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RASSEGNA STAMPA di giovedì 25 gennaio 2018 SOMMARIO “L’efficacia delle fake news è dovuta in primo luogo alla loro natura mimetica, cioè alla capacità di apparire plausibili. In secondo luogo, queste notizie, false ma verosimili, sono capziose, nel senso che sono abili a catturare l’attenzione dei destinatari, facendo leva su stereotipi e pregiudizi diffusi all’interno di un tessuto sociale, sfruttando emozioni facili e immediate da suscitare, quali l’ansia, il disprezzo, la rabbia e la frustrazione. La loro diffusione può contare su un uso manipolatorio dei social network e delle logiche che ne garantiscono il funzionamento: in questo modo i contenuti, pur privi di fondamento, guadagnano una tale visibilità che persino le smentite autorevoli difficilmente riescono ad arginarne i danni. La difficoltà a svelare e a sradicare le fake news è dovuta anche al fatto che le persone interagiscono spesso all’interno di ambienti digitali omogenei e impermeabili a prospettive e opinioni divergenti. L’esito di questa logica della disinformazione è che, anziché avere un sano confronto con altre fonti di informazione, la qual cosa potrebbe mettere positivamente in discussione i pregiudizi e aprire a un dialogo costruttivo, si rischia di diventare involontari attori nel diffondere opinioni faziose e infondate. Il dramma della disinformazione è lo screditamento dell’altro, la sua rappresentazione come nemico, fino a una demonizzazione che può fomentare conflitti. Le notizie false rivelano così la presenza di atteggiamenti al tempo stesso intolleranti e ipersensibili, con il solo esito che l’arroganza e l’odio rischiano di dilagare. A ciò conduce, in ultima analisi, la falsità. Come possiamo riconoscerle? Nessuno di noi può esonerarsi dalla responsabilità di contrastare queste falsità. Non è impresa facile, perché la disinformazione si basa spesso su discorsi variegati, volutamente evasivi e sottilmente ingannevoli, e si avvale talvolta di meccanismi raffinati. Sono perciò lodevoli le iniziative educative che permettono di apprendere come leggere e valutare il contesto comunicativo, insegnando a non essere divulgatori inconsapevoli di disinformazione, ma attori del suo svelamento. Sono altrettanto lodevoli le iniziative istituzionali e giuridiche impegnate nel definire normative volte ad arginare il fenomeno, come anche quelle, intraprese dalle tech e media company, atte a definire nuovi criteri per la verifica delle identità personali che si nascondono dietro ai milioni di profili digitali. Ma la prevenzione e l’identificazione dei meccanismi della disinformazione richiedono anche un profondo e attento discernimento. Da smascherare c’è infatti quella che si potrebbe definire come “logica del serpente”, capace ovunque di camuffarsi e di mordere. Si tratta della strategia utilizzata dal «serpente astuto», di cui parla il Libro della Genesi, il quale, ai primordi dell’umanità, si rese artefice della prima “fake news”, che portò alle tragiche conseguenze del peccato, concretizzatesi poi nel primo fratricidio e in altre innumerevoli forme di male contro Dio, il prossimo, la società e il creato”: è un pezzo del messaggio di Papa Francesco reso noto ieri e in vista della 52^ Giornata mondiale delle comunicazioni sociali incentrata sul tema «La verità vi farà liberi (Gv 8,32). Fake news e giornalismo di pace» (testo integrale qui in Rassegna). Il messaggio termina con una preghiera con la quale “ispirandoci a una preghiera francescana, potremmo così rivolgerci alla Verità in persona”: Signore, fa’ di noi strumenti della tua pace. Facci riconoscere il male che si insinua in una comunicazione che non crea comunione. Rendici capaci di togliere il veleno dai nostri giudizi. Aiutaci a parlare degli altri come di fratelli e sorelle. Tu sei fedele e degno di fiducia; fa’ che le nostre parole siano semi di bene per il mondo: dove c’è rumore, fa’ che pratichiamo l’ascolto;

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 25 gennaio 2018

SOMMARIO

“L’efficacia delle fake news è dovuta in primo luogo alla loro natura mimetica, cioè alla capacità di apparire plausibili. In secondo luogo, queste notizie, false ma verosimili, sono capziose, nel senso che sono abili a catturare l’attenzione dei

destinatari, facendo leva su stereotipi e pregiudizi diffusi all’interno di un tessuto sociale, sfruttando emozioni facili e immediate da suscitare, quali l’ansia, il

disprezzo, la rabbia e la frustrazione. La loro diffusione può contare su un uso manipolatorio dei social network e delle logiche che ne garantiscono il

funzionamento: in questo modo i contenuti, pur privi di fondamento, guadagnano una tale visibilità che persino le smentite autorevoli difficilmente riescono ad arginarne i danni. La difficoltà a svelare e a sradicare le fake news è dovuta anche al fatto che le persone interagiscono spesso all’interno di ambienti digitali omogenei e impermeabili

a prospettive e opinioni divergenti. L’esito di questa logica della disinformazione è che, anziché avere un sano confronto con altre fonti di informazione, la qual cosa potrebbe mettere positivamente in discussione i pregiudizi e aprire a un dialogo

costruttivo, si rischia di diventare involontari attori nel diffondere opinioni faziose e infondate. Il dramma della disinformazione è lo screditamento dell’altro, la sua rappresentazione come nemico, fino a una demonizzazione che può fomentare

conflitti. Le notizie false rivelano così la presenza di atteggiamenti al tempo stesso intolleranti e ipersensibili, con il solo esito che l’arroganza e l’odio rischiano di

dilagare. A ciò conduce, in ultima analisi, la falsità. Come possiamo riconoscerle? Nessuno di noi può esonerarsi dalla responsabilità di contrastare queste falsità. Non è

impresa facile, perché la disinformazione si basa spesso su discorsi variegati, volutamente evasivi e sottilmente ingannevoli, e si avvale talvolta di meccanismi

raffinati. Sono perciò lodevoli le iniziative educative che permettono di apprendere come leggere e valutare il contesto comunicativo, insegnando a non essere divulgatori

inconsapevoli di disinformazione, ma attori del suo svelamento. Sono altrettanto lodevoli le iniziative istituzionali e giuridiche impegnate nel definire normative volte ad arginare il fenomeno, come anche quelle, intraprese dalle tech e media company, atte a definire nuovi criteri per la verifica delle identità personali che si nascondono

dietro ai milioni di profili digitali. Ma la prevenzione e l’identificazione dei meccanismi della disinformazione richiedono anche un profondo e attento

discernimento. Da smascherare c’è infatti quella che si potrebbe definire come “logica del serpente”, capace ovunque di camuffarsi e di mordere. Si tratta della

strategia utilizzata dal «serpente astuto», di cui parla il Libro della Genesi, il quale, ai primordi dell’umanità, si rese artefice della prima “fake news”, che portò alle

tragiche conseguenze del peccato, concretizzatesi poi nel primo fratricidio e in altre innumerevoli forme di male contro Dio, il prossimo, la società e il creato”: è un pezzo del messaggio di Papa Francesco reso noto ieri e in vista della 52^ Giornata mondiale

delle comunicazioni sociali incentrata sul tema «La verità vi farà liberi (Gv 8,32). Fake news e giornalismo di pace» (testo integrale qui in Rassegna). Il messaggio termina

con una preghiera con la quale “ispirandoci a una preghiera francescana, potremmo così rivolgerci alla Verità in persona”:

Signore, fa’ di noi strumenti della tua pace.

Facci riconoscere il male che si insinua in una comunicazione che non crea comunione.

Rendici capaci di togliere il veleno dai nostri giudizi. Aiutaci a parlare degli altri come di fratelli e sorelle.

Tu sei fedele e degno di fiducia; fa’ che le nostre parole siano semi di bene per il mondo:

dove c’è rumore, fa’ che pratichiamo l’ascolto;

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dove c’è confusione, fa’ che ispiriamo armonia; dove c’è ambiguità, fa’ che portiamo chiarezza;

dove c’è esclusione, fa’ che portiamo condivisione; dove c’è sensazionalismo, fa’ che usiamo sobrietà;

dove c’è superficialità, fa’ che poniamo interrogativi veri; dove c’è pregiudizio, fa’ che suscitiamo fiducia; dove c’è aggressività, fa’ che portiamo rispetto;

dove c’è falsità, fa’ che portiamo verità. Amen.

1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VI San Francesco di Sales, sabato il Patriarca incontrerà i giornalisti di Alvise Sperandio Pag XVI Sabato la “Marcia per la pace” con il patriarca Moraglia di L.Gia. 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 6 L’invito del Papa: “smascheriamo la strategia del serpente astuto” Nel libro della Genesi la prima fake news: portò al peccato. Il testo del Messaggio Pag 7 Andare oltre anche nell’era digitale (senza l’ebbrezza della velocità). Lo suggerisce persino Cesare Pavese di Ivan Maffeis Pag 22 In “Gaudium et spes” si rivela l’essenza del Concilio Vaticano II Lectio magistralis di O’Malley all’Istituto Giovanni Paolo II Pag 23 Nessun compromesso sugli abusi Udienza del Papa: in Cile e Perù un viaggio nel segno della pace di Cristo Pag 27 Il mondo di Francesco non è una “cosa” di Antonio Spadaro IL FOGLIO Pag 1 Nella chiesa non c’è posto per #MeToo di Giuliano Ferrara Il Papa non può lasciare la briglia sul collo al cavallo dell’anticlericalismo Pag 1 L’assalto liberal a Francesco di mat.mat. La bibbia progressista americana: “Sugli abusi lui è parte del problema” 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 9 Crescita, debito e disuguaglianze, il Fmi mette tutti in guardia: “Prepararsi a una nuova crisi” di Massimo Calvi IL GAZZETTINO Pag 1 Il tradimento del libero mercato porta al declino di Giulio Sapelli Pag 23 La bugia sessantottina che illude i ragazzi di oggi di Maria Latella Quindicenne ubriaca a scuola 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IX Ecco il boulevard degli alberghi di Elisio Trevisan

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Duemila posti nella nuova “stecca” di hotel sul lato ferrovia verranno aperti nell’aprile 2019, altrettanti nell’ostello AO. Arredo urbano: prevista una piazza e la pista ciclabile LA NUOVA Pag 19 Le Storie di Sant’Orsola e il Tintoretto ritrovato di Enrico Tantucci In aprile l’Assemblea dei Comitati presenterà il programma dei lavori finanziati. Già in corso interventi importanti, nuovi cantieri nelle Gallerie dell’Accademia 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 3 di Gente Veneta in uscita venerdì 26 gennaio 2018: Pagg 1, 4 – 5 Cura del Creato, due voci audaci di Giorgio Malavasi Scelte concrete per mostrare che lo sviluppo sostenibile proposto da Papa Francesco è a portata di mano. La casa a emissioni zero e l’“impronta” delle eco-famiglie. Enciclica, clima, sostenibilità: sabato 27 gennaio a Venezia dialogo fra Luca Mercalli e il Patriarca Pag 1 “Polli” a Venezia, e se scoppiasse la bolla? di Serena Spinazzi Lucchesi Pag 1 Una legge per non sentire più la litania dell’Oxfam di Giorgio Malavasi Pag 11 «Il diacono Gianni Ferraresi, uomo retto e capace di donarsi» di Lorenzo Mayer Ai funerali, a Sant’Antonio, l’omelia del Patriarca: «La rettitudine era il suo stile. Lui però sentì la chiamata a un ulteriore servizio nella Chiesa, secondo quanto indica la parabola dei talenti, che esprime la dimensione battesimale della vita cristiana». Da ciò l’ordinazione diaconale, nel 1986. Diego Righetti: “Talenti da manager messi al servizio della Chiesa” Pag 12 «Nella società “gassosa” la scuola cattolica dà punti fermi» di Pierpaolo Biral «L’educazione realizzata grazie ai genitori e alla loro alleanza con la scuola è fondamentale»: lo dice il Patriarca incontrando i genitori e gli insegnanti della scuola dell’infanzia “Santa Giuliana”, retta dalle suore Serve di Maria di Galeazza, nella parrocchia dei Ss. Liberale e Mauro a Jesolo Lido Pag 14 Ospedale di Jesolo, i medici: «Serve una nuova sostenibilità» di Giuseppe Babbo Accogliendo il Patriarca, i sanitari descrivono i cambiamenti: «La vita non ha prezzo, ma la salute ha un costo. Negli ultimi anni la speranza di vita è cresciuta, ci sono tanti anziani, tante persone sole e mancano le famiglie che se ne occupino. Perciò bisogna trovare soluzioni nuove e sostenibili» Pag 19 Centro d’ascolto di Marghera, duecento nuovi sos in un anno di Gino Cintolo La struttura della Caritas e del Vicariato ha avuto tante richieste nel 2017: gli stranieri sono i due terzi ma gli italiani sono in aumento. Le domande più frequenti sono di aiuto, per trovare lavoro o casa, ma anche per far fronte a bollette o altre spese. Richieste anche per cibo e vestiario. I volontari del Centro: «Cerchiamo di non farci sovrastare da aspetti organizzativi» Pag 28 Reyer School Cup, un fenomeno sportivo e di aggregazione sana di Chiara Semenzato Il torneo di basket coinvolge 48 istituti scolastici in tutto il Veneto. In campo e sugli spalti vietate le scorrettezze. Sono 600 gli atleti partecipanti e viene coinvolta l’intera scuola nell’organizzazione del tifo e nella comunicazione mediante articoli, foto e video delle partite

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… ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’errore? Trascurare il non voto di Aldo Cazzullo Campagna elettorale Pagg 12 - 13 Le due scimmie clonate in Cina di Luigi Ripamonti, Edoardo Boncinelli e Gian Guido Vecchi L’annuncio a Shangai: i due primati stanno bene e aprono nuovi scenari. Più vicini all’uomo progettato a tavolino. E forse nascerà anche lui in Oriente. Il no di Sgreccia: “Una minaccia per il futuro dell’umanità” Pag 36 C’è anche la stupidità del male di Gian Antonio Stella Ebrei con sei dita o riconoscibili dalla forma dell’orecchio sinistro: le idiozie razziste LA REPUBBLICA Pag 4 I giovani in fuga dai partiti 4 su 10 hanno perso fiducia di Michele Smargiassi Studio dell'Istituto Toniolo: i disaffezionati cresciuti di quattro punti in un anno, ma la metà può essere riconquistata Tra le forze preferite M5S, Lega e Pd LA STAMPA Se il governo del Presidente è un miraggio di Federico Geremicca AVVENIRE Pag 1 Un paradiso reso inferno di Giulio Albanese Congo e colpevole indifferenza Pag 2 L’influenza “rivelatrice” di Alberto Caprotti Perché la febbre può essere anche ottima compagna Pag 3 Così le libertà fondamentali sono sotto attacco in Egitto di Federica Zoja Repressioni e persecuzioni, anche i cristiani nel mirino IL GAZZETTINO Pag 7 Clonate anche le scimmie: “E ora tocca all’uomo” di Valentina Arcovio L’esperimento con i primati riuscito per la prima volta al mondo in Cina. Il genetista: “Siamo vicini a superare un confine pericoloso” Pag 23 La legge tutela il diritto alla vita, non quello alla sua dignità di Ennio Fortuna LA NUOVA Pag 1 La memoria degli orrori in Europa di Vincenzo Milanesi Pag 1 La Turchia e le assurdità degli alleati di Maurizio Mistri

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VI San Francesco di Sales, sabato il Patriarca incontrerà i giornalisti di Alvise Sperandio Venezia. Ritorna anche quest'anno la festa di San Francesco di Sales, il patrono dei giornalisti, con un doppio appuntamento sabato a San Marco, promosso dal Patriarcato

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con l'Ordine dei Giornalisti del Veneto e la sezione veneziana dell'Unione Cattolica Stampa Italiana. La formula è consolidata da anni: la messa alle 11 nella cripta della basilica (che sarà celebrata dal referente diocesano dell'Associazione cattolica che si occupa di cinema don Renato Mazzuia), sarà seguita alle 11.45 a Sant'Apollonia dalla conversazione tra il patriarca Francesco Moraglia di ritorno dall'inaugurazione del nuovo anno giudiziario - e un esponente autorevole del mondo dell'informazione. Stavolta a intervenire sarà Luca Mercalli, meteorologo, divulgatore scientifico e climatologo, autore di articoli e pubblicazioni scientifiche e divulgative, volto noto della televisione soprattutto per le sue partecipazioni alla trasmissione Che tempo che fa di Fabio Fazio. «Sarà questa spiegano dall'Ufficio diocesano delle comunicazioni sociali l'occasione per parlare di comunicazione e ambiente, salvaguardia del creato, clima e stili di vita, anche a partire dalla riflessione di papa Francesco esplicitate soprattutto nell'enciclica Laudato sì dedicata alla cura della casa comune». Oggi, intanto, monsignor Moraglia sarà alle 18.30 in cattedrale con il decano della Chiesa Evangelica Luterana in Italia, Heiner Bludau, per la liturgia della parola che chiuderà la consueta Settimana di preghiera per l'Unità dei cristiani in programma in questo periodo dell'anno. Ci saranno anche i rappresentanti delle Chiese anglicana, armena, avventista, copta, greco-ortodossa, ortodossa romena e valdese-metodista. «Nella sua meditazione spiegano dalla Chiesa Luterana, che a Venezia conta la sua comunità più antica - Bludau evidenzierà come l'anno di celebrazioni del 500° anniversario della Riforma di Lutero, da poco concluso, abbia avuto un significato liberatorio, perché le Chiese cristiane si sono liberate dall'isolamento reciproco in cui si erano confinate per troppo tempo, incamminandosi verso la Terra promessa dell'unità». E aggiungono ancora: «Ora queste Chiese sono chiamate a condurre una lotta verso un ulteriore tipo di liberazione, non da altri popoli magari dichiarando guerre e giustificandole contro la volontà di Dio come sante o giuste, ma liberazione, ad esempio, dagli interessi di Governi e multinazionali o dalle forme più moderne e bieche di populismo in cui le differenze non vengono valorizzate come forma di arricchimento reciproco ma, per speculazione propagandistica, come fattore di paura e di conflitto». L'iniziativa ecumenica della Settimana per l'Unità dei cristiani è stata promossa con vari incontri dal Consiglio locale delle Chiese cristiane che quest'anno compie 25 anni, traendo spunto dalla frase biblica Potente è la tua mano, Signore. Pag XVI Sabato la “Marcia per la pace” con il patriarca Moraglia di L.Gia. Il patriarca Francesco Moraglia sabato prossimo a Oriago di Mira per la marcia e la veglia diocesana per la Pace. Lo scorso novembre Mira è stata al centro delle cronache per aver accolto, non senza qualche polemica, i 200 richiedenti asilo, partiti dal Centro di Cona per raggiungere Venezia con l'obiettivo di protestare contro le condizioni in cui vivevano nell'ex caserma militare di Conetta. La marcia dei migranti si è interrotta a Mira e le parrocchie del vicariato hanno accettato di accogliere per la notte una cinquantina di richiedenti asilo offendo loro, con l'aiuto delle associazioni di volontariato e del Comune, di Mira, vitto e alloggio per la notte. Un gesto di solidarietà, condiviso con il Patriarca Moraglia ed in linea con il messaggio di Papa Francesco per la Giornata mondiale della pace 2018 celebrata il 1° gennaio scorso sul tema Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace. La marcia inizierà nella chiesa di S. Pietro in Bosco a Oriago alle 19.30 con l'ascolto di alcune testimonianze, una delle quali racconterà proprio l'esperienza di accoglienza vissuta a Mira lo scorso novembre. Seguirà poi la marcia, lungo Riviera S. Pietro. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 6 L’invito del Papa: “smascheriamo la strategia del serpente astuto” Nel libro della Genesi la prima fake news: portò al peccato. Il testo del Messaggio Pubblichiamo il Messagio del Papa per la 52ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Il titolo è «La verità vi farà liberi (Gv 8,32). Fake news e giornalismo di pace».

