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RASSEGNA STAMPA di lunedì 15 maggio 2017 SOMMARIO “La libertà di noi moderni – scriveva Chiara Giaccardi su Avvenire di ieri - tende a costruirsi su una doppia uccisione simbolica: quella di Dio padre e quella della Madre terra. Così si esprimeva più di mezzo secolo fa la filosofa Hannah Arendt. Della prima molto è già stato scritto. Dalla terra si vuole evadere, per conquistare lo spazio; ma soprattutto si vuole approfittarne, sfruttandola come materia a nostra completa disposizione. Insomma, la libertà moderna si afferma negando il fatto che noi siamo “figli di”, che non ci siamo fatti da soli, e che questo ha delle implicazioni. Di rispetto, di gratitudine, di fratellanza. Di senso del limite. Chissà cosa direbbe Arendt oggi, di fronte al programma determinato di smontare e rendere pleonastica la funzione materna. Proprio lei che aveva fatto dell’idea di “natalità”, il fondamento della libertà! Forse il giorno della festa della mamma è un’occasione per fermarsi a riflettere sul suo significato, anziché lasciarsi prendere dalle forme di consumo che hanno banalizzato questa ricorrenza. Il rapporto tra maternità e libertà è tutt’altro che scontato. In molte culture tradizionali la donna è identificata totalmente con la funzione riproduttiva (tota mulier in utero), resa possesso dell’uomo oltre che privata della sua integrità personale. Il femminismo radicale, per reagire alle forme persistenti di oppressione, ha fatto coincidere la rivendicazione della libertà con la negazione della funzione materna (tota mulier sine utero). Oggi, con l’idea di fabbricare la vita, anche attraverso la maternità surrogata, si arriva a uno smembramento del corpo femminile nuovamente ridotto a funzione (uterus sine muliere), senza nemmeno più il rapporto col bambino. La parabola della liberazione si avvita su se stessa, prefigurando nuove forme di schiavitù, ancora più inquietanti di quella della società paternalistica. E questa volta la contestazione diventa molto più difficile, perché la retorica della libertà avvolge ogni cosa, neutralizzando a priori la possibilità di critica, vista come un voler porre limiti alla libertà. La produzione di viventi, ultima frontiera del sistema tecno-economico, mira a rendere pleonastico il codice materno della generazione rigenerazione. L’uomo fabbrica, mentre la donna genera. Smontare questa differenza in nome del diritto individuale alla genitorialità è impoverire il mondo attraverso l’ennesima prevaricazione violenta nei confronti della donna. Il codice materno, nella sua tensione vitale tra comunione intima e differenza, tra condivisione totale – di sangue e fluidi – eppure rinuncia al possesso, è esemplare nella sua capacità di aprire una via più umana per abitare il mondo. Via fatta di dono reale di sé per l’altro. Perché il dono non si può comprare, o si chiama in altro modo: contratto. Dove una delle due parti, nella società della retorica dell’uguaglianza, è schiava dell’altra, o merce. E non è solo una questione privata. Se si riparte dalla madre, forse la società può fare un passo fuori dalla crisi mondiale che è insieme economica, politica e simbolica. Non è utopistico pensare a un contributo anche politico delle madri alla “democratizzazione della democrazia”, oltre l’astratto regime delle equivalenze o l’idolatria maschile dell’onnipotenza che produce guerra e conflitto sociale. Quando cerca di definire che cos’è la responsabilità, il filosofo Emmanuel Lévinas propone proprio l’immagine del “portare l’altro”: la maternità come figura concreta dell’etica. Il corpo della donna è il primo ambiente dell’essere umano, luogo di ospitalità fisica e psichica. Tempio della pulsione di vita, scena inaugurale di una umanità nuova. Alleanza che non si chiude nell’io-tu ma include il padre, le generazioni di ieri e quelle di domani. Madre è crocevia di destini, termine relazionale per eccellenza, identità insieme piena e definita da altri. Libertà di accettare l’altro nella sua alterità e farsi rimettere al mondo da questo incontro che sorprende. Violentare questo mistero della vita, trasformare la maternità nella fabbricazione di bambini ridurre la donna a individuo senza legami è condannarsi a “inciampare in se stessi, aggrovigliarsi nella nostra ombra”, come ha scritto Maria Zambrano. E non è un caso che le società che non fanno figli ma vogliono fabbricare

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 15 maggio 2017

SOMMARIO

“La libertà di noi moderni – scriveva Chiara Giaccardi su Avvenire di ieri - tende a costruirsi su una doppia uccisione simbolica: quella di Dio padre e quella della Madre terra. Così si esprimeva più di mezzo secolo fa la filosofa Hannah Arendt. Della prima molto è già stato scritto. Dalla terra si vuole evadere, per conquistare lo spazio; ma

soprattutto si vuole approfittarne, sfruttandola come materia a nostra completa disposizione. Insomma, la libertà moderna si afferma negando il fatto che noi siamo

“figli di”, che non ci siamo fatti da soli, e che questo ha delle implicazioni. Di rispetto, di gratitudine, di fratellanza. Di senso del limite. Chissà cosa direbbe Arendt

oggi, di fronte al programma determinato di smontare e rendere pleonastica la funzione materna. Proprio lei che aveva fatto dell’idea di “natalità”, il fondamento della libertà! Forse il giorno della festa della mamma è un’occasione per fermarsi a riflettere sul suo significato, anziché lasciarsi prendere dalle forme di consumo che hanno banalizzato questa ricorrenza. Il rapporto tra maternità e libertà è tutt’altro che scontato. In molte culture tradizionali la donna è identificata totalmente con la

funzione riproduttiva (tota mulier in utero), resa possesso dell’uomo oltre che privata della sua integrità personale. Il femminismo radicale, per reagire alle forme

persistenti di oppressione, ha fatto coincidere la rivendicazione della libertà con la negazione della funzione materna (tota mulier sine utero). Oggi, con l’idea di

fabbricare la vita, anche attraverso la maternità surrogata, si arriva a uno smembramento del corpo femminile nuovamente ridotto a funzione (uterus sine

muliere), senza nemmeno più il rapporto col bambino. La parabola della liberazione si avvita su se stessa, prefigurando nuove forme di schiavitù, ancora più inquietanti di quella della società paternalistica. E questa volta la contestazione diventa molto più difficile, perché la retorica della libertà avvolge ogni cosa, neutralizzando a priori la possibilità di critica, vista come un voler porre limiti alla libertà. La produzione di

viventi, ultima frontiera del sistema tecno-economico, mira a rendere pleonastico il codice materno della generazione rigenerazione. L’uomo fabbrica, mentre la donna

genera. Smontare questa differenza in nome del diritto individuale alla genitorialità è impoverire il mondo attraverso l’ennesima prevaricazione violenta nei confronti della donna. Il codice materno, nella sua tensione vitale tra comunione intima e differenza, tra condivisione totale – di sangue e fluidi – eppure rinuncia al possesso, è esemplare nella sua capacità di aprire una via più umana per abitare il mondo. Via fatta di dono reale di sé per l’altro. Perché il dono non si può comprare, o si chiama in altro modo: contratto. Dove una delle due parti, nella società della retorica dell’uguaglianza, è schiava dell’altra, o merce. E non è solo una questione privata. Se si riparte dalla madre, forse la società può fare un passo fuori dalla crisi mondiale che è insieme economica, politica e simbolica. Non è utopistico pensare a un contributo anche politico delle madri alla “democratizzazione della democrazia”, oltre l’astratto

regime delle equivalenze o l’idolatria maschile dell’onnipotenza che produce guerra e conflitto sociale. Quando cerca di definire che cos’è la responsabilità, il filosofo

Emmanuel Lévinas propone proprio l’immagine del “portare l’altro”: la maternità come figura concreta dell’etica. Il corpo della donna è il primo ambiente dell’essere

umano, luogo di ospitalità fisica e psichica. Tempio della pulsione di vita, scena inaugurale di una umanità nuova. Alleanza che non si chiude nell’io-tu ma include il padre, le generazioni di ieri e quelle di domani. Madre è crocevia di destini, termine

relazionale per eccellenza, identità insieme piena e definita da altri. Libertà di accettare l’altro nella sua alterità e farsi rimettere al mondo da questo incontro che

sorprende. Violentare questo mistero della vita, trasformare la maternità nella fabbricazione di bambini ridurre la donna a individuo senza legami è condannarsi a “inciampare in se stessi, aggrovigliarsi nella nostra ombra”, come ha scritto Maria

Zambrano. E non è un caso che le società che non fanno figli ma vogliono fabbricare

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esseri viventi siano così poco ospitali. “Maggio” viene dal sanscrito mahi, che significa la grande madre, la Terra. In tutte le culture è il mese della fioritura, dello sbocciare,

della vita che esplode e ci trascina con sé. È il tempo dove si celebra quell’evento miracoloso e sacro che è la maternità, paradigma di ogni relazione etica. Privarci di

questa esperienza non penalizza solo le donne, ma tutta l’umanità” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA LA NUOVA di sabato 13 maggio 2017 Pag 20 Messa per Cè, “vero esempio di sacerdote” di n.d.l. Moraglia: segno di gratitudine che dura nel tempo 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 14 maggio 2017 Pag 1 Il silenzio e la preghiera di g.m.v. Pag 7 Prezioso tesoro Nel saluto ai malati AVVENIRE di domenica 14 maggio 2017 Pag 1 Saper stare accanto di Riccardo Maccioni Maria e la sapienza dei piccoli Pag 3 Cerco giovani che siano “domani” di Ernesto Olivero Lettera-preghiera a Dio e chi, insieme, farà la storia Pag 5 Francesco su Medjugorje: la Vergine non fa la postina di Mimmo Muolo “Ma lì tanta gente incontra Dio e si converte” Pag 6 Francesco: Fatima ci dice che abbiamo una Madre Alla Messa di canonizzazione dei due fratellini: “Sotto il suo manto di luce i figli non si perdono” Pag 6 Quel centro di spiritualità “profetizzato” da suor Lucia di Luigi Gaetani Pag 15 Sermig, la pace contagi il mondo di Umberto Folena Padova, 60mila al quinto appuntamento mondiale dei giovani CORRIERE DELLA SERA di domenica 14 maggio 2017 Pag 21 I dubbi di Francesco su Medjugorje: “Trump? Non giudico, gli parlerò” di Gian Guido Vecchi e Luigi Accattoli Il Papa proclama santi i bimbi di Fatima. Sulle apparizioni: poco valore in quelle attuali. E anche Bergoglio si riconosce nella “profezia” AVVENIRE di sabato 13 maggio 2017 Pag 1 Il segreto non segreto di Stefania Falasca Papa Francesco e “lo stile di Maria” Pag 6 “Dio perdona sempre. Il cristiano è mariano” Il Papa a Fatima: la Madonna sacramento della misericordia. La preghiera Pag 14 Sermig, giovani in piazza: “L’odio non ci fermerà” di Umberto Folena A Padova il quinto appuntamento mondiale IL FOGLIO di sabato 13 maggio 2017 Pag 2 Che cosa ci siamo persi di Fatima parlando soltanto dei tre segreti di Matteo Matzuzzi

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Francesco oggi canonizza i pastorelli, parla Antonio Grasso Pag III Chiesa straniera di Mattia Ferraresi Vivremo la fede in un mondo post cristiano? Il vescovo Camisasca risponde con una storia d’amore 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 24 Centenari d’Italia di Federico Fubini C’è un nuovo ceto sociale, quello dei grandi anziani CORRIERE DELLA SERA di domenica 14 maggio 2017 Pag 27 La possibilità di essere madre di Silvia Vegetti Finzi Ieri avere figli era destino ineludibile. Oggi la maternità è un patrimonio: le donne lo valorizzino AVVENIRE di domenica 14 maggio 2017 Pag 2 Ripartire dalla madre (e ritrovare il padre) di Chiara Giaccardi Oggi sia festa, non per retorica ma per umanità 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 14 maggio 2017 Pag II Tre buone ragioni per puntare i fari sulla sfida di Mira di Tiziano Graziottin LA NUOVA di domenica 14 maggio 2017 Pag 38 Offerte dei fedeli rubate in chiesa di r.p. Caorle: sparite dalle cassette alcune decine di euro dalla cappella di Ottava Presa LA NUOVA di sabato 13 maggio 2017 Pag 34 Don Giovanni beato, comune di Eraclea sotto accusa di g.ca. … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’occasione europea dell’Italia di Angelo Panebianco Noi e i Paesi forti Pag 28 I valori su cui scommettere nel disordine delle ideologie di Mauro Magatti IL GAZZETTINO Pag 1 Quale ruolo per i nuovi “soldati” di Marco Ventura Pag 1 Il populismo rosso porta al suicidio la sinistra di Schulz di Marco Gervasoni Pag 13 Più sovrano che presidente. I francesi in Macron cercano il physique du role di Alessandra Graziottin LA NUOVA Pag 1 In piazza con la felpa populista di Francesco Jori CORRIERE DELLA SERA di domenica 14 maggio 2017 Pag 1 Potere e domande scomode di Luciano Fontana Le accuse ai media Pag 30 L’incognita Donald Trump sul futuro dell’America di Alan Friedman Pag 38 Due Europe per salvare l’Europa di Roberto Esposito ed Ernesto Galli della

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Loggia Anima e valori mediterranei complementari a quelli germanici. Ma serve crederci IL GAZZETTINO di domenica 14 maggio 2017 Pag 1 Legge elettorale, la forza della Francia e la debolezza italiana di Romano Prodi LA NUOVA di domenica 14 maggio 2017 Pag 1 Macron e le piccole patrie di Vincenzo Milanesi Pag 5 Un furto informatico che sa di guerra fredda di Claudio Giua CORRIERE DELLA SERA di sabato 13 maggio 2017 Pag 1 Idee vecchie (e inutili) sulla spesa di Dario Di Vico Lib-lab e populisti Pag 1 La nemesi bancaria di Francesco Verderami Pagg 2 – 3 Il ricatto globale degli hacker. Colpiti ospedali e grandi aziende di Luigi Ippolito, Guido Olimpio e Massimo Sideri Il virus rubato e la guerra elettronica delle spie. Dati sanitari, gestori telefonini: come possono arrivare a noi? Pag 6 Il Quirinale si prepara a una nuova mediazione di Massimo Franco LA REPUBBLICA di sabato 13 maggio 2017 Pag 1 Il Paese incerto e senza fiducia di Ilvo Diamanti AVVENIRE di sabato 13 maggio 2017 Pag 2 A 18 anni si può e si deve eleggere il Senato. O no? di Marco Morosini Una riforma costituzionale che si può ancora fare Pag 3 Se il magistrato moralista cerca il processo esemplare di Paolo Borgna Quando nasce un legame tra stampa e indagini penali Pag 3 Salviamo il figlio di Antonella e Alfio di Maurizio Patriciello Dramma della povertà, riflessione sull’aborto IL GAZZETTINO di sabato 13 maggio 2017 Pag 1 Non è razzismo, è soltanto buon senso di Mario Ajello Pag 18 I vaccini nel paese dei balocchi di Bruno Vespa Pag 19 Le bombe anarchiche non producono consenso tra la gente di Alessandro Orsini LA NUOVA di sabato 13 maggio 2017 Pag 1 Bocciata l’azienda Italia di Bruno Manfellotto

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA LA NUOVA di sabato 13 maggio 2017 Pag 20 Messa per Cè, “vero esempio di sacerdote” di n.d.l. Moraglia: segno di gratitudine che dura nel tempo

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Venezia. A tre anni dalla scomparsa del patriarca Marco, il suo ricordo è vivo nel cuore dei veneziani che ieri alle 18.30 si sono riuniti in Basilica per un momento di raccoglimento. Fedeli, religiose, sacerdoti guidati dal patriarca Francesco Moraglia - che ha celebrato la messa - hanno pregato per il pastore Marco che fece l’ingresso in diocesi nel 1979, giorno dell’Epifania. Per il patriarca emerito Marco Cè: riconoscenza, preghiera, bontà, saggezza. Queste le parole del presule: «La riconoscenza dell’antico padre Marco diventi preghiera per quella che è stata la sua Chiesa. Il suo era un cuore buono e saggio di pastore». Nell’omelia Moraglia ha ringraziato i tanti veneziani per la loro presenza e salutato il fedele segretario don Valerio Comin (non presente): «Il vostro è un segno di gratitudine e amore che dura oltre il tempo». Il presule si è soffermato a rievocare la figura del cardinale Cè che «Dio ha dato a lungo come guida e primo servitore di questa Chiesa. Un vero esempio di sacerdote, un uomo ricco di fede, di umiltà, di vera carità». Per la Chiesa veneziana quest’anno ricorrono i 200 anni di presenza del seminario patriarcale nell’attuale sede della Salute. Moraglia ha ricordato che il Patriarca Marco, insegnante e rettore al seminario di Crema, aveva grande attenzione per i giovani seminaristi. A conclusione il Patriarca ha annunciato che il 26 maggio alle 18.30 in Basilica sarà celebrata una messa in suffragio del cardinale Loris Capovilla, 100 anni, ad un anno dalla sua morte. Monsignor Carlo Seno tratteggerà la spiritualità del sacerdote veneziano. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 14 maggio 2017 Pag 1 Il silenzio e la preghiera di g.m.v. Il primo gesto del Papa a Fátima è stato una lunga preghiera davanti alla piccola statua della Vergine alla quale ha poi offerto l’antichissimo omaggio della rosa d’oro. In un silenzio impressionante, rotto solo dai cinguettii degli uccelli benché fossero centinaia di migliaia le persone presenti nell’enorme spianata dove nell’ultimo cinquantennio sono venuti tre suoi predecessori. E proprio la preghiera è lo scopo del viaggio brevissimo di Bergoglio, che al rosario serale si è definito pellegrino della luce, della pace, della speranza. Un pellegrino venuto solo per pregare la «signora dalla veste bianca» che un secolo fa ha manifestato «i disegni della misericordia di Dio», lui «come vescovo vestito di bianco» giunto per ricordare quelli che «vestiti di candore battesimale vogliono vivere in Dio e recitano i misteri di Cristo per ottenere la pace» ha detto il Pontefice. E ha continuato: saremo così «la Chiesa vestita di bianco, del candore lavato nel sangue dell’Agnello versato anche oggi nelle guerre che distruggono il mondo in cui viviamo». Sullo sfondo del viaggio essenziale di Paolo VI che a Fátima venne per implorare la pace, anche il pellegrinaggio di Francesco si colloca in una contemporaneità contraddittoria, evocata dal suo segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, durante la messa celebrata mentre ormai era scesa la notte, nel buio punteggiato da migliaia di candele: un secolo dopo la prima apparizione della Vergine, mentre l’Europa era devastata dal conflitto, oggi la pace viene affermata e sembra ovvia, ma al tempo stesso per milioni di persone è lontanissima, al punto che con piena ragione il Papa parla di una guerra mondiale «a pezzi», diffusa e alimentata da inconfessabili interessi economici. Cent’anni dopo gli avvenimenti del 1917 il Pontefice ha canonizzato i più giovani veggenti di Fátima, i due fratellini Francesco e Giacinta Marto. E già la sera del 13 maggio la seconda «non riuscì a trattenersi e svelò il segreto alla mamma: “Oggi ho visto la Madonna”. Essi avevano visto la Madre del cielo» ha detto Bergoglio, notando che solo loro l’avevano vista e aggiungendo: «Maria non è venuta qui perché noi la vedessimo: per questo avremo tutta l’eternità, beninteso se andremo in Cielo». La Vergine infatti, «presagendo e avvertendoci del rischio dell’inferno a cui conduce una vita, spesso proposta e imposta, senza Dio e che profana Dio nelle sue creature, è venuta a ricordarci la luce di Dio che dimora in noi e ci copre». Ecco dunque il segreto di Fátima, un messaggio che certo non è racchiuso in rivelazioni sensazionali. «Nessun grande mistero viene svelato; il velo del futuro non viene squarciato» ha scritto nel 2000 il cardinale Ratzinger, perché il senso del messaggio è quello di «mobilitare le forze del

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cambiamento in bene», dopo un secolo segnato da guerre tremende e da persecuzioni della Chiesa. Senso ricordato da Francesco con le parole di Paolo VI: «Se vogliamo essere cristiani, dobbiamo essere mariani, cioè dobbiamo riconoscere il rapporto essenziale, vitale e provvidenziale che unisce la Madonna a Gesù e che apre a noi la via che a lui ci conduce». Seguendo semplicemente il cammino indicato dal Vangelo, come ha fatto Maria, la sua prima testimone. Pag 7 Prezioso tesoro Nel saluto ai malati Prima di impartire la benedizione finale della messa per la canonizzazione il Papa ha

salutato gli ammalati presenti.

Cari fratelli e sorelle malati, come ho detto nell’omelia, il Signore sempre ci precede: quando passiamo attraverso una croce, Egli vi è già passato prima. Nella sua Passione, Egli ha preso su di sé tutte le nostre sofferenze. Gesù sa cosa significa il dolore, ci capisce, ci consola e ci dà la forza, come ha fatto a San Francesco Marto e Santa Giacinta, ai Santi di tutti i tempi e luoghi. Penso all’apostolo Pietro, incatenato nella prigione di Gerusalemme, mentre tutta la Chiesa pregava per lui. E il Signore ha consolato Pietro. Ecco il mistero della Chiesa: la Chiesa chiede al Signore di consolare gli afflitti come voi ed Egli vi consola, anche di nascosto; vi consola nell’intimità del cuore e vi consola con la fortezza. Cari pellegrini, davanti ai nostri occhi abbiamo Gesù nascosto ma presente nell’Eucaristia, come abbiamo Gesù nascosto ma presente nelle ferite dei nostri fratelli e sorelle malati e sofferenti. Sull’altare, noi adoriamo la Carne di Gesù; in questi fratelli, noi troviamo le piaghe di Gesù. Il cristiano adora Gesù, il cristiano cerca Gesù, il cristiano sa riconoscere le piaghe di Gesù. Oggi la Vergine Maria ripete a tutti noi la domanda che fece, cento anni or sono, ai Pastorelli: “Volete offrirvi a Dio?”. La risposta - “Sì, lo vogliamo!” - ci dà la possibilità di capire e imitare la loro vita. L’hanno vissuta, con tutto ciò che essa aveva di gioia e di sofferenza, in un atteggiamento di offerta al Signore. Cari malati, vivete la vostra vita come un dono e dite alla Madonna, come i Pastorelli, che vi volete offrire a Dio con tutto il cuore. Non ritenetevi soltanto destinatari di solidarietà caritativa, ma sentitevi partecipi a pieno titolo della vita e della missione della Chiesa. La vostra presenza silenziosa ma più eloquente di molte parole, la vostra preghiera, l’offerta quotidiana delle vostre sofferenze in unione con quelle di Gesù crocifisso per la salvezza del mondo, l’accettazione paziente e persino gioiosa della vostra condizione sono una risorsa spirituale, un patrimonio per ogni comunità cristiana. Non vi vergognate di essere un prezioso tesoro della Chiesa. Gesù passerà vicino a voi nel Santissimo Sacramento per manifestarvi la sua vicinanza e il suo amore. Affidategli i vostri dolori, le vostre sofferenze, la vostra stanchezza. Contate sulla preghiera della Chiesa, che da ogni parte si innalza verso il Cielo per voi e con voi. Dio è Padre e non vi dimenticherà mai. AVVENIRE di domenica 14 maggio 2017 Pag 1 Saper stare accanto di Riccardo Maccioni Maria e la sapienza dei piccoli Santi, veggenti, testimoni della verità, ma pur sempre bambini. Come tutti gli altri. Con i graffi sulle ginocchia, gli occhi che si colorano di stupore, la voglia e insieme il timore di crescere. I pastorelli canonizzati ieri dal Papa a Fatima sono un inno alla sapienza del cuore umi-le, un dono di misericordia, una pagina vissuta del Vangelo dei piccoli. Ma quanta fatica per scriverla. Nel breve respiro della loro esistenza, spezzato dall’epidemia di “spagnola”, Francesco e Giacinta Marto hanno dovuto superare prove molto difficili. A cominciare, ed è forse l’esame più duro, dall’incredulità di chi ti vive accanto, dall’ironia dei grandi e dei saggi, compreso chi “per mestiere” si occupa ogni giorno delle cose di Dio. Ma non c’è da meravigliarsene troppo, perché quella divina è una logica che sovverte le regole del pensare comune, ti spinge controcorrente, “va alla rovescia”. Insegna che è grande chi si umilia, che per trovare amore devi donarlo, che la vera ricchezza consiste nell’offrire tutto. Ci vuole coraggio per capirlo, e l’entusiasmo di chi sa ancora sognare, serve la “santa incoscienza” dei piccoli. La fiducia assoluta del figlio

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preso per mano dalla mamma, e che in virtù di quel legame di tenerezza si sente pronto ad affrontare il mondo, a superare ogni ostacolo, a immergersi, senza perdere la strada, nei labirinti del cuore. Non a caso le prime parole ai veggenti, oltre a Francesco e Giacinta la cugina suor Lucia dos Santos morta nel 2005, della «Signora più luminosa del sole» sono un delicato invito a non avere paura. Una sollecitazione che oggi più che mai vale per tutti e per ciascuno. Mentre a ogni latitudine si invocano muri e crescono le barriere, la Vergine che anche e soprattutto è Madre degli esclusi, dei diseredati, delle vittime dell’ingiustizia, chiede fiducia nell’amore divino, parla di sacrifici e sofferenze, assicura la potenza, il conforto della preghiera. Fatima ci dice che il cielo è vicino, che siamo chiamati alla luce, che abbiamo una Madre. Scegliendo, per manifestarsi, dei pastorelli poveri e ignoranti, Maria “spiega” la logica del Vangelo. Sottolinea che, nel vocabolario di Dio potere significa “servizio”, successo fa rima con umiltà, essere grandi vuol dire consapevolezza di non potercela fare da soli. L’hanno capito benissimo Giacinta e Francesco, piccoli di età ma giganti agli occhi del Signore. Forti della granitica semplicità della loro fede bambina, cui la Madonna indica la strada che porta alla vita nuova, una via fatta anche di rinunce, morte a se stessi, sofferenza. Eppure Francesco e Giacinta rimangono bambini, con la preoccupazione di non vedere più i propri cari nell’aldilà, con il santo dolore per i peccati, con l’innocente candore di chi conosce poco del mondo ma vorrebbe stringerlo al cuore in un unico abbraccio. Fratelli eppure profondamente diversi. Più contemplativo e nutrito di preghiera Francesco, maggiormente sensibile alla presenza di Dio negli altri, Giacinta. Dobbiamo a loro il riconoscimento che anche i piccoli possono essere santi, che non solo il martirio apre loro la strada del cielo, che l’età dello spirito non coincide necessariamente con quella anagrafica. I due pastorelli, nove anni Francesco e sette Giacinta quando videro Maria, sono i bambini del Magnificat, oltre le logiche del mondo degli uomini, un modello e insieme una meta per chi è cresciuto. Perché non è mai troppo tardi per ritornare piccoli, per imparare a fidarsi delle cose di Dio, per capire che le lacrime sono un po’ meno pesanti con qualcuno accanto. È la lezione dell’umiltà, che oggi impariamo dai pastorelli. Perché i bambini lo sanno, sanno l’importanza di stare con gli altri, sanno la forza di una carezza, sanno che il pane condiviso ha più sapore. Soprattutto sanno l’importanza di avere accanto una madre, quella terrena e la Vergine che a Fatima ci indica la strada della santità semplice, umile, possibile a tutti. La via maestra per arrivare al Signore. In lei è il bello, il saggio e il buono della maternità. In lei il culmine dell’umanità. Scrive san Luigi Grignion de Montfort: «Dio Padre ha radunato tutte le acque e le ha chiamate mare, ha radunato tutte le grazie e le ha chiamate Maria». Pag 3 Cerco giovani che siano “domani” di Ernesto Olivero Lettera-preghiera a Dio e chi, insieme, farà la storia Cari amici, vorrei scrivere una lettera, ma una lettera dal cuore, davvero dal cuore. Vorrei che questa fosse una lettera-preghiera. Vorrei trovare le parole giuste per aiutare ogni uomo, ogni donna, ognuno di noi, a capire chi siamo. Possibile che l’ultima guerra mondiale non ci abbia insegnato nulla? Una guerra finita dopo due bombe atomiche, che uccisero in un colpo solo centinaia di migliaia di persone. E le tante guerre ancora in corso sparse nel mondo? Possibile che la storia continui a non essere maestra? E oggi che dire dei morti di fame? Se li mettessimo insieme, uno sopra l’altro, vedremmo una catasta di cadaveri che arriverebbe fino al cielo. Oppure, pensiamo ai giovani. Quanti ancora devono morire di droghe e di niente, perché qualcuno decida di fare qualcosa? Quanti ancora devono scappare dai propri Paesi, affrontando viaggi infami, trovando anche la nostra indifferenza? Tutto questo purtroppo non ci turba più. Eppure, il mio cuore e la mia mente non si rassegnano. E nel silenzio chiedono: «Cos’altro ancora deve succedere per farci dire basta?» La verità è che l’uomo non è ancora diventato uomo, non è ancora diventato pienamente umano. E questo male rischia di bloccare tutto, di impaurire anche la speranza. Nonostante tutto, vorrei trovare le parole giuste per dire che l’oltre è nelle nostre mani e che solo la saggezza può renderlo presente. Ma cos’è la saggezza? È fare della commozione un’occasione per cambiare, dire no alla guerra, per chiedere un organismo internazionale finalmente credibile, capace di intervenire di fronte alle ingiustizie, fosse anche per salvare una piccolissima minoranza. Saggezza è chiedere, senza ideologie e strumentalizzazioni, un disarmo totale ed effettivo perché

