 di gennaio ha fatto diramare ai suoi portavoce un comunicato in cui si parla di "pre-intesa" - secondo paradosso - con il governo Gentiloni che poi passerà al vaglio del prossimo esecutivo. E qui, se le parole hanno un senso, siamo a una retromarcia clamorosa alla luce dei proclami roboanti che seguirono i primi abboccamenti romani con il sottosegretario Gianclaudio Bressa, ormai unico inquilino del dicastero di via della Stamperia, in procinto pure lui di trasferirsi armi e bagagli a Bolzano, il suo collegio, per la campagna elettorale. La possibilità di chiudere il negoziato prima delle elezioni era solo una boutade frutto dell'eccitazione post referendum. Troppo complessa è la materia, soprattutto per il Veneto che reclama l'adozione del modello sudtirolese. A Milano in via Bellerio i musi sono lunghi: i bossiani si sentono ringalluzziti dopo che il "leninista" Bobo ha dato dello "stalinista" a Matteo. Appellativi e riferimenti seppelliti dalla storia che non raccontano la vera partita in corso tra Arcore e la sede federale del movimento leghista. La resurrezione insperata del Cavaliere, fino a un anno fa dato per spacciato, ha seppellito il progetto sovranista di Salvini che puntava a intercettare il voto borghese e conservatore tradito da Forza Italia e da Berlusconi, al Sud come al Nord. Per quattro anni il leader della Lega ha portato il suo verbo in lungo e in largo per l'Italia. Ma invece di irrobustire i territori e di reclutare le competenze più brillanti della borghesia veneta, lombarda, emiliana, ha preferito arroccarsi in compagnia di una sorta di guardia repubblicana composta da 40enni di belle speranze, in gran parte, con l'eccezione di Giancarlo Giorgetti, con due caratteristiche precipue: essere milanesi e suoi amici. Un limite - terzo paradosso - che sta emergendo con drammaticità ora che si stanno compilando le liste per le elezioni di marzo. Matteo dovrebbe finalmente avere il coraggio di azzerare la componente bossiana e aprirsi alla società civile delle regioni industriali del Grande Nord che intende rappresentare. Un lavoro che finora non ha avuto neppure il tempo di compiere, inseguito dall'ossessione, inconsciamente ereditata da Umberto Bossi, di accreditarsi come uomo solo al comando. Di fronte alla rimonta di Forza Italia, la Lega e Salvini si ritrovano di fronte tutte le contraddizioni trascurate colpevolmente nel corso di questi anni. Le dimissioni di Maroni sono il detonatore che ha fatto deflagrare la Lega e la sua usurata classe dirigente. Attilio Fontana è un uomo per bene, ma, come è emerso plasticamente nella conferenza stampa dell'11 gennaio a Milano, appare privo di una visione all'altezza di una delle regioni più ricche e dinamiche d'Europa. E i quarantenni di Matteo - quarto paradosso - sono troppo acerbi e inesperti per scalare le posizioni di vertice. In questo quadro per nulla esaltante, il Veneto gioca sempre il ruolo di provincia dell'impero. A livello nazionale - o federale, come preferiscono i leghisti - piaccia o non piaccia i giochi sono in mano ai lombardi. Una vecchia storia dai tempi in cui Fabrizio Comencini guidò la diaspora, poi abortita, dei consiglieri regionali del Veneto. A quei tempi, il giovane Luca Zaia, impeccabile nei suoi blazer blu e i capelli impomatati, elargiva sorrisi e pacche sulle spalle nel suo ruolo di presidente della Provincia di Treviso, sempre attento a non inimicarsi qualcuno. L'imprinting democristiano ha assicurato alla Lega lunga vita ma ne ha stroncato la spinta propulsiva. Salpare dal ribellismo, d'accordo, a patto che l'approdo fosse il federalismo radicale e compiuto. Un partito di scopo, insomma, che avrebbe dovuto sciogliersi raggiunto l'obiettivo che si prefiggeva. Altro che le sirene seduttive e corruttive di Roma piaciona. La missione è fallita, e ora l'Italia rischia di implodere a causa di una forma di Stato obsoleta che frena il Nord nella competizione internazionale e impedisce al Sud di rinascere. Uno stallo che

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pagheranno caro i nostri figli e i nostri nipoti. Ecco perché la Lega ha ingannato prima di tutto se stessa, i suoi militanti e i milioni di elettori che - quinto paradosso - per un quarto di secolo hanno creduto a questi capipopolo. Pag 1 I Cinque Stelle paradossi post moderni di Massimiliano Panarari Il Movimento 5 Stelle ci sta abituando ai paradossi. Anzi, per dirla tutta, nella sua natura unica nel panorama politico nazionale (e continentale), il Movimento 5 Stelle e il grillismo (che ne rappresenta, nella sua "ragione sociale" sincretica e contraddittoria, l'unica ideologia di riferimento, "fatta in casa" e autoprodotta) costituiscono degli autentici paradossi postmoderni. E questa è la motivazione per la quale i pentastellati stanno svolgendo un'efficacissima pesca elettorale a strascico, che rastrella voti da bacini piuttosto differenti, con il nucleo duro delle giovani generazioni e con la possibilità di un boom senza precedenti nel Sud (fra logiche di identificazione con il suo gruppo dirigente, ribellismo "di lunga durata", e sostegno crescente da parte di ceti intellettuali in chiave "antagonistica" e antisistema). Una cavalcata trionfale che viene infarcita dall'ennesimo paradosso: quello - tra la perdurante crisi dei rifiuti romani e le vicissitudini della giunta torinese intorno al bilancio (con le dimissioni in blocco del collegio dei revisori dei conti) - che vede gli enti locali conquistati non rappresentare l'annunciata palestra di buongoverno di cui avvalersi alla stregua di una piattaforma di "affidabilità" per la scalata a palazzo Chigi, ma tramutarsi inesorabilmente in altrettanti talloni d'Achille. Originariamente la funzione di tribuna d'onore della capacità di governo locale grillino spettava a Roma. Ma, dopo il "commissariamento" da parte dei vertici politici e della Casaleggio Associati, le aspettative di vetrina sono state spostate sulla Torino espugnata dalla "sabauda" Chiara Appendino, finita a sua volta alle prese con vicissitudini piuttosto gravi (dalla tragedia di piazza San Carlo alla fuoriuscita del capo di gabinetto, fino ai continui problemi sul bilancio e le partecipate). E lo ha certificato la recente freddezza nei suoi confronti da parte del capo politico e candidato premier (anche se, vista la legge elettorale, queste designazioni anticipate hanno valenza puramente comunicativa) Luigi Di Maio. Come pure la sua dura presa di posizione immediata verso la consigliera comunale "dura e pura" Deborah Montalbano, assai disinvolta nell'uso privato dell'auto blu (la quale, peraltro, rappresenta un "pesce piccolo", tranquillamente scaricabile con le elezioni politiche imminenti). Il punto è che il M5S costituisce un movimento che intercetta voto d'opinione stratificato e "multilivello", fatto di famiglie di elettori differenti, come recentemente ribadito dai lavori del sociologo e sondaggista Paolo Natale. Quelli di tipo ideologico (i "veri credenti"), gli ex della sinistra radicale, gli antisistemici strutturali, gli ex di destra (e di destra radicale), e gli elettori favorevoli al meccanismo del «tanto peggio tanto meglio» (con la finalità di "scassare" il sistema). Raggruppamenti e constituencies che si compensano vicendevolmente: quando cala una componente ne sale un'altra, tutte quante unificate dalla macro-issue del voto anticasta e antipolitico. Ecco perché le scadenti performance nei Comuni non intaccano il consenso, che anzi sale - anche perché la narrazione complottista (secondo uno storytelling letteramente favolistico, alla Vladimir Propp, dove l'eroe viene ostacolato dall'antieroe antagonista) funziona comunque su una porzione rilevante dell'elettorato, e deresponsabilizza, tenendoli al riparo dalle critiche, i diretti interessati (gli amministratori locali). Come pure i dirigenti nazionali che si avvalgono ancora spesso della rivendicazione della "virtù dell'incompetenza" (quale mancata "compromissione" con la politica) dei loro portavoce-cittadini comuni, proprio mentre stanno intensamente ricercando per le candidature al Parlamento tecnici e professionisti.Vale a dire, giustappunto, l'ennesimo - e nient'affatto penalizzante - paradosso (postmoderno) pentastellato. Torna al sommario