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Cari fratelli e sorelle, nel progetto di Dio, la comunicazione umana è una modalità essenziale per vivere la comunione. L’essere umano, immagine e somiglianza del Creatore, è capace di esprimere e condividere il vero, il buono, il bello. E’ capace di raccontare la propria esperienza e il mondo, e di costruire così la memoria e la comprensione degli eventi. Ma l’uomo, se segue il proprio orgoglioso egoismo, può fare un uso distorto anche della facoltà di comunicare, come mostrano fin dall’inizio gli episodi biblici di Caino e Abele e della Torre di Babele (cfr Gen 4,1-16; 11,1-9). L’alterazione della verità è il sintomo tipico di tale distorsione, sia sul piano individuale che su quello collettivo. Al contrario, nella fedeltà alla logica di Dio la comunicazione diventa luogo per esprimere la propria responsabilità nella ricerca della verità e nella costruzione del bene. Oggi, in un contesto di comunicazione sempre più veloce e all’interno di un sistema digitale, assistiamo al fenomeno delle “notizie false”, le cosiddette fake news: esso ci invita a riflettere e mi ha suggerito di dedicare questo messaggio al tema della verità, come già hanno fatto più volte i miei predecessori a partire da Paolo VI (cfr Messaggio 1972: Le comunicazioni sociali al servizio della verità). Vorrei così offrire un contributo al comune impegno per prevenire la diffusione delle notizie false e per riscoprire il valore della professione giornalistica e la responsabilità personale di ciascuno nella comunicazione della verità. 1. Che cosa c’è di falso nelle “notizie false”? Fake news è un termine discusso e oggetto di dibattito. Generalmente riguarda la disinformazione diffusa online o nei media tradizionali. Con questa espressione ci si riferisce dunque a informazioni infondate, basate su dati inesistenti o distorti e mirate a ingannare e persino a manipolare il lettore. La loro diffusione può rispondere a obiettivi voluti, influenzare le scelte politiche e favorire ricavi economici. L’efficacia delle fake news è dovuta in primo luogo alla loro natura mimetica, cioè alla capacità di apparire plausibili. In secondo luogo, queste notizie, false ma verosimili, sono capziose, nel senso che sono abili a catturare l’attenzione dei destinatari, facendo leva su stereotipi e pregiudizi diffusi all’interno di un tessuto sociale, sfruttando emozioni facili e immediate da suscitare, quali l’ansia, il disprezzo, la rabbia e la frustrazione. La loro diffusione può contare su un uso manipolatorio dei social network e delle logiche che ne garantiscono il funzionamento: in questo modo i contenuti, pur privi di fondamento, guadagnano una tale visibilità che persino le smentite autorevoli difficilmente riescono ad arginarne i danni. La difficoltà a svelare e a sradicare le fake news è dovuta anche al fatto che le persone interagiscono spesso all’interno di ambienti digitali omogenei e impermeabili a prospettive e opinioni divergenti. L’esito di questa logica della disinformazione è che, anziché avere un sano confronto con altre fonti di informazione, la qual cosa potrebbe mettere positivamente in discussione i pregiudizi e aprire a un dialogo costruttivo, si rischia di diventare involontari attori nel diffondere opinioni faziose e infondate. Il dramma della disinformazione è lo screditamento dell’altro, la sua rappresentazione come nemico, fino a una demonizzazione che può fomentare conflitti. Le notizie false rivelano così la presenza di atteggiamenti al tempo stesso intolleranti e ipersensibili, con il solo esito che l’arroganza e l’odio rischiano di dilagare. A ciò conduce, in ultima analisi, la falsità. 2. Come possiamo riconoscerle? Nessuno di noi può esonerarsi dalla responsabilità di contrastare queste falsità. Non è impresa facile, perché la disinformazione si basa spesso su discorsi variegati, volutamente evasivi e sottilmente ingannevoli, e si avvale talvolta di meccanismi raffinati. Sono perciò lodevoli le iniziative educative che permettono di apprendere come leggere e valutare il contesto comunicativo, insegnando a non essere divulgatori inconsapevoli di disinformazione, ma attori del suo svelamento. Sono altrettanto lodevoli le iniziative istituzionali e giuridiche impegnate nel definire normative volte ad arginare il fenomeno, come anche quelle, intraprese dalle tech e media company, atte a definire nuovi criteri per la verifica delle identità personali che si nascondono dietro ai milioni di profili digitali. Ma la prevenzione e l’identificazione dei meccanismi della disinformazione richiedono anche un profondo e attento discernimento. Da smascherare c’è infatti quella che si potrebbe definire come “logica del serpente”, capace ovunque di camuffarsi e di

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mordere. Si tratta della strategia utilizzata dal «serpente astuto», di cui parla il Libro della Genesi, il quale, ai primordi dell’umanità, si rese artefice della prima “fake news” (cfr Gen 3,1-15), che portò alle tragiche conseguenze del peccato, concretizzatesi poi nel primo fratricidio (cfr Gen 4) e in altre innumerevoli forme di male contro Dio, il prossimo, la società e il creato. La strategia di questo abile «padre della menzogna» (Gv 8,44) è proprio la mimesi, una strisciante e pericolosa seduzione che si fa strada nel cuore dell’uomo con argomentazioni false e allettanti. Nel racconto del peccato originale il tentatore, infatti, si avvicina alla donna facendo finta di esserle amico, di interessarsi al suo bene, e inizia il discorso con un’affermazione vera ma solo in parte: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino?”» (Gen 3,1). Ciò che Dio aveva detto ad Adamo non era in realtà di non mangiare di alcun albero, ma solo di un albero: «Dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare» (Gen 2,17). La donna, rispondendo, lo spiega al serpente, ma si fa attrarre dalla sua provocazione: «Del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”» (Gen 3,2). Questa risposta sa di legalistico e di pessimistico: avendo dato credibilità al falsario, lasciandosi attirare dalla sua impostazione dei fatti, la donna si fa sviare. Così, dapprima presta attenzione alla sua rassicurazione: «Non morirete affatto» (v. 4). Poi la decostruzione del tentatore assume una parvenza credibile : «Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male» (v. 5). Infine, si giunge a screditare la raccomandazione paterna di Dio, che era volta al bene, per seguire l’allettamento seducente del nemico: «La donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile» (v. 6). Questo episodio biblico rivela dunque un fatto essenziale per il nostro discorso: nessuna disinformazione è innocua; anzi, fidarsi di ciò che è falso, produce conseguenze nefaste. Anche una distorsione della verità in apparenza lieve può avere effetti pericolosi. In gioco, infatti, c’è la nostra bramosia. Le fake news diventano spesso virali, ovvero si diffondono in modo veloce e difficilmente arginabile, non a causa della logica di condivisione che caratterizza i social media, quanto piuttosto per la loro presa sulla bramosia insaziabile che facilmente si accende nell’essere umano. Le stesse motivazioni economiche e opportunistiche della disinformazione hanno la loro radice nella sete di potere, avere e godere, che in ultima analisi ci rende vittime di un imbroglio molto più tragico di ogni sua singola manifestazione: quello del male, che si muove di falsità in falsità per rubarci la libertà del cuore. Ecco perché educare alla verità significa educare a discernere, a valutare e ponderare i desideri e le inclinazioni che si muovono dentro di noi, per non trovarci privi di bene “abboccando” ad ogni tentazione. 3. «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32) La continua contaminazione con un linguaggio ingannevole finisce infatti per offuscare l’interiorità della persona. Dostoevskij scrisse qualcosa di notevole in tal senso: «Chi mente a sé stesso e ascolta le proprie menzogne arriva al punto di non poter più distinguere la verità, né dentro di sé, né intorno a sé, e così comincia a non avere più stima né di sé stesso, né degli altri. Poi, siccome non ha più stima di nessuno, cessa anche di amare, e allora, in mancanza di amore, per sentirsi occupato e per distrarsi si abbandona alle passioni e ai piaceri volgari, e per colpa dei suoi vizi diventa come una bestia; e tutto questo deriva dal continuo mentire, agli altri e a sé stesso» (I fratelli Karamazov, II, 2). Come dunque difenderci? Il più radicale antidoto al virus della falsità è lasciarsi purificare dalla verità. Nella visione cristiana la verità non è solo una realtà concettuale, che riguarda il giudizio sulle cose, definendole vere o false. La verità non è soltanto il portare alla luce cose oscure, “svelare la realtà”, come l’antico termine greco che la designa, aletheia (da a-lethès, “non nascosto”), porta a pensare. La verità ha a che fare con la vita intera. Nella Bibbia, porta con sé i significati di sostegno, solidità, fiducia, come dà a intendere la radice ‘aman, dalla quale proviene anche l’Amen liturgico. La verità è ciò su cui ci si può appoggiare per non cadere. In questo senso relazionale, l’unico veramente affidabile e degno di fiducia, sul quale si può contare, ossia “vero”, è il Dio vivente. Ecco l’affermazione di Gesù: «Io sono la verità» (Gv 14,6). L’uomo, allora, scopre e riscopre la verità quando la sperimenta in sé stesso come fedeltà e affidabilità di chi lo ama. Solo questo libera l’uomo: «La verità vi farà liberi» (Gv 8,32).

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Liberazione dalla falsità e ricerca della relazione: ecco i due ingredienti che non possono mancare perché le nostre parole e i nostri gesti siano veri, autentici, affidabili. Per discernere la verità occorre vagliare ciò che asseconda la comunione e promuove il bene e ciò che, al contrario, tende a isolare, dividere e contrapporre. La verità, dunque, non si guadagna veramente quando è imposta come qualcosa di estrinseco e impersonale; sgorga invece da relazioni libere tra le persone, nell’ascolto reciproco. Inoltre, non si smette mai di ricercare la verità, perché qualcosa di falso può sempre insinuarsi, anche nel dire cose vere. Un’argomentazione impeccabile può infatti poggiare su fatti innegabili, ma se è utilizzata per ferire l’altro e per screditarlo agli occhi degli altri, per quanto giusta appaia, non è abitata dalla verità. Dai frutti possiamo distinguere la verità degli enunciati: se suscitano polemica, fomentano divisioni, infondono rassegnazione o se, invece, conducono ad una riflessione consapevole e matura, al dialogo costruttivo, a un’operosità proficua. 4. La pace è la vera notizia Il miglior antidoto contro le falsità non sono le strategie, ma le persone: persone che, libere dalla bramosia, sono pronte all’ascolto e attraverso la fatica di un dialogo sincero lasciano emergere la verità; persone che, attratte dal bene, si responsabilizzano nell’uso del linguaggio. Se la via d’uscita dal dilagare della disinformazione è la responsabilità, particolarmente coinvolto è chi per ufficio è tenuto ad essere responsabile nell’informare, ovvero il giornalista, custode delle notizie. Egli, nel mondo contemporaneo, non svolge solo un mestiere, ma una vera e propria missione. Ha il compito, nella frenesia delle notizie e nel vortice degli scoop, di ricordare che al centro della notizia non ci sono la velocità nel darla e l’impatto sull’audience, ma le persone. Informare è formare, è avere a che fare con la vita delle persone. Per questo l’accuratezza delle fonti e la custodia della comunicazione sono veri e propri processi di sviluppo del bene, che generano fiducia e aprono vie di comunione e di pace. Desidero perciò rivolgere un invito a promuovere un giornalismo di pace, non intendendo con questa espressione un giornalismo “buonista”, che neghi l’esistenza di problemi gravi e assuma toni sdolcinati. Intendo, al contrario, un giornalismo senza infingimenti, ostile alle falsità, a slogan ad effetto e a dichiarazioni roboanti; un giornalismo fatto da persone per le persone, e che si comprende come servizio a tutte le persone, specialmente a quelle – sono al mondo la maggioranza – che non hanno voce; un giornalismo che non bruci le notizie, ma che si impegni nella ricerca delle cause reali dei conflitti, per favorirne la comprensione dalle radici e il superamento attraverso l’avviamento di processi virtuosi; un giornalismo impegnato a indicare soluzioni alternative alle escalation del clamore e della violenza verbale. Per questo, ispirandoci a una preghiera francescana, potremmo così rivolgerci alla Verità in persona: Signore, fa’ di noi strumenti della tua pace. Facci riconoscere il male che si insinua in una comunicazione che non crea comunione. Rendici capaci di togliere il veleno dai nostri giudizi. Aiutaci a parlare degli altri come di fratelli e sorelle. Tu sei fedele e degno di fiducia; fa’ che le nostre parole siano semi di bene per il mondo: dove c’è rumore, fa’ che pratichiamo l’ascolto; dove c’è confusione, fa’ che ispiriamo armonia; dove c’è ambiguità, fa’ che portiamo chiarezza; dove c’è esclusione, fa’ che portiamo condivisione; dove c’è sensazionalismo, fa’ che usiamo sobrietà; dove c’è superficialità, fa’ che poniamo interrogativi veri; dove c’è pregiudizio, fa’ che suscitiamo fiducia; dove c’è aggressività, fa’ che portiamo rispetto; dove c’è falsità, fa’ che portiamo verità. Amen. Francesco Pag 7 Andare oltre anche nell’era digitale (senza l’ebbrezza della velocità). Lo suggerisce persino Cesare Pavese di Ivan Maffeis

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Forse da ragazzi un po’ tutti, come il trovatello de La luna e i falò di Cesare Pavese, ci siamo ritrovati a chiudere gli occhi per provare se, riaprendoli, la collina fosse scomparsa, lasciando intravedere un paese migliore. Al desiderio di “andare più lontano”, la cultura digitale ha dato un contributo decisivo. L’individuo ha davvero “scollinato”, ha trovato l’America, un mondo seducente di immagini, news e commenti, che consente di trasferire sulla pubblica piazza anche i momenti più personali. L’ebbrezza della velocità, in macchina come nella vita, presenta rischi pesanti. Si può arrivare a pensare che tutti i contenuti siano uguali, che tra rappresentazione e realtà non corra chissà quale distinzione, che le proprie credenze contino più dei fatti e che, comunque, ci si possa sottrarre a tutto ciò che è dissonante. Su questo sfondo si rafforzano facilmente pregiudizi e stereotipi, sospetti e chiusure. Diventa difficile anche riconoscere le fake news, le informazioni infondate, «basate su dati inesistenti o distorti», eppure così plausibili ed efficaci nella loro capacità di presa e tenuta. Ha ragione chi sottolinea come il fenomeno non sia nuovo. In realtà, a renderlo preoccupante oggi è il numero di contatti che raggiunge in maniera tempestiva e poco arginabile. Se i social non possono essere considerati la causa principale delle fake news, like e condivisioni ne facilitano la propagazione, secondo un dinamismo che dei contenuti premia più la visibilità della loro stessa veridicità. Al riguardo, nel Messaggio per la 52ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, papa Francesco denuncia «la logica del serpente», che arriva a offuscare «l’interiorità della persona» e a rubarle «la libertà del cuore». Perfino un’argomentazione impeccabile, «se è utilizzata per ferire l’altro e per screditarlo agli occhi degli altri, per quanto giusta appaia, non è abitata dalla verità». A quel punto, a che serve? «Ero tornato, avevo fatto fortuna, ma le facce, le voci e le mani che dovevano toccarmi e riconoscermi, non c’erano più – riconosce il protagonista del romanzo di Pavese al suo ritorno dall’America –. Quello che restava era come una piazza l’indomani della fiera…». Non che tale esito sia ineluttabile. Anzi, Francesco – e con lui tutto il magistero ecclesiale – è portatore di uno sguardo fiducioso nelle capacità dell’uomo di «raccontare la propria esperienza e il mondo, e di costruire così la memoria e la comprensione degli eventi». Si tratta di «riscoprire il valore della professione», dove il giornalista è «il custode delle notizie», al cui centro «non ci sono la velocità nel darle e l’impatto sull’audience, ma le persone». Un «giornalismo di pace», attento a comprendersi a servizio di quanti «non hanno voce» e a porsi alla «ricerca delle cause reali dei conflitti». D’altra parte – visto che, oltre che fruitori, tutti siamo diventati produttori – il Papa sottolinea «la responsabilità di ciascuno nella comunicazione della verità»; responsabilità che chiede di educarsi ed educare al discernimento, alla verifica, all’approfondimento. Del resto, nel suo rapporto con la realtà, la verità rimane un’esigenza insopprimibile, che non si risolve in una «realtà concettuale» e nemmeno nel «portare alla luce cose oscure». Verità è «ciò su cui ci si può appoggiare per non cadere », spiega Francesco, che aggiunge: «L’uomo scopre e riscopre la verità quando la sperimenta in se stesso come fedeltà e affidabilità di chi lo ama». Pavese direbbe: «Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante e nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti ». In ultima analisi, sottolinea ancora il Messaggio, «l’unico veramente affidabile e degno di fiducia, sul quale si può contare, ossia “vero”, è il Dio vivente». L’esperienza della comunità ecclesiale ne riconosce il volto in Gesù Cristo, verità ultima e piena dell’uomo. È questo fondamento che ci sta a cuore, anche nella comunicazione. È per questo che si torna. È per questo che – come il protagonista de La luna e i falò – non si smette di cercare: «Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri di più che un comune giro di stagione». Pag 22 In “Gaudium et spes” si rivela l’essenza del Concilio Vaticano II Lectio magistralis di O’Malley all’Istituto Giovanni Paolo II Pubblichiamo ampi stralci della lectio magistralis che sarà tenuta da padre John O’Malley, oggi all’inaugurazione della Cattedra “Gaudium et spes” del Pontificio Istituto teologico “Giovanni Paolo II” per le Scienze del matrimonio e della famiglia. Il gesuita, docente alla Georgetown University di Washington (D.C), interverrà sul tema: “Attualità della Gaudium et spes a 50 anni dal Concilio Vaticano II”.

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Possiamo considerare Gaudium et spes come il documento che rivela davvero l’essenza del Vaticano II. Significativa a tale riguardo è la facilità con cui il Concilio accettò l’idea di un simile documento quando il cardinale Suenens il 4 dicembre 1962 lo propose esplicitamente per la prima volta. Sicuramente i Padri del Concilio videro nella proposta di Suenes l’ufficializzazione del “Messaggio al mondo” reso noto i primi giorni dei lavori. (…) I segni dei tempi richiedono di guardare al mondo e alle sue necessità reali, dunque al mondo realmente esistente e di essere realistici respirando la stessa aria dei nostri contemporanei. È necessario scendere dai ghiacciai dell’astrazione per rispondere alle necessità reali delle vite umane. Tale preoccupazione ha animato i due recenti Sinodi sulla famiglia, come si evince nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia. Come noto, i Sinodi e l’Esortazione sono di impulso per la attuale nuova fase di vita dell’Istituto Giovanni Paolo II. (…) Gaudium et spes ha spostato l’attenzione su tali tematiche dai margini al centro del Magistero della Chiesa. È un tema di grandissimo significato. Gaudium et spes è un documento di solito considerato pastorale ma è allo stesso tempo un testo dottrinale. Non dovremmo sorprenderci visto che la Dei Verbum insegna che la Rivelazione consiste in verità utili «a far sì che il popolo di Dio viva la sua vita in santità e aumenti la sua fede» (n.8). In altre parole Dio ha rivelato verità pastorali. Gaudium et Spes è della stessa importanza delle altre Costituzioni in quanto a numero ed importanza delle verità che trasmette. Tra queste verità, la più pertinente per la nuova cattedra che inauguriamo oggi è l’insegnamento che il matrimonio è «un’intima condivisione di vita e amore» (intima communitas vitae et amoris, n.48), una definizione del matrimonio mai trovata in documenti di così alto livello. Il documento più in generale illustra la dignità del matrimonio e la bellezza della vocazione della vita coniugale. Inoltre Gaudium et spes insegna che mentre la Chiesa ha la responsabilità di proclamare il Vangelo, deve mettere se stessa al servizio della comunità umana proprio per ottemperare al dettato evangelico. In altre parole la Chiesa ha una responsabilità nel benessere del cosiddetto ordine temporale. Il documento insegna che la Chiesa deve per definizione preoccuparsi della giustizia sociale, delle atrocità delle guerre, deve favorire pace e progresso di ogni aspetto della cultura umana. Insegna che i cattolici devono lavorare i con gli altri nel favorire questi risultati, anche se gli altri sono non-credenti. Ed insegna che come la Chiesa porta del bene al mondo, così il mondo fa del bene alla Chiesa. La Chiesa deve ascoltare il mondo ed imparare da esso, un insegnamento importante e senza precedenti anche se, ancora una volta, è semplicemente un riconoscimento di un dato di fatto incontrovertibile. Questi non sono insegnamenti banali. Sono insegnamenti pastorali e pertanto si tratta di veri insegnamenti cristiani. Sono insegnamenti «per far crescere il popolo di Dio in santità e nella crescita della fede». Gaudium et spes insegna molte altre cose, ma per la nostra nuova cattedra il capitolo sulla 'Dignità della Famiglia e del Matrimonio' avrà sempre un posto speciale. È il primo capitolo della seconda parte di Gaudium et spes, che termina illustrando “Alcuni dei problemi più urgenti” del mondo in cui viviamo. La famiglia ed il matrimonio hanno un posto d’onore nella Gaudium et spes. Gaudium et spes insegna e proclama sia la dignità della famiglia e del matrimonio sia la dignità della coscienza morale, quel «nucleo segreto e santuario della persona umana, il luogo in cui ognuno è a contatto la voce di Dio nel profondo dell’animo». Così Gaudium et spesinsegna e proclama al di sopra di tutto la dignità della persona umana. La nuova forma letteraria adottata dal Concilio ha liberato la Chiesa riunita in assise dalle costrizioni del paradigma giuridico-legislativo, facendola riflettere maggiormente sulla sua identità, articolando più efficacemente i suoi più alti e preziosi valori, proclamando al mondo in termini più chiari ed efficaci la propria visione del sublime destino dell’umanità. Nel massacrante lavoro richiesto per promuovere questa visione, non vi è passaggio nell’intero Concilio che ci illustri in modo più esplicito l’identità della Chiesa e che articoli più chiaramente i suoi valori più profondi delle parole d’inizio di Gaudium et spes. «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo». Nessun passaggio cattura meglio la visione della Chiesa che papa san Giovanni ha voluto che il Concilio adottasse nella sua allocuzione iniziale: la Chiesa come «la madre amorevole di tutti, benevola, paziente, piena di bontà e misericordia ». Se la nuova cattedra fa sua tale visione della Chiesa come sua più profonda ricerca, adempierà al mandato assegnato da

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Papa Francesco all’Istituto Giovanni Paolo II nella sua lettera apostolica Summa familiae cura: «Dobbiamo essere interpreti consapevoli e appassionati della sapienza della fede in un contesto nel quale gli individui sono meno sostenuti che in passato dalle strutture sociali, nella loro vita affettiva e familiare. Nel limpido proposito di rimanere fedeli all’insegnamento di Cristo, dobbiamo dunque guardare, con intelletto d’amore e con saggio realismo, alla realtà della famiglia, oggi, in tutta la sua complessità, nelle sue luci e nelle sue ombre». John O’ Malley Pag 23 Nessun compromesso sugli abusi Udienza del Papa: in Cile e Perù un viaggio nel segno della pace di Cristo Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Questa udienza si fa in due posti collegati: voi, qui in piazza, e un gruppo di bambini un po’ malati, che sono nell’aula. Loro vedranno voi e voi vedrete loro: e così siamo collegati. Salutiamo i bambini che sono in Aula: ma era meglio che non prendessero tanto freddo, e per questo sono lì. Sono rientrato due giorni fa dal viaggio apostolico in Cile e Perù. Un applauso al Cile e al Perù! Due popoli bravi, bravi… Ringrazio il Signore perché tutto è andato bene: ho potuto incontrare il popolo di Dio in cammino in quelle terre - anche quelli che non sono in cammino, sono un po’ fermi… ma è buona gente - e incoraggiare lo sviluppo sociale di quei Paesi. Rinnovo la mia gratitudine alle autorità civili e ai fratelli vescovi, che mi hanno accolto con tanta premura e generosità; come pure a tutti i collaboratori e i volontari. Pensate che in ognuno dei due Paesi c’erano più di 20mila volontari: 20mila e più in Cile, 20mila in Perù. Gente brava: in maggioranza giovani. Il mio arrivo in Cile era stato preceduto da diverse manifestazioni di protesta, per vari motivi, come voi avete letto nei giornali. E questo ha reso ancora più attuale e vivo il motto della mia visita: « Mi paz os doy – Vi do la mia pace». Sono le parole di Gesù rivolte ai discepoli, che ripetiamo in ogni Messa: il dono della pace, che solo Gesù morto e risorto può dare a chi si affida a Lui. Non solo ognuno di noi ha bisogno della pace, anche il mondo, oggi, in questa terza guerra mondiale a pezzetti… Per favore, preghiamo per la pace! Nell’incontro con le Autorità politiche e civili del Paese ho incoraggiato il cammino della democrazia cilena, come spazio di incontro solidale e capace di includere le diversità; per questo scopo ho indicato come metodo la via dell’ascolto: in particolare l’ascolto dei poveri, dei giovani e degli anziani, degli immigrati, e anche l’ascolto della terra. Nella prima Eucaristia, celebrata per la pace e la giustizia, sono risuonate le Beatitudini, specialmente «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). Una Beatitudine da testimoniare con lo stile della prossimità, della vicinanza, della condivisione, rafforzando così, con la grazia di Cristo, il tessuto della comunità ecclesiale e dell’intera società. In questo stile di prossimità contano più i gesti delle parole, e un gesto importante che ho potuto compiere è stato visitare il carcere femminile di Santiago: i volti di quelle donne, molte delle quali giovani madri, coi loro piccoli in braccio, esprimevano malgrado tutto tanta speranza. Le ho incoraggiate ad esigere, da sé stesse e dalle istituzioni, un serio cammino di preparazione al reinserimento, come orizzonte che dà senso alla pena quotidiana. Noi non possiamo pensare un carcere, qualsiasi carcere, senza questa dimensione del reinserimento, perché se non c’è questa speranza dei reinserimento sociale, il carcere è una tortura infinita. Invece, quando si opera per reinserire - anche gli ergastolani possono reinserirsi – mediante il lavoro dal carcere alla società, si apre un dialogo. Ma sempre un carcere deve avere questa dimensione del reinserimento, sempre. Con i sacerdoti e i consacrati e con i vescovi del Cile ho vissuto due incontri molto intensi, resi ancora più fecondi dalla sofferenza condivisa per alcune ferite che affliggono la Chiesa in quel Paese. In particolare, ho confermato i miei fratelli nel rifiuto di ogni compromesso con gli abusi sessuali sui minori, e al tempo stesso nella fiducia in Dio, che attraverso questa dura prova purifica e rinnova i suoi ministri. Le altre due Messe in Cile sono state celebrate una nel sud e una nel nord. Quella nel sud, in Araucanía, terra dove abitano gli indios Mapuche, ha trasformato in gioia i drammi e le fatiche di questo popolo, lanciando un appello per una pace che sia armonia delle diversità e per il ripudio di ogni violenza. Quella nel nord, a Iquique, tra oceano e deserto, è stata un inno all’incontro tra i popoli, che si esprime in modo singolare nella

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religiosità popolare. Gli incontri con i giovani e con l’Università Cattolicadel Cile hanno risposto alla sfida cruciale di offrire un senso grande alla vita delle nuove generazioni. Ai giovani ho lasciato la parola pro- grammatica di sant’Alberto Hurtado: «Cosa farebbe Cristo al mio posto?». E all’Università ho proposto un modello di formazione integrale, che traduce l’identità cattolica in capacità di partecipare alla costruzione di società unite e plurali, dove i conflitti non vengono occultati ma gestiti nel dialogo. Sempre ci sono conflitti: anche a casa; sempre ci sono. Ma, trattare i male conflitti è ancora peggio. Non bisogna nascondere i conflitti sotto il letto: i conflitti che vengono alla luce, si affrontano e si risolvono con il dialogo. Pensate voi ai piccoli conflitti che avrete sicuramente a casa vostra: non bisogna nasconderli ma affrontarli. Cercare il momento e si parla: il conflitto si risolve così, con il dialogo. In Perù il motto della visita è stato: “Unidos por la esperanza - Uniti dalla speranza”. Uniti non in una sterile uniformità, tutti uguali: questa non è unione; ma in tutta la ricchezza delle differenze che ereditiamo dalla storia e dalla cultura. Lo ha testimoniato emblematicamente l’incontro con i popoli dell’Amazzonia peruviana, che ha dato anche avvio all’itinerario del Sinodo Pan-amazzonico convocato per l’ottobre 2019, come pure lo hanno testimoniato i momenti vissuti con la popolazione di Puerto Maldonado e con i bambini della Casa di accoglienza “Il Piccolo Principe”. Insieme abbiamo detto “no” alla colonizzazione economica e alla colonizzazione ideologica. Parlando alle Autorità politiche e civili del Perù, ho apprezzato il patrimonio ambientale, culturale e spirituale di quel Paese, e ho messo a fuoco le due realtà che più gravemente lo minacciano: il degrado ecologico-sociale e la corruzione. Non so se voi avete sentito qui parlare di corruzione … non so ... Non solo da quelle parti c’è: anche qua ed è più pericolosa dell’influenza! Si mischia e rovina i cuori. La corruzione rovina i cuori. Per favore, no alla corruzione. E ho rimarcato che nessuno è esente da responsabilità di fronte a queste due piaghe e che l’impegno per contrastarle riguarda tutti. La prima Messa pubblica in Perù l’ho celebrata sulla riva dell’oceano, presso la città di Trujillo, dove la tempesta detta “Niño costiero” l’anno scorso ha duramente colpito la popolazione. Perciò l’ho incoraggiata a reagire a questa ma anche ad altre tempeste quali la malavita, la mancanza di educazione, di lavoro e di alloggio sicuro. A Trujillo ho incontrato anche i sacerdoti e i consacrati del nord del Perù, condividendo con loro la gioia della chiamata e della missione, e la responsabilità della comunione nella Chiesa. Li ho esortati ad essere ricchi di memoria e fedeli alle loro radici. E tra queste radici vi è la devozione popolare alla Vergine Maria. Sempre a Trujillo ha avuto luogo la celebrazione mariana in cui ho incoronato la Vergine della Porta, proclamandola “Madre della Misericordia e della Speranza”. La giornata finale del viaggio, domenica scorsa, si è svolta a Lima, con un forte accento spirituale ed ecclesiale. Nel Santuario più celebre del Perù, in cui si venera il dipinto della Crocifissione chiamato “ Señor de los Milagros”, ho incontrato circa 500 religiose di vita contemplativa: un vero “polmone” di fede e di preghiera per la Chiesa e per tutta la società. Nella Cattedrale ho compiuto uno speciale atto di preghieraper intercessione dei santi peruviani, a cui ha fatto seguito l’incontro con i vescovi del Paese, ai quali ho proposto la figura esemplare di san Toribio di Mogrovejo. Anche ai giovani peruviani ho indicato i santi come uomini e donne che non hanno perso tempo a “truccare” la propria immagine, ma hanno seguito Cristo, che li ha guardati con speranza. Come sempre, la parola di Gesù dà senso pieno a tutto, e così anche il Vangelo dell’ultima celebrazione eucaristica ha riassunto il messaggio di Dio al suo popolo in Cile e in Perù: «Convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). Così – sembrava dire il Signore – riceverete la pace che io vi do e sarete uniti nella mia speranza. Questo è più o meno il riassunto di questo viaggio. Preghiamo per queste due Nazioni sorelle, il Cile e il Perù, perché il Signore le benedica. Pag 27 Il mondo di Francesco non è una “cosa” di Antonio Spadaro “Marxista” o “populista”, “profetico” o “rivoluzionario”: sono tante le definizioni che sono state date dell’operato di papa Bergoglio. Qualunque giudizio si esprima, è innegabile che la sua figura sia ormai quella di un leader in grado di esercitare un’enorme influenza sulla politica internazionale. Nell’intricato schema della geopolitica globale, i suoi decisi – e spesso poco convenzionali – interventi hanno cambiato il tono del dibattito, generando entusiasmo e stupore, oltre a numerose critiche. La diplomazia di Francesco sa essere

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“profetica”. Antonio Spadaro, direttore della “Civiltà Cattolica”, accanto ad autorevoli commentatori delle vicende politiche vaticane e non (fra i quali la giornalista di “Avvenire”, Lucia Capuzzi), ricostruisce le strategie attraverso cui Francesco e la sua “Chiesa in uscita” stanno mutando radicalmente il confronto sugli equilibri mondiali in un libro intitolato “Il nuovo mondo di Francesco. Come il Vaticano sta cambiando la politica globale” (Marsilio, pagine 240, euro 17,00) da oggi in libreria. In questa pagina anticipiamo una parte del saggio introduttivo di padre Spadaro intitolato “Sfida all’apocalisse”. Integrare, dialogare, generare sono i tre verbi che Francesco ha usato per lanciare «la sfida di “aggiornare” » l’idea stessa di Europa alla luce di un «nuovo umanesimo ». Tre verbi, tre processi. Questa dinamica inclusiva allarga «l’ampiezza dell’anima europea». Francesco sa che quest’anima nasce dall’incontro di civiltà e di popoli. Sa dunque che l’Europa è «più vasta degli attuali confini dell’Unione»: gli oltre cinquecento milioni di europei, rappresentati dai ventotto paesi membri dell’Unione europea, non esauriscono l’Europa, che è chiamata a diventare luogo vitale di «nuove sintesi». Perché l’Europa non è una «cosa», ma un «processo». Non è un sostantivo, ma un verbo. L’Europa non «è», ma «si fa». A questo punto è chiaro, con assoluta evidenza, perché il papa abbia scelto l’Albania e la Bosnia come prime tappe dei suoi viaggi nel vecchio continente: non ha scelto il luogo dell’anima definita dal centro. Per Francesco la definizione viene dalle richieste di accesso, dalle possibilità aperte nel futuro, dalle pressioni ai lati e ai fianchi. «L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica e multiculturale», ha detto il papa. Le radici sono sempre meticce e sporche di terra. Quello della purezza delle origini è un mito cieco e sordo. L’Europa non è il frutto di un «laboratorio » diplomatico, ma di incontri e scontri, guerra e pace, sangue sparso e olio versato sulle ferite. Le radici si sono consolidate nel corso della storia, integrando culture più diverse e persino «senza apparente legame tra loro». Dunque, il volto dell’Europa non si distingue «nel contrapporsi ad altri, ma nel portare impressi i tratti di varie culture e la bellezza di vincere le chiusure». L’integrazione trova poi nell’essere solidali «il modo in cui costruire la storia»: essa non ha nulla a che fare con l’elemosina, ma è la «generazione di opportunità». Dialogare è ciò che permette di ricostruire il tessuto sociale, perché riconosce l’altro da sé – lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura – come un interlocutore valido, un soggetto da ascoltare, che sia considerato e apprezzato. Il papa sogna un nuovo umanesimo europeo che si costruisca avendo un «vivo senso della storia» e della memoria. L’opposto di questo umanesimo sono la paura, l’esclusione, il sospetto, che producono «viltà, ristrettezza e brutalità» e soprattutto un senso di vischiosa «meschinità». Essere «meschini » è quanto di peggio possa accadere per Francesco che ama l’anima ampia e amplia le anime strette. «La creatività, l’ingegno, la capacità di rialzarsi e di uscire dai propri limiti appartengono all’anima dell’Europa»: ecco nel suo discorso subito affiorare il riferimento all’eccentricità, al superamento dei limiti e dei confini. L’Europa è se stessa perché sa andare oltre se stessa. La sua «casa» si costruisce andando oltre le ceneri dei «tragici scontri, culminati nella guerra più terribile che si ricordi». Questa visione dunque è profondamente legata al divenire, al superamento dialettico di muri e ostacoli. L’Europa è un «processo» tuttora in atto all’interno di «un mondo più complesso e fortemente in movimento». I suoi padri hanno «architettato» un «illuminato progetto» che è sempre in costruzione. Occorre dunque verificare non se la casa regge, ma se la sua realizzazione segue quel sapiente progetto. Ecco il parere del papa: «Quell’atmosfera di novità, quell’ardente desiderio di costruire l’unità paiono sempre più spenti; noi figli di quel sogno siamo tentati di cedere ai nostri egoismi, guardando al proprio utile e pensando di costruire recinti particolari». Perché questo è accaduto? Perché – ha affermato il papa, coerente con il suo approccio alla realtà – l’Europa è «tentata di voler assicurare e dominare spazi più che generare processi di inclusione e trasformazione; un’Europa che si va “trincerando” invece di privilegiare azioni che promuovano nuovi dinamismi nella società; dinamismi capaci di coinvolgere e mettere in movimento tutti gli attori sociali (gruppi e persone) nella ricerca di nuove soluzioni ai problemi attuali, che portino frutto in importanti avvenimenti storici; un’Europa che lungi dal proteggere spazi si renda madre generatrice di processi». Se l’Europa considera se stessa come uno «spazio», allora prima o poi verrà – ed è già venuto – il momento della paura, del timore che lo