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nessuna guerra è giusta. Saggezza è non uccidere per nessun motivo, a maggior ragione nel nome di Dio. Perché Dio dice: «Non uccidere!». Il nostro mondo non deve più costruire armi perché le armi uccidono. Uccidono veramente, uccidono i sogni dei giovani, uccidono la loro creatività, uccidono l’amore che hanno dentro. Le armi non devono più essere costruite. Quando entreremo finalmente nella saggezza di Isaia, nelle parole profetiche che indicano un mondo in cui le armi saranno tramutate in strumenti di lavoro e i popoli non si eserciteranno più nell’arte della guerra? Vorrei che questa lettera preghiera fosse anche una richiesta di perdono per tutte le persone morte ingiustamente. E vorrei che questa lettera commuovesse Dio. Perché Lui esiste, ha un volto, ha un nome, ha un cuore. Se questa commozione diventerà il nostro respiro, il mondo cambierà. E la nostra unica passione sarà educare i bambini, sarà dare vita a ogni uomo, a ogni donna, sarà garantire con ogni sforzo casa, lavoro, cure e istruzione per tutti. Questa commozione farà miracoli se avvolgerà soprattutto il cuore dei giovani, le loro speranze, le loro attese. Giovani che con la commozione nel cuore cambieranno davvero la loro vita. Entreranno in politica e faranno bene il loro dovere con onestà e passione. Si sposeranno e formeranno famiglie accoglienti e credibili. Diventeranno preti, imam o rabbini e saranno uomini di Dio. Avranno una responsabilità e la vivranno come un’occasione di servizio. Avranno una cultura e la condivideranno con gli ultimi. Solo con questa commozione, potremo costruire una normalità di bene, che farà del bene a tutti. Una normalità che lentamente ma decisamente ci aiuterà a vedere nell’altro il nostro volto, a scoprire che la nostra felicità si rispecchia solo nella felicità degli altri. La felicità che noi stessi possiamo alimentare e custodire certi che «se ripartiamo dall’amore l’odio non ci fermerà». Ma tutto questo diventerà 'domani' se i giovani ci metteranno la loro faccia, la loro vita, il loro impegno e lo ameranno perdutamente. Lo spero con voi, con ognuno di voi. Cerco giovani che con me vogliano essere questo domani. Vi voglio bene! Padova 13 maggio 2017 Prato della Valle

Pag 5 Francesco su Medjugorje: la Vergine non fa la postina di Mimmo Muolo “Ma lì tanta gente incontra Dio e si converte” Su Medjugorie la commissione Ruini ha fatto «un lavoro molto molto buono». E se sulle prime apparizioni, o presunte tali, «si deve continuare ad investigare», sulle ultime il Papa – «a livello personale», come precisa egli stesso – ritiene che ci siano molti dubbi. «Credo alla Madonna nostra Madre buona, non a quella capo di un ufficio telegrafico» che detta al telegrafo ogni giorno a certa ora i suoi messaggi. Ma visto che nel santuario bosniaco ci sono molte conversioni, aggiunge, bisogna provvedere pastoralmente ai fedeli. Francesco ha risposto così a una delle domande postegli dai giornalisti a bordo dell’aereo che da Fatima lo ha riportato a Roma. Mezz’ora di conferenza stampa in cui, se ha sostanzialmente “chiuso” sulle “apparizioni” mariane più recenti in Bosnia, ha invece lasciato aperto più di uno spiraglio al presidente Donald Trump che verrà in Vaticano il 24 maggio prossimo. «Mai giudico una persona prima di ascoltarle e sentirla». Quanto poi al «vescovo vestito di bianco», immagine che figurava nella preghiera letta venerdì davanti alla Vergine e che sembrava riferire anche a se stesso la visione del terzo Segreto (oltre che a Giovanni Paolo II), con sincerità rivela: «Quella preghiera non l’ho scritta io, ma il Santuario. Credo che abbiano cercato di esprimere con il bianco l’innocenza, il non fare male, il non fare la guerra». Lotta alla pedofilia, rapporto con i luterani e passi avanti con i lefebvriani, alcuni degli altri temi trattati. Mentre sulle accuse alle Ong Francesco, riconoscendo di non avere tutti gli elementi per dire la sua, ha auspicato che le indagini stabiliscano la verità. Questione Medjugorie - Il Papa racconta dell’ottimo lavoro fatto dalla Commissione presieduta dal cardinale Camillo Ruini, di «alcuni dubbi nella Congregazione della dottrina della fede» e della decisione dell’ex Sant’Uffizio di inviare ad ognuno dei membri del “parlamentino” interno tutta la documentazione, anche quei pareri che sembravano contro il rapporto Ruini. A quel punto Francesco è intervenuto chiedendo al prefetto, cardinale Müller, di inviare a lui personalmente le opinioni, le quali «tutte sottolineano la densità del rapporto Ruini». Per cui il Pontefice ha distinto: «Sulle prime apparizioni, quando i veggenti erano ragazzi, la Commissione dice che si deve continuare ad

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investigare». Sulle «presunte apparizioni attuali il rapporto ha i suoi dubbi. Io personalmente che sono più cattivo preferisco la Madonna madre, e non la madonna a capo dell’ufficio telegrafico che tutti i giorni invia un messaggio telegrafico a tal ora, e questa non è la mamma di Gesù, e queste presunte apparizioni non hanno tanto valore. Lo dico come opinione personale». Tuttavia, ha concluso il Papa, il nocciolo del rapporto Ruini è il fatto spirituale, pastorale: gente che va lì e si converte e incontra Dio, che cambia vita e questo non si può negare. Di qui la sua decisione di affidare a un vescovo lo studio degli aspetti pastorali. «Poi alla fine, una parola si dovrà dire». L’incontro con Trump - Gli chiedono che cosa si aspetta dall’udienza con un capo di Stato che ha visioni opposte alla sua. «Sempre ci sono porte non del tutto chiuse – risponde –. Cercare le porte che almeno so- no un po’ aperte, entrare e parlare sulle cose comuni e andare avanti passo passo, la pace è artigianale, si fa ogni giorno. Uno la pensa in un modo, uno in un altro ma essere molto sincero dicendo quello che ognuno pensa». «Il vescovo vestito di bianco» - Sull’immagine che tanto aveva colpito i giorna-listi, ecco la spiegazione di Francesco: «La preghiera non l’ho fatta io, l’ha fatta il Santuario, ma anche io ho cercato perché hanno detto questo, e c’è un collegamento, sul bianco: il Vescovo vestito di bianco, la madonna vestita di bianco, l’albore bianco dell’innocenza dei bambini dopo il battesimo e l’innocenza. C’è un collegamento in quella preghiera sul colore bianco, credo che hanno cercato di esprimere con il bianco quella voglia di innocenza, di pace, di innocenza, di non fare male ad altri, non fare guerra». E in merito alle visioni, «l’allora cardinale Ratzinger ha spiegato tutto chiaramente». Quando poi gli ricordano che anche per lui il 13 maggio ha significato una svolta nella vita (il nunzio in Argentina, 25 anni fa, gli annunciò la nomina a vescovo ausiliare di Buenos Aires), dice di essersene ricordato venerdì pregando alla cappellina delle apparizioni e di aver chiesto perdono per i suoi «sbagli, anche per il cattivo gusto nel scegliere la gente». Lefebvriani - Alcuni giorni fa, ha annunciato Francesco, la Congregazione della dottrina della fede ha studiato un documento, che però non gli è ancora arrivato (potrebbe essere un accordo statuto ufficiale della fraternità, ndr). I rapporti attuali sono «fraternali , ha detto il Papa. «Anche con monsignor Fellay ho un buon rapporto, ma a me non piace affrettare le cose, camminare, camminare, camminare. E poi si vedrà. E non è un problema di vincitori o di sconfitti, ma di fratelli che devono camminare insieme cercando la formula per fare passi avanti». Stesso discorso per quanto riguarda i luterani, specie dopo il viaggio in Svezia. «Camminare insieme con la preghiera, con il martirio e con le opere di carità e di misericordia», fidando nel «Dio delle sorprese». Pedofilia - Sulle dimissioni di Mary Collins dalla Commissione per gli abusi sui minori, il Papa ha detto che «ci ho parlato, è una brava donna» e che «qualche ragione ce l’ha». In sostanza ha spiegato i ritardi sono dovuti al fatto che «in questo tempo si è dovuta fare la legislazione» e che c’è carenza di personale, ma a questo aspetto si sta mettendo riparo. In prospettiva, ha poi annunciato, proprio al fine di rendere più efficiente il lavoro, «si pensa ad aiuti continentali (ad esempio in America latina uno in Brasile, l’altro in Colombia) come pre-tribunali o tribunali continentali. Infine Francesco ha ricordato di aver creato un altro tribunale, affidandone la presidenza all’arcivescovo di Malta, monsignor Scicluna, per giudicare i ricorsi dei sacerdoti dimessi dallo stato clericale in seguito al procedimento davanti al Sant’Uffizio, che prima tornavano allo stesso dicastero. «E questo era ingiusto». Comunque, ha concluso, quando al sacerdote colpevole non rimane che la grazia del Papa e la chiede, «io – ha chiarito Francesco – mai ne ho firmato una». A conferma di una linea garantista sì, ma di assoluta tolleranza zero. Pag 6 Francesco: Fatima ci dice che abbiamo una Madre Alla Messa di canonizzazione dei due fratellini: “Sotto il suo manto di luce i figli non si perdono” Pubblichiamo il testo integrale dell’omelia pronunciata da papa Francesco durante la

Messa sul sagrato del santuario mariano di Fatima, in occasione della canonizzazione dei

pastorelli Francesco e Giacinta Marto, due dei tre veggenti che giusto cento anni fa,

assieme alla cugina Lucia dos Santos, videro la Madonna.

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«Apparve nel cielo [...] una donna vestita di sole»: attesta il veggente di Patmos nell’Apocalisse (12,1), osservando anche che Ella era in procinto di dare alla luce un figlio. Poi, nel Vangelo, abbiamo sentito Gesù dire al discepolo: «Ecco tua madre» (Gv 19,26-27). Abbiamo una Madre! Una «Signora tanto bella», commentavano tra di loro i veggenti di Fatima sulla strada di casa, in quel benedetto giorno 13 maggio di cento anni fa. E, alla sera, Giacinta non riuscì a trattenersi e svelò il segreto alla mamma: «Oggi ho visto la Madonna». Essi avevano visto la Madre del cielo. Nella scia che seguivano i loro occhi, si sono protesi gli occhi di molti, ma… questi non l’hanno vista. La Vergine Madre non è venuta qui perché noi la vedessimo: per questo avremo tutta l’eternità, beninteso se andremo in Cielo. Ma Ella, presagendo e avvertendoci sul rischio dell’inferno a cui conduce una vita – spesso proposta e imposta – senza Dio e che profana Dio nelle sue creature, è venuta a ricordarci la Luce di Dio che dimora in noi e ci copre, perché, come abbiamo ascoltato nella prima Lettura, il «figlio fu rapito verso Dio» (Ap 12,5). E, secondo le parole di Lucia, i tre privilegiati si trovavano dentro la Luce di Dio che irradiava dalla Madonna. Ella li avvolgeva nel manto di Luce che Dio Le aveva dato. Secondo il credere e il sentire di molti pellegrini, se non proprio di tutti, Fatima è soprattutto questo manto di Luce che ci copre, qui come in qualsiasi altro luogo della Terra quando ci rifugiamo sotto la protezione della Vergine Madre per chiederLe, come insegna la Salve Regina, «mostraci Gesù». Carissimi pellegrini, abbiamo una Madre, abbiamo una Madre! Aggrappati a Lei come dei figli, viviamo della speranza che poggia su Gesù, perché, come abbiamo ascoltato nella seconda Lettura, «quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo» (Rm 5,17). Quando Gesù è salito al cielo, ha portato accanto al Padre celeste l’umanità – la nostra umanità – che aveva assunto nel grembo della Vergine Madre, e mai più la lascerà. Come un’ancora, fissiamo la nostra speranza in quella umanità collocata nel Cielo alla destra del Padre (cfr Ef 2,6). Questa speranza sia la leva della vita di tutti noi! Una speranza che ci sostiene sempre, fino all’ultimo respiro. Forti di questa speranza, ci siamo radunati qui per ringraziare delle innumerevoli benedizioni che il Cielo ha concesso lungo questi cento anni, passati sotto quel manto di Luce che la Madonna, a partire da questo Portogallo ricco di speranza, ha esteso sopra i quattro angoli della Terra. Come esempi, abbiamo davanti agli occhi San Francesco Marto e Santa Giacinta, che la Vergine Maria ha introdotto nel mare immenso della Luce di Dio portandoli ad adorarLo. Da ciò veniva loro la forza per superare le contrarietà e le sofferenze. La presenza divina divenne costante nella loro vita, come chiaramente si manifesta nell’insistente preghiera per i peccatori e nel desiderio permanente di restare presso «Gesù Nascosto» nel Tabernacolo. Nelle sue Memorie (III, n. 6), Suor Lucia dà la parola a Giacinta appena beneficiata da una visione: «Non vedi tante strade, tanti sentieri e campi pieni di persone che piangono per la fame e non hanno niente da mangiare? E il Santo Padre in una chiesa, davanti al Cuore Immacolato di Maria, in preghiera? E tanta gente in preghiera con lui?». Grazie, fratelli e sorelle, di avermi accompagnato! Non potevo non venire qui per venerare la Vergine Madre e affidarle i suoi figli e figlie. Sotto il suo manto non si perdono; dalle sue braccia verrà la speranza e la pace di cui hanno bisogno e che io supplico per tutti i miei fratelli nel Battesimo e in umanità, in particolare per i malati e per le persone con disabilità, i detenuti e i disoccupati, i poveri e gli abbandonati. Carissimi fratelli, preghiamo Dio con la speranza che ci ascoltino gli uomini; e rivolgiamoci agli uomini con la certezza che ci soccorre Dio. Egli infatti ci ha creati come una speranza per gli altri, una speranza reale e realizzabile secondo lo stato di vita di ciascuno. Nel «chiedere» ed «esigere» da ciascuno di noi l’adempimento dei doveri del proprio stato (Lettera di Suor Lucia, 28 febbraio 1943), il cielo mette in moto qui una vera e propria mobilitazione generale contro questa indifferenza che ci raggela il cuore e aggrava la nostra miopia. Non vogliamo essere una speranza abortita! La vita può sopravvivere solo grazie alla generosità di un’altra vita. «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24): lo ha detto e lo ha fatto il Signore, che sempre ci precede. Quando passiamo attraverso una croce, Egli vi è già passato prima. Così non saliamo alla croce per trovare Gesù; ma è stato Lui che si è umiliato ed è sceso fino alla croce per trovare noi e, in noi, vincere le tenebre del male e riportarci verso la Luce. Sotto la protezione di Maria, siamo nel mondo sentinelle del mattino che sanno contemplare il vero volto di Gesù Salvatore, quello che brilla a Pasqua, e riscoprire il

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volto giovane e bello della Chiesa, che risplende quando è missionaria, accogliente, libera, fedele, povera di mezzi e ricca di amore.

Francesco

Pag 6 Quel centro di spiritualità “profetizzato” da suor Lucia di Luigi Gaetani Non ho trovato definizione più bella per narrare Fatima se non quella di Paul Claudel: «Fatima è un’esplosione traboccante di soprannaturale in un mondo imprigionato dalla materia». Mi sono avvicinato a Fatima per ragioni d’ufficio, avevo l’incombenza pastorale di visitare il Portogallo. Ho avuto la grazia di incontrare e dialogare tre volte, nel 2004, con suor Lucia dos Santos, la veggente divenuta carmelitana scalza e vissuta nel monastero di Coimbra. Il primo incontro fu fugace, ma illuminante. I carmelitani scalzi avevano deciso di chiudere la loro presenza a Fatima e io ero appena arrivato in Portogallo. Non conoscevo le motivazioni di quella scelta, ma sentivo che qualunque cosa riguardasse Fatima dovesse passare attraverso il cuore e il discernimento di suor Lucia, perciò andai a trovarla. Non stava molto bene quando la visitai e, non potendo venire in parlatorio, dovetti incontrarla nella sua stanza. Era seduta dinanzi a un piccolo tavolo dove mi colpiva l’ingombrante presenza di una datata macchina da scrivere Olivetti. Mi salutò e mi disse che quella macchina italiana gli era servita per scrivere a poveri e ricchi, a potenti e umili perché non aveva mai tralasciato di rispondere a chi gli avesse chiesto una preghiera, un consiglio. In verità in quel tempo si conservavano ottanta valigie di lettere scritte da suor Lucia. Ascoltavo, ma la mia preoccupazione era altra e lei lo comprese. Gli esposi le mie perplessità e lei, con serena fermezza, mi disse che dovevo fare il possibile per realizzare un centro di spiritualità a Fatima e dedicarlo alla Vergine. Feci la visita pastorale sostenendo la necessità della presenza a Fatima, ma percepivo che non c’era volontà di andare in quella direzione e che le parole di suor Lucia non erano realizzabili. Così mi sembrava, così mi avevano detto, ma dallo scrutinio segreto della preposizione che riguardava la erezione o meno di una casa di spiritualità a Fatima, emerse una favorevole maggioranza qualificata. Oggi la Domus Carmeli è una bellissima casa di spiritualità mariana affacciata sul santuario di Fatima, un piccolo segno di come il soprannaturale possa esplodere in un mondo imprigionato dalla materia. Cosa mi resta nel cuore di questa “Terra Santa di Maria”? Che Fatima è una periferia dove la grazia ama traboccare, il luogo della materna profezia che attraversa tutto il ’900 e il nostro tempo. Un luogo sconosciuto, insignificante agli occhi di molti, marginale, fuori dai giochi dei protagonisti della vita politica ed economica, ma che in quel brandello di terra la Vergine Maria ha voluto riprendere parola manifestandosi a persone umili, innocenti, a bambini fedeli alla preghiera, ignari di ogni ideologia per ricordare a noi, adulti illuminati, quanto il mondo gli stia a cuore. Non spaventi, poi, che l’atto di recupero dell’umano passi attraverso la vita e la testimonianza dei bambini perché, come diceva Bernanos, «i bambini salveranno il mondo». È un messaggio forte, profetico per noi che li ammazziamo i bambini prima che possano vedere la luce, che li violiamo perché siano sporcati dal nostro stesso male, ai quali rubiamo l’infanzia perché non disturbino il nostro mondo di adulti. Fatima è una voce forte che si alza sul mondo, è un fermo e materno richiamo, un frammento di luce e un segno di speranza, la possibilità di un rinnovato inizio rispetto all’agire devastante del Maligno che opera nelle vicende degli uomini e che incarnandosi ha come scopo di portare le persone a disperdersi, fino alla dannazione (primo segreto), a contrapporsi fino al punto da devastarsi nell’anima e nel corpo attraverso la barbarie della guerra e dei sistemi politici atei (secondo segreto), ad attaccare la Chiesa per distruggerla con la persecuzione e il martirio (terzo segreto). Fatima, con i suoi segreti, non è un mondo arcaico che proietta drammatiche anticipazioni catastrofiche sull’avvenire del mondo, un triste fato dell’umanità che non vuole crescere alla scuola dell’illuminismo, ma è l’appello lanciato dalla frontiera di un piccolo villaggio, dal bordo dell’eterno ad una umanità che si mostra smarrita e in bilico sull’orlo del nulla. Fatima, con i suoi segreti, non incute paura, ma è una accorata voce di speranza sul mondo, una possibilità di stupore e di meraviglia offerta a tutti, anche ai senza Dio, a tutti coloro che vivono imprigionati dalla materia del denaro, delle cose, delle ideologie, del potere e hanno smesso di illuminarsi d’immenso (Giuseppe Ungaretti, Mattina).

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Pag 15 Sermig, la pace contagi il mondo di Umberto Folena Padova, 60mila al quinto appuntamento mondiale dei giovani Ernesto Olivero, sul palco a ridosso della Basilica di Santa Giustina, parla tenendo in mano un foulard vermiglio. Solo alla fine lo mostra alle ragazze e ai ragazzi, un tappeto steso su Prato della Valle. E spiega: «Me l’ha regalato una mamma a cui hanno ucciso il figlio prete, don Peppe Diana». Se neppure una mamma odia, ma affida al popolo dei pacifici il suo drappo di sangue, dolore e speranza e invita ad amare nonostante tutto, come potrà l’odio prevalere? Il quinto Appuntamento mondiale Giovani per la pace, ieri, è il più numeroso di sempre. Saranno sessantamila giunti da tutta Italia, dal Brasile, dalla Giordania, dalla Romania e dall’Albania. Soprattutto dal Veneto, con tanti gruppi parrocchiali. In rappresentanza dei vescovi triveneti ci sono il patriarca diVenezia Moraglia, Cipolla di Padova e Pizziol di Vicenza. Tutti a farsi allegramente contagiare dalla pace. Non odia la mamma di don Diana ammazzato dalla camorra, non ha mai odiato neppure Rosaria Schifani, il cui marito Vito fu disintegrato a Capaci 25 anni fa: «L’odio dovrebbe far parte di me, ma non c’è, non c’è mai stato. Perché? Perché io non sono come loro». Loro, i mafiosi consacrati all’odio. «La mafia non mi ha piegato ed eccomi qui, più forte che mai». La sua forza vive nel figlio Emanuele, emozionatissimo sul palco dentro la sua divisa da tenente della Guardia di Finanza. Aveva pochi mesi quando gli ammazzarono il padre e ieri guardava il mare di giovani che guardavano lui e sorrideva appena. 'L’amore (r)esiste' ricordano le magliette dei ragazzi della pace. E altre fan loro eco: 'Non voglio la pace solo per me'. 'Noi' è il pronome che scende sulla piazza quando compare la famiglia Calò di Treviso, 'folle' nella sua idea di 'adottare' giovani profughi fino a contare 12 figli, tutti uguali, bianchi e neri. 'Noi' dicono i brasiliani dell’Arsenale della speranza di San Paolo: forniscono 1200 posti letto e pasti e corsi per dare un lavoro a chi non l’ha. 'Noi' è il pronome del movimento 'Ambasciatori di pace' di Blinisht, in Albania, fondato da un prete di Avezzano, don Antonio Sciarra, nel lontano 1991. 'Noi' sembrano ricordare i tanti amministratori, sindaci e consiglieri, che hanno voluto accompagnare i giovani dei loro paesi, come Piera Cescon di Vazzola (Treviso) o Alessandro Barbierato di Pontelongo (Padova), uno che si è appassionato al servizio, anche politico, ai campi all’Arsenale di Torino fin dal 2006: «sì, sono amico di Ernesto» (Olivero è chiamato sempre e solo per nome, il cognome è superfluo). Simone Taschin di Campolongo Maggiore (Venezia) ha 30 anni, è dell’Ac, e scuote il capo quando gli si ricorda la vulgata secondo cui i giovani non farebbero politica: «Invece ci siamo, e tanti». Forse basterebbe guardarli in faccia. C’è perfino il quattordicenne Ares Bagatin di Lendinara (Rovigo), 'sindaco dei ragazzi', con il vicesindaco 'dei grandi' Federico Amal, che di anni ne ha appena 35 e si è formato nel Movimento politico per l’Unità dei Focolari. Tutti, assolutamente tutti costruiscono pace. I testimoni intanto sfilano sul palco. Giorgia Benusiglio è stata strappata alla morte e all’abisso in cui l’aveva cacciata la prima mezza pasticca di ecstasy, a 17 anni. Ci ha rimesso il fegato. Ma «io ho avuto una seconda possibilità, altri giovani no. E la mia vita insegna che anche l’evento più negativo può trasformarsi in dono». Giorgia gira per l’Italia incontrando i giovani; Sammy Basso, veneto di Tezze sul Brenta, uno dei pochi ammalati al mondo della rarissima progeria, che costringe bambini e giovani nel corpo di un vecchio, ha girato il mondo e quasi ringrazia la terribile malattia per l’opportunità meravigliosa avuta. Rimane Abdullahi Ahmed, giovane somalo con la sua storia di 'restituzione' a Settimo Torinese: ha avuto tanto, tantissimo ha saputo ridare a chi lo ha accolto. Sullo schermo compare il presidente Mattarella con il suo messaggio ai giovani di Ernesto. Matteo Spiguglia canta le canzoni scritte da Ernesto. Ed Ernesto, con il fazzoletto della mamma di don Diana in mano, saluta: «Mai uomini o donne di potere, ma sempre di Dio. Per esserlo, occorre dare tempo a Dio. Pregare». Il foulard ha un brivido sotto il cielo azzurrissimo. Dieci parole chiave, sulle quali costruire concreti rapporti di pace, edificare il bene e chiudere la porta al veleno dell’odio. La Carta dei Giovani, presentata ieri da Ernesto Olivero al termine dell’incontro in Prato della Valle, poggia su questi dieci pilastri. Ci sono la vita da sostenere: «Uccidere è sempre sbagliato, qualunque sia la motivazione». La giustizia da promuovere: «L’ingiustizia alimenta povertà, odio, guerra (...). Ci

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impegniamo per un mondo in cui tutti abbiano accesso a cibo, casa, cure, scuola, lavoro». Il dialogo da ricercare: «Siamo disponibili a incontrare donne e uomini di ogni cultura, religione, etnia senza pregiudizi». Il disarmo: «Chiediamo che le armi non siano più costruite perché uccidono, sprecano risorse e intelligenze, provocano vendetta, segnano per sempre la vita dei sopravvissuti». La Terra da custodire: «Ci educhiamo a non sprecare le risorse naturali». E ancora il servizio da mettere al centro: «Ci impegniamo (...) a fare di ogni responsabilità un servizio reso alla comunità e mai uno strumento di potere fine a se stesso». La bontà, «una scelta dell’intelligenza e del cuore. La bontà disarma, dà speranza, ci fa essere persone sincere e amici veri (...). La bontà è luce che annulla il buio». La coscienza da ascoltare: «Solo la coscienza ci rende liberi di valutare ciò che è bene e ciò che è male e di scegliere con responsabilità». Infine la sete di Infinito da risvegliare: «Restiamo aperti verso l’Infinito che vive in noi». CORRIERE DELLA SERA di domenica 14 maggio 2017 Pag 21 I dubbi di Francesco su Medjugorje: “Trump? Non giudico, gli parlerò” di Gian Guido Vecchi e Luigi Accattoli Il Papa proclama santi i bimbi di Fatima. Sulle apparizioni: poco valore in quelle attuali. E anche Bergoglio si riconosce nella “profezia” La mattina, nella spianata di «Cova da Iria», a cento anni dalla prima apparizione di Fatima, il Papa ha celebrato la messa di canonizzazione dei pastorelli Francisco e Jacinta Marto, i primi bambini non martiri ad essere proclamati santi. A metà pomeriggio Francesco è appena decollato verso Roma, raggiunge i giornalisti in fondo all’aereo e risponde su tutto, da Trump alle Ong. La preghiera sul «vescovo vestito di bianco», spiega, «non l’ho scritta io». Quanto alle inerzie in Vaticano contro la pedofilia dice che «Marie Collins ha un po’ di ragione ma stiamo andando avanti, ci sono duemila casi ammucchiati», esclama: «Mai ho firmato una grazia». Poi rivela la relazione segreta su Medjugorje. Santità, che cosa pensa delle apparizioni di Medjugorje, se ci sono state? «Tutte le apparizioni o presunte apparizioni appartengono alla sfera privata, non sono parte del magistero pubblico ordinario della Chiesa. Per Medjugorje è stata fatta una commissione presieduta dal cardinale Ruini, voluta da Benedetto XVI. Ho ricevuto dal cardinale la relazione ed è molto buona. Si devono distinguere tre cose. Sulle prime apparizioni, quando i veggenti erano ragazzi, dice più o meno che si deve continuare a investigare. Sulle presunte apparizioni attuali, la relazione ha i suoi dubbi. Io personalmente sono più cattivo. Preferisco la Madonna madre, nostra madre, e non la Madonna capo di ufficio telegrafico che tutti i giorni invia un messaggio, questa non è la mamma di Gesù! Queste presunte apparizioni non hanno tanto valore: lo dico come opinione personale, è chiaro. Si distingue tra le apparizioni. C’è chi pensa che la Madonna dica “venite che domani alla tale ora dirò un messaggio a un veggente”, no. Terzo punto, il nocciolo della relazione Ruini: il fatto pastorale, spirituale. Gente che va lì e si converte, incontra Dio, cambia vita. E non c’è la bacchetta magica. Questo fatto pastorale, spirituale, non si può negare». Cosa può sperare il mondo dal suo incontro con Trump, il 24 maggio? «Fatima ha un messaggio di pace portato all’umanità da tre grandi comunicatori. Il mondo può sperare pace e con tutti io parlerò di pace. A Roma ho ricevuto scienziati di varie religioni, uno disse: “Sono ateo, le chiedo: dica ai cristiani che amino di più i musulmani”. È un messaggio di pace». Migranti, ambiente, muri. Trump sembra pensare e agire al contrario di lei, cosa si aspetta? «Io non giudico mai una persona senza ascoltarla. Credo di non doverlo fare. Parlando, usciranno le cose. Io dirò quello che penso, lui quello che pensa. Sui migranti sapete ciò che penso. Ma mai ho voluto dare un giudizio senza sentire la persona. Sempre ci sono porte che non stanno chiuse. Bisogna cercare le porte che sono un po’ aperte, entrare e parlare di cose comuni. Andare avanti, passo passo. La pace è artigianale, si fa ogni giorno. Anche l’amicizia tra le persone, la conoscenza, la stima è artigianale, si fa tutti i giorni. Avere rispetto dell’altro, dire come la pensa uno, ma con rispetto, camminare insieme, essere molto sinceri». Spera che Trump dopo l’incontro ammorbidisca le sue decisioni?

