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Lettera aperta

al Senatore

Luigi CovattaSottosegretario alla Pubblica Istruzione

***

L’iniziativa di una “convenzione” tra il comune di Lacco Ameno e l’Università de-gli Studi di Torino per l’istituzione di una scuola di specializzazione in archeologia nell’ambito dell’istituendo Museo archeolo-gico in Villa Arbusto, che l’Amministrazione comunale fa ufficialmente risalire ad un Suo suggerimento e porta avanti col Suo com-piacimento, rischia di essere un pericoloso diversivo e una evidente incoerenza rispet-to alla realtà fin qui faticosamente costruita per una istituzione culturale, il Museo ar-cheologico appunto, che, nel nome di Pithe-cusa, è da tempo attesa dagli studiosi e dalla popolazione. Giova, pertanto, ricordare qual è-lo stato dei fatti dell’intera vicenda. Il Museo archeologico di Pithecusa, nella sua dimensione civica, è stato già costituito contestualmente all’acquisizione definitiva della struttura di Villa Arbusto, col preciso e precipuo scopo di offrire alla fruizione degli studiosi e della popolazione, nonché dei tu-risti, gli oltre diecimila reperti già catalogati e custoditi al piano terra della Villa a cura della Soprintendenza archeologica di Na-poli, nella persona del Conservatore avita, prof. Giorgio Buchner. Il quale, come è noto, è l’autore principale degli scavi e della mag-gior parte delle pubblicazioni sulla Colonia di Pithecusa, compresa quella mastodonti-ca e tanto attesa dal mondo degli studiosi, che sta per veder la luce a cura dell’Acca-demia dei Lincei. Basta rileggere quanto si evince dalla delibera consiliare N. 30 del 6

A cura del prof. Vincenzo Mennella , consigliere comunale di Lacco Ameno

ottobre 1981, regolarmente approvata, e dai provvedimenti da essa direttamente discen-denti: delibere N. 2 e N. 3 del 16.1.84, con cui la G. M. approvava lo schema di Statuto del Museo archeologico e del Centro studi sulla colonizzazione greca in Italia, nonché lo schema di convenzione a termine per il personale direttivo, onde assicurare l’imme-diato decollo della istituzione. Per l’incarico provvisorio, in attesa dell’espletamento del concorso, di direttore del Museo, si era con-cordata con la Soprintendenza una conven-zione con lo stesso conservatore a vita dei re-perti, prof. G. Buchner, che aveva dichiarato la sua disponibilità. Il CORECO approvava le due delibere, facendo salve le determina-zioni su futuri atti. Dette delibere non sono mai state revocate, anche se il Consiglio non le ha mai fatte sue, perché non ne è stato mai più investito. Lo stesso Consiglio comu-nale, tuttavia, ha esplicitamente ribadito in un recente deliberato che il Museo è istitu-ito. Non si può quindi parlare di istituendo Museo, ma solo di attivazione dello stesso. Nelle more, tra la delibera di acquisizione e le successive del 1984, il Comune ha provve-duto a ristrutturare la Villa nella parte desti-nata alla esposizione, secondo un progetto redatto dall’Ing. Di Stefano ed approvato, come per legge, dalla Soprintendenza Ar-cheologica e dalla Soprintendenza Architet-tonica. E’ risaputo, infatti, che Pithecusa e il suo Museo fanno parte di uno degli itinerari turistico-culturali, quello definito Da Omero a Virgilio, dal Circeo a Pithecusa. E nell’am-bito, appunto, di tale itinerario si sono avuti i primi finanziamenti per la ristrutturazione e, di recente, il finanziamento per l’allesti-mento delle sale di esposizione. Quest’ulti-mo su progetto direttamente redatto dalla Soprintendenza Archeologica. La regione Campania fu, a suo tempo, in-teressata per un adeguato contributo al fun-zionamento del Museo, in base alla legge N. 4 del 3 gennaio ‘83, secondo un piano finan-

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ziario dettagliato, mentre, con delibera del 10.12.84, il Consiglio comunale provvedeva alla istituzione in pianta organica dei posti per tutto il personale occorrente per il fun-zionamento del Museo e del Centro Studi. Anche tale delibera fu approvata dal CORE-CO, ma non fu mai inviata alla Commissio-ne centrale per la finanza locale.

Alla luce di quanto innanzi, dovrebbe essere chiaro che, per una rapida e coerente attiva-zione della Istituzione, non si può prescin-dere dall’iter già tracciato e dare, intanto, subito corso alla stipula della Convenzione con il Ministero dei Beni Culturali, tramite la competente Soprintendenza Archeologi-ca, per l’affidamento dei reperti; cosa che la maggioranza consiliare si è rifiutata di fare, nella seduta del 1. aprile 1989, anche perché fuorviata dal “miraggio” della Convenzione con l’Università di Torino, cadendo in una grossa confusione di idee, che ha fatto per-fino negare il suo assenso ad un invito alla Soprintendenza a realizzare subito il proget-to di allestimento delle sale per l’esposizione dei reperti, come detto, di recente finanzia-to. In sede di regolamento, certamente, ogni apporto, sia culturale che finanziario da par-te di Università, sia nazionali che straniere, Regione, Provincia ed altri Enti, è possibile, anzi auspicabile. Ciò specie nell’ambito del Centro Studi sulla colonizzazione greca in Italia, naturale completamento e sostegno della struttura museale. A fronte di una situazione già matura in tutti i suoi aspetti, l’Amministrazione co-munale si affida ad un progetto vago, che riporta tutto in alto mare, che pare sia, tra l’altro, legato ad una modifica dello Statuto della stessa Università di Torino, come si legge all’art. 2 della Convenzione approvata con delibera di Giunta N. 68 del 19.4.1989, e che comporta oneri finanziari per il Comune non quantificabili e, comunque, non facil-mente sostenibili, previsti dagli articoli 6 e 12 della Convenzione stessa. Allo stato, una sola cosa è certa, che il Co-

mune non sarebbe neanche in grado di of-frire ospitalità a docenti e funzionari in trasferta e a studenti in residenza a Lacco Ameno, perché gli unici locali disponibili nell’ambito del Complesso di Villa Arbusto li ha dati in occupazione graziosa a persone del tutto estranee alla destinazione del Com-plesso stesso. A meno che non si vogliano a ciò destinare le stesse sale di esposizione o quelle ancora da ristrutturare e che dovran-no servire per deposito, laboratorio di re-stauro e catalogazione o a biblioteca o sede del Centro Studi. Tutto ciò, senza voler entrare nel merito di una interferenza non giustificata o, al-meno, non comprensibile, con l’attività che la Soprintendenza competente per territo-rio va svolgendo da vari decenni sull’Isola d’Ischia, cui è legata intrinsecamente l’esi-stenza stessa della problematica, e che, co-munque, è sempre stata aperta all’apporto, determinante in alcuni momenti, di studiosi nazionali e stranieri. Se Lei, onorevole senatore, vorrà dare un contributo autorevole e apprezzabile ad una Istituzione così importante e tanto vivamen-te attesa per la Cultura e la economia stes-sa dell’Isola, alla quale hanno sempre dato adesione convinta tutte le forze politiche, valuti le cose più convenienti da fare, per una soluzione rapida e coerente con quanto è stato già fatto col concorso di tante altre personalità politiche, sia a livello ministeria-le che parlamentare, regionale e provinciale, che hanno creduto nella iniziativa intrapre-sa dieci anni fa dal comune di Lacco Ameno.

Lacco Ameno, maggio 1989

Prof. Vincenzo MennellaConsigliere comunale

di Lacco Ameno

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Oltre la cronaca

di Giuseppe Mazzella Credo che il problema fonda-

mentale che deve essere posto all’attenzione della classe di-rigente dell’isola d’Ischia, non solo della politica, ma anche dell’economia e della scuola, sia la fuga della gente dalla parteci-pazione civile. Nell’isola d’Ischia il dibattito politico è ormai completamen-te estinto. L’associazionismo culturale sopravvive per la vo-lontà ostinata di un manipolo di reduci del ‘68. Il sindacalismo è scomparso ed al volontariato sindacale si è sostituito il “sin-dacalista professionista”. La partecipazione della gente, della pubblica opinione, ai dibattiti ed alle conferenze è scarsissima, nonostante gli annunci sui gior-nali, l’affissione dei manifesti e l’invio di inviti personali. La più antica istituzione cul-turale dell’isola, ed anche la più prestigiosa, il Centro Studi su l’isola d’Ischia, ha tenuto nei giorni scorsi l’assemblea per il rinnovo delle cariche sociali. Su circa 200 soci ne erano presen-ti circa 15 ed il numero non era sufficiente nemmeno per copri-re tu tte le cariche sociali dispo-nibili. Il dibattito sul “recupero del complesso del Pio Monte della Misericordia, tenutosi a Casa-micciola per iniziativa del con-sigliere regionale Telemaco Ma-lagoli, ha visto la partecipazione di poco meno di 50 persone di cui soltanto 10 di Casamicciola con la presenza di soli due con-siglieri comunali.

Insomma dobbiamo registra-re, con rammarico, una fuga dal pubblico da parte della gente ed un ritorno al privato. La gente si chiude sempre più nella inti-mità familiare. E’ consolidatis-sima nella gente l’opinione che la politica sia qualcosa di sporco per definizione e che sia immo-dificabile e quindi chiunque si definisce “un politico” è forza-tamente un uomo interessato al compromesso, agli intrallazzi e perfino alle ruberie. Gli stessi politici hanno fatto talmente il callo a queste accuse che ormai prendono i fischi per applausi e non si scandalizzano più di nul-la. Il volontariato civile, oltre alla partecipazione ridotta al lumi-cino, viene perfino dileggiato. “Chissà quanto guadagni da questa manifestazione!” ti senti dire se organizzi un convegno o una conferenza. Ed il dileggio maschera l’opinione diffusa che fa del denaro il vero re della no-stra ricca società ischi tana.Questa è la diagnosi, ma quale la terapia? E’ facile rilevare tut-to questo, la crisi dei valori e la decadenza della politica, ma non si risolve il problema con la sola denuncia. E bisogna pur “salvare la speranza”, riscoprire una idealità perduta ed impe-gnarsi per un progetto di civil-tà che migliori la nostra società non tanto per noi che abbiamo 40 e più anni, “l’âge terrible, où l’on devient ce que l’on est”, ma per i nostri figli, ai quali non si può consegnare una società che

Fuga

dal pubblico

La partecipazione alla vita pubblica, ai relativi problemi ed aspetti che di volta in volta la caratterizzano diventa un’esigenza sempre meno sentita da parte dei cittadini.Gli stessi esponenti politici più rappresentativi ne sono contagiati.Un fenomeno da analizzare.

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ha paura del confronto civile e vive nel terrore della piaga del-la droga-La nuova scommessa europea, la possibilità concreta che viene offerta alla nostra ge-nerazione di costruire una “Eu-ropa delle patrie” può ridestare gli entusiasmi e farci ritornare al pubblico. Una nuova legge per le auto-nomie locali, dove è prevista maggiore partecipazione degli elettori alla vita dell’ente locale, può a sua volta incentivare la partecipazione di nuove energie alla vita pubblica locale troppo immiserita da squallide beghe personali che fanno allontanare ancor di più i cittadini onesti e preparati dalla vita politica che

diviene sempre più dominio per i soli addetti ai lavori.Infine nei nostri sei Comuni un dibattito istituzionale con-creto per avviare un processo di intercomunalità che superi il municipalismo attuale può concorrere alla ripresa della po-litica, soprattutto nei due partiti maggiori, la DC ed il PSI, che ormai sono ridotti ad una sorta di federazioni di correnti, aven-do nel loro proprio seno istituito il pluralismo non sulle idee, che potrebbe essere tollerato, ma sul personalismo più esasperato. Il ritorno al pubblico, soprat-tutto da parte dei rappresentan-ti delle professioni liberali e del mondo economico, ci pare una

strada obbligata per arrestare la decadenza morale della nostra società. E la stampa locale deve offrire il mezzo per elevare il tono della polemica politica e concorrere a combattere l’imbarbarimento della nostra vita civile, incen-tivando “l’uscita allo scoper-to” delle energie culturali della nostra isola che preferiscono anch’esse spaziare nel privato, nel loro “splendido isolamento”. Fuggire dalla partecipazio-ne pubblica non serve, perché la poli tica, se non la si fa, la si subisce e nel vortice della de-cadenza saremo tutti coinvolti, nessuno escluso.

Giuseppe Mazzella

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Omaggio a Franco Conte (1938-1988)

L’esperienzade “IL GIORNALE D’ISCHIA”

(1971-75)nel contesto civile dell’isola d’Ischia

Giornata di studi organizzata dall’ Associazione della Stampa delle isole di Ischia e Procida

Si è svolto venerdì 7 aprile 1989, nella sala delle conferenze del Jolly Hotel di Ischia, un convegno di studi organizzato dall’Associazione della Stampa delle isole di Ischia e Pre-cida, per ricordare il giornalista Franco Conte stroncato da un infarto a soli 49 anni il 15 agosto 1988. Sono stati esaminali e valorizzati il contributo dato al giornalismo locale e soprattutto l’esperienza de “11 Giornale d’Ischia”, che Franco Conte fondò con un gruppo di amici nei primi mesi del 1971, con cadenza per un cerio periodo anche set-timanale. “1 circa 150 numeri della collezione - ha dello Giuseppe Mazzella, presidente dell’Associazione Stampa delle iso-le di Ischia e Procida - dimostrano come furono portate avanti delle qualificanti battaglie civili sulla pianificazione territoriale, sulle possibilità occupazionali dei giovani, sul riequilibrio della nostra economia divisa in un Nord e in un Sud; il giornale, che aveva la sede nella centrale Piazza Croce, divenne inoltre il luogo di incontro e di dibattito di cittadini e di intellettuali per migliorare la vivibilità della nostra isola. Fu nel corso di uno di questi incontri che a Michele Longobardo venne l’idea di promuovere una cam-pagna popolare per l’esproprio delle pinete del comune di Ischia. Così il giornale promosse una ineguagliata campa-gna di stampa nell’estate del 1973 con una sottoscrizione popolare per le pinete libere, coinvolgendo ci Itadini, stu-denti, tu risii, uomini politici, fino all’approvazione da par-tedel consiglio comunale di Ischia di una variante al piano regolatore che contemplava l’esproprio delle pinete”. Il giornale (settimanale dal 1972 al 1974) si avviò verso il

declino quando Franco Conte decise che sarebbe ritornato in Canada, ove era emigrato già nel 1966, lavorando come redattore capo al quotidiano in lingua italiana “Il corriere canadese” e fondando poi il settimanale “11 sole illustrato”. 1 collaboratori cominciarono ad allontanarsi; gli abbona-menti non si rinnovavano; i lettori si perdevano; la chiusu-ra avvenne senza alcun editoriale di congedo.

“L’indecisione se vivere qui o in Canada - ha detto ancora Giuseppe Mazzella - è stata il grande limite professionale di Franco Conte che avrebbe potuto “essere ed avere” molto di più dalla vita per le sue capacità e la sua grande umanità, se avesse avuto la costanza di fermarsi in un luogo.

Con il Giornale d’Ischia egli ha portato una ventata di giornalismo inglese nella nostra isola. 11 suo stile era asciutto, senza retorica. Così come era lo stile giornalisti-co de “Il Giornale d’Ischia” che, secondo Franco, doveva “sembrare esser scritto da una sola persona”.

Negli ultimi tempi aveva pubblicato il bellissimo libro fotografico “Pianeta Ischia”, nella cui prefazione si legge: “Ilo voluto riempire questo vuoto anche per invitare tutti coloro che amano l’isola a difenderla dagli assalti di coloro che vogliono distruggerla. Ischia e ancora molto bella, ma la sua bellezza deve essere difesa con lo stesso trasporto con cui l’amiamo”.

“Franco Conte - ha ricordato Vincenzo Di Meglio - senti-va l’ischitanità del suo nome e della sua anima e perciò do-veva dare necessariamente un contributo alla propria ter-ra, quasi a ringraziare Dio di avergli dato i natali su quest’i-sola meravigliosa. L’amore per l’isola è radice ed orgoglio, momento caratterizzante della sua identità personale. La spiaggia sporca, il paesaggio deturpato, la volgarità inva-dente era criticata, proprio perché toccava, inficiava questo sentimento di amore per la propria terra”.

E che Franco Conte venga ricordato appunto come gior-nalista che ha amato profondamente la sua terra d’origine ha auspicalo Franco Borgogna, dopo aver passato in rasse-gna i momenti e gli aspetti più significativi della vita de “li Giornale d’Ischia”.

Sono intervenuti a portare la loro testimonianza Michele Longobardo, l’avv. Agostino Polito, gli assessori regionali Franco Iacono ed Enzo Mazzella, il presidente dell’USL 21 Giuseppe Brandi, il presidente del Distretto Scolastico Vin-cenzo Mennella e il giornalista Gianni Vuoso.

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IschiaLe pinete

aree edificabili?Il Comune dovrà pagare

una forte indennità per l’esproprio

Il comune di Ischia dovrà pagare circa 27 miliardi ai fratelli Villari per l’esproprio di 4 ettari di pinete, secondo la sentenza della prima se-zione civile della Corte d’Appello di Napoli che accoglie la valutazione dei terreni considerati “edificabili” dal perito del tribunale, ing. Luigi Devoti. I Villari, in virtù della sentenza, hanno chiesto ed ottenuto il pi-gnoramento di tutti i fondi presso la tesoreria del Comune tenuta dal Banco di Napoli; sono state pigno-rate anche le trimestra-lità che il Ministero del Tesoro elargisce al Comune. Ogni attività finanziaria è quindi bloccata per mancanza di fondi e, se la Corte d’Appello, alla quale è ricorso il Comune, non sospenderà il decreto di pignoramento, i dipen-denti non riceveranno lo stipendio il prossimo 27 maggio. E’ assurda la valutazione del pe-rito fatta propria dal Giudice per l’indennità di esproprio di terreni che erano vincolati a verde di ri-spetto o verde attrezzato nel piano regolatore - dice l’assessore regio-nale ai lavori pubblici, Enzo Maz-zella, già sindaco d’Ischia dal 1978 al 1988. - Quando dieci anni fa, iniziammo l’esproprio delle pinete avevamo la copertura finanziaria prevista dalla legge865/71, poiché dovevamo riscuotere miliardi per le sanzioni pecuniarie relative agli abusi edilizi ed abbiamo deposita-to presso la Cassa Depositi e Pre-stiti a favore dei Villari la cifra di circa 54 milioni quale indennità di esproprio fissata dall’ufficio tecni-co erariale. Essendo sopraggiunta la legge del condono edilizio, non

abbiamo più i fondi previsti e do-vrà essere lo Stato ad accollarsi l’onere dell’indennità di esproprio che comunque deve tener conto della destinazione dei terreni che non erano aree edificabili, a meno che l’abusivismo non trovi legitti-mazione giuridica per la valuta-zione dei terreni. Ischia, il più importante fra i sei comuni dell’isola, ha una superfi-cie di circa 805 ettari e negli ultimi venti anni ha avuto un massiccio incremento edilizio. Nel 1961 i vani censiti erano 8 mila, nel 1981 erano saliti a 26 mila ed oggi sono circa 40 mila. L’esproprio delle pinete - sottoli-nea ancora l’ex sindaco Enzo Maz-zella - con la successiva des tinazio-ne a parchi pubblici attrezzati non solo ha dotato il nostro Comune di una infrastruttura indispensabile alla nostra economia turistica, ma ha evitato che il cemento potesse arrivare perfino nelle pinete che furono realizzate dai Borboni tra il 1850 ed il 1854 in tutta la zona detta dell’Arso, perché distrutta dalla colata lavica del 1301 e che sono rimaste in mano a privati per oltre un secolo. L’amministrazione aveva anche deliberato, nell’aprile dello scorso anno, di dichiarare

lepine-te pubbliche e private sog-gette a particolare e speciale tu tela, ai sensi delle leggi regionali n. 54/80 e n. 65/81 che delegano ai Comuni le funzioni amministrati-ve in materia di difesa ambientale. Il sindaco Giovanni Balestrieri ha detto che l’amministrazione comu-nale è decisa a difendere questa conquista di libertà. Desideriamo impedire che il denaro pubblico sia elargito in misura sproporzionata e fuori di ogni prezzo corrente, mi-rando a far sì che le pinete riman-gano patrimonio dei cittadini e dei turisti che hanno mostrato di ap-prezzarle e di amarle, sottraendo-la quindi alla speculazione edilizia privatistica. Gli amministratori del comune di Ischia hanno in proposito tenu-to una conferenza al Circolo della Stampa di Napoli, domenica 14 maggio, per spiegare minuziosa-mente i termini della vicenda. Desideriamo che l’opinione pub-blica italiana - ha concluso il sin-daco Balestrieri - sia informata di questa vicenda, perché emblema-tica della confusione istituzionale, che regna nel campo degli espro-pri, e dell ‘e-strema difficoltà in cui sono costretti ad operare gli am-ministratori degli enti locali.

Le ragioni di una politicadi Giuseppe Mazzella

In merito alla vicenda che vede il comune di Ischia condannato da un tribunale della Repubblica al pagamento di una indennità di 27 miliardi di lire, pari al prezzo corrente per terreni equiparati a quelli edificabili, secondo la stima dell’ing. Luigi Devoti, per l’esproprio di circa 4 ettari di pinete da destinare a pubblica utilità, credo che la prima domanda, quel-

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la fondamentale e propedeutica a tutte le altre, alla quale deve dare risposta un commentatore, riguar-di due precisi riferimenti, e cioè se quell’esproprio andava fatto o meno; se la politica di forte pre-senza del Comune, ente locale fon-damentale di base e prima cellula della democrazia partecipativa, nel tessuto sociale ed economico, con la realizzazione di grandi in-frastrutture indispensabili in una economia di turismo maturo, do-veva essere portata avanti oppure respinta. Il punto centrale della di-scussione è questo e non altro. Alcune pinete di Ischia che, men-tre costituivano parte essenziale del paesaggio, continuavano ad es-sere rendita fondiaria parassitaria nel tessuto economico privatistico, furono espropriate nel 1978 e negli anni successivi da un’amministra-zione democristiana guidata da Enzo Mazzella. La campagna per l’acquisizione al pubblico patrimonio fu promossa nel 1973 da un giornale locale, Il Giornale d’Ischia, diretto da Fran-co Conte, che voleva portare avanti un discorso di democrazia avanza-ta sul piano dei programmi nella

nostra isola, favorendo l’incontro storico tra la DC ed il PSI che av-veniva, già verso la metà degli anni ‘60, in tutte le altre parti d’Italia, sulla scia della svolta di centro-sinistra promossa da Aldo Moro e da Pietro Nenni. Quel discorso bandiva il personalismo e favori-va invece la critica contenutistica. Sono convinto - oggi molto più di allora - della bontà di quel discorso e di quel disegno politico e credo che bisogna perseguirlo in tutte le realtà comunali dell’isola d’Ischia. Furono raccolte allora 6 mila firme per l’esproprio delle pinete ed alcu-ne illustri, come quella dell’arch. Mario De Cunzo, direttore della So-printendenza ai Monumenti della Campania, che nella sua adesione ricordò come fin dal 1943 nel piano paesistico Calza Bini le pinete era-no vincolate a verde e come nella previsione del nuovo piano paesi-stico, che la stessa Soprintendenza si accingeva a formulare, quando fu bloccata dall’allora assessore re-gionale all’urbanistica, il socialista Francesco Porcelli, era indicata la pubblica fruizione delle pinete. La sottoscrizione fu conse-gnata al sindaco dell’epoca,

Vincenzo Romolo, che si di-chiarò favorevole all’iniziativa. Rimase nei cassetti di due sinda-ci d’Ischia, Romolo e Umberto Di Meglio, per cinque anni, nonostan-te che il Comune avesse votato con i voti della sola maggioranza DC una variante al piano regolatore adottato, la quale contemplava l’e-sproprio delle pinete. Diamo a Cesare quello che è di Cesare e riconosciamo ad Enzo Mazzella la capacità di aver voluto e saputo mettere in moto il mec-canismo burocratico che concre-tizzava non solo la volontà popo-lare di vedere le pinete libere ma la volontà politica di una ammini-strazione democristiana di com-portarsi come si comportavano le amministrazioni rosse (PCI e PSD nelle terre di Toscana e di Emilia-Romagna che intervenivano nelle economie locali con infrastrutture e perfino con strutture economiche pubbliche, al fine di una maggiore giustizia sociale, anche se “sfonda-vano” il tetto dei loro bilanci. Il ri-sanamento finanziario dei comuni negli anni ‘70 - sia detto una voi ta per tutte - fu promosso e voluto so-prattutto dalle forze di sinistra per i

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loro comuni e le loro provincie che presentavano bilanci in rosso per la loro fortissima politica di investi-menti sociali. Quella politica per la realizzazio-ne di grandi infrastrutture trovava riscontro in un tessuto turistico e commerciale da consolidare. Anzi doveva essere ancora più incisiva e doveva colpire tutta la rendita fon-diaria e non soltanto chi non era elettore ad Ischia. Pur essendo una politica monca, perché non veniva accompagnata da una program-mazione generale che mettesse un freno alla speculazione edilizia e che vedesse l’isola come un unico comprensorio naturale ed econo-mico al di là dell’obsoleta divisione in sei comuni. Ma qui entriamo nel campo delle giustificazioni che possono essere addotte da Enzo Mazzella che co-munque è stato capace di realizzare infrastrutture che i comuni vicinio-ri non sono stati nemmeno in gra-do di progettare; e quello che egli ha fatto è stato innumerevoli volte richiesto e proposto senza successo dai consiglieri di opposizione del PSI e del PCI negli anni ‘70 nel vi-cino comune di Casamicciola Ter-me che ha ancora l’obbrobrio del

fatiscente complesso del Pio Monte della Misericordia. Il comune d’Ischia potrà essere indebitato fino al collo, ma almeno i 18 mila cittadini ed i turisti hanno infrastrutture pubbliche che non hanno i cittadini di Casamicciola, che ha un debito fuori bilancio di circa 2 miliardi, o quelli di Forio, che ha un debito fuori bilancio di circa 18 miliardi di lire, mentre i cittadini di Lacco Ameno hanno la Villa Arbusto, acquisita al pa-trimonio pubblico grazie anche al contributo di un miliardo da parte dell’Amm.ne prov.le di Napoli nel 1978. Gli atti amministrativi del comune di Ischia nella vicenda degli espro-pri sono stati regolarmente votati dal Consiglio comunale, approvati dal Comitato di Controllo e la va-lutazione delle indennità è stata fatta dall’Ufficio Tecnico Erariale. Se il sindaco d’Ischia avesse fatto una valutazione superiore a quella dell’UTE, ufficio pubblico preposto alla valutazione delle indennità, proponendo un concordato con i privati, probabilmente le opposi-zioni di sinistra avrebbero denun-ciato il sindaco e la giunta per inte-ressi privati in atti di ufficio. All’e-

poca degli espropri, il comune di Ischia doveva riscuotere decine di miliardi per le sanzioni pecuniarie amministrative relative agli abusi edilizi, poi la Legge Bucalossi è sta-ta vanificata dal condono edilizio (1985). La vicenda delle pinete diventa quindi emblematica per stabilire la certezza del diritto per le auto-nomie locali nel nostro Paese. E’ in gioco la stessa concezione dell’e-sproprio che, se viene fatto tenen-do conto del prezzo corrente di un bene, deve essere cancellato perfi-no come dizione dal diritto ammi-nistrativo: si deve parlare di acqui-sto da parte dell’ente locale. La discussione di legittimità è quindi quanto mai opportuna in sede di Suprema Corte di Cassazio-ne, ma è ancora più opportuna in sede politica presso il Governo ed ancor meglio presso il Parlamento della Repubblica, la quale nella sua Carta Costituzionale non considera la proprietà uno dei diritti inviola-bili del cittadino, come lo sono la vita e la libertà. Al di là delle polemiche strumen-tali e personalistiche, del tatticismo politico dei partiti, comprensibi-le ma non condividibile, il dato di

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fatto è che alcune pinete di Ischia sono state poste al pubblico godi-mento e che l’opera ditotale acquisizione pubblica non è ancora compiuta, così come tutte le ragioni di una politica di forte presenza dell’ente locale nel tessu-to sociale ed economico con infra-strutture e addirittura con investi-menti produttivi, come le società miste, sono state confermate e sono valide oggi ancor più di ieri. Questa politica deve essere por-tata avanti, anche con incidenti di percorso, perché non ha alternativa non solo nel comune di Ischia, ma in tutti i comuni isolani, nella pro-spettiva di una sola unità ammini-strativa che deve prima avere un decentramento economico e dopo se mai un un unico comune. E’ una politica che - al di là delle persone e delle differenti opinioni politiche - condivido in pieno.

Giuseppe Mazzella

Concorso di poesia in vernacolo napoletano e in lingua italiana a sezione unica, indetto dal

Centro d’Arte Teatro Flegreo “Filippo Spina”sul tema: “TERRA FLEGREA” (storia, folclore, costume, ambiente, per-

sonaggi, luoghi.e realtà sociali dell’area flegrea)

Per “Terra Flegrea” deve in-tendersi la zona relativa alle seguenti località: Pozzuoli, Ba-coli, Monte di Procida, Procida, Ischia, Barano, Forio, Casa-micciola, Lacco Ameno, Serra-ra Fontana, Quarto, Qualiano, Calvizzano, Marano, Giugliano, Villaricca, etc, nonché la fascia napoletana flegrea di Bagnoli, Fuorigrotta, Posillipo, Camal-doli, Pianura etc...Ogni concorrente può presen-tare una o più composizioni in dialetto e/o in lingua, redatte

a macchina, in nove copie e re-canti esclusivamente il titolo e il testo. Tali composizioni ano-nime dovranno essere racchiuse in un plico unitamente ad una busta sigillata contenente l’e-lenco delle poesie e il nominati-vo del concorrente.Il plico, così confezionato, do-vrà pervenire entro il giorno 25 maggio 1989 al seguente recapi-to:Centro d’arte Teatro Flegreo - Filippo Spina - Via Pergolesi 52,80078 Pozzuoli (Na).

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Convegno promosso dal gruppo regionale della lista “Campania civica e verde”

Il recupero e il destino del Pio Monte della Misericordia

Il recupero funzionale dell’antico complesso del Pio Monte della Mi-sericordia, situato nel comune di Casamicciola Terme, passa attraver-so una soluzione che veda coinvolti l’ente proprietario, il Comune e la finanziaria pubblica IN-SUD. La so-luzione pubblicistica per restituire la struttura al sistema produttivo lo-cale è essenziale per poter accedere ai finanziamenti della legge 64 sul Mezzogiorno. La vertenza che op-pone l’ente proprietario alla società Nizzola (alla quale fu concesso un di-ritto di superficie sul complesso per 50 anni nel 1984) per inadempienza contrattuale deve essere al più presto risolta dalla magistratura ordinaria, altrimenti il contenzioso si trascine-rà ali ‘infinito ed il depauperamento del bene sarà inarrestabile. Queste le conclusioni di un con-vegno sul “recupero e sul destino del Pio Monte della Misericordia” promosso dal gruppo regionale del-la lista “Campania civica e verde” e tenutosi nell’aula magna dell’Isti-tuto Matterà di Casamicciola con la partecipazione di giornalisti, politici, amministratori comunali e regiona-li; erano presenti i rappresentanti le-gali dell’ente Pio Monte della Miseri-cordia e il direttore generale dell’IN-SUD, ing. Sergio Florio.L’ing. Florio ha in particolare dichia-rato la disponibilità della INSUD a studiare la possibilità di un inter-vento, se verranno chiariti gli aspetti giuridici. La complessa situazione giuridica dell’antico complesso è stata illu-strata dai governatori dell’ente Pio Monte, Alessandro d’Aquino e Gior-gio Castriota, che hanno posto l’ac-cento sulle ragioni del loro ente nella vertenza che lo oppone alla società concessionaria Nizzola, che non ha partecipato con un proprio rappre-sentante al dibattito. Dopo la relazione introduttiva del giornalista Giuseppe Mazzetta, autore di numerosi articoli sull’ar-gomento, sono intervenuti il presi-dente dell’USL 21, Giuseppe Brandi,

il direttore dell ‘Azienda Turismo, Franco Amato, il segretario del PSI, Lorenzo Mennella, il vice sindaco di Casamicciola, Vincenzo Di Massa, il consigliere comunale Pietro Pisani, l’ex sindaco Nicola Barbieri, il segre-tario della Lega per l’Ambiente, Ni-cola Lamonica.Nelle conclusioni il consigliere regio-nale Telemaco Malagoli, presidente della lista civica e verde, ha sottoline-ato la positività dell’iniziativa del suo

gruppo che “intende stimolare le for-ze politiche e sociali locali, il comune di Casamicciola, l’ente Pio Monte e la INSUD a ricercare una soluzione per il recupero dell’importante com-plesso essenziale al rilancio turistico di Casamicciola che vive oggi anche il dramma di una amministrazione comunale assente sui grandi temi dello sviluppo, come il recupero del Pio Monte della Misericordia”.

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Espressione dì una rino-mata tradizione termale e di una attuale miope politica di valorizzazio-ne delle risorse che offre il territorio isolano

di Ilia Delizia

La storia del complesso del Pio Monte della Misericordia a Casa-micciola trae origine dalla ideo-logia controriformata e s’innesta alla vocazione termale dell’isola, alla cui fortuna molto contribuì l’opera balneologica di Giulio Ia-solino, pubblicata nel 1588. Narra la tradizione storica che, nell’agosto del 1601, sette nobili napoletani si erano dati appun-tamento in un giardino di Posil-lipo per consumare una colazione all’aperto, ma per il sopraggiun-gere di un temporale furono co-stretti a mutare il programma. In-tanto, animati da spirito caritati-vo, portarono le pietanze del ban-chetto ai poveri ammalati ricove-rati all’Ospedale degli Incurabili. Ne ricevettero tanta gratitudine da “ritualizzare” le visite. Difatti i giovani nobili continuarono a re-carsi ogni venerdì presso gli infer-mi, portando conforto spirituale, aiuto materiale ed ancora cibi e bevande. Poi, con le elemosine, che a turno raccoglievano, fecero celebrare messe per le anime dei morti dell’Ospedale degