Rassegna stampa 3 settembre 2018 - patriarcatovenezia.it · letto quello che scrivi e non so cosa...

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 3 settembre 2018 SOMMARIO “Pigrizia, fretta e superficialità: 2 minuti al giorno per informarsi. Così prosperano i manipolatori” è il titolo del pezzo di Gigio Rancilio sull’edizione domenicale di Avvenire. Ecco le sue considerazioni: “Abbiamo poco tempo. Andiamo tutti di fretta e dobbiamo (vogliamo?) fare tante cose, a volte anche tutte insieme. Sul web, poi, leggiamo poco. Per diversi motivi. Innanzitutto per pigrizia e/o fretta. In Italia, secondo l’ultimo rapporto Audiweb, passiamo meno di 1 ora al mese sui siti di informazione. Sono quasi 2 minuti al giorno. Una cifra irrisoria. Sempre per pigrizia e/o fretta, la stragrande maggioranza delle persone «on line» non arriva alla fine di un articolo sul quale ha cliccato. Scriverlo fa male. Ma è così. Èd è inutile fare finta di niente. Quando siamo nel digitale decidiamo in meno di 6 secondi se un articolo è giusto o sbagliato. E sui social in meno di tre se vale la pena cliccare su un titolo o passare oltre. Sempre sui social oltre il 40% degli utenti commenta un post senza averlo letto, ma in base al titolo, alla foto o ai commenti precedenti lasciati dalle altre persone. Basta un commento fuori contesto (spesso lasciato apposta dai cosiddetti troll, cioè da persone che si divertono a scatenare risse sui social) perché le persone smettano di discutere dell’argomento trattato nel post, per spostarsi sul nuovo argomento. Anche chi commenta in buona fede spesso cade in qualcosa di simile, denominato «benaltrismo». Per esempio, se un post tratta la fame in Africa arriva sempre il commento: «e i poveri italiani? ». E così via. Non c’è argomento che non generi un commento del tipo: «perché non parlate di...». Solo che se c’è sempre «altro», alla fine non ci si confronta su niente. Si litiga. Come nelle assemblee condominiali dove, mentre si sta parlando di rifare la caldaia condominiale, qualcuno interviene e dice: è la spazzatura? E tutti cominciano a urlare e a offendersi. La colpa non è solo dei social. Ma di oltre 20 anni di talk show televisivi dove lo scontro, l’offesa e la rissa sono stati e sono all’ordine del giorno. Restare nascosti dietro un profilo magari falso, toglie poi ogni inibizione, facendo emergere il peggio delle persone. In questo senso i social non sono un’altra realtà, ma uno specchio della realtà forse più fedele di quello che vediamo in giro, perché fanno emergere anche quell’odio che nei rapporti quotidiani alcuni spesso nascondono dietro facce di circostanza. Tutti, soprattutto sui social, vogliamo partecipare e (giustamente) dire la nostra, su ogni argomento. Ma non facciamo i conti con le insidie, tecnologiche e non, che ci circondano. Per non parle del fatto che, secondo l’Ocse, 11 milioni di italiani si informano solo sui social, attraverso testi brevi, perché non sono in grado di comprendere correttamente testi più lunghi di 700 caratteri. Sono soprattutto pensate per loro le immagini social con slogan di denuncia e la scritta: «condividi se sei indignato». Se sono veri o meno, non interessa a chi le confeziona. Sono utili. E fanno arrivare un messaggio semplice: questo, quello, quelli sono i tuoi nemici. E i commenti sui social? Una fetta di coloro che commentano non sono nemmeno reali. Sono profili inventati ad arte e «pilotati» come burattini da sistemi informatici. Così, ci convincono che la «massa», il «popolo» la pensa soprattutto in un certo modo, spingendo i più ad accodarsi alla «maggioranza rumorosa» e allontanando la «maggioranza silenziosa» che si trova a disagio davanti a risse ed eccessi verbali. Algoritmi, bot e strategie degne di Goebbels finiscono così a orientare una parte delle persone. Ma ciò che non ci fa crescere nel dibattito e nella comprensione della realtà è il «nemico» più pericoloso che possa esserci: noi stessi. Nessuno escluso. Colpa dei «bias cognitivi». Cioè, dei «malfunzionamenti» del nostro cervello che ci portano a errori di valutazione e/o alla mancanza di oggettività di giudizio. Ce ne sono a decine. Il più attivo e distruttivo sui social è il «bias di conferma». È quello che ci spinge a dare maggiore rilevanza alle sole informazioni in grado di confermare la nostra tesi iniziale (o il nostro pregiudizio), ignorando o sminuendo quelle che la contraddicono. «Se abilmente sfruttato – come spiega bene Wikipedia – è uno strumento di potere

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 3 settembre 2018

SOMMARIO

“Pigrizia, fretta e superficialità: 2 minuti al giorno per informarsi. Così prosperano i manipolatori” è il titolo del pezzo di Gigio Rancilio sull’edizione domenicale di

Avvenire. Ecco le sue considerazioni: “Abbiamo poco tempo. Andiamo tutti di fretta e dobbiamo (vogliamo?) fare tante cose, a volte anche tutte insieme. Sul web, poi, leggiamo poco. Per diversi motivi. Innanzitutto per pigrizia e/o fretta. In Italia, secondo l’ultimo rapporto Audiweb, passiamo meno di 1 ora al mese sui siti di

informazione. Sono quasi 2 minuti al giorno. Una cifra irrisoria. Sempre per pigrizia e/o fretta, la stragrande maggioranza delle persone «on line» non arriva alla fine di un

articolo sul quale ha cliccato. Scriverlo fa male. Ma è così. Èd è inutile fare finta di niente. Quando siamo nel digitale decidiamo in meno di 6 secondi se un articolo è giusto o sbagliato. E sui social in meno di tre se vale la pena cliccare su un titolo o passare oltre. Sempre sui social oltre il 40% degli utenti commenta un post senza

averlo letto, ma in base al titolo, alla foto o ai commenti precedenti lasciati dalle altre persone. Basta un commento fuori contesto (spesso lasciato apposta dai cosiddetti

troll, cioè da persone che si divertono a scatenare risse sui social) perché le persone smettano di discutere dell’argomento trattato nel post, per spostarsi sul nuovo

argomento. Anche chi commenta in buona fede spesso cade in qualcosa di simile, denominato «benaltrismo». Per esempio, se un post tratta la fame in Africa arriva sempre il commento: «e i poveri italiani? ». E così via. Non c’è argomento che non generi un commento del tipo: «perché non parlate di...». Solo che se c’è sempre

«altro», alla fine non ci si confronta su niente. Si litiga. Come nelle assemblee condominiali dove, mentre si sta parlando di rifare la caldaia condominiale, qualcuno interviene e dice: è la spazzatura? E tutti cominciano a urlare e a offendersi. La colpa

non è solo dei social. Ma di oltre 20 anni di talk show televisivi dove lo scontro, l’offesa e la rissa sono stati e sono all’ordine del giorno. Restare nascosti dietro un

profilo magari falso, toglie poi ogni inibizione, facendo emergere il peggio delle persone. In questo senso i social non sono un’altra realtà, ma uno specchio della

realtà forse più fedele di quello che vediamo in giro, perché fanno emergere anche quell’odio che nei rapporti quotidiani alcuni spesso nascondono dietro facce di

circostanza. Tutti, soprattutto sui social, vogliamo partecipare e (giustamente) dire la nostra, su ogni argomento. Ma non facciamo i conti con le insidie, tecnologiche e non, che ci circondano. Per non parle del fatto che, secondo l’Ocse, 11 milioni di italiani si

informano solo sui social, attraverso testi brevi, perché non sono in grado di comprendere correttamente testi più lunghi di 700 caratteri. Sono soprattutto

pensate per loro le immagini social con slogan di denuncia e la scritta: «condividi se sei indignato». Se sono veri o meno, non interessa a chi le confeziona. Sono utili. E fanno arrivare un messaggio semplice: questo, quello, quelli sono i tuoi nemici. E i commenti sui social? Una fetta di coloro che commentano non sono nemmeno reali. Sono profili inventati ad arte e «pilotati» come burattini da sistemi informatici. Così,

ci convincono che la «massa», il «popolo» la pensa soprattutto in un certo modo, spingendo i più ad accodarsi alla «maggioranza rumorosa» e allontanando la

«maggioranza silenziosa» che si trova a disagio davanti a risse ed eccessi verbali. Algoritmi, bot e strategie degne di Goebbels finiscono così a orientare una parte delle persone. Ma ciò che non ci fa crescere nel dibattito e nella comprensione della realtà è il «nemico» più pericoloso che possa esserci: noi stessi. Nessuno escluso. Colpa dei «bias cognitivi». Cioè, dei «malfunzionamenti» del nostro cervello che ci portano a

errori di valutazione e/o alla mancanza di oggettività di giudizio. Ce ne sono a decine. Il più attivo e distruttivo sui social è il «bias di conferma». È quello che ci spinge a dare maggiore rilevanza alle sole informazioni in grado di confermare la nostra tesi

iniziale (o il nostro pregiudizio), ignorando o sminuendo quelle che la contraddicono. «Se abilmente sfruttato – come spiega bene Wikipedia – è uno strumento di potere

sociale, in quanto può portare un individuo o un gruppo a negare o corroborare una tesi voluta, anche quando falsa». Il «bias del carro della banda del vincitore»

(bandwagon bias) ci spinge invece a sviluppare una convinzione, non basandoci tanto sul fatto che sia vera, quanto piuttosto in relazione al numero di persone che la

condividono. Per questo è così facile, da sempre, anche prima dei social, ingannare le persone. Per questo non siamo disposti a riconoscere che anche chi non la pensa

come noi possa avere ragione. Per questo non esistono più gli esperti ma soltanto i «miei esperti», cioè coloro che mi danno ragione e che corroborano i miei pregiudizi. E chi non la pensa come me è per forza un «nemico», un «bufalaro», uno che fa parte

di orribili complotti. Nel giro di pochi anni siamo passati dalla massima attribuita a Voltaire («Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo», che in realtà è di una sua geniale biografa Evelyn B. Hall) a «non ho

letto quello che scrivi e non so cosa dirai, ma sono già che è falso. Quindi, stai zitto». E così facendo ogni giorno ci chiudiamo sempre di più nelle nostre (spesso errate)

convinzioni” (a.p.)

In questa Rassegna il messaggio integrale del Papa in occasione della Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato

2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 1 settembre 2018 Pag XIV Padre Bolis lascia Altobello: “Grazie per questi 11 anni” di Alvise Sperandio 3 – VITA DELLA CHIESA IL GAZZETTINO Pag 11 Viganò, il Vaticano cambia strategia: un memo per rispondere all’ex nunzio di Franca Giansoldati AVVENIRE di domenica 2 settembre 2018 Pag 5 “L’acqua, bene da garantire a tutti” Il Messaggio del Papa per la Giornata mondiale del creato: sia salvaguardato chi fugge e rischia la vita sulle onde Pag 17 Viganò insiste, gli episcopati rispondono di Stefania Falasca Argentina, Perù e Spagna con Francesco. E il cardnale Wuerl chiede perdono CORRIERE DELLA SERA di domenica 2 settembre 2018 Pag 21 “Adesso è chiaro che sono innocente. Se il Papa vuole, torno al mio posto” di Luigi Accattoli Milone, il Revisore licenziato un anno fa IL GAZZETTINO di domenica 2 settembre 2018 Pag 11 Viganò attacca ancora il Papa: “Bugie sul viaggio negli Usa” di Franca Giansoldati E da due vescovi parte la richiesta di cancellare il Sinodo dei giovani AVVENIRE di sabato 1 settembre 2018 Pag 2 Il furore senza verità di chi muove all’attacco della Chiesa e del Papa di Salvatore Mazza Pag 17 “Matrimoni ad Assisi? Meglio celebrarli nelle parrocchie” di Antonella Porzi Il vescovo Sorrentino: le chiese non siano scelte solo per estetica IL FOGLIO di sabato 1 settembre 2018 Pag V La guerra civile nella Chiesa di Matteo Matzuzzi

La sfida degli americani e il dossier Viganò. Niente sarà più come prima nel pontificato di Francesco Pag VI Crollano le roccaforti, è il tramonto dell’Europa cattolica di Giulio Meotti Indagine sul “vuoto dentro”. Irlanda, Baviera, Francia, Austria, Spagna: quasi espugnate anche le ultime ridotte. Resiste solo la Polonia. Quando Ratzinger disse: “C’è una città europea dove i cristiani sono soltanto l’otto per cento della popolazione” IL GAZZETTINO di sabato 1 settembre 2018 Pag 10 Pedofilia, le accuse contro il Papa lacerano la Chiesa di Franca Giansoldati 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Non crollano solo i ponti di Alessandro D’Avenia AVVENIRE di domenica 2 settembre 2018 Pag 2 Caro Leone, goditi la vita con mamma e papà sposi di Umberto Folena Le nozze “social” di Ferragni e Fedez. Con il figlio di 5 mesi Pag 2 Chi bestemmia non gioca di Massimiliano Castellani Sana filosofia e il segnale di Mancini, il ct della Nazionale Pag 6 Pigrizia, fretta e superficialità: 2 minuti al giorno per informarsi. Così prosperano i manipolatori di Gigio Rancilio CORRIERE DEL VENETO di domenica 2 settembre 2018 Pag 1 Consumi, se cala la fiducia di Vittorio Filippi Nel Nordest 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ CORRIERE DELLA SERA di sabato 1 settembre 2018 Pag 21 Gli italiani senza medici di Margherita De Bac Raffica di pensionamenti e concorsi semideserti. I laureati ci sono, il blocco è nelle specializzazioni 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 13 Vignotto e D’Este, gli amici-nemici campioni in coppia di Michele Fullin e Giorgia Pradolin Uno di Burano, l’altro di Sant’Erasmo, da sempre accesi rivali, hanno remato e vinto assieme con un vantaggio di 39 secondi IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VIII Ultimati i lavori per la cattedrale ortodossa romena di Alvise Sperandio Per l’inaugurazione si pensa al 13 dicembre, giorno di Santa Lucia LA NUOVA Pag 13 Visita speciale in Basilica, trenta bambini haitiani alla scoperta della bellezza di Nadia De Lazzari La comitiva guidata da suor Marcella ieri ha fatto tappa a Venezia. Messa a San Marco, gelato offerto dal Patriarca e poi la Regata storica Pag 13 “Le grandi navi verso Marghera”. E sulle chiese: “Maggiori risorse” di V.M. La sottosegretaria Borgonzoni

LA NUOVA di domenica 2 settembre 2018 Pag 13 L’appello per la Basilica di San Marco: “Per la manutenzione non abbiamo fondi” di Alberto Vitucci Il Primo procuratore Tesserin al governo: “Servono facilitazioni fiscali”. La visita della ministra francese della Cultura CORRIERE DEL VENETO di sabato 1 settembre 2018 Pag 1 Venezia e la bolla gialloverde di Alessandro Russello Il cortocircuito IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 1 settembre 2018 Pag X Patrimonio a rischio. Dalla Tor: “L’Art Bonus sia esteso alle chiese” di Alvise Sperandio L’ex senatore nella scorsa legislatura aveva proposto l’ampliamento del progetto per la tutela delle opere d’arte … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Priorità e non rivoluzioni di Francesco Giavazzi La legge di Stabilità Pagg 2 – 3 Tre punti fermi per chi cerca una soluzione di Franco Venturini e Francesco Battistini Libia: il generale vuole farsi Rais. Bande (e alleati stranieri) per puntare sulla capitale Pag 16 Stupri, undici denunce al giorno. La trappola di siti e social media di Fiorenza Sarzanini Crescono le violenze compiute in gruppo IL GAZZETTINO Pag 1 Il caos della Libia e i rischi per l’Italia di Alessandro Orsini Pag 27 Dai migranti al petrolio il ruolo di Tripoli di Marco Ventura LA NUOVA Pag 1 L’Europa muore ma intanto si occupa dell’ora legale di Francesco Jori CORRIERE DELLA SERA di domenica 2 settembre 2018 Pag 1 L’Europa e le urne nel destino di Franco Venturini Per cosa voteremo Pag 30 Rifiutare la competenza, un’idea falsa di democrazia di Giovanni Belardelli Una parte del Paese considera la valutazione delle capacità di una singola persona come una forma di discriminazione o un atto di autoritarismo AVVENIRE di domenica 2 settembre 2018 Pag 1 L’inferno delle madri di Marina Corradi Vita e morte di profughi e migranti Pag 7 Intimidire i benefattori non è un’opzione. Agisca chi ha il dovere IL GAZZETTINO di domenica 2 settembre 2018 Pag 1 La missione a Pechino è soltanto la prima tappa di Romano Prodi Pag 5 Migranti, sei italiani su dieci bocciano l’indagine dei pm di Diodato Pirone Oltre la metà degli elettori favorevoli al blocco della Diciotti a Catania LA NUOVA di domenica 2 settembre 2018

Pag 1 Propaganda e questioni ineludibili di Fabio Bordignon Pag 1 Le barricate dei leghisti di Gianpiero Dalla Zuanna CORRIERE DELLA SERA di sabato 1 settembre 2018 Pag 1 I pericoli del legame con Mosca di Angelo Panebianco Noi e l’Occidente Pag 13 E Benjamin Franklin pensò: “Svegliamo tutti prima per risparmiare candele” di Michele Farina Il tecnocrate populista e la (poca) democrazia AVVENIRE di sabato 1 settembre 2018 Pag 1 Un gran vuoto verde di Massimo Calvi Giornata del creato e sfida per tutti IL GAZZETTINO di sabato 1 settembre 2018 Pag 1 Nazionalizzare, a chi serve lo Stato padrone di Luca Ricolfi Pag 1 Il governo dei due piloti e la frenata di Conte di Bruno Vespa LA NUOVA di sabato 1 settembre 2018 Pag 1 La difficile convivenza del potere di Bruno Manfellotto Pag 6 Il disegno sovranista tra autolesionismo e consenso di Marco Orioles

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 1 settembre 2018 Pag XIV Padre Bolis lascia Altobello: “Grazie per questi 11 anni” di Alvise Sperandio Mestre. «Lascio una comunità viva, appassionata, ricca di umanità, che non dimenticherò». Padre Ottavio Bolis lascia Altobello dopo undici anni e si trasferisce a Treviso. Sarà parroco a Santa Fosca, rettore del santuario di Santa Maria Maggiore noto come Madonna Granda - e superiore della comunità del posto dei Somaschi, sotto la cui competenza passa la stessa comunità mestrina. La chiesa della Madonna Pellegrina, infatti, cessa di essere autonoma ma comunque continuerà ad essere composta da quattro religiosi tra cui il nuovo parroco designato, il piemontese padre Adriano Serra che arriva da Taranto. Padre Bolis, originario di Lecco, 60 anni e sacerdote da 32, era giunto a Mestre a fine estate 2007: si congederà a metà del mese. «Il Signore non è scappato scherza, ma neanche tanto. Sono stati anni intensi, io non ho meriti, sono stato solo uno strumento delle tantissime cose fatte insieme ai miei confratelli e alla gente. Ho incontrato persone molto accoglienti, disponibili, generose, che non mi hanno mai fatto mancare affetto e vicinanza. Il bilancio è senz'altro positivo». In questo decennio Altobello è cambiato grazie al contratto di quartiere che l'ha trasformato, ma il processo non si è ancora concluso, con le abitazioni del Campo dei Sassi e delle Tettoie ancora non consegnate e c'è chi, tra i cittadini del comitato, comincia a pensare all'abbattimento della Nave di via dello Squero come simbolo massimo del riscatto dal degrado. «La riqualificazione parte dalle persone prima ancora che dalle strade spiega padre Bolis . Non ho titoli per parlare di urbanistica, il mio compito è di occuparmi delle coscienze e della crescita nella fede. Posso dire, però, che le difficoltà non mancano, ci sono situazioni a cui mettere mano, ma qui non ci sono persone di serie B: ci sono uomini e donne che sanno dare tanto com'è stato nei miei confronti». Per il religioso i tre perni dell'azione pastorale sono stati la scuola materna («punto di riferimento per il

quartiere»), il patronato sempre molto frequentato da bambini e ragazzi («ne abbiamo avuti un centinaio al Grest») e la mensa Miani per i poveri «che funziona grazie alla Provvidenza e ai volontari, servendo 40 coperti ogni giorno a pranzo, senza ricevere alcun contributo pubblico». E conclude il sacerdote: «La domenica la chiesa è sempre piena per la messa e questo fa ben sperare, anche se la scristinanizzazione si fa sentire: basti dire che non quest'anno non è stato celebrato neppure un matrimonio». Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA IL GAZZETTINO Pag 11 Viganò, il Vaticano cambia strategia: un memo per rispondere all’ex nunzio di Franca Giansoldati Città del Vaticano. Papa Francesco si è scagliato contro l'ipocrisia nella Chiesa. Nel mirino sono finiti gli scribi e i farisei di biblica memoria. Il riferimento ispirato dalla pagina del Vangelo di Marco letta ieri in tutte le chiese ha immediatamente rimandato, come un effetto pavloviano, alle ultime rumorose vicende che stanno travolgendo il pontificato, tra accuse, contro-accuse e inedite richieste di dimissioni. Finora Papa Francesco ha scelto di non proferire una sillaba sul memoriale diffuso urbi et orbi dall'ex nunzio negli Stati Uniti, Carlo Maria Viganò nonostante la pesante critica a non essersi mosso con solerzia per rimuovere McCarrick, l'ex cardinale con il brutto vizio di molestare i seminaristi della diocesi di Washington. Ha optato per la via del silenzio probabilmente dando ascolto ai consiglieri del suo staff che, ancora nei giorni scorsi, suggerivano di minimizzare e non rispondere nella speranza di veder sgonfiare la bufera sollevata da Viganò. All'inizio erano in molti in Vaticano a pensare si potesse gestire facilmente in questo modo ma levata di scudi e il tenore della reazione negli Stati Uniti ha indotto a riflettere. LA SCELTA - La questione non solo non accenna a calmarsi ma ha centrato ancora il nervo scoperto della pedofilia al quale si è inserita una seconda feroce polemica, quella relativa alla presenza di una lobby gay nella Chiesa, tra le fila degli ecclesiastici, che rimanderebbe addirittura allo stesso McCarrick (sempre secondo le accuse). Mentre le polemiche infuriano e l'opinione pubblica fatica a comprendere questa sostanziale opacità, in Vaticano si è iniziato a riflettere seriamente sulla necessità di rispondere punto su punto al dossier. Liquidare un caso talmente complesso come questo con una sola frase pronunciata in aereo di ritorno dall'Irlanda («Non dirò una parola al momento, intanto fate voi un giudizio») non ha di certo aiutato. Il sito, molto vicino al Vaticano, Il Sismografo, sempre piuttosto ben informato, anche ieri metteva in evidenza che il Papa darà risposta a Carlo Maria Viganò e forse lo farà nei prossimi giorni. «Ovviamente non sarà una dichiarazione-risposta di Francesco». Si tratterebbe di un memo ufficiale che dovrebbe fare chiarezza sui punti centrali sollevati, compreso l'affaire McCarrick. Il comunicato della Santa Sede toglierebbe sicuramente la castagne dal fuoco a Papa Francesco visto che fra pochi giorni, dal 22 al 25 settembre, farà visita ai Paesi Baltici e al suo ritorno lo aspetta la solita conferenza stampa dove verrà interpellato non solo su McCarrick ma pure sulla pedofilia e sulla lobby gay. LA RACCOLTA FIRME - Una parola del Papa potrebbe mettere fine al gioco degli equivoci e determinare una volta per tutte la verità senza aspettare che negli Usa lo scandalo originato dalle esternazioni di Viganò possa aumentare i danni. Nella diocesi di Washington sono già iniziate le raccolte di firme per cacciare l'attuale cardinale, Wuerl, visto che aveva dato il permesso a McCarrick di trasferirsi in una residenza accanto ai seminaristi, nonostante fossero iniziate le inchieste per alcuni abusi. Lo scandalo pedofilia è evidentemente esploso ai piani alti della Chiesa e la domanda è come sia stato possibile farlo cardinale. LA PREGHIERA - All'Angelus Papa Francesco ha riflettuto sul ruolo di scribi e farisei, ossia coloro che «stravolgono la volontà di Dio trascurando i suoi comandamenti per osservare le tradizioni umane». Non ha fatto riferimenti specifici, parlava in generale. «Il racconto evangelico si apre con l'obiezione che gli scribi e i farisei rivolgono a Gesu, accusando i suoi discepoli di non seguire i precetti rituali secondo le tradizioni. In questo

modo, gli interlocutori intendevano colpire l'attendibilita e l'autorevolezza di Gesu come Maestro». Non c'erano riferimenti alla guerra in corso ma la riflessione biblica sembra ritagliarsibene alle cronache. AVVENIRE di domenica 2 settembre 2018 Pag 5 “L’acqua, bene da garantire a tutti” Il Messaggio del Papa per la Giornata mondiale del creato: sia salvaguardato chi fugge e rischia la vita sulle onde Ieri la Chiesa ha celebrato la quarta Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato istituita da papa Francesco nel 2015. La Sala Stampa vaticana ha diffuso il Messaggio del Pontefice che quest’anno ha per tema “L’acqua, particolarmente in due aspetti: il rispetto dell’acqua come elemento prezioso e l’accesso all’acqua come diritto umano”. L’impegno alla tutela del creato è stato al centro ieri mattina anche dell’udienza del Papa a un centinaio di imprenditori partecipanti a un incontro sulla Laudato si’. «Ognuno di noi – ha detto Francesco – ha una responsabilità per gli altri e per il futuro del nostro pianeta. In modo simile l’economia deve servire all’uomo, non sfruttarlo e derubarlo delle sue risorse». Di seguito il Messaggio per la Giornata. Cari fratelli e sorelle! In questa Giornata di Preghiera desidero anzitutto ringraziare il Signore per il dono della casa comune e per tutti gli uomini di buona volontà che si impegnano a custodirla. Sono grato anche per i numerosi progetti volti a promuovere lo studio e la tutela degli ecosistemi, per gli sforzi orientati allo sviluppo di un’agricoltura più sostenibile e di un’alimentazione più responsabile, per le varie iniziative educative, spirituali e liturgiche che coinvolgono nella cura del creato tanti cristiani in tutto il mondo. Dobbiamo riconoscerlo: non abbiamo saputo custodire il creato con responsabilità. La situazione ambientale, a livello globale così come in molti luoghi specifici, non si può considerare soddisfacente. A ragione è emersa la necessità di una rinnovata e sana relazione tra l’umanità e il creato, la convinzione che solo una visione dell’uomo autentica e integrale ci permetterà di prenderci meglio cura del nostro pianeta a beneficio della presente e delle future generazioni, perché «non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia» (Lett. enc. Laudato si’, 118). In questa Giornata Mondiale di Preghiera per la cura del creato, che la Chiesa Cattolica da alcuni anni celebra in unione con i fratelli e le sorelle ortodossi, e con l’adesione di altre Chiese e Comunità cristiane, desidero richiamare l’attenzione sulla questione dell’acqua, elemento tanto semplice e prezioso, a cui purtroppo poter accedere è per molti difficile se non impossibile. Eppure, «l’accesso all’acqua potabile e sicura è un diritto umano essenziale, fondamentale e universale, perché determina la sopravvivenza delle persone, e per questo è condizione per l’esercizio degli altri diritti umani. Questo mondo ha un grave debito sociale verso i poveri che non hanno accesso all’acqua potabile, perché ciò significa negare ad essi il diritto alla vita radicato nella loro inalienabile dignità» (ibid., 30). L’acqua ci invita a riflettere sulle nostre origini. Il corpo umano è composto per la maggior parte di acqua; e molte civiltà, nella storia, sono sorte in prossimità di grandi corsi d’acqua che ne hanno segnato l’identità. È suggestiva l’immagine usata all’inizio del Libro della Genesi, dove si dice che alle origini lo spirito del Creatore «aleggiava sulle acque» (1,2). Pensando al suo ruolo fondamentale nel creato e nello sviluppo umano, sento il bisogno di rendere grazie a Dio per “sorella acqua”, semplice e utile come nient’altro per la vita sul pianeta. Proprio per questo, prendersi cura delle fonti e dei bacini idrici è un imperativo urgente. Oggi più che mai si richiede uno sguardo che vada oltre l’immediato (cfr Laudato si’, 36), al di là di «un criterio utilitarista di efficienza e produttività per il profitto individuale» (ibid., 159). Urgono progetti condivisi e gesti concreti, tenendo conto che ogni privatizzazione del bene naturale dell’acqua che vada a scapito del diritto umano di potervi accedere è inaccettabile. Per noi cristiani, l’acqua rappresenta un elemento essenziale di purificazione e di vita. Il pensiero va subito al Battesimo, sacramento della nostra rinascita. L’acqua santificata dallo Spirito è la materia per mezzo della quale Dio ci ha vivificati e rinnovati, è la fonte benedetta di una vita che più non muore. Il Battesimo rappresenta anche, per i cristiani di diverse confessioni, il punto di partenza reale e irrinunciabile per vivere una fraternità sempre più autentica lungo il

cammino verso la piena unità. Gesù, nel corso della sua missione, ha promesso un’acqua in grado di placare per sempre la sete dell’uomo (cfr Gv 4,14) e ha profetizzato: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva» (Gv 7,37). Andare a Gesù, abbeverarsi di Lui significa incontrarlo personalmente come Signore, attingendo dalla sua Parola il senso della vita. Vibrino in noi con forza quelle parole che Egli pronunciò sulla croce: «Ho sete» (Gv 19,28). Il Signore chiede ancora di essere dissetato, ha sete di amore. Ci chiede di dargli da bere nei tanti assetati di oggi, per dirci poi: «Ho avuto sete e mi avete dato da bere» (Mt 25,35). Dare da bere, nel villaggio globale, non comporta solo gesti personali di carità, ma scelte concrete e impegno costante per garantire a tutti il bene primario dell’acqua. Vorrei toccare anche la questione dei mari e degli oceani. È doveroso ringraziare il Creatore per l’imponente e meraviglioso dono delle grandi acque e di quanto contengono (cfr Gen 1,20-21; Sal 146,6), e lodarlo per aver rivestito la terra con gli oceani (cfr Sal 104,6). Orientare i nostri pensieri verso le immense distese marine, in continuo movimento, rappresenta, in un certo senso, anche un’opportunità per pensare a Dio che costantemente accompagna la sua creazione facendola andare avanti, mantenendola nell’esistenza (cfr S. Giovanni Paolo II, Catechesi, 7 maggio 1986). Custodire ogni giorno questo bene inestimabile rappresenta oggi una responsabilità ineludibile, una vera e propria sfida: occorre fattiva cooperazione tra gli uomini di buona volontà per collaborare all’opera continua del Creatore. Tanti sforzi, purtroppo, svaniscono per la mancanza di regolamentazione e di controlli effettivi, specialmente per quanto riguarda la protezione delle aree marine al di là dei confini nazionali (cfr Laudato si’, 174). Non possiamo permettere che i mari e gli oceani si riempiano di distese inerti di plastica galleggiante. Anche per questa emergenza siamo chiamati a impegnarci, con mentalità attiva, pregando come se tutto dipendesse dalla Provvidenza divina e operando come se tutto dipendesse da noi. Preghiamo affinché le acque non siano segno di separazione tra i popoli, ma di incontro per la comunità umana. Preghiamo perché sia salvaguardato chi rischia la vita sulle onde in cerca di un futuro migliore. Chiediamo al Signore e a chi svolge l’alto servizio della politica che le questioni più delicate della nostra epoca, come quelle legate alle migrazioni, ai cambiamenti climatici, al diritto per tutti di fruire dei beni primari, siano affrontate con responsabilità, con lungimiranza guardando al domani, con generosità e in spirito di collaborazione, soprattutto tra i Paesi che hanno maggiori disponibilità. Preghiamo per quanti si dedicano all’apostolato del mare, per chi aiuta a riflettere sui problemi in cui versano gli ecosistemi marittimi, per chi contribuisce all’elaborazione e all’applicazione di normative internazionali concernenti i mari che possano tutelare le persone, i Paesi, i beni, le risorse naturali – penso ad esempio alla fauna e alla flora ittica, così come alle barriere coralline (cfr ibid., 41) o ai fondali marini – e garantire uno sviluppo integrale nella prospettiva del bene comune dell’intera famiglia umana e non di interessi particolari. Ricordiamo anche quanti si adoperano per la custodia delle zone marittime, per la tutela degli oceani e della loro biodiversità, affinché svolgano questo compito responsabilmente e onestamente. Infine, abbiamo a cuore le giovani generazioni e per esse preghiamo, perché crescano nella conoscenza e nel rispetto della casa comune e col desiderio di prendersi cura del bene essenziale dell’acqua a vantaggio di tutti. Il mio auspicio è che le comunità cristiane contribuiscano sempre di più e sempre più concretamente affinché tutti possano fruire di questa risorsa indispensabile, nella custodia rispettosa dei doni ricevuti dal Creatore, in particolare dei corsi d’acqua, dei mari e degli oceani. Dal Vaticano, 1° settembre 2018 Francesco Pag 17 Viganò insiste, gli episcopati rispondono di Stefania Falasca Argentina, Perù e Spagna con Francesco. E il cardnale Wuerl chiede perdono Sul caso dello “sporporato” McCarrick è affiorata in questi giorni una fila di video, fotografie, articoli e comunicati che mostrano la grande libertà di azione di cui ha goduto l’ex arcivescovo di Washington negli anni precedenti l’attuale pontificato. Il materiale documentale in questione mostra inequivocabilmente come, oltre a incontrare in Vaticano tre volte Benedetto XVI, l’ex cardinale – accusato di abusi e comportamenti

gravemente immorali e al quale l’attuale Papa, con un’azione senza precedenti, il 27 luglio ha tolto d’imperio la berretta cardinalizia – abbia celebrato in San Pietro, ordinato diaconi a fianco dell’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede William Levada e ricevuto anche congratulazioni pubbliche da parte di monsignor Carlo Maria Viganò durante una cena di gala a Manhattan nel 2012. Apprezzamenti dunque proprio da quello stesso ex nunzio che, come è noto, con il suo “comunicato” di domenica scorsa ha chiesto a gran voce le dimissioni di papa Francesco per presunte coperture accordate all’ex cardinale statunitense, a suo dire già colpito da sanzioni da parte di papa Benedetto XVI. Messo di fronte a questo materiale Viganò ha ritenuto di replicare. E lo ha fatto nelle ultime ore con un intervento di suo pugno nel quale muove nuove accuse a Francesco di aver «voluto nascondere l’udienza privata con la prima cittadina americana condannata e imprigionata per obiezione di coscienza », Kim Davis: un episodio interpretato strumentalmente, che dalla semplice lettura della denuncia risulta enfatizzato e distorto. Ma l’ex nunzio non si ferma qui e in un’intervista a LifeSiteNews, sito americano ultraconservatore, interviene sul video del Catholic News Service (Cns) che mostra McCarrick durante una visita ad limina a Roma nel gennaio 2012 e l’incontro con papa Ratzinger nella quale il com- portamento di pieno agio del cardinale sembra quello di chi non avesse ricevuto alcuna sanzione. «Ma lei – dice Viganò – riesce a immaginare papa Benedetto così mite che chiede al cardinale: “Cosa stai facendo qui?”». Per l’ex diplomatico semplicemente McCarrick in quell’occasione non stava obbedendo alle restrizioni imposte. E la spiegazione che fornisce è che papa Ratzinger probabilmente non voleva umiliare pubblicamente il cardinale molestatore anche perché era già pensionato. Viene quindi il turno di un altro video che mostra Viganò all’incontro delle Pontificie Opere Missionarie in perfetta armonia insieme a McCarrick. L’ex nunzio, dopo aver spiegato che non aveva potuto rinunciare a quell’evento, risponde: «Non potevo certo dire: “Cosa stai facendo qui?”. Nessuno sapeva delle sanzioni, erano sanzioni comunicate all’interessato in modo privato». McCarrick, dunque, non soltanto non sarebbe stato tenuto a informare nessuno di queste presunte restrizioni ma non ne tenne affatto conto continuando a mantenere il suo abituale profilo pubblico. In sostanza l’ex nunzio ha dichiarato di aver avuto le mani legate perché non era lui ad avere la responsabilità di far rispettare queste sanzioni, in quanto personali e «segrete», e ha riconosciuto che McCarrick effettivamente, come è lampante, «non obbedì» a queste, mai comunque tramutate operativamente in provvedimenti pubblici, come invece quelli comminati da papa Francesco che lo sono stati immediatamente, perché tutti sapessero che l’anziano cardinale era stato sanzionato dopo l’emergere di una fondata denuncia di abuso su un minore. Quale sarebbe allora la considerazione e il peso da attribuire a queste supposte sanzioni che papa Ratzinger avrebbe comminato al cardinale e sulle quali Vi- ganò insiste ma che non ottennero alcun effetto, dato che Mc-Carrick continuò a viaggiare e a presiedere celebrazioni? Anche questa nuova intervista costituisce un ulteriore elemento che fa emergere la strumentalità dell’operazione e aumenta le riserve sull’intera vicenda. Intanto l’attuale arcivescovo di Washington, il cardinale Donald Wuerl – a sua volta accusato da Viganò di aver coperto il suo predecessore –, in una lettera al clero della diocesi chiede perdono per i suoi «errori di giudizio». Mentre affronta la pressione dell’opinione pubblica, il porporato chiede ai preti di comunicare ai parrocchiani durante la Messa festiva di oggi che condivide «il loro dolore per gli abusi sessuali su minori da parte di sacerdoti e degli insabbiamenti da parte dei vescovi». «Darei qualsiasi cosa per fare in modo che la Chiesa faccia tutto nel modo giusto – scrive Wuerl – ma mi unisco a loro nel dolore per tutto quello che è successo». L’eco delle accuse dell’ex nunzio negli Usa ha spinto le conferenze episcopali di tre Paesi a dare sostegno a papa Francesco con lettere e messaggi. La Conferenza episcopale spagnola ha diffuso una dichiarazione sul suo sito web. «Chiediamo al Signore di continuare a sostenerti nelle battaglie quotidiane» è scritto nella lettera inviata dal cardinale Ricardo Blazquez di Valladolid, presidente della Conferenza episcopale spagnola a nome di tutti i vescovi. Un’altra dichiarazione arriva dall’Argentina, con la Conferenza episcopale che definisce «spietati» gli attacchi contro il Pontefice e gli esprime «fraterna e filiale» vicinanza. Anche i vescovi del Perù manifestano il loro sostegno per il modo coraggioso e risoluto mostrato dal Papa al timone della barca di Pietro «di fronte ai tentativi di destabilizzare la Chiesa», perché è «Colui che sostiene la roccia sulla quale ha costruito la sua Chiesa – scrivono in una lettera – che continuerà a

spingerci in avanti, in modo che pieni di speranza continueremo a lavorare con maggiore energia al servizio del popolo di Dio». CORRIERE DELLA SERA di domenica 2 settembre 2018 Pag 21 “Adesso è chiaro che sono innocente. Se il Papa vuole, torno al mio posto” di Luigi Accattoli Milone, il Revisore licenziato un anno fa «Nel mese di maggio i miei avvocati furono convocati per essere informati che il mese precedente, su richiesta del Promotore di Giustizia, il Presidente del Tribunale vaticano aveva archiviato il mio caso»: parte da qui l’intervista con Libero Milone a un anno dalla cacciata e a tre mesi dalla caduta delle accuse che gli erano state mosse. L’Ufficio del Revisore Generale, del quale era stato per due anni il primo titolare, è ancora vacante. Milone non recrimina e non accusa, ma con questa intervista si appella al Papa dicendosi disponibile a tornare al suo posto e a riprendere il lavoro dove l’aveva lasciato. Lei era stato accusato di fatti gravissimi e ora la notizia dell’archiviazione: come spiega questo andamento delle cose? «È risultata chiara la mia innocenza, da me sempre affermata, rispetto alle accuse che mi erano state rivolte, di avere pagato false fatture e, ancora peggio, di avere compiuto illegalmente attività di spionaggio nei confronti di alti prelati del Vaticano. Sono contento di come si è evoluta la vicenda. Ho sempre lavorato nel pieno rispetto delle leggi e della deontologia professionale. Mi aveva sorpreso l’avvio di un procedimento penale nei miei confronti e mi addolorava pensare che il Santo Padre avesse perso la fiducia nei miei riguardi, come mi era stato detto». Ma allora si è trattato di un bluff o di una messinscena? «Non ho elementi per dire questo. In Vaticano, come in altri ordinamenti, vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale: se sono stati riportati certi fatti al Promotore di Giustizia, seppure poi risultati insussistenti, questo aveva il dovere di agire nei miei confronti. Ma era anche un mio diritto quello di difendermi da accuse tanto gravi quanto infondate. Naturalmente durante il nostro lavoro furono riscontrati errori e anomalie, però, puntualmente riferite ai responsabili degli Enti stessi per consentire di superare i problemi riscontrati. È anche vero che il risultato del lavoro di un revisore può creare qualche malumore in alcune occasioni: a nessuno piace sentirsi dire che ha sbagliato! Ci vuole tempo per assimilare certi cambiamenti e le persone chiamate ad attuarli». Pensa che qualcuno abbia voluto metterla in difficoltà? Ci sono persone in Vaticano che ce l’avevano con lei? «Non lo posso sapere e non mi sento di puntare il dito contro nessuno. Penso piuttosto che non sia stato ben compreso il lavoro del Revisore Generale, di fatto equiparabile alla Corte dei Conti, presente in Italia e in altri Paesi come la Francia e la Germania, oppure all’Auditor General dei Paesi anglosassoni, o al Comptroller General che opera in altri. Hanno tutti in comune il compito di vigilare sulla gestione delle pubbliche amministrazioni. Ma, mentre questi organi in altri Paesi funzionano già da molto tempo, in Vaticano l’introduzione di una simile figura è avvenuta solo nel 2015 per volere di papa Francesco». Che anno è stato per lei questo dell’allontanamento e dell’inchiesta? «Molto duro, per me e per la mia famiglia. Quelle accuse hanno avuto una ricaduta pesante anche sul piano lavorativo. Per incarichi che avrei potuto assumere a livello internazionale mi sono sentito dire che sarebbe stato difficile giustificare la scelta di una persona qualificata ma anche chiacchierata per via delle vicende vaticane. Anche per questo, per salvaguardare la mia immagine professionale, ho lavorato con i miei legali, gli avvocati Lorenzo Fiorani e Gianfranco Di Simone, per fare emergere a tutti i costi la verità su di me e sull’ufficio che ricoprivo». Ci sono voci su varie iniziative di riforma delle istituzioni vaticane e su cambiamenti anche nel settore economico: lei che cosa ne sa? «Stando fuori non sono aggiornato. Ero a conoscenza che tra il 2018 e il 2019 sarebbe stata definita la nuova costituzione di riforma della Curia ma non penso che questo riguarderà i nuovi organismi attivati dal Papa nel 2014 riguardanti l’economia. Per quanto riguarda l’area dove operavo io, ritengo che gli statuti del Consiglio per

l’Economia, della Segreteria per l’Economia e del Revisore Generale potrebbero essere migliorati ma non sostanzialmente modificati». In un’intervista recente alla Reuters il Papa si diceva preoccupato della gestione degli immobili da parte dell’Apsa: lei ne sa qualcosa? «Posso solo dire che l’argomento era stato portato alla sua attenzione». Un anno addietro lei dichiarò che sarebbe tornato volentieri a fare il suo lavoro. Lo pensa ancora? «Lo penso ancora. Non mi piace lasciare le cose incomplete e considero un privilegio contribuire al rinnovamento del sistema amministrativo gestionale dello Stato della Città del Vaticano, ma come può immaginare questo ritorno non dipende da una mia decisione. Avevo auspicato che il Papa potesse approfondire la questione e mi pare che sia successo proprio questo e di ciò sono soddisfatto. Penso che un mio eventuale rientro possa essere utile non solo per dare continuità al lavoro iniziato ma soprattutto per consolidare una istituzione nuova che necessita di essere portata verso un regime di normalità». IL GAZZETTINO di domenica 2 settembre 2018 Pag 11 Viganò attacca ancora il Papa: “Bugie sul viaggio negli Usa” di Franca Giansoldati E da due vescovi parte la richiesta di cancellare il Sinodo dei giovani Città del Vaticano. Ottavo: non dire falsa testimonianza. La guerra per fare dimettere Papa Francesco ieri mattina si è arricchita di un altro tassello con la fuoriuscita di una nuova esternazione da parte di Carlo Maria Viganò, l'ex nunzio negli Stati Uniti che fino a due anni fa aveva accesso a tutto il materiale riservato della Santa Sede riguardante i profili personali di vescovi e cardinali americani. Va da sé che per il suo ruolo resta una fonte primaria a conoscenza dei retroscena di tanti episodi. Uno di questi ha come oggetto Papa Francesco e la sua visita a Philadelphia in occasione dell'incontro mondiale con le famiglie. LA DETENUTA-SIMBOLO - Siamo nel 2015 e durante quei giorni Viganò, d'accordo con i collaboratori papali, organizzò per il pontefice un incontro super riservato in nunziatura con la signora Kim Davis, la funzionaria americana finita in carcere per essersi rifiutata di celebrare i matrimoni gay, rivendicando il diritto all'obiezione di coscienza. La visita era destinata a restare un incontro privato ma nei giorni successivi la notizia è fuoriuscita sollevando un polverone di proporzioni bibliche, visto che per tanti cattolici la Davis resta la bandiera di una fede coerente, mentre per la comunità gay un funzionario da rimuovere. Quando quel colloquio è venuto alla luce ha irritato tantissimo la comunità gay. Viganò racconta che Papa Francesco in seguito ha sorprendentemente negato quell'udienza aggiungendo che la signora Davis non la conosceva affatto e che forse la aveva occasionalmente incontrata assieme ad altri ma per stringerle solo la mano. In questa guerra mediatica senza esclusione di colpi bassi, dove tutto è giocato a chi riesce a mettere in risalto incongruenze, bugie, contraddizioni anche questo particolare arricchisce la narrazione bellica. Una altra insinuazione che alimenta lo stordimento dell'opinione pubblica. Chi dice bugie? L'arcivescovo Viganò spiega che fu lui stesso a provvedere al colloquio con l'entourage papale che seguiva ogni momento e pianificava l'agenda del pontefice. «Quello che è certo è che il Papa sapeva benissimo chi fosse la Davis» ed «è comunque evidente che abbia voluto nascondere l'udienza privata con la prima cittadina americana condannata per obiezione di coscienza». La Sala Stampa Vaticana emise infatti un comunicato per smentire che il Papa avesse ricevuto in «udienza privata la Davis, e che al massimo avrebbe potuto averla salutata tra molte altre persone prima di partire per New York». A WASHINGTON - Anche stavolta Viganò ha deciso di raccontare come si sono svolti i fatti a distanza di anni. Un nuovo colpo assestato per indebolire il pontificato. Intanto negli Usa lo scontro è arrivato a investire il cardinale di Washington, Donald Wuerl, poiché avrebbe dato coperture a McCarrick, l'ex cardinale americano che abusava dei seminaristi. Da alcuni giorni Wuerl non si fa vedere da nessuna parte, ha cancellato impegni pubblici e, secondo indiscrezioni, avrebbe convocato i consultori della sua diocesi per valutare assieme a loro, se dimettersi o meno. Nel frattempo la diocesi ha confermato che ai suoi seminaristi era permesso di servire come assistenti McCarrick

nonostante quest'ultimo fosse sotto inchiesta per accuse di abuso sessuale. Un particolare che ha indotto l'arcivescovo di Philadelphia, Charles Chaput a scrivere a Francesco per suggerirgli di cancellare il prossimo Sinodo sui Giovani che si dovrebbe aprire in autunno. «Mi chiedo che credibilità possono avere i vescovi in questo momento a parlare di giovani e a trattare questo argomento». Si tratta di una proposta molto simile a quella fatta a Bergoglio dal vescovo inglese Philip Egan di Portsmouth, che ha proposto un sinodo straordinario dedicato alla vita sacerdotale e agli abusi sessuali da parte del clero. AVVENIRE di sabato 1 settembre 2018 Pag 2 Il furore senza verità di chi muove all’attacco della Chiesa e del Papa di Salvatore Mazza L’autore dell’articolo uscito su 'La verità' che, domenica scorsa, ha reso pubblico il documento con cui l’ex nunzio Carlo Maria Viganò muove a tre Papi accuse lunari di aver 'coperto' l’ex cardinale Mc-Carrick oggi sotto processo e chiede le dimissioni di papa Francesco che proprio a McCarrick ha tolto la porpora, quello stesso giorno, sul suo blog personale, scriveva una cosa piuttosto interessante. «La denuncia – riportiamo testualmente quanto Stefania Falasca ha già documentato su queste pagine – è contenuta, insieme a molti altri dettagli, in un documento-testimonianza di dieci pagine... sul quale abbiamo lavorato insieme». Il giorno dopo sullo stesso blog compariva un articolo di uno dei tanti corrispondenti (tutti rigorosamente anonimi) del titolare, che decantava la rettitudine dell’arcivescovo in questione - sulla quale erano stati subito mossi rilievi sulla base dei precedenti di Viganò. Tutto questo mentre, contemporaneamente, il titolare di un altro blog, su cui era pure stato pubblicato il memoriale, raccontava dei suoi incontri con Viganò parlandone come di un «nonno» unicamente preoccupato del «bene della Chiesa». E ancora il giorno dopo lo stesso blogger lo intervistava, facendo molte domande tranne quelle che sarebbero state giuste. Sulla totale inconsistenza e inattendibilità delle accuse di Viganò, e sulla sua da tempo naufragata credibilità personale, in questa settimana passata è stato scritto già tutto. Ma che vuol dire quel «ci abbiamo lavorato insieme», nuovamente confermato due giorni dopo dallo stesso giornalista? E i due contemporanei peana sulla figura di Viganò del giorno successivo? E tutto il resto? Ci dice abbastanza chiaramente che tutto questo chiasso è stato pianificato con attenzione dai ben noti settori anti-Francesco (che alla fine sono, sì, rumorosi, ma sempre i classici quattro gatti restano...), solo per gettare veleno nel pozzo. Per calunniare, per usare il verbo giusto. Esistono infatti, nel giornalismo, delle regole precise: una di quelle fondamentali è che se non ci sono riscontri, non pubblichi. Nella lettera di Viganò si parla di cose che sarebbero avvenute, di missive inviate a questo e a quello, di punizioni 'segrete', di colloqui eccetera, senza però che nessuno di questi episodi riferiti sia in alcun modo riscontrabile. Qualcosa di cui anche un praticante di questo mestiere alle prime armi si accorgerebbe. E allora come mai giornalisti navigati hanno deciso di pubblicare la lettera in questione e il coestensore ha osato riempire di contumelie la collega Falasca che ha inciso a fondo questo maligno 'bubbone' con un fondo su 'Avvenire'? La risposta, purtroppo tristissima, è che è stato fatto apposta. Perché nel furore antipapale di questi gruppetti – attivi in Italia e Nord America soprattutto) – il concetto di verità (secondo il costume di uno dei loro fogli di riferimento) è un qualcosa che può essere liberamente e sistematicamente manipolato e calpestato, per tentare di infangare minare l’autorità di Francesco. Tutto è concepito per restare nel limbo della chiacchiera social, dove non conta l’oggettività, ma la soggettività: e così per ogni smentita che dovesse arrivare su questa o quella cosa raccontata da Viganò, in virtù della tecnica maligna con cui la lettera è stata pensata e scritta c’è già pronta la risposta – 'Beh, per forza che smentiscono, ma...' – per trasformare questa evenienza in un’ulteriore occasione per inquinare le acque. Anzi, in qualche modo ci sperano. Perché il punto, alla fine, è proprio questo. Chi ha gli strumenti adatti per poter valutare e giudicare questo tipo di vergognose operazioni? Perché non è la prima volta che ci provano, l’hanno già fatto in due o tre occasioni, a cominciare con i famosi dubia proposti come trappola a Francesco. Tutti buchi nell’acqua. Eppure questi subdoli eppure grossolani tentativi si rinnovano, sparsi come un lento veleno, con l’obiettivo di generare nella gente semplice un dubbio, un

retropensiero, persino un’angoscia. Questo, e niente altro, vuol dire quel «ci abbiamo lavorato» e tutto il resto. Francesco, e con lui la Chiesa, vincerà di bene anche questa cattiveria che si alimenta di calunnie e insinuazioni. Ma chi lavora per alimentare un clima di divisione e sconcerto dovrebbe finalmente vergognarsi. E cambiare mestiere. Pag 17 “Matrimoni ad Assisi? Meglio celebrarli nelle parrocchie” di Antonella Porzi Il vescovo Sorrentino: le chiese non siano scelte solo per estetica Assisi. Assisi meta di sposi provenienti da tutto il mondo. È un vero e proprio boom di coppie da fuori diocesi che vengono a suggellare la loro unione nella città del Poverello. Tanto che il vescovo diocesano, l’arcivescovo Domenico Sorrentino mette qualche paletto e cerca di fare chiarezza. È un boom percepibile anche dai numeri: dall’inizio dell’anno ad oggi, secondo l’ultima statistica della cancelleria diocesana sono stati celebrati 69 matrimoni diocesani (compresi quelli di Nocera Umbra e Gualdo Tadino) e ben 90 di fedeli da altre regioni o stranieri che hanno scelto la Basilica di San Francesco, l’abbazia di San Pietro, la cattedrale di San Rufino, il Santuario della Spogliazione e altre chiese assisane per il loro sì. Monsignor Sorrentino, non pensa che qualcuno potrebbe dire che la Chiesa è poco accogliente perché rifiuta di far celebrare ad Assisi matrimoni di fedeli da fuori diocesi? Non è così. Si celebrano in Assisi tanti matrimoni di fedeli che vengono da fuori diocesi e persino da fuori Italia. Ma c’è una regolamentazione, precisata nel Sinodo diocesano, e dettata da buone ragioni pastorali. Ci si richiama, sostanzialmente, a quanto è stabilito nel Codice di diritto canonico e nel Direttorio di pastorale familiare della Conferenza episcopale italiana. Può spiegarsi? Perché mettere il freno alla devozione di tanti fedeli, che vengono a giurarsi il loro amore nella città di san Francesco? I casi sono tanti. Per molti c’è soltanto un motivo estetico. Piace una chiesa, un panorama, il contesto culturale e spirituale, e si decide di venire ad Assisi. In alcuni casi è vera devozione. Ma i motivi per preferire le proprie parrocchie di origine sono importanti. Quando parlo personalmente ai futuri sposi, in genere non fanno fatica a comprendere le mie ragioni. Quali? Innanzitutto spiego che tutti i Sacramenti - dunque anche il matrimonio non sono mai un fatto puramente privato. Sono una espressione della vita ecclesiale. Nella nostra diocesi - come credo in tante altre - diamo molta importanza a questo aspetto. Cerchiamo di fare in modo che le coppie si preparino bene al matrimonio, assumendone pienamente gli impegni più esigenti come la fedeltà, l’indissolubilità e l’apertura alla vita. A questo scopo suggeriamo non solo un 'corso', ma un 'percorso', all’interno della parrocchia. Non è facile, ma ci proviamo. Quando le coppie fanno questo percorso, si ritrovano in modo naturale nel contesto della comunità, e sentono il desiderio di sposarsi non lontano, ma nel vivo della loro realtà parrocchiale, scegliendo la parrocchia dello sposo o della sposa. Meglio ancora, quando arrivano al matrimonio facendo esperienza di quelle piccole comunità familiari - ad Assisi le chiamiamo 'famiglie del Vangelo' - che saranno un sostegno al loro cammino di coppia e di famiglia nei momenti difficili. Troppi matrimoni cominciano con confetti e marce nuziali, ed entrano in crisi in poco tempo. È vero che molti dei matrimoni celebrati ad Assisi sono stati poi interessati da cause di nullità matrimoniali? È vero, ma senza esagerare. Ho conosciuto anche delle coppie che mi hanno testimoniato la bellezza della loro unione, benedetta decenni prima nella nostra città. Può tuttavia capitare che chi sceglie di venire ad Assisi, allontanandosi dalla propria comunità, spesso non ha fatto fino in fondo il cammino di preparazione. E i nodi, prima o poi, vengono al pettine. In definitiva, da fuori diocesi si può venire ancora ad Assisi a sposarsi? Certo. Lo permette il diritto canonico, come in tutte le altre diocesi. Cerchiamo però di illuminare i richiedenti sulla opportunità di celebrare il matrimonio nelle loro parrocchie di provenienza. Chiediamo inoltre, quando ci sono ragioni veramente speciali per venire da noi, il discernimento del loro vescovo o suo delegato. In questo caso possono celebrare il sacramento ad Assisi in una delle chiese parrocchiali o in alcuni santuari ben determinati.

Dunque come funziona la richiesta degli sposi e la risposta della curia? In genere, con una conversazione o una breve lettera, spieghiamo il senso della normativa, invitando gli sposi a fare bene il loro discernimento e soprattutto il loro percorso di preparazione nelle loro Chiese di provenienza. È un lavoro affidato soprattutto ai parroci. Se il motivo della richiesta è la devozione per san Francesco, si suggerisce che, celebrando il matrimonio nei loro ambienti di appartenenza, vengano ad Assisi per una Messa di ringraziamento e una benedizione speciale. Può essere proprio durante il viaggio di nozze. Quando è un no, è detto con il più grande garbo. Ma ci sono anche tanti sì, ben motivati, da ragioni che il parroco e il vescovo degli sposi garantiscono. Il matrimonio è un sacramento tanto significativo, e vorremmo che la celebrazione avvenisse per tutti all’insegna della gioia. IL FOGLIO di sabato 1 settembre 2018 Pag V La guerra civile nella Chiesa di Matteo Matzuzzi La sfida degli americani e il dossier Viganò. Niente sarà più come prima nel pontificato di Francesco Pag VI Crollano le roccaforti, è il tramonto dell’Europa cattolica di Giulio Meotti Indagine sul “vuoto dentro”. Irlanda, Baviera, Francia, Austria, Spagna: quasi espugnate anche le ultime ridotte. Resiste solo la Polonia. Quando Ratzinger disse: “C’è una città europea dove i cristiani sono soltanto l’otto per cento della popolazione” Testi non disponibili IL GAZZETTINO di sabato 1 settembre 2018 Pag 10 Pedofilia, le accuse contro il Papa lacerano la Chiesa di Franca Giansoldati Città del Vaticano. A metà strada tra la guerra civile e la maionese impazzita, prosegue con effetti collaterali devastanti l'onda d'urto provocata dalla pubblicazione del memoriale dell'ex nunzio, Carlo Maria Viganò che accusa il Papa di avere sostanzialmente coperto l'ex cardinale americano McCarrick per una vecchia storia di abusi e molestie su seminaristi. Papa Francesco anche ieri non ha fatto alcun cenno alla questione, ma negli Stati Uniti sta causando un dibattito lacerante tra i fedeli, con il rischio di importanti smottamenti tra i benefattori che garantiscono sostegno finanziario alla Santa Sede. Insomma c'è poco da stare sereni così ieri mattina la voce del cardinale Angelo Becciu, prefetto della Congregazione dei Santi, si è fatta sentire dalla Slovacchia, dove si trova per la beatificazione di Anna Kolesarova, una giovane martire, facendosi interprete di un appello all'unità. Ha chiesto il rispetto della gerarchia e la tutela per la figura del Papa che, in questo frangente, è finita nel mirino. Al centro di un dossier stilato da un ex diplomatico che ha sostanzialmente abusato della sua posizione di potere che gli permetteva l'accesso a notizie riservate della Santa Sede coperte dal segreto pontificio, in totale sprezzo alla fedeltà dovuta alla istituzione e al Papa. Non è escluso che Carlo Maria Viganò potrebbe essere oggetto di un duro provvedimento disciplinare poiché secondo il Codice di Diritto Canonico tutti coloro ammessi agli uffici della curia devono osservare il segreto. In questo caso vi sarebbe pure una aggravante, una specie di provocato allarme, visto che la divulgazione delle notizie riservate sta causando spaccature e dolore in seno alla Chiesa. L'invito di Becciu è stato diffuso da Vatican News, il portale in cinque lingue d'Oltretevere, affinché raggiungesse tutte le diocesi. I rischi legati al venir meno del piano gerarchico possono arrecare disastri all'interno sistema. «Auspico quello che abbiamo ricevuto come insegnamento fin da bambini: il Papa si ama e lo si ama fino in fondo. Dal Papa si ricevono e si accolgono tutte le sue istruzioni, indicazioni e parole. Quindi, se ci ritroviamo uniti al Papa la Chiesa si salverà. Se invece creiamo divisioni ahimè la Chiesa rischia gravi conseguenze». Di più il cardinale Becciu non ha voluto aggiungere, ma del resto sarebbe stato superfluo visto il livello feroce del dibattito. La reattività dei fedeli specie negli Usa dimostra che il sensus fidei di tante comunità è disorientato. Nessuno era preparato ad attacchi alla figura del pontefice tanto violenti. Torna al sommario

5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Non crollano solo i ponti di Alessandro D’Avenia È la prima campanella dell’anno scolastico quella che suonerà tra poco: l’ennesima promessa di un nuovo inizio, rintocco del desiderio umano che non smette mai di sperare che una vita rinnovata e più piena possa sorgere dal ripetitivo orizzonte quotidiano. Immagina, cara/o collega, di sederti al posto di un tuo studente in questo primo giorno. Guardati entrare in classe, osservati: dal portamento ai libri che hai con te. Che cosa vedi? Perché sei lì? Per chi sei lì? Perché hai scelto chimica, italiano, fisica, diritto... e hai scelto di raccontarli a una nuova generazione? Rispondi a queste domande mentre ti vedi disporre gli strumenti del mestiere sulla cattedra. Adesso ascoltati formulare l’appello. Come pronunci i nomi dei tuoi studenti? Come guardi i loro volti? E che cosa vedi sul tuo? Forse nel tuo sguardo puoi scorgere delusione e stanchezza, per un sistema che non valorizza la tua personalità e la tua professionalità... Ma ricorda che i ragazzi saranno lo specchio di ciò che trasmettono i tuoi occhi, perché lo sguardo umano non è mai neutro ma contiene esattamente la vita che vuole dare o togliere, così dal loro sguardo saprai sempre com’è il tuo. Desiderano ciò che tu desideri: essere riconosciuti, valorizzati, supportati. Non vedi, forse, la tua stessa carne? Perché non prendersene cura come vorresti si facesse con te? Proprio perché loro non sanno ancora farsi carico della vita, è a te, adulto, che chiedono di provarci, per poter scoprire che maturare è un’avventura e non una colpa da espiare. Essere adulti è questo: finita l’iniziazione alla vita, riuscire a portarne il peso, come un padre solleva suo figlio perché colga i frutti sui rami a cui neanche lui arriva. Se ti avvicini puoi scorgere sui loro volti i segni della solitudine e della paura: la spavalderia, le provocazioni, i silenzi, le maschere di questa età tradiscono il desiderio di avere un nome, di abitare la vita. Non sono forse i segni della tua stessa ricerca? Ma come far sì che la speranza sia sempre un passo avanti rispetto alla paura? Da dove attingere la pazienza e la generosità per farsi carico di queste vite? Un pensiero ti conforta: tu sai che sono la cultura e le buone relazioni le risposte a questa ferita, alla fragilità dell’io rispetto alla pienezza a cui aspira. La cultura generosamente condivisa nella relazione educativa, la trasmissione del vero, del bello, del buono, resistenti al tempo vorace, sono proprio ciò che consente di dare peso e senso alla vita, la risposta umana al nulla: «ove tende questo vagar mio breve? E io che sono?», ti interrogano con le parole di Leopardi. Ti chiedono di «soffrire» per loro, e il verbo vuol dire sia «portare il peso» della vita sia «dare» la vita: concepirli e generarli. Non respingerli nel buio, lasciali venire alla luce, attraverso di te. Ma c’è quella luce nei tuoi occhi? Come sarà la tua prima lezione? Come nelle sinfonie la prima lezione è la tonalità da cui dipende tutto l’anno: il tuo spartito svilupperà il tema giorno per giorno e loro sono gli strumenti, tutti necessari, dell’orchestra. Tu, maestro, sai che la musica non è tua, ti precede, ma sei tu a interpretarla, realizzarla, darle forma, insieme a loro. Senza loro agiti la bacchetta nel nulla. Avete bisogno l’uno degli altri, solo così l’armonia accadrà. Lo so: è faticoso, i colleghi sono a volte difficili, lo stipendio fa pena, le riunioni sono lunghe, le scartoffie troppe, i genitori ingombranti. Puoi voltarti dall’altra parte e dire che non sono affari tuoi. Invece lo sono. La tua eredità sono loro. Ero a Genova quando è crollato il ponte. Il silenzio che ha avvolto la città era infranto solo da ambulanze ed elicotteri e, negli intervalli muti, si affollavano i «perché» con cui la mente cerca di strappare un senso alle catastrofi. Siamo arrivati tutti a una conclusione, purtroppo frequente nel nostro Paese: bisognava pensarci prima. Anche la scuola è un ponte che, ogni giorno, trasporta quasi 9 milioni di vite da un destino a una destinazione, dall’informe alla forma pienamente umana della vita. Proprio tu sei chiamata/o alla manutenzione ordinaria e straordinaria del ponte. Guardati entrare con la tua cassetta degli attrezzi: alla tua professionalità sono affidate le loro vite. Come avresti voluto ti si guardasse e che cosa avresti voluto sentire? Non certo quello che disse una volta una docente, fissando la nuova classe, il primo giorno del primo anno di superiori: «Siete troppi, vi ridurremo». Il tu viene alla luce solo se l’io dell’adulto lo concepisce e lo genera, e l’io non per questo si perde, anzi è rigenerato come accade ai tessuti di una madre in dolce attesa. Insegnare è una delle migliori cure contro

l’invecchiamento che io conosca. Durante l’estate ho passato dei giorni insieme a mia sorella che ha una bambina di pochi mesi. Era una gara a intuire di cosa avesse bisogno e, chi dei familiari entrava nel raggio di azione dello sguardo di Beatrice, era attratto dalla forza di gravità della «cura». L’empatia, l’intuire di che cosa la vita in formazione ha bisogno, è vitale per il bambino e per chi gli sta attorno: noi umani non ci prendiamo cura dei piccoli perché li amiamo, ma li amiamo perché ci prendiamo cura di loro. Curando, impariamo ad amare e conoscere, e così maturiamo anche noi. Bambini e adolescenti vengono alla luce se trovano educatori in grado di nutrire il loro bisogno di avere una forma: formarsi. E lo chiedono a chi è già «formato», ma se costui non se ne cura le vite crollano. Il docente, mediatore tra l’informe e le forme di vita che racconta, a partire dalla sua, è chiamato alla cura, per professione. Rifiuto la retorica che attribuisce al mio mestiere la parola «missione», perché ascrive l’empatia, strumento professionale necessario al riconoscimento della vita altrui come propria, all’ambito di supereroi e mistici. Empatia non è sostituirsi agli alunni, ma conoscerne e sostenerne battaglie, contraddizioni, domande, offrire risposte adeguate se le abbiamo, o una presenza adeguata se non le abbiamo. I ragazzi vogliono adulti veri: né amiconi nostalgici dell’adolescenza né aridi erogatori di nozioni. La cultura non è una sovrastruttura snob, ma il modo in cui la vita umana cerca il suo compimento. Non basta informare, occorre formare: aiutare la vita a compiersi e a dar frutto. Per farlo serve generosità, che ha la stessa radice di generare. La relazione educativa o è generativa (amplia il naturale desiderio di far esperienza della realtà) o è degenerativa (chiude il desiderio, annoia, spegne il coraggio e la curiosità). La generosità educativa è anch’essa professionalità e non volontariato. È generoso chi genera, cioè afferma la vita dell’altro come necessaria e si impegna, come può, al suo compimento, come i bastoncini con cui mia nonna sosteneva le piantine incerte, perché crescessero verso la luce, approfondendo così le loro buie radici. Non c’è compimento senza concepimento, non c’è generazione senza generosità. E una generazione non generata prima o poi crolla. Qualche giorno fa mi ha scritto una ragazza che sarebbe precipitata nel baratro di una malattia se una professoressa non fosse stata «empatica» e «generosa», affrontandola a tu per tu alla fine di una lezione. Mi ha chiesto di dar voce alle sue parole: «Vorrei chiedere a tutti i professori di fermarsi, anche solo un attimo, di alzare lo sguardo dal registro e guardare negli occhi i ragazzi. Non limitatevi a segnare l’assenza, ma chiedetevi se veramente gli studenti sono lì, chiedete loro come stanno, dando peso alle risposte perché, spesso, noi ragazzi diciamo che va tutto bene, anche quando stiamo morendo dentro. Il vostro compito non è esclusivamente spiegare, interrogare e valutare. Voi siete in grado di vedere più lontano dei genitori: a scuola proprio perché ci si sente invisibili emergono le più piccole debolezze. Avete idea di quanti ragazzi nuotino controcorrente senza scoprire le proprie capacità? Quanti credono di essere inutili? Quanti concorrono per un voto come fossero oggetti? Mi capita di pensare a come sarebbe andata a finire se quel giorno la mia professoressa non mi avesse fermata e non mi avesse guardata negli occhi. Forse oggi non sarei qui». Di norma non si tratta di casi limite, ma di mostrare che ci si sente responsabili della loro vita, magari con un sincero e sorridente «come stai?»: portare il peso a volte è semplicemente «dare peso». Un adolescente si decide a maturare se sente che un adulto vuole farsi carico della sua vita, perché così scopre che è buona, e il suo coraggio si attiva vincendo la paura, perché vede un altro impegnato per lui. Ciò che ci aspettiamo da loro deve essere prima in noi: questo è educare, e l’istruzione ne è solo una conseguenza. A noi chiedono di impegnarci per un volto e, solo dopo, per un voto. Un anno scolastico in cui non cresco in amore e conoscenza della materia e dei ragazzi, per me è un anno perso. Il letto da rifare oggi, il primo dell’anno scolastico, è la manutenzione delle anime. Come noi insegnanti ci aspettiamo che loro ascoltino noi, possiamo «ascoltare» i loro volti, perché ascoltare un adolescente è capire ciò che non dice. Come i ponti, anche le anime possono crollare per incuria. Guardati. Che cosa vedi? Guardali. Che cosa vedi? Buon anno a tutti. AVVENIRE di domenica 2 settembre 2018 Pag 2 Caro Leone, goditi la vita con mamma e papà sposi di Umberto Folena Le nozze “social” di Ferragni e Fedez. Con il figlio di 5 mesi

Caro Leone, ad appena cinque mesi di vita sei ancora un micino ma quando metterai la criniera e la prima dozzina di tatuaggi potrai apprezzare questa lettera pensata, scritta e inviata (su un quotidiano vintage, non su Instagram o Twitter) il giorno del matrimonio di mamma e papà, Chiara Ferragni e Federico Lucia alias Fedez. Nomi troppo lunghi? Loro preferiscono chiamarsi The Ferragnez con l’articolo inglese, d’altronde la mamma fa avanti e indietro con la California e tu stesso sei nato nella Città degli Angeli. Caro piccolo Leone, sapessi che festa! Venerdì sera ricevimento nel barocco Palazzo Nicolaci a Noto, in Sicilia, tra tanti amici fidanzate blogger e bella gente planati da Milano con il volo speciale Alitalia. Infine, ieri pomeriggio, la cerimonia officiata dal sindaco alla Dimora delle Balze, tenuta dell’800 ingentilita da sobria ruota panoramica. I tuoi genitori sono gente semplice e non fanno come tanti altri, non vendono esclusive, non si fanno pagare per le foto loro e tue. Gli ospiti hanno potuto pubblicare sui social immagini e commentini a loro piacere, raccontando l’evento in diretta. Forti, i Ferragnez. E bravi. Qualcuno obietterà: eh, non si sono sposati in chiesa... E allora diciamolo: meglio un matrimonio sincero davanti al sindaco che uno di pura facciata davanti al prete. Si sposano, ossia si dicono un sì per sempre, si impegnano a legarsi per tutta la vita, a rendere la loro relazione solida e indistruttibile. La loro ma anche la tua, perché siete in tre e tu non sei certo un soprammobile, anzi hai diritto ad amore e stabilità come, quanto e più di loro. Un giorno queste cose te le racconteranno. Mamma Chiara ti dirà di tutti gli invitati e papà Federico ti spiegherà tutti i suoi tatuaggi, uno alla volta, senza fretta. O forse non ti potranno dire molto, impegnati a saltare da uno scalo all’altro e da uno studio televisivo a un concerto. Così arriverai a scuola e la maestra malaccorta, in barba alla privacy, domanderà ai bimbi che cosa fanno i loro genitori. Non preoccuparti, te lo spieghiamo noi e con questa scusa informiamo pure i lettori che per fiducia o inerzia sono arrivati fin qui domandandosi chi siano questi Ferragnez. Potrà sembrare assurdo per chi ha lo sproposito di 14 milioni (Chiara) e 6 milioni (Federico) di follower, insomma di fan che seguono senza sosta quel che dicono fanno postano; eppure esistono italiani, pochi ma tetragoni come giapponesi annidati nella giungla del Borneo, che lo ignorano. Ecco qua. Mamma è una fashion blogger e papà un rapper. Mamma si iscrive alla Bocconi ma non si laurea, in compenso tre anni fa è stata un caso di studio della Harvard Business School e due anni fa la Mattel ha fatto una Barbie identica a lei. Per Forbes è l’influencer di moda più importante al mondo. Papà si iscrive al Liceo artistico ma non si diploma, in compenso colleziona dischi di platino. La critica è divisa: dirompente e innovativo o testi pigri e metrica zoppa? Sinceramente, caro Leone, e senza alcun giudizio sui versi paterni, ti consigliamo di apprendere la metrica applicata alle canzonette ascoltando e canticchiando Il pulcino ballerino e Fammi crescere i denti davanti, per restare sull’usato sicuro. Un altro augurio: salta fuori dalle foto della folla assatanata, vola via come un Peter Pan in erba, fuggi nella tua isola-che-non-c’è e ritagliati un lungo spicchio di sano nascondimento e di salutare normalità. Proteggi te stesso dai follower, dai milioni di milioni di foto e tweet e da questa inebriante follìa dove tutto dev’essere pubblico e merce. A stare sempre sotto i riflettori, facendone il proprio scopo di vita, all’inizio ci si abbronza. Alla fine si finisce scottati. Il silenzio sia con te, Leone. Stasera una ninna nanna, in penombra. Pag 2 Chi bestemmia non gioca di Massimiliano Castellani Sana filosofia e il segnale di Mancini, il ct della Nazionale «Gioca a calcio e non bestemmiare». È regola non scritta nel codice etico della Nazionale di Roberto Mancini, ed è stata subito applicata. A farne le spese, il 21enne Rolando Mandragora, talento scuola Juventus, prestato all’Udinese dove galeotta fu la telecamera che l’ha centrato in pieno mentre 'smoccolava' (bestemmiava) senza ritegno. Lui, il Rolando, in campo è un ex scugnizzo di Scampia, uno cresciuto nel messico napoletano (e, magari per disperazione, qualche volta la parolaccia gli può anche scappare), ma ormai è un calciatore milionario dell’eldorado della Serie A e non se lo può più permettere. Non solo come professionista, ma prima di tutto come uomo, caro Rolando d’ora in poi sai che devi collegare la bocca al cervello, e se possibile anche al cuore senza nominare Dio invano. Perché la bestemmia non cambia mai il risultato della partita. Cambia invece la prospettiva e l’immagine che ha di te il ragazzino che ti osserva e che sogna di diventare il Mandragora di domani. La porta della Nazionale

maggiore questa volta resterà chiusa per Rolando: niente Nations League. La punizione non è neppure troppo severa, retrocessione nell’Under 21 di cui Mandragora è il capitano, l’uomo che deve dare l’esempio, sempre e comunque. Mancini che è uomo di buona fede ha agito da buon padre di famiglia prima che da commissario tecnico. Non si tratta di moralismo, ed è inaccettabile l’atteggiamento di chi arriva a dire che così, se questo è il metro, «tra poco andranno in campo solo quei tre-quattro timorati di Dio». La bestemmia, udita dall’arbitro, da regolamento prevede sempre il cartellino rosso. Quindi fuori. Ma Mandragora d’ora in avanti non sia identificato come il capro espiatorio, né tanto meno come il simbolo del 'bestemmiatore di Serie A'. È stato un incidente, e al tempo stesso un segnale importante. E conta molto che sia stato dato dalla Figc. Forse la nuova 'cultura sportiva' del calcio italiano comincia a muovere i primi passi, magari partendo proprio dall’educazione in campo. Se la Nazionale vuole tornare a essere vincente deve puntare su giovani che siano dei portatori sani di valori. C’è da augurarsi che presto Mandragora diventi il portabandiera di questa sana filosofia. Pag 6 Pigrizia, fretta e superficialità: 2 minuti al giorno per informarsi. Così prosperano i manipolatori di Gigio Rancilio Abbiamo poco tempo. Andiamo tutti di fretta e dobbiamo (vogliamo?) fare tante cose, a volte anche tutte insieme. Sul web, poi, leggiamo poco. Per diversi motivi. Innanzitutto per pigrizia e/o fretta. In Italia, secondo l’ultimo rapporto Audiweb, passiamo meno di 1 ora al mese sui siti di informazione. Sono quasi 2 minuti al giorno. Una cifra irrisoria. Sempre per pigrizia e/o fretta, la stragrande maggioranza delle persone «on line» non arriva alla fine di un articolo sul quale ha cliccato. Scriverlo fa male. Ma è così. Èd è inutile fare finta di niente. Quando siamo nel digitale decidiamo in meno di 6 secondi se un articolo è giusto o sbagliato. E sui social in meno di tre se vale la pena cliccare su un titolo o passare oltre. Sempre sui social oltre il 40% degli utenti commenta un post senza averlo letto, ma in base al titolo, alla foto o ai commenti precedenti lasciati dalle altre persone. Basta un commento fuori contesto (spesso lasciato apposta dai cosiddetti troll, cioè da persone che si divertono a scatenare risse sui social) perché le persone smettano di discutere dell’argomento trattato nel post, per spostarsi sul nuovo argomento. Anche chi commenta in buona fede spesso cade in qualcosa di simile, denominato «benaltrismo». Per esempio, se un post tratta la fame in Africa arriva sempre il commento: «e i poveri italiani? ». E così via. Non c’è argomento che non generi un commento del tipo: «perché non parlate di...». Solo che se c’è sempre «altro», alla fine non ci si confronta su niente. Si litiga. Come nelle assemblee condominiali dove, mentre si sta parlando di rifare la caldaia condominiale, qualcuno interviene e dice: è la spazzatura? E tutti cominciano a urlare e a offendersi. La colpa non è solo dei social. Ma di oltre 20 anni di talk show televisivi dove lo scontro, l’offesa e la rissa sono stati e sono all’ordine del giorno. Restare nascosti dietro un profilo magari falso, toglie poi ogni inibizione, facendo emergere il peggio delle persone. In questo senso i social non sono un’altra realtà, ma uno specchio della realtà forse più fedele di quello che vediamo in giro, perché fanno emergere anche quell’odio che nei rapporti quotidiani alcuni spesso nascondono dietro facce di circostanza. Tutti, soprattutto sui social, vogliamo partecipare e (giustamente) dire la nostra, su ogni argomento. Ma non facciamo i conti con le insidie, tecnologiche e non, che ci circondano. Per non parle del fatto che, secondo l’Ocse, 11 milioni di italiani si informano solo sui social, attraverso testi brevi, perché non sono in grado di comprendere correttamente testi più lunghi di 700 caratteri. Sono soprattutto pensate per loro le immagini social con slogan di denuncia e la scritta: «condividi se sei indignato». Se sono veri o meno, non interessa a chi le confeziona. Sono utili. E fanno arrivare un messaggio semplice: questo, quello, quelli sono i tuoi nemici. E i commenti sui social? Una fetta di coloro che commentano non sono nemmeno reali. Sono profili inventati ad arte e «pilotati» come burattini da sistemi informatici. Così, ci convincono che la «massa», il «popolo» la pensa soprattutto in un certo modo, spingendo i più ad accodarsi alla «maggioranza rumorosa» e allontanando la «maggioranza silenziosa» che si trova a disagio davanti a risse ed eccessi verbali. Algoritmi, bot e strategie degne di Goebbels finiscono così a orientare una parte delle persone. Ma ciò che non ci fa crescere nel dibattito e nella comprensione della realtà è il «nemico» più pericoloso che possa esserci: noi stessi. Nessuno escluso.

Colpa dei «bias cognitivi». Cioè, dei «malfunzionamenti» del nostro cervello che ci portano a errori di valutazione e/o alla mancanza di oggettività di giudizio. Ce ne sono a decine. Il più attivo e distruttivo sui social è il «bias di conferma». È quello che ci spinge a dare maggiore rilevanza alle sole informazioni in grado di confermare la nostra tesi iniziale (o il nostro pregiudizio), ignorando o sminuendo quelle che la contraddicono. «Se abilmente sfruttato – come spiega bene Wikipedia – è uno strumento di potere sociale, in quanto può portare un individuo o un gruppo a negare o corroborare una tesi voluta, anche quando falsa». Il «bias del carro della banda del vincitore» (bandwagon bias) ci spinge invece a sviluppare una convinzione, non basandoci tanto sul fatto che sia vera, quanto piuttosto in relazione al numero di persone che la condividono. Per questo è così facile, da sempre, anche prima dei social, ingannare le persone. Per questo non siamo disposti a riconoscere che anche chi non la pensa come noi possa avere ragione. Per questo non esistono più gli esperti ma soltanto i «miei esperti», cioè coloro che mi danno ragione e che corroborano i miei pregiudizi. E chi non la pensa come me è per forza un «nemico», un «bufalaro», uno che fa parte di orribili complotti. Nel giro di pochi anni siamo passati dalla massima attribuita a Voltaire («Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo», che in realtà è di una sua geniale biografa Evelyn B. Hall) a «non ho letto quello che scrivi e non so cosa dirai, ma sono già che è falso. Quindi, stai zitto». E così facendo ogni giorno ci chiudiamo sempre di più nelle nostre (spesso errate) convinzioni. CORRIERE DEL VENETO di domenica 2 settembre 2018 Pag 1 Consumi, se cala la fiducia di Vittorio Filippi Nel Nordest Cala la fiducia di famiglie ed imprese in agosto, dice l’Istat. Tra speranze, timori e rancori la ripresa appare difficile. Per esserci c’è, ma non è liberatoria e gioiosa. Perché è zavorrata dalla sua (troppo) modesta ampiezza, dalle mille incertezze che l’accompagnano, da un clima sociale e politico confuso ed incattivito. «Il Sole 24 Ore» ci dice inoltre che ancora non siamo del tutto usciti dal tunnel dell’impoverimento prodotto dalla lunga crisi. Prendendo infatti i redditi dichiarati al fisco nel 2017 nei 108 capoluoghi di provincia d’Italia e confrontandoli con quelli del lontano 2008 (inizio canonico della crisi), ne esce un panorama non proprio confortante; solo 17 capoluoghi italiani segnano una qualche crescita dei redditi, di cui cinque nel nordest: Belluno, Pordenone, Trieste, Venezia e Verona. Se ci si restringe al solo Veneto, brilla in particolare Belluno, che insieme a Trieste guida la migliore riscossa dei redditi: grosso modo un più due per cento rispetto al 2008 contro una media nazionale che invece è negativa di una percentuale analoga, un due per cento di calo ancora non recuperato dalla ripresa in corso (Milano compresa, ed è significativo). D’altronde, calcola Confcommercio, tra il 2007 ed il 2018 i consumi pro capite sono calati di mille euro ed il reddito disponibile di quasi il doppio. Ma non è solo un discorso di redditi, ma anche di contribuenti, la cui carenza sta a significare un discorso di disoccupazione. e quindi di difficoltà che possono virare in povertà vera e propria. Se mediamente – scrive «Il Sole» – vi sono in Italia 66,6 contribuenti ogni cento abitanti, poi questa troppo lunga penisola pencola tra i 76,2 di Belluno e i 52 contribuenti di città come Palermo o Crotone (in cui il reddito è ancora sotto dell’otto per cento rispetto al 2008). Un dato, quest’ultimo, che fa pensare, perché ci dice che su cento abitanti solo la metà è fiscalmente attivo e quindi con un certo reddito incassato. Nonostante il (relativo) successo dei numeri sui redditi nel nordest, la ripresa corre svogliatamente senza un immaginario collettivo robusto che la trasformi in serenità e voglia di futuro. Anzi, non manca chi è apertamente scettico sui (pur piccoli) numeri della ripresa facendo della crisi una specie di costante categoria dello spirito dei tempi presenti. Un pessimismo che dimostra come sia insufficiente il dividendo sociale da distribuire con equità, dato che spesso la rancorosa sensazione è quella del «meno hai, più sei colpito». Di sicuro insomma non c’è traccia rassicurante di una sorridente ripresa sociale e psicologica: l’Italia – e i numeri della demografia permettono l’immagine – appare come un vecchio impaurito, insoddisfatto ed astioso. Il Veneto, purtroppo, non sembra discostarsi troppo da questa mesta metafora. Torna al sommario

6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ CORRIERE DELLA SERA di sabato 1 settembre 2018 Pag 21 Gli italiani senza medici di Margherita De Bac Raffica di pensionamenti e concorsi semideserti. I laureati ci sono, il blocco è nelle specializzazioni L’ultimo caso a Parma. Il concorso per medici di pronto soccorso e medicina d’urgenza bandito dall’azienda ospedaliera e universitaria è andato deserto. L’assenza di candidati non ha sorpreso più di tanto visto che il precedente avviso per 23 posti aveva attratto appena nove adesioni. Una volta gli specialisti si reclutavano al Sud e il fenomeno delle migrazioni di camici bianchi era intenso. Non succede più. Anche da Roma in giù si fa fatica a riempire gli spazi lasciati vuoti da chi va in pensione. A Matera a un bando per 14 professionisti da distribuire tra pronto soccorso, radiologia e medicina generale non ha risposto nessuno. Previsioni molto negative - Sono solo alcuni dei tanti segnali di un allarme rilanciato a più mandate da sindacati, ordini di categoria e società scientifiche. Gli emuli di Ippocrate sono in via di estinzione e i rincalzi stentano a farsi largo per una serie di ostacoli. Gli ultimi dati aggiornati indicano una carenza di ospedalieri che fra dieci anni sarà di quasi 47.300 unità. La Federazione delle aziende sanitarie Fiaso e l’associazione dei dirigenti Anaao-Assomed calcolano che anche in caso di totale sblocco del turnover, rallentato nelle Regioni in piano di rientro per il deficit, non si riuscirà compensare nel prossimo quinquennio i dipendenti in uscita tra pensionati, prepensionati e fuggitivi verso il più remunerativo privato o l’estero. La fuga dei medici di famiglia - E non va meglio tra i medici di famiglia. Nel 2028 se ne saranno andati in oltre 33mila secondo la stima elaborata dal sindacato Fimmg. Soffrono in particolare alcune discipline (chirurghi, pediatri, anestesisti, ginecologi, medici di pronto soccorso) non più appetibili perché sono le più esposte alle denunce del cittadino o perché offrono meno sbocchi professionali. Il problema però è trasversale ed è legato principalmente alla penuria di rincalzi. I laureati che arrivano alla specializzazione e la concludono sono insufficienti rispetto alle necessità sul campo. È il cosiddetto fenomeno dell’imbuto formativo. Le borse di studio costano alla sanità e le Regioni in difficoltà non possono permettersi di ampliarne il numero. Il «tappo» dopo la laurea - In altre parole, i laureati ci sono, e quindi non è un problema causato dal numero chiuso di ingresso alle facoltà, ma restano ai blocchi di partenza in quanto non riescono a entrare nelle scuole dove i posti sono in numero limitato. Stesso discorso per i medici di base che per diventare tali con l’abilitazione devono spartirsi 1.100 borse di studio all’anno. Il segretario nazionale Silvestro Scotti è pessimista: «Tra cinque anni, 14 milioni di italiani resteranno senza assistenza di base». Il presidente della federazione degli ordini dei medici Filippo Anelli chiede al governo di togliere i vincoli per il dopo laurea e di valutare la possibilità di mandare in corsia gli specializzandi dell’ultimo anno, soluzione che va studiata dal punto di vista legale e che potrebbe non essere praticabile. Il ministro Giulia Grillo raccoglie l’allarme con un occhio ai giovani laureati: «Hanno ragione, il sistema va rivisto e lo stiamo facendo. Tra laurea e inizio dell’attività lavorativa ci deve essere continuità». Intanto chiede alle Regioni di quantificare la carenza di personale negli organici e promette cambiamenti già nella prossima legge di Stabilità. Le soluzioni tampone - Per i prossimi anni si troverà il modo di sbloccare questo circuito dannoso. E per l’immediato? Per ora le aziende sanitarie stanno adottando soluzioni tampone ad esempio con contratti a termine o rivolgendosi a cooperative di medici. I giovani di Anaao scalpitano e ce l’hanno col ministro dell’Istruzione che ha aumentato di circa 600 il contingente di posti per i corsi di laurea in medicina e chirurgia. Stimano che al prossimo concorso delle scuole di specializzazione si presenteranno in 16.400 per 6.200 contratti di specializzazione. Oltre diecimila giovani restano nel limbo. Roma. Ermanno Leo, direttore del dipartimento di chirurgia dell’apparato digerente all’Istituto nazionale tumori, lei sta per andare in pensione?

«Sì, rischio di lasciare senza arrivare ai 40 anni di anzianità. Vado via il 3 novembre di quest’anno, ne compio 70 e non me li sento per voglia di fare e voglia di trasmettere quello che so fare. Ho un bagaglio di esperienza da vendere e varrebbe la pena che quelli come me non vengano rottamati. Specie nell’oncologia e nella chirurgia oltre a perdere professionalità rischiamo di perdere tanta gente che può ancora dare molto. È un doppio danno: vengono tolte figure di calibro al servizio pubblico e si regalano al privato. Passerebbe al privato? «Ho ricevuto molte proposte alternative ma a me piacerebbe restare in ospedale. Come a tanti altri colleghi. I chirurghi sono in grande sofferenza: ce ne sono sempre meno perché è un lavoro rischioso. La settimana scorsa a Lodi hanno richiamato un chirurgo in pensione per risolvere un’emergenza, le pare normale?». Lei crede nei giovani? «Certo, ma devono essere messi nelle condizioni di specializzarsi dopo la laurea. Invece partono con la prospettiva di una carriera difficile dal punto di vista occupazionale e remunerativo. So che all’Humanitas non trovano medici». Che cosa propone? «Ai miei tempi era permesso agli specializzandi entrare in corsia già all’ultimo anno della scuola. Io ho fatto così, sarebbe un buon intervento, in attesa di correggere il sistema della formazione che evidentemente è sballato». Ma se quelli della sua età non vengono rottamati, i rincalzi non potranno mai fare carriera se non troppo tardi? «Mandare via un primario non significa favorire il ricambio. Un buon gruppo, se coordinato bene, ha ancora molto da apprendere. Bisogna fare un discorso di qualità oltre che di quantità. Non pensare soltanto ai numeri». La chirurgia è in crisi? «La chirurgia per me è una passione immensa, ma capisco che ora può far paura. Il rischio di denunce e il costo delle assicurazioni per difendersi scoraggiano. Io pago 22mila euro di polizza, è una professione che viene abbandonata». E la fuga nel privato? «Può essere un fenomeno positivo perché la concorrenza aumenta la qualità, ma il pubblico non deve assistere al depauperamento degli organici. Però non diciamoci che la nostra è una professione finita, non è vero, occuparsi delle sofferenze è un grande merito». Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 13 Vignotto e D’Este, gli amici-nemici campioni in coppia di Michele Fullin e Giorgia Pradolin Uno di Burano, l’altro di Sant’Erasmo, da sempre accesi rivali, hanno remato e vinto assieme con un vantaggio di 39 secondi Venezia. Si sono trovati a remare sulla stessa barca solo poche settimane fa e già li chiamano il dream team. E hanno dimostrato di tener fede all'impegnativo soprannome vincendo la Regata Storica quasi in relax, dando 39 secondi di distacco al secondo gondolino. Un abisso. I campioni sono Giampaolo D'Este e Rudi Vignotto, fino all'inizio dell'estate la coppia più improbabile del mondo. I due, infatti, hanno segnato a suon di rivalità accese, insulti e tanto agonismo l'ultimo ventennio della voga ai massimi livelli di Venezia. Giampaolo con Ivo Redolfi Tezzat, poi ritiratosi dalle gare. Rudi con il cugino Igor, al quale il medico ha imposto lo stop all'attività agonistica per un problema cardiaco. GLI EX RIVALI - Giampaolo di Burano, Rudi di Sant'Erasmo. Due isole divise per decenni dalla rivalità, in qualche modo costrette a fare pace e ad unirsi. Non è andata proprio così, perché il cugino Igor e buona parte di Sant'Erasmo non ha digerito bene la notizia e la tregua con l'acerrimo rivale di sempre. Una tregua che sembra essere più che altro la nascita di un nuovo sodalizio destinato a dominare anche i prossimi cinque anni.

Per D'Este è il ritorno alla vittoria dopo tre anni di stop, ma per Vignotto è l'incoronazione definitiva. Sedici vittorie in Storica, mai nessuno ha vinto così tanto. Un altro record: ben quattro componenti della famiglia di quest'ultimo erano in Storica, alla quale si accede solo dopo aver superato durissime eliminatorie. Il figlio Mattia è arrivato primo con l'equipaggio della caorlina Canarin, a sei vogatori, la moglie Luisella Schiavon (anch'essa dominatrice per anni in canal Grande) in barca con l'altra figlia Lara, giunte ottave. ONORE A GENOVA - La Regata Storica è una delle grandi feste veneziane, durante la quale la città mostra il suo lato migliore. Ma questa volta il corteo con i figuranti in costume è stato caratterizzato dal lutto per le 43 vittime del crollo del ponte Morandi a Genova. Tutte le barche, giunte davanti alla Machina (il palco galleggiante delle autorità) hanno tributato un alzaremi per ricordare la vicinanza con la città sorella di mare, a cui è seguito un lungo applauso. In segno di vicinanza c'erano anche i pompieri di New York, ogni anno in questo periodo a Venezia per ringraziare la città per la vicinanza dopo la tragedia dell'11 settembre 2001. Sabato si sono esibiti a Murano anche in una regata mista con i colleghi di Venezia, dopo un corso accelerato di voga a cura dei grandi vecchi dell'isola di Burano. E ieri hanno suonato le cornamuse per rendere omaggio alla Regata Storica, molti di loro hanno infatti origini irlandesi. Tra gli ospiti illustri ieri, anche l'ambasciatore del Giappone e quello della Gran Bretagna. Così Venezia, in una giornata baciata dal sole nonostante le previsioni, torna a riappropriarsi delle sue tradizioni e le diffonde al mondo. LA TRADIZIONE - C'è stata la rievocazione storica, con i cortei e i galeoni, e la competizione agonistica. Un connubio vincente e collaudato che anche quest'anno è riuscito a richiamare a Venezia decine di migliaia di turisti, assiepati sulle rive. Un evento capace di convincere anche i cinefili ad abbandonare per qualche ora la Mostra del Cinema al Lido. «Quando siamo arrivati - ha detto il sindaco Luigi Brugnaro, riferendosi al primo anno del suo mandato - la Machina era mezza vuota. Si stava perdendo anche la voglia di venirci. Ora invece c'è stata anche la ressa per avere i biglietti». Questo nuovo interessamento non riguarda solo il pubblico della gara, ma anche le iscrizioni. «Abbiamo avuto un grande aumento di giovani, che a loro volta portano qui le famiglie. La voga alla veneta deve diventare il nostro biglietto da visita. Prima forse non veniva riconosciuto il giusto valore etico, sociale ed economico, per chi intraprendeva questo sport, ora vi è più soddisfazione e abbiamo incrementato gli appuntamenti». IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VIII Ultimati i lavori per la cattedrale ortodossa romena di Alvise Sperandio Per l’inaugurazione si pensa al 13 dicembre, giorno di Santa Lucia Mestre. Obiettivo 13 dicembre. La parrocchia ortodossa rumena di Santa Lucia punta a inaugurare la sua nuova cattedrale di Zelarino nel giorno della santa patrona. I lavori in via Marieschi procedono ormai da quattro anni. La chiesa è finita all'esterno dove da tempo sono state tolte le impalcature ed è stata completata anche la cripta, per cui manca solo l'ultimazione della navata centrale che, senza intoppi, in tre mesi potrebbe essere portata a termine. L'opera, particolarmente imponente e curata nei dettagli, alla fine verrà a costare la bellezza di oltre un milione di euro, soldi che i fedeli hanno messo tutti di tasca loro, finanche a tassare ogni mese una parte del proprio stipendio. Segno che tra loro è urgente il bisogno di un nuovo luogo di culto a fronte della chiesetta di Santa Lucia, in via Monte Piana, nell'area della stazione, divenuta troppa piccola per una comunità che conta 2mila persone. Questa nuova, in ogni caso, non sostituirà quella vecchia che almeno inizialmente continuerà a restare operativa per radunare chi fa più fatica a spostarsi fuori dal centro, anche se l'intento è di dirottare su Zelarino il cuore della frequenza religiosa in un'opera che qualche vicino di casa, che in questi anni ha seguito passo passo il cantiere, non esita a definire straordinaria. «Le stime sulla fine dei lavori ha spiegato il parroco padre Avram Matei al settimanale diocesano Gente veneta restano tali in quanto gli stessi vengono effettuati in base alle offerte raccolte che variano sempre, a volte di più, a volte di meno. Senza contare che man mano che i lavori procedono, viene fuori qualche imprevisto da fare e anch'esso ha un costo. Speriamo di ricevere un'agibilità almeno parziale e di poter conseguentemente effettuare una prima inaugurazione per Santa Lucia a dicembre di quest'anno». La chiesa è lunga

25 metri, larga 14 e alta 12, salendo però a 47 se si calcola il punto più alto della cupola che svetta sulla città e che è ben visibile a distanza, anche di notte per la presenza della luce rossa intermittente necessaria per la sicurezza aerea. Negli ultimi tempi, oltre al completamento della cripta, sono stati realizzati i bagni, un ascensore e soprattutto una vasca sotterranea per la raccolta dell'acqua piovana, costata circa 80mila euro. Una volta che sarà ultimata la navata, anche con l'inserimento dei banchi e degli arredi, la cattedrale degli ortodossi rumena potrà dirsi consegnata e c'è da scommettere che dopo anni di lavoro e una spesa così ingente, sarà organizzata una festa in grande stile. LA NUOVA Pag 13 Visita speciale in Basilica, trenta bambini haitiani alla scoperta della bellezza di Nadia De Lazzari La comitiva guidata da suor Marcella ieri ha fatto tappa a Venezia. Messa a San Marco, gelato offerto dal Patriarca e poi la Regata storica «Wow, ma quanto costa?», esclama e domanda vedendo la Pala d'oro abbellita con 2.000 pietre preziose conservata nel presbiterio della Basilica. «Non lo so, sicuramente molto meno di te. Voi, bimbi, siete un valore inestimabile». Risponde così don Giuseppe Camilotto, canonico di San Marco, a uno dei trenta bambini provenienti da Haiti, uno dei paesi più poveri al mondo che un terremoto catastrofico, nel 2010, ha lasciato dietro di sé una scia di devastazione, miseria e vittime (oltre 230. 000).Curiosi, instancabili, attenti, ieri, i piccoli haitiani dai 4 ai 14 anni hanno invaso la Cattedrale e partecipato in posti riservati alla Messa delle ore 12 presenziata dal vicario generale Angelo Pagan e concelebrata dal delegato della Basilica Antonio Senno e don Giuseppe Camilotto. Ad accompagnare i bambini in laguna, arrivati da Chioggia ospiti dei padri salesiani, tanti volontari e la mitica suor Marcella dell'ordine francescano. Da dodici anni la religiosa-infermiera vive ad Haiti nella baraccopoli Waf Jeremie costruita sopra una discarica. È stata la prima "bianca" a mettere piede in un luogo inaccessibile, sbarrato con spranghe e ruote di pneumatici. Con il terremoto il suo piccolo ambulatorio è crollato, ora al suo posto c'è "Villa Italien", un orfanotrofio che accoglie 150 neonati e bambini orfani e malati. «Nonostante abbiano alle spalle storie difficili questi bambini hanno una grande capacità di sorridere alla vita. Sono pieni di energia positiva, sono gioiosi e danno gioia. Sono abituati a seguire i volti di chi vuole loro bene. Da parte nostra cerchiamo di educarli alla bellezza, per questo ho deciso di fare la tappa finale a Venezia. Prima sono stati due mesi ad Assisi nel casale della Fondazione Via Lattea. Gli abbiamo insegnato un po' di italiano», ha spiegato suor Marcella che pochi giorni ha portato i "suoi bambini" in Vaticano a vedere la cappella Sistina. Durante la visita due bimbe avevano chiesto: «Ma dov'è il Papa? Questa è la sua casa». La suora ricorda: «Un sacerdote ci ha riferito che il Papa era occupato ma ci ha accompagnato a Santa Marta. E qui il fuori programma speciale». Il Papa è sceso a salutare i piccoli orfanelli e li ha benedetti. Anche il Patriarca Moraglia, ieri, si è intrattenuto con loro, una carezza e un augurio. «State qui quanto volete. Dopo il pranzo vi offro il gelato». Felici hanno applaudito e intonato un coro haitiano. Il Patriarca, da suor Marcella, ha voluto essere aggiornato sulla situazione del Paese e della baraccopoli. Poi a spasso per la città, la riva degli Schiavoni, la Piazza, via XXII marzo, campo San Stefano, il ponte dell'Accademia fino alla basilica della Salute. A correre più di tutti, in prima fila e con un grande sorriso, Ieffry, 5 anni, nato senza una gamba è stato operato nei giorni scorsi a Bologna dove i medici gli hanno applicato, per la prima volta, una protesi. «È il bimbo più felice del mondo. Corre e gioca di continuo. Tornerà ad Haiti con la sua nuova gamba», ha detto suor Marcella ringraziando il corpo medico e anche l'Air France che ha offerto l'intero viaggio. Ora, il prossimo mercoledì, ritorneranno a "casa". Li attende la scuola. Nel cuore avranno tanti indimenticabili ricordi. Pag 13 “Le grandi navi verso Marghera”. E sulle chiese: “Maggiori risorse” di V.M. La sottosegretaria Borgonzoni Le chiese devono rimanere aperte, ma per farlo bisogna trovare dei fondi per la manutenzione. Un'idea potrebbe essere creare dei percorsi espositivi collegati alla città.

La novità è emersa ieri in occasione della Regata Storica. Fondi per le chiese. Tra gli ospiti c'era infatti la sottosegretaria al Mibac, Lucia Borgonzoni della Lega, che ha inoltre la delega dei rapporti con la Chiesa: «Ho proprio incontrato ora il delegato del Patriarca Angelo Pagan (presente alla Regata, ndr)» ha raccontato «Abbiamo affrontato il problema delle chiese chiuse o in difficoltà, circa una quarantina incluse quelle nelle isole. Dobbiamo trovare un modo per metterle a sistema per evitare il degrado e quindi il danno». Borgonzoni ha detto che in gioco c'è il patrimonio che i luoghi sacri contengono. «Su come fare io stessa ci lavorerò», ha ribadito, «Per essere aperte bisogna trovare chi le tiene aperte e, anche se in quest'ultimo periodo c'è un riavvicinamento ai voti, negli ultimi anni c'è stata una diminuzione». Per adesso è stato solo un punto di contatto, destinato però ad avere un seguito anche perché molte chiese sono sotto il Fec (Fondo ecclesiastico che dipende dal Ministero dell'Interno): «Dobbiamo trovare un modo per non renderle un percorso museale e basta» ha specificato «Ma trovare un collegamento con la città». Grandi Navi. Sulle navi la sottosegretaria ha confermato l'indirizzo di Porto Marghera, sorvolando sulla posizione dei parlamentari M5S veneti che vogliono le navi fuori dalla laguna. «Io penso che la soluzione del Comitatone sia quella più idonea», ha affermato, «anche perché nel Comitatone ci sono le persone che governano la città e che sono state elette dai cittadini». Borgonzoni ha aggiunto che lo scopo è quello di trovare l'equilibrio tra i turisti e l'introito economico che portano e la tutela della città. Borgonzoni ha anche aggiunto che vorrebbe attivare nei siti Unesco una sperimentazione: «Il satellite Telespazio fotografa per due volte al giorno l'Italia» ha spiegato, «In questo modo ci dà informazioni sullo stato degli edifici, in particolare quelli che necessitano manutenzioni ed evitare dei danni. Abbiamo i dati dal 2009 su tutta Italia. Proveremo prima sul Colosseo». LA NUOVA di domenica 2 settembre 2018 Pag 13 L’appello per la Basilica di San Marco: “Per la manutenzione non abbiamo fondi” di Alberto Vitucci Il Primo procuratore Tesserin al governo: “Servono facilitazioni fiscali”. La visita della ministra francese della Cultura «Le chiese veneziane hanno bisogno di cure urgenti. Quello che è successo a Roma potrebbe succedere anche qui se nessuno si interessa più del nostro immenso patrimonio. Chiediamo strumenti per poter intervenire. A cominciare da un regime fiscale che ci permetta di recuperare fondi. Bisogna fare presto». Carlo Alberto Tesserin, primo Procuratore di San Marco, ha inviato ieri l'appello al ministro della Cultura Alberto Bonisoli, in questi giorni a Venezia per la Mostra del Cinema. Ieri Bonisoli ha incontrato la sua omologa francese Francois Nyssen. E l'occasione è stata sfruttata a pieno. Per spiegare al governo e alla Francia la situazione in cui versa il patrimonio culturale della Chiesa. Di buon mattino la ministra di Macron, che di professione fa l'editrice, ha voluto visitare la Basilica di San Marco. Guide d'eccezione il proto Mario Piana (architetto e ed ex dirigente della Soprintendenza) e l'ingegnere Pierpaolo Campostrini, procuratore di San Marco. La ministra ha visitato entusiasta i mosaici e i cavalli di San Marco. Le copie esposte sulla terrazza e gli originali che proprio Napoleone aveva portato via, custoditi ora nel museo. «Sono opere eccezionali», si infiamma Tesserin, «a Reggio Calabria intorno ai due bronzi di Riace hanno costruito un museo e un'immagine internazionale. Noi li abbiamo relegati qui in un angolino». Tra i primi progetti della Procuratoria c'è adesso proprio l'allargamento del museo. Con una sistemazione più idonea per le quattro sculture di rame, opera dell'epoca ellenistica che risale ai primi secoli dopo Cristo. I cavalli, ma anche la manutenzione della chiesa. Una «Fabbrica» piena di capolavori, dai pavimenti ai mosaici. «Vogliamo spiegare al ministero», dice Tesserin, «che noi come Fabbriceria non godiamo delle facilitazioni previste per gli enti pubblici. Significa che gli imprenditori non ci fanno da sponsor perché non lo ritengono conveniente. E che dobbiamo comunque pagare il 10 per cento di Iva». Situazione sempre più critica, che mette a rischio le manutenzioni. Sono in corso i lavori di rialzo della pavimentazione e di isolamento del nartece, l'ingresso della Basilica che è il punto più basso della città a meno di 70 centimetri sul medio mare. «Con nostre risorse abbiamo provveduto al restauro dei mosaici e alla costruzione del nuovo parapetto di sicurezza», spiega Piana, «ma i marmi vanno controllati, i mosaici perdono qualche

tessera. La manutenzione deve essere continua. E per farla ci vogliono fondi. «Per tenere in piedi le nostre chiese, adesso che le offerte calano, come le vocazioni e gli sponsor, ci vuole l'aiuto dello Stato», dice Tesserin. Messaggio arrivato ieri al governo italiano e alla ministra francese. A lei il Procuratore ha donato all'uscita un volume sui mosaici marciani. Invitandola al grande convegno previsto per fine anno proprio sui mosaici della Basilica. «Ci sarò, sicuramente», ha sorriso. CORRIERE DEL VENETO di sabato 1 settembre 2018 Pag 1 Venezia e la bolla gialloverde di Alessandro Russello Il cortocircuito Sarà perché Venezia è la «più bella città del mondo» che si porta dentro il brutto dei suoi opposti. Che pesano millanta volte rispetto alle bellezze meno fragili del cristallo. Dal decadimento ai conflitti, dall’appeal al senso di respingimento, dal fermento all’inazione, dall’esercizio del potere a quello della gestione e della visione. Cos’è Venezia? Cosa dovrebbe-potrebbe essere? Domande che nella «contemporaneità» incombono almeno dal 1966, l’anno in cui la città annegò mescolando i pesci veri con quelli di vetro di Murano e facendo rimbalzare l’inedito (e oggi frustro) grido in ogni dove: «Salviamo Venezia». Veneziani, italiani, americani, inglesi, marziani. Suona perfino sordo, al netto della nobiltà degli intenti, il programmatico tiritera. «Salviamo Venezia» è diventato il luogo della retorica, il deposito della chiacchiera da convegno, l’intellettualissimo esercizio di stile rispetto al bisogno di decisioni della politica e dell’amministrazione. Scandalo Mose a parte («a parte» si fa per dire) Venezia è sempre lì. Fra Disneyland e Immobiland, grandi navi e piccoli cabotaggi, sindaci che vanno e ministri che vengono. Immutabile. Impenetrabile. Intangibile. Per fortuna e per sventura. Con i suoi cortocircuiti: dai sei miliardi spesi per le dighe mobili nel più grande scandalo di Stato dei tempi moderni all’impossibilità di piantare ovunque un chiodo per il rischio di andare in galera. Un male (necessario?) che parte dall’architettura del potere. Di chi è Venezia con la sua laguna? Chi la governa? Diremmo il sindaco ma è la più sbagliata delle risposte. Il sindaco ha potere solo sull’8 per cento del territorio (città e canali interni) mentre il resto è ripartito in un risiko siffatto: l’Autorità portuale (con il governo che la controlla), la Capitaneria di porto, lo Stato con i beni del Demanio (per dire, parte dell’Arsenale), il Provveditorato alle Opere pubbliche (il vecchio Magistrato della Acque, nome cambiato per via dei Magistrati inquisiti nell’inchiesta Mose). Per non parlare delle forme di controllo indirette fra istituzioni e lobby. Dalla Regione – che ha investito un mare di soldi nella Marittima e che rischia di perdere tutto se le navi da crociera non attraccheranno più lì – fino ai gondolieri, ai motoscafisti, ai trasportisti, alle società crocieristiche e ai No Nav. Lobby a parte, una divisione di poteri e contropoteri che in assoluto potrebbe starci data la peculiarità di Venezia. Ma che da sempre ha condizionato la vita di questa città «unica». Stretta fra la sua storia e il suo presente, la tutela e il neo sviluppo, la perdita di abitanti e l’alberghizzazione dei luoghi della fuga. Pensate a quando dev’essere presa una decisione che non sia quella imposta dalle leggi di mercato con la loro forza monetaria (se ho un appartamento non lo vendo al Pubblico per farne alloggi per anziani ma a un americano che me lo paga dieci volte). Decisioni di questo genere: come ricostruire un ponte, se e dove farne uno nuovo, se e dove far passare (ancora) le grandi navi, che fare del waterfront di Marghera, che fare del porto, se dove e come innovare, su quale modello economico investire. Così, tra frammentazione di poteri, veti, controveti, conflitti, interessi e conflitti d’interesse, è più facile che Venezia passi per la cruna di un ago che la politica salga al settimo cielo per essere riuscita a realizzare qualcosa. Certo, in questi decenni qualcosa si è fatto (solito Mose «a parte»), perfino con un risiko la cui gestione sembra più difficile di quella dell’Onu. Fatto soprattutto con le Leggi speciali, valangate di soldi spesi più o meno bene che comunque una logica l’avevano. Anche quando i governi locali erano di colore diverso da quello nazionale. Ma ora sta succedendo qualcosa di molto peggio, perché le contrapposizioni avvengono all’interno dello stesso governo. Tragicomico quanto accaduto in questi ultimi giorni, nei quali abbiamo assistito all’accelerazione, se non della morte di Venezia, della sua crioconservazione. Rigida come un pesce congelato. A beneficio dei decisori del futuro. Venezia, in questa fine estate al centro delle attenzioni del mondo per la Mostra del Cinema – unico elemento di vita e perpetuo avverarsi di un

grande progetto culturale assieme alle altre Biennali - sta assistendo alla schizofrenia programmatica della coalizione Lega-Cinque Stelle. Il massimo della discrasia mai vista dal tempo dei Dogi. L’argomento è quello delle grandi navi e del porto, diciamo un bel pezzo di Pil oltre che di polemiche. Un giorno il ministro M5S Toninelli si fa intervistare e si dice d’accordo con l’ipotesi che le grandi navi (quelle di mega-stazza, da 90 tonnellate in su) attracchino a Marghera. Ipotesi di compromesso – grandi navi a Marghera, piccole in Marittima - già raggiunto dopo lunghe trattative e conclavi a Roma e in procinto di decollare. Naturalmente sempre con i tempi lagunari. Apriti cielo, il giorno successivo i Cinque Stelle nostrani insorgono e con qualche imbarazzo la polemica rientra. Il ministro si allinea ai suoi: i «bestioni» fuori dalla laguna. Il sasso è lanciato e la morale della storia è che con questo veto il business delle crociere e alcune migliaia di posti di lavoro sono a rischio. Mai paura, però. Arriva Salvini, l’altro ministro (Interni) e vice premier leghista. Narrazione opposta: sì alle grandi navi, sì al Pil del turismo, il porto non si tocca, la Venezia di Salvini è salva. Finita qui? Nemmeno per sogno. Ieri è stato il turno del ministro alla Cultura Bonisoli, Cinque Stelle con una via di mezzo fra le posizioni gialloverdi del governo Carioca. No alle grandi navi in laguna (e quindi a Marghera) ma l’industria della crocieristica va salvaguardata. Cosa difficile, con le grandi stazze fuori. Dove le mettiamo? Una possibile soluzione – ipotesi by ministro Toninelli - potrebbe essere il porto di Chioggia. Che però un porto attrezzato e capiente come quello di Venezia non ha. A meno, ironizza qualcuno, di far correre le grandi navi sulla Romea e farle raggiungere Marghera da terra. Certo, bisogna dare tempo al tempo. E soprattutto permettere a chi non ha mai governato di poterlo fare anche alla luce degli scandali che Venezia hanno attraversato. E’ il minimo sindacale del cambiamento. Ne abbiamo viste di tutti i colori e ora, appunto, tocca ai colori gialloverdi. Ma se l’inizio è questo, Venezia sembra avviata ancor più rapidamente verso il suo destino. L’immobilismo. La sua irriformabilità. La sua metafisicità. Una città-teatro il cui sipario si alza al mattino e cala la sera dopo una recita che sa sempre meno di vita. Il suo destino. Galleggiare in una bolla dove non si sa bene se deve o non deve succedere qualcosa, se conviene o non conviene che accada qualsiasi cosa. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 1 settembre 2018 Pag X Patrimonio a rischio. Dalla Tor: “L’Art Bonus sia esteso alle chiese” di Alvise Sperandio L’ex senatore nella scorsa legislatura aveva proposto l’ampliamento del progetto per la tutela delle opere d’arte Venezia. Tutelare le chiese è sempre più difficile a fronte di contributi pubblici in contrazione e di offerte private scarse, se non altro perché la riduzione dei fedeli è direttamente proporzionale a quella dei residenti, mentre anche l'8 per mille è lontano dai fasti di un tempo. Va da sé che, come auspicato ieri su queste pagine anche dal delegato patriarcale don Gianmatteo Caputo, diventa inevitabile immaginare come via d'uscita il mecenatismo di chi ha soldi da investire, in primis gli imprenditori facoltosi che farebbero meno fatica a mettere cifre anche considerevoli per interventi di grossa portata. Il problema è che, come rilevava lo stesso sacerdote, attualmente la legge non consente di applicare alla salvaguardia dei luoghi di culto il cosiddetto Art bonus, dicitura che sta ad indicare il credito d'imposta per erogazioni liberali in denaro a sostegno di ristrutturazioni, introdotto quattro anni fa dall'allora ministro per i Beni culturali Dario Franceschini. Uno strumento che ha permesso di realizzare cantieri di primissima importanza anche in città: dal restauro del ponte di Rialto, reso possibile da Renzo Rosso, a quello del ponte dell'Accademia, diventato realtà grazie al contributo di Luxottica e inaugurato giusto tre giorni fa. L'IDEA - L'impossibilità di ricorrervi per i beni ecclesiastici è una lacuna che era già emersa nella scorsa legislatura e a cui aveva provato a rimediare il senatore veneziano Mario Dalla Tor, all'epoca esponente di Alleanza Popolare, che a palazzo Madama aveva presentato una proposta di legge nel febbraio del 2017 quando, però, ormai molti guardavano alle elezioni tanto che l'iniziativa si era poi arenata. Prima di scrivere il testo, l'ex vicepresidente della Provincia si era anche incontrato con il patriarca Francesco Moraglia con l'intermediazione del primo procuratore di San Marco, Carlo Alberto Tesserin. «Spero che qualcuno possa riprenderlo in mano sostiene oggi Dalla Tor

Il mio lavoro è a disposizione di chi voglia approfondirlo e rilanciarlo. Sarebbe un passo in avanti significativo per aiutare la salvaguardia delle chiese storiche di Venezia». DISEGNO DI LEGGE - Quel disegno di legge era peraltro molto semplice, composto di appena due articoli, di cui il secondo prevedeva l'entrata in vigore il giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale, giusto perché stabiliva l'estensione dell'Art bonus anche ai beni ecclesiastici favorendo la raccolta di fondi utili per effettuare le manutenzioni sempre più necessarie. «Da grandi mecenati privati a piccole imprese, da famosi brand a privati cittadini: i finanziamenti alla cultura possono provenire da tutti e gli esempi virtuosi non mancano», sottolinea Dalla Tor ricordando che il credito d'imposta sarebbe stato ampliato a immobili adibiti ad attività di culto edificati prima del primo gennaio 1900, ma anche a beni mobili d'interesse culturale in essi contenuti, anche appartenenti ad enti e istituzioni della Chiesa cattolica o di altre confessioni religiosi». Insomma, l'intento era nobile, anche perché era stata prevista la copertura dei relativi oneri finanziari, ma le dinamiche parlamentari non hanno sortito alcun risultato. Ciò non toglie che la proposta rimanga valida e che qualche onorevole o senatore, magari soprattutto quelli di riferimento per la città, possa riconsiderarlo e ridargli impulso per trasformarla in legge. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Priorità e non rivoluzioni di Francesco Giavazzi La legge di Stabilità Le urne elettorali si sono chiuse esattamente sei mesi fa, ma la campagna elettorale è continuata come se nulla fosse accaduto. Annunci, sfide, proclami, ma poche decisioni. Che ne sarà dell’Ilva di Taranto, e della Tav in Val di Susa? Cambieranno, ed eventualmente come, le regole per andare in pensione? I sussidi alle imprese verranno ridotti? Che modifiche verranno apportate al sistema di tassazione? Cambieranno il livello e la durata dei sussidi di disoccupazione? In mancanza di certezze le imprese rinviano gli investimenti e le famiglie non spendono. Un nuovo governo impiega sempre un po’ di tempo per stabilire l’agenda, ma Lega e M5S quattro mesi fa hanno sottoscritto un contratto dettagliato di ben 50 pagine: a che pro? Evidentemente non sono in grado di decidere, ma ne va del futuro di un Paese che non si è arreso alla crisi e che con fatica cerca di riprendersi. La questione più urgente è la legge di Stabilità. La Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, nella quale dovranno essere indicati gli obiettivi per i conti pubblici del prossimo triennio, deve essere varata il 28 settembre, fra meno di un mese. L’Italia non ha bisogno di ulteriori veline, interviste, comunicazioni contraddittorie; i mercati, comprensibilmente, andrebbero in fibrillazione e chiunque abbia contratto un debito, una famiglia per acquistare la casa o un’azienda per acquistare un macchinario, a ottobre pagherebbe una rata più elevata. Questa incertezza, almeno sulle cifre più importanti, va risolta nei prossimi giorni. Salvini nega di voler portare l’Italia fuori dall’Europa: dice di voler «rifondare l’Europa dal suo interno». Per raggiungere questo obiettivo, nel Parlamento europeo che nascerà dopo le elezioni di maggio dovrà allearsi con chi in quell’assemblea avrà il potere di decidere, cioè con il Partito popolare europeo (Ppe) dove si trovano il suo amico Orbán e i tedeschi della Cdu e Csu. Trovarsi in minoranza in compagnia della signora Le Pen non gli serve. Paolo Valentino (Corriere, 1 settembre) osservava che la designazione, alla guida del Ppe, del bavarese Weber, molto più vicino a Orbán di quanto non lo sia Angela Merkel, offre a Salvini un’occasione. Se poi riuscirà a portare a termine il suo ambizioso progetto di rifondare l’Europa, lo vedremo. Ma se la legge di Stabilità apre uno scontro con l’Europa e con la Germania il suo progetto fallisce: a Salvini non rimarrebbe altra strada che portarci fuori dall’Unione Europea. È questo che vuole il suo elettorato? Scrivere una legge di Stabilità senza urtare la Germania e senza venire meno alle promesse fatte in questi mesi è possibile? Forse sì. Lega e M5S dicono di avere tre priorità: flat tax, reddito di cittadinanza e abolizione della legge Fornero. Dopo la tragedia di Genova a queste se ne è aggiunta una quarta che per urgenza le sovrasta: un programma di

messa in sicurezza delle nostre infrastrutture, dai ponti, agli argini dei fiumi, alle scuole. Le prime tre priorità si possono realizzare solo violando i parametri europei e facendo salire il debito. La quarta, invece, non è incompatibile con i vincoli europei. Anzi, come vedremo, richiederebbe una legge di Stabilità leggerissima. Dopo la forte caduta degli investimenti pubblici durante gli anni più bui della crisi, le leggi di Stabilità del 2016 e 2017 hanno rifinanziato i due Fondi ai quali attinge la spesa per infrastrutture: il Fondo investimenti e il Fondo sviluppo e coesione. In totale questi fondi oggi dispongono «a legislazione corrente», cioè con norme che sono già in vigore e a suo tempo furono approvate dall’Europa - di circa 150 miliardi di euro, una cifra molto grande, quasi il 10 per cento del Pil. Di queste risorse per ora non è stato speso neppure un euro perché, quando una legge di Stabilità è stata approvata, le risorse vanno ripartite: quanto al Veneto, quanto alla Sicilia, quanto alle scuole, quanto agli argini dei fiumi. Questa ripartizione richiede tempi lunghissimi, a volte quasi due anni. Ora però è stata completata e si possono bandire le gare d’appalto. Il che non significa che i 150 miliardi possono essere spesi subito. Le opere appaltate impiegheranno anni per essere completate. Ciò che conta però è la certezza di aver vinto una gara, certezza che consente alle imprese di programmare assunzioni e investimenti. Ripeto: questi 150 miliardi sono già nel bilancio a legislazione vigente, quindi sono stati approvati da Bruxelles e sono compatibili con la discesa del debito, tanto basta ai mercati. Per spenderli non è necessaria una nuova legge di Stabilità. È sufficiente far partire gli appalti. In realtà più facile a dirsi che a farsi. La maggior parte delle gare dovranno essere fatte da Regioni e Comuni, dove la qualità dei funzionari pubblici spesso è scadente. La loro formazione è più giuridica che tecnica e quindi poco adatta a gestire l’appalto di un’infrastruttura. Non conoscendo gli aspetti tecnici si attaccano alle norme e questo è solo garanzia di ritardi infiniti. (Si legga a questo proposito l’incredibile storia del Ponte di Bassano, unica opera lignea di Andrea Palladio, che da anni rischia di crollare, raccontata da Giorgio Barbieri e dal sottoscritto in I signori del tempo perso. I burocrati che frenano l’Italia e come provare a sconfiggerli , Longanesi 2017. La gara d’appalto fu annunciata nel 2015, i lavori sono iniziati due mesi fa). Anche se gli investimenti pubblici potessero essere realizzati con grande rapidità, non saranno queste opere a far ripartire la crescita. Alcune sono fondamentali (oggi la Gronda di Genova, come dieci anni fa il Passante di Mestre) ma gli investimenti pubblici da soli non sono sufficienti. Negli ultimi trent’anni il Giappone ha speso cifre straordinarie in infrastrutture: la crescita non è mai arrivata, mentre è esploso il debito pubblico. La crescita richiede interventi che liberino «l’offerta»: aumentino la partecipazione al lavoro e la sua flessibilità, inducano i privati a investire, riducano i tempi della giustizia civile e li rendano meno aleatori, liberino le imprese da migliaia di adempimenti costosi e irrilevanti, e così via. Finora quel poco che il governo ha fatto con il decreto Dignità si è mosso nella direzione opposta. Il ministro dell’Economia è forse più ottimista di me sull’efficacia degli investimenti pubblici, ma penso concordi che i danni alla crescita che deriverebbero dalla cancellazione del Jobs act o della legge Fornero non possono essere compensati da alcun aumento nella spesa per infrastrutture. Scrivere una legge di Stabilità accettabile per l’Europa e non dimentica delle promesse fatte è possibile: richiede solo di ristabilire le priorità senza alcuna revisione delle regole europee. Inoltre, come ha scritto Dario Di Vico, una seppur modesta riduzione del carico fiscale e un rafforzamento dei sussidi alle famiglie indigenti e ai disoccupati si potrà fare riallocando un po' di risorse. Flat tax e reddito di cittadinanza devono attendere. Un intervento sarà necessario anche per evitare l’aumento delle aliquote Iva, ma questo non è di dimensione tale da comportare un’inversione nella discesa del debito. Il governo dovrà avere grande cura nel monitoraggio degli investimenti pubblici, se necessario con azioni anche invasive a livello locale, per evitare ritardi. Pagg 2 – 3 Tre punti fermi per chi cerca una soluzione di Franco Venturini e Francesco Battistini Libia: il generale vuole farsi Rais. Bande (e alleati stranieri) per puntare sulla capitale La prima parziale evacuazione dalla Libia del personale italiano, anche se l’ambasciata resta aperta e l’Eni resta operante, conferma fino a che punto gli scontri armati che si susseguono a Tripoli dal 25 agosto mettano a rischio i nostri interessi. L’Italia appoggia il

governo internazionalmente riconosciuto di Fayez Sarraj che ha sede a Tripoli, l’Italia ha in Tripolitania rilevanti interessi economici che contribuiscono a soddisfare i nostri consumi energetici, e i nostri governi sono da anni impegnati in una doppia azione a largo raggio: per la pacificazione della Libia, certo, ma anche per contenere le correnti migratorie che proprio dalle coste libiche tentano di raggiungere il nostro territorio. Se i flussi dei migranti sono notevolmente diminuiti (ma restano anche così al centro delle diatribe politiche romane), il dossier della pacificazione non avanza e rischia ora la catastrofe. Il motivo è semplice: una alleanza di milizie che hanno base non lontano da Tripoli ha dato l’assalto alle milizie che difendono la città e il governo Sarraj denunciando l’iniqua ripartizione dei proventi petroliferi. Armi e soldi, è sempre stata questa la combinazione che alimenta la guerra civile libica da quando il dittatore, ma anche abile distributore di privilegi, Muammar Gheddafi è stato eliminato dall’Occidente nel 2011. Il rischio è ora che la battaglia di Tripoli non abbia soltanto un significato locale. Si dice che le milizie all’offensiva siano in contatto con il generale Haftar, dominus della Cirenaica, vicino alla Francia (che ha interessi energetici in rivalità con i nostri), e avversario di Serraj. Se così fosse, dovremmo aspettarci una estensione dei combattimenti. Tre cose appaiono chiare, ma lo erano già prima degli ultimi avvenimenti. Primo, l’idea di Parigi di tenere elezioni in Libia il 10 dicembre prossimo non è realistica e potrebbe gettare nuovo olio sul fuoco. Secondo, la riunione multilaterale che l’Italia tenta di organizzare a Sciacca può essere utile soltanto se pensata in effettiva collaborazione con la Francia (e viceversa). Terzo, lasciamo perdere le «cabine di regia» con gli Usa per la Libia. Lì le parole non bastano. Una delle cose che il generale Khalifa Haftar ha imparato nei suoi anni americani, dicono, è il vezzo di firmare le bombe. Ha un pennarello speciale. Autografò i razzi che dovevano liberare Sirte dai tagliagole dell’Isis. E lo fece pure quando lanciò la sua Operazione Dignità, che doveva «liberare» l’intera Libia e gli permise di conquistarne metà. Stavolta è improbabile che gli ultimi Grad, piovuti vicino all’ambasciata italiana di Tripoli, portassero la sua firma. Men che meno le pallottole che stanno ripiombando la capitale libica nei peggiori scontri dal 2014. Pochi hanno dubbi, però. E anzi i miliziani delle Forze speciali Radaa, salafiti fedeli al governo sostenuto dall’Onu, lo dicono chiaro. Chi sta attaccando il cuore del potere tripolino non è solo il signore della guerra Salah al Badi, alla testa della Settima Brigata ribelle e delle milizie Al Kani: no, a coprirgli le spalle c’è Haftar. Il generalissimo che si sente il nuovo Rais e in questi anni è stato tenuto fuori dai giochi e ora non s’accontenta più di governare a Est, Tobruk e la Cirenaica, ma vuole prendersi tutto il mazzo. Chi sta con chi - Tre tregue in quattro giorni non sono bastate. Lo scontro è prima politico, che militare. Delegato alle potenti milizie di Tripoli, Tarhuma, Misurata, Zintan, Zawia. Da una parte, chi sta con Sarraj: i Radaa, la Prima divisione Tbr (Brigate rivoluzionarie di Tripoli, del ministero dell’Interno), la Brigata Abu Selim e gli acerrimi nemici di Haftar, l’Ottava divisione Nawasi; dall’altra, gli uomini di Al Badi, rientrato apposta dalla Turchia, dove s’era rifugiato dopo aver messo a ferro e fuoco la capitale nel 2014. Al Badi ha lanciato un appello alla sollevazione popolare contro «i corrotti che affamano Tripoli», dicendo di voler «combattere per chi non ha cibo e per giorni aspetta in coda lo stipendio». Un golpe? Ora, è vero che i miliziani che controllano Tripoli vivono spesso di pizzo&ingiustizia, ma non sfugge che la posta sia ben altra. E che il golpe - perché di questo si tratta, visto che la Settima Brigata aveva giurato fedeltà a Sarraj - coincida con gli interessi di Haftar, dell’Egitto e soprattutto dei francesi, determinati a indire in tutta la Libia elezioni politiche per dicembre. Il generalissimo ha fretta. E non vuole intralci: l’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone, che un mese fa aveva espresso dubbi sulla possibilità di votare nel 2018, oltre ai Grad a cento metri dall’ufficio, s’è beccato i colpi d’un sito francese, molto vicino agli 007 parigini della Dgse, che ha ipotizzato un suo siluramento. Trump e noi - La guerriglia di Tripoli è una faccenda che ci riguarda da vicino, anche stavolta. Lo dicono il pubblico sostegno di Trump al premier Conte (peraltro favorevole ad aprire a Haftar) proprio sul dossier libico, la visita del vicepremier Di Maio al Cairo, l’evacuazione della nostra ambasciata. Improvvisamente, la crisi libica s’è rimessa a correre. L’Occidente va a passo di lumaca. Ed è la volpe della Cirenaica, ancora, a rivelarsi la più veloce.

Pag 16 Stupri, undici denunce al giorno. La trappola di siti e social media di Fiorenza Sarzanini Crescono le violenze compiute in gruppo Roma. È il dato che maggiormente impressiona. Perché il numero dei violentatori identificati continua ad essere più alto dei fatti denunciati e questo dimostra come gli stupri siano spesso commessi in gruppo. È l’aggressione brutale compiuta dal branco, l’assalto che ha segnato numerosi episodi delle ultime settimane. Ragazze sedotte con modi gentili e poi diventate vittime di una violenza selvaggia, oppure adescate via Internet grazie ai siti di appuntamento che troppo spesso si trasformano in una trappola infernale. Il messaggio di Vittorio Rizzi, investigatore di altissimo livello, che guida la Dac, Direzione anticrimine della polizia, è fin troppo esplicito: «Bisogna evitare ogni situazione di potenziale rischio. È importante sapere che sul web il soggetto predatore si maschera meglio grazie alle false identità e anche quando si svela lo fa in maniera subdola. Per questo non bisogna cedere alle lusinghe degli appuntamenti al buio». L’esempio più eclatante è svelato dalle indagini che hanno portato in carcere l’imprenditore di Parma Federico Pesci, che con un amico pusher nigeriano ha sequestrato e stuprato per ore una ragazza di 21 anni conosciuta in chat. Ma l’analisi delle denunce fa emergere come questa modalità di approccio sia in costante e pericoloso aumento. Più di 2.300 violenze denunciate in sei mesi - È stato il prefetto Franco Gabrielli a imporre una politica di prevenzione che passa dalla protezione delle vittime già al primo episodio di maltrattamento in famiglia e si sviluppa con un’azione affidata a gruppi investigativi specializzati. Una linea che sembra dare risultati concreti. Dopo un aumento costante e addirittura un’impennata delle denunce nel 2017, nei primi sei mesi del 2018 c’è stato infatti un calo pari al 15 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Ma questo non basta a rassicurare, perché il numero dei reati rimane comunque altissimo. Sono 2.311 episodi denunciati con una media di 11 violenze al giorno. Ancora tante, troppe. E se si esamina il dettaglio della statistica si scopre che sono ancora moltissimi gli stupri compiuti tra le mura domestiche, sia tra gli italiani, sia nelle comunità straniere. Ecco perché uno degli strumenti ritenuti fondamentali nella prevenzione è il «protocollo Eva» (Esame Violenze Agite) che - come chiarisce lo stesso Rizzi - «nei casi di liti in famiglia consente di inserire nella banca dati delle forze di polizia (Sdi) le informazioni utili a ricostruire tutti gli episodi di violenza domestica che hanno coinvolto un nucleo familiare. I poliziotti che arrivano sul posto sono dunque preparati al tipo di intervento da compiere, sanno se in passato qualcun altro ha dovuto compiere un intervento analogo, se qualcuno detiene armi o ha precedenti, se ci sono bambini coinvolti. E questo è fondamentale per far sentire la vittima maggiormente al sicuro, per rassicurarla e convincerla a denunciare, comunque a chiedere aiuto». Le vittime minorenni e gli aggressori stranieri - Da gennaio alla fine di luglio sono state 1.646 le italiane che hanno presentato denuncia e 595 le straniere, oltre a settanta di nazionalità ignota, per un totale di 2.311 donne. Tra i violentatori sono stati identificati 1.628 italiani e 1.155 stranieri con un’incidenza percentuale di questi ultimi sulla popolazione che certamente appare molto alta. Tra loro ci sono 176 romeni, 154 marocchini, 67 nigeriani, 58 albanesi e 56 tunisini oltre a 143 uomini di cui non è stato possibile accertare la nazionalità. E fa paura il numero di ragazzine sotto i quattordici anni che hanno subito violenza negli ultimi sei mesi: ben 173, tra loro 147 italiane. Una realtà ben delineata nel dossier preparato dalla Dac nel marzo scorso e relativo all’attività svolta fino al dicembre 2017. La relazione analizza proprio l’identità di vittime e carnefici, mettendo in evidenza gli aspetti sui quali bisogna intervenire in maniera ancora più efficace sia per la prevenzione, sia per la repressione. Non a caso è proprio Gabrielli a sottolineare nella premessa la necessità di applicare la legge, ma anche alimentare «la rete composta da istituzioni, enti locali, centri antiviolenza, associazioni di volontariato che si impegnano ogni giorno per affermare un’autentica parità di genere, contro stereotipi e pregiudizi». «L’analisi dei dati - è scritto nel documento - mostra un andamento quasi costante nel tempo del numero delle violenze sessuali commesse, con un lieve aumento nell’ultimo biennio (+5%). Il novanta per cento delle vittime è di sesso femminile. Rispetto agli altri

delitti finora analizzati (omicidi volontari, atti persecutori, maltrattamenti in famiglia) l’età mostra incidenze diverse. Le cittadine italiane minorenni vittime di questo delitto sono oltre il ventuno per cento nel 2017. Un’analisi più approfondita delle denunce ha consentito di verificare i luoghi dove vengono principalmente commesse le violenze sessuali. A differenza degli altri delitti spia, la percentuale di autori di cittadinanza straniera è molto più alta, pur se comunque inferiore a quella degli italiani. Oltre il novanta per cento dei presunti autori sono cittadini maggiorenni, sia che ci si riferisca agli italiani che agli stranieri». La circolare ai questori per attivare la «rete» - È stato proprio Rizzi a trasmettere una circolare ai questori che detta le regole di intervento. La linea nel rapporto con la vittima è chiara: «Fornire una completa e analitica informazione circa gli strumenti - amministrativi e penali - previsti dalla normativa di settore cui la persona offesa può accedere; prevedere, in seno agli uffici, dei criteri di priorità nella gestione dei procedimenti in materia che assicurino agli stessi una «corsia preferenziale» di trattazione; prendere in carico la vittima in ambiente idoneo attraverso personale altamente qualificato, capace di cogliere nella narrazione tutti gli episodi di violenza (o connotati da un coefficiente di pericolosità), ed evitare atteggiamenti di minimizzazione delle condotte esposte; rimanere in contatto costante con la vittima, anche successivamente al primo approccio, facendosi parte attiva nel mantenere i rapporti anche per acquisire ulteriori elementi informativi sull’evoluzione della vicenda esposta; attivare la rete antiviolenza per realizzare le più opportune forme di intervento integrato con servizi sociali e centri antiviolenza attivi sul territorio; attivare il Protocollo Eva». A questo si aggiunge l’attività della polizia postale guidata da Nunzia Ciardi che monitora il web e i siti specializzati proprio per proteggere le vittime, in particolare minorenni. Con un’attenzione particolare ai social che - come spiega uno degli analisti - sono apparentemente più rassicuranti, ma in realtà rappresentano uno degli strumenti maggiormente utilizzati per ingannare la propria preda e poi catturarla». IL GAZZETTINO Pag 1 Il caos della Libia e i rischi per l’Italia di Alessandro Orsini L'Italia sta per perdere quanto di più prezioso abbia nell'arena internazionale ovvero il suo rapporto privilegiato con la Libia. Esiste un modo più chiaro di dirlo: persa la Libia, gli italiani hanno perso tutto. Nel senso che hanno perso qualunque possibilità di essere influenti su un governo diverso dal proprio. È un modo ruvido, ma diretto, di chiarire che non conteranno più niente al di fuori dei propri confini. E siccome la sicurezza dell'Italia dipende, in larga parte, dalla Libia, questo costituisce il problema strategico più importante del tempo presente. Senza considerare, poi, l'incredibile anomalia che l'Italia verrebbe a rappresentare. Tutti gli Stati più ricchi del mondo esercitano un'influenza su qualche Stato più debole. Il rapporto che gli Stati più ricchi del mondo stabiliscono con i Paesi confinanti è egemonico o tendente all'egemonia. Incredibile a dirsi, anche gli Stati meno ricchi tendono a stabilire rapporti egemonici con i Paesi confinanti, ma più poveri. L'Egitto sta cercando di costruire un rapporto egemonico con la Libia. Il Pakistan cerca di stabilirlo con l'Afghanistan. L'Iran con l'Iraq. L'Arabia Saudita con lo Yemen. L'Italia non ha alcuna possibilità di egemonizzare la Libia, la quale presenta caratteristiche tali che non la rendono egemonizzabile da nessuno. Ha però un interesse, l'Italia, ad avere un governo amico, in Libia. I missili, che hanno mancato di poco la sua ambasciata a Tripoli, rivelano che la città è fuori controllo e dicono che l'Italia rischia di perdere per sempre il privilegio di essere il punto di riferimento della Libia. Quando Gheddafi era prossimo al collasso per via delle sanzioni, che provocarono alcuni tentativi di assassinarlo da parte di oppositori interni, fu l'Italia a favorire il ritorno della Libia nella comunità internazionale. Poi Gheddafi fu rovesciato e la Libia è crollata. La conseguenza del crollo è che i confini della Libia sono saltati. Non soltanto i confini territoriali, ma anche quelli politici. Non essendoci più porte, sono entrati in tanti. E ogni governo straniero ha operato per dividere, anziché riunificare. L'Italia ha così faticato inutilmente. L'esempio più chiaro è quello della Francia. L'Onu aveva stabilito la nascita di un governo a Tripoli, insediatosi il 30 marzo 2016, l'unico ad avere una legittimazione internazionale. La Francia ha però sostenuto il governo rivale, basato a Tobruk, che ha il suo uomo forte nel generale Haftar. Dal momento che le polemiche non si addicono agli

studiosi, evitiamo di dire che la Francia ha preso un impegno senza mantenerlo e arriviamo al punto. La situazione che si è determinata è talmente sfavorevole all'Italia che occorre pensare a un piano alternativo e cioè che la Libia venga divisa in due Stati sovrani e indipendenti: Tripolitania e Cirenaica. L'Italia non deve operare per una soluzione di questo tipo, ma deve considerarla. Per spiegare il senso di questa affermazione, occorre sapere che la Libia non può essere stabilizzata con le elezioni volute da Macron. Se vincesse il generale Haftar, appoggiato dalla Francia, prenderebbe quasi tutto, senza benefici per la sicurezza dell'Italia. Contro Haftar si scatenerebbero infatti molte forze, interne e internazionali, e il Paese continuerebbero a essere instabile. In Libia si è già votato più volte dopo la caduta di Gheddafi. A ogni consultazione, il Paese si è diviso ulteriormente. La ragione è facile da spiegare. Siccome la Libia è una casa senza porte, sono entrati ben undici Paesi: Egitto, Francia, Russia, Emirati Arabi Uniti, Tunisia, Ciad, Niger, Sudan, Arabia Saudita, Qatar e Turchia. Come appare evidente, gli Stati Uniti sono assenti e questo contribuisce a spiegare il caos. La domanda che bisognerebbe rivolgere a Macron è la seguente: di grazia, se si votasse in assenza di un accordo costituzionale, si voterebbe per eleggere quale tipo di istituzioni? Il voto dovrebbe dare vita a una repubblica presidenziale o parlamentare? È importante saperlo perché, se le elezioni fossero presidenziali, essendoci molte milizie armate, il rischio di un'escalation sarebbe alto giacché il nuovo presidente sarebbe autorizzato a disarmarle e sottometterle. Se, invece, le elezioni fossero parlamentari, la frammentazione sarebbe certa con la conseguente ingovernabilità. È già accaduto dopo le elezioni parlamentari del 25 giugno 2014, a cui partecipò soltanto il 18% degli elettori. Si votò e arrivò il governo dell'Isis sulle coste libiche. Pag 27 Dai migranti al petrolio il ruolo di Tripoli di Marco Ventura Morti, razzi, milizie l'un contro l'altra armate, clan che si contendono terre e traffici, pizzi travestiti da balzelli e cambi di casacca non da un giorno all'altro ma da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. La Libia è spaccata in tre (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan) ma anche in dieci, venti, duecento, perché ogni milizia ha il suo feudo. Il precipitare della situazione significa per l'Italia «una voragine, un gigantesco buco nero che si apre di fronte a noi», dice il presidente del Cesi, Andrea Margelletti. «La stabilità della Libia è un nostro interesse strategico nazionale, perché la Libia è un po' il nostro Messico». In Libia si gioca la regolazione dei flussi di migranti, come dimostra l'esaurirsi degli sbarchi con la luna di miele Berlusconi-Gheddafi. E c'è potenzialmente anche un'emergenza energetica. Tempo fa Alessandro Pansa, direttore del Dis, cioè della struttura di Palazzo Chigi che coordina i servizi, spiegò che «la crescita del fabbisogno europeo di gas naturale e la prossimità geografica a importanti mercati di destinazione continuano a rendere la Libia, che non è più il nostro primo fornitore di petrolio ma ci garantisce il 10 per cento del nostro consumo di metano, un importante asset geo-strategico, anche in chiave prospettica». E poi, l'Eni resta «la principale società petrolifera internazionale attiva in Libia». La strategia africana dell'Italia dipende dalla pax libica e implica il successo o la disfatta della nostra politica estera e di difesa, ormai tutta focalizzata sul Mediterraneo come ponte naturale (ancora Pansa) che «unisce l'area con il più alto numero di migranti, 76 milioni in Europa, due in più che negli Stati Uniti secondo i dati del 2015, al corridoio continentale fra il Golfo di Guinea e il Golfo di Aden». La Libia significa Mediterraneo, Africa, ossia la direttiva geo-strategica degli ultimi ministri della Difesa fino all'attuale, Elisabetta Trenta, ma significa anche il cuore della politica estera illustrata dal premier Giuseppe Conte alla Casa Bianca. A Donald Trump, che ha dato il suo appoggio alla leadership italiana in Libia. A Misurata, che non è Tripoli ma può essere contagiata dai disordini, c'è il nostro ospedale da campo dell'operazione Ippocrate con circa 300 uomini. La perdita di controllo di Tripoli potrebbe però indurre gruppi armati islamici del Sud, secondo Margelletti, a marciare verso la capitale. E per alcuni la Settima Brigata, la milizia Al Kani di Tarhuna, 65 chilometri a sud di Tripoli, sfida il capo del governo di concordia nazionale, al-Serraj, da quinta colonna del generale Haftar. Decine di bande sono sul piede di guerra, ma neppure le potenti milizie di Zintan e Misurata hanno la forza sufficiente per imporre la legge a Tripoli. Politicamente l'Italia ha puntato su al-Serraj, premier debole riconosciuto dall'Onu e, ufficialmente, dall'Unione Europea. Lo abbiamo aiutato con l'intelligence e con mezzi economici, abbiamo pure

riaperto la nostra ambasciata a Tripoli (unici tra gli occidentali) mancata sabato per pochi metri da un razzo. La Francia però gioca in proprio e punta su Haftar, sia pur privo di qualsiasi investitura legale. E ha versato benzina sul fuoco, non contenta di aver voluto la disastrosa guerra per abbattere Gheddafi. Infine, il caos in Libia chiude le porte al rilancio dell'interscambio italo-libico che era di oltre 12 miliardi di euro nel 2010, un anno prima della guerra, e oggi ne vale circa quattro. Il fatto è che in Libia le milizie sono sensibili solo alla forza dei soldi e delle armi. La diplomazia non basta. LA NUOVA Pag 1 L’Europa muore ma intanto si occupa dell’ora legale di Francesco Jori L'Europa come Cenerentola: e a mezzanotte, la carrozza diventò una zucca. Nella sua desolante meschinità, l'esibizione messa in scena da Bruxelles sull'ora legale mette a nudo il vero rischio di crollo che incombe sulla casa comune. Sordo, gretto e cialtrone sui valori di fondo che devono ispirare la vita di condominio e sulle regole che ne conseguono, l'amministratore si dimostra aperto e sensibile sull'orario in cui pulire le scale. Mettendo così a nudo il vero motivo per cui uno dei sogni più ambiziosi della storia sta degradando in incubo: se da Adenauer, De Gasperi e Schumann stiamo passando a Salvini, Orbàn e Le Pen, è perché c'è chi ha spianato e sta spianando la strada a questa sciagurata deriva. Più che l'onor poté il ridicolo. Il capo dell'Unione ci manda a dire che lui gli europei li ascolta; e gli europei gli hanno appena spiegato che si sono scocciati di metter mano alle lancette degli orologi due volte l'anno. Peccato che sia dimenticato di aggiungere che questa richiesta gli arriva da poco più dei tre quarti dell'uno per cento che ha risposto a un sondaggio sull'ora legale: questione che 316 milioni di abitanti della casa comune hanno bellamente ignorato, o comunque ritenuto talmente irrilevante da non doverle dedicare nemmeno una manciata di secondi. Nel frattempo, la totalità degli inquilini attende inutilmente una risposta su questioni epocali come l'immigrazione, il lavoro, le tasse, il futuro dei giovani, la sicurezza, l'ambiente, le guerre, e altre simili bazzecole planetarie. Con la tragicomica uscita di queste ore, Bruxelles è riuscita a inviare il più devastante dei messaggi: ognuno faccia per sé, ma almeno regoliamo gli orologi, e facciamolo tutti alla stessa ora. Se tra qualche mese, alle elezioni europee, l'impianto tradizionale dei vecchi riferimenti partitici crollerà com'è accaduto pochi mesi fa in Italia, non sarà tanto per le strategie dei moderni maghi Othelma delle esternazioni seriali, quanto per il colpevole demerito dei vecchi mandarini di una politica che da tempo ha divorziato dai fondamentali. A Roma, l'opposizione alla new-wave gialloverde oscilla tra il cambiare la targa all'ingresso del partito, e cambiare tutto tranne l'incartapecorito leader. A Bruxelles, l'aria che tira è ancora peggiore di quella del naufragio del Titanic: intanto godiamoci l'orchestrina, poi i passeggeri andranno a fondo ma quelli con le stellette potranno contare sulla scialuppa di salvataggio. Povera Europa: "O si unisce o perisce", ammoniva Alcide De Gasperi ben prima della firma dei trattati di Roma del 1956. Si era unita, si sta disgregando, sta morendo. Come la donna del mito da cui ha preso il nome, rischia di farsi rapire dal toro-tarocco di turno, dimenticando che la sua ragion d'essere sta nell'incontro e confronto tra diversi: regolata sull'orologio della Storia, non su quello delle circolari. Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di domenica 2 settembre 2018 Pag 1 L’Europa e le urne nel destino di Franco Venturini Per cosa voteremo Sta emergendo con molto anticipo sulle elezioni europee di maggio, ed è un bene che sia così, il vero oggetto del contendere tra l’internazionale dei «sovranisti» e coloro che la temono: la vita o la morte dell’Europa. In Italia come in altri Paesi dell’Unione un trasversale partito europeista punta a riformare la Ue dall’interno, senza buttare il bambino con l’acqua sporca. I nazional-populisti vogliono invece espugnare la stanza dei bottoni di Bruxelles sull’onda di un crescente consenso popolare, ma non dicono come sarebbe la loro «nuova Europa» ed eludono così l’evidente impossibilità di conciliarla con spinte di nazionalismo radicale. La sfida è lanciata, e le auspicabili mobilitazioni elettorali

di fine maggio ne decideranno l’esito perché il Parlamento uscito dalle urne potrà condizionare la composizione della Commissione e disegnare un profilo dell’intera Ue. Se ci sarà. Sappiamo tutti che all’origine di una contrapposizione tanto netta stanno una montagna di errori e la comprensibile reazione delle opinioni pubbliche. Errori clamorosi dell’Europa, che non è riuscita (anche grazie a Orbán, il miglior amico di Salvini) a gestire in maniera equa l’impatto delle spinte migratorie. Errori di un centrosinistra politico che ovunque sembra aver perso il contatto con le inquietudini sociali. I nquietudini esaltate dalle difficoltà economiche, dalle aspirazioni identitarie frustrate dalla globalizzazione, e dalla paura dell’ormai prossima era dell’intelligenza artificiale. Le cause di un disagio diffuso e in crescita, insomma, non sono misteriose e non possono essere ignorate. Ma se è doveroso guardare in faccia la realtà, esiste anche il dovere di trasmettere agli elettori che vorranno prenderne nota la storica importanza dell’appuntamento elettorale di maggio. E’ del tutto illusorio credere che l’Europa possa diventare il contrario di se stessa, sostituendo lo scontro tra nazionalismi radicali, già oggi ben visibile, a un cammino certo insoddisfacente di integrazione settoriale e di cooperazione intergovernativa. Rovesciare il tavolo come i sovranisti vogliono fare, assumere il controllo del Parlamento dissolvendo tutti i gruppi oggi presenti e puntando alla maggioranza attraverso alleanze inedite pronte a condizionare l’intera Europa, non segnerebbe la nascita di una credibile nuova Unione erede di quella che ci ha dato settant’anni di pace e convenienti dimensioni economiche. Decreterebbe piuttosto la morte della «vecchia» Europa, accompagnandola con un salto nel buio che non a tutti, fuori dall’Unione odierna, dispiacerebbe. Nell’attuale disordine mondiale l’effettiva scomparsa dell’Europa infliggerebbe agli assetti geopolitici, strategici e commerciali un colpo gravido di conseguenze. Tra l’altro ne uscirebbero rafforzate le correnti migratorie, e l’Italia sarebbe sempre più sola in mezzo al Mar Mediterraneo perché tutti gli altri alzerebbero, come fanno già i citati «amici» del Gruppo di Visegrád, fortezze terrestri sempre più impenetrabili. Non ci sarebbe nemmeno più contro chi protestare. Non servirebbe nemmeno più, se non presso l’elettorato nazionale, levare alte grida contro una «invasione» che le statistiche indicano in fortissimo calo. La partita è già truccata. E tuttavia sappiamo bene che indicare la vera posta in gioco o denunciare la disonestà delle tattiche propagandistiche nulla toglie alla legittimità del voto democratico. Per questo l’esito dello scontro è incerto. Per questo dobbiamo prepararci a una campagna elettorale molto diversa da quelle che abbiamo visto, distrattamente, dal ’79 a oggi. E per questo anche i potenti aguzzano la vista, c’è chi si propone come federatore dei sovranisti duri e puri e chi osserva i nostri tormenti fregandosi le mani. Il primo, per interposta persona, è a Washington. Il secondo, mai pago dei regali che riceve, è a Mosca. Non occorre tornare a soffermarsi sui contrasti sorti tra Europa e Casa Bianca da quando ad abitarla è Donald Trump. Basterà ricordare come Trump consideri addirittura «nemica» l’Europa in campo economico-commerciale, come la coinvolga nelle sue politiche sanzionatorie e come manifesti una marcata preferenza per i rapporti soltanto bilaterali. Non sorprende più di tanto, allora, che Steve Bannon, l’ex ideologo di Trump, l’uomo che gli fece vincere la presidenza e ripetutamente accusato di razzismo, antisemitismo, odio verso le donne e altre perversioni, si stia occupando intensamente dell’Europa. Interlocutore frequente di Salvini e di Orbán, Bannon si muove su due tavoli. Con una mano dalla sua base di Londra auspica una Brexit senza accordo, la più dannosa possibile. Con l’altra, sul Continente, promuove l’unione operativa tra tutte le forze della destra nazionalista e populista, propone la sponda di un movimento da lui creato, punta esplicitamente alla paralisi totale dell’Europa. Non tutti sono entusiasti delle sue iniziative, ma il messaggio arriva comunque. E va tenuto presente. Tanto più che Vladimir Putin, dal Cremlino, osserva e approva. Dopotutto il primo obbiettivo dell’Urss non era la frantumazione dell’Occidente, e la Russia di oggi non ha ereditato il medesimo interesse? Se non fosse per il timore di aprire falle troppo larghe nella sicurezza dell’Europa e di sconvolgere l’intero assetto geopolitico da Dover agli Urali, timore di certo non suo, Bannon avrebbe licenza di fare di più. Ma non inganniamoci: a fine maggio la scelta sulla vita o sulla la morte dell’Europa spetterà agli elettori. A noi. Pag 30 Rifiutare la competenza, un’idea falsa di democrazia di Giovanni Belardelli Una parte del Paese considera la valutazione delle capacità di una singola persona come una forma di discriminazione o un atto di autoritarismo

Nel giro di poche settimane i commenti sul governo giallo-verde sono passati dal sottolineare i costi e l’irrealizzabilità del «contratto» di governo, nonché le contraddizioni tra Lega e Cinquestelle, alla previsione che l’esecutivo potrebbe invece durare non poco. È la rabbia contro i vecchi partiti ad essere generalmente addotta come spiegazione principale di un consenso che non sembra scemare (lasciamo ora da parte il perché la Lega di Salvini venga percepita come una forza politica nuova). In effetti, un settore importante dell’opinione pubblica afferma con decisione che, qualunque cosa faccia o al contrario si dimostri incapace di fare il governo attuale, di sicuro quelli di prima non li voterà mai più. Questo rifiuto è solo il prodotto di anni e anni di polemica anticasta, come spesso si afferma, o c’è dell’altro? Temo che all’origine vi siano elementi non congiunturali, che rimandano a una trasformazione profonda della nostra società, che tende sempre più a concepire l’eguaglianza nel senso di un rifiuto di tutto ciò che sembra elevarsi al di sopra della massa dei cittadini comuni. Questo atteggiamento - che ritroviamo fisicamente riassunto nella «ostentata medietà» dei due vicepremier sottolineata da Federico Fubini (Corriere, 25 agosto) ma anche nello slogan «uno vale uno» del M5S - fa parte da sempre della mentalità democratica. Quasi due secoli fa, di ritorno dal suo viaggio in America, Alexis de Tocqueville scriveva: «Tutto ciò che in qualche modo lo supera, pare allora [al popolo] un ostacolo ai suoi desideri, e non c’è superiorità, anche legittima, la cui vista non affatichi i suoi occhi». In generale i regimi democratici hanno saputo convivere con questi atteggiamenti, tenendoli dunque a bada, nella consapevolezza che le élites, politiche e tecniche, sono pur sempre necessarie, rappresentano una forma di peculiare «aristocrazia», come scriveva Tocqueville, della quale i regimi democratici non possono fare a meno. Ora qualcosa è cambiato, in Italia e non solo. Ciò che continuiamo a definire populismo, dunque con un termine nato nell’800, si qualifica oggi, nell’era della Rete in cui tutto il sapere sembra essere alla portata di tutti, in cui tutti possono intervenire su tutto (e lo fanno), si qualifica, dicevo, anche per l’idea che solo le spiegazioni semplici sono a misura della democrazia, concepita come un regime politico ma anche sociale che non tollera nulla e nessuno che si elevi al di sopra degli uomini e delle donne comuni. Nella società italiana questo atteggiamento è probabilmente rafforzato anche da una cronica difficoltà a valutare le capacità e i meriti (o demeriti) di ciascuno: degli insegnanti e in generale dei dipendenti pubblici, ma anche dei magistrati, le cui carriere avvengono da tempo soprattutto per anzianità. Una parte del Paese considera la valutazione delle capacità di una singola persona come una forma di discriminazione, qualcosa di sostanzialmente non democratico: si tratta di un retaggio o di un effetto collaterale della battaglia del Sessantotto per l’egualitarismo e contro l’autoritarismo, che ci dice tra l’altro quanti materiali diversi confluiscano nell’attuale consenso al governo giallo-verde. La disinvoltura e, se è consentito, la faciloneria con cui esponenti di primissimo piano dell’esecutivo si pronunciano subito su tutto - dai vaccini alla ricostruzione del ponte Morandi - usando non a caso la stessa forma di comunicazione dei comuni cittadini (Twitter, Facebook) enfatizza dunque un nuovo stadio raggiunto dalla democrazia nell’era della Rete, imperniato sul rifiuto di tutto ciò che ha a che vedere con la competenza. Naturalmente, hanno ragione da vendere tutti coloro che sottolineano i pericoli di questa idea democratica (falsamente democratica, è ovvio) che - in economia come in medicina - diffida degli esperti, pretende la semplicità e quasi identifica ciò che è complicato con ciò che non è democratico, comprese le regole giuridiche. Si ricordi al riguardo «la giusta causa sono i morti» del ministro Di Maio: una pessima giustificazione per una decisione di revoca della concessione ad Atlantia che avrebbe potuto basarsi su ben più solidi argomenti (ma troppo tecnici, troppo complicati, dunque poco «democratici»). Ma, per quanto giuste, difficilmente le critiche a chi si fa beffe degli esperti sortiranno qualche effetto: come tutte le ideologie, anche questa nuova «democrazia integrale» basata sulla universale semplicità è infatti impermeabile alle contestazioni e ai fatti. O almeno, lo è entro certi limiti, che c’è da augurarsi non debbano essere superati (c’è qualche commentatore che non esclude futuri scenari venezuelani) perché il Paese sia costretto a riconoscere che in realtà degli esperti non si può fare a meno. E che semmai, e non è poco, bisognerebbe cercare di sceglierli bene. AVVENIRE di domenica 2 settembre 2018

Pag 1 L’inferno delle madri di Marina Corradi Vita e morte di profughi e migranti Ultimo rapporto della Missione in Libia dell’Onu, datato 24 agosto e diffuso ieri. «Migranti e rifugiati continuano a essere sottoposti a privazione della libertà e detenzione arbitraria in luoghi di prigionia ufficiali e non ufficiali; torture, inclusa la violenza sessuale, rapimento a scopo di riscatto, estorsione, lavoro forzato, esecuzioni illegali. Il numero dei prigionieri è aumentato a causa delle intercettazioni in mare e della chiusura delle rotte nel Mediterraneo, che impediscono le partenze. Colpevoli delle violenze sono ufficiali governativi come gruppi armati, bande criminali, contrabbandieri, trafficanti». «Le donne e le ragazze migranti – prosegue il rapporto – sono particolarmente esposte a stupro, prostituzione forzata e altre forme di violenza». Ai rappresentanti della Missione è stato tra l’altro negato l’accesso alla prigione Zuwarah, che pure è governativa. Gli occhi dell’Onu non devono superare le sue mura: a scuotere le false sicurezze di chi ama dire e gridare che le notizie riferite da quanti sbarcano in Occidente sono 'esagerazioni', addirittura 'invenzioni'. Proprio fra le testimonianze dei cento accolti dalla Cei e giunti a Rocca di Papa, età media 25 anni – ragazzi dunque, li chiameremmo, fossero figli nostri – ecco quella di otto giovani donne riferite a Carlotta Sami, portavoce in Italia dell’Acnur, tramite la mediatrice culturale. Le ragazze hanno detto di avere passato «l’inferno in terra», di aver subito «cose che nessuna donna dovrebbe sopportare». Stuprate e poi tenute prigioniere anche per anni, loro e altre compagne che non ce l’hanno fatta ad arrivare in Occidente. Rimaste incinte, hanno partorito in prigione bambini che sono morti di stenti a pochi mesi. Sono parole che i media hanno pubblicato ieri, forse passate inosservate nella mole di notizie sui migranti. Ma, se ti fermi a pensarci, ti accorgi che descrivono qualcosa di più di ciò che già sappiamo, violenza, stupri, ricatti. Descrivono un inferno: delle donne, e poi delle madri. Prima violentate e recluse. Poi abbandonate in prigione per settimane e mesi; mentre dal loro giovane corpo arrivano i segni di una gravidanza. Riusciamo a immaginarci? Con negli occhi ancora le facce degli stupratori, sentendosi addosso ancora, e forse per sempre, le loro mani, queste ragazze si sono sapute madri di un figlio concepito nella violenza. Un figlio, forse, con gli stessi occhi dell’uomo che non dimenticheranno mai. Nel tempo immobile di una prigione, sentire in sé che quel figlio cresce. Si odia, il figlio di un tale sopruso, quasi fosse anche lui un invasore? È possibile. È possibile che nei lunghi mesi dell’attesa, mentre la sua presenza diventa evidente e il suo peso grava il ventre, una donna odi il figlio. Che il parto col suo dolore sembri un’altra violenza. Ma piangono come tutti i bambini, quei bambini. Solo il seno materno li acquieta. Ci si addormentano sopra, fiduciosi. Non dilania, allora, il contrasto fra la ferocia subita e quell’abbandono inerme? Nel silenzio echeggiante di gemiti delle celle, le prigioniere in bilico su un crinale: odiare, come sarebbe umanamente anche ragionevole, oppure, tuttavia, amare. Ce ne saranno, che si stringono alla fine quel figlio al petto, spinte da un istinto antico, e perfino più forte del male. Ma il bambino ha fame, e la madre non mangia a sufficienza, il latte le manca. È nel buio e tra lo sporco. Quei figli, forti abbastanza da venire al mondo senza esser voluti, in un tugurio, non reggono alla fame e alle infezioni. Si fanno lividi, un giorno dopo l’altro, il pianto più flebile. Dormono quasi sempre, ma è una sonnolenza malata che li tiene quieti. Come li vegliano, con quali occhi, le donne che ormai li sentono, nonostante tutto, vinte dall’istinto materno, figli? Quanto soffrono dell’annunciarsi della morte in quei volti di bambini? Una mattina trovarli accanto nel giaciglio, inerti. Piangere, per non volersene separare. Non è, quello sussurrato in poche faticose parole da povere migranti, a Rocca di Papa, l’inferno delle madri? E come mai, pure leggendo, quasi non ce ne accorgiamo? È il colore della pelle, che ci impedisce di immedesimarci? Cose che accadono appena al di là del nostro mare. Chi fugge viene bloccato, persino riportato indietro, i porti ostentatamente sbarrati. Non possiamo accogliere tutti, dicono, ed è vero. E però lacera il pensiero di queste donne violate, e poi madri, che assistono all’agonia dei loro figli. L’inferno delle madri. Appena al di là del nostro mare. Pag 7 Intimidire i benefattori non è un’opzione. Agisca chi ha il dovere Striscioni offensivi e minacce sul Web. Movimenti nazionali e iniziative di gruppi locali cercano di guadagnare facili consensi e di mettere sulla difensiva vescovi, Caritas e

comunità che hanno scelto la via generosa e più scomoda dell’accoglienza di fronte al dramma dei cento profughi salvati dalla nave 'Diciotti'. Si tratta di mettere in pratica il Vangelo, concretamente, rispondendo a una crisi umanitaria e ai bisogni specifici di persone che in questo modo troveranno una seconda chance per le proprie esistenze. I giovani eritrei, in piccolissimi gruppi, da Vicenza ad Ascoli, da Milano a Pistoia a Taranto, troveranno un percorso di integrazione che li porterà, se vorranno, a diventare cittadini ben inseriti. Non invadono e non 'sostituiscono', come diceva un becero slogan proposto da Forza Nuova. Quello che andrebbe sostituito, e rapidamente, è il clima di intolleranza che sembra avere acquisito spazio e impunità nel Paese. Come se intimidire chi lavora per i poveri e per il bene pubblico sia un’opzione politica al pari di tante altre forme di propaganda. Una deriva da fermare. E il compito spetta, secondo l’architettura istituzionale, proprio al Ministero dell’Interno e al suo titolare. IL GAZZETTINO di domenica 2 settembre 2018 Pag 1 La missione a Pechino è soltanto la prima tappa di Romano Prodi Anche se non abbiamo ancora gli elementi necessari per valutarne le conclusioni, e ancora meno per prevedere quali frutti potranno nascerne, penso che la missione in Cina del Ministro dell'Economia sia stata opportuna. Una missione opportuna perché tutta l'economia del mondo è in subbuglio ed è quindi bene conoscere le strategie dei nostri partner economici e fare loro sapere quali sono le intenzioni del governo italiano. Certo la grande confusione che governa oggi il cielo va ben oltre i confini del nostro paese e sembra soprattutto attendere l'esito dello scontro fra una Cina che vede il proprio futuro in un mondo spinto da un'economia globalizzata e gli Stati Uniti che, con l'America First, tendono a mantenere e rafforzare il loro primato tecnologico messo sempre più a rischio dal gigantesco passivo della bilancia commerciale americana. È chiaro che in questo contesto l'Europa, così marginale nel quadro del potere politico mondiale, diventa invece un perno essenziale della politica economica cinese che tutto farà per evitare che le tensioni esistenti sfocino in una chiusura dei mercati e, soprattutto, dell'enorme e ricco mercato europeo. Fa certo parte della grande confusione il fatto che il maggiore paese comunista del mondo sia in favore della globalizzazione e dei mercati aperti, mentre l'alfiere del capitalismo combatta invece per accordi commerciali ristretti e bilaterali. Ma questo è solo un ulteriore tributo all'imprevedibilità della Storia! Bisogna tuttavia ammettere che, in questa politica della necessaria apertura cinese nei confronti dell'Europa, l'Italia gioca un ruolo eccessivamente limitato anche rispetto alle proprie modeste possibilità. Il nostro commercio estero è una frazione di quello tedesco e si colloca ben al di sotto di quello francese. Nello scorso anno abbiamo esportato in Cina beni e servizi per 13,5 miliardi di Euro, mentre la Francia ha raggiunto i 19 miliardi e la Germania ha superato gli 87 miliardi. Insomma commerciamo poco con la Cina e, soprattutto, non esportiamo abbastanza. Anche nei confronti del tracciato della Via della Seta, che pure nasce da un evocativa immagine italiana, siamo fino ad ora spiazzati perché la Via di Terra trova i suoi terminali soprattutto nel nord Europa mentre la Via del Mare, che anche nel futuro rimarrà dominante, ha fino ad ora trovato nel Pireo il suo punto di forza, appoggiando attività relativamente minori nei porti italiani. I nostri scali sono infatti tra loro divisi e perciò incapaci di mettere in atto gli investimenti necessari per trattare e distribuire in modo concorrenziale l'enorme traffico di merci tra l'Europa e l'Oriente anche se, da circa un anno, sembrano dare qualche segno di risveglio. Il fatto che il Ministro dell'Economia sia stato accompagnato in Cina da alcune tra le poche grandi imprese italiane (come SNAM e Fincantieri) è certo di buon auspicio ma, per un paese formato soprattutto da imprese di minori dimensioni come l'Italia, il ruolo del governo come protagonista dei rapporti con la Cina rimane insostituibile. È quindi già un risultato rilevante che il nostro Ministro dell'Economia abbia potuto avere colloqui a un livello che è generalmente riservato ai Primi Ministri. Non crediamo però che questo rappresenti una premessa all'acquisto consistente di nostri buoni del Tesoro da parte della Cina in un momento in cui i possessori stranieri sono più propensi a venderli che ad acquisirli. Si deve infatti tenere presente che il governo cinese non ha un comportamento diverso da quello dei possessori di fondi. Esso guarda soltanto alla propria convenienza, così come ha fatto con la precedente crisi dell'Euro, durante la quale si è tenuto prudentemente lontano dalla nostra moneta. Durante il viaggio di Tria

in Cina si è addirittura (anche se opportunamente) messo in atto un processo inverso, dato che la Banca d'Italia ha deciso di immettere nelle nostre riserve una quantità di valuta cinese pari a 300 milioni di Euro. Una cifra modesta, inferiore agli 800 milioni acquistati dalla Banca di Francia ma, ugualmente, un opportuno messaggio in appoggio all'internazionalizzazione dello Yuan. Penso tuttavia che il compito più difficile del ministro Tria sia stato quello di spiegare ai cinesi quali siano le future linee del governo italiano riguardo ai problemi che più influiscono sui rapporti fra Italia e Cina, come la politica nei confronti delle nazionalizzazioni o delle concessioni, dato l'interesse dimostrato dalle imprese cinesi nell'investire nel nostro sistema infrastrutturale. E ancor più: ai governanti del Celeste Impero interessa sapere se la politica italiana avrà l'obiettivo di tenere saldamente un ruolo attivo nelle istituzioni europee e nella moneta unica o se sceglierà invece un processo di progressivo isolamento. Bisogna perciò concludere che il compito più difficile del Ministro dell'Economia per mettere a frutto i risultati della sua missione in Cina deve ancora cominciare perché tale compito si dovrà svolgere a Roma. A Pechino si limiteranno a trarne le conseguenze. Pag 5 Migranti, sei italiani su dieci bocciano l’indagine dei pm di Diodato Pirone Oltre la metà degli elettori favorevoli al blocco della Diciotti a Catania La grande maggioranza degli italiani, per l'esattezza il 61%, boccia l'inchiesta della Procura di Agrigento sul ministro dell'Interno Matteo Salvini che ha deciso di bloccare nel porto di Catania, e per 5 notti, i migranti raccolti dalla sulla nave militare Diciotti. Non solo. Il consenso per l'azione del governo supera quota 50% anche sulla linea di freno all'immigrazione e sulla minaccia di non versare fondi italiani all'Ue se gli altri stati europei continueranno a non aiutare l'Italia sui profughi. Questi i risultati del primo sondaggio post estivo SWG frutto di 1000 telefonate effettuate nei giorni scorsi a elettori ancora freschi di ombrellone. Le percentuali dei risultati sono molto nette. «Possiamo ricorrere a tutte le sfumature del mondo ma un fatto è chiarissimo - spiega Enzo Risso, direttore della SWG - Agli italiani dà fastidio l'ingerenza della magistratura in quella che considerano a torto o a ragione una mossa politica del ministro Salvini e dell'intero governo sul tema dell'immigrazione». IL PUNTO - E' assai interessante osservare il comportamento dei diversi elettorati su questo nodo: il 92% e l'81% degli elettori che rispettivamente si dichiarano leghisti e pentastellati disapprovano l'indagine promossa dai magistrati di Agrigento. La percentuale scende, ma resta sempre elevatissima, fra gli elettori di Silvio Berlusconi, antigiustizialisi per eccellenza, che sono contrari all'inchiesta al 56%. Anche la maggioranza degli elettori indecisi, per la precisione il 50,6%, è poco o per niente d'accordo con i magistrati. E fa notizia che su questa linea si colloca anche il 22% (cioè un elettore su cinque) di coloro che se si votasse domani darebbero la loro preferenza al Pd. Una parte dell'elettorato dem, per l'esattezza il 20,7%, condivide o comunque non condanna anche le minacce all'Europa reiterate più volte dal governo italiano di bloccare il prossimo bilancio europeo o di non pagare le nostre quote se l'Europa continuerà a a non aiutare l'Italia sul tema dell'immigrazione. Su questo punto il 54% degli italiani condividono la linea di condotta del governo. La percentuale di favorevoli è alta (anche se inferiore a quella sui magistrati) fra gli elettori leghisti che concordano all'80% e fra quelli dei 5Stelle (77,5%). Il consenso scende intorno a quota 50% fra gli elettori di Forza Italia e fra gli indecisi e , come detto, sfiora il 21% fra i democrat. I BULGARI - Già, ma sul nodo all'origine del contendere, ovvero sul blocco dei migranti sulla nave Diciotti, come la pensano gli italiani nel dettaglio? Il 53,8% dichiara di appoggiare (molto o abbastanza) la linea Salvini. Qui i dati suddivisi per fede politica si discostano parzialmente dalle altre due tabelle. Salvini ha un consenso bulgaro fra i suoi elettori pari addirittura al 95,4%. I pentastellati che lo appoggiano sono il 69,6%. Va sottolineato però che fra chi dichiara di voler votare per i grillini si registra anche un 27,9% di persone poco o per niente favorevoli al blocco. La fotografia fra i forzisti segnala una spaccatura robusta: 40,4% favorevoli alla linea dura ma 60% (59,6 per la precisione) contrari o assai tiepidi. Sul fronte anti-immigrazione anche l'elettorato del Pd è piuttosto compatto come - a specchio - quello della Lega. Solo il 7,7% degli elettori democrat condivide le modalità di Salvini di bloccare i migranti sulla Diciotti mentre il 72% mostra il pollice verso. E' interessante notare anche la spaccatura quasi a metà

degli indecisi: 38,5% pro-Salvini e 41,6% contro. I dati complessivi sul caso Diciotti restano comunque inequivocabili: il 54% degli italiani favorevoli il 39% contrari e solo il 7% che non sanno cosa dire . LA NUOVA di domenica 2 settembre 2018 Pag 1 Propaganda e questioni ineludibili di Fabio Bordignon È diventato complicato, se non impossibile, sottrarre il dibattito sull'immigrazione alle opposte impostazioni ideologiche, alla propaganda politica, all'impeto dei buoni e dei cattivi sentimenti. C'è una dimensione umanitaria: ineludibile - a mio avviso prioritaria - quando si parla ad esempio del soccorso delle persone in mare. C'è il problema del rispetto dello stato di diritto: delle leggi nazionali e sovranazionali. Ci sono i rischi connessi al tentativo di cavalcare, in modo spregiudicato, la paura dello straniero, che in alcuni settori della popolazione si mescola al razzismo. Negare, tuttavia, che esista una questione-immigrazione - diciamolo pure: un problema-immigrazione - è altrettanto pericoloso. La "realtà" ci dice che la presenza straniera è ancora inferiore a quella di altri paesi. Che, nonostante la crisi, alcuni settori della nostra economia "hanno bisogno" di manodopera straniera. Che il numero di reati è complessivamente stabile, in alcuni casi addirittura in calo: un punto non marginale, considerato che la principale paura generata dall'immigrazione riguarda proprio il possibile impatto sul fronte della criminalità. Sappiamo, allo stesso tempo, che esiste una evidente associazione, nell'andamento temporale, tra xenofobia, campagne elettorali e copertura mediatica del capitolo immigrazione-e-sicurezza: in altre parole, la politica e il sistema dell'informazione hanno le loro "colpe", nel configurare un clima di paura. La "realtà" ci dice tutto questo. Ma, se quattro persone su dieci, oggi, vivono con apprensione il tema dell'immigrazione, è difficile pensare che tale inquietudine sia completamente infondata, totalmente "indotta" dall'offerta politica e mediatica. Che essa non sia riconducibile, almeno in parte, alla (cattiva) gestione dell'immigrazione. Al fatto che l'Italia, dopo avere aperto le proprie porte, si è dimostrata incapace di accogliere e integrare i nuovi arrivati. E che questo ha creato aree di marginalità, disordine sociale e purtroppo, in molti casi, illegalità. Fenomeni visibili, nelle nostre città: essi innescano le reazioni delle fasce più deboli; e creano disagio anche in chi, sul piano ideale, è dalla parte della società aperta. Anche così si spiegano i flussi elettorali verso la Lega in settori sociali e aree geografiche un tempo ostili. Salvini ha scelto una strada ben chiara: il no way di stampo australiano. Un approccio che nemmeno prende in considerazione il problema dell'integrazione, avendo come (implicito) obiettivo, magari irrealistico, l'immigrazione-zero, del quale è tuttavia difficile negare una certa efficacia nel disincentivare le partenze. Chi vi si oppone dispone di un piano alternativo per regolare il fenomeno, che non coincida con l'incontrollata apertura delle frontiere? Soprattutto, è in grado di comunicarlo in modo altrettanto efficace? Pag 1 Le barricate dei leghisti di Gianpiero Dalla Zuanna Durante il periodo caldo degli sbarchi, conclusosi nel luglio del 2017, tutti i prefetti italiani sono stati chiamati a un lavoro durissimo, perché hanno dovuto agire in continua emergenza, sistemando centinaia di richiedenti asilo nei centri di accoglienza. Ma le cose non sono andate allo stesso modo in tutta Italia, come ho potuto constatare personalmente, compiendo numerose visite nelle realtà più diverse e interloquendo continuamente con il Ministero, durante la mia attività parlamentare. Ad esempio in Emilia-Romagna i richiedenti asilo arrivavano tutti in un grande hub a Bologna, e nel giro di un mese venivano collocati in modo razionale nei centri di micro-accoglienza di tutta la regione.In Veneto, invece, l'autorità regionale si è sempre fieramente opposta a una vera gestione. Letteralmente, i pullman con i richiedenti asilo provenienti dai porti di sbarco arrivavano in un piazzale di Marghera, e ai prefetti - la sera prima - veniva chiesto di trovare nel giro di 24 ore 10, 50 o 100 posti. Inoltre, praticamente tutti i comuni veneti amministrati dalla Lega hanno fatto le barricate per evitare di accogliere i richiedenti (spesso in compagnia di sindaci di altro colore politico) lasciando Bagnoli e Cona al loro destino. Dicendo questo, non voglio giustificare l'azione dei prefetti che hanno operato nella nostra regione, né tantomeno Edeco, su cui sarà la magistratura a

pronunciarsi. Voglio piuttosto affermare che Salvini, gettando la colpa politica sul Pd su quanto accaduto in Veneto, capovolge la realtà. È stata proprio la Lega, boicottando qualsiasi tipo di accoglienza, a favorire una cattiva gestione dell'emergenza. La seconda rappresentazione distorta fornita da Salvini è sul merito per aver bloccato gli arrivi. Anche su questo i numeri (ufficiali del Viminale) parlano chiaro: agosto 2016, 21.000 sbarchi; agosto 2017, 3.900 (con Minniti ministro); agosto 2018: 1.500. Chi ha bloccato la cosiddetta "invasione"?Infine, anche la rappresentazione delle cooperative che si occupano di accoglienza è - diciamo così - sbrigativa. C'è Edeco (che, detto per inciso, non c'entra nulla con il Pd, che anni fa ha pure presentato un esposto alla magistratura sul suo operato...), che lavora in modo disinvolto sui grandi numeri. Ma ci sono centinaia di altre realtà, sparse per il Veneto e in tutta l'Italia, che silenziosamente fanno il loro lavoro di micro-accoglienza dei richiedenti asilo, con retribuzioni e guadagni molto modesti. Così come ci sono sindaci - anche di destra - che si sono responsabilmente fatti carico del problema, rifiutandosi di scaricare le responsabilità sui territori confinanti. Salvini, a mio avviso, dovrebbe fare una sola cosa: chiudere subito i centri di Cona e Bagnoli. Nel suo intervento a Conselve, Salvini ha fatto qualche promessa. Vediamo se riesce ad uscire dalla propaganda, vestendo - per una volta - i panni di Ministro degli Interni. Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di sabato 1 settembre 2018 Pag 1 I pericoli del legame con Mosca di Angelo Panebianco Noi e l’Occidente Un 18 Aprile 1948 rovesciato? La rivincita dell’Oriente sull’Occidente? Può essere che le elezioni del 4 marzo di questo anno risultino l’equivalente - con conseguenze opposte - delle elezioni di settanta anni fa. Il 18 Aprile del 1948 si decise ciò che era rimasto in sospeso fin dal momento della Liberazione: la nostra collocazione internazionale. L’Italia venne allora ancorata all’Occidente (ne derivò l’adesione al Patto atlantico nel 1949 e, in seguito, il coinvolgimento nel processo di integrazione europea). Venne respinto dagli elettori il tentativo del Partito comunista di agganciare il Paese all’Oriente, di spostare l’Italia nell’area di influenza dell’Urss, versione bolscevico-russa del dispotismo asiatico. A parti rovesciate oggi l’Italia sembra sul punto di mettere in discussione le scelte pro-Occidente del 1948, sembra pronta a salpare verso lidi più orientali (la Russia sta a cavallo fra Europa e Asia), sembra pronta a ridefinire la propria collocazione internazionale. Forse è sbagliato parlare di «sovranismo», forse «orientalismo» sarebbe un termine più appropriato per descrivere le possibili scelte internazionali di questo governo. Naturalmente, c’è una differenza fra il 4 marzo 2018 e il 18 Aprile 1948: non c’è più il bipolarismo, e alla Casa Bianca siede un signore per il quale forse non sarebbe un dramma l’eventuale smantellamento del sistema di alleanze occidentali. In un mondo molto più confuso gli elettori questa volta (a differenza di allora) non avevano idee chiare sulle implicazioni internazionali delle loro scelte di voto. Grazie al Cielo il futuro è aperto, non è già scritto e forse quanto molti temono non avverrà. Ma ipotizzare il peggio, quando il peggio è possibile, può aiutare a cercare i mezzi per scongiurarlo. Il «peggio» sembra annunciato dalle mosse di Di Maio e Salvini, resi baldanzosi dai sondaggi favorevoli nonché dalla assenza di una vera opposizione. Essi preparano il momento in cui le continue , e per nulla innocenti, profezie del ministro Paolo Savona (compresa l’ultima , quella sul possibile ruolo della Russia rispetto al nostro debito) diventeranno realtà. Orientalismo significa, in questo caso, che statalizzare il più possibile l’economia e stampare moneta per finanziare le promesse elettorali giallo-verdi, richiedono che si rompa con l’Europa e che si cerchi una cuccia più accogliente di quella occidentale, la cuccia russa appunto. L’alleanza con il gruppo di Visegrád sembra una tappa intermedia, serve a stabilire un ponte percorrendo il quale si potrebbe arrivare a una compiuta ri-collocazione internazionale dell’Italia Definire la sfiducia dei mercati come congiura dei poteri forti (Salvini), aprire un contenzioso sull’Europa come quello aperto da Di Maio, entrare in conflitto con Macron (ancora Salvini) sono mosse che sembrano preparare l’ora di un più ampio congedo. In primo luogo, dall’Europa. Se mai arriverà il nostro momento «greco» (come ha scritto Paolo Mieli su questo

giornale,nel marasma potremmo finire già in autunno), sarà facile imputare ciò non alla politica del governo ma ai nemici esterni, l’Europa, la finanza internazionale,eccetera. Finché, una bella mattina, scopriremo che durante la notte siamo usciti dall’euro. Le disastrose conseguenze che ciò avrà per gli italiani, per i loro risparmi , per la qualità della loro vita, verranno imputate agli intrighi di forze malvagie e oscure. Detto con rispetto, puntare tutto sulla ragionevolezza del ministro dell’economia Tria, sembra una cosa da disperati. Ricorda quel tale che, caduto dal nono piano e giunto come un bolide all’altezza del primo, si aggrappa al filo della biancheria stesa. E’ possibile che i due non allineati di questo governo, Tria e il ministro degli Esteri Moavero, diventino presto storia, vengano sostituiti da più docili esecutori. Come dimostrò il caso di Che Guevara al momento della formazione del primo esecutivo castrista a Cuba, non c’è alcun bisogno di competenza per fare il ministro dell’economia di un governo rivoluzionario. Naturalmente, spezzare l’ancoraggio europeo sarebbe solo il primo di una serie di passi . Dopo verrebbero l’allentamento dei legami con la Nato e l’ingresso nell’area di influenza russa. Come ha scritto Mario Monti (Corriere, 27 agosto) tutto ciò avverrebbe senza alcuna preventiva discussione nel Paese. Ne deriverebbero conseguenze anche per la nostra politica medio-orientale: ad esempio, allineamento anti- israeliano, stretti legami con l’Iran (Paese alleato dei russi). Per inciso, è stato lungimirante chi ha deciso di invitare rappresentanti del regime iraniano, noto paladino della libertà di pensiero e di parola, al Salone del Libro di Torino: è l’arte di essere allineati e coperti, nessuno sa praticarla meglio di certi intellettuali. Chi pensa che in un simile catastrofico scenario gli italiani caccerebbero gli attuali governanti, forse si illude. Con una opposizione devitalizzata , che è ora solo in grado di abbaiare alla luna, i giallo-verdi, probabilmente, vincerebbero di nuovo. Così come in un Venezuela ridotto alla fame continuano a vincere le elezioni i responsabili di quel disastro. A parte il consiglio, scherzoso ma non troppo, rivolto a tutti coloro che non hanno simpatia per i governanti russi, di non accettare mai caramelle dagli sconosciuti (potrebbero essere al polonio), il problema davvero grave riguarderebbe i giovani: quali prospettive avrebbero i giovani di qualità, quelli che non sono interessati a diventare, con redditi di cittadinanza o altro, i poveri, tristi clientes di uno Stato alla bancarotta? Chissà, magari all’ultimo si prenderanno paura, non avranno il coraggio di adottare le ricette economiche «venezuelane» proposte da certi loro consiglieri. Magari Tria e Moavero resteranno al loro posto. Soprattutto, non sarà facile superare la ben più solida capacità di resistenza del Presidente della Repubblica. Anche se, come abbiamo già visto, c’è chi è in grado di proporre la messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica con la stessa disinvoltura con cui si ordina un caffè. Finché i sondaggi continueranno a dare loro ragione essi persevereranno. Però nulla è per sempre. Il vento può cambiare. Pag 13 E Benjamin Franklin pensò: “Svegliamo tutti prima per risparmiare candele” di Michele Farina Il tecnocrate populista e la (poca) democrazia L’ora dell’estate e del risparmio, ma anche della guerra: in Francia si chiama «heure d’été», in Spagna «hora de verano»; «Sommerzeit» per i tedeschi, i primi a introdurla nel 1916 con l’obiettivo di risparmiare energia durante il primo conflitto mondiale, seguiti a ruota dai nemici britannici che ne furono entusiasti: nel 1985 (11 anni prima dell’Europa unita) Londra sincronizzò gli orologi su quello che in inglese è DST (Daylight saving time). Gli italiani l’hanno adottata durante le guerre mondali, e poi definitivamente dal 1966, accentuando nel nome quel carattere innaturale (contrapposto a solare), artificioso e appunto «legale» che ora l’Europa vuole rendere permanente sotto la spinta dei nordici, Finlandia in testa, di quei Paesi cioè che soffrendo già le lunghe notti invernali vogliono continuare a rubare un’ora al buio, senza più dover tirare indietro le lancette degli orologi alla fine di ottobre. Il nostro modo di vivere il tempo dipende dalla geografia. Il cambio dell’ora è un rito molto occidentale, da cui è escluso l’80% degli abitanti del globo e il 68% dei Paesi. Nel club ci sono Europa, Nord America, Brasile e Cile, una fascia di Medio Oriente, Marocco e Namibia in Africa, un pezzo di Australia e Nuova Zelanda. Curiosamente fu un entomologo neozelandese, George Vernon Hudson, a fine Ottocento a lanciare l’idea dell’ora avanti, forse perché un supplemento di luce serale gli permetteva di cercare insetti fino a tardi. Negli stessi anni

a Londra la bandiera DST era sventolata da William Willett, imprenditore nonché antenato del cantante dei Coldplay Christ Martin. Molto prima, nel 1784, lo scienziato e pensatore Benjamin Franklin (tra i padri della Rivoluzione Americana) aveva proposto di «anticipare» la sveglia per tutti, per non sprecare la luce del sole risparmiando sulle candele di sera. L’inventore del parafulmine raccontò la sua scoperta nella capitale francese, in una lettera al Journal de Paris. Alzandosi casualmente alle sei, Franklin vide con grande sorpresa il sole alto e la città addormentata. Nella sua lettera, calcolò in 32 mila tonnellate la montagna di cera necessaria nelle case dei centomila parigini dal 20 marzo al 20 settembre. E propose di tirar giù dal letto la gente prima, con le campane delle chiese e magari con una cannonata. Una questione (anche) di armi: in anni recenti, negli Usa due studiosi della Brookings Institution hanno rilevato un calo della criminalità quando è in vigore l’ora legale. La maggioranza dei reati in strada avviene tra le 17 e le 20. Più luce, meno scippi? I detrattori del cambio avanti/indietro citano diversi studi secondo cui intervenire sull’orologio biologico comporta un aumento degli incidenti stradali e degli attacchi di cuore. Quanto al risparmio energetico, oggi non ci sono prove né a favore né contro. Lancia dubbi sull’opportunità di avere giornate più lunghe la University of California, che mette in guardia dall’aumento dei consumi dei condizionatori. L’orologio della storia e l’ora legale. Anche il Giappone vorrebbe introdurla (due ore avanti) seppur temporaneamente, tra il 2019 e il 2020. Motivo? Le Olimpiadi: si teme che un caldo simile a quello patito quest’estate (140 morti) possa nuocere ai Giochi. Ma anche a Tokyo ci sono scienziati che lanciano l’allarme «troppe ore di luce». I giapponesi già dormono poco, e questo abbassa la produttività: le stime parlano di 138 miliardi di dollari persi ogni anno, quasi il 3% del pil. «La gente vuole questo e lo faremo». Niente male come paradosso: a scandirlo ieri non è un populista anti-tecnocrati dell’euroburocrazia, ma proprio il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, fulminato dal «record» di 4,6 «milioni di persone che hanno risposto» alla «consultazione pubblica» aperta dall’esecutivo continentale dal 4 luglio al giorno dopo Ferragosto. Quattro milioni di sondàti online, che decidono per 500 milioni di europei in un voto semiclandestino, sono una istruttiva lezione di (non) democrazia, specie se a votare sono stati da un massimo del 3,79% di tedeschi (due terzi di tutti i votanti europei) a un minimo dello 0,04% di italiani (appena 30.000), a riprova di un sondaggio evidentemente lanciato in sordina dalla Commissione Ue e poi non pubblicizzato dagli Stati con campagne di comunicazione istituzionale ai propri cittadini. Ma in ogni caso non sarà la curiosa neo-interpretazione di Juncker de «la gente lo vuole» a poter determinare da sola la modifica della direttiva 2000/84/CE, che impone agli Stati di spostare gli orologi due volte l’anno, e che invece Paesi dell’Est (Polonia, Lituania) e del Nord (Finlandia, Svezia) spingono per cancellare allo scopo di avere l’ora legale tutto l’anno: una direttiva europea non si cambia con il mouse a Ferragosto, ma con il voto, oltre che del Parlamento Europeo, anche del 55% degli Stati membri del Consiglio d’Europa che rappresentino almeno il 65% della popolazione. AVVENIRE di sabato 1 settembre 2018 Pag 1 Un gran vuoto verde di Massimo Calvi Giornata del creato e sfida per tutti Il rischio che corre oggi chi ha un minimo di sensibilità ecologica e ha a cuore le sorti del pianeta insieme a quelle del genere umano è di cedere alla rassegnazione: pensare che la causa ambientale sia persa in partenza e che l’incapacità di attuare riforme radicali nel modello di sviluppo dovuta all’avidità degli uomini abbia già scritto il destino della Terra. Le cronache del clima forniscono buoni motivi per alimentare l’angoscia. Senza andare lontano, basterebbe ricordare il caldo record registrato nel Nord Europa quest’estate, la siccità e gli eventi atmosferici estremi che si ripetono con regolarità impressionante, la ritirata dei ghiacciai sulle Alpi. Anche a queste latitudini, dove la tecnologia e le maggiori risorse permettono una resilienza migliore ai cambiamenti del clima, si sperimenta in piccolo quello che popolazioni meno fortunate vivono altrove come una lotta per la sopravvivenza, trovando nella migrazione l’unica risposta possibile. È bene ricordare tutto questo nel giorno in cui la Chiesa italiana celebra la Giornata nazionale per la custodia del Creato. Il Messaggio per promuovere la riflessione parla proprio del pericolo

che si faccia strada «un senso di impotenza e di disperazione», quasi fossimo di fronte «a un degrado inevitabile della nostra Terra», ma la prospettiva resta aperta alla speranza, nell’invito a «non cedere alla rassegnazione» e nel segno di quella «conversione ecologica» che è tratto distintivo dell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco. Nutrire fiducia nel futuro dell’umanità e della sua «casa comune» è la vera sfida di questa epoca. Per capire come affrontarla, superando la resistenza naïf dei negazionisti del clima, si può guardare a quanto accaduto in Francia giusto questa settimana con le dimissioni di Nicolas Hulot, il ministro alla Transizione Ecologica e Solidale del governo Macron. Hulot, grande personaggio pubblico, era considerato un 'animale raro' nel mondo ecologista, una personalità capace di fare sintesi tra la caratterizzazione estrema che nelle campagne d’Oltralpe (e non solo, purtroppo) si tende ad avere degli ambientalisti, visti o come dolci sognatori o come cinici e radicali misantropi. La sua rinuncia è stata interpretata come l’impossibilità di piegare il sistema economico neoliberista alle ragioni della difesa dell’ambiente, l’interesse delle lobby alla causa della tutela del pianeta, le abitudini radicate delle persone all’urgenza di adeguare gli stili di vita. È vero però anche un altro aspetto: la difficoltà dell’ecologismo di incarnarsi nella vita reale, di essere generativo e fecondo non solo di slogan ultimativi. È una crisi dovuta alla fatica della mediazione, alla libertà di accettare compromessi se servono ad avviare veri processi di cambiamento. Non è facile, e lo si capisce da questioni locali come la Tav, l’Ilva, la Gronda di Genova. Lo sforzo di trovare continui punti di equilibrio tra interessi individuali e Bene comune conduce in un terreno pieno di contraddizioni, non solo a livello macro. Qualche esempio? I giovani si credono a basso impatto ambientale in virtù dell’economia condivisa che frequentano, ma quest’estate si è registrato il record storico di aerei in cielo perché i voli 'low cost' col trolley hanno sostituito gli assai meno inquinanti viaggi in treno con zaino e sacco a pelo; le applicazioni promettono spostamenti smart, ma l’auto condivisa tende a far salire traffico e inquinamento; lo scambio di case mette fuori gioco le multinazionali delle vacanze, ma il turismo di massa sta letteralmente devastando i luoghi caratteristici. Su questo piano, non se ne esce più. Il limite di questa epoca è la polarizzazione delle posizioni, funzionale solo alla conquista di consenso immediato. Il mondo appare diviso tra chi si batte per salvare la Terra arrivando a considerare gli esseri umani un problema per la biodiversità, e l’universo rappresentato da Donald Trump, persuaso che il Pil e la Borsa si nutrono solo bruciando carbone e accendendo motori a gasolio. Il risultato è una comunità orfana della questione ambientale e di una sua vera rappresentazione culturale e politica. Ma scelte più decise, a livello di soggetti economici come di famiglie, e capaci di incidere sugli stili di vita nel segno della sobrietà, oggi sono fondamentali. La 'conversione ecologica' che la Chiesa continua a richiamare, ha sempre più bisogno di percorsi di formazione importanti nella prospettiva di educare a una vera 'ecologia integrale'. E di politici all’altezza. IL GAZZETTINO di sabato 1 settembre 2018 Pag 1 Nazionalizzare, a chi serve lo Stato padrone di Luca Ricolfi La parola d'ordine è quella: nazionalizzare tutto. La agitano i Cinque Stelle, e pare aver fatto breccia anche in alcuni esponenti della Lega, se è vero che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giorgetti ritiene che si debbano rivedere tutte le concessioni. Quanto all'opposizione, la sinistra e Forza Italia paiono contrarie, ma Fratelli d'Italia, per bocca di Giorgia Meloni, pare sottoscriverla senza riserve, almeno per quanto riguarda le infrastrutture strategiche come trasporti, acqua, energia, telecomunicazioni, poste. È una buona idea? Credo che dare una risposta generale, univoca, pro o contro le nazionalizzazioni, sia impossibile, anche da un punto di vista politico o ideologico. Contrariamente a quanto molti credono, le nazionalizzazioni e il loro opposto (le privatizzazioni) non dividono la destra e la sinistra, ma spaccano al loro interno i due schieramenti che fino a ieri si sono contesi il governo, in Italia come altrove. Le nazionalizzazioni sono piaciute ai fascisti (negli anni '30) ma anche ai socialisti (negli anni '60), le privatizzazioni sono piaciute alla sinistra riformista, ma anche alla destra berlusconiana, a partire dalla metà degli anni '90 del secolo scorso. La posizione verso le nazionalizzazioni, insomma, ha ben poco a che fare con la divisione fra destra e sinistra. Se prendere posizione sulle nazionalizzazioni in base all'ideologia è impossibile, ancor

meno facile è farlo sulla base dell'esperienza, almeno in Italia. Il guaio del nostro paese è che, se guardiamo agli ultimi decenni, sono innumerevoli sia i casi di fallimento dei privati, sia quelli di fallimento dello Stato. Alitalia è stata un disastro sia come impresa pubblica sia come impresa privata. Lo stesso caso del ponte Morandi è emblematico: Atlantia e la società Autostrade per l'Italia hanno fallito, su questo non vi sono dubbi, ma lo Stato ha fallito per certi versi ancora di più: doveva solo controllare il rispetto della convenzione, e non è stato capace di fare neppure quello. Come si possa, a questo punto, immaginare che la nostra elefantiaca ed inefficiente Amministrazione Pubblica, di cui si conoscono gli innumerevoli sprechi e malversazioni, possa sobbarcarsi il compito di gestire tutta la rete autostradale, resta per me un mistero. Posto che sia i monopoli di Stato sia le società private spesso non sono state all'altezza dei loro compiti, resta comunque il problema di scegliere una via: puntare sulle nazionalizzazioni, proseguire nelle privatizzazioni iniziate negli anni '90, decidere caso per caso, concessione per concessione, come saggiamente pare suggerire Giorgetti. L'impressione è che si punterà sulle nazionalizzazioni, capovolgendo la politica messa in atto negli anni '90, che puntava a ridurre il perimetro dell'intervento pubblico. E' vero che la Lega sembra opporre qualche resistenza, ma ritengo più probabile che alla fine a riportare qualche vittoria siano i nazionalizzatori: il controllo pubblico dell'economia, con la possibilità di governare la spesa pubblica, gli investimenti, le commesse pubbliche, le nomine, le elargizioni e i favori, è qualcosa che interessa ai politici di governo in quanto tali, indipendentemente dalla loro ideologia. Resta il dubbio che una politica che punta sull'allargamento del perimetro dell'intervento pubblico sia, fondamentalmente, più nell'interesse dei governanti che in quello dei cittadini. E questo per almeno tre buoni motivi. Il primo è che non è affatto detto che un controllo e una gestione diretta (statale) delle infrastrutture sia, per i cittadini, più sicuro di una seria sorveglianza sui concessionari. Da questo punto di vista è davvero curiosa l'idea del ministro Toninelli che il ministero delle Infrastrutture possa costituirsi parte civile conto la società Autostrade: tutto lascia pensare che, nel processo per il ponte Morandi, sul banco degli accusati saranno chiamati sia Atlantia sia il Ministero di Toninelli, magari nella persona di qualche ex ministro delle infrastrutture. Il secondo motivo di perplessità sulle nazionalizzazioni è che, anche in regime di monopolio statale, è prevedibile che i lavori di ricostruzione dei ponti, manutenzione delle autostrade, costruzione di nuove arterie sarebbero in gran parte affidati a società private, ossia a chi ha le competenze e l'esperienza per realizzare le opere. La nazionalizzazione, in altre parole, potrebbe risultare più nominale che sostanziale. Il terzo motivo di perplessità sulle nazionalizzazioni è il loro costo. Mentre privatizzare porta risorse nel bilancio dello Stato, nazionalizzare brucia risorse pubbliche: la sola revoca della concessione ad Atlantia potrebbe costare allo Stato 20 miliardi, e non è affatto detto che i ricavi netti di una gestione statale delle autostrade sarebbero superiori a quelli che si potrebbero ottenere con una concessione. Se moltiplichiamo queste cifre per tutte le attività e funzioni che potrebbero essere nazionalizzate, è abbastanza evidente che i costi per lo Stato, cioè per i contribuenti, sarebbero esorbitanti. La nazionalizzazioni, in altre parole, aggraverebbero il nostro problema centrale, quello di un debito pubblico enorme, che non si riesce né a stabilizzare né a far scendere. Nonostante tutto ciò, penso che alla fine la linea delle nazionalizzazioni finirà per prevalere. Oggi come ieri, infatti, quel che è decisivo non è il bene dei cittadini, ma sono le esigenze dei governanti. E ai governanti di ieri (1996, governo Prodi) conveniva ridurre il debito pubblico per guadagnare il biglietto di ingresso nell'Eurozona, di qui una delle più colossali operazione di dismissione del patrimonio pubblico che si ricordino (oltre 100 miliardi di euro). Ai governanti di oggi (2018, Salvini e Di Maio), conviene assumere il controllo più ampio possibile della macchina dello Stato, costi quel che costi, non certo guadagnare il rispetto delle autorità europee, che detestano e con cui (forse) cercano l'incidente. Con quale prezzo per tutti noi, contribuenti, risparmiatori, lavoratori, nessuno lo sa. Ma io temo che sarà alto. Pag 1 Il governo dei due piloti e la frenata di Conte di Bruno Vespa Ieri nelle prove aperte del Gran Premio di Monza, il pilota dell'Alfa Romeo Sauber, Marcus Ericsson, si è schiantato a 300 chilometri all'ora perché non ha funzionato il sistema di frenatura. Il pensiero va subito al governo dove i due piloti da Formula 1, Di

Maio e Salvini, aumentano a ogni giro la velocità a ritmi pazzeschi e forse incompatibili con una fortunata conclusione della corsa. Ericsson è rimasto illeso. Avrà la stessa sorte il governo Conte se i due campioni lo porteranno a sbattere? Già, Conte. Si dice che considera quello in corsa il suo primo e ultimo gran premio, comunque vada a finire la corsa. Si ritiene fortunato per vivere una esperienza che nessuno mai avrebbe potuto predirgli, vorrebbe portarla avanti possibilmente con qualche successo e senza ferite gravi. Ha chiamato perciò un pit stop per la settimana prossima per controllare almeno la condizione delle gomme delle auto dei Dioscuri e verificare se l'eccesso di velocità non abbia consumato i penumatici più del dovuto. Si dice che Salvini e Di Maio vadano perfettamente d'accordo, come Castore e Polluce. I Dioscuri, gemelli, si volevano bene al punto che quando Castore morì, volle morire anche Polluce, che pure sarebbe stato immortale, al contrario del fratello, per via di un corno che la madre, Leda, avrebbe messo al marito unendosi a Giove. Non sappiamo se i Nostri siano uniti così eroicamente, ma è difficile che almeno in questa vita governativa uno dei due possa sopravvivere all'altro. I sondaggi seri non si fanno d'estate perché le assenze rendono il campione poco credibile. Vedremo perciò a partire da metà settembre se è vero come sembrerebbe - che la Lega sia valutata sensibilmente più forte dei Cinque Stelle. E' certo che gli avvisi di garanzia per l'affare Diciotti e lo scambio di insulti con Macron hanno molto giovato a Salvini se è vero (ma anche questo andrà verificato) che gli italiani - tra l'ungherese Orbàn che si è barricato in casa e l'europeista presidente francese - preferiscono il primo. Qualunque sia l'esito dei sondaggi, è difficile che Salvini stacchi la spina prima delle elezioni europee del maggio prossimo. A meno che la giustizia non gli faciliti il compito dichiarando che la Lega con questo nome non può toccare più un euro per via dei famosi sequestri dovuti agli imbrogli fatti ai tempi di Bossi e costringa Salvini a inventarsene un altro. Partito nuovo, vita nuova. Se vogliono vivere ancora un anno portando a casa almeno in parte qualcuno dei risultati promessi, è bene che i Dioscuri si fermino ai box per controllare le condizioni della macchina. Di Maio sterza a sinistra esigendo tagli alle pensioni d'oro e nazionalizzazione delle autostrade, suggerendo di frenare sull'immigrazione. Salvini controsterza a destra rifiutando i primi due punti e accelerando sul terzo. Come poi si riesca a fare insieme la riforma della legge Fornero e a far partire flat tax e reddito della cittadinanza senza far dimettere il ministro Tria con tutto quello che comporta, resta allo stato un mistero della fede. Conte proverà a far ridurre la velocità ai suoi due azionisti e a suggerire una credibile direzione di marcia, perché se il governo va a sbattere male, dal carrozziere ci andranno i risparmi degli italiani. LA NUOVA di sabato 1 settembre 2018 Pag 1 La difficile convivenza del potere di Bruno Manfellotto A giudicare dai programmi, o meglio dalla loro versione Twitter o Facebook, non c'è un solo argomento di fondo sul quale Di Maio e Salvini la pensino allo stesso modo. E dal momento che il premier fatica a mediare tra i due dioscuri - anzi, dicendo che finito questo giro tornerà al suo studio di avvocato, il povero Conte fa capire che s'è già stufato - il governo è incerto, contraddittorio, confuso. Impantanato. E qualcuno dice che durerà poco. È proprio così? Dunque, disaccordo su tutto. Toninelli, ministro del ramo, e Di Maio, vicepremier, ripetono per esempio che le Autostrade devono tornare allo Stato; l'altro vicepremier Salvini e il sottosegretario Giorgetti, manco per niente: un sacco di loro sponsor sono azionisti delle autostrade del nord già fatte o in progettazione. E però se dopo tutto questo scalmazzo (copyright Andrea Camilleri), seguìto alla tragedia di Genova, i 5S non riuscissero a strappare la concessione dalle mani dei Benetton, ciò suonerebbe per loro come una cocente sconfitta. I due soci di governo non la pensano all'unisono nemmeno sulle pensioni d'oro, battaglia grillina fin dal tempo dei vaffa, ma poco leghista: gli uni vogliono tagliare, i secondi tassare (contributo di solidarietà). Per non dire dell'immigrazione: d'accordo sulla questione di fondo - fermiamoli - ma non sul come, visto che Salvini guarda al filo spinato di Orban e Grillo spera ancora in una redistribuzione. Continuiamo? In profondo dissenso sul capitolo opere pubbliche i due consoli hanno in mente opposte ricette di politica economica: Di Maio vuole il reddito di solidarietà, destinato quasi tutto al Sud; Salvini chiede la flat tax, grande regalo alle partite Iva e ai piccoli imprenditori del nord, nerbo

leghista. In questo caos programmatico deve vivere il povero Giovanni Tria, ministro dell'Economia, che si affanna a spiegare all'Europa che la moneta unica resterà, i vincoli saranno rispettati, la manovra sarà equilibrata, e lo spread tenuto sotto controllo, mentre i suoi due capi ripetono che sta arrivando la tempesta finanziaria. E non capisci se ne hanno paura o se la augurano. E allora, durano o rompono? Mah, in politica si sconsigliano le previsioni, piuttosto si suggeriscono argomenti. Il primo è il Contratto che in qualche modo li obbliga a convivere e ad appoggiare l'uno i commi dell'altro. Il secondo è che a maggio si vota per l'Europa e all'appuntamento entrambi devono arrivare arringando le folle su migranti, casta, pensionati d'oro e rentier autostradali, e avendo portato a casa qualche risultato. Poi lì avverrà la sfida decisiva, o l'uno o l'altro. Fino a quel punto, dunque, le cose andranno avanti così, tra liti, rappacificazioni ed emendamenti. Sempre che non arrivi la tempesta annunciata. Solo allora capiremo se i due sognano lo show-down finale o stanno solo alzando la posta per ottenere di più dalle urne o da Bruxelles. Sperando che non sia troppo tardi. Pag 6 Il disegno sovranista tra autolesionismo e consenso di Marco Orioles Cosa vuole ottenere, Matteo Salvini, abbracciando il primo ministro ungherese Viktor Orbán? E che benefici potranno ricavarne i nostri interessi nazionali? La risposta al primo quesito ci indirizza verso la dimensione dei simboli, che in politica giocano sempre un ruolo chiave. Orbán incarna la linea dell'inflessibilità nei confronti delle migrazioni. È l'uomo che, quando dalla rotta balcanica si riversarono verso l'Europa centinaia di migliaia di profughi, sigillò le frontiere del suo Paese, erigendo un muro invalicabile. Orbán, in altre parole, è colui che ha dimostrato di poter porre un argine al fenomeno che più di altri inquieta le opinioni pubbliche europee e ne veicola il consenso verso le forze anti-sistema. Un alleato naturale, perciò, del vicepremier italiano, la cui formidabile macchina del consenso si alimenta con le parole d'ordine anti-migranti e con azioni drastiche. Il banco di prova di questa alleanza saranno le elezioni europee del prossimo maggio. Una competizione in cui Salvini nutre l'ambizione di cannibalizzare i tradizionali schieramenti politici, gettando sul piatto il jolly dell'internazionale sovranista. È stato lo stesso leader del Carroccio ad annunciarlo dal prato di Pontida. Il suo progetto si sostanzierà nella formazione, al Parlamento di Strasburgo, di una compagine che riunisca tutti i partiti che osteggiano l'immigrazione e sognano di adottare la politica australiana del "no way". Che questa scommessa paghi nelle urne è naturalmente tutto da dimostrarsi. Nel frattempo, non tardano a manifestarsi le reazioni del fronte opposto. Il primo a mobilitarsi è stato il presidente francese Macron. Il quale, a poche ore dal vertice Salvini-Orbán, esternava parole di fuoco nei confronti del duetto italo-ungherese. «Non cederò niente ai nazionalisti e a quelli che predicano odio», ha tuonato il capo dell'Eliseo. Lo scontro frontale tra due fondatori dell'Unione Europea quali Italia e Francia non pare foriera di buone notizie per il nostro Paese. Finché rimarremo nell'Ue, tutte le nostre istanze infatti - dalla richiesta di revisione delle politiche migratorie a quella di maggiore flessibilità nei conti pubblici - saranno sottoposte alle forche caudine del consenso comunitario. Inimicarsi uno Stato chiave come la Francia pare, più che un azzardo, un atto di autolesionismo. A meno che le mosse del ministro degli Interni non rappresentino il preludio ad un'Italexit, che tanto entusiasmo suscita nella base del suo partito e di quello dei suoi partner di governo. L'uscita dell'Italia dall'Ue, o se non altro una sua riduzione ai minimi termini, rappresenta, a ben vedere, il coronamento del disegno sovranista. Se così fosse, sarebbe opportuno che Salvini lo dicesse esplicitamente. In caso contrario, le manovre del vicepremier appaiono, oltre che di puro stampo propagandistico, controproducenti e dannose per gli interessi nazionali che si vorrebbero tutelare. Torna al sommario