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«Questo è un calcolo politico che io non mi permetto di fare. Anche sul piano religioso io non sono “proselitista”!». Le Ong in Italia sono state accusate di collusione con gli scafisti, che ne pensa? «Ho letto sui giornali ma ancora non conosco i dettagli e non posso dare un’opinione. So che c’è un problema, che le indagini vanno avanti. Mi auguro proseguano e che tutta la verità venga fuori». Fatima scatena i Papi: come già Wojtyla ecco che ora anche Bergoglio si riconosce nel «vescovo vestito di bianco» del «terzo segreto», fatto oggetto cioè di mortale persecuzione. Questa identificazione l’ha affermata venerdì nella preghiera alla Cappellina delle apparizioni, quando ha detto di essere andato in quel «luogo» a pregare «come vescovo vestito di bianco» a nome di tutti i perseguitati. In aereo ieri ha ridimensionato quella espressione, dicendo che la preghiera non era di suo pugno: sta di fatto che se non l’ha scritta l’ha fatta sua. Nel «segreto» famoso, pubblicato nel 2000, si parla appunto di un «vescovo vestito di bianco che cade ucciso da un gruppo di soldati che gli sparano vari colpi di arma da fuoco e frecce». Giovanni Paolo II dopo l’attentato del 1981 si riconobbe in quella figura e si direbbe che ora anche Francesco voglia prendere posto nella drammatica profezia. Del resto va detto che lui è il primo Papa che in epoca moderna veste solo di bianco, avendo rinunciato alle vesti rosse degli altri Papi. Come non bastasse questa irruzione nella profezia, sempre venerdì Francesco ha polemizzato con immagini che ritiene errate della pietà verso Maria, in particolare quelle che «la vedono tener fermo il braccio giustiziere di Dio pronto a punire», come se potesse esistere «una Maria migliore del Cristo, visto come Giudice spietato; più mise-ricordiosa dell’Agnello immolato per noi». Il riferimento è a tanta «pietà mariana» ispirata - si direbbe - al Giudizio universale di Michelangelo, con il Cristo dal braccio giudicante e Maria implorante. Tra gli esempi più noti di quella «pietà» disapprovata da Francesco, le narrazioni delle apparizioni de La Salette (1846: «Sono costretta a lasciare libero il braccio di mio figlio») e la «Supplica alla Vergine di Pompei» (1883: «O Madre trattenete il braccio della giustizia del vostro Figliuolo sdegnato»). AVVENIRE di sabato 13 maggio 2017 Pag 1 Il segreto non segreto di Stefania Falasca Papa Francesco e “lo stile di Maria” «Qui come in un altro luogo » è un pellegrinaggio «vissuto nella speranza e nella pace». Qui, a Fatima, come in un altro luogo. Ed è questa sottolineatura papale, deliberata quanto puntuale, a voltare definitivamente pagina ai sigilli e alle ceralacche lunghe quanto un secolo di inutili stragi. L’arrivo del pellegrino Francesco ha scavalcato il «secolo breve», l’era dei cataclismi, per dirla con Eric Hobsbawm. Il «secolo breve » della prosopopea dei 'fatimiti', della scia coreografica dei detective del mistero, dei suoi interpreti improvvisati, delle strumentalizzazioni e delle «inutili speculazioni» – come già prima della partenza aveva fatto intendere il segretario di Stato Parolin – per restituire a questo luogo mariano lo spazio e lo sguardo senza veli che gli appartiene e che a tutti è aperto: quello essenziale del Vangelo. L’hic et nunc di un tempo aperto, con la sua unica e chiara profezia di sempre: il male non ha l’ultima parola, perché è già stato vinto. Se il magistero rende noto che le rivelazioni private posteriori al Vangelo, anche approvate e favorite dalle autorità ecclesiastiche, non sono dogmi di fede, e che per salvarsi bastano la Parola di Dio, i sacramenti e gli altri mezzi messi a disposizione nella Chiesa, articolo di fede contenuto nel Vangelo è però anche questo: che «segni accompagneranno quelli che credono », ed è perciò opportuno badare alle cose sottolineate dal segno. Fatima ci parla di prossimità. Qui per i credenti la Madre di Dio, partecipe della pienezza dei tempi, si è fatta prossima a bambini analfabeti, già a tutti gli effetti 'scarti' di un mondo sul baratro perverso della guerra. Prossima, secondo la modalità evangelica di entrare nelle pieghe e nei crocevia della storia come madre che esce, allarga le braccia e viene in soccorso indicando la possibilità di salvezza. E mostrando che il suo modo di amare è misericordia, anzi ne è 'segno e sacramento', in lei è riflesso il messaggio essenziale del Vangelo. Fatima ci parla ancora di preghiera e di conversione. Quale? Papa Francesco si è voluto soffermare proprio su Maria, anzi sullo «stile di Maria», che ha avuto una missione unica nella storia della salvezza, aprendo la via che conduce a Cristo. Come

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artefice di comunione e modello di umanità insegna la maniera di essere autentici cristiani e di essere Chiesa, perché in quanto madre è paradigma di inclusione e modello ecclesiale, di vita pastorale e di stile missionario. Si capisce perché Francesco è venuto a Fatima come figlio in mezzo agli altri, facendosi piccolo per ricevere lo sguardo materno di Maria: «Ogni volta che guardiamo Maria torniamo a credere nella forza rivoluzionaria della tenerezza e dell’affetto. In Lei vediamo che l’umiltà e la tenerezza non sono virtù dei deboli ma dei forti, che non c’è bisogno di maltrattare gli altri per sentirsi importanti». A Fatima cita Paolo VI e il Concilio, e ripete ancora con l’Evangelii gaudium che «questa dinamica di giustizia e di tenerezza, di contemplazione e di cammino verso gli altri, è ciò che fa di Lei un modello ecclesiale per l’evangelizzazione». Chiede poi che «con la sua preghiera materna aiuti la Chiesa perché diventi una casa per molti, una madre per tutti i popoli, e renda possibile la nascita di un mondo nuovo». Francesco è venuto qui da pellegrino dopo aver attraversato i santuari mariani di Aparecida, Guadalupe e molti altri d’Occidente e d’Oriente. Proprio dentro le preghiere che salivano dal popolo di Dio nel santuario brasiliano di Aparecida c’è l’inizio, esattamente dieci anni fa, di un «cambio d’epoca» per una «conversione ecclesiale» nello stile mariano, che altro non sarebbe se non adesione al Vangelo sine glossa. Ecco il segreto svelato dalla notte dei tempi. Lo stile di Fatima è lo stesso di Lourdes, di Guadalupe, di Aparecida. Ma questo stile di madre è reso tuttora visibile e praticato dalla Chiesa? Il segreto di Fatima è quanto di più non segreto ci possa essere. Perché basta viverlo. Pag 6 “Dio perdona sempre. Il cristiano è mariano” Il Papa a Fatima: la Madonna sacramento della misericordia. La preghiera Pubblichiamo il testo ufficiale del saluto rivolto dal Pontefice dalla cappellina delle

apparizioni, durante la benedizione delle candele.

Cari pellegrini di Maria e con Maria! Grazie per avermi accolto fra voi ed esservi uniti a me in questo pellegrinaggio vissuto nella speranza e nella pace. Fin d’ora desidero assicurare a quanti vi trovate uniti con me, qui o altrove, che vi porto tutti nel cuore. Sento che Gesù vi ha affidati a me (cfr Gv 21,15-17), e abbraccio e affido a Gesù tutti, “specialmente quelli che più ne hanno bisogno” – come la Madonna ci ha insegnato a pregare (Apparizione di luglio 1917). Ella, Madre dolce e premurosa di tutti i bisognosi, ottenga loro la benedizione del Signore! Su ciascuno dei diseredati e infelici ai quali è stato rubato il presente, su ciascuno degli esclusi e abbandonati ai quali viene negato il futuro, su ciascuno degli orfani e vittime di ingiustizia ai quali non è permesso avere un passato, scenda la benedizione di Dio incarnata in Gesù Cristo: «Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace» (Nm 6,24-26). Questa benedizione si è adempiuta pienamente nella Vergine Maria, poiché nessun’altra creatura ha visto risplendere su di sé il volto di Dio come lei, che ha dato un volto umano al Figlio dell’eterno Padre; e noi adesso possiamo contemplarlo nei successivi momenti gaudiosi, luminosi, dolorosi e gloriosi della sua vita, che rivisitiamo nella recita del Rosario. Con Cristo e Maria, noi rimaniamo in Dio. Infatti, «se vogliamo essere cristiani, dobbiamo essere mariani, cioè dobbiamo riconoscere il rapporto essenziale, vitale e provvidenziale che unisce la Madonna a Gesù, e che apre a noi la via che a Lui ci conduce» (Paolo VI, Discorso durante la visita al Santuario della Madonna di Bonaria, Cagliari, 24 aprile 1970). Così ogni volta che recitiamo il Rosario, in questo luogo benedetto oppure in qualsiasi altro luogo, il Vangelo riprende la sua strada nella vita di ognuno, delle famiglie, dei popoli e del mondo. Pellegrini con Maria... Quale Maria? Una maestra di vita spirituale, la prima che ha seguito Cristo lungo la “via stretta” della croce donandoci l’esempio, o invece una Signora “irraggiungibile” e quindi inimitabile? La “Benedetta per avere creduto” sempre e in ogni circostanza alle parole divine (cfr Lc 1,42.45), o invece una “Santina” alla quale si ricorre per ricevere dei favori a basso costo? La Vergine Maria del Vangelo, venerata dalla Chiesa orante, o invece una Maria abbozzata da sensibilità soggettive che la vedono tener fermo il braccio giustiziere di Dio pronto a punire: una Maria migliore del Cristo, visto come Giudice spietato; più misericordiosa dell’Agnello immolato per noi? Grande ingiustizia si commette contro Dio e la sua grazia, quando si afferma in primo luogo che i peccati sono puniti dal suo giudizio, senza anteporre –

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come manifesta il Vangelo - che sono perdonati dalla sua misericordia! Dobbiamo anteporre la misericordia al giudizio e, comunque, il giudizio di Dio sarà sempre fatto alla luce della sua misericordia. Ovviamente la misericordia di Dio non nega la giustizia, perché Gesù ha preso su di Sé le conseguenze del nostro peccato insieme al dovuto castigo. Egli non negò il peccato, ma ha pagato per noi sulla Croce. E così, nella fede che ci unisce alla Croce di Cristo, siamo liberi dai nostri peccati; mettiamo da parte ogni forma di paura e timore, perché non si addice a chi è amato (cfr 1 Gv 4,18). «Ogni volta che guardiamo a Maria torniamo a credere nella forza rivoluzionaria della tenerezza e dell’affetto. In lei vediamo che l’umiltà e la tenerezza non sono virtù dei deboli ma dei forti, che non hanno bisogno di maltrattare gli altri per sentirsi importanti. […] Questa dinamica di giustizia e di tenerezza, di contemplazione e di cammino verso gli altri, è ciò che fa di lei un modello ecclesiale per l’evangelizzazione» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 288). Possa ognuno di noi diventare, con Maria, segno e sacramento della misericordia di Dio che perdona sempre, perdona tutto. Presi per mano della Vergine Madre e sotto il suo sguardo, possiamo cantare con gioia le misericordie del Signore. Possiamo dire: La mia anima canta per Te, Signore! La misericordia, che ha avuto verso tutti i tuoi santi e verso l’intero popolo fedele, è arrivata anche a me. A causa dell’orgoglio del mio cuore, ho vissuto distratto dietro le mie ambizioni e i miei interessi, senza riuscire però a occupare alcun trono, o Signore! L’unica possibilità di esaltazione che ho è questa: che la tua Madre mi prenda in braccio, mi copra con il suo mantello e mi collochi accanto al tuo Cuore. E così sia.

Francesco

Pubblichiamo il testo della preghiera pronunciata dal Papa ieri pomeriggio nella

cappellina delle apparizioni.

Salve Regina, beata Vergine di Fatima, Signora dal Cuore Immacolato, rifugio e via che conduce a Dio! Pellegrino della Luce che viene a noi dalle tue mani rendo grazie a Dio Padre che, in ogni tempo e luogo, opera nella storia umana; pellegrino della Pace che, in questo luogo, Tu annunzi, do lode a Cristo, nostra pace, e imploro per il mondo la concordia fra tutti i popoli; pellegrino della Speranza che lo Spirito anima, vengo come profeta e messaggero per lavare i piedi a tutti, alla stessa mensa che ci unisce. (Ritornello cantato dall’assemblea): Ave o clemens, ave o pia!

Salve Regina Rosarii Fatimæ. Ave o clemens, ave o pia! Ave o dulcis Virgo Maria. Salve Madre di Misericordia, Signora dalla veste bianca! In questo luogo, da cui cent’anni or sono a tutti hai manifestato i disegni della misericordia di Dio, guardo la tua veste di luce e, come vescovo vestito di bianco, ricordo tutti coloro che, vestiti di candore battesimale, vogliono vivere in Dio e recitano i misteri di Cristo per ottenere la pace. Ritornello

Salve, vita e dolcezza, salve, speranza nostra, O Vergine Pellegrina, o Regina Universale! Nel più intimo del tuo essere, nel tuo Cuore Immacolato, guarda le gioie dell’essere umano in cammino verso la Patria Celeste. Nel più intimo del tuo essere, nel tuo Cuore Immacolato, guarda i dolori della famiglia umana che geme e piange in questa valle di lacrime. Nel più intimo del tuo essere, nel tuo Cuore Immacolato, adornaci col fulgore dei gioielli della tua corona e rendici pellegrini come Tu fosti pellegrina. Con il tuo sorriso verginale rinvigorisci la gioia della Chiesa di Cristo. Con il tuo sguardo di dolcezza rafforza la speranza dei figli di Dio. Con le mani oranti che innalzi al Signore, unisci tutti in una sola famiglia umana.

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Ritornello

O clemente, o pia, o dolce Vergine Maria, Regina del Rosario di Fatima! Fa’ che seguiamo l’esempio dei beati Francesco e Giacinta, e di quanti si consacrano all’annuncio del Vangelo. Percorreremo così ogni rotta, andremo pellegrini lungo tutte le vie, abbatteremo tutti i muri e supereremo ogni frontiera, uscendo verso tutte le periferie, manifestando la giustizia e la pace di Dio. Saremo, nella gioia del Vangelo, la Chiesa vestita di bianco, del candore lavato nel sangue dell’Agnello versato anche oggi nelle guerre che distruggono il mondo in cui viviamo. E così saremo, come Te, immagine della colonna luminosa che illumina le vie del mondo, a tutti manifestando che Dio esiste, che Dio c’è, che Dio abita in mezzo al suo popolo, ieri, oggi e per tutta l’eternità. Ritornello Il Papa insieme ai fedeli

Salve, Madre del Signore, Vergine Maria, Regina del Rosario di Fatima! Benedetta fra tutte le donne, sei l’immagine della Chiesa vestita di luce pasquale, sei l’onore del nostro popolo, sei il trionfo sull’assalto del male. Profezia dell’Amore misericordioso del Padre, Maestra dell’Annuncio della Buona Novella del Figlio, Segno del Fuoco ardente dello Spirito Santo, insegnaci, in questa valle di gioie e dolori, le eterne verità che il Padre rivela ai piccoli. Mostraci la forza del tuo manto protettore. Nel tuo Cuore Immacolato, sii il rifugio dei peccatori e la via che conduce fino a Dio. Unito ai miei fratelli, nella Fede, nella Speranza e nell’Amore, a Te mi affido. Unito ai miei fratelli, mediante Te, a Dio mi consacro, o Vergine del Rosario di Fatima. E infine, avvolto nella Luce che ci viene dalle tue mani, renderò gloria al Signore nei secoli dei secoli. Amen. Ritornello

Pag 14 Sermig, giovani in piazza: “L’odio non ci fermerà” di Umberto Folena A Padova il quinto appuntamento mondiale Il bene esiste e opera in mezzo a noi. Le storie buone pure, e aspettano solo qualcuno che le racconti. E i giovani che concretamente sono operatori di pace eccoli, ci sono e tanti. Il Sermig li conosce bene, almeno dal 1964 quando un Arsenale, a Torino, si tramutava da luogo di guerra a fucina di pace. E li ha convocati oggi a Padova, al quinto Appuntamento mondiale dei giovani della pace. Una grande festa in cui al mattino alcuni adulti autorevoli dialogheranno con i giovani in dieci diversi luoghi della città (i 'Punti di pace'); ma al pomeriggio, dalle 14.30, i protagonisti assoluti saranno loro, i giovani, in Prato della Valle. Giovani con storie importanti da raccontare, con vite messe in gioco per costruire, non per distruggere. Storie di speranza che si tramuta in fatti, presentate da Francesca Fialdini di 'Uno Mattina'. Testimonianze sotto il titolo: 'L’odio non ci fermerà. Ripartiamo dalla pace'. Ci saranno Giorgia Benusiglio, giovane milanese strappata alla morte a 17 anni dopo aver assunto mezza pasticca di ecstasy e da allora impegnata a sensibilizzare i coetanei sul pericolo delle droghe; Abdullhai Ahmed, giovane somalo con la sua storia di integrazione a Settimo Milanese; Sammy Basso, giovane veneto che ha fatto diventare la sua rarissima malattia, la progeria (invecchiamento precoce), un’occasione di speranza; e infine Rosaria ed Emanuele Schifani, madre e figlio, lei moglie di Vito, agente della scorta di Falcone ucciso a Capaci 25 anni fa, lui giovane finanziere, cresciuto senza coltivare sentimenti di vendetta. Ed Ernesto Olivero? Ascolterà, come tutti. E alla fine presenterà la nuova edizione della 'Carta dei Giovani', patto tra generazioni, consegnata la prima volta nel 2000 a Giovanni Paolo II: «Sarà una carta di impegni concreti – spiega – perché i giovani sono pronti a fare la propria parte. Cercano adulti credibili, pronti ad ammettere gli errori del passato

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e disponibili a scrivere insieme una nuova pagina della storia. Perché il mondo può cambiare, ma solo se ognuno è pronto a mettersi in gioco». In piazza, ad ascoltare, pregare e cantare, saranno giovani torinesi, ma anche e soprattutto provenienti da parrocchie e scuole di tutta Italia. Molti saranno veneti, anche perché i veneti, con i loro gruppi parrocchiali e scout, sono tra i più assidui ai campi organizzati a Torino all’Arsenale, dove il lavoro manuale si alterna alla preghiera (per chi crede) e ai laboratori. Ma sono già arrivati in Italia i giovani dei gruppi Sermig di Giordania e Brasile. Oggi pomeriggio sarà solo il momento finale dell’Appuntamento. Già ieri sera una marcia silenziosa dalla chiesa dei Cappuccini di san Leopoldo Mandic ha raggiunto la Basilica di Sant’Antonio per una veglia di preghiera. E stamattina ci saranno i dieci 'Punti pace' dove personalità italiane e internazionale dialogheranno con i giovani. Presente anche Marco Tarquinio, direttore di 'Avvenire'. Con lui, l’economista Stefano Zamagni, la ballerina Simona Atzori, l’ex ministro pakistano Paul Bhatti, il monaco cistercense Cesare Falletti, il capo della Protezione civile Fabrizio Curcio, il frate domenicano Claudio Monge, i detenuti del Carcere di Padova, la 'zia' fiorentina Caterina Bellandi (tassista per amore) e Giorgia Benusiglio. Questo di Padova è il quinto appuntamento. Tutto comincia nel 2002 a Torino. Seguono Asti 2004, Torino (con replica all’Aquila) 2010 e Napoli 2014, con 40 mila giovani in piazza Plebiscito il 4 ottobre. Ma forse tutto davvero comincia ancora prima. Quando dom Helder Camara, nel 1986, chiede a Olivero di «trovare nuovi impegni per i giovani ». O nel 1997, quando è madre Teresa di Calcutta a dire all’amico Ernesto: «Penso che dobbiamo andare alla ricerca dei bambini e dei giovani per riportarli a casa». Oggi la loro casa sarà a Prato della Valle. IL FOGLIO di sabato 13 maggio 2017 Pag 2 Che cosa ci siamo persi di Fatima parlando soltanto dei tre segreti di Matteo Matzuzzi Francesco oggi canonizza i pastorelli, parla Antonio Grasso Roma. Stamattina il Papa a Fatima, in Portogallo, proclamerà santi Francesco e Giacinta Marto, i due pastorelli che assieme a Lucia Dos Santos videro apparire alla Cova da Iria la Vergine Maria. Un evento che nella devozione popolare è però percepito diversamente rispetto ad altri simili, a cominciare da Lourdes. E' come se decenni di ricerca frenetica di segreti nascosti abbiano messo da parte il senso profondo di quanto avvenne lì nel 1917. Il fatto è che "Fatima richiede un maggiore sforzo di adattamento per cogliere, al di là del rivestimento storico -culturale, il messaggio universale che la Madonna ha voluto offrire al mondo attraverso quei tre semplici bambini", dice al Foglio Antonino Grasso, docente di Mariologia all'Istituto superiore di Scienze religiose "San Luca" di Catania. Messaggi che sono "prevalentemente due, e insistenti a ogni apparizione: pregate col Santo Rosario e riparate i peccati del mondo perché 'fanno soffrire' il cuore di Gesù e di Maria. Il tema della 'riparazione' è quindi il messaggio specifico". Quel che si deve fare è di "entrare nella semplicità di queste anime per cogliere il cuore del messaggio di Fatima e poi saperlo ritradurre nella propria vita. Non bisogna aspettarsi altro da Fatima. E' possibile, per chi ci va la prima volta e viene dall'esperienza di Lourdes, trovare all' inizio qualche difficoltà. Il messaggio di Fatima, staccato dal suo reale contesto e ridotto alla spasmodica ricerca dei significati del suo 'segreto', non ha ancora avuto uno studio elaborato e una vera sua traduzione pastorale". Con le apparizioni alla Cova da Iria, poi, "subentra una specifica sottolineatura di aspetti diversi dalle apparizioni di Lourdes. Dalle consegne di pratiche di pietà, preghiera e conversione, la Madonna di Fatima passa a un'autentica spiritualità, condensata nella devozione o consacrazione al suo cuore immacolato; da una visione puramente spirituale, passa a una prospettiva anche storica e politica. Rispetto a Lourdes, da un influsso ristretto si passa a un influsso universale sulla pietà dei fedeli e perfino dei vescovi e dei pontefici", sottolinea il prof. Grasso. Quanto a un "segreto" ancora da rivelare, si tratta di un mito, secondo il nostro interlocutore: "Il terzo segreto fu pubblicato nel 2000, con l'autorizzazione di Giovanni Paolo II. Il Documento dal titolo Il Messaggio di Fatima fu commentato dal cardinale Ratzinger. Al cuore della sua interpretazione c'è una meditazione cristiana sulla storia. Ratzinger escluse drasticamente che la visione dei bambini a Fatima fosse 'un film anticipato del futuro', e di un futuro prefissato per sempre, impossibile da cambiare. Al contrario, il messaggio

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che scaturisce dalla visione è un invito alla libertà degli uomini, perché cambino le cose in bene. Non esiste un destino immutabile e fede e preghiera sono potenze che possono influire nella storia". Insomma, "in vece di essere rivelazioni apocalittiche sul futuro, le visioni di Fatima sulla persecuzione dei cristiani sono un messaggio di speranza". A ogni modo, "tutto il segreto di Fatima è stato rivelato. Non esistono parti ancora non pubblicate. Questa è la smentita ufficiale che lo stesso Papa emerito ha voluto far pubblicare un anno fa". Ma quanto sono attuali i messaggi rivelati? "Se sapientemente accolti, sanno suscitare una positiva e feconda nostalgia di Dio nella persistente crisi dell'uomo contemporaneo". Per questo possiamo affermare - aggiunge il mariologo - che "la ragione ultima delle apparizioni e dei messaggi della Vergine è quella di rassicurare gli uomini e le donne della provvidente prossimità di Dio alla nostra faticosa esistenza". Detto ciò, "il messaggio rimane un messaggio per l'oggi, nella storia che stiamo vivendo, sia a livello mondiale, sia per la chiesa che vive la persecuzione. Ma anche per l'occidente dove c'è indifferenza verso Dio. Il mondo oggi - prosegue Grasso - vive attraverso la cultura dominante e si è dimenticato di Dio e questa dimenticanza contagia anche i cristiani, portati spesso a vivere come se Dio non ci fosse. Per questo Benedetto XVI ha affermato che 'sbagliano quelli che pensano che il messaggio di Fatima sia già esaurito, è ancora una vera profezia per il cammino del pellegrinaggio della chiesa nel mondo'". L'invito che giunge dalla Cova da Iria è di "liberaci dal frammentarismo della storia, non affidarci a futuri brevi che fanno perdere il senso del futuro ultimo, resistere alla tentazione del neo paganesimo, perché incatenando l' uomo al suo smarrimento pratico-esistenziale gli fa perdere la dimensione escatologica". Pag III Chiesa straniera di Mattia Ferraresi Vivremo la fede in un mondo post cristiano? Il vescovo Camisasca risponde con una storia d’amore L'ultimo libro di Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia, non dà ciò che promette. Da un titolo come La Straniera. Meditazioni sulla chiesa (Edizioni San Paolo) il lettore di oggi, anche quello cattolico, legittimamente può attendersi una variazione sul tema dello scontro di civiltà. Da chi non si occupa della chiesa in termini vatileaksiani o di puro spiritualismo compatibile con la meditazione yoga - entrambi generi sempreverdi - ci si aspettano pensieri e analisi intorno alle condizioni per la sopravvivenza della chiesa in un mondo ostile e "post cristiano", termine che occhieggia nei titoli di diversi volumi di recente pubblicazione e che il cardinale Angelo Scola ha fatto seguire, significativamente, da un punto interrogativo. Da una meditazione sulla chiesa si pretende quantomeno uno sguardo geostrategico. Parafrasando il salmo, si alzano gli occhi intorno e ci si domanda: da dove verrà l'aiuto? Dal fervore dell'America Latina? Dalle vocazioni africane? Da una semplificazione delle cose difficili che la chiesa propone? Dall'apertura al sacerdozio femminile? Dal cristianesimo nippo-hollywoodiano di Silence, che supera il principio di non contraddizione si libera dal fardello occidentale del logos? Poiché lo scontro di civiltà ha sempre un lato esterno e uno interno, appare immancabile in una riflessione sulla chiesa la disamina politologica sulle correnti, sulle anime, sulle liti e i conflitti d' interpretazione, la polarizzazione fra progressisti e conservatori, le valutazioni sul pontificato di Francesco o almeno una qualche presa di posizione sulla comunione ai divorziati risposati. Il libro sul rapporto fra cristianesimo e mondo che sta facendo più discutere in America, e ormai anche in Europa, è The Benedict Option di Rod Dreher, il "testo religioso più importante del decennio", come lo ha definito l'editorialista David Brooks, che nel sottotitolo spiega la sua funzione: "Una strategia per i cristiani in un mondo post cristiano". La preoccupazione dell'autore è delineare una strategia perché i cristiani che ancora vogliono vivere come tali (gli ortodossi con la "o" minuscola, come li chiama Dreher, che è un ortodosso russo) possano trovare luoghi e contesti per farlo. Dato che la forza del mondo è imbattibile con una battaglia frontale, peraltro a lungo tentata, Dreher suggerisce una ritirata strategica come metodo privilegiato per vivere una vita cristiana. Nel suo Strangers in a Strange Land l'arcivescovo di Philadelphia, Charles Chaput, delinea con lucida e dolorosa precisione i tratti foschi, lividi della condizione contemporanea in cui la chiesa si trova ad agire. Ancora una volta compare la dimensione post cristiana: "Vivere la fede cattolica in un mondo post

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cristiano".Camisasca racconta invece una storia d'amore. Amore, amante, amato, amoroso, innamorato, innamoramento: sono queste le parole che rimangono più a lungo appiccicate addosso alla fine di questo volume che è breve ma non agile, come si usa dire. L'agilità rimanda a balzi veloci e passeggeri, mentre questo libro è tutto proteso verso lo stabile e l'eterno, "non si perde nelle cose secondarie", come scrive Erio Castellucci, arcivescovo di Modena, nella prefazione. Sono pagine tridimensionali, che si muovono nel senso della profondità e della durata, non si risolvono nella dimensione dell' immediato. E' di facile lettura, ma è tutto il contrario dell'agilità. Inoltre Camisasca ci risparmia la sociologia, un gesto pieno di misericordia verso un popolo smarrito ma mai digiuno di analisi, parametri, tendenze. Ciò che rende questo testo originale rispetto ad altri di questo periodo è che si propone di rispondere alla domanda radicale "che cos'è la chiesa?", non di affrontare domande subordinate, pur urgenti e rilevanti, come "come può la chiesa vivere nel mondo di oggi?" oppure "cosa può fare la chiesa per risultare più affascinante agli occhi degli uomini di questo tempo?". Questa impostazione priva di strategia sgombra il campo da alcuni equivoci sulla natura della chiesa che si cementano progressivamente dall'alba della modernità: da una parte, l'abbassamento del corpo ecclesiastico al suo riflesso istituzionale; dall'altra, l'elevazione a inarrivabile materia spirituale senza conseguenze sulla vita. Dentro questa ambiguità è cresciuto, specialmente fra i giovani, il motto "Cristo sì, chiesa no" che Papa Francesco ha definito una "dicotomia assurda". E' impopolare, come nota l'autore, parlare del tema senza accettare una riduzione implicita, che sia politologica o spiritualistica: "Si parla poco oggi della Chiesa. O meglio si parla di lei lasciando completamente nascosta la realtà della sua persona. Ciò di cui oggi si occupano i giornali, le televisione, internet, è il Vaticano, con i suoi scandali, al più sono i vescovi e i preti. Si è smarrito il senso vivo della fecondità di Cristo attraverso la Chiesa". Come diceva Eliot nei "Cori da la rocca", la chiesa è diventata una straniera, una sconosciuta agli occhi del mondo, e lo scopo di questo libro è avviare un'opera di ricognizione, non assecondare le immagini che circolano nella cultura. E' appunto in questo senso che "La Straniera" non dà ciò che promette. L'analogia amorosa è subito esplicitata. Camisasca cita San Paolo, "La nostra patria è nei cieli", con un'annotazione: "Eppure questa donna vive sulla terra ed è la donna che amo. Vorrei farla conoscere e, contrariamente al buon senso, vorrei che fosse amata da tutti [...] questa mia amante è un popolo di peccatori eppure è santo. Rappresenta una terra di passaggi continuo dalla dispersione all' unità, dalla tenebra alla luce, dal peccato al pentimento e alla purificazione". Il metodo per conoscerla e farla conoscere è quello di "considerare la nascita della comunità ecclesiale nel cuore degli uomini al tempo di Gesù", cioè ritornare a quell' innamoramento originario e trascinante. Già dietro a questo metodo si riconosce un'idea della fede che Camisasca ha assorbito, più come una prospettiva che come una lezione, dal suo maestro, don Luigi Giussani: "La fede non è innanzitutto una teoria sull' uomo o sul mondo, anche se da essa nasce una visione della vita e un parametro di giudizio sul bene e sul male, sul giusto e sull' ingiusto. La fede è un incontro, è l'incontro con il Dio unico e con il Figlio che egli ha mandato". Si ripercorrono i passi e si incontrano i protagonisti della "continuità nel tempo dell' umanità di Gesù attraverso la carne di noi peccatori", una specie di catalogo meditato degli innamorati del Messia, da Maria di Madgala a Nicodemo, da Giovanni e Andrea alla samaritana, che Cristo incontra "assetato del nostro amore". Si va a ritroso fino al "sì perfetto" di Maria, quel misterioso dialogo fatto di silenzi che è all'origine della chiesa. Hans Urs von Balthasar aveva corretto a dovere chi, cedendo a uno sguardo sociologico, collocava l'inizio della chiesa nell'emergere di una struttura: "Chi fa cominciare la chiesa dopo, ad esempio con la chiamata dei dodici, o con il conferimento della piena potestà a Pietro, ha già fallito l'essenziale".Camisasca sottolinea un aspetto del rapporto fra gli uomini e Gesù - e dunque fra gli uomini e la chiesa - che contrasta particolarmente con una mentalità tutta sbilanciata sul potere assoluto delle scelte individuali, dove anche l'adesione alla chiesa può diventare la risultante di un calcolo o di una posizione esclusivamente morale: Cristo è sorprendentemente attratto dall'uomo: "Ciò che appare meravigliosamente sorprendente è che non solo Gesù attrae per la sua bellezza, per l'autorità della sua parola, per la tenerezza decisa del suo gesto, ma anche egli è attratto dall'uomo. Egli ama colui o colei da cui vuole essere amato. Non solo Andrea e Giovanni seguono perché attratti da lui, ma Gesù ha parlato al loro cuore perché attratto da loro". Quodveltus, vescovo di Cartagine nel V secolo, diceva che "le

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parole umane non hanno espressioni adeguate per esprimere il sublime mistero di questo sposo, di questa sposa", e allo stesso tempo Camisasca ricorda che una lunga tradizione "ha visto nel Cantico dei cantico un testo privilegiato dove era espresso l'innamoramento di Gesù per l'anima dell'uomo e dell'uomo per Gesù". La chiesa, in sintesi, emerge da un'esperienza amorosa che ha la forma del corteggiamento e si compie nello sposalizio. "In questo movimento il nostro cuore assetato d'amore e di pace incontra la sete che Cristo ha di noi, della nostra umanità", scrive Camisasca. I più versati in teologia possono rinvenire un fitto intreccio di riferimenti sul tema, non ultimo il Benedetto XVI della Deus caritas est. E' quando si perde dalla memoria l'attrazione originaria che, dice il vescovo, l'esperienza della chiesa si ingrigisce: "L'affanno, la preoccupazione, è uno dei tarli più gravi della vita ecclesiale, una delle più profonde minacce alla comunità cristiana. Una minaccia che viene dall' interno. Attivismo è il nome di questa malattia. Si cerca nell'attività il rimedio al male proprio e degli altri. L'invito di Gesù è invece pervaso di una pacata, serena luminosità: 'Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta' (Mt 6,33)". Qual è il rimedio? Non adottare nuove e raffinate strategie pastorali, ma stare con Gesù: "La Chiesa nasce stando con Gesù, dalla frequentazione assidua e sempre nuova della sua persona. Anche oggi la Chiesa nasce nello stesso modo, attraverso lo stesso movimento che è lo stare con il maestro". Ancora una volta, sono le categorie dell' incontro, della condivisione, dell' innamoramento a prevalere sulle capacità organizzative e sulle sensibilità culturali. Si trova anche molto altro in questo libro. Con il suo stile asciutto, tendente alla paratassi, concentrato più sul peso delle parole che sulla loro estensione, il vescovo di Reggio Emilia offre meditazioni sulla casa, sulla famiglia, sulle virtù cardinali, parla della vocazione missionaria che ben conosce, avendo fondato, nel 1985, la Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo, che ha guidato fino al 2012; rilegge in profondità l'ammonimento "vi mando come pecore in mezzo ai lupi", che racchiude il timore di almeno una parte della chiesa di fronte a meccanismi storici che sem brano fare a brani la sua presenza: "Non deve suscitare paura - scrive Camisasca - ma consapevolezza della propria inermità umana. Soltanto così la Chiesa può veramente essere se stessa: confidando in Dio. Non è un invito a non usare dei mezzi umani, ma a non poggiare su nessuno di essi la propria speranza". Il dramma giovanneo di vivere nel mondo ma non essere del mondo non viene sciolto ma approfondito, proponendo una chiesa che "non può autoescludersi dalla storia" e contemporaneamente non deve diventare schiava di una "espressione storica da custodire intatta nel tempo". Quasi temeraria la rilettura della chiesa "casta et meretrix" di Sant'Ambrogio: "Molti usano questa espressione per dire che nella Chiesa convivono santità e peccato. In realtà Ambrogio voleva dire altro, come si comprende bene da tutto il contesto in cui è collocata questa espressione. La Chiesa è una prostituta perché si unisce a tanti uomini che sono tutti i popoli a cui Cristo l'ha mandata. In questo modo realizza la sua missione, la sua santità. Essa non è dunque assieme casta e peccatrice, ma è casta proprio perché peccatrice".Tutti questi spunti preziosi sono tuttavia subordinati alla trama amorosa annodata all'inizio del libro, dove quella dinamica di attrazione reciproca fra l'uomo e Cristo non genera soltanto immagini poetiche ispirate, ma dice qualcosa di antico e nuovissimo sulla natura della chiesa, avvilita dalle letture socioculturali e da ogni parte ridotta a fazione da chi crede che "il realismo delle divisioni sia più grande del realismo della carità". Nella conclusione di un celebre intervento in piazza San Pietro nel 1998, don Giussani ha usato l' immagine del mendicante per mostrare la profondità di questo rapporto amoroso: "Cristo mendicante del cuore dell' uomo e il cuore dell'uomo mendicante di Cristo". Se un appunto si può fare a questo libro è che il titolo "La Straniera" non trasmette immediatamente l' idea di una chiesa innamorata e "innamorante" che invece emerge in modo affascinante in un testo che dà molto più di ciò che promette. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 24 Centenari d’Italia di Federico Fubini

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C’è un nuovo ceto sociale, quello dei grandi anziani Il posto più salubre del mondo potrebbe essere un appartamento senza wi-fi al quinto piano di via di Città 36, Siena. Potrebbe. Non ci sono prove, ma indizi sì. Fra queste quattro mura deve trovarsi almeno un po’ del segreto di una vita lunga e piena di sapori fino a un’età che, decenni addietro, sarebbe parsa impensabile. Si sono appena seduti qui per parlarne attorno a un tavolo sei senesi nati negli anni ’30: Massimo Fabio (1933), Vittoria Nepi Adami (’36), Raffaello Mori Pometti (’31), Vinicio Guastatori (’34), e Emilio Giannelli (’36), il vignettista che per i lettori del Corriere non avrebbe bisogno di presentazioni. La crescita esponenziale - All’ultimo censimento condotto nel 2011, Siena è la città d’Italia con la quota più alta di ultranovantenni. Lo segnala Giorgio Alleva, il presidente dell’istituto statistico Istat. È dunque un buon punto d’osservazione per spiare la rivoluzione sociale più profonda in corso oggi in nel Paese e anche la meno discussa, perché avviene nei soggiorni di casa invece che nelle piazze. È una metamorfosi esponenziale, come mostra il grafico in pagina sugli italiani che hanno compiuto i cento anni di età. Erano 51 quando Benito Mussolini marciò su Roma meno di un secolo fa e meno di mille quando l’Italia si apprestava a vincere il Mondiale di Spagna con Dino Zoff e Enzo Bearzot. Oggi sono oltre 17 mila, destinati a esplodere fino a 157 mila quando saranno anziane le persone attualmente di mezza età (i dati sono forniti dall’Istat e da Vittorio Filippi su Neodemos). Prende forma così un nuovo ceto sociale: i grandi anziani. Dal 2003 fino all’anno scorso il numero degli ultranovantenni è cresciuto di una quantità pari agli abitanti di Bari, il nono capoluogo del Paese per dimensioni; prima che i giovani adulti di oggi diventino i vecchi di domani, si moltiplicheranno per dieci. Purché non siano i soli italiani destinati a rafforzarsi, una trasformazione del genere è tanto positiva quanto poco apprezzata. In un Paese abituato a trovarsi sul fondo di qualunque classifica, in effetti, non ha sollevato la curiosità che merita il Bloomberg Global Health Index uscito il 20 marzo scorso: nell’indice mondiale della salute, l’Italia risulta prima assoluta. È il Paese dove si è sani più a lungo, in una lista di 163 nazioni elaborata sulla base di ingredienti come l’aspettativa di vita, le cause di morte e l’esposizione al rischio di tabacco, alcool, pressione alta o malnutrizione. «La crescita ristagna da decenni, quasi il 40% dei giovani è senza lavoro e il Paese è oppresso da uno dei più pesanti carichi di debito rispetto alle dimensioni dell’economia», ha premesso Bloomberg. Avrebbe potuto aggiungere che i tassi di povertà sono raddoppiati. «Eppure gli italiani sono molto più in forma degli americani, dei canadesi o dei britannici». Non servirebbe molto, per certi aspetti. Nei giorni in cui Bloomberg metteva in Rete la sua graduatoria due economisti di Princeton, Anne Case e il premio Nobel Angus Deaton, pubblicavano uno studio sconvolgente: dall’inizio del secolo la mortalità dei bianchi di ceto medio negli Stati Uniti è aumentata, mentre l’Italia con il Giappone, l’Olanda, la Svizzera e la Svezia mette a segno i più grandi progressi in tutte le aree - morti per droga, alcol, suicidio, malattie cardiache e tumori - malgrado la grande stagnazione. Sta succedendo qualcosa nel Paese che quei sei senesi nati negli anni ‘30 si sono ritrovati nella sede del Magistrato delle Contrade, l’associazione che dà vita al Palio, per cercare di capire. Sono ben piazzati per parlarne, anche che se il primato di Siena nella quota di ultranovantenni d’Italia in sé non significa molto: può darsi che i giovani abbiano lasciato la città o che nascano pochi bambini, non solo che a Siena si vive più a lungo. La lista dell’Istat sulle città con una proporzione più alta di grandi anziani aiuta comunque a fare un po’ di chiarezza. Vi figurano in effetti centri con una natalità molto più bassa della media italiana - La Spezia, Savona, Udine o Trieste - e questo spiega il peso relativo degli anziani. Nell’elenco dell’Istat emergono però tre città ad alta densità di ultranovantenni dove la frequenza delle nascite è nelle medie nazionali, o solo di poco sotto: appunto Siena, oltre a Firenze e Bologna. Neanche questa è una prova che in quei comuni si vive di più e che dunque vanno cercati lì i segreti di una lunga esistenza. È solo un altro indizio. Studiare allunga l’esistenza - Quelle tre città però presentano un ulteriore punto in comune perché, fra i grandi anziani, hanno tutte una proporzione di laureati sopra alle medie nazionali (vedi grafico). Questo in effetti sembra logico: le probabilità di morire durante la mezza età diminuiscono infatti di molto per chi ha raggiunto livelli di istruzione più alti. Lo studio allunga la vita, in media, perché in certi casi la salva.

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Stefano Mazzucco su Neodemos mostra per esempio che fra i maschi italiani fra i 25 e i 44 anni le probabilità di morire sono triple in chi ha la licenza elementare rispetto a chi è laureato. Ma anche questo non basta a spiegare i segreti di Siena, perché anche Roma o Milano hanno molti laureati novantenni ma non hanno un’alta densità di anziani. Seduta nella sede del Magistrato delle Contrade la signora Nepi Adami - 81 anni, forma perfetta - azzarda una spiegazione diversa: «Non sono mai sola - dice -. Vado nelle case di amici dove andavano i miei nonni e vanno i miei nipoti. Invecchiando la continuità dà sicurezza e la vita di contrada protegge: tutti i sabati c’è una cena, fra persone di ogni età». La signora deve aver toccato un nervo, perché i suoi coetanei ora si danno sulla voce per rimarcare il punto: a Siena si è sostenuti da un reticolo di relazioni che riempie la vita e la fa durare. Non solo le contrade, ma una quantità di circoli secolari: l’Accademia dei Rozzi, quelle degli Intronati e dei Fisiocritici, la Società degli esecutori delle pie disposizioni (gestisce patrimoni di senesi in lascito alla città), i Donatori di sangue delle contrade, la Misericordia (cattolica) e la Pubblica assistenza (laica). Attività culturali come il teatro e di volontariato. La rete del «capitale sociale» - È un misto di conservatorismo dei costumi e «capitale sociale» - circuiti di amicizia, sostegno, istituzioni della comunità e controllo reciproco - che in effetti si trova anche a Bologna e Firenze. Aiuta a vivere bene, a tutte le età. Gli ottuagenari senesi al tavolo del Magistrato delle Contrade ne convengono con orgoglio, prima che Giannelli li interrompa brutalmente: «Noi siamo buoni a socializzare, ma dove ci si dovrebbe scaldare siamo pecoroni». Parla di come quasi tutti hanno chiuso gli occhi quando il patrimonio da oltre dieci miliardi della fondazione Monte dei Paschi è stato devastato dalla gestione avida e incompetente della politica. Quel patrimonio era l’olio che lubrificava l’ingranaggio del «capitale sociale» senese, finanziando le associazioni, mentre oggi mancano anche i soldi per rinnovare i costumi delle contrade al Palio. Se dunque Siena è una metafora d’Italia, la distruzione di fiducia collettiva della grande recessione forse non ha spazzato via gli ingredienti di una buona, lunga vita. Ma il suo patto, di sicuro, è da rifondare. CORRIERE DELLA SERA di domenica 14 maggio 2017 Pag 27 La possibilità di essere madre di Silvia Vegetti Finzi Ieri avere figli era destino ineludibile. Oggi la maternità è un patrimonio: le donne lo valorizzino Che ne dite se una volta, almeno una volta, invece di denunciare la stanchezza, la solitudine, la mancanza di risorse economiche e di servizi delle mamme (tutto vero!) ci prendessimo la libertà, che sfiora l’incoscienza, di dire come sia importante e significativo e bello avere un bambino? Non a caso le «feste più festose» accadono nei periodi storici e tra le popolazioni più indigenti, come se costituissero una reazione positiva ai pesanti condizionamenti imposti dalla società e dalla cultura. In questo momento il crollo delle nascite ai minimi storici (1,3 figli per ogni donna), suonando come un campanello di allarme, fa sì che s’investano più risorse sulla natalità, come mostra l’approvazione dei bonus bebè. Provvedimenti non certo risolutivi, ma significativi di una rinnovata sensibilità. Tuttavia da soli i soldi non bastano per risolvere un problema che è anche psicologico, sintomo di una caduta del desiderio inconscio, oltre che delle motivazioni razionali e coscienti. Dagli anni ’70, abbiamo cresciuto figlie e nipoti incentivandole a studiare, trovare un lavoro soddisfacente, raggiungere elevati livelli di carriera, esprimere i loro talenti e realizzare le proprie aspirazioni. E in buona parte, ci siamo riuscite. Ma nel frattempo, poiché la vita è una coperta corta, una parte della femminilità si è raggelata: quella materna appunto. Mentre non mancano discorsi sulla sessualità, immagini erotiche, storie d’amore, discussioni sul gender, sulla maternità è caduta una cortina di silenzio. Il filo rosso che univa le generazioni femminili travasando di madre in figlia testimonianze, narrazioni ed emozioni si è interrotto e ora le adolescenti procedono ignare del compito che le attende. Le pulsioni del corpo sono state messe a tacere dalla ragione che, calcolando il futuro in termini di costi e ricavi, espelle dal suo perimetro l’ignoto rappresentato da quel misterioso, intempestivo «desiderio di pancia» con cui si dischiude il sipario della maternità. Non si tratta più, come per secoli è avvenuto, di accettare un destino ineludibile, ma di tenerne conto considerando la possibilità di avere un figlio come un patrimonio inestimabile. Un

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patrimonio che può essere speso in tanti modi, ma che richiede innanzitutto di essere riconosciuto e valorizzato. E se non lo fanno le donne, nessuno lo farà al posto loro! A cominciare dalla decisione d’inaugurare un’attesa che comporta indubbiamente dei costi, ma che, se vissuta per intero, corpo e spirito, costituisce un arricchimento della propria identità e una importante predisposizione all’accoglimento del nascituro. Difficile, nell’epoca della fretta, trovare il tempo e il modo di ascoltare il battito di cuori che funzionano all’unisono, i movimenti di corpi che si implicano a vicenda. Forte è la tentazione di procedere «come niente fosse». Eppure quel «due in uno» stabilisce una relazione che non ha eguali per intensità e durata. Destinata a sciogliersi dopo il parto e l’allattamento, l’interazione madre-figlio si troverà ad affrontare la più difficile delle prove. La madre dovrà accettare che L’ospite più atteso (come ho intitolato il mio ultimo libro) si allontani e divenga se stesso, senza mai sospendere la disponibilità e la responsabilità. Poiché tutti si nasce figli, la Festa della mamma riguarda ciascuno di noi. In qualsiasi modo si voglia esprimere, è un gesto di gratitudine che si compie. Dire grazie alla madre significa riconoscere che tutti, nei primi tempi della nostra vita, quando eravamo assolutamente dipendenti, abbiamo avuto bisogno della dedizione di una figura materna per sopravvivere. Esprimere gratitudine per quella incondizionata disponibilità significa, sostiene il pediatra e psicoanalista Donald Winnicott, liberare gli uomini dalla paura delle donne, dal timore del loro potere per stabilire, come è auspicabile, una nuova alleanza. La libertà richiede infatti di ammettere che nessuno basta a se stesso e che, nel processo di venire al mondo, il due precede l’uno. Un’etica, quella materna, che può offrire un valido paradigma di riferimento a una società disgregata dal prevalere della logica narcisistica dell’Io e del Mio, incapace di rispondere al bisogno collettivo di fiducia e di speranza. AVVENIRE di domenica 14 maggio 2017 Pag 2 Ripartire dalla madre (e ritrovare il padre) di Chiara Giaccardi Oggi sia festa, non per retorica ma per umanità La libertà di noi moderni tende a costruirsi su una doppia uccisione simbolica: quella di Dio padre e quella della Madre terra. Così si esprimeva più di mezzo secolo fa la filosofa Hannah Arendt. Della prima molto è già stato scritto. Dalla terra si vuole evadere, per conquistare lo spazio; ma soprattutto si vuole approfittarne, sfruttandola come materia a nostra completa disposizione. Insomma, la libertà moderna si afferma negando il fatto che noi siamo “figli di”, che non ci siamo fatti da soli, e che questo ha delle implicazioni. Di rispetto, di gratitudine, di fratellanza. Di senso del limite. Chissà cosa direbbe Arendt oggi, di fronte al programma determinato di smontare e rendere pleonastica la funzione materna. Proprio lei che aveva fatto dell’idea di “natalità”, il fondamento della libertà! Forse il giorno della festa della mamma è un’occasione per fermarsi a riflettere sul suo significato, anziché lasciarsi prendere dalle forme di consumo che hanno banalizzato questa ricorrenza. Il rapporto tra maternità e libertà è tutt’altro che scontato. In molte culture tradizionali la donna è identificata totalmente con la funzione riproduttiva (tota mulier in utero), resa possesso dell’uomo oltre che privata della sua integrità personale. Il femminismo radicale, per reagire alle forme persistenti di oppressione, ha fatto coincidere la rivendicazione della libertà con la negazione della funzione materna (tota mulier sine utero). Oggi, con l’idea di fabbricare la vita, anche attraverso la maternità surrogata, si arriva a uno smembramento del corpo femminile nuovamente ridotto a funzione (uterus sine muliere), senza nemmeno più il rapporto col bambino. La parabola della liberazione si avvita su se stessa, prefigurando nuove forme di schiavitù, ancora più inquietanti di quella della società paternalistica. E questa volta la contestazione diventa molto più difficile, perché la retorica della libertà avvolge ogni cosa, neutralizzando a priori la possibilità di critica, vista come un voler porre limiti alla libertà. La produzione di viventi, ultima frontiera del sistema tecno-economico, mira a rendere pleonastico il codice materno della generazione rigenerazione. L’uomo fabbrica, mentre la donna genera. Smontare questa differenza in nome del diritto individuale alla genitorialità è impoverire il mondo attraverso l’ennesima prevaricazione violenta nei confronti della donna. Il codice materno, nella sua tensione vitale tra comunione intima e differenza, tra condivisione totale – di sangue e fluidi – eppure rinuncia al possesso, è esemplare nella sua capacità di aprire una via più umana per abitare il mondo. Via fatta

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di dono reale di sé per l’altro. Perché il dono non si può comprare, o si chiama in altro modo: contratto. Dove una delle due parti, nella società della retorica dell’uguaglianza, è schiava dell’altra, o merce. E non è solo una questione privata. Se si riparte dalla madre, forse la società può fare un passo fuori dalla crisi mondiale che è insieme economica, politica e simbolica. Non è utopistico pensare a un contributo anche politico delle madri alla “democratizzazione della democrazia”, oltre l’astratto regime delle equivalenze o l’idolatria maschile dell’onnipotenza che produce guerra e conflitto sociale. Quando cerca di definire che cos’è la responsabilità, il filosofo Emmanuel Lévinas propone proprio l’immagine del “portare l’altro”: la maternità come figura concreta dell’etica. Il corpo della donna è il primo ambiente dell’essere umano, luogo di ospitalità fisica e psichica. Tempio della pulsione di vita, scena inaugurale di una umanità nuova. Alleanza che non si chiude nell’io-tu ma include il padre, le generazioni di ieri e quelle di domani. Madre è crocevia di destini, termine relazionale per eccellenza, identità insieme piena e definita da altri. Libertà di accettare l’altro nella sua alterità e farsi rimettere al mondo da questo incontro che sorprende. Violentare questo mistero della vita, trasformare la maternità nella fabbricazione di bambini ridurre la donna a individuo senza legami è condannarsi a “inciampare in se stessi, aggrovigliarsi nella nostra ombra”, come ha scritto Maria Zambrano. E non è un caso che le società che non fanno figli ma vogliono fabbricare esseri viventi siano così poco ospitali. “Maggio” viene dal sanscrito mahi, che significa la grande madre, la Terra. In tutte le culture è il mese della fioritura, dello sbocciare, della vita che esplode e ci trascina con sé. È il tempo dove si celebra quell’evento miracoloso e sacro che è la maternità, paradigma di ogni relazione etica. Privarci di questa esperienza non penalizza solo le donne, ma tutta l’umanità. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 14 maggio 2017 Pag II Tre buone ragioni per puntare i fari sulla sfida di Mira di Tiziano Graziottin Nove comuni al voto, diverse sfide politicamente interessanti sotto vari aspetti (Mirano, Jesolo, Marcon), ma un test tra gli altri fa e farà parlare dentro e fuori la provincia: nessun dubbio infatti che la corsa elettorale più intrigante sia quella di Mira. Quella che era la linea del Piave del Pd è rumorosamente crollata 5 anni fa con la clamorosa vittoria in rimonta al ballottaggio di Alvise Maniero, uno dei primi sindaci a 5 Stelle d’Italia, che però con un’intervista al Gazzettino qualche mese fa ha fatto il gran rifiuto e si è chiamato fuori (ma forse lo ritroveremo in Parlamento). Mira in ogni caso per M5S è diventato un imprescindibile luogo del cuore politico, un simbolo del successo del movimento; di qui la mobilitazione dei big (da Di Battista a Di Maio) per spingere l’esercito grillino alla riconquista. Ma, sia pure con lo scarto temporale legato alla sconfitta di Carpinetti, di “riconquista” si parla anche in casa Pd, dove per riprendersi un municipio occupato per sessant’anni i democratici hanno puntato tutto su Marco Dori, un “non politico” per eccellenza, pescato dalla società civile quasi per giocare sullo stesso terreno degli avversari. Un terzo robusto motivo per guardare a Mira in queste elezioni è la calata di Luigi Brugnaro, che ci ha messo la faccia (come era accaduto a Chioggia, senza fortuna) per lanciare Antonella Trevisan ed allargare il colore fucsia in provincia LA NUOVA di domenica 14 maggio 2017 Pag 38 Offerte dei fedeli rubate in chiesa di r.p. Caorle: sparite dalle cassette alcune decine di euro dalla cappella di Ottava Presa Caorle. Ancora un furto sacrilego in una chiesa di Caorle. Dopo il santuario della Madonna dell’Angelo è stata presa di mira la piccola chiesa dedicata alla Madonna di Lourdes a Ottava Presa. Si tratta dello stesso tempio votivo nel quale uno sconosciuto, alcuni mesi fa, si rese protagonista di un atto vandalico urinando sull’altare. Stavolta invece sono state prese di mira le cassette delle offerte. Ad accorgersi del furto gli aderenti della comunità monastica del Marango. Il ladro si è introdotto nella chiesetta,