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spazio sia invaso. Lo spazio va innanzitutto difeso. Se invece l’Europa è da considerarsi come un processo in fieri, allora si comprende come esso metta in movimento energie, accettando le sfide della storia. Allora anche difficoltà e contraddizioni «possono diventare promotrici potenti di unità». Ragionamenti analoghi andrebbero fatti per ogni continente, tenendo conto delle specificità e particolarità che il papa ha dimostrato di saper riconoscere e rispettare. Certo è che il «nuovo umanesimo» di cui egli ha parlato in contesto europeo rappresenta un punto di riferimento più largo rispetto ai confini di quell’area geografica. Integrare, dialogare e generare nuovi processi: questi tre verbi sembrano sottesi a quanto il pontefice va dicendo in tutti i quadranti della terra – specialmente quelli più periferici. [...] La speranza è quella di aver chiarito in quale senso non debba scandalizzare il ruolo politico incarnato da papa Francesco: esso è in ogni sua parte esplicazione di un compito, della tensione religiosa che deve percorrere la Chiesa. Allo stesso tempo non si deve aver timore a parlare di Bergoglio nei termini di «leader rivoluzionario », perché «rivoluzionario» è colui che porta nel mondo la logica della misericordia. IL FOGLIO Pag 1 Nella chiesa non c’è posto per #MeToo di Giuliano Ferrara Il Papa non può lasciare la briglia sul collo al cavallo dell’anticlericalismo Non si capisce come il Papa se la possa cavare, con questa storia del clericalismo. I progressisti radicali che lo circondano e premono su di lui hanno accolto le sue scuse ai portavoce delle vittime cilene di una presunta copertura di abusi clericali da parte di un vescovo, che Francesco difende fino a prova contraria, come una marcia indietro di eccezionale significato. Avevano letto male, gli scudieri e adulatori del Papa che cambia la chiesa e fustiga il suo clero. Francesco, con una distinzione lessicale invero non chiara, ha distinto tra prove e evidenze, una stessa parola in lingua inglese, e ha aggiunto che le prove non si devono chiedere a chi si propone come vittima con la sua testimonianza, ma ha concluso che quando non ci siano prove o evidenze un'accusa diventa temeraria, una calunnia, e che il vescovo cileno per quanto il Papa sa, per quanto a oggi pensa, non merita calunnie. Insomma, per la prima volta il capo della chiesa ha fatto muro in difesa di uno dei suoi vescovi, e con una certa grinta che gli ha procurato un duro attacco filiale da uno dei suoi principali collaboratori, il cardinale O' Malley di Boston, e una campagna di cui il National Catholic Reporter si fa araldo con parole impietose di critica e dissacrazione del Pontefice. Nel corso del viaggio apostolico e in altre occasioni celebri il Papa della tolleranza zero verso gli abusi del clero, che ha in ogni modo definito insopportabile il clericalismo dei pettegolezzi, delle carriere, della vanità, e lo ha fatto tra gli applausi scroscianti del mondo e della chiesa radicale, ha difeso anche i preti additati in blocco come corpo malsano, insultati per strada se in abito talare, sofferenti anch'essi per un guasto tragico che ovviamente riguarda solo una minima minoranza di sacerdoti abusivi, non il clero nella sua essenza sacramentale, nel suo ordine, e nella sua condizione umana ed ecclesiale. Alle porte d'entrata della storia moderna, con la Riforma, sta la sostituzione del prete con il pastore. La grazia che salva è gratuita per chi, sempre peccatore e sempre giustificato in pari tempo, abbia fede e coltivi da sacerdote egli stesso, con l'ausilio di pastori eletti dalla comunità e teologicamente ferrati, la parola divina, la scrittura sacra. Clero ordinato e clericalismo sono la bestia nera, l'Anticristo, per luterani e calvinisti di ogni variante. La chiesa cattolica non può, senza conseguenze spettacolari, lasciare la briglia sul collo al cavallo dell'anticlericalismo. La cultura del #MeToo o del #balancetonporc va bene, se vada bene, per Hollywood e per il mondo, non ha posto nella cura d'anime e nell'amministrazione sacerdotale dei sacramenti. Il rischio insito nella campagna sulla pedofilia del clero, nella sua perentoria e spesso persecutoria pretesa di erigere a prove, sempre e comunque, le testimonianze delle presunte vittime, noi laici devoti l'avevamo intuito da subito, e sottopelle gran parte della chiesa la pensava come noi, salvo la rinuncia a esibire questa convinzione per ragioni di prudenza, questa sì, clericale. Ora un barlume di consapevolezza ha illuminato una presa di posizione scandalosa di un Papa che prometteva solo fuoco e fiamme contro il clero per definizione sotto accusa, per definizione presunto colpevole. E il contrattacco è fulminante, non usa perifrasi e alla compassione di un cardinale di Boston per il dolore procurato alle vittime dichiarate di un

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abuso episcopale fa da suffragio il duro editoriale del giornale del cattolicesimo progressista americano. Francesco può adesso insistere, mettendo da parte il clericalismo della cautelosità e affermando in una controffensiva teologica e morale il primato del sacerdozio ordinato nella cultura e fede confessionale cattoliche, oppure ratificare con una retromarcia, che fino a ora non c' è stata, l'avvento, auspicato dal mondo e da una parte della cattolicità, di una chiesa spogliata della sua essenza tradizionale. E per far questo deve riconsiderare quasi vent'anni di acquiescenza della gerarchia romana, salvo segnali di resistenza molto flebili, a una campagna mediatica, a una guerra culturale di distruzione dei fondamenti della vita cattolica che avvocati, portavoce, teologi, moralisti e mestatori di tutte le latitudini hanno trasformato, fino alla Renuntiatio di un Papa regnante, in una persecuzione del clero. Sono scelte difficili, ma obbligate. Pag 1 L’assalto liberal a Francesco di mat.mat. La bibbia progressista americana: “Sugli abusi lui è parte del problema” Roma. "Francisco, aquí sì hay pruebas", "Francesco qui sì che ci sono le prove", recitano beffardi enormi manifesti nelle strade cilene dove, tra una chiesa e l'altra date alle fiamme, l'indignazione per le parole del Papa in difesa del vescovo Juan Barros non è scemata. Il mondo, un tempo così entusiasta del Pontefice - che ieri ha invocato un'azione comune contro il dilagare delle fake news, benché sia impresa non facile, visto che "la disinformazione si basa spesso su discorsi variegati, volutamente evasivi e sottilmente ingannevoli" - si rivolta contro di lui, che da comandante in capo dotato di uno stile di governo che giustamente non ammette intromissioni nelle sue scelte, ha bollato come scemenze - salvo poi chiedere scusa per "le parole infelici", senza cambiare però la sostanza del suo pensiero - le campagne volte alla cacciata del presule tanto detestato. L'antipasto l'aveva offerto il New York Times, ora tocca al National Catholic Reporter, la più prestigiosa rivista del cattolicesimo liberal americano. Toni che neanche i rappresentanti più âgée tra i vaticanisti ricordano, considerando che il target è il Papa. Scrive il Ncr che Francesco ha "ingiusta mente calunniato le vittime", con parole definite "vergognose". Frasi che indurrebbero perfino a pensare - o a far pensare - che il vescovo di Roma sia in qualche modo "complice delle coperture" delle presunte condotte delittuose di Barros sulle quali però, ha ribadito pure ai giornalisti il Papa in persona, non ci sono né prove né evidenze. Niente di niente, solo chiacchiere. Il National Catholic Reporter canzona un po' il Pontefice, che "evidentemente non ha imparato la lezione" degli anni scorsi che hanno visto la chiesa costretta a recitare il mea culpa collettivo e a pagare milioni e milioni di danari per riparare alle malefatte (la diocesi di Boston, retta da Séan O' Malley, autore della pubblica reprimenda al Papa, ne sa qualcosa). "Sfortunatamente - si legge ancora nell'editoriale - la difesa di Barros da parte di Francesco è solo l'ultima di una serie di dichiarazioni del suo pontificato che ha ferito i sopravvissuti e l'intero corpo della chiesa". Una difesa definita "mistificante" condita da frasi come quella pronunciata a Santiago davanti al clero locale, con il paragone tra "il dolore che hanno significato i casi di abusi contro minore" e il dolore per "voi fratelli che avete subìto insulti sulla metropolitana o camminando per strada". Scrive il Ncr: "Come può il Papa paragonare un insulto in metropolitana con il terrore di un bambino violentato?". E visto che i discorsi natalizi alla curia di Bergoglio hanno il pregio di essere chiari, ecco che viene rispolverata una frase vecchia di quattro anni, sull'"impietrimento mentale e spirituale di coloro che hanno un cuore di pietra e la testa dura". "Francesco - scrive il periodico americano - sarebbe dispiaciuto nell'apprendere che è così che molti descrivono le sue parole in Cile" e "il suo volto pietrificato è parte del problema". Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 9 Crescita, debito e disuguaglianze, il Fmi mette tutti in guardia: “Prepararsi a una nuova crisi” di Massimo Calvi

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Nel calcio si usa dire che un buon attaccante deve essere ottimista, mentre un difensore è bene che tenda a essere pessimista. La paternità di questa lezione non è chiara, ma rende bene l’idea di quello che dovrebbe essere un approccio corretto anche in campo economico. Il concetto è che si dovrebbe imparare a sfruttare al meglio le proprie risorse, evitando di accomodarsi sulle difficoltà o sui facili vantaggi del momento. Tradotto nella fase attuale, che sta mostrando segni convincenti di ripresa globale, il consiglio giusto – in particolare per un Paese come l’Italia – potrebbe essere questo: facciamo tutto il possibile per rendere più solida la fase espansiva, perché in caso contrario la prossima recessione potrebbe arrivare prima del previsto e potrebbe essere ancora più difficile da combattere. L’avvertimento arriva dal Fondo monetario internazionale e a qualcuno può sembrare una «gufata» inopportuna proprio nei giorni in cui lo stesso Fmi ha migliorato le stime di crescita mondiale per i prossimi anni, con un +3,9% atteso nel 2018 e nel 2019. Dov’è dunque il problema? Perché una nuova crisi dovrebbe avere la meglio? Il punto centrale – come ha spiegato il capo economista del Fmi, Maurice Obstfeld, in un rapporto diffuso nei giorni del vertice di Davos – è che la fase positiva attuale deriva da una convergenza di fattori che non sono arrivati per caso e non dureranno a lungo. Dunque politici e governanti devono fare il possibile per: rimuovere gli ostacoli strutturali alla crescita, trovare modi migliori per ridistribuire i benefici dello sviluppo, rafforzare gli ammortizzatori e la capacità di adattamento alle difficoltà, la cosiddetta resilienza. I fattori positivi, ma temporanei, che da metà 2016 hanno incominciato a riportare un po’ di sereno, sono noti: tra questi, le politiche monetarie accomodanti delle banche centrali in Europa e Usa e la fine controllata dell’austerity nei Paesi avanzati, unite allo scenario di una politica fiscale espansionistica negli Usa. Il fatto è che le previsioni ottimistiche sono di breve termine. Dunque vale la pena dare un’occhiata ai nodi da sciogliere. Uno degli scogli più ostici è rappresentato dalla questione demografica e dall’invecchiamento della popolazione nei Paesi avanzati, che oltre a ridurre i potenziali di crescita crea problemi all’altro fattore critico, la crescita contenuta della produttività. Anche la disuguaglianza è uno degli elementi che rendono la ripresa fragile, spiega il Fondo: crescita modesta dei salari reali e polarizzazione del mercato del lavoro fomentano già ora il malcontento e favoriscono spinte populiste che condizionano la politica. È a questo punto che si entra in un terreno delicato e che riguarda da vicino Paesi con un elevato debito pubblico come l’Italia. Verrà presto il momento in cui i benefici delle banche centrali finiranno, i tassi di interesse si posizioneranno su livelli più alti, la Cina ridurrà gli stimoli fiscali che ne hanno guidato l’espansione, gli Usa dovranno incominciare a pagare il conto, sul bilancio federale, dello choc fiscale che stanno producendo. E quel giorno il rischio potrebbe essere maggiore per chi avrà conti pubblici meno sostenibili all’occhio dei mercati. Il momento positivo, insomma, non è il 'new normal', la nuova regola. «La prossima recessione – ha scritto nel rapporto l’economista del Fmi – può essere più vicina di quello che sembra e le munizioni con le quali dovremo combatterla sono forse più limitate rispetto a dieci anni fa, perché i debiti pubblici oggi sono molto più alti». Se giocare in attacco richiede ottimismo, è chiaro che non si può stare fermi o pensare a soluzioni facili, che attirano voti ma scaricano i costi sul futuro. Servono investimenti nelle persone, nella formazione delle competenze, nella ricerca, misure per ridurre la disuguaglianza e per promuovere uno sviluppo sostenibile, interventi per rafforzare la stabilità finanziaria globale, per la cooperazione fiscale internazionale e contro il riciclaggio di denaro... Già, ma chi ne parla? IL GAZZETTINO Pag 1 Il tradimento del libero mercato porta al declino di Giulio Sapelli Il libero mercato tradisce se stesso. È questo il messaggio che viene dagli Sati Uniti, da cui promana il ciclone del neo-protezionismo di Trump. E vediamone il perché, ragionando sul commercio internazionale e le conseguenze che la trasformazione delle sue regole può provocare. Un tempo l'America esportava sicurezza internazionale e sviluppo economico su scala globale, pur con le inevitabili contraddizioni del capitalismo in tutte le sue forme. La globalizzazione pareva accompagnare, all'inizio di questo processo, l'aumento della circolazione del capitale con la creazione di aree di sviluppo umano: si inserivano centinaia di milioni di persone nell'area della crescita capitalistica

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che generava occupazione e reddito alle famiglie. Il meccanismo è stato però via via risucchiato dalla deriva sregolata del mercato finanziario, divenuto dominante sull'economia reale, con la caduta degli investimenti a lungo termine a vantaggio della speculazione a breve e il crollo della produttività e dell'occupazione su scala mondiale. La crescita si è così trasformata in caduta dei redditi e dei meccanismi di ascesa sociale in Europa e negli Stati Uniti, con l'aumento delle povertà e delle disuguaglianze. La reazione è stata quella di sempre: l'avvio di nuovi protezionismi di cui quello di Trump non è che l'esempio più recente e più rozzo. Sicché il commercio mondiale ha fatto registrare un significativo rallentamento da cui solo oggi ci stiamo a fatica riprendendo mentre il passaggio dai trattati di libero commercio multilaterali ai trattati bilaterali è divenuta la norma. La conseguenza è la caduta del reddito nei Paesi del Nord e la crescita di multiformi ostacoli all'espansione delle potenze asiatiche ed africane in crescita da molti anni ma sui quali i ripetuti stop and go alla lunga possono rivelarsi fatali. La Cina è l'esempio più gravido di conseguenze di questi processi: se il suo potenziale di sviluppo cala la sua aggressività militare fatalmente crescerà. Gli Stati Uniti con Trump hanno intrapreso la strada che già Obama aveva battuto con i dazi sull'acciaio cinese, così come aveva fatto e sta facendo l'Europa, al punto che sono ormai innumerevoli gli ostacoli al libero commercio che si ergono in tutto il mondo. I grandi trattati neo-imperiali Usa verso il Pacifico e verso l'Europa - di cui Obama si era fatto portatore - sono stati messi in discussione e si è dovuto ricorrere alla cosmesi del Ceta, ossia dell'accordo tra Canada e Ue, per arginare la catastrofe della caduta del commercio atlantico che sarebbe fatale. Il Ceta è però appeso al filo dell'approvazione di ogni Parlamento nazionale, con tutti i rischi che la cosa comporta. Ora Trump annuncia che porrà i dazi anche sui pannelli per il fotovoltaico, aumentando sempre più la pressione. Trump profeta del libero mercato di cui si discute a Davos? Niente affatto. Profeta certo dell'immediata difesa dei posti di lavoro degli operai e delle classi medio-alte nord americane, ma non più realizzando il cosiddetto eccezionalismo Usa, ossia l'esportazione del benessere economico al di fuori dei confini nazionali, processo che faceva la grandezza dell'egemonia e non il semplice dominio americano sul mondo. Secondo Trump, gli Usa devono fare dello slogan American First lo strumento per drenare ricchezza mondiale a vantaggio degli Stati Uniti, incrinando in tal modo l'equilibrio di potenza internazionale e rischiando d'accumulare fattori che possono portare all'isolamento crescente del Paese dall'Europa e da gran parte del mondo. E ciò sarebbe fatale sia per la crescita economica sia per la tenuta della pace. Un esempio lampante di questo pericolo sono le misure che Trump ha messo in campo per favorire il ritorno negli Stati Uniti dei giganti dell'online e dell'intelligenza artificiale applicata, ossia Apple, Google, Amazon e i fratelli minori. Per indurre queste corporation a ritornare con i loro centri decisionali e logistici negli Usa, ha premiato il ritorno dei loro capitali con una tassazione del 3% e l'ha vincolata alla creazione di posti di lavoro in terra d'America, creando una eclatante disparità di trattamento e vanificando gli sforzi europei di tassare questi giganti senza perdere i vantaggi che da essi derivano per le nazioni europee. E questo mentre nel Vecchio Continente è in corso una lotta serrata contro l'evasione fiscale compiuta dagli oligopoli della rete. Tutto il contrario, insomma, di ciò che si dovrebbe fare per promuovere lo sviluppo del commercio mondiale e una lenta ma equilibrata rinascita del capitalismo industriale minacciato tanto dal protezionismo quanto dalla prevalenza di sempre nuove imprese che si fondano su asset intangibili, a bassa produttività e a bassa produzione di occupazione, con una discrasia evidente tra una cuspide di super qualificati professionisti e una massa di lavoratori della logistica e della manutenzione non tecnologica sottopagati e costretti a ritmi di lavoro infernali. Il sogno americano deve invece continuare a essere una forza motrice della crescita mondiale e non un gioco a somma zero, dove la crescita di un'area segna il declino di un'altra. È del resto quanto sta accadendo nelle relazioni internazionali, tradendo le aspettative che la presidenza Trump aveva creato dopo il dannoso sogno dell'unipolarismo Usa praticato dalle presidenze Clinton, Bush e Obama in seguito al crollo dell'Unione Sovietica. La crescita mondiale, che pure è riapparsa in numeri convincenti, deve però essere sostenuta da una nuova stagione di accordi multilaterali di commercio che consentano certamente anche forme di protezionismo selettivo - per determinate merci strategiche e per talune nazioni - compensate però da reciproche concessioni che possono anche essere bilaterali, se lo scopo è un funzionamento

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migliore. Ma ciò richiede il rapido ritorno a quanto manca oggi: la diplomazia, sia per evitare la guerra sia per evitare il crollo economico e l'interruzione della crescita a causa di un protezionismo non selettivo e brutale che ricorda i tempi più cupi della lotta commerciale condotta a colpi di cannone. Pag 23 La bugia sessantottina che illude i ragazzi di oggi di Maria Latella Quindicenne ubriaca a scuola Comunque la si giri, la storia di una quindicenne in coma etilico a scuola, al liceo Russell di Roma, produce un doppio effetto: un po' di rabbia, un po' di depressione. Depressione perché viene da chiedersi a che punto fosse profonda la spirale di vuoto interiore per spingere una ragazzina a quasi ammazzarsi di vodka una mattina. Poi viene la rabbia. Quarant'anni dopo il 68, stiamo ancora a gingillarci con le settimane di didattica alternativa. Altro che fake news. Il problema sono le fake solutions. Didattica alternativa a che cosa, se nelle classifiche Ocse gli studenti italiani son sempre gli ultimi (non al nord, il Friuli in matematica se la batte con i cinesi) quanto a preparazione scientifica e, pare, perfino nella capacità di leggere un testo? Alternativa a che? Proviamo a metterci nei panni della preside, degli insegnanti: non del solo liceo Russell, di tutti gli istituti del Regno, si sarebbe detto ai tempi. Ai poveri docenti viene costantemente ricordato che la scuola italiana è antica, i programmi non al passo con i tempi. Gli allievi si annoiano, poverini, sussurrano le mamme inquiete. Abituati come sono a mantenere viva l'attenzione per dieci, massimo venti secondi, quelli necessari a decifrare una foto su Instagram (tra un po' tutto sarà soltanto visivo o al massimo orale, per cui leggere e scrivere nemmeno servirà più), abituati dicevo a concentrarsi per frammenti, faticano a seguire le lezioni che, più o meno, ricalcano metodi e programmi pre 68. Che fanno dunque gli insegnanti per venire incontro alla creatività degli allievi tanto frustrati? Provano a far gestire loro una settimana autogestita, la cosiddetta didattica alternativa. Alternativa soprattutto a quello spreco di tempo e risorse economiche altrimenti definito occupazione. Nelle intenzioni del corpo docente la didattica alternativa dovrebbe consentire agli studenti di proporre temi che a loro interessano, far intervenire a scuola adulti che hanno qualcosa da raccontare, qualcosa in grado di far accendere un lampo di curiosità nei loro giovani occhi. Spesso succede: l'altra sera, alla presentazione del film di Walter Veltroni, Sami Modiano, ebreo sopravvissuto ai nazisti del campo di sterminio di Birkenau, raccontava di come sia cambiata la sua vita da quando gira per le scuole condividendo con gli studenti quel che è passato sotto i suoi occhi. «Perché i ragazzi capiscono». E l'altra sera, durante la proiezione del film, piangevano. Capiscono, i ragazzi. Partecipano. La didattica alternativa agli studenti offre la possibilità di mostrarsi attivi, non passivi residenti in quattro mura dalle quali sognano solo di evadere. Però per renderli davvero tali, attivi, interessati, c'è bisogno di un lavoro lungo. Di un'attenzione costante. Che comincia quando sono piccoli, in famiglia. Pensare che, come negli anni 70, un sedicenne oggi sia automaticamente interessato a gestire il tempo in autonomia è un esercizio insieme ingenuo e superficiale. Rendere responsabili e autonomi dei sedicenni oggi comporta un investimento in tempo e attenzione infinitamente più impegnativo che in passato. A noi, studenti degli anni 70, sembrava quasi obbligatorio partecipare alle assemblee, leggere, documentarsi. Se non lo facevi eri considerato marginale. Le ragazze puntavano ai leaderini del liceo, piaceva il tipo intellettuale. Quarant'anni dopo il 68 occorre mestamente prendere atto che stanchi rituali come la didattica alternativa sono non solo inutili ma anche nocivi. Stando agli studi recenti, si rimane mentalmente adolescenti fin oltre i 24 anni. Perciò... Da decenni alleviamo generazioni che non sanno più cosa sia la fatica di applicarsi a cose complesse. Tutti creativi. O iscritti a giurisprudenza. A che serve dunque raccontarsi che gli studenti torneranno più volentieri a scuola, la sentiranno più loro, se per una settimana faranno cose diverse che ascoltare una lezione di matematica o di inglese? Stiamo vendendo, a noi e a loro, un'immensa bugia tardo sessantottina. L'equivalente di un'evasione dalla realtà, meno dannosa forse di un coma etilico ma comunque dannosa per il loro futuro. Qual e' la soluzione, a parte rimpiangere il tempo che fu? Si avanza qui una modesta proposta. Smettiamola con lo spreco del tempo. Usiamo due settimane dell'anno scolastico per quelle che Bill Gates chiamava le Think Weeks. Due settimane, divise

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nell'arco dell'anno scolastico, in cui insegnanti e allievi lasciano cellulari e computer a casa. Imparano l'arte di concentrarsi grazie a chi saprà loro insegnarla. 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IX Ecco il boulevard degli alberghi di Elisio Trevisan Duemila posti nella nuova “stecca” di hotel sul lato ferrovia verranno aperti nell’aprile 2019, altrettanti nell’ostello AO. Arredo urbano: prevista una piazza e la pista ciclabile Mestre. I nuovi alberghi di via Ca' Marcello saranno keyless, come si usa dire per le automobili, insomma senza chiavi e per entrare in camera basterà lo smartphone: su quello si riceverà il codice di accesso alla camera e anche ad altri servizi e si darà l'impulso per far aprire la porta. I NUMERI - Un vantaggio in più per i 2 mila nuovi clienti che dal 19 aprile 2019 cominceranno a frequentare via Ca' Marcello e che si aggiungeranno ai 1100 dell'ostello AO (anche questo raddoppierà arrivando fino a 2 mila posti entro la primavera dell'anno prossimo), e agli 800 posti del poshtel Anda del Plaza che verranno inaugurati a marzo di quest'anno. Questo per quanto riguarda i cantieri, perché poi in rampa di lancio ci sono il palazzo ex Poste della stazione comprato da Michael Kluge che ha fondato AO e l'ha venduto agli americani di Tpg Texas Pacific Group, il palazzo a fianco delle Ferrovie dove ci sono i sindacati, il capannone tra il Plaza e il park multipiano Saba per 6600 posti letto complessivi, ai quali probabilmente presto se ne aggiungeranno altre centinaia nella vicina area Touring. E si tratta solo di quelli conosciuti, perché i permessi di costruzione rilasciati dal Comune per l'area della stazione sono una dozzina per 10 mila nuovi posti letto. In via Ca' Marcello nell'area di Mtk le imprese Setten di Oderzo e Di Vincenzo di Pescara sono già a metà dell'opera per costruire gli edifici che saranno gestiti da Leonardo Hotels del gruppo israeliano Fattal (albergo a 4 stelle), 7 Days Plateno, quinto gruppo hoteliero al mondo di origine cinese (hotel a tre stelle), l'austriaca Wombat's (ostello) e gli irlandesi di Staycity (residence per famiglie). Guardando via Ca' Marcello dall'incrocio con via Cappuccina, e ancora di più dal cavalcavia, ora si comincia a capire cosa intendeva l'architetto dell'ostello A&O, aperto lo scorso agosto, affermando che l'edificio non si affaccia su Corso del Popolo (la parete-alveare che si vede da lì è in realtà il retro) e nemmeno sui binari della ferrovia perché tra un po' saranno nascosti dai quattro nuovi alberghi, ma è affacciato su un nuovo quartiere urbano, via Ca' Marcello che, almeno fino al cavalcavia, cambierà presto volto e, da periferia degradata si trasformerà in un viale del centro città. TEMPI - Tempi rispettati, dopo i ritardi dovuti alla burocrazia che hanno fatto slittare l'apertura da ottobre 2018 ad aprile 2019. «Per maggio o giugno arriveremo al tetto, e nel frattempo già nei primi 15 giorni di febbraio monteremo i pannelli di tamponamento» spiega il progettista capo Luciano Parenti. Si tratta di pezzi da 3-4 tonnellate l'uno che, una volta appoggiati agli edifici, verranno sistemati al millimetro. Tra una ventina di giorni, dunque, le facciate saranno finite, con i buchi per gli infissi e tutto il resto. A fine marzo saranno già pronte le prime stanze campione, e verranno messe a disposizione dei tecnici dei quattro gruppi alberghieri che gestiranno le strutture in modo da poterle personalizzare ed avere tutto pronto ben in anticipo rispetto all'inaugurazione. Mestre. Mentre procede la costruzione dei quattro edifici per gli alberghi, le imprese hanno già avviato i lavori anche per i due parcheggi multipiano da 500 auto e presto nell’area cominceranno pure i lavori per realizzare la piazza, un collegamento pedonale con il primo binario della stazione, e soprattutto per la riqualificazione di via Ca’ Marcello con una pista ciclabile che unirà la stazione e via Torino, un nuovo arredo urbano e il ridisegno delle due corsie per le automobili in modo da rendere la zona complessivamente più pedonale. I quattro nuovi hotel saranno un concentrato di tecnologia, con l’acqua calda prodotta da pannelli solari, e una cablatura completa con fibra e nuove generazioni di collegamenti. E già in fase di costruzione le imprese stanno applicando soluzioni all’avanguardia: ad esempio per i 2 mila posti letto il conto dei bagni è di 870, un numero enorme: così saranno tutti prefabbricati, verranno montati piano per piano man mano che i palazzi saliranno fino all’ultimo, il decimo, e inseriti già

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pronti e finiti, mancherà solo la carta igienica. Il progettista spiega che prefabbricati costano di più ma, con un numero così alto di bagni, alla fine sarà più conveniente. LA NUOVA Pag 19 Le Storie di Sant’Orsola e il Tintoretto ritrovato di Enrico Tantucci In aprile l’Assemblea dei Comitati presenterà il programma dei lavori finanziati. Già in corso interventi importanti, nuovi cantieri nelle Gallerie dell’Accademia Venezia in restauro, sotto traccia. Si svolgerà solo il 12 e il 13 aprile prossimi nella Scuola Grande di San Giovanni Evangelista l'Assemblea Generale dei Comitati Privati Internazionali per la Salvaguardia di Venezia che presenterà il programma dei futuri interventi, ma intanto prosegue incessante il lavoro di restauro già in corso sul patrimonio architettonico e artistico veneziano, con risultati spesso sorprendenti. Il Ciclo di Sant'Orsola di Carpaccio. Prosegue all'interno delle Gallerie dell'Accademia il cantiere di restauro del celebre ciclo pittorico con le «Storie di Sant'Orsola» di Vittore Carpaccio, avviato nel novembre 2016 sotto la direzione dei lavori di Giulio Manieri Elia e la direzione tecnica di Alfeo Michieletto e sostenuto dal Comitato statunitense di salvaguardia Save Venice. Dovrebbe essere completato entro il 2019 e attraverso le indagini spettroscopiche e riflettografiche sta rivelando molti «segreti» sulla tecnica pittorica di Carpaccio in questo straordinario ciclo di nove «teleri». Il Cristo "parlante" di San Francesco della Vigna. Dovrebbe essere completato entro l'anno anche il restauro in corso, finanziato anch'esso da Save Venice, su un'altra opera straordinaria: un Cristo quattrocentesco "parlante" in croce riemerge dalla chiesa di San Francesco della Vigna. La magnifica scultura lignea, in precarie condizioni di conservazione, era rimasta appesa da tempo immemore su un muro dell'atrio del secondo piano dove sono le celle dei frati francescani del convento adiacente alla chiesa, accanto alla biblioteca. Fino a quando è stata di fatto riscoperta da alcuni studiosi che ne hanno compreso l'eccezionale importanza. La straordinarietà della scoperta sta appunto anche nel fatto che "Corpus Christi", questo il nome della scultura, datata al primo Quattrocento, "parlava".La sua caratteristica sorprendente sta nella presenza di una lingua scolpita e dotata di un meccanismo interno che la rendeva all'occasione semovente. In questo modo, quando il Cristo in croce veniva portato in processione in mezzo ai fedeli, azionando il meccanismo, sembrava ad essi visivamente che stesse parlando, raccogliendo così suppliche o invocazioni. La statua di Marte del Ducale che diventa "bianca". Risultati sorprendenti stanno emergendo dalla pulitura al laser della scultura quattrocentesca in marmo del «Marte» di Antonio Rizzo per l'Arco Foscari di Palazzo Ducale, in restauro insieme a quelle di «Adamo ed Eva», ora conservate all'interno dell'edificio, grazie a un finanziamento del comitato statunitense Venetian Heritage e dell'architetto e designer Peter Marino. L'erosione e l'inquinamento atmosferica l'avevano completamente annerita, ma ora la pulitura sta restituendo al «Marte» il suo originario candore. La Cappella dei Tessitori nella chiesa dei Gesuiti. È in corso anche il restauro, che si sta concludendo della Cappella dei Tessitori nella chiesa dei Gesuiti, finanziato in questo caso dal Comitato di salvaguardia elvetico, la Fondazione Svizzera Pro Venezia, che riguardano non solo l'aspetto estetico, ma anche la messa in sicurezza degli elementi architettonici della cappella opera dell'architetto italo-svizzero settecentesco Domenico Rossi. Il Tintoretto di San Marziale "ritrovato". Sta ritrovando i suoi colori, dopo il pessimo restauro compiuto alla fine degli anni Cinquanta anche la pala del «San Marziale in gloria» conservato nell'omonima chiesa e opera di Jacopo Tintoretto. Anche in questo caso a finanziare il nuovo restauro del dipinto è il comitato statunitense Save Venice che, nell'anno del cinquecentenario della nascita del grande pittore e in vista della doppia grande mostra che si terrà a Palazzo Ducale e alle Gallerie dell'Accademia, si è assunto il compito di contribuire al restauro per l'occasione di una quindicina di dipinti di Tintoretto e anche alla risistemazione del suo monumento funebre nella chiesa della Madonna dell'Orto. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo…

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CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’errore? Trascurare il non voto di Aldo Cazzullo Campagna elettorale Non è vero che all’Italia non importi nulla delle prossime elezioni e in genere della politica. C’è un’Italia profonda che magari non la segue, anche perché ha altro da fare, però non la disprezza. Un’Italia che ascolterebbe volentieri, se qualcuno le parlasse. Che ha le idee chiare su cosa le servirebbe, ma non trova un interlocutore disposto a dialogare, anziché turlupinarla con promesse impossibili. Non ci sono mai stati tanti indecisi come adesso. Tramontate le ideologie, indeboliti i leader, allentati i legami personali e clientelari (se non altro per l’esaurimento delle prebende da distribuire ai clienti), i voti in libera uscita sono quasi la metà del totale. Perché allora i partiti li disdegnano, e si rivolgono solo a chi è già convinto? Finora la campagna elettorale è diretta più a rinfocolare i tifosi che a conquistare coloro che esitano a schierarsi. I capi partito hanno l’atteggiamento del centravanti cha aizza la curva, non del regista che prepara gli schemi per vincere. Se tra Lega e Forza Italia è in corso una competizione interna a chi propone l’aliquota più bassa per la flat tax, il Pd vagheggia di abolire il canone Rai. A tutti piacerebbe pagare solo il 23% di Irpef - ma perché non il 20? O il 15? - e non pagare il canone; ma quasi nessuno ci crede, perché sa che sono promesse irrealizzabili, a meno di non tagliare drasticamente la spesa pubblica e non chiudere la tv di Stato; e i primi a non crederci sono coloro che le formulano. Per tacere dei Cinque Stelle, che propongono di fatto lo smantellamento del fisco, o della trovata di Grasso sulle tasse universitarie, in realtà già legate al reddito familiare. A giudicare anche dalle lettere che arrivano al Corriere, l’irritazione per la promessa facile e irresponsabile si tocca con mano. Ma non è vero che il voto non interessi a nessuno. Certo, molti cittadini non ci credono più. Sono disinteressati a una politica che non detiene più il potere vero, evaporato a favore dei padroni della rete e della finanza internazionale, degli Zuckerberg e dei Soros. Sono nauseati dal ritorno dei privilegi: i primi sostenitori dell’antipolitica sono i senatori che non prendono in considerazione la legge per ridurre i vitalizi, i consiglieri regionali che lasciano tacitamente scadere i tagli e si ripristinano gli emolumenti. Nonostante i sentimenti di estraneità e di rigetto, molti elettori però percepiscono ancora il voto come un impegno civico, un dovere di partecipazione. Sono disposti ad ascoltare, a discutere, a decidere, a patto che siano affrontati gli argomenti della loro vita di tutti i giorni: lavoro, pensioni, scuola, sanità. Come creare posti non precari, come sostenere l’aumento dei trattamenti minimi, come attuare o cambiare le riforme del governo Renzi, come affrontare il dramma delle liste d’attesa negli ospedali; e come risolvere la questione salariale, con il crollo del potere d’acquisto seguito alla crisi. Se un leader si occupasse in modo serio e concreto di questi argomenti, i sondaggi di questi giorni potrebbero rivelarsi scritti sull’acqua, e l’esito delle elezioni potrebbe ancora cambiare. Tutto però lascia credere che l’Italia indecisa ma non disinteressata resterà senza interlocutori. Alla fine tanti resteranno a casa. La maggioranza andrà ancora alle urne. Come già accadde nel 2013, com’è successo anche con Trump, Brexit, Macron, negli ultimi giorni si creerà comunque una tendenza sotterranea, che i sondaggi non riusciranno a intercettare. E forse alla fine premierà chi avrà saputo essere più serio, o meno fatuo. Pagg 12 - 13 Le due scimmie clonate in Cina di Luigi Ripamonti, Edoardo Boncinelli e Gian Guido Vecchi L’annuncio a Shangai: i due primati stanno bene e aprono nuovi scenari. Più vicini all’uomo progettato a tavolino. E forse nascerà anche lui in Oriente. Il no di Sgreccia: “Una minaccia per il futuro dell’umanità” Si chiamano Zhong Zhong e Hua Hua, e sono le prime due scimmie al mondo clonate con la tecnica della pecora Dolly. La loro nascita è stata annunciata sulla rivista Cell dall’Istituto di neuroscienze dell’Accademia cinese delle scienze a Shanghai. Hanno, rispettivamente, otto e sei settimane di vita. Non è la prima clonazione in assoluto di un primate. La prima fu quella di Tetra, una femmina di macaco, ottenuta negli Stati Uniti nel 1999 con la scissione dell’embrione, un procedimento che imita il processo naturale all’origine di gemelli identici. Nel caso di Zhong Zhong e Hua Hua invece è stata usata la

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tecnica Scnt (Somatic Cell Nuclear Trasfer) cioè il trasferimento del nucleo prelevato da una cellula di un individuo in una cellula uovo non fecondata di un altro soggetto, privata del suo nucleo. Finora ogni tentativo di questo tipo sulle scimmie era fallito perché i nuclei delle loro cellule differenziate (cioè già maturate) contengono geni che impediscono lo sviluppo dell’embrione. I ricercatori hanno trovato gli «interruttori» molecolari giusti per avviare il processo e portarlo a buon fine. Si tratta di un risultato notevole sotto molti punti di vista, perché apre la prospettiva di avere a disposizione per gli studi animali di questo tipo geneticamente identici, cosa che oggi è possibile con specie meno vicine all’uomo, come i topi. Ciò servirà a escludere molte variabili su modelli precisi, rendendo disponibili termini di paragone perfetti per capire quanto incide, per esempio, una modificazione o un intervento terapeutico. In linea teorica il risultato potrebbe poi avere applicazioni anche per la preservazione di specie in via di estinzione. «Ma l’aspetto più importante è probabilmente un altro» sottolinea Carlo Alberto Redi, genetista dell’Università di Pavia e accademico dei Lincei. «Ed è il fatto che i ricercatori cinesi sono evidentemente riusciti a identificare i meccanismi che consentono di “accendere” o “spegnere” determinati geni per fare in modo che una cellula somatica del macaco possa essere messa in condizione di “tornare” a uno stato tale da poter essere poi indirizzata a uno sviluppo diverso». «Per la comunità scientifica avere a disposizione queste informazioni può essere molto utile» continua l’esperto, «perché l’epigenetica, cioè tutto quanto interviene sul Dna per influenzarne il comportamento, è qualcosa che riguarda tutti noi, e condiziona lo sviluppo di molte malattie. Capire in che modo l’ambiente interviene sul Dna e come lo modifica in modo tale da farci ammalare, è uno dei filoni di ricerca di maggior interesse in tutto il mondo oggi». «Per fare alcuni esempi: come fa il fumo a intervenire finemente sul Dna delle cellule per farle diventare cancerose è un problema di epigenetica» spiega Redi. «Così come lo è, ad esempio, l’azione degli inquinanti ambientali, di ciò che mangiamo, eccetera». «Unico limite che mi sembra di ravvisare da quanto è stato comunicato finora è che il risultato è stato ottenuto a partire da fibroblasti fetali, quindi con una differenziazione probabilmente non ancora completa, ma ciò non toglie che sia un risultato importante». Un passo dopo l’altro ci stiamo avvicinando al gran momento, quello in cui faremo nascere uomini con il patrimonio genetico modificato, patrimonio che potranno anche trasmettere a figli e nipoti. Se ne parla da tanto tempo, con un misto di entusiasmo e preoccupazione. Prepariamoci! Questa volta siamo arrivati ai macachi e l’esperimento è stato fatto in Cina, due elementi di grande novità. La Cina è un colosso che da qualche tempo si è potentemente organizzato per lavorare anche in campo biologico. Sembra ieri che apprendisti ricercatori trentenni venivano dalla Cina nei nostri laboratori per imparare il «mestiere» di biologi molecolari. Alloggiavano in tanti in piccoli appartamenti e... imparavano, bene a quanto pare, se adesso sono in grado di fare tantissimi esperimenti magari anche meglio di noi. Dalla prima pecora, l’immortale Dolly del 1996, alle capre, a cani e cavalli, per non parlare dei porcelli, i ricercatori hanno dato vita a moltissimi animali messi insieme in modo non convenzionale, ma partendo da cellule coltivate in laboratorio che possiedono un patrimonio genetico selezionato da noi. E ora siamo alle scimmie! Perché la cosa è interessante? Perché le scimmie sono animali più complessi e più simili a noi, e perché non sapevamo bene in che cosa consistesse questa nuova complicazione. Come lo sviluppo di un embrione di mammifero richiede la conoscenza di più password dello sviluppo di un invertebrato, così il patrimonio genetico di una scimmia appare «più difeso» di quello di una pecora o di un suino. Perché? Bella domanda. Non lo sappiamo, ma ci piace credere che sia il prezzo della complessità. Può essere, ma è molto più probabile che questa particolarità sia da mettere in connessione con il numero di figli per cucciolata: meno cuccioli più protezione, anche senza considerare le dimensioni del cranio. Come si vede si imparano sempre più cose. Diceva Solone: «Più invecchio e più imparo». Il problema è che non basta imparare. Occorrerebbe anche essere sempre più saggi. Facendo cosa, per esempio? Riflettendo e non dando mai nulla per scontato. Possibilmente senza condannare. Il compito che l’universo ci ha assegnato è dare un nome alle cose e commentarle, senza cedere alla nostra passione predominante: giudicare e condannare, come tanti piccoli Minosse. Ricordiamoci che non siamo al centro dell’universo, e nemmeno più al centro del mondo

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civile. È molto ragionevole che il primo uomo «progettato a tavolino» abbia gli occhi a mandorla, o indossi un sari. Città del Vaticano. «Visto com’è andata a finire con la pecora Dolly, invecchiata precocemente dopo pochi mesi e poi uccisa per non farla soffrire, poveretta, si sperava che nessuno tornasse a tentare una cosa simile…». Il cardinale Elio Sgreccia ha la voce incrinata di chi cerca, invano, di trattenere lo sconcerto. Presidente emerito della pontificia Accademia per la vita, è tra i massimi bioeticisti della Chiesa, autore di un «Manuale di bioetica» divenuto un classico del pensiero cattolico. Fu lui a guidare la ricerca per la stesura della «Dignitas Personae», l’istruzione di riferimento in tema di bioetica della Congregazione per la Dottrina della Fede. Un documento firmato nel 2008 dal prefetto William Levada e dal segretario Luis Ladaria, nominato l’anno scorso da Francesco alla guida del Sant’Uffizio. Eminenza, che cosa la preoccupa? «La volontà che sta dietro una ricerca simile. Ci vedo una minaccia per il futuro dell’umanità. Prima la pecora, poi la scimmia… Pare il tentativo di avvicinarsi all’uomo, come fosse un penultimo passo. Una prospettiva che la Chiesa, naturalmente, non potrà mai approvare». Ne parla come fosse l’Homunculus del «Faust» di Goethe… «Ecco, appunto. Se si vuole giocare con il creato devastando i livelli metafisici… Perché voler clonare una scimmia? Qual è il motivo? Vogliono riprodurre carne? Finti uomini? Questo mi fa sospettare…». Che intende per sconvolgimento dei «livelli metafisici»? «Il tentativo di cancellare la differenza ontologica tra l’uomo e gli animali. Dietro la volontà di clonare una scimmia si può nascondere una tendenza già emersa in altri settori di ricerca, quella di portare l’uomo verso la scimmia e la scimmia verso l’uomo e infine considerare la scimmia uguale all’uomo». Ma non potrebbe essere, più semplicemente, un passo avanti straordinario dal punto di vista medico? «Se si vuole fare ricerca biologica o medica non c’è bisogno di sconvolgere l’ordine naturale. Del resto, anche nell’istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede, si spiega che la distinzione tra clonazione riproduttiva e clonazione terapeutica è insostenibile». Cosa pensa la Chiesa della clonazione animale? «Al contrario della ipotesi di clonazione umana, sulla quale la Chiesa non può che esprimere la sua condanna più totale e ferma, sulla clonazione animale il magistero non ha finora espresso una condanna esplicita, ufficiale. Si è lasciato il tema alla valutazione degli scienziati responsabili. Comunque questa tendenza non deve essere solo un problema della Chiesa». In che senso? «Per un credente è inaccettabile. Ma una simile manipolazione profonda dovrebbe essere sentita da tutti come una minaccia alla persona umana, il tentativo di degradare la sua dignità». Pag 36 C’è anche la stupidità del male di Gian Antonio Stella Ebrei con sei dita o riconoscibili dalla forma dell’orecchio sinistro: le idiozie razziste «Ero in quinta ginnasiale. Avevo come compagna di banco una brava figliola. Questa ragazza un giorno ha detto qualcosa che mi sembrava... Allora le ho detto: “Ma guarda che anch’io sono ebrea”. E lei mi dice: “Non è vero”. “Se te lo dico io!”. “Non è vero, perché gli ebrei hanno sei dita”. Adesso fa ridere, ma è così. La mia amica Carla mi ha detto che una donna che conosceva, a Torino, era terrorizzata durante la gravidanza perché temeva che il bambino nascesse con sei dita». Il racconto di Anna Colombo, piemontese, docente di letteratura rumena, morta anni fa a Gerusalemme e autrice del libro Gli ebrei hanno sei dita (Feltrinelli, 2005) , spiega più di mille volumi quanto sottile sia il confine fra il ridicolo e l’orrore. Nulla quanto il razzismo può accecare le intelligenze. Nulla. Dicono tutto poche righe scritte di suo pugno nel libro del 1941 Sintesi di dottrina della razza da Julius Evola, che il Giorgio Almirante definiva «il nostro Marcuse» ed è ancora oggi uno dei punti di riferimento della destra: «Una donna, i cui

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rapporti sessuali con un uomo di colore sono cessati da anni, può dare alla luce un figlio di colore nella sua unione con un uomo, come lei, di razza bianca: qui una idea confittasi in condizioni speciali nella subcoscienza della madre in forma di un “complesso”, anche dopo anni ha agito formativamente sulla nascita». Gravidanze lunghe anni e anni… C’è di tutto, nello stupidario del razzismo. C’è la tesi omofoba di San Bernardino: «Il corpo del sodomitto non è altro che puza» (di zolfo). E l’africano del popolo khoisan che Cesare Lombroso chiama «ottentotto» spiegando che «si può dire l’ornitorinco dell’umanità». E il meticcio che il giurista Médéric Louis Élie Moreau de Saint-Méry cataloga a seconda delle sue 128 gradazioni di sangue bianco o nero. Non manca neppure il marchio dell’«odore più fetido» assegnato nel 1915 dalla Société de Médecine di Parigi ai tedeschi («odore acre e tenace di cavolo e di sudore», precisò lo scienziato Edgar Bérillon) davanti all’«odore acido» degli inglesi, «rancido» dei neri e «malato» degli orientali. Le vittime predilette dei pregiudizi più stupidi, però, sono stati gli ebrei. «L’ebreo manca di umorismo, ed è anzi egli stesso, dopo la sessualità, l’oggetto preferito delle barzellette», discetta nel 1903 in Sesso e carattere il filosofo Otto Weininger, ignaro di come avrebbero riso di lui Chico, Groucho, Harpo, Gummo e Zeppo Marx, Woody Allen, Walter Matthau, Tony Curtis e tanti altri geni dell’umorismo a partire da Charlie Chaplin, additato come ebreo nel libretto nazista Juden sehen dich an («Gli ebrei ti guardano»). Lascia basiti rileggere L’ebraismo nella musica del grande compositore tedesco Richard Wagner: «È naturale che la congenita aridità dell’indole ebraica che ci è tanto antipatica trovi la sua massima espressione nel canto, che è la più vivace, la più autentica manifestazione del sentimento individuale». Certo, spiega Paolo Isotta, il compositore ben sapeva quanto grandi fossero Moses Mendelssohn o Jakob «Giacomo» Meyerbeer, tedeschi come lui, ma ebrei. Sapeva di scrivere una assurdità. Ma convinto com’era di una congiura giudaica nei suoi confronti, come poteva rinunciare a spargere veleni? E parliamo di musica classica. Perché l’idea che il canto sia «negato agli ebrei dalla natura stessa» cozzerebbe oggi con le storie di musicisti come Bob Dylan, Barbra Streisand, Leonard Cohen, Paul Simon e Art Garfunkel, Lou Reed, Woody Guthrie, Carole King, Neil Diamond… Quanto agli attori, lo stesso Wagner non aveva meno pregiudizi. Lo scrisse sempre in L’ebraismo nella musica : «Ci è impossibile immaginare che un personaggio dell’antichità o dei tempi moderni, eroe o amoroso, sia rappresentato da un ebreo senza sentirci involontariamente colpiti da quanto vi è di sconveniente, anzi, di ridicolo in una rappresentazione del genere». Aggiunse: «La cosa che più ci ripugna è il particolare accento che caratterizza il parlare degli ebrei». E ancora: «Ascoltando l’ebreo che parla, noi siamo nostro malgrado urtati dal fatto di trovare il suo discorso privo di ogni espressione veramente umana». Certo, non aveva avuto modo di veder recitare Sarah Bernhardt e Lauren Bacall, Dustin Hoffman e Paul Newman, Kirk Douglas e Cary Grant, Shelley Winters e Scarlett Johansson e tanti altri... Ma come poteva, un genio qual era lui, uscirsene con scempiaggini così? Sarebbe impossibile chiudere questa carrellata, però, senza ricordare la testimonianza di Inge Deutschkron, che dopo essere scampata ai lager nazisti sarebbe diventata una scrittrice e una testimone dell’Olocausto. E che un giorno di settembre del 1938 andò a farsi la carta d’identità. «Come ogni ragazzina di sedici anni, ero anch’io vanitosa. Quando il fotografo mi fece cenno di aggiustarmi i capelli dietro l’orecchio sinistro, mi sentii completamente turbata sull’orlo delle lacrime». Sapeva che, come ebrea, le avrebbero stampato una grande «J» (l’iniziale di Jude, «ebreo») gialla sulla copertina e una sulla prima facciata interna del documento «sicché non era possibile alcun dubbio sull’origine razziale del titolare». Ma fu quella raccomandazione sui capelli a ferirla di più. «L’avvertenza del fotografo era di carattere tecnico, non esprimeva scherno, era un cenno professionale, nulla più. Tuttavia la sentii come un’umiliazione, quasi fosse un colpo di frusta». Dalla forma dell’orecchio sinistro infatti «sarebbe stata individuata l’appartenenza razziale. Era questa una scoperta degli scienziati della razza nazionalsocialisti. L’orecchio sinistro di un ebreo tradiva secondo loro l’origine semitica. Per questa ragione le fotografie dei passaporti degli ebrei dovevano essere prese in modo da rendere chiaramente visibile la forma dell’orecchio sinistro». La ragazzina uscì dal negozio scossa: «In quei giorni cercai spesso a Berlino di constatare cosa distinguesse l’orecchio sinistro dei miei concittadini dal mio, quando passavo loro vicino nell’autobus o nella sotterranea. Ma non riuscii a scoprire nulla. Il mio orecchio, sottoposto centinaia di volte a esame allo specchio, era proprio uguale a quello degli ariani di Berlino». Per anni, facendo conferenze in giro per il mondo, Inge

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Deutschkron ha raccontato quel momento della sua vita tra i sorrisi increduli di lettori, professori, studenti… Sì, pare impossibile. Oggi. Ma è successo. E chissà se chi avviò con burocratica solerzia alle camere a gas uomini, donne e bambini diede un’occhiata al loro orecchio sinistro... LA REPUBBLICA Pag 4 I giovani in fuga dai partiti 4 su 10 hanno perso fiducia di Michele

Smargiassi Studio dell'Istituto Toniolo: i disaffezionati cresciuti di quattro punti in un anno, ma la

metà può essere riconquistata Tra le forze preferite M5S, Lega e Pd Quattro su dieci non si siedono neppure a tavola. Benché il ristorante della politica, per la cena elettorale del 4 marzo, offra un menù di estrema latitudine, da destra a sinistra, dai populismi alle caste, una quota impressionante dell' elettorato giovanile boccia tutti e si tira fuori. Il 40,7 per cento dei giovani italiani ( parliamo della fascia 20-38 anni) interpellati tra ottobre e novembre dall' Istituto Toniolo non dà la sufficienza in pagella a nessuna delle forze politiche in campo. La soglia simbolica è stata sfondata con una accelerazione che dovrebbe spaventare il mondo politico: alla stessa domanda, solo un anno fa, questi "disaffezionati", come li definisce la ricerca erano il 34,6%. Non ci sono buone notizie, dunque, per la salute della democrazia italiana in questo Rapporto Giovani 2018. Se vogliamo, però, ce n' è una un po' meno cattiva. La metà di quel 40% accetta ancora di definirsi politicamente, cioè si colloca da qualche parte sull'asse destra-sinistra. Se ci sono insomma i "perduti", quelli che non fanno più differenze, non si aspettano più nulla, insensibili anche alle sirene dei populismi e degli anti-sistema, candidati quasi certi all'astensionismo, ci sono altrettanti "delusi" che semplicemente non trovano l'offerta che corrisponde alla loro domanda, e che potrebbero essere riconquistabili. E sono due elettori giovani su dieci: una quota che può fare la differenza nelle urne. Perché se guardiamo agli altri, i sei su dieci che hanno ancora fiducia sufficiente in almeno un partito, una maggioranza sì, ma sempre più erosa, non ci sono grosse sorprese. Tenendo conto che solo uno su tre esprime una preferenza univoca a un partito ( e quindi le percentuali si sovrappongono, specie a destra e a sinistra), il bacino potenziale di consensi più grande è quello dei Cinquestelle, il 30% del campione, seguiti da Pd e Lega attorno al 20%. Le proporzioni non sono cambiate di molto nell' ultimo anno (arretra il Pd, avanza la Lega). Se votassero solo i non-disaffezionati, il movimento di Grillo potrebbe aspirare alla metà dei consensi del mondo giovanile. Dunque è sulla speranza di recuperare la disaffezione che si gioca tutto. Ma le disaffezioni non sono tutte uguali. Dove si colloca dunque quel venti per cento di delusi ma non ancora del tutto usciti dal sistema? Soprattutto nel centro-sinistra. Ben metà di loro viene dall' area politica che ha tenuto le redini di questo paese dal 2013 ad oggi. Sono insomma i delusi dai governi Renzi e Gentiloni. E sono cresciuti di numero nell' ultimo anno. Sono gli stessi che dicono di avere ancora fiducia nelle istituzioni. Più che ribelli al sistema, si sentono traditi da chi ha gestito il sistema. Ed è una delusione integralmente politica. Una sorpresa del rapporto è che non sembra esserci un rapporto forte fra disagio sociale e disaffezione elettorale. Se cerchi l'identikit del disaffezionato, finisci in un vicolo cieco. Non ci sono differenze di rilievo fra sud e nord (leggera prevalenza del nord-est), tra livelli di istruzione, perfino fra condizioni lavorative (i né- studio- né- lavoro leggermente più insofferenti di lavoratori e studenti). L'analisi degli orizzonti ideologici dei giovani elettori sembra confermare che l'omogeneità del rifiuto corrisponde a un livellamento preoccupante delle differenze tra i valori di riferimento: in quel quaranta per cento di disaffezionati le opposizioni classiche (universalismo vs. particolarismo, cambiamento vs. tradizione) sono quasi impercepibili, la pressione è bassa su tutti i valori ideali (solidarietà, giustizia) e c' è sfiducia verso tutte le istituzioni, non solo politiche (università, chiesa, sanità, polizia). L'unico scarto percepibile nel profilo dei disaffezionati è quello di genere: sono le donne ad allontanarsi di più dall' arena politica, 45% contro il 36% dei maschi. «Le ragazze sfiduciate non trovano partito, i ragazzi prima provano a votare Cinquestelle», sintetizza Andrea Bonanomi, il ricercatore che si è occupato di questo capitolo del rapporto. Uno sguardo dentro il consenso ai Cinquestelle è rivelatore. Nel movimento di Grillo si distinguono tre aree, una che fa riferimento ai sistemi di valori tipici della sinistra, una orientata a destra, e

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una che non si riconosce in quella distinzione. Un anno fa le tre aree si equivalevano. Oggi l'area né-né è maggioritaria (42%), quella di destra in calo (22%) e quella di sinistra stabile (35%). I Cinquestelle sembrano riprodurre al loro interno le dinamiche dell' intero elettorato giovanile. Può forse costituire un punto di forza aderire alla geografia emotiva degli elettori. Può viceversa diventare un boomerang se vuol dire importare e confermare il baratro di delusione e confusione sempre più largo fra i giovani e la politica. LA STAMPA Se il governo del Presidente è un miraggio di Federico Geremicca Chi ha memoria di qualche campagna elettorale più o meno recente, sa bene che la promessa - e spesso anche la promessa esagerata - è parte integrante della propaganda e della battaglia tra forze politiche diverse. C’è poco da scandalizzarsi, insomma: purtroppo si tratta di un fatto, e non solo italiano. Ma in questa sfida per il futuro governo del Paese, c’è una novità che i partiti farebbero male a sottovalutare: l’assoluto scetticismo con il quale la quotidiana valanga di promesse iperboliche viene accolta dal cittadino-elettore. Più di un sondaggio ha rilevato che solo il 25% degli italiani intervistati ritiene credibile che la mole di impegni e di annunci che sta caratterizzando questa campagna elettorale possa essere realizzata. Tre cittadini su quattro, al contrario, pensano che le tante promesse elencate non verranno mai mantenute. E da tale valutazione discende, naturalmente, un giudizio assai critico sul modo di agire e sul senso di responsabilità dei partiti in competizione. Il tutto sta dando luogo ad un eccezionale paradosso: la campagna elettorale - che avrebbe potuto segnare un riavvicinamento ed una rigenerazione del rapporto tra partiti e cittadini - sta rischiando di trasformarsi agli occhi degli elettori in una sorta di autodelegittimazione dell’intero sistema politico. E non è l’unica novità, perché in ragione dalla gran mole di annunci quotidianamente sfornati, anche il Movimento Cinque Stelle - la forza politica più nuova di tutte - è investito da una evidente crisi di credibilità. Se infine si annota che, a liste non ancora presentate, i vescovi italiani hanno definito «immorale» un tale modo di agire, il quadro si fa ancor più chiaro. Questa sorta di «guerra delle promesse», per altro, rappresenta ottimo carburante per il durissimo scontro in atto tra i partiti e appesantisce le prospettive del dopo-voto, già rese oscure - stando ai sondaggi - dal rischio di stallo e ingovernabilità. La concreta possibilità che il 4 marzo non esca dalle urne una omogenea maggioranza di governo, avrebbe forse dovuto spingere a valutare con più attenzione - a destra come a sinistra - l’invito a «non farsi del male» avanzato da Massimo D’Alema: una raccomandazione invece subito cestinata nella convinzione che, se fosse impossibile un esecutivo di «larghe intese», ci sarebbe sempre il cosiddetto governo del Presidente a far da salvagente. Già, un governo del Presidente, come quello di Mario Monti (2011-2013) voluto da Giorgio Napolitano per fronteggiare la drammatica crisi economica e finanziaria che travolse l’esecutivo allora guidato da Silvio Berlusconi. Parliamo di sette anni fa: un’era geologica, in politica. Lo scontro tra i partiti non aveva i toni attuali, qualche figura super partes era stata salvaguardata e la disponibilità alla collaborazione temporanea tra forze diverse non era ancora considerata una bestemmia. Ma oggi? Chi potrebbe starci e, soprattutto, chi potrebbe guidare un ipotetico governo del Presidente? Ad un giro d’orizzonte il panorama appare desolato. La guerra senza quartiere che ha segnato questa legislatura ha lasciato cocci e macerie anche tra le cosiddette «riserve della Repubblica». Osserviamole. I presidenti di Camera e Senato sono appena scesi in battaglia perdendo ogni profilo di terzietà; il sempre evocato Mario Draghi si tiene fuori e lontano da questi incomprensibili giochi; la Banca d’Italia (sorgente perenne in caso d’emergenza: si pensi ai governi Dini e poi Ciampi) ha i vertici traballanti dopo il lavoro - chiamiamolo così - della Commissione d’inchiesta sulle banche; e la pattuglia dei senatori a vita sembra poter offrire solo i nomi di Giorgio Napolitano (93 anni) e di Mario Monti (politicamente improponibile). Restano la Corte costituzionale, i suoi ex Presidenti ed il sempreverde Giuliano Amato... Il quadro, come si vede, non è particolarmente rassicurante. Ed è anche per questo che i partiti in guerra farebbero bene a sparare qualche balla in meno ed a recuperare qualche prudenza in più. Dopo il voto e dietro l’angolo, infatti, non ci sono ancoraggi certi e soluzioni semplici. Si tenti, almeno, di non complicarle ancor di più.

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AVVENIRE Pag 1 Un paradiso reso inferno di Giulio Albanese Congo e colpevole indifferenza La Repubblica Democratica del Congo (Rdc), nel cuore vitale dell’Africa subsahariana, potrebbe essere un autentico paradiso terreste. Crogiuolo di popoli con straordinarie culture ancestrali – quasi 82 milioni gli abitanti divisi in trecento principali etnie –, è un Paese attraversato da immense foreste equatoriali con una vegetazione spontanea che si manifesta, a quelle latitudini, nelle forme più esuberanti, tra cui spiccano i palmizi e i legni più pregiati, quali l’ebano e il mogano. Per non parlare dei suoi grandi fiumi o degli struggenti tramonti che rendono questo vastissimo territorio un concentrato di bellezze paesaggistiche che vanno al di là di ogni fantasia e immaginazione. E cosa dire delle immense ricchezze del sottosuolo che accolgono l’intera gamma dei minerali del nostro pianeta? Alla prova dei fatti, l’ex Zaire – come si chiamava durante il regime del defunto Mobutu Sese Seko – potrebbe essere davvero un Paese senza problemi, mentre oggi rischia l’implosione, come segnalano le vicende recenti. «Il sequestro di padre Robert Masinda – del clero della diocesi di Butembo-Beni – e di un suo collaboratore, avvenuto il 22 gennaio, è sintomatico del malessere che da molto tempo attanaglia il Paese africano», si legge non a caso nel comunicato di solidarietà diffuso ieri dalla Conferenza episcopale italiana. Si è trattato del sesto rapimento di un sacerdote dal 2012, in un contesto, quello del Kivu settentrionale, dove la stremata popolazione civile è sottoposta, quotidianamente, ad ogni genere di vessazioni da parte di varie formazioni armate. È evidente che gli interessi legati alle immense ricchezze del sottosuolo rappresentano il principale oggetto del contenzioso, scatenando gli appetiti di potentati stranieri d’ogni genere. La Rdc possiede – è bene rammentarlo – la metà della riserva mondiale di cobalto utilizzata per le fibre ottiche, ma anche per la produzione di armamenti, ed è il quarto produttore di diamanti, con immense riserve di uranio, oro, coltan, rame e petrolio. Dunque, contrariamente a quanto spesso si pensa, questo Paese non è affatto povero, semmai è impoverito. È proprio per questa ragione che da tempo il gesuita Rigobert Minani denuncia l’inganno. Si tratta di uno degli esponenti più autorevoli della società civile congolese che da anni va ripetendo che «quando si dice che il Congo è uno 'scandalo geologico' s’intende che il Paese è potenzialmente ricco». Da sempre queste ricchezze hanno condizionato la storia nazionale. Sì, proprio le stesse risorse che sono state al centro delle guerre che dal 1996 al 2003 (con penosi strascichi fino ai giorni nostri) hanno insanguinato l’ex Zaire, provocando 4, se non addirittura 5/6 milioni di morti. Col risultato che oggi la situazione politica nazionale è incandescente, segnata com’è dalla repressione nei confronti della società civile e in particolare di quei cattolici che, lo scorso 31 dicembre, hanno protestato contro coloro che nel Paese africano impediscono lo svolgimento delle elezioni. Come era prevedibile, tutto continua a passare in sordina, nella quasi totale indifferenza dell’opinione pubblica internazionale. Il bilancio della repressione, il giorno di San Silvestro 2017, è stato di undici morti a Kinshasa e di uno a Kananga. La marcia 'nonviolenta' aveva lo scopo di invitare il presidente uscente Kabila, che già da tempo avrebbe dovuto dimettersi, a rispettare il 1° paragrafo dell’articolo 70 della Costituzione, il quale recita: «Il presidente della Repubblica è eletto per un mandato di cinque anni rinnovabile una sola volta». Di fronte a questi tragici fatti, le cancellerie europee si sono di fatto limitate a condannare l’accaduto senza però esercitare quella dovuta pressione sul governo congolese che continua a fare il bello e il cattivo tempo, procrastinando la consultazione elettorale. Oggi, l’ex Zaire è una grande polveriera che potrebbe esplodere definitivamente da un momento all’altro. Ne è consapevole papa Francesco che, ricevendo in udienza Kabila il 26 settembre del 2016, aveva sottolineato l’importanza della collaborazione tra gli attori politici e i rappresentanti della società civile e delle comunità religiose, in favore del bene comune, attraverso un dialogo rispettoso e inclusivo per la stabilità e la pace nel Paese. Spetta ora al consesso delle nazioni e in particolare all’Unione Africana l’arduo compito di dirimere la matassa degli intrighi, prima che scoppi l’ennesima guerra congolese. Pag 2 L’influenza “rivelatrice” di Alberto Caprotti Perché la febbre può essere anche ottima compagna

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Più di 4 milioni di italiani colpiti dall’inizio dell’inverno a oggi, 832mila casi solo nell’ultima settimana. Il Dipartimento Malattie Infettive dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) ci informa che il virus l’influenza che attualmente sta decimando l’Italia è particolarmente aggressivo. Anzi, pare che non sia mai stato così forte da 14 anni a questa parte. Chissà, magari invece anche in passato la febbre spesso ha colpito duro, solo che si accettava l’inesorabilità della stagione fredda, e si sopportava il naso colante con stoica rassegnazione. Nessuno soprattutto pensava di trovarsi al centro di un’emergenza epocale, forse semplicemente perché non c’erano giornali e tv a parlarne con altrettanta enfasi, dando il microfono a decine di premi Nobel dell’ovvio che consigliano di bere molto, mangiare arance e coprirsi il più possibile. Oltre che curarsi e tentare di prevenirla, allora, non resta che farsene una ragione. E vedere l’altra faccia del termometro. La febbre, infatti, a volte può anche essere un’ottima compagna. Ci costringe a letto, ma ci regala molto più tempo per pensare. Anche a cose meravigliose, del tipo: chiunque vinca le prossime elezioni sappiamo che pagheremo di certo meno tasse, avremo un reddito minimo garantito e pensioni sociali più alte. Verrà abolito il canone Rai e anche il bollo auto, l’Università sarà gratis, tutto funzionerà meglio e sarà diverso, bellissimo, quasi perfetto. Inoltre, vaccinarsi sarà facoltativo, così se mi viene ancora l’influenza almeno l’avrò deciso io. Il mal di testa influenzale poi che ci impedisce di leggere, ci permette di crogiolarci nella nostra splendida illusione: così non sappiamo che magari qualcuno osa dire che tutto questo non è vero. Inoltre – altro grande pregio del virus – lo stato di sonnolenza cronico che ci fa addormentare davanti alla tv annebbia gli splendidi programmi che questa ci propone. Insomma, non è male dover restare a letto provando la confortante sensazione, in generale, di non perdersi un granché. Da influenzati soprattutto scopriamo che il mondo va avanti benissimo anche senza di noi. E ci crea un alibi perfetto: qualunque stupidaggine diciamo, o scriviamo, saremo perdonati. In fondo, avevamo la febbre, no? Pag 3 Così le libertà fondamentali sono sotto attacco in Egitto di Federica Zoja Repressioni e persecuzioni, anche i cristiani nel mirino Fra il 26 e il 28 marzo prossimi, gli elettori egiziani sceglieranno a chi affidare la presidenza della Repubblica, ora nelle mani di Abdel Fattah al-Sisi. L’ex militare di carriera (numero uno delle Forze armate e ministro della Difesa per volere del presidente islamista Mohammed Morsi, che poi lui stesso ha destituito nel luglio del 2013) ha rotto gli indugi venerdì 19 gennaio, candidandosi al suo secondo mandato. Al-Sisi, in diretta tv, ha invitato i propri concittadini a recarsi alle urne in massa, aggiungendo: «Votate per chi volete». Un esercizio di pura retorica, vista l’assenza di concorrenti in grado di dare alla competizione una parvenza di regolarità. Persino la candidatura di Sami Hafez Anan, figura di spicco delle Forze armate fra il 2005 e il 2012, è stata stroncata sul nascere. Anan si è ritirato l’altro giorno, subito dopo essere stato arrestato con l’accusa di falsificazione di verbali e candidatura «senza autorizzazione». Rischia di essere processato anche per «provocazione contro le Forze armate» allo scopo di «generare lo scontro tra esse e il popolo egiziano». E ieri anche l’avvocato e attivista peri diritti umani Khaled Ali, l’ultimo potenziale sfidante di Al-Sisi, ha gettato la spugna. L’impressione diffusa, dunque, è che il voto egiziano non recherà con sé nessuna sorpresa. Sullo sfondo, uno scenario a tinte sempre più fosche per le libertà fondamentali di 90 milioni di cittadini, musulmani e cristiani. È «un picco persecutorio senza precedenti» quello di cui sono protagonisti i cristiani d’Egitto. Ad affermarlo è il rapporto annuale pubblicato dalla piattaforma Open Doors lo scorso 10 gennaio. L’ong cristiana definisce il 2017 un anno orribile per la minoranza, segnato da 200 rapimenti e 128 omicidi. La fiammata di intolleranza è attribuita in parte alla fuga di jihadisti da Siria e Iraq, e al loro 'travaso' verso l’Egitto, e in parte all’ignavia della classe dirigente egiziana. Anche una bozza di risoluzione sull’allarme «per gli attacchi contro i cristiani copti in Egitto», sottoposta lo scorso 21 dicembre alla discussione del Congresso statunitense da sei parlamentari Usa, sostiene grosso modo lo stesso: la presidenza al-Sisi ha fallito sia nel proteggere la minoranza religiosa sia nel ricompattare la società. In merito, la Commissione per gli Affari esteri del Parlamento egiziano ha redatto un testo lungo 6 pagine che confuta ogni accusa. Ma il report di Open Doors non fa che

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aggiungere benzina alle fiamme della polemica internazionale: esso riferisce le parole di Michael Jones, nome di fantasia utilizzato per proteggere il prelato di una chiesa evangelica del Cairo, intervistato dalla testata giornalistica 'Christian Today'. Jones descrive le angherie subite dai cristiani nelle comunità rurali, là dove «il controllo non è nelle mani del presidente al-Sisi, ma di autorità locali fanatiche». Intimidazioni e discriminazioni sono a tal punto in crescita da aver provocato l’inclusione dell’Egitto nella 'top 8' delle nazioni il cui livello di violenza anti-cristiana è peggiorato di più, negli ultimi 12 mesi. I fattori presi in considerazione vanno dalle restrizioni delle libertà personali e familiari, alla mancanza di libertà nel professare il proprio credo o nel convertirsi, di lavorare e studiare senza essere offesi o perseguitati. Il 2017, per la cronaca, è stato l’anno di due stragi efferate ai danni della comunità cristiana: 49 vittime nella domenica delle Palme, 29 un mese dopo, nel governatorato di Minia. I cristiani d’Egitto, nonostante questo, non si nascondono. Ma se anche volessero farlo, in Egitto il credo praticato è ancora riportato sulla carta d’identità, a rimarcare il solco esistente fra maggioranza e minoranza. Religione e morale sono diventati il ring privilegiato di un regolamento di conti fra potere e dissenso. I legislatori egiziani sono all’opera su di una bozza di normativa che riconosca come reato l’ateismo. La blasfemia è già un crimine in Egitto, Paese in cui con l’accusa di aver insultato o diffamato la religione – musulmana sunnita, praticata dalla maggioranza della popolazione – ogni anno vengono arrestati centinaia di cittadini. Una nota di spiegazione al disegno di legge anti-ateismo, nebuloso, è in fase di redazione: in molti si chiedono quali strumenti il legislatore autorizzerà per la determinazione del crimine, visto che il presunto colpevole potrà essere perseguito anche se non si è mai espresso in pubblico sull’argomento. Eppure, l’armonia di vedute fra la commissione parlamentare sulla Religione e i vertici della moschea universitaria di al-Azhar, che hanno espresso pieno sostegno all’iniziativa, è indicativa del clima creatosi nel Paese, con particolare accelerazione sotto la presidenza al-Sisi. Secondo la normativa in vigore in materia di blasfemia – che fa parte del Codice penale dal 1982 – una pena detentiva fino a cinque anni può essere comminata a un cittadino riconosciuto colpevole di «promuovere, attraverso discorsi orali, scritti o diffusi mediante qualsiasi altro mezzo, idee estremiste con l’obiettivo di diffondere la discordia oppure di sminuire o denigrare una delle fedi monoteistiche o una delle loro derivazioni, o di ledere l’unità nazionale». Su questa base normativa, sufficientemente elastica da essere impiegata contro numerose forme di dissenso politico, sociale o religioso, sta dunque per fiorire un nuovo strumento repressivo, cui la presidenza egiziana ha iniziato a pensare fin dal proprio insediamento, nel 2014. Poco dopo l’elezione del raìs Abdel Fattah al-Sisi, infatti, il nuovo esecutivo annunciò una piattaforma giuridica per «far fronte ed eliminare» l’ateismo, ritenuto una delle maggiori minacce per l’Egitto. I mezzi di informazione filo-governo si adeguano, segnalando casi che rientrano nel 'panico morale' denunciato dai conservatori, fautori dell’ordine ad ogni costo. «Utilizzare la violenza e la repressione per erodere lo stato di diritto e decimare l’opposizione politica è il traguardo principale raggiunto da al-Sisi», è il commento di Sarah Leah Whitson, direttrice di Human Rights Watch per il Medio Oriente. L’ong ha pubblicato la propria relazione sui diritti umani nel mondo nel 2017 all’inizio di gennaio. L’Egitto non vi 'sfigura', fianco a fianco con altri regimi totalitari. «L’Agenzia nazionale per la sicurezza del ministero degli Interni - si legge - che opera nella quasi totale impunità, è stata responsabile di alcuni dei più flagranti abusi del 2017, incluso il diffuso e sistematico uso della tortura per estorcere confessioni». Sparizioni di detenuti, omicidi extra-giudiziari, processi militari applicati ai civili (15mila in tre anni, compresi bambini) allungano la lista degli orrori egiziani. E al lettore italiano tali efferatezze documentate e circostanziate non possono non ricordare la sorte tragica e insensata toccata, due anni fa, al ricercatore friulano Giulio Regeni. Un delitto ancora senza colpevoli, ma con numerosi sospetti. Il medesimo destino violento ha travolto migliaia e migliaia fra attivisti, blogger, giornalisti, studenti, avvocati, professori, operai, venditori ambulanti, semplici cittadini ritenuti pericolosi per il sistema. Altri, invece, forse troppo in vista per essere fatti sparire, stanno subendo un altro trattamento: l’'omicidio della personalità' attraverso campagne diffamatorie, incentrate sulla presunta amoralità dei loro comportamenti. E’ questo lo 'strumento' impiegato dal regime per neutralizzare le voci critiche che godono di prestigio e protezione internazionale, denuncia la giornalista e attivista politica Esraa Abdel Fattah, candidata

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al premio Nobel per la pace nel 2011 per il suo ruolo nelle manifestazioni di piazza Tahrir. Appunto una voce contro, che rischia ogni giorno un po’ di più. IL GAZZETTINO Pag 7 Clonate anche le scimmie: “E ora tocca all’uomo” di Valentina Arcovio L’esperimento con i primati riuscito per la prima volta al mondo in Cina. Il genetista: “Siamo vicini a superare un confine pericoloso” Per la prima volta al mondo sono state clonate due scimmie con la stessa tecnica utilizzata per creare la pecora Dolly 22 anni fa. Si chiamano Zhong Zhong e Hua Hua, che insieme significano nazione cinese, e hanno due occhi grandi e vispi. Sono nati rispettivamente otto e sei settimane nei laboratori dell'Istituto di neuroscienze dell'Accademia cinese delle scienze a Shanghai. Per riuscire a crearli ci sono voluti ben 3 anni e 79 tentativi falliti. Ma ora stanno bene e probabilmente fra qualche mese verranno raggiunti da altre scimmie clonate come loro. La notizia è stata data dalla rivista Cell, ma ha fatto presto il giro del mondo. Perché se la clonazione di un primate aiuterà tantissimo la ricerca, riducendo anche il numero di animali da utilizzare per la sperimentazione, solleva grossi timori circa la possibilità che vengano clonati gli esseri umani. In realtà, prima delle due piccole scimmie cinesi, 19 anni negli Stati Uniti è stato già creato un altro esemplare di macaco. Era una femmina di nome Tetra, solo che la tecnica utilizzata è certamente meno sofisticata e meno efficiente di quella utilizzata per Zhong e Hua Hua, e per la pecora Dolly. I ricercatori dell'Oregon Health and Science University si sono affidati alla scissione dell'embrione, una tecnica che imita il processo naturale all'origine dei gemelli identici (monozigoti). Una tecnica che consente la creazione di soli 4 cloni per volta. LA TECNICA - I ricercatori cinesi, invece, hanno fatto un passo in avanti enorme adattando la tecnica di clonazione usata per la pecora Dolly, il trasferimento nucleare da cellule somatiche, usata con successo già con altri mammiferi, ma mai con i primati per via di un serie di geni «spenti» che ne impediscono lo sviluppo embrionale. In pratica, la tecnica consiste nel trasferimento del nucleo di una cellula dell'animale da copiare all'interno di un ovulo non fecondato e privato del suo nucleo. Il merito dei ricercatori cinesi sta nell'essere riusciti a riprogrammare i geni chiave, riattivandoli grazie a frammenti di Rna messaggero. La percentuale di successo è stata poi ulteriormente aumentata prelevando il nucleo da cellule fetali invece che da cellule di esemplari adulti. LE CRITICHE - Ma il lavoro dei ricercatori cinesi ha sollevato numerose polemiche, soprattutto da parte della Chiesa. Molti i timori sulle possibili implicazioni. «Una minaccia per il futuro dell'uomo», commenta il cardinale Elio Sgreccia, presidente emerito della pontificia Accademia per la Vita. «C'è il fortissimo rischio aggiunge - che la clonazione della scimmia possa essere considerato come il penultimo passo, prima di arrivare alla clonazione dell'uomo, evento che la Chiesa non potrà mai approvare». Meno catastrofista il commento di Giuseppe Novelli, che riconosce le implicazioni etiche. «È vero che tecnicamente potremmo riuscire a clonare gli esseri umani, ma non ne ricaveremmo alcun vantaggio e lo sanno bene i ricercatori cinesi che specificano di aver solo creato un modello in cui sperimentare eventuali terapie per malattie oggi incurabili». In effetti, i possibili utilizzi della tecnica sperimentata dai cinesi riguardano, almeno per il momento, solo la ricerca di nuove cure e il minor utilizzo dei primati per la sperimentazione animale. «Questa tecnica consente per la prima volta di ottenere numerosi esemplari di primati geneticamente omogenei», spiega Giuliano Grignaschi, segretario generale di Research4life e responsabile del benessere animale presso l'Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri. «Ciò permetterà di ottenere risultati sperimentali più affidabili e facilmente riproducibili: riducendo la variabilità e l'errore statistico, si ridurrà anche il numero di campioni impiegati per fare le misure e, di conseguenza, il numero di animali sacrificati per ogni singolo esperimento». «La clonazione degli esseri umani è ora a portata di mano». È preoccupato Bruno Dallapiccola, genetista e direttore scientifico dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, per le possibili implicazioni della prima clonazione delle scimmie con la stessa tecnica della pecora Dolly. Corriamo davvero il rischio di assistere alla clonazione di esseri umani?

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«Sì, è evidente che tecnicamente ci siamo molto vicini. Non mi stupirei se un giorno arrivasse una notizia del genere e questo dovrebbe farci riflettere. La clonazione di una scimmia significa aver clonato un animale che è il più vicino all’uomo». Lo studio cinese apre molte implicazioni etiche? «Decisamente. Questo significa che dobbiamo aprire un serio dibattito prima che l’asticella della scienza venga spostata sempre più in là». Quali invece le implicazioni immediate? «Il lavoro dei ricercatori cinesi è certamente importante per le ricadute pratiche. Avere due animali identici con lo stesso profilo genetico può servire alla sperimentazione di nuovi farmaci contro malattie oggi incurabili. Si tratta di avere a disposizione un modello efficiente che può portare anche alla riduzione di animali necessari per la sperimentazione. Ma bisogna fare attenzione: gli animali clonati potrebbero sviluppare malattie oggi imprevedibili». Pag 23 La legge tutela il diritto alla vita, non quello alla sua dignità di Ennio Fortuna Marco Cappato, per sua stessa confessione, ha aiutato a morire dj Fabio, accompagnandolo in Svizzera e rimanendo con lui e con altri familiari fino alla fine. Secondo la Procura di Milano, però, un simile comportamento non si configurerebbe come reato perché tutelerebbe la dignità della persona garantita dalla legge fondamentale. In pratica, secondo la motivazione addotta dai P.M. in udienza, in caso di malattia inguaribile, in fase terminale e contraddistinta da dolori atroci e insopportabili, l'aiuto prestato per il suicidio non si inquadrerebbe in una specifica figura di reato, tanto meno in quella prevista dall'art.580 del codice penale (istigazione o aiuto al suicidio), perché l'agente mirerebbe esclusivamente a salvaguardare la dignità della persona. Confesso che mi riesce difficile condividere una simile impostazione. In Svizzera la competenza è dei singoli cantoni con risultati diversi, il più delle volte contraddittori. In alcuni di essi si è stabilito che l'aiuto al suicidio o l'istigazione non costituiscono reato (l'eutanasia resta punibile dovunque)se il fatto si verifica per motivi non egoistici. L'interessato, spesso straniero, viene interpellato solennemente, e più volte, per accertare in modo definitivo la sua effettiva intenzione. Se la volontà di morire persiste e l'interessato risulta sicuramente capace di intendere e di volere, viene posta a sua disposizione una dose letale di veleno che egli deve bere da solo senza aiuti diretti. In tal modo l'orientamento prevalente si muove nel senso che si tratta esclusivamente di suicidio senza la partecipazione di terzi, e il personale presente è garantito da ogni rischio penale. Il suicidio assistito e che, proprio per quanto si è detto, viene definito pudicamente accompagnato, ha un costo piuttosto rilevante (circa 10000 euro), ma finora il prezzo si è ritenuto, pur se non senza qualche difficoltà, compatibile con il motivo altruistico, essenziale per escludere ogni responsabilità penale del personale e degli eventuali accompagnatori. In Italia la cui legge i magistrati milanesi erano chiamati ad applicare, l'aiuto o l'istigazione al suicidio è punito, se il suicidio avviene, con la pena della reclusione fino a 12 anni, verosimilmente esagerata specie dopo la nuova legge in vigore dal 31 gennaio che riconosce e amplia il diritto al rifiuto di ogni eventuale trattamento sanitario. Ma le motivazioni addotte dai magistrati, salvo errori da parte mia, sono tali che, se fondate, dovrebbero valere anche e soprattutto da noi. Fino al punto che perfino l'eutanasia vera e propria, e non solo l'aiuto al suicidio, dovrebbe essere legittimata. Anche da noi dovrebbe essere infatti riconosciuto il diritto alla dignità umana da privilegiare rispetto al diritto alla vita. Solo che il nostro codice si limita a tutelare esclusivamente il diritto alla vita, se non piuttosto il dovere della vita, ignorando del tutto, e comunque non facendo alcuna menzione del preteso diritto alla dignità della persona. Di fatto non mi risulta che in Italia si sia mai legittimato il diritto alla dignità, da privilegiare rispetto al diritto-dovere della vita, e se si è omesso di procedere nei confronti di medici o assistenti e accompagnatori, lo si è fatto in base a motivazioni che hanno preso in considerazione solo o soprattutto la rilevanza o meno dell'apporto incriminato. In definitiva, le assoluzioni o archiviazioni risultano tutte motivate dalla convinzione che il comportamento incriminato sarebbe stato del tutto irrilevante o assolutamente secondario rispetto alla decisione dell'interessato di darsi la morte. Resto quindi scettico e diffidente nei riguardi di una tesi, certamente rispettabile, come sono,

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in generale, tutte le tesi rivoluzionarie, ma che non trova alcun sostegno nelle scelte della legge in vigore, forse un po' datata, ma certamente da seguire da parte dei magistrati almeno finché non verrà travolta o sconvolta da nuovi e diversi orientamenti, e che tuttavia, anche nella più recente occasione, non hanno trovato alcuno sbocco. LA NUOVA Pag 1 La memoria degli orrori in Europa di Vincenzo Milanesi Forse mai come di questi tempi in Italia, negli ultimi anni, è importante il 27 gennaio, giornata della Memoria. Tempi di rimozione (implicita e non dichiarata, ma non per questo meno pericolosa) di epoche terribili e recenti, inneggianti a (pretese quanto inesistenti) "superiorità" di "razza", in cui si è consumato il genocidio del popolo ebraico. Non in secoli lontani, ma nella prima metà del Novecento, che si era aperto con un altro genocidio, quello degli armeni ad opera dei turchi. Al di là del rischio di una ritualizzazione che potrebbe rendere simile ad una vuota liturgia questa giornata, è invece importantissimo ritornare con il pensiero a cosa è accaduto solo pochi decenni orsono in un continente come l'Europa, culla di una grande civiltà, quella nata dalla sintesi tra cultura greca e romana da un lato, e dalla tradizione spirituale giudaico-cristiana dall'altro. Perché è proprio in Europa che, nel bel mezzo del "secolo d'oro" della scienza e della tecnologia, fondate sul metodo sperimentale e quindi su di una razionalità nemica di ogni dogmatismo, un popolo civilissimo e colto, quello della nazione germanica, è stato indotto da una ideologia aberrante a ritenere giusto ed anzi doveroso programmare "scientificamente" lo sterminio di un altro popolo, quello dei figli di Israele, perché uomini e donne di una "razza" considerata dalla "scienza" inferiore a quella ariana, e quindi da eliminare dalla faccia della terra. Il sonno della ragione genera mostri: ma di quale ragione si sta qui parlando? Non certo di una razionalità che si chiude nella mera dimensione di un sapere scientifico-tecnologico indifferente ai valori morali, e quindi pronta a mettersi al servizio di qualunque ideologia, anche di quelle eticamente aberranti, ma di una ragione che si connota invece come aperta al riconoscimento ed all'accoglimento di quei valori che devono poter travalicare spazi geografici ed epoche, riaffermando la fede civile e "laica" nei fondamentali diritti degli uomini e dei popoli che possono, e devono, essere riconosciuti da tutti proprio per il loro carattere di valori universali. Che, appartenendo a tutti gli uomini, sono costitutivi dell'umanità di ogni uomo in quanto tale. Valori che possono essere ritrovati all'interno del messaggio di tutte e tre le grandi religioni monoteistiche, le "religioni del Libro", ebraismo, cristianesimo ed Islam, pur se non sempre è facile ed immediato riconoscerli così come trasmessi dalla forma sapienziale in cui quel Libro si esprime, nelle diverse lingue di ciascuna di quelle religioni. Saper rifiutare le strumentalizzazioni pseudo-politiche della religione islamica, presenti non di rado anche all'interno della comunità musulmane in Europa; sapersi distanziare da scelte politiche sbagliate dello Stato di Israele senza demonizzare la stirpe dei figli di Israele; saper fare del cristianesimo aperto e dialogante con le religioni e con la stessa modernità "laica", pur nella saldezza dei principi, come Papa Francesco ci insegna a praticarlo, sempre più un credo che testimonia una volontà di amore universale: questo è il compito dell'Europa e della sua cultura nei nostri anni. Il rispetto della persona umana nella parità assoluta tra uomo e donna, della sua vita e della sua dignità, dei suoi diritti a vivere una esistenza degna di essere vissuta nella libertà di pensiero e azione, e alla ricerca di una sempre maggiore giustizia nei rapporti sociali: la "missione" dei popoli dell'Europa oggi è proprio quella di essere espressione di una civiltà che fonda la convivenza civile su quei valori. Praticandoli verso quanti sulle sue coste approdano chiedendo di essere accolti, ma pretendendo con fermezza da parte loro il rispetto di quei valori stessi e delle leggi che su di essi sono fondate. È una sfida per noi, per loro, per tutti che richiede un impegno radicale alla pratica di quei valori "senza se e senza ma". Se perde quella sfida, l'Europa rischia di ripiombare in una nuova e terribile barbarie. Pag 1 La Turchia e le assurdità degli alleati di Maurizio Mistri Quando la Grecia era il centro di quella cultura che poi sarebbe diventata la cultura dell'Europa, i dotti discettavano sull'ircocervo, una creatura mitologica la cui esistenza

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non era provata ma il cui nome appariva dotato di senso. Quegli antichi dotti citavano l'ircocervo per dimostrare che non sempre a parole, apparentemente dotate di senso, corrispondevano realtà concretamente esistenti.Passando ai giorni nostri abbiamo la possibilità di assistere ad un paese che è diventato un ircocervo politico. Forse la mutazione da paese normale a paese-ircocervo è colpa di una storia che ha obbligato quel paese ad assumere aspetti diversi. Mi riferisco alla Turchia, un paese mediorientale che sembra pencolare un po' verso l'Europa e molto verso l'Arabia Saudita. Culla dell'ottomanesimo, la Turchia si è trovata dopo disastrose sconfitte militari, alle quali ha contribuito l'arretratezza delle sue istituzioni, a cercare di imitare o di adottare istituzioni di tipo europeo su un corpo culturale che europeo continuava a non essere. Kemal Ataturk diede alla Turchia un volto europeizzante, mentre quel corpo rimaneva il corpo di un paese mediorientale. Nel tempo la struttura del corpo originario ha cominciato a produrre mutazioni anche sul volto, per cui la Turchia, sotto la guida di Erdogan, ha cominciato a perdere i connotati europei e ad assumere quelli di un paese mediorientale. Tuttavia, il fatto di essere un paese-ircocervo la porta a fare discorsi non coerenti tra loro. Ad esempio, secondo le agenzie di stampa, attualmente la Turchia sta conducendo una guerra contro i curdi che abitano nell'enclave siriana di Afrin. Con senso dell'ironia, il governo turco ha chiamato la guerra contro i curdi di Afrin "Operazione ramo d'ulivo". Quando si pensa a un ramo d'ulivo la mente va ad un gesto pacifico, di buona volontà. La buona volontà del rais Erdogan consiste nel lanciare non fiori sulle case e sulle strade di Afrin, ma proiettili di cannone e missili. Ora è chiaro che un ircocervo è portato ad essere schizofrenico e a chiamare una cosa per un'altra. A volte i paesi-ircocervo vedono anche le cose come se fossero diverse da quelle che nella realtà sono. Così i curdi di Afrin sono diventati terroristi e poiché gli ircocervi sono irascibili, i loro alleati fanno finta di vedere le cose che gli ircocervi dicono di vedere. Così, sia la Russia che fino a ieri ha sostenuto le milizie curde contro le milizie anti-Assad, sostenute dalla Turchia, adesso è d'accordo sul fatto che la Turchia bombardi le milizie curde. Anche gli Usa vedono terroristi in quelli che in realtà sono (o sono stati) loro alleati nella guerra contro l'Isis. Erdogan, che è l'apparato vocale del paese-ircocervo, afferma che i bombardamenti turchi sono necessari per mantenere l'unità di quella Siria che fino a non molto tempo fa proprio la Turchia voleva distruggere. La cosa straordinaria che mostra, se non la confusione mentale del paese-ircocervo almeno quella dei paesi suoi alleati, è che sia gli Usa, che si proclamano alleati all'interno della Nato dell'ircocervo, che la Russia, che proclama di coordinarsi con l'ircocervo, non si pongono il problema di chi è veramente alleato della Turchia e purtroppo non conoscono il teorema della proprietà transitiva degli alleati. Secondo tale proprietà se A è alleato a B e se B è alleato a C, allora A sarà alleato di C. Invece no, perché i due paesi alleati della Turchia sono la Russia e gli Usa, che sono sempre sull'orlo di una guerra non tanto fredda. Esilarante è il comportamento della diplomazia Usa che davanti al fatto che un suo alleato, facente parte della Nato, è in Siria alleato della Russia, non fa una piega, semmai limitandosi ad esortare l'alleato-ircocervo alla moderazione che ogni ircocervo che si rispetta, ovviamente, non conosce. Poi c'è l'Unione Europea che sconta il fascino bestiale dell'ircocervo pur disprezzandolo; lo vorrebbe vicino ma gli fa orrore. Torna al sommario