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aperta per gran parte del giorno, e si è impossessato di poche decine di euro delle offerte dei fedeli. Indignazione nella comunità di Ottava Presa, di La Salute e Marango. Il parroco del monastero maranghese, che ha in gestione la chiesa, don Giorgio Scatto, è stato informato durante gli esercizi spirituali che sta affrontando a Trento. Tornerà nella comunità monastica solo domani. Nel frattempo è stata presentata la denuncia alla stazione dei carabinieri di Caorle. «Ci siamo accorti che la cassetta delle offerte era stata danneggiata», hanno spiegato ieri pomeriggio dalla comunità di Marango, «abbiamo scoperto che i soldi erano spariti. Probabilmente ad agire è stato qualcuno che ha bisogno di soldi, non crediamo alla tesi del balordo». I militari dell’Arma tuttavia hanno raccolto le segnalazioni di alcuni abitanti della zona. Nei paraggi della chiesa è stata notata fermarsi più volte, nel corso della giornata di venerdì, una macchina di colore blu. Gli inquirenti però non si sbilanciano e lasciano aperte tutte le piste. A distanza di 6 mesi, poi, non sono ancora stati scoperti i ladri che hanno distrutto, con lo scopo di rubare gli ori, la statua della Madonna dell’Angelo nel santuario sul mare. Le indagini su questo caso continuano, nel più stretto riserbo. I due episodi non sarebbero collegati. LA NUOVA di sabato 13 maggio 2017 Pag 34 Don Giovanni beato, comune di Eraclea sotto accusa di g.ca. Eraclea. Niente sindaco e vice all’anniversario della scomparsa del prete dei miracoli don Giovanni Bertola. Ora il comitato che lo vuole don Giovanni beato si è appoggiato al legale Luca Pavanetto, con il suo braccio destro, e sinistro, Federico Trevisiol, si rivolge al Comune dopo la grande e tradizionale festa organizzata dai fratelli Vittorio e Federico Boem e altri amici quali Vittorio Menazza che hanno raccolto tante famiglie attorno all’abitazione del prelato. «Abbiamo invitato sindaco e vice, quindi tutta la giunta», protestano i promotori, «ma nessuno si è fatto vivo. È gravissimo e mai in tanti anni si era verificato un fatto simile. Non hanno neppure risposto». Ora il comitato chiede risposte anche su altre iniziative. Tra queste, la traslazione della salma dal cimitero di Eraclea alla casa di don Giovanni, con annessa chiesetta, che si vorrebbe trasformare così in mausoleo che il comitato acquisirebbe alla sua proprietà dagli eredi. Passaggi complicati, assieme alla beatificazione curata dall’avvocato Pavanetto che è uno dei devoti. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’occasione europea dell’Italia di Angelo Panebianco Noi e i Paesi forti Il rischio è di vendere la pelle dell’orso con eccessivo anticipo. La sconfitta di Marine Le Pen e la vittoria dell’europeista Macron in Francia segnalano solo uno scampato pericolo (avesse vinto Le Pen il colpo, per l’Unione, sarebbe stato fatale). Tutto qui. Per giunta, la vittoria di Macron, al momento, è solo parziale. Per sapere se potrà contare su una maggioranza, e di che tipo, bisognerà aspettare i risultati delle elezioni parlamentari di giugno. Solo allora capiremo se si tratterà di un presidente forte oppure debole, dimezzato. Poniamo che Macron esca vincitore anche da quelle elezioni, che dia vita a una presidenza forte, sostenuta da una coesa maggioranza parlamentare. Basterà perché egli possa ricostituire quell’asse franco-tedesco che fu un tempo il motore dell’Europa e il cui venir meno negli ultimi decenni è da molti considerato la principale causa della sua crisi? E, inoltre, è solo così che si potranno finalmente affrontare i suoi più gravi problemi? È vero che l’asse franco-tedesco fu il vero governo dell’Europa per un lungo periodo e che il suo tramonto ha coinciso con l’inizio della crisi dell’Unione. Ma la difficoltà di ricostituire quell’asse è dovuta al fatto che le condizioni europee sono drasticamente cambiate. Negli anni passati si sono verificati due processi, apparentemente contraddittori, di concentrazione e, contemporaneamente, di diffusione di potenza. Il successo dell’unificazione tedesca ha concentrato potenza sulla Germania e ha reso il divario delle forze fra Germania e Francia molto grande.

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Contemporaneamente, l’allargamento dell’Unione ha diffuso potenza fra gli Stati europei. Un ipotetico nuovo asse franco-tedesco sarebbe molto squilibrato al suo interno (a favore della Germania) e meno autorevole e influente nei confronti del resto dell’Unione (a causa dell’allargamento e della risultante diffusione di potenza). In ogni caso, si tratterebbe di qualcosa di realmente nuovo, e non la riproposizione - come alcuni sembrano pensare - di una esperienza già vissuta. Certamente la Francia possiede degli atout importanti, il principale dei quali è rappresentato dal fatto che, dopo l’uscita della Gran Bretagna, si tratta della prima potenza militare d’Europa. Inoltre, per ragioni storiche, possiede una capacità di influenza, che manca alla Germania, su aree geografiche (Africa francofona) rilevanti per l’Europa. Ma ciò basterà per fare accettare all’opinione pubblica e, quindi, alla classe politica tedesche, un parziale ridimensionamento di quella posizione di assoluta supremazia entro l’Unione a cui entrambe si sono ormai assuefatte? La soluzione può allora venire dall’Europa a più velocità, un nucleo centrale più integrato composto da chi ci sta e, a corona, i restanti membri dell’Unione? Sì e no. Per certi aspetti le cose si semplificherebbero ma per altri si complicherebbero. Si semplificherebbero perché ormai è chiaro che, con l’attuale assetto, non ci sono alternative alla paralisi decisionale. Un’Europa a più velocità aggirerebbe e neutralizzerebbe i poteri di veto che oggi la bloccano. Si porrebbe rimedio agli effetti negativi della diffusione di potenza. Ma le cose, contemporaneamente, si complicherebbero. Perché nel nucleo duro, centrale, la Germania concentrerebbe ancora più potere di oggi, le relazioni interne sarebbero ancora più squilibrate. Per quanto alle orecchie di molti italiani questo possa apparire poco verosimile, proprio il nostro Paese, almeno in teoria, potrebbe essere chiamato a svolgere un ruolo di rilievo, potrebbe contribuire a superare l’impasse europeo. L’Italia potrebbe, e dovrebbe, essere un partner stabile per una Francia impegnata a bilanciare, almeno in parte, la potenza tedesca. Ciò, naturalmente, richiederebbe due condizioni. La prima è che l’Italia riesca a dare una soluzione minimamente decente ai propri attuali, gravi problemi di governabilità. La seconda è che abbia la possibilità di entrare a fare parte dell’eventuale nucleo duro dell’Unione. Le due condizioni sono fra loro connesse. Sono entrambe eventualità possibili anche se, al momento, nessuna delle due appare probabile. Chi l’avrebbe mai detto che le circostanze avrebbero reso proprio l’ Italia decisiva al fine del rilancio del progetto europeo? Tale progetto dovrebbe in ogni caso essere ridefinito, reinterpretato. Occorre certamente puntare sulla sicurezza (è, del resto, ciò che chiedono i cittadini più attratti dalle sirene antieuropee). Ciò significa impostare sia una difesa comune che un effettivo controllo europeo delle frontiere. Ma significa anche rimediare ad errori passati: occorre attribuire all’Europa pochi compiti essenziali (solo quelli che gli Stati nazionali non possono più svolgere) mentre bisogna ri-nazionalizzare prerogative e poteri indebitamente trasferiti all’Unione nei decenni trascorsi. Sperando anche, naturalmente, che classe politica e opinione pubblica tedesche siano disposte in futuro a fare, sul governo dell’eurozona, qualche concessione ai partner. Rimettere in moto il motore imballato dell’Europa è una impresa assai complicata. Non è sufficiente l’elezione di un giovane e simpatico presidente francese. Pag 28 I valori su cui scommettere nel disordine delle ideologie di Mauro Magatti La ristrutturazione dell’asse destra-sinistra è uno degli effetti più rilevanti della crisi iniziata nel 2008. A destra, i «populisti» hanno preso il posto dei neoliberisti. I temi su cui la nuova destra costruisce il proprio consenso sono ormai ben delineati: ostilità alla globalizzazione, ritorno all’identità culturale e all’autorità dello stato, prudenza sulle libertà individuali, conservatorismo religioso. Ma ciò non basta per dire la miscela che si formerà su questo versante politico. Prima di tutto, perché toni e accenti cambiano notevolmente la prospettiva: tra Theresa May a Victor Orbán, passando per Trump e Le Pen, c’è una bella differenza. E poi perché su temi fondamentali quali le relazioni internazionali e la politica economica esiste ancora una grande confusione: in fondo, Trump e May stanno cercando, un po’ a tentoni, di definire una linea che ancora non c’è. Conquistato il potere contro il vecchio modello, ora il problema è dire da che parte si vuole andare. Impresa difficile, dall’esito assai incerto. In questo scenario, il caso italiano si pone in modo originale. In un paese che si trascina da molti anni, la sventagliata populista è, nel suo insieme, addirittura maggioritaria; ma anche

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profondamente frammentata: il Trump italiano (Berlusconi), sceso in campo vent’anni fa, continua a tenere una quota non piccola di voti (per lo più moderati); Salvini e Meloni raccolgono le parti più rancorose dell’elettorato ma non riescono a raggiungere un consenso tale da poter contare veramente qualcosa. In questa stessa area si muove poi il movimento di Grillo che introduce una variante non da poco. Il M5S è infatti molto più equivoco sui tradizionali canoni politici: molti dei suoi elettori e dei suoi eletti vengono dalla sinistra e non si sentono di destra. E soprattutto, i Cinquestelle si avvantaggiano della curvatura generazionale della crisi italiana conquistando molti consensi tra chi ha meno di 40 anni. Ecco perche l’ipotesi grillina - più traversale rispetto alla destra in senso stretto - ha un maggiore potenziale di successo. A sinistra, la sconfitta della Clinton ha definitamente liquidato la stagione di Blair e Clinton. Troppi legami con la finanza e con i poteri forti; troppa lontananza dagli strati popolari. Da tempo, l’elettorato dei partiti di sinistra è prevalentemente concentrato sul ceto medio acculturato e mediamente anziano. La crisi di questa tradizione politica divarica la sinistra in due tronconi. Da una parte, i laburisti di Corbyn, i democratici di Sanders, i socialisti di Mélenchon e, in Italia, la galassia che sta tra Bersani e Pisapia: centrata su disuguaglianza e diritti individuali, questa sinistra - che pure assorbe parte della protesta populista - fatica ad allargare l’area del proprio consenso. Ed è molto difficile che possa arrivare a diventare una vera forza di governo. Dall’altra parte, c’è la «nuova sinistra», rappresentata da Macron e Renzi, due leader «moderni» che si sono affermati nel nome del cambiamento. Molti temono che Macron si riveli ben presto una delusione, un enfant prodige che in realtà è solo un maquillage del vecchio. Accusa che i critici rivolgono anche a Renzi. In effetti, per entrambi la sfida sta proprio qui: dimostrare che c’è una via tra la sinistra antisistema e la destra di protesta. I due hanno diversi punti in comune. Entrambi pensano che a essere decisiva sia la capacità di governo. Per questo hanno la tendenza a personalizzare molto la loro azione e sono molto attenti nella gestione dei rapporti di potere. Ma, per quanto importante, tale accortezza da sola non è stata finora né sarà in futuro sufficiente. In fondo, la prima esperienza di governo è stata, per entrambi, segnata da luci e da ombre. Dopo dieci anni di stagnazione e con prospettive incerte, ciò che si richiede è infatti una leadership consapevole della sfida di oggi, che è quella di tenere insieme efficienza e integrazione. Se vogliono co-involgere i giovani e rendere credibile la loro proposta politica, Renzi e Macron devono indicare più chiaramente la loro idea di futuro. Ciò di cui si sente il bisogno, infatti, è una prospettiva diversa, un cambio di paradigma in grado di costruire un nuovo scambio sociale tra interessi economici e sociali. La linea può essere tracciata lavorando sulla migliore eredità della presidenza Obama, il cui limite è stato quello di non essere riuscito a marcare una più netta presa di distanza dal modello economico degli ultimi decenni e dalle sue perversioni: concentrazione della ricchezza, aumento della disuguaglianza, distruzione dell’ecosistema, squilibro dei rapporti tra economia e politica. Ciò implica puntare a costruire una società post-consumerista. Che non significa ostile ai consumi, ma piuttosto consapevole che, nella fase in cui ci troviamo, il benessere va conquistato tutti insieme, scommettendo e costruendo quei «valori» (qualità dell’ambiente, investimento nella formazione, innovazione nelle relazioni di lavoro, lotta alla disuguaglianza, centralità della qualità della vita) che decidiamo di rendere prioritari. Obiettivo raggiungile solo con una politica capace di «mettersi in mezzo» per ricucire i frammenti di una società in pezzi. Muoversi su questa strada comporta avere il coraggio di annunciare una stagione di grande innovazione (economica, sociale, istituzionale) centrata su qualità e integrazione invece che su quantità e frammentazione. In un disegno che veda l’Europa diventare il cardine istituzionale di un tale progetto. IL GAZZETTINO Pag 1 Quale ruolo per i nuovi “soldati” di Marco Ventura È bastata una domanda per risollevare il caso della obbligatorietà o meno del servizio civile. Tema dibattuto a lungo nei mesi scorsi, fino a febbraio quando è passata a Palazzo Chigi la riforma che riscrive la leva civile. L'uscita all'adunata degli alpini del ministro della Difesa, Roberta Pinotti, favorevole alla proposta di servizio civile universale e obbligatorio chiesta dall'Associazione nazionale alpini, per il momento non ha conseguenze concrete. Eppure, tiene viva la prospettiva di arruolare per legge tutti i

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giovani in una serie di attività solidali come una volta si arruolavano i ragazzi di leva a 18 anni. Le risorse messe a disposizione serviranno a schierare sul campo 47mila giovani, meno della metà di quelli che ci si augurava, ma molti più dei 15mila del 2014, mentre l'obiettivo per il 2018 resta 100mila. I giovani saranno scelti attraverso bandi ai quali parteciperanno 14mila enti accreditati. Potranno essere impiegati nell'assistenza, nella protezione civile, per la tutela del patrimonio ambientale, storico, artistico e culturale, per la riqualificazione urbana e la promozione dello sport e della cultura, per l'agricoltura in zone di montagna e la biodiversità, per la promozione e tutela dei diritti umani e il sostegno alle comunità di italiani all'estero, così come nell'educazione alla legalità. Anche se è stato il governo Gentiloni, attraverso il ministero del Lavoro e in particolare il sottosegretario Luigi Bobba, a lavorare alla bozza di riforma della leva civile, una spinta era venuta dall'ex premier Matteo Renzi forte della sua esperienza come scout. Ma Bobba, che inizialmente era per l'obbligatorietà, alla fine si è schierato per il volontariato, anche perché il 91 per cento dei giovani sarebbe contrario. A riproporre il tema sono quindi gli alpini dell'Ana, 13mila volontari che vorrebbe potersi avvalere dell'aiuto dei giovani e che operano inquadrati nel sistema della protezione civile. Pag 1 Il populismo rosso porta al suicidio la sinistra di Schulz di Marco Gervasoni Immaginate se, poche settimane prima delle elezioni legislative, il Pd venisse pesantemente sconfitto nelle regionali in Emilia Romagna o in Toscana. E’ quello che è più o meno accaduto alla Spd ieri, con il crollo – secondo gli exit poll - di 9 punti percentuali nel Nordreno-Westfalia. Una sconfitta devastante per diverse ragioni. In primo luogo, perché è (o era?) una delle regioni più rosse del paese, il serbatoio di voti della Spd, considerando che si tratta dello Stato più popoloso della Germania. In secondo luogo, perché era governata da una figura, Hannelore Kraft, fino a poco tempo fa considerata una stella montante della Spd. In terzo luogo, perché, oltre ad essere la regione di Schulz, il candidato socialdemocratico alla Cancelleria vi si è recato numerose volte in queste settimane, legando il suo volto a quello della Kraft. Le ragioni della sconfitta? I dati non esaltanti dell'economia del Nordreno-Westfalia e soprattutto la questione della sicurezza: è uno dei Land con il maggior tasso di criminalità. Anche sul versante dell'immigrazione, la Spd è stata percepita come lassista nella gestione dei centri di accoglienza: e nel Nordreno-Westfalia sta la città di Colonia, con quel significativo Capodanno del 2016, con le aggressioni di numerosi immigrati alle donne. Ma è anche una sconfitta di Schulz e della sua strategia nazionale. Alla sua guida la Spd si è spostata a sinistra, fino quasi a rinnegare la lezione della Terza via di Gerhard Schröder (che ha fatto rinascere l'economia tedesca, fino a quel momento la malata d'Europa). Sul piano comunicativo, il populismo rosso di Schulz è sembrato per un momento entusiasmare: ma più i media e i sondaggisti. Per voti effettivi, si tratta della terza sconfitta della Spd in poche settimane, dopo la Saar e lo Schleswig-Holstein. E in tutti e tre i casi Schulz si è speso a livello personale, con la volontà di trasformare le regionali in una trionfale cavalcata verso il potere. Che invece appare a questo punto l'anticamera della sconfitta di settembre. Schulz ha commentato a caldo dicendo di non essere un mago, ma solo un miracolo lo potrebbe ora portare alla Cancelleria. Il disastro poi potrebbe essere totale se i liberali tedeschi, la FDP, data in crescita, ottenesse sufficienti voti da consentire di varare un governo Merkel, non più di grande coalizione ma di centro-destra. I dati del Nordreno-Westfalia sembrano confermare questo trend, con i liberali passati dall'8% al 12%. La suicida politica di spostamento a sinistra di Schulz ha ovviamente ridato energia alla CDU e ad Angela Merkel. Con la rimonta di più di sette punti, è evidente che il suo partito ha attratto elettori della socialdemocrazia, riuscendo tuttavia a frenare l'emorragia verso destra, cioè verso l'Afd, che totalizza un 7%. Anche se Merkel si è recata poco in questo Land, è una sua grande vittoria. Data per politicamente morente fino a pochi mesi, si appresta, salvo sorprese, a essere confermata alla Cancellieria. Merito anche della svolta d'ordine della CDU sul tema della sicurezza e dei migranti, che le aveva fatto perdere molti consensi. A questo punto, sarà molto difficile al neo presidente Macron, domani in visita a Berlino, imporre alcunché - dal suo punto di vista, sarebbe stato meglio avere una Merkel in crisi. Mentre due giorni, la conservatrice «Frankfurter Allgemeine Zeitung», il più autorevole quotidiano tedesco,

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aveva idealmente augurato il benvenuto a Macron scrivendo che sarebbe «già in crisi». Ovviamente non è così: ma di fronte a un presidente che, sia pur eletto con grande margine, non è certo di potersi garantire una solida maggioranza per portare a termine le riforme, dall'altra parte sta una leader, ininterrottamente alla guida dei governi da dodici anni, in grado persino di far crescere il suo partito in una regione «rossa». L'asse franco-tedesco, almeno per un anno, sarà ancora una guida a due, come ai tempi di Hollande: ma in cui il volante è saldamente retto dalla Merkel. Pag 13 Più sovrano che presidente. I francesi in Macron cercano il physique du role di Alessandra Graziottin I francesi non eleggono un Presidente, eleggono un sovrano. Metaforicamente, s'intende. Una repubblica presidenziale vive di simboli, oltre che di contenuti e metodo politico. I francesi si aspettano che il Presidente abbia il physique di role: senso alto dello Stato, rispetto del ruolo, energia e carisma, competenza e coraggio, statura morale (oggi più che mai). Se poi ha fascino, Dieu le bénisse, che Dio lo benedica. Emmanuel Macron ha sparigliato tutte le carte della politica francese. Ha il temperamento del leader, e lo ha dimostrato, convincendo più di 20 milioni di francesi a votare per lui. Composto, educato, concentrato, serio o sorridente a seconda del contesto, ha grande capacità di ascoltare e mediare per ottenere ciò che vuole. Ambizioso non si diventa Presidente della Repubblica a 39 anni per caso detesta le urla, il linguaggio volgare e gli attacchi di collera, rarissimi in lui. Ha dimostrato che si può essere molto efficaci e politicamente convincenti usando un linguaggio impeccabile. Del resto, è stata proprio l'immensa Marguerite Yourcenar a scrivere che «la volgarità del linguaggio denuncia la miseria del pensiero». Macron si muove a seconda del momento con un'energia controllata e al tempo fluida, con qualche momento di rigidità da protocollo nei momenti ufficiali. È un uomo sportivo. Gli piace il calcio: giocava da terzino sinistro nella squadra della prestigiosa École Nationale d'Administration (ENA) dove si è formato. Gioca a tennis, scia, fa jogging: lo rivelano il fisico asciutto, il passo elastico. La sua mimica facciale conserva una freschezza espressiva nonostante le pressioni e la tensione di un anno molto impegnativo che indica come le emozioni (anche negative) abbiano un'ottima valvola di scarico nel movimento, che ricarica energia pulita. Energia che significa anche capacità di sguardo coraggioso, forte e determinato sul futuro. Farà dello sport un pilastro dell'integrazione e del rilancio dell'economia, che ha riassunto in cinque ottimi punti (da sportiva e da medico che sostiene il valore dello sport per la salute e l'integrazione, non posso che applaudire!). Vuole conquistare alla Francia i Mondiali di Rugby del 2023 e le Olimpiadi del 2024. «Perché mi piacciono i Giochi Olimpici? Perché mi hanno fatto sognare. Qualche volta piangere. Perché mi hanno fatto vibrare»: questo dice il giovane uomo Macron. E il politico Macron? «Cercherò di avere i Giochi Olimpici perché cambiano la struttura del Paese. Perché portano a creare infrastrutture che sono strutturanti, dove si crea una comunione d'intenti che permette di superarsi, di trascendere i limiti». Impara rapidamente. Lo si è visto anche dalla maturazione del linguaggio non verbale in quest'anno di corsa vincente alla Presidenza. Il volto rivela educazione profonda, dei gesti e dell'animo: oltre alla famiglia, la scuola dei Gesuiti, dove ha fatto il liceo classico, ha lasciato tracce profonde nel suo modo di strutturare il pensiero e usare il linguaggio, e nell'educazione della voce. Ieri ha mostrato senso dello Stato con alcune scelte molto appropriate per rilanciare quella verticalità di ruolo che i francesi si aspettano da un Presidente (non a caso dei nobili si diceva Sua Altezza), perché da una persona in posizione pubblica alta ci si aspetta nobiltà di comportamento. Per l'uscita a salutare la folla lungo gli Champs-Élysées ha scelto un'auto militare, completamente scoperta. Coraggio e messaggio di fiducia nei francesi e nel futuro. Composto, con un'autorevolezza da giovane principe. «Ricorda De Gaulle». «No, direi Mitterrand», dicevano i commentatori: in ogni caso due Grandi. Postura eretta ma non rigida, salutava sorridente. Questo senso del ruolo, che ben promette, non l'ha capito Francois Hollande, dove l'uomo Francois ha (quasi) ucciso il presidente Hollande. È probabile che per ora uno stato di grazia, di fascinazione collettiva, accompagni Macron. Riuscirà a dare concretezza alle sue promesse? LA NUOVA

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Pag 1 In piazza con la felpa populista di Francesco Jori Primarie a salve; anzi… a Salvini. Chiedendo ai militanti l’investitura attraverso una sorta di “ola” dell’urna, il segretario della Lega ha voluto mettere in scena una prova muscolare, com’è nel suo stile, in vista del congresso di domenica prossima a Parma: coronata da grandi numeri (83 per cento), ma sostanzialmente inutile. E farlocca già in partenza, visto che gli si è contrapposto un unico sfidante, e pure per il rotto della cuffia, essendo riuscito a racimolare appena una manciata di firme (55) più della soglia minima. Per cercare di rendere solenne un evento così banale e scontato, e di dargli almeno una parvenza di confronto vero, alla vigilia Salvini l’aveva buttata sul melodrammatico, annunciando che senza un plebiscito sarebbe tornato a fare il semplice militante. Non è accaduto, anche se le roboanti percentuali annunciate vanno rilette alla luce dei numeri assoluti: in Liguria, per dire, quel 95 per cento è riferito a 266 votanti totali, l’equivalente di un grosso condominio. Ma non sarebbe capitato neppure se il consenso fosse stato di gran lunga inferiore. Dove il segretario-petto-in-fuori rischia di retrocedere davvero a militante, sarà semmai alle prossime elezioni politiche. Perché le rituali liturgie che si stanno celebrando in questi giorni nella Lega non riescono a mascherare un clamoroso dato di fatto: nel partito si è avviato un confronto-scontro di vasta portata tra due linee inconciliabili. Alla svolta sovranista e lepenista attuata da Salvini con l’avallo postumo di un congresso abborracciato, si contrappone la posizione portata allo scoperto da un’altra figura non meno autorevole, l’ex segretario e attuale governatore lombardo Bobo Maroni, rivendicando il Dna federalista e nordista del Carroccio. Il botta-e-risposta tra i due a colpi di interviste sul “Corriere della sera”, formalmente condotto a colpi di fioretto, nella sostanza è avvenuto impugnando il mitico spadone di Alberto da Giussano: un’arma da gioco il primo, da taglio il secondo. Non è questione solo di impostazioni politiche, comunque divergenti. C’è in ballo anche un concretissimo banco di prova come le prossime elezioni lombarde: dove Maroni intende riproporsi con la stessa coalizione odierna, fermamente avversata da Salvini; e non è casuale che proprio alla vigilia delle primarie, quel Berlusconi sbeffeggiato e contestato dall’attuale segretario leghista, abbia assicurato un esplicito ed elogiativo endorsement al presidente della Regione. Oltretutto, il voto nell’area più importante d’Italia è anche un’anticipazione di quello strategico a livello nazionale; ed entrambi i duellanti del Carroccio lo sanno molto bene. Per supportare la propria scelta, Salvini si vanta di aver risollevato il partito dal 3-4 al 12-13 per cento; ed è vero. Ma il punto non è la quota percentuale, bensì la sua spendibilità: già nel 1996 Bossi, cavalcando la secessione, portò la Lega alla doppia cifra (e a 4 milioni di voti); ma si rese conto molto presto che si trattava di un voto messo in freezer. Con meno della metà, invece, riuscì a parcheggiare il Carroccio nel governo, e con ruoli di primo piano; che poi non sia riuscito a incassare risultati veri perché rimasto subalterno al Cavaliere, è un’altra faccenda. Salvini è un camaleonte della politica, che adotta e adatta il packaging di chiunque vinca da qualche parte del mondo: dalla collocazione ai proclami, dagli slogan alla grafica, cambiandolo come fa con le felpe. Solo che, vestendosi comunque alla populista, rischia di essersi rivolto al fornitore sbagliato, come segnalano le recentissime elezioni francesi, e non soltanto. Col risultato che potrà magari conquistarsi il ruolo di leader del pur nutrito popolo di coloro che stanno a gridare giù in piazza, sotto le finestre del Palazzo. Peccato che le scelte si prendano al piano di sopra, nelle stanze. CORRIERE DELLA SERA di domenica 14 maggio 2017 Pag 1 Potere e domande scomode di Luciano Fontana Le accuse ai media Il rapporto tra informazione e potere politico sta vivendo in questi giorni un’altra puntata singolare. Si evocano complotti, complicità, ossessioni. Un calderone dove scompare il merito, si prendono strade laterali per non rispondere a interrogativi molto chiari e semplici. Riassumiamo: nel libro, appena pubblicato, dell’ex direttore e attuale editorialista del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli si racconta di un intervento, nei giorni caldi della crisi di Banca Etruria, di Maria Elena Boschi presso UniCredit (e il suo amministratore delegato Federico Ghizzoni) per sollecitare il salvataggio dell’Istituto di credito toscano in bancarotta. La ministra non ha alcun titolo per occuparsi della

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vicenda, anzi ha un ostacolo insormontabile: suo padre è il vicepresidente della banca, il conflitto d’interessi è evidente. Boschi replica di non aver mai fatto pressioni (in Parlamento aveva anche dichiarato in passato di non essersi mai occupata di Etruria) e annuncia querele, senza specificare nei confronti di chi. Federico Ghizzoni (adesso ex amministratore) si limita finora a un «no comment» (o a qualche breve dichiarazione), così come ambienti di UniCredit che affermano di aver esaminato il dossier e di aver scartato la possibilità di intervenire. Ieri la vicenda ha avuto una nuova escalation con l’intervista al Foglio di Matteo Renzi. Anche qui si allarga a dismisura il campo, non si sta alla questione di merito e si sferra un attacco incredibile a de Bortoli: avrebbe un’ossessione contro l’ex premier che lo porta a scrivere cose false. Si mettono insieme un errore su Carrai, che de Bortoli ha onestamente riconosciuto, con il fastidio di Renzi per la presenza di un giornalista del Corriere nel suo albergo di vacanza a Forte dei Marmi. Un giornalista che stava solo facendo il suo mestiere e per questo venne minacciato dalla scorta presidenziale. Si capisce bene che la vicenda delle banche toscane, con il colpo durissimo inferto da una gestione clientelare e dissennata a investitori e risparmiatori, sia una spina nel fianco del segretario Pd e della Boschi. È un capitolo oscuro, le inchieste e le intercettazioni dimostrano che intorno al salvataggio si mossero personaggi con un passato non raccomandabile. In quei giorni si raccontava, tra i soggetti istituzionali incaricati di trovare una soluzione alla crisi di Etruria, la seguente storia: a molte società di credito e a tanti investitori, anche stranieri, fu chiesto di intervenire per il salvataggio. Accadeva sempre questo: esaminavano le carte, facevano alcuni incontri e poi si ritiravano dopo aver conosciuto i personaggi e gli interessi «strani» che pesavano in quel piccolo mondo. Invece di immaginare trame si dovrebbe rispondere a queste semplici questioni sulla vicenda. De Bortoli ha raccolto, durante la stesura del suo libro, un’informazione e l’ha pubblicata. Così si comporta un giornalista. Il ministro ha reagito dicendo che non è vera ma il «no comment» di Ghizzoni e quello che ha aggiunto ieri al Corriere pesano. Non sono certo una smentita, anzi. Forse sarebbe meglio che anche il mondo bancario parlasse chiaramente. La trasparenza, dopo tutto quello che è accaduto in questi anni in cui le banche e le loro sofferenze sono state una zavorra per il Paese, dovrebbe essere un valore assoluto per tutti. Il rapporto con l’informazione di Renzi e del suo mondo è, per usare un eufemismo, complicato. Un rapporto questo sì ossessionato dall’idea di nemici sempre in agguato. L’ex premier non ha ancora «elaborato» la sconfitta referendaria, è tornato sulla scena, dopo la vittoria delle primarie, come se nulla fosse accaduto. Parole d’ordine e atteggiamenti simili. E tanta insofferenza per le voci critiche e le notizie scomode. C’è un lavoro di ricostruzione e una sfida riformatrice su cui le forze politiche, tutte, dovrebbero concentrarsi. Macron insegna. Ma di Macron per il momento non se ne vedono in circolazione. Pag 30 L’incognita Donald Trump sul futuro dell’America di Alan Friedman Il mio Paese è entrato da qualche giorno in una crisi costituzionale. Il licenziamento del direttore dell’Fbi James Comey costituisce lo scandalo più grande dall’epoca del Watergate, quando il presidente Richard Nixon rimosse il procuratore speciale che si occupava del caso. Trump, allontanando l’uomo che indagava su di lui sull’eventuale collusione nel 2016 tra gli uomini di Vladimir Putin e il team Trump ai danni di Hillary Clinton, potrebbe aver segnato l’inizio della fine della sua presidenza. Nella politica degli Stati Uniti, a differenza di quanto accade in Europa e in Asia, mentire può costare molto caro al capo del governo. Negli anni Sessanta il presidente Lyndon Johnson ha mentito agli americani sulla Guerra in Vietnam, e questo ha segnato la fine della sua presidenza. Negli anni Settanta Richard Nixon e Henry Kissinger hanno mentito al popolo americano sulla Guerra segreta in Cambogia, e poi successivamente Nixon ha cercato di insabbiare l’indagine sul Watergate. Il risultato? Impeachment e dimissioni di Nixon nel 1974. Da quando Trump ha licenziato Comey, martedì scorso, la Casa Bianca ha cambiato tre volte versione sulle motivazioni dell’allontanamento. Prima Trump ha affermato di aver licenziato Comey a causa di un’analisi del ministero della Giustizia che mostrava la sua incompetenza nell’indagine dell’Fbi dello scorso anno sulle email di Hillary Clinton. Una spiegazione che pochi in America hanno reputato credibile. Poi Trump, senza neanche aspettare il giorno successivo, ha annunciato di aver rimosso Comey perché «non faceva

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un buon lavoro». Giovedì Trump ha quindi dichiarato di aver «sempre avuto intenzione di licenziare Comey, fin dallo scorso novembre». Poi è venuto fuori che Trump era furibondo con Comey perché si stava stringendo il cerchio intorno all’indagine sul Russiagate. In questo momento, diversi costituzionalisti hanno iniziato a chiamare la situazione con il suo vero nome e avanzano la possibilità di un eventuale impeachment di Trump, basato non sulla sospetta collaborazione tra i suoi uomini e i servizi segreti di Putin nell’hackeraggio delle email della Clinton, email poi consegnate a WikiLeaks che con il team Trump avrebbe orchestrato la tempistica delle rivelazioni. No. Non per questo. Secondo gli esperti si tratta invece di «obstruction of justice», ostruzione alla giustizia, un tentativo chiassoso di impedire l’indagine della magistratura. Spesso, nella storia degli Stati Uniti, i politici cadono non tanto per presunti reati quanto piuttosto per i tentativi di insabbiamento. Il primo articolo di impeachment contro Nixon fu proprio l’accusa di ostruzione della giustizia. E secondo me, prima o poi, anche Trump subirà la stessa sorte. Tuttavia, non penso che un impeachment sarà possibile finché i repubblicani controlleranno la Camera e il Senato, e quindi l’agonia del Russiagate potrebbe continuare per molti mesi, fino a dopo il voto del 2018, quando diversi seggi in entrambi i rami del Congresso saranno a rischio. L’incognita è rappresentata dal «fattore Trump», cioè l’eventualità che il presidente continui a mentire così tanto e così spudoratamente che anche i repubblicani a un certo punto potrebbero, per salvare le loro poltrone, decidere di gettar via questo affabulatore, questa star ignorante dei reality show, questo palazzinaro dei sobborghi di New York che ha così danneggiato la credibilità della Casa Bianca. Per me, le possibilità che Donald Trump rimanga alla Casa Bianca fino al 2020 sono oramai scese sotto al cinquanta per cento. Pag 38 Due Europe per salvare l’Europa di Roberto Esposito ed Ernesto Galli della Loggia Anima e valori mediterranei complementari a quelli germanici. Ma serve crederci Significa certo qualcosa se a essere sollecitati da uno scritto sul futuro europeo come quello che abbiamo pubblicato sul «Corriere della Sera» del 10 aprile scorso siano stati solo un certo numero di esponenti politici: nonostante che il maggior spazio di quel testo fosse dedicato al tema dell’identità storico-culturale della Ue. Un nodo preliminare, senza sciogliere il quale noi continuiamo a pensare che nessun altro possa essere sciolto, dal momento che non si è mai visto un soggetto politico che non sappia dire di quale storia anche spirituale si consideri erede. Eppure bisogna constatare che su questo punto decisivo i politici più rappresentativi sembrano non avere nulla da affermare: forse per la paura di dire qualcosa che si riveli troppo impegnativo. Più sorprendente è che in Italia neppure il mondo della cultura si senta spinto a pronunciarsi su un tema simile. La politica e i suoi vari addetti pensano che vengano innanzi tutto le questioni istituzionali. Quelle legate all’identità possono aspettare. Del futuro assetto istituzionale dell’Europa anche noi ci siamo occupati, per la verità. Ma pensiamo che si debba farlo con un minimo senso della realtà. Che cosa vuol dire proporre, come molti fanno, di eleggere subito, appena possibile, un presidente dell’Europa simile al presidente degli Stati Uniti? Sembra che ci si dimentichi che il presidente Usa è il capo dell’esecutivo di uno Stato esistente; che come tale egli è il vertice di tutti gli apparati amministrativi del Paese, ha il potere di iniziativa legislativa, comanda le forze armate e nomina i giudici federali. Di quali di questi poteri l’immaginario presidente europeo di modello «americano» potrebbe oggi mai godere, dal momento che non esiste alcuno Stato europeo? Si è dimenticato che l’Ue non ha una Costituzione? E con quale Congresso il suddetto presidente potrebbe mai interloquire per sottoporgli le sue proposte di legge? E dov’è mai l’armata europea, o la guardia nazionale continentale pronta ad obbedirgli? E quali mai giudici, e per quali corti, egli dovrebbe nominare? Lo slancio in avanti, necessario, non può far perdere i contatti con la realtà esistente. Lo ribadiamo: ciò che a nostro giudizio sarebbe possibile fare realisticamente per cominciare (cominciare!) a dare all’Europa una vera sostanza politica non è inventarsi un impossibile demiurgo alla testa di un organismo statale ancora inesistente, bensì compiere un passo più modesto ma comunque assai significativo. Soprattutto alla portata istituzionale di ciò che l’Ue è attualmente, senza mirabolanti quanto impossibili fughe in avanti. E cioè, lo ribadiamo, un presidente eletto a suffragio universale e diretto da tutti gli europei, il quale sia dotato di tutti i poteri

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dell’attuale presidente della Commissione (magari opportunamente ampliati) affiancato da un ministro degli Esteri e uno della Difesa, provenienti da un diverso settore geografico. Ciò avrebbe l’indubbio significato di ricollocare il popolo degli elettori al centro del progetto dell’Unione. Checché ne pensino gli antipopulisti senza macchia, in assenza di un popolo effettivo, il suo profilo resterebbe quello, esangue e artificiale, della tecnocrazia oligarchica di Bruxelles e di Strasburgo. Ma tutto ciò resterebbe pura ingegneria istituzionale senza la premessa indispensabile di una chiara identità storico-culturale. In mancanza della quale qualunque Europa politica resterà un sogno. E allora ci chiediamo a questo riguardo: quali altri riferimenti esistono se non quello delle radici ebraico-cristiane e illuministiche da un lato e quello del rapporto tra mondo latino e mondo germanico dall’altro, opportunamente incrociati tra loro? Sono le prime che ci obbligano per esempio ad accogliere gli immigrati (ma anche a farlo razionalmente, adottando le cautele e i controlli necessari). O, per fare un altro esempio, a indicare all’Europa che voglia essere politica, e avere quindi un’identità riconoscibile, dei confini conseguenti. Ciò che vuol dire, in termini concreti, riconoscere apertamente che la Turchia non può far parte dell’Unione né può avere da questa l’appalto del flusso migratorio. Non basta. Sempre le radici di cui sopra dovrebbero spingere l’Europa politica anche a una preliminare opzione di solidarietà nei confronti di Israele, pur riservandosi, ovviamente, la facoltà di criticare pure nel modo più aspro le sue politiche antipalestinesi. Così come, per ciò che riguarda l’atteggiamento nei confronti dei cittadini extraeuropei residenti nei nostri Paesi, se va approvata senza reticenza una legislazione generosa per dare loro la cittadinanza, si deve pur esigere da essi un livello di integrazione adeguato. La quale, tanto per cominciare impedisca - si ricorra anche ai più duri provvedimenti legislativi - tutte quelle pratiche lesive nel fisico e nel morale della persona delle donne. Circa il rapporto tra latinità e germanesimo la necessità di riequilibrare i loro rapporti era stata già posta, alla fine della Seconda guerra mondiale, dal filosofo francese Alexandre Kojève in un saggio su L’impero latino . Dove s’intuiva, quando era ancora coperta di rovine, che la Germania sarebbe presto diventata la forza economica di gran lunga prevalente in Europa. Rispetto alla quale la Francia, se non avesse voluto diventare un semplice satellite, avrebbe dovuto creare un’alleanza organica con Italia e Spagna, capace di competere sia col blocco anglosassone sia con quello russo (allora sovietico). Se si pensa che le previsioni di Kojève si sono perfettamente avverate, ci chiediamo se, pur in una situazione drasticamente mutata, anche della sua fantasiosa ipotesi non resti qualcosa. A caratterizzare il mondo latino è da un lato una modalità cattolica, diversa da quella protestante, di sentire la vita. Ma tale distinzione resterebbe confinata al piano della psicologia dei popoli se non si calasse dentro dinamiche geopolitiche concrete. Che significano innanzitutto la diversa relazione con l’alterità, contraddistinta in un caso dal mare e nell’altro dalla terra. Il rapporto con il mare, per i Paesi mediterranei, vuol dire innanzitutto molteplicità. Una pluralità costitutiva che rende spesso eterogenee le loro terre (e quindi anche le disposizioni mentali delle loro popolazioni). Quali parametri comuni adottare per Catalogna e Italia meridionale, Provenza e Grecia, Portogallo e Padania? La soluzione non può essere quella di ingabbiare tali differenze in una rete astratta di regole comuni, ma di renderle produttive per uno sviluppo articolato, e un punto di vista plurale. Rapporto con il mare significa anche una relazione costante con la costa africana e mediorientale. Cioè essere in prima linea rispetto all’emigrazione ma anche rispetto all’Islam in tutte le sue componenti. Un compito, come si capisce, estremamente problematico, al quale l’Europa intera non può fare mancare l’appoggio perché ad esso destinano la geografia e la storia: basta pensare alle relazioni storiche con l’Oriente che hanno avuto la Spagna, la Grecia, l’Italia tutta da Venezia alla Sicilia e anche, in altro modo, la Francia. Quanto al mondo che possiamo definire in senso lato germanico, invece, è singolare vedere come si stia realizzando il disegno di un altro grande intellettuale europeo - parimenti, se non più, ambiguo di Kojève, vale a dire Carl Schmitt. Che, negli stessi anni del saggio sull’impero latino, elaborava, pensando alla Germania, il suo concetto di «grande spazio». Certo, un grande spazio che oggi ha un profilo essenzialmente economico, privo di intenzioni egemoniche sul piano politico. Ma conserva l’idea di fondo di un nucleo germanico al centro di una corona di Stati integrati con l’economia tedesca. A caratterizzarlo, diversamente dal mondo latino, è la relativa omogeneità dei protagonisti. Con in più, nel caso del mondo germanico, una generale predisposizione a conformarsi a

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strette regole di comportamento anche sul terreno socio-culturale: ciò che vale indubbiamente a spiegare molto bene, per esempio, l’ordoliberalismo tedesco con il suo governo disciplinare della società inteso a tenerla al riparo dai rischi del caos, del disordine, dell’indebitamento (la Grecia ne sa qualcosa). Ma per cogliere fino in fondo l’atteggiamento del grande spazio tedesco, bisogna tenere conto dello spazio, ancora più grande, che si stende ai suoi confini orientali. All’opposto dell’alterità islamico-orientale con cui si trova alle prese la latinità mediterranea, l’alterità cui è legata da mille fili ma anche da mille tensioni la Germania, è la Russia. Un’alterità che se da un lato l’attrae, come ha sempre fatto, dall’altro però, a causa della sua natura intimamente antiliberale, contrasta in misura radicale con l’attuale spirito pubblico tedesco. Il quale, peraltro, è chiamato pure a fare i conti con la spinta illiberale di gran parte dei Paesi dell’Europa orientale, a lei vicini ma spinti a utilizzare la Germania in chiave antirussa. Come non rendersi conto che, per allentare questa pressione, la Germania può trovare un alleato prezioso proprio in quei Paesi mediterranei da cui invece prende spesso le distanze con una punta di disprezzo? Insomma, se «l’impero latino» non può fare a meno dei Paesi centrali per gestire il suo mare, il «grande spazio tedesco» non ha forse bisogno dei Paesi mediterranei per governare la sua terra ad oriente? In realtà solo la compresenza, con diverse funzioni, dei due mondi, latino e germanico, può consentire a un’Europa divenuta politica di svolgere il proprio ruolo al pari degli altri protagonisti mondiali. Non è venuto il momento di provare a pensare l’Unione anche sotto questa luce? IL GAZZETTINO di domenica 14 maggio 2017 Pag 1 Legge elettorale, la forza della Francia e la debolezza italiana di Romano Prodi Domenica scorsa abbiamo seguito, con una forte emozione, al trionfo elettorale di Emanuel Macron che salutava la folla nella spianata del Louvre preceduto dall’inno europeo e seguito dal canto della Marsigliese. Una dovuta emozione per questa grande novità politica che porta al vertice della politica francese un leader giovane e nuovo, un leader che solo un anno fa era conosciuto da un ben modesto numero di francesi. A distanza di una settimana possiamo tuttavia avere un'idea abbastanza precisa dei problemi di politica interna, di politica economica e di strategia europea che Macron dovrà affrontare nel prossimo futuro. In politica interna il suo movimento (REM, République en marche) è già salito in testa nei sondaggi per le prossime elezioni politiche dell'11 giugno ma ben difficilmente potrà raggiungere la maggioranza assoluta dei nuovi parlamentari. Sarà quindi probabilmente costretto ad alleanze che, fin da ora, si presentano piuttosto complesse. Anzi più complesse del previsto per la tensione scoppiata con François Bayrou, leader del partito di centro che, con il suo improvviso sostegno, aveva aiutato Macron a compiere un decisivo salto in avanti verso la vittoria. Bayrou ha accusato Macron di aver imposto una eccessiva presenza di socialisti nella prima lista di candidati per le prossime elezioni, violando il patto precedentemente concordato con lo stesso Bayrou. Non si tratta in questo caso di una semplice tensione fra due leader politici ma di una prima manifestazione degli ostacoli che si manifesteranno in futuro per fare lavorare insieme Presidente e Parlamento. Non minori si presentano le difficoltà nel campo economico. Pur essendo la Francia un paese ricco, con alcune grandi imprese protagoniste nel mondo, l'economia francese è da anni quasi ferma. La crescita del PIL e della produttività, anche se superiori ai dati italiani, sono nettamente inferiori rispetto alla media europea. La spesa pubblica raggiunge l'incredibile livello del 57% del PIL, la bilancia commerciale, a differenza dell'Italia, è in passivo e il debito pubblico è passato, in questo secolo, dal 60 al 100%, mentre la disoccupazione è intorno al 10% e quella giovanile del 25%. Macron si è impegnato a correggere tutte queste distorsioni, portando dal 57 al 52% la spesa dello Stato, alleggerendo il settore pubblico di 120.000 dipendenti, unificando i 35 diversi sistemi pensionistici e, soprattutto, riformando il mercato del lavoro che, oggi, è molto più rigido di quello italiano. Soprattutto su quest'ultimo punto si gioca il futuro di Macron perché i sindacati hanno già dichiarato di essere disposti a tutto pur di impedirgli di iniettare maggiore flessibilità nel sistema produttivo francese. Già da queste semplici considerazioni si capisce come il compito di Macron non sia certo facile: egli si trova a governare un paese ancora forte e prestigioso ma che, negli ultimi anni ha proceduto

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con passo lento e con prestazioni deludenti. Grandi innovazioni di politica economica sono quindi necessarie perché la Francia possa riprendere, accanto alla Germania, un ruolo di guida in Europa. I governanti tedeschi hanno aperto a Macron un credito senza precedenti: perfino il ferreo ministro Shäuble è arrivato ad ammettere che non si può costruire una comunità di stati dotati di una forza differente senza costruire, nello stesso tempo, nuovi strumenti di compensazione. Pur avendo chiuso in anticipo la porta ad alcune proposte di Macron, come l'emissione di comuni strumenti di debito (i così detti eurobond), il governo tedesco si mostra disposto a condividere con la Francia quella leadership europea che la Germania non ha alcuna convenienza a portare avanti in solitario. Purtroppo, come scrive l'Economist, in conseguenza della Brexit, in presenza di una democrazia illiberale in Polonia e di una situazione di affanno continuo dell'Italia, alla Germania non resta che l'alleanza con la Francia. Io non credo affatto al giudizio sulla fatalità di un'Italia vittima di un eterno affanno ma ritengo che i prossimi mesi saranno decisivi perché il nostro paese dimostri il contrario e si affianchi alla Francia e alla Germania nel fare riprendere il cammino dell'Unione Europea. Riflettendo sulla condizione necessaria (ancorché non sufficiente) perché questo avvenga basta ricordare che la società francese non è meno divisa e frantumata di quella italiana. Solo una legge elettorale fortemente maggioritaria le ha reso possibile di essere considerata l'indispensabile partner della Germania. Mi accorgo invece che nessuno sembra rendersi conto che i progetti di leggi elettorali di tipo proporzionalistico presentati in Parlamento in questi giorni avranno il risultato di frantumare ulteriormente la politica italiana rendendo impossibile ogni decisione. Quando arriveremo a riconoscere che la ricomposizione del paese passa forzatamente, come in Francia, da una legge di tipo maggioritario? Vogliamo cioè cercare di mettere la casa in ordine e schierarci a fianco della Germania e della Francia, o dobbiamo rassegnarci ad accettare l'inaccettabile destino di essere sempre in affanno, con tutte le conseguenze che questo comporta? LA NUOVA di domenica 14 maggio 2017 Pag 1 Macron e le piccole patrie di Vincenzo Milanesi Oggi all’Eliseo c’è il passaggio delle consegne tra Hollande e Macron. Si apre una nuova fase per la storia europea? Mah... forse. Però… Alzi la mano chi si è ricordato che il 9 maggio, pochi giorni fa, è stata la “giornata dell’Europa”, un po’ come la sua festa nazionale. Ecco, il problema dell’Europa di oggi è tutto qui. Eppure, è solo ritornando davvero al progetto politico originario con cui l’Europa ha iniziato il suo cammino verso un’unione politica sempre più stretta, che i popoli delle nazioni che la compongono potranno sfuggire al destino di irrilevanza che la storia ha in serbo per loro nel mondo globalizzato. Ma senza la convinta adesione ad un ideale di “nazione europea” i popoli dell’Europa non riusciranno mai ad oltrepassare le nostalgie nazionalistiche delle proprie “piccole patrie” costituitesi durante l’Età Moderna. Quell’ideale si incarna nella consapevolezza non solo dell’appartenenza ad una identità comune, storicamente formatasi nel corso di secoli, ma anche che oggi è nell’interesse più vero e più concreto di ciascuno dei popoli europei superare le politiche che puntano a far conseguire, all’interno di una Unione asimmetrica, a qualcuno di essi maggiori vantaggi a danno di qualcun altro di quei popoli, e che è invece solo una logica di effettiva collaborazione, per quanto competitiva, quella che li salverà da quel destino. Non spaventi l’ossimoro della collaborazione competitiva. Si possono ben costruire policies all’interno dell’Unione che non massacrino qualcuno per favorire qualcun altro, ma solo accettando la prospettiva di non ragionare sempre e comunque secondo logiche che privilegino gli interessi delle “piccole patrie” rispetto a quelli della “patria europea”. Ma questo prezzo i partiti delle grandi famiglie ideologiche della tradizione novecentesca europea non sembrano essere pronte a pagarlo. Perché? Per il timore di perdere voti nelle elezioni nazionali, è ovvio. Dove i partiti “sovranisti” di nuovo, o seminuovo, conio, hanno facile gioco, di fronte ai problemi epocali di oggi, a convincere gli elettori che “si stava meglio quando si stava peggio”, e che quindi bisogna riappropriarsi in toto della propria “sovranità”, ingannandoli con pseudosoluzioni peggiori dei mali da combattere. Un po’ di ragione quei partiti tuttavia la trovano nei Paesi più deboli all’interno dell’Unione, come l’Italia, in cui si fanno sentire più marcate le conseguenze di una mancata adozione di politiche di collaborazione competitiva, con vantaggio, crescente, dei Paesi più forti. Di

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qui la soluzione dell’“Europa a più velocità”, che peraltro già esiste nelle pratiche di “collaborazione rafforzata” possibile in alcuni ambiti, ma che in realtà nasconde una ben più dura verità: quella di un’Europa a due velocità, divisa tra i Paesi economicamente più forti, a trazione germanica, che meno risentono delle difficoltà della globalizzazione, e quelli più deboli, destinati a diventare sempre più deboli anche - ma non solo, certamente - perché non vengono adottate politiche di riequilibrio della situazione a livello comunitario. Abbiamo oggi in Europa classi politiche in grado di superare questa dinamica che vede i più forti rafforzarsi e i più deboli indebolirsi sempre più? Con l’attuale assetto istituzionale di un’Europa “intergovernativa”, certamente no. E poco cambierà andando verso configurazioni istituzionali di tipo confederale. Perché - anche nel migliore dei casi - i governi di ciascun singolo Paese li compongono i partiti nazionali delle grandi tradizioni politiche europee, quelli nati, vissuti e cresciuti all’ombra dei campanili delle “piccole patrie”. Che ben difficilmente riusciranno, di questo passo, a resistere all’attacco sempre più massiccio dei partiti “sovranisti”. O forse l’esempio di Macron riuscirà a rimettere l’Europa tutta En Marche!, spingendola ad andare al di là di quei partiti con la sua formazione politica nata da un movimento anch’esso figlio, a suo modo, di una forma “seria” di antipolitica, che rifugge dalle scorciatoie “sovraniste”? Pag 5 Un furto informatico che sa di guerra fredda di Claudio Giua Non conosceremo mai i nomi di quanti starebbero conducendo «il più esteso cyberattacco della storia», come l’hanno frettolosamente classificato i media di tutto il mondo. Perché forse questi malevoli Napoleone o von Clausewitz digitali non esistono. Ad agire, con scopi non omogenei, è infatti una moltitudine di soggetti comunque riconducibili alla criminalità informatica. L’eccezionalità di quanto è accaduto e sta accadendo va individuata nella contemporanea e incontrollata proliferazione di un malware (letteralmente, “software che fa danni”) basato su Eternal Blue, un precursore progettato e sviluppato dall’americana National Security Agency per i propri scopi istituzionali: spiare, contrastare, condizionare. Qualcuno, probabilmente un gruppo di hacker finanziato dal Cremlino, ha violato i sistemi di sicurezza della Nsa, s’è appropriato del malware e l’ha messo in circolo. C’è stata anche una rivendicazione del furto da parte della sedicente organizzazione cyberterroristica TheShadowBrokers (Tsb), che avrebbe così inteso vendicare l’attacco missilistico contro una base siriana ordinato un mese fa da Trump. La conferma andrebbe cercata in alcuni passi di un recente messaggio al presidente americano: «TheShadowBrokers ti ha sostenuto (...), ora ha perso fiducia in te. (...) Sembra che tu stia abbandonando il movimento, la gente che ti ha eletto». Tsb sarebbe comunque solo il ladro di Eternal Blue, mentre a partire dalla mattina di venerdì stanno agendo altri, che hanno trasformato Eternal Blue in una variante del ransomware (“software che fa ricatti”) WannaCry (“Voglio piangere”) e l’hanno inoculato in alcuni linfonodi della rete. Grazie alla facilità d’installazione e alla successiva efficace pervasità di Eternal Blue, l’agenzia che si occupa di sicurezza interna negli Usa può controllare da remoto qualsiasi computer dotato di sistemi operativi Microsoft. Nella versione governativa, il malware si appropria dei dati - documenti, fotografie, video, conversazioni - e può replicare, modificandole a piacimento, le azioni normalmente svolte dal proprietario. Nella versione “commerciale” WannaCry, che ha paralizzato istituzioni come il sistema sanitario britannico e il ministero degli Interni russo e aziende come FedEx, prende possesso del sistema operativo e poi chiede, da una finestra simile a un banner pubblicitario, il riscatto: «Oops, tutti i tuoi file sono stati bloccati. Se vuoi liberarli, ti costa trecento dollari in bitcoin» (il bitcoin è una moneta digitale virtuale). Non si sa quanti abbiano pagato. I quesiti sollevati dalla vicenda sono parecchi. A cominciare da quelli che sollecitano risposte in casa americana: da quando e ai danni di chi la Nsa usa Eternal Blue? Com’è possibile che i sistemi di sicurezza dell’agenzia più ricca e potente siano così facilmente violabili dagli hacker? Perché dopo il furto non è stata lanciata una campagna d’informazione globale per mettere in guardia i potenziali obiettivi? Uno che la sa lunga, Edward Snowden, accusato di aver rivelato nel 2013 i programmi di sorveglianza di massa statunitense e britannico, sostiene in un tweet che la Nsa avrebbe dovuto avvertire privatamente i potenziali “obiettivi sensibili” del malware, come gli ospedali, ancora prima di subire il furto. Il fatto che l’ex tecnico informatico della Cia e poi collaboratore di Booz Allen Hamilton, ora rifugiato in Russia, si

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esprima tanto tempestivamente suffraga l’ipotesi che a Mosca sappiano molto di Eternal Blue, WannaCry eccetera. Anche l’analisi della copertura territoriale del fenomeno concorre a far ritenere che la pandemia informatica sia partita dai paesi dell’ex blocco sovietico. E qui nascono altri quesiti: Putin ha pieno controllo dei nuclei di hacker che da tempo sta mantenendo e coccolando? Fino a quando la comunità internazionale potrà consentirgli di condurre impunemente la sua guerriglia informatica globale su più piani, dalle fake news agli attacchi con WannaCry e simili? Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di sabato 13 maggio 2017 Pag 1 Idee vecchie (e inutili) sulla spesa di Dario Di Vico Lib-lab e populisti Con le elezioni francesi inizia per i lib-lab europei,o macronisti che li si voglia ridenominare, una nuova stagione. Dopo essere andati clamorosamente in fuorigioco per la somma tra la Brexit e la vittoria di Donald Trump, i lib-lab ritornano in gara prima del previsto e i tempi di ridefinizione della loro proposta politico-culturale si accorciano. Il cantieredel restauro della Terza Via non può rimanere aperto all’infinito così come non si può vivere da eterni vedovi di un Tony Blair, che peraltro aveva vissuto da protagonista la prima fase della globalizzazione, quella ascendente e tutta progressista. Oggi invece la mondializzazione è diventata il primo piatto del menù offerto agli elettori dalle forze populiste e i liberal oscillano tra la rivendicazione del suo carattere positivo («i poveri nel mondo sono diminuiti») e la trepidazione con cui monitorano gli orientamenti dei ceti medi nei Paesi occidentali. È evidente come esista una contraddizione insanabile tra i flussi economici globali e la misurazione del consenso politico, che avviene Paese per Paese e quindi è più influenzata dal sentimento di retrocessione covato dall’uomo comune occidentale che dalla riconoscenza dei contadini cinesi sottratti alla povertà. Questa contraddizione va chiusa cercando di strappare la bandiera della giustizia sociale dalle mani dei populisti, altrimenti i liberalsocialisti verranno identificati esclusivamente con le élite di cui condividono peraltro luoghi e stili di vita. A d alimentare queste incertezze concorre la difficoltà obiettiva di individuare delle policy incisive, dei provvedimenti che sappiano inserire un cuneo nel consenso popolare delle forze a demagogia spinta. La Terza Via era un format politico di facile uso, dettava quasi in automatico le nuove leggi da approvare. Oggi non è più così e un esempio utile riguarda la mobilità sociale, cuore della narrativa liberal. Non sappiamo dove si stiano dirigendo i mercati del lavoro e non sappiamo nemmeno se la riorganizzazione delle imprese favorirà la creazione di «piani alti» da raggiungere con l’ascensore sociale. Sappiamo invece con sicurezza che il capitalismo delle piattaforme digitali accrescerà il peso della gig economy e del lavoro alla spina, che non rappresenta certo una risposta alla domanda di mobilità verso l’alto. Il credo che i lib-lab recitano davanti a questa seconda contraddizione suona come «più formazione lungo l’intera vita» ma per ora è una soluzione valida solo sulla carta, non sappiamo se oltre a dare soddisfazione ai «pochi» riuscirà a funzionare anche per i «tanti». Una seconda discontinuità rispetto ai dettami della Terza Via riguarda il nesso tra economia, politica e spesa pubblica. Sembrerà un’accusa paradossale ma i neomacronisti restano ancora troppo legati all’idea della forza della politica. Per dirla con una vecchia metafora, della Stanza dei Bottoni. Così la risoluzione delle contraddizioni sociali è quasi sempre affidata a provvedimenti governativi più che al mutamento delle relazioni di mercato. Ma caricare la politica dell’obbligo di rispondere a tutto è un meccanismo che finisce per favorire i populisti perché permette loro di presentarsi agli elettori spostando sempre più in alto l’asticella della spesa pubblica. Lo si vede anche in Italia con le idee che circolano sul reddito universale di cittadinanza e sulla riduzione d’orario, forse sussidiata dallo Stato. Dovrebbe essere chiaro invece che negli anni a venire - soprattutto da noi - la gran parte delle risposte non potrà venire dai budget statali, molte di esse andranno trovate sul mercato coinvolgendone i protagonisti e costruendo relazioni di tipo nuovo e ad alto valore aggiunto. Penso innanzitutto al raggiungimento di un comune impegno da parte dei soggetti dell’impresa e del lavoro, ma lo schema può essere replicato anche per le politiche dell’innovazione, per la lotta alla povertà, per le scelte capaci di utilizzare la

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spinta che arriva dal nuovo protagonismo femminile. Il carico di novità da inserire nel vecchio format della Terza Via è così ampio che gli spunti non difettano. Persino in tema di cultura politica in senso stretto c’è molto da modificare, cominciando magari dall’aprire una stagione nuova di dialogo e di contaminazione tra i liberal e la cultura cattolica più attenta al mutamento sociale. Pag 1 La nemesi bancaria di Francesco Verderami Se davvero Renzi cerca l’incidente per andare al voto anticipato, il caso Boschi non è quello più indicato. E se cercava la rivincita con la commissione d’inchiesta sulle banche, le coincidenze finiscono per renderlo vittima della nemesi. È chiaro il motivo che aveva spinto Renzi, dopo il crac Etruria, a voler fare chiarezza sugli istituti di credito italiani. L’allora presidente del Consiglio riteneva (e ritiene ancora) di avere valide ragioni, «visto che su di me e sul mio governo sono stati scaricati problemi nati molti anni prima, sul finire dello scorso decennio, quando le banche andarono fuori dai parametri senza che le autorità intervenissero». Perciò aveva insistito sulla commissione d’inchiesta, anche dopo l’addio a Palazzo Chigi, resistendo ai suggerimenti di un pezzo del suo partito e persino del Quirinale, che lo invitavano alla prudenza. Non poteva immaginare quanto stava per accadere quel giorno di inizio mese, quando venne informato che la Conferenza dei capigruppo di Montecitorio aveva calendarizzato il voto in Aula sulla commissione per il 24 maggio. E siccome c’era fretta per insediarla, nessuno aveva presentato delle modifiche al testo varato dal Senato. Così fra due settimane la Camera darà via libera al progetto renziano, offrendo agli avversari del leader democrat un palcoscenico di cui si serviranno per rimetterlo politicamente sul banco degli imputati. È l’eterogenesi dei fini, è il passato che ritorna e intralcia il suo disegno di riscatto, costruito sulla pietra d’angolo delle primarie. Nell’immaginario collettivo le banche sono destinate a rappresentare il tallone d’achille di Renzi, come per Berlusconi lo erano le televisioni. Anche perché la sua immagine si sovrappone all’immagine della Boschi, di nuovo sotto i riflettori per la storia della banca e di suo padre. Ieri la sottosegretaria si è presentata in Consiglio dei ministri ostentando sicurezza, dilungandosi sui decreti legislativi da vagliare. Ma quella maschera celava la disperazione di chi ha confidato agli amici più intimi di sentirsi «sola e isolata», «spinta ancora in questa storia per ragioni che mi sfuggono», epperò decisa a non cedere siccome «le dimissioni sarebbero un’ammissione di colpevolezza. E io non sono colpevole». Anche Renzi è contrario a un suo passo indietro, non tanto per evitare ripercussioni sull’attuale governo quanto per scongiurare un effetto negativo sul giudizio dei suoi mille giorni a palazzo Chigi. Ma l’interessamento a Banca Etruria di Delrio - a quei tempi sottosegretario alla Presidenza - alimenta i sospetti, che pure l’ex vice ministro Zanetti considera «frutto di una visione distorta della politica»: «È normale per un parlamentare occuparsi dei problemi del territorio. Se c’è una banca in difficoltà, non è sbagliato interessarsene, se non si fanno pressioni. Il punto è che la Boschi ha detto in Parlamento di non essersene occupata. Solo Ghizzoni potrebbe dire la parola definitiva». Ma non lo fa. E il silenzio dell’ex ad di Unicredit fa alzare la voce agli avversari di Renzi. Così l’idea di far passare la nottata non regge con l’approssimarsi del voto sulla commissione d’inchiesta. Il Pd è pronto a chiederne la presidenza, il forzista Brunetta è pronto a chiedere «l’audizione del governatore Visco, perché è chiaro che si partirà dai casi più recenti». Chissà se al leader democrat sono tornati in mente certi suggerimenti, anche del Colle: i timori che la commissione potesse diventare un predellino per la campagna elettorale, il rischio che il suo uso strumentale finisse per minare la politica in un quadro peraltro di fragilità del sistema creditizio italiano. Una sorta di Armageddon, insomma, una roba da crisi di sistema. «Un suicidio involontario», dice il centrista Cicchitto, che scorge in queste pulsioni certe similitudini con la fine della Prima Repubblica, nel tentativo di restituire l’onore al proprio partito e a se stessi: «Magari andremo a rompere le scatole pure a chi da Francoforte sta salvando l’Italia...». E ci sarà un motivo se Berlusconi - nonostante abbia dei conti da regolare con la storia - pare preoccupato a tenere quel vaso di Pandora quantomeno socchiuso. Pagg 2 – 3 Il ricatto globale degli hacker. Colpiti ospedali e grandi aziende di Luigi Ippolito, Guido Olimpio e Massimo Sideri

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Il virus rubato e la guerra elettronica delle spie. Dati sanitari, gestori telefonini: come possono arrivare a noi? Londra. Attacco mondiale dei pirati informatici. I computer di ospedali, università, compagnie telefoniche sparsi in almeno 74 Paesi sono stati colpiti da un virus che blocca l’accesso ai file: per poterlo aggirare, gli hacker responsabili del sabotaggio hanno anche chiesto un riscatto, 300 dollari per ogni computer infettato, da pagare in bitcoin, la valuta digitale. Se non si versa la somma entro tre giorni, il prezzo raddoppierà. Dopo una settimana, il danno non sarà più riparabile. L’allarme è partito ieri pomeriggio dalla Gran Bretagna, dove l’intero sistema sanitario nazionale è stato messo in ginocchio: nel mirino sono finiti almeno 25 ospedali, studi medici e dentistici dal sud dell’Inghilterra al nord della Scozia. Città come Londra, Nottingham, Glasgow, oltre a numerosi centri minori, sono risultate particolarmente colpite. Sembra che in nessun momento la vita delle persone sia stata messa in pericolo, così come non sarebbero stati compromessi i dati personali, ma gli ospedali hanno dovuto annullare le operazioni non di emergenza, mentre i pazienti venivano rimandati a casa anche in presenza di fratture o dolori acuti: non era infatti possibile eseguire radiografie, ecografie o esami del sangue, così come risultava difficile in certi casi sterilizzare gli strumenti. I dottori hanno dovuto cancellare le visite perché non erano in grado di accedere alle cartelle cliniche dei malati, mentre in diversi casi gli ospedali sono stati costretti a dirottare le ambulanze verso altri centri che ancora funzionavano. La televisione ha avvertito di non utilizzare i punti di pronto soccorso se non in situazioni di assoluta emergenza. L’attacco si è diffuso a macchia di leopardo e ha probabilmente interessato i sistemi informatici più antiquati e non dotati delle necessarie difese antivirus: nella maggior parte dei casi, i computer a disposizione del sistema sanitario pubblico britannico sono vecchi a causa della mancanza di investimenti nel digitale, oppure non dispongono degli ultimi aggiornamenti. Contemporaneamente risultavano colpite grandi aziende spagnole, come Telefonica, la principale compagnia di telecomunicazioni, e portoghesi, come Portugal Telecom e Energias de Portugal, il maggior fornitore di elettricità. Problemi anche per l’azienda telefonica russa Megafon, mentre la Bbc riportava di computer bloccati in università italiane, senza però fornire ulteriori riscontri. Segnalazioni dalla Cina agli Stati Uniti. Gli investigatori britannici ritengono che l’attacco sia di tipo criminale e non sia opera di hacker al soldo di una potenza straniera: lo considerano di natura grave ma non tale da minacciare la sicurezza nazionale. Washington. Quando gli Usa, nel 2010, cercarono di sabotare i siti nucleari iraniani con una serie di «virus» si disse che qualcosa poi sfuggì al loro controllo. E ora la storia, in qualche modo, sembra ripetersi. Visto che la massiccia offensiva degli hacker sarebbe stata condotta sfruttando degli strumenti di hackeraggio della Nsa, l’agenzia di spionaggio elettronico statunitense. Un software rubato dai pirati noto come «Shadow Broker» e ora riapparso nella clamorosa sfida che ha coinvolto dozzine di Paesi dall’Europa all’Asia. Scorreria resa possibile da difese non sempre adeguate davanti a una minaccia multipla e variabile. Operazioni clandestine - Il primo fronte di quella che ormai è una guerra globale è rappresentato da azioni condotte da apparati statali. Diversi Stati hanno sviluppato unità in grado di lanciare attacchi sofisticati. Usa, Russia, Cina, Corea del Nord, Israele, tanto per citare quelli più famosi. Ricorrono ai guerrieri digitali per scardinare, rubare dati, creare problemi tecnici e sabotare. Operazioni clandestine, in parallelo a quelle dello spionaggio classico. Con conseguenze pesanti. Il secondo pericolo è rappresentato da gruppi di individui che per motivi criminali, o talvolta fiancheggiando governi, vanno all’assalto. La capacità di sottrarre informazioni e perturbare la vita quotidiana, sempre più legata al web, è infinita. Tanti i grimaldelli a disposizione, come la storia di queste ore dimostra. E il successo di alcuni spinge altri ad emulare. Caccia ai colpevoli - Il terzo elemento riguarda l’individuazione dei colpevoli. Chi agisce può nascondere le sue tracce, far ricadere responsabilità su altri, diffondere «controinformazione» che diventa anche una cortina fumogena. Così si alimentano le polemiche, crescono i dubbi, nascono «leggende» poi rilanciate mille volte sulla Rete. Pensate al dossier, ancora aperto, sulle interferenze nel voto americano, con le accuse

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verso Mosca, le ripicche diplomatiche. Politica interna e internazionale si intrecciano con risvolti criminali e intelligence. Ognuno pesca ciò che preferisce. Il Pentagono - Gli scudi e le contromisure non sempre sono efficaci. In Francia, il movimento di Macron ha adottato diverse strategie - falsi account email, documenti taroccati - ma è comunque rimasto, almeno in parte, vittima dei pirati. Gli esperti hanno più volte denunciato l’inadeguatezza delle protezioni. A ciò si aggiunge la difficoltà nel formulare una reazione. Il Pentagono, da tempo, ha sviluppato strategie per sferrare una ritorsione massiccia contro il nemico in caso di un assalto ai network statunitensi. In passato si ricorreva soltanto ai caccia e ai cruise, oggi ti affidi ai computer. Solo che l’avversario lo devi prima trovare. Altrimenti chi «bombardi»? 1 Chi ci sarebbe dietro l’attacco con il ransomware? Il Ransomware (una sottocategoria dei malware che blocca il pc infettato con l’obiettivo di chiedere un riscatto, ransom in inglese) sembra anche in questo caso arrivare dalla Russia. «Dai primi rumor — spiega l’hacker etico Raoul Chiesa, fondatore e presidente della società di consulenza di sicurezza informatica, Security Brokers — emerge il nome di Shadow Brokers, un gruppo russo che opera dalla Russia. Il loro nome emerge spesso: era circolato anche nel caso delle email rubate a Hillary Clinton durante la campagna presidenziale. Recentemente è emerso che una parte del codice usato nei loro attacchi è lo stesso codice isolato circa dieci anni fa. L’ipotesi è che si tratti di un gruppo che, 10 o 15 anni fa, aveva iniziato ai tempi dell’università per poi costruire una loro attività strutturata». 2 Era già capitato qualcosa di simile? Già negli Stati Uniti era stato chiesto e ottenuto un grosso riscatto per sbloccare il sistema informatico di un ospedale. John Halamka, ceo del Beth Israel Deaconess di Boston, alla conferenza specializzata Sxsw Interactive di Austin, nel Texas, aveva confessato un anno fa che l’ospedale subiva un attacco ogni 7 secondi: attivisti, studenti dell’Mit che pensavano così di potersi esercitare, criminali. Una volta era «bastato» un aggiornamento del software della macchina a raggi X: collegandola a Internet il computer era stato attaccato dai malware e migliaia di lastre erano finite in Cina. Il caso è interessante, perché ci ricorda che le porte di ingresso non sono solo pc tradizionali. Oggi la maggior parte delle macchine diagnostiche sono moderni computer. Un problema che con la diffusione dell’Internet delle cose e degli oggetti intelligenti da indossare non potrà che crescere in maniera esponenziale. 3 Qual è il fine di questi attacchi? Denaro, sempre denaro. Ma nel caso dell’attacco in corso ci sono degli aspetti preoccupanti da sottolineare: rispetto al caso statunitense si è trattato di un attacco coordinato su tanti Paesi. «Fino a oggi — spiega Chiesa — i ransomware venivano soprattutto venduti sul mercato nero. Ma evidentemente non era un modello di business remunerativo perché non possiamo immaginare che in questo caso si sia trattato di tanti episodi isolati in giro per il mondo, senza una regia». Potrebbe essere un test oppure, più probabilmente, il tentativo di fare il classico colpo grosso. 4 I nostri dati sanitari sono al sicuro? In questo caso, almeno dalle informazioni emerse finora, non ci sarebbe un malware capace di entrare e rubare le informazioni. Anche se questa eventualità non può essere esclusa. I criminali oltre alla richiesta di riscatto potrebbero nel frattempo rubare dati sanitari da vendere (nel caso del Beth Israel Deaconess di Boston era emerso un mercato nero delle lastre dei polmoni sani che i cinesi con problemi di salute acquistavano per avere permessi o polizze assicurative). I nostri dati sanitari, peraltro, non possono essere considerati al sicuro. In Italia non c’è un sistema di criptazione delle cartelle sanitarie, solo pin o password per entrare nei sistemi informatici degli ospedali. 5 Cosa si può fare dopo? Poco. Ieri la telecom spagnola ha detto di «spegnere i computer». Ma è come chiudere il recinto con i buoi scappati. La Spagna ha subìto meno danni solo perché il messaggio su cui cliccando si bloccava il pc era in inglese.

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6 Come mai hanno chiesto il riscatto in bitcoin? Perché la moneta virtuale è molto difficile da tracciare come era emerso nel più noto caso negli Usa di SilkRoad, finito in Tribunale, anche se oggi soprattutto sul black market si preferiscono altre monete come il moneros (Spagna) o i J Coins. Pag 6 Il Quirinale si prepara a una nuova mediazione di Massimo Franco L’impressione è che lo stallo sulla riforma elettorale richiederà un intervento del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Le forme e il modo sono tutti da vedere. Il capo dello Stato, in visita ufficiale in America Latina, ieri si è limitato a dire che si tratta di un tema da affrontare al ritorno in Italia. Per la piega litigiosa e inconcludente che sta prendendo la discussione, tuttavia, è prevedibile che toccherà a Mattarella pungolare i partiti a trovare una soluzione. Lo aveva già fatto alla vigilia delle primarie del Pd, dopo un incontro con i presidenti di Senato e Camera, Pietro Grasso e Laura Boldrini. Mattarella aveva ribadito per iscritto la necessità di una legge di riforma che non crei scompensi tra le maggioranze nei due rami del Parlamento. Allora, si riteneva che il nulla di fatto dipendesse soprattutto dall’attesa per l’esito del congresso del Pd; e che una volta rieletto Matteo Renzi, le cose sarebbero andate avanti in modo più spedito. Il partito di maggioranza ha risolto il problema della leadership con un esito netto per il segretario. Ma passi avanti sul sistema di voto, finora, non se ne sono fatti. Lo scontro tra fautori del maggioritario, come i dem, e del proporzionale, come Forza Italia e Movimento 5 Stelle, blocca qualunque compromesso. L’incertezza sui prossimi mesi del governo di Paolo Gentiloni aggiunge un elemento di allarme in più: sebbene il traguardo del 2018 ieri sia stato ribadito da Renzi, insieme con l’ex premier Romano Prodi che pure lo ha punzecchiato. Entrambi concordano sull’esigenza di un’Italia stabile. Non solo. Appaiono in sintonia anche su un’ipotesi di riforma elettorale che garantisca «la governabilità»: un modo indiretto per dire no a un sistema proporzionale. C’è la consapevolezza che tutta la discussione possa finire per allontanare ulteriormente l’opinione pubblica da un dibattito «da addetti ai lavori», a sentire il segretario del Pd. Il problema è che nessuno sembra offrire una soluzione in grado di raccogliere una maggioranza in Parlamento. E dunque il gioco dei veti e i rimpalli delle responsabilità sono condannati a perpetuarsi. La sconfitta al referendum istituzionale del 4 dicembre scorso pesa. Renzi la evoca in continuazione, spiegando con quella «la palude» del sistema. Ma per gli avversari, il voto popolare contro le riforme del suo governo è stato la bocciatura di un modello di potere. Il ritorno al proporzionale sarebbe dunque solo la presa d’atto che esiste una frammentazione dei partiti e della società da fotografare, per darle rappresentanza. Sono due visioni agli antipodi, e questo spiega la difficoltà di un accordo. Ma finché non si trova, sancito da una legge, il Quirinale non darà il via libera per le elezioni: anche se non entrerà nel merito. Forse, è l’unico modo per obbligare tutti a uscire dai tatticismi. LA REPUBBLICA di sabato 13 maggio 2017 Pag 1 Il Paese incerto e senza fiducia di Ilvo Diamanti Alcuni importanti eventi hanno segnato la politica in Italia, negli ultimi mesi. In particolare, le primarie del Pd, (stra)vinte da Matteo Renzi. Il quale, dopo la bocciatura del referendum costituzionale, si è ripreso il partito. Quanto al governo, si vedrà. Il sondaggio di Demos per l'Atlante Politico pubblicato da Repubblica segnala, comunque, alcuni mutamenti significativi nel clima d'opinione. Anzitutto, negli orientamenti di voto. Secondo le stime di Demos, infatti, il Pd ha nuovamente superato il M5s. Di poco. Un punto solamente. Sufficiente, però, a cambiare le gerarchie elettorali fra i due soggetti politici principali, dopo il declino di Silvio Berlusconi e del suo partito. I quali, tuttavia, resistono. Forza Italia, infatti, è stimata oltre il 13% e la Lega di Salvini le è vicina. Così si ripropone una triangolazione, per alcuni versi, simile a quella emersa dalle elezioni politiche del 2013. Quando Pd, M5S e Forza Italia - insieme alla Lega - avevano conquistato una quota di elettori molto simile. Intorno al 25%. Naturalmente, molto è cambiato da allora. Anzitutto, gli equilibri tra Fi e Lega. Nel 2013 la Lega, guidata da Roberto Maroni, superava di poco il 4%, mentre il Pdl intercettava quasi il 22%. Poi,

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ovviamente, è cambiato il volto del Pd. Proposto, allora, da Bersani, oggi da Renzi. Mentre il M5s ha ancora il profilo di Grillo. Ma ha consolidato la sua presenza nel Paese. Visto che, nel frattempo, ha conquistato, fra l'altro, il governo di Roma e Torino. Due Capitali (anche se in senso diverso). Questo scenario è confermato dalle stime di voto degli altri partiti. A destra di Fi, come a sinistra del Pd, si osserva un complessivo arretramento. I soggetti politici di Centro, infine, occupano uno spazio quasi residuale. Schiacciati dai tre "poli" maggiori. Che, nel sondaggio, intercettano oltre l'80% dei voti. Questo assetto, però, appare tutt'altro che strutturato. Soprattutto a Centro-destra, dove l'asse tra Fi e Lega è messo in discussione. Dalla Lega di Salvini. È, tuttavia, chiaro che, se queste stime venissero, almeno, "approssimate", in caso di elezioni, nessuna maggioranza sarebbe possibile. Perché nessun Polo o Partito riuscirebbe a superare la soglia del 40%, necessaria a conquistare la maggioranza dei seggi. Occorrerebbe, dunque, formare coalizioni più "larghe". Fra soggetti di famiglie politiche diverse e perfino contrastanti. Ma l'operazione appare difficile. Gli elettori del Pd, infatti, non sembrano gradire un'alleanza con Fi, ancor meno con il M5s. Mentre appare maggiore (ma complicata) l'attrazione reciproca tra M5s, Lega e Fdi. Per ora, comunque, la prospettiva del voto anticipato interessa una minoranza di elettori (43%). Più ampia nella Lega, nei Fdi e, soprattutto, nel M5s. Ma la maggioranza assoluta degli intervistati auspica che l'attuale governo duri fino a fine legislatura. Prevista l'anno prossimo. Il governo Gentiloni, d'altronde, mantiene un buon livello di gradimento. Intorno al 40%. Come due mesi fa. Insomma, non entusiasma, ma, in tempi come questi, è difficile sollevare passioni, in politica. La fiducia verso il premier, Paolo Gentiloni, per quanto in calo di qualche punto, resta elevata: 44%. La più elevata fra i leader testati. Matteo Renzi, dopo le Primarie, ha ripreso quota: 39%, 6 punti in più rispetto a due mesi fa. È affiancato da Giorgia Meloni. Molto più apprezzata del proprio partito. Salvini, Di Maio e Pisapia si attestano fra il 32 e il 35%. Gli altri, più sotto. In fondo, con meno del 20%, troviamo Roberto Speranza e Massimo D'Alema. La scissione dal Pd non pare aver giovato loro, sul piano del consenso personale. Attraversiamo, dunque, una fase instabile. Mentre diverse questioni agitano il dibattito pubblico. Ne segnaliamo alcune. Anzitutto, l'uso delle armi per legittima difesa, definito dalla legge appena approvata alla Camera. In particolare, a proposito della possibilità di usare un'arma di notte "nel proprio domicilio". Tuttavia, la maggioranza delle persone ritiene che, in casa nostra, "sparare" all'aggressore sia sempre legittimo. Lo pensano, soprattutto, gli elettori di Centro-destra, ma anche del M5s. Lo dimostra la legittima difesa. Mentre la base del Pd si divide in modo quasi eguale. E solo più a "Sinistra" si vorrebbe limitare al massimo la possibilità di "sparare" in casa propria. C'è poi la questione dei vaccini, intorno alla quale non c'è proprio discussione, visto che oltre 9 persone su 10 li ritengono indispensabili a garantire la salute dei bambini. Senza se e senza ma. Infine: le Ong. Le Organizzazioni di Volontariato Internazionale Non Governative. Al centro di numerose polemiche, in seguito alle recenti affermazioni del procuratore di Catania, secondo il quale "alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti". Al fine di "destabilizzare l'economia italiana per trarne dei vantaggi". Senza entrare nel merito, queste parole sembrano aver indebolito la credibilità delle Ong, che ottengono un grado di fiducia (42%) molto inferiore rispetto alle "Associazioni di volontariato", tout-court (63%). Quasi a sottolineare come, per la maggioranza degli italiani, le Ong non siano "associazioni di volontari". Ma, appunto, qualcosa di diverso. E oscuro. Il dibattito politico, quindi, incrocia e confonde questioni tanto più critiche quanto più riguardano la nostra vita quotidiana. Anche perché non sono chiari i riferimenti politici generali. Intanto, la scadenza del voto si avvicina. Non è chiaro, però, quando sarà. Fra un anno? Prima? È la cronaca di un Paese incerto. Dove l'incertezza politica logora la fiducia della società, nelle istituzioni. E, ovviamente, nell'economia. Ma al ceto politico non sembra interessare troppo. AVVENIRE di sabato 13 maggio 2017 Pag 2 A 18 anni si può e si deve eleggere il Senato. O no? di Marco Morosini Una riforma costituzionale che si può ancora fare Sarebbe un delitto andare ancora una volta alle elezioni senza dare il pieno diritto di voto a milioni di elettori dimezzati, ovvero alle cittadine e ai cittadini tra i 18 e i 24 anni,

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che ancora non hanno il diritto di eleggere l’esatta metà (politica) del Parlamento, cioè il Senato della Repubblica. Si tratta di 4,5 milioni di persone maggiorenni, l’8% degli elettori. Per evitare questa ingiustizia basta che il Parlamento cambi la parola 'venticinquesimo' con 'diciottesimo' nell’articolo 58 della Costituzione ('I senatori sono eletti a suffragio universale e diretto dagli elettori che hanno superato il venticinquesimo anno di età?'). I Parlamentari avrebbero potuto farlo negli ultimi quattro anni, e sono stati sollecitati molte volte in questo senso. Nell’anno che ci separa dalle elezioni hanno ancora il tempo per questa semplice e importantissima modifica costituzionale. Ed è difficile capire perché nessun partito prenda l’iniziativa per cancellare questa ingiustizia. L’Italia è l’unico Paese nel quale solo la parte più anziana della popolazione detiene il diritto di eleggere tutti i Parlamentari e, quindi, di determinare indirettamente quale sarà il governo del Paese visto che nessun esecutivo può fare a meno del voto di fiducia del Senato. Quasi ovunque nel mondo si eleggono i parlamenti e si determinano i governi a partire dalla maggiore età: 18 anni. In 11 Paesi 300 milioni di cittadine e cittadini votano già dai 16 o 17 anni. In 16 altri Paesi si vota dai 19, 20 o 21 anni. I 25 anni necessari per eleggere la Camera Alta del nostro Parlamento rappresentano una 'soglia' che non ha eguali nel mondo. Noi italiani 'anziani' siamo in proporzione più numerosi e abbiamo più potere, occupazione, reddito, patrimonio e privilegi di quanti ne abbiano i giovani adulti. Per questo molti di essi sono e si sentono sempre più esclusi dal tessuto sociale. La disoccupazione giovanile e l’emigrazione dei giovani, specialmente dei laureati, sono tra le più alte nei Paesi industrializzati. Per giunta, proprio quei milioni di giovani che più patiscono tali piaghe sociali, non hanno diritto di eleggere tutti coloro che, da legislatori, potrebbero cercare di porgli fine. Ma senza riequilibrare a favore dei giovani la bilancia sociale, economica e politica, l’Italia non può modernizzarsi, né essere all’altezza delle sfide dell’avvenire. È per questo che dal 2013 a partire dalla spinta di cinque promotori - Elda Lanza, Vitaliano Damioli, Oliviero Toscani, Wolfgang Gründiger oltre a chi scrive (la media delle nostre età è 72 anni) - è in corso la petizione 'Voto a 18 anni per il Senato' , indirizzata alle massime autorità della Repubblica e ai Parlamentari. Non è un caso che la più alta soglia di età per ottenere i pieni diritti politici esista proprio nel nostro Paese. L’Italia spicca infatti nelle classifiche internazionali come il secondo Paese al mondo per percentuale di noi 'anziani' e come uno dei Paesi più 'gerontocratici'. Secondo uno studio dell’Università della Calabria, con un’età media di 59 anni gli uomini di potere italiani sono i più vecchi d’Europa: l’età media dei banchieri è 67anni, quella dei professori universitari 63. Nell’ultimo 'Indice di giustizia generazionale' di Pieter Vanhuysse, del European Centre for Social Welfare Policy, l’Italia è ventisettesima su 29 Paesi dell’Ocse. L’indice consta di quatto indicatori: debito pubblico pro capite dei minorenni, povertà infantile, rapporto tra la spesa sociale pro capite per gli anziani e quella per il resto della popolazione, impronta ecologica pro capite. In quasi tutti i Paesi dell’Ocse, il potere e la prosperità degli anziani crescono da decenni a scapito dei giovani. Dal 1990 al 2005, l’età mediana dell’elettore i questi stessi Paesi è cresciuta tre volte più velocemente che nei trent’anni precedenti. Nei Paesi più ricchi una popolazione sempre più anziana e una percentuale di votanti anziani sempre più alta generano uno squilibrio politico a favore di questi ultimi. Per controbilanciare questa tendenza, e quella mondiale dei giovani a votare sempre di meno, in molte nazioni si moltiplicano le iniziative (in Italia, a suo tempo, si mobilitarono per questo le Acli) per dare i pieni diritti elettorali a partire dai 16 anni. In Italia, però, persino col voto a 16 anni per la Camera dei deputati resteremo di gran lunga l’ultima nazione al mondo in fatto di diritti politici dei giovani, se manterremo anche alle prossime elezioni l’anacronistico sbarramento del 'venticinquesimo anno' per eleggere i nostri senatori. Pag 3 Se il magistrato moralista cerca il processo esemplare di Paolo Borgna Quando nasce un legame tra stampa e indagini penali Cos’è, oggi, il 'populismo giudiziario'? Prendiamo la definizione che ne dà il professore Giovanni Fiandaca: un fenomeno che ricorre «tutte le volte in cui un magistrato pretende di assumere un ruolo di autentico rappresentante o interprete dei reali interessi e delle aspettative di giustizia del popolo […] al di là della mediazione formale della legge». Pretendendo quindi di ricevere la legittimazione al proprio operato direttamente dal 'consenso popolare' anziché dalla Costituzione e dalla legge. Una definizione che pare

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scritta per raccontare quel 'caso Montesi', che qui abbiamo rievocato alcuni giorni fa, ma che ci parla soprattutto dell’oggi. Indagini condotte (e fatte raccontare) avendo come faro la 'popolarità'. Costruzione della figura di un magistrato-tribuno. Infine (tappa non sempre ricorrente ma frequente), investimento di questa immagine sul piano politico. Tentazione antica. Se è vero che, oltre mezzo secolo fa, Alessandro Galante Garrone, sulle colonne della 'Stampa', metteva in guardia il magistrato dal pericolo di «arrogarsi poteri che non gli spettano, assumendo le funzioni di tutore della morale pubblica o privata». E, commentando la sentenza scritta da un grande giudice (Salvatore Giallombardo) al termine di un processo che aveva destato ampia eco (quello sullo 'scandalo delle banane', denunciato da Ernesto Rossi), ne lodava la capacità di aver saputo distinguere i fatti penalmente rilevanti da quelli che costituivano «deplorevole andazzo amministrativo e politico». Perché compito del giudice «non è assecondare gli impetuosi moti di indignazione e di disgusto dell’opinione pubblica» di fronte al dilagare del malcostume ma piuttosto quello di «sceverare l’illecito penale dal magma indistinto della disonestà». Tentazione che, a ben vedere, è parente stretta di un irrinunciabile presidio dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: l’indipendenza della magistratura. Perché l’essere chiamati ad applicare la Legge senza ricevere ordini dall’esecutivo e l’essere legittimati ad esercitare questa funzione in base ad una selezione meritocratica fondata esclusivamente sulla valutazione della preparazione tecnica, giustificano, nel magistrato, un certo orgoglio del proprio mestiere. Ma sappiamo che l’orgoglio è un sentimento pericoloso: perché ha un confine labile col vizio capitale della superbia. Un vizio che, con riferimento ai giudici, un convinto fautore della loro indipendenza, Piero Calamandrei, descriveva come «una specie di albagia professionale» che porta a credere che «solo la magistratura sarebbe degna di esser considerata come un apostolato, mentre l’avvocatura, quella sì, sarebbe soltanto un mestiere». È l’idea, nefasta, di essere moralmente superiore al proprio contraddittore. Con un’aggiunta, rispetto ai tempi di Calamandrei: che, oggi, il contraddittore verso cui si erge questa 'albagia professionale' non è solo l’avvocatura ma anche la politica. La vicenda storica italiana degli ultimi 40 anni ci ha messo del suo nell’alimentare questo equivoco. Cominciò Bettino Craxi, con il suo celebre discorso alla Camera del 10 luglio 1981, in occasione della fiducia al governo Spadolini: quando il leader socialista, riferendosi all’indagine sul Banco Ambrosiano, parlò di «abusi commessi in nome della legge» e di una «magistratura largamente politicizzata e ideologizzata». Altri coltivarono quel solco. Fino all’altrettanto celebre intervista di Silvio Berlusconi a un quotidiano francese, in cui descriveva le indagini di Mani pulite come un complotto di «giudici che il Partito comunista aveva infiltrato nella magistratura». È anche grazie a questo clima politico che un’intera generazione di magistrati è cresciuta con l’idea che l’affermazione della legalità fosse come la difesa di una cittadella assediata. Perlomeno, ogni volta che le indagini toccavano rappresentanti del potere politico. E così, accarezzando il mito di eroi civili come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone e respirando la temperie culturale di quegli anni, i magistrati che oggi popolano i tribunali e le procure della Repubblica italiane hanno visto crescere l’immagine – diffusa in una fetta importante dell’opinione pubblica – del giudice come unico argine contro un Potere oscuro e a volte criminale. Partendo da questa idea ci si può avventurare su un terreno sdrucciolevole: il convincimento di dovere non soltanto affermare il diritto ma la Giustizia (con la G maiuscola), di dover combattere fenomeni, di moralizzare la società. La storia però ci insegna che coloro che credono di aver trovato le chiavi della Giustizia e della Verità, qualunque sia il campo in cui operano (la politica o la giustizia), sono particolarmente esposti al rischio di pensare di dover affermare la loro Verità senza troppo badare ai modi e ai mezzi. È da qui che nasce la tentazione del 'processo esemplare'. C’è un altro sviluppo di questa confusione: l’idea che al giudice spetti non solo affermare la Giustizia ma addirittura scrivere la Storia. Sappiamo bene che la ricerca storica ha negli atti giudiziari una fonte essenziale. Pensiamo al terrorismo rosso degli anni 70: la sua ricostruzione storica sarebbe impossibile senza attingere alle centinaia di sentenze emesse dai Tribunali. Il processo però non si celebra – come qualcuno pensa – per 'fare verità storica' ma solo per accertare responsabilità individuali con riferimento a specifici reati. Il pubblico ministero non può aprire un fascicolo per accertare la verità storica di una certa vicenda. E deve raccogliere le prove rispettando vincoli formali e procedurali non conosciuti dallo storico; che, comunque, può ricorrere a fonti assai più ampie di

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quelle del giudice. L’idea di una funzione 'salvifica' dell’attività del magistrato ha avuto spesso, al suo fianco – ad incoraggiarla e a farle da megafono – un potente alleato: il connubio tra indagini penali e intervento della stampa. Un connubio che abbiamo visto nascere con il 'caso Montesi', quando ancora non c’era la televisione; un connubio che, con l’avvento di quest’ultima, esploderà, negli anni di Mani pulite. E che, con l’invasività del web, caratterizza i giorni nostri. Ma su questo ritorneremo. Pag 3 Salviamo il figlio di Antonella e Alfio di Maurizio Patriciello Dramma della povertà, riflessione sull’aborto Quanto vale la vita di un bambino? Quanto siamo disposti a spendere? Qualcuno li ha invitati in chiesa e loro sono venuti. Docili, umili, silenziosi, affranti dal dolore per la decisione presa. Non vorrebbero farlo, non lo farebbero. Volentieri ritornerebbero sui propri passi, aspettando il giorno del parto. Ma hanno paura. Una paura che li blocca, li congela, li paralizza. Alfio e Antonella questo figlio non programmato non se lo possono permettere. Non hanno più una casa, non hanno più un lavoro. E le prospettive per il futuro sono avvolte nella nebbia fitta. Chiedono un lavoro. Abbiamo messo a disposizione quel poco che abbiamo. Siamo disposti a rimanergli accanto fino a quando non potranno essere autosufficienti. Il nostro aiuto alle loro orecchie suona come un’elemosina che la loro dignità impedisce di accettare. A chi ha sempre lavorato non viene facile tendere la mano. Se solo avessi un piccolo lavoro da offrire. L’appuntamento con la morte è fissato per i primi giorni della settimana prossima. Abbiamo ancora qualche giorno per impedire questo aborto non voluto. L’aborto dei poveri. È lacerante per una coppia che ama la vita, che crede al diritto di quel bambino a nascere, che volentieri lo accoglierebbe, dover ricorrere all’aborto perché disoccupata. E pensare che in giro c’è gente che vorrebbe allargare ancora di più le maglie della legge 194. Una legge che fin dal primo articolo dice che «lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio». Una legge, dunque, non applicata, disattesa. Uno Stato che «riconosce il valore sociale della maternità» in che modo si fa accanto a chi chiede aiuto per portare a termine una gravidanza? Sembra che altro non sappia fare che dire al bambino di togliere il disturbo. Ma le cause? Quelle sembra proprio che non interessino a nessuno, se non ai volontari, alle parrocchie che si fanno prossimo di questi genitori smarriti e scoraggiati. E pensare che nella nostra bella Italia nascono sempre meno figli. Un problema che porterà conseguenze drammatiche negli anni che verranno. Purtroppo, il nostro egoismo non ci fa aguzzare la vita, si accontenta di tenere lo sguardo basso. Questo modo di pensare e di agire è contro la fede cristiana, contro la solidarietà tra i popoli e le generazioni, contro la verità. Un giorno Gesù disse: «La Verità vi farà liberi». È vero. Tutte le verità ci fanno più liberi, più coscienti, più capaci di organizzare la speranza. E la verità oggi è che una politica più attenta, intelligente, accorta verso la vita nascente, le donne incinte, le famiglie povere porterebbe a popolare il futuro dei nostri eredi. Alfio e Antonella sono andati via con le lacrime agli occhi e la morte nel cuore. Il bambino nel grembo della mamma non sa quel che sta per accedere. Felice respira il suo respiro, si alimenta di ciò che lei mangia. Nel giorno in cui due bambini portoghesi vengono elevati agli onori degli altari, vogliamo chiedere a loro di intercedere presso Dio perché questo bambino ancora senza nome possa vedere il sole. Ai fratelli e le sorelle che hanno la possibilità di assicurare un piccolo lavoro a questa famiglia chiediamo la carità di allargare il cuore. «Chi salva una vita salva il mondo intero». Noi ci crediamo. Un solo atto di carità vale più di mille discorsi, mille convegni sulla carità. Facciamolo. Se ne abbiamo la possibilità, facciamolo. Non giriamo la faccia dall’altra parte. Non diciamo: «Non mi riguarda». Tutto ci riguarda. L’uomo ci riguarda. Questo bambino in bilico tra la vita e la morte ci riguarda. Mettiamo in condizioni questi genitori di accogliere il loro bambino. Ne hanno il diritto. Se Gesù non dimentica un solo bicchiere di acqua che abbiamo dato a un fratello assetato, quanto più ricorderà che anche grazie a te una vita da lui amata venne alla luce. E da quella vita altre vite nacquero... Se sulla vita nascente taceremo noi, figli del vangelo, saranno costretti a gridare i sassi delle strade. Chi ha un lavoro da offrire si faccia avanti e sarà inondato di gioia vera, quella che riempie il cuore. Unica, preziosa, irripetibile è questa vita nascente per estirparla dal grembo della mamma solo perché non potrà comprargli il latte.

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Gridiamolo insieme che il presunto 'diritto all’aborto' moltissime volte altro non è che una comodissima scappatoia verso cui vengono costretti a ricorrere tante famiglie alle quali per i loro bambini non viene assicurato il vero, immenso, nobilissimo diritto alla vita. Nella speranza che Alfio e Antonella trovino presto un lavoro, si può aiutare questa giovane coppia a non rinunciare al proprio figlio anche con un piccolo contributo sul ccp 15596208 intestato ad Avvenire, 'La voce di chi non ha voce', P.zza Carbonari 3, Milano. Gli assegni devono essere intestati ad Avvenire, 'La voce di chi non ha voce'. Si può anche effettuare un bonifico a favore di Avvenire, 'La voce di chi non ha voce', conto n. 12201 Banca Popolare di Milano, ag. 26, cod. IBAN IT65P0558401626000000012201. IL GAZZETTINO di sabato 13 maggio 2017 Pag 1 Non è razzismo, è soltanto buon senso di Mario Ajello Dante, che era il più saggio di tutti e naturalmente immune dalla demagogia savianea e dall'ipocrisia del politicamente corretto, avrebbe dato ragione a Debora Serracchiani. L'Alighieri inserisce i traditori degli ospiti nel canto nono dell'Inferno e considera la loro colpa particolarmente grave. Anche gli americani, negli anni delle nostre grandi emigrazioni, giudicavano i reati commessi dagli italiani odiosi al massimo grado. Perché contenevano una sorta di tradimento profondo del tipo: io accolgo i nuovi venuti, do loro fiducia e futuro, e in cambio ricevo il male. Non c'è affatto razzismo nelle parole della Serracchiani. Sono di buon senso. Contengono la constatazione, sottoscrivibile da chiunque tranne che dagli ideologi insinceri del mainstream, secondo cui il Paese che accoglie merita rispetto. L'accettazione delle regole vigenti nel Paese ospitante è il pre-requisito su cui si basa la reciprocità. O meglio, la civiltà. Pag 18 I vaccini nel paese dei balocchi di Bruno Vespa In quale paese viviamo? Quale paese vogliamo lasciare ai nostri figli e ai nostri nipoti? Abbiamo scelto di vivere senza regole perché è la soluzione più comoda per arrangiarsi? Ma come può crescere un paese dei balocchi dove l'illusione nasconde la realtà? La questione dei vaccini è fantastica. È (sarebbe) obbligatorio vaccinare gratuitamente i bambini entro il primo anno di vita contro il pericolo di tetano,difterite,poliomelite ed epatite B. Ma da trent'anni i genitori possono iscrivere i bambini a scuola con una semplice autocertificazione la cui mancanza non comporta il rifiuto di ammissione. L'Italia è l'unico paese in cui l'obbligo non è obbligatorio. In cui bisogna scrivere È severamente vietato perché è vietato non basta. Inutile dire che il numero di vaccinazioni per queste quattro patologie è sceso sotto la soglia di sicurezza dal 2014, quando i siti internet hanno cominciato a terrorizzare i genitori sugli esiti infausti delle vaccinazioni. Il web in ogni sua forma è più credibile di una autorità sanitaria, di uno specialista, di un medico di base. Si aggiunga che oggi la vaccinazione di base da quadrivalente è diventata esavalente: si aggiungono infatti quelle per la pertosse e l'emofilo che proteggono dalle polmoniti e dalle meningiti. La vaccinazione per ora non obbligatoria ma raccomandata è quella contro morbillo, parotite e rosolia. Qui siamo dieci punti sotto la soglia di sicurezza. L'Organizzazione mondiale della Sanità ha contato nell'ultimo anno in Italia quasi 1400 casi di contagio da morbillo: soltanto la Romania in Europa ha fatto peggio. Il ministro della Salute Lorenzin propone di trasformare in obbligatorie anche le vaccinazioni raccomandate, valutandole periodicamente sulla base di dati epidemiologici e condizionando l'ammissione dei bambini negli asili o a scuola all'accertamento delle vaccinazioni. Il ministro dell'Istruzione Fedeli obietta che questo limiterebbe il diritto all'istruzione. Ma il diritto alla salute non dovrebbe prevalere su quello all'istruzione? Il diritto di una scolaresca a non essere contagiata di morbillo da un bambino non vaccinato deve essere subordinato al diritto dei genitori del bambino a ignorare una elementare regola di prudenza? La prevalenza dell'ideologia sul buonsenso ci riporta a tempi e a regimi che non vogliamo nemmeno citare. Bene ha fatto il Presidente del Consiglio a prendere posizione, già assunta peraltro dal segretario del Pd nettamente favorevole alle vaccinazioni. La polemica sui vaccini è l'ultima di un meraviglioso campionario dell'arte di arrangiarsi violando le regole. La capitale del paese dei balocchi è la più sporca del mondo civilizzato. Per ragioni ideologiche il M5S non vuole un termovalorizzatore innocuo di ultima generazione, col risultato che paghiamo

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93mila euro al giorno per riscaldare ventimila famiglie e un ospedale di Vienna, caricando tre treni al giorno per Austria e Germania, nazioni abitate notoriamente da selvaggi. Di più: i netturbini romani beneficiano di un contratto nazionale che porta le ore lavorative da 36 a 38 la settimana, inclusa la domenica. Ma di fatto continuano a lavorarne 36. Soltanto il 15 per cento dei lavoratori è attivo la domenica e per togliere lo sporco accumulato nel giorno di festa i netturbini romani prendono una maggiorazione per l'aggravio lavorativo del lunedì. Come può crescere un paese dei balocchi in cui l'imbroglio è scritto nella costituzione materiale? Pag 19 Le bombe anarchiche non producono consenso tra la gente di Alessandro Orsini Una bomba artigianale, di probabile matrice anarchica, è esplosa nel parcheggio dei mezzi di un ufficio postale a Roma. Il mondo anarchico è un universo culturale complesso e, come tale, ricco di articolazioni interne. La grande maggioranza degli anarchici italiani sono persone pacifiche e non violente che concepiscono l'anarchismo come un insieme di precetti pedagogici basati sul rifiuto della società capitalistica. In questo caso, l'anarchismo viene vissuto soprattutto come una rivoluzione interiore, da condividere con i propri sodali, che consenta di dire: In un mondo moralmente corrotto, io sono migliore degli altri. Di contro, una piccola frazione dell'universo anarchico ritiene che la formula della rivoluzione interiore sia uno stratagemma per non assumersi la responsabilità del mutamento violento della società. Dal momento che l'anarchismo rappresenta la forma più pura di idealismo politico, gli anarchici violenti realizzano gli attentati, in primo luogo, per appagare un bisogno interiore. Si tratta, infatti, di piccoli o piccolissimi gruppi di amici, a volte soltanto due persone, che hanno un pungente bisogno psicologico di coerenza etica ovvero di coerenza tra le parole (odio per il capitalismo) e i fatti (distruzione di ciò che odiano). Dal momento che la dimensione idealistica è preminente in questo tipo di azioni violente, la dimensione strategica ne risente. Gli anarchici violenti realizzano, periodicamente, alcuni attentati che però non innescano quel fenomeno, potenzialmente pericoloso per la sicurezza della Repubblica, che è l'effervescenza collettiva. Detto più semplicemente, gli attentati anarchici non creano militanti anarchici disposti a usare la violenza. Per comprendere questa mancanza di seguito, occorre comprendere che un gruppo di anarchici violenti è come un partito politico che propone una soluzione ai problemi della gente. Quando un movimento politico muove i primi passi, dice: Cari italiani, voi avete questi problemi e noi vi proponiamo queste soluzioni. Se le soluzioni appaiono credibili, e il gruppo dirigente è dotato di energia creativa, il movimento conquista i voti con l'aiuto di un momento storico favorevole. Il problema dei movimenti violenti di estrema sinistra, tornati alla ribalta sul finire degli anni Novanta, è che propongono un programma politico, e un metodo di attuazione, che non produce consensi, come dimostrano gli omicidi di Massimo d'Antona (1999), Marco Biagi (2002), ma anche il ferimento di Roberto Adinolfi (2012). Per quanto riguarda il programma, gli italiani non credono che la distruzione del capitalismo sia la soluzione ai loro problemi. Questo atteggiamento si basa sulla conoscenza storica. Le società in cui il capitalismo è stato abbattuto con la forza, sono diventate molto meno libere e molto più povere delle società capitalistiche. L'esempio più attuale è rappresentato dalla Corea del Nord, che è poverissima, e la Corea del Sud, che è ricchissima. Questa constatazione non produce un'adesione automatica al capitalismo. Tuttavia, produce il rifiuto dei programmi basati sulla distruzione del capitalismo. Molte persone attribuiscono la colpa delle proprie sofferenze al capitalismo, ma non credono che abbatterlo sia una buona idea. I movimenti violenti di estrema sinistra non colgono questo dato fondamentale e, a causa di ciò, producono un ragionamento strategico fallace, che si riassume come segue: Siccome molte persone odiano il capitalismo, esistono le condizioni fondamentali per il nostro successo. Per quanto riguarda il metodo di attuazione, gli italiani provano orrore all'idea di risolvere i problemi politici uccidendo le persone in mezzo alla strada. Anche questo fatto, essendo elementare, è di facile comprensione. Ecco perché coloro che uccisero d'Antona e Biagi rimasero isolati, proprio come accadde agli anarchici che spararono nelle gambe di Roberto Adinolfi. La politica è, in primo luogo, un fenomeno psicologico che si sviluppa nella mente delle persone. Se le persone rifiutano il programma e il metodo di

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attuazione di un gruppo politico, quel gruppo, pur realizzando attentati, non incide sul mutamento sociale. In tal caso, la violenza rivoluzionaria diventa violenza inutile. LA NUOVA di sabato 13 maggio 2017 Pag 1 Bocciata l’azienda Italia di Bruno Manfellotto A chi lo avesse dimenticato e a chi facesse finta di non capire, sommessamente ricordiamo che è stata testè annunciata l’ennnesima bocciatura dell’Azienda Italia. Da parte della Commissione di Jean-Claude Juncker, naturalmente. L’Europa cresce, pur se poco, noi no, inchiodati allo zero virgola. Siamo gli ultimi della classe, l’anello debole. Uffa. Gli altri invece sono riusciti nell’impresa di dare una svolta alla loro economia, dunque non è colpa della moneta unica: chi sta meglio, però, è chi ha avuto il coraggio di cambiare un sistema che non funzionava più, insomma di fare, come si usa dire, riforme strutturali. Noi ci abbiamo provato, poi tutto si è fermato. Ciò che ci rimproverano è in realtà ciò che ci frena da un trentennio: troppa burocrazia, troppa evasione fiscale, criminalità invasiva, corruzione diffusa, giustizia lenta. E un debito pubblico eccessivo che non lascia margini né a riduzioni del carico fiscale né a investimenti in infrastrutture. Pesano anche i condizionamenti politici. Il referendum del 4 dicembre, con il no alle riforme costituzionali, non solo ha posto le premesse per la bocciatura della legge elettorale da parte della Consulta, ma ha provocato una generale battuta d’arresto: da cinque mesi il Paese è immobile. Certo, si affronta l’emergenza. Eppure il momento imporrebbe ben altre riflessioni. Che non si possono pretendere dal governo Gentiloni, pro tempore per missione, la cui uscita di scena è tuttora incerta. Si finge anche di ignorare che il sistema Italia è privo di uno strumento essenziale della democrazia, una legge elettorale che consenta ai cittadini di scegliere i loro rappresentanti e garantisca governabilità. O meglio, di leggi ce ne sono due, entrambe monche, perché figlie di due sentenze della Corte costituzionale che hanno tagliuzzato prima il Porcellum poi l’Italicum. Del resto si vota con sistemi diversi per Comune, Provincia, Regione e pure per il parlamento europeo, non so se mi spiego. Ma, a parte i richiami severi dell’ottimo Mattarella, a tutti dovrebbe apparire almeno singolare che per la Camera si proceda con una legge proporzionale, senza ballottaggio, con premio di maggioranza alla lista che raggiunga quota 40 (e chi ci arriva?), capilista bloccati e accesso vietato sotto il 3%; e al Senato con una proporzionale, ma senza premio e con sbarramento all’8%: facile che ci siano risultati diversi di qua e di là e che nessuno abbia una maggioranza. Tutto è chiaro, ma le reazioni non sono all’altezza della situazione, e tanto meno degli stimoli del capo dello Stato. Prevalgono per ora gli interessi di bottega e gli scambi di accuse su chi boicotta un accordo. Silvio Berlusconi, in passato profeta del bipolarismo e del presidenzialismo, guida ora la guerra santa per il proporzionale perpetuando quella insopportabile abitudine di pensare alla legge elettorale come a uno strumento utile solo alla propria forza politica e in quel determinato momento. E infatti negli ultimi due anni sono nati e morti quattro diversi sistemi elettorali. Beppe Grillo, invece, vorrebbe trasferire il sistema della Camera anche al Senato, però abbassando il premio di maggioranza al 35%, naturalmente nella speranza di arrivarci lui. Nell’esercito dei proporzionalisti sono arruolati anche Salvini, Meloni e la sinistra che non si riconosce nel Pd, ciascuno pro domo sua. Matteo Renzi, invece, punta su un sistema maggioritario e sogna pure il ballottaggio, che però è stato bocciato sia dal referendum sia dalla Consulta: strada dunque percorribile a fatica. Intanto Grillo accusa Renzi di pensare solo all’inciucio che verrà con Berlusconi che, a sua volta, teme che Renzi faccia cadere il governo Gentiloni per andare a votare a ottobre; e Renzi accusa B. e 5Stelle di tramare alle sue spalle. Aiuto. Su tutto, poi, è piombato l’affaire Boschi, che certo non induce al dialogo. Con queste premesse… Ma noi, ottimisti incalliti, pur continuamente smentiti, speriamo ancora che una quadra si trovi. Confidando che la politica rinunci a suicidarsi. Torna al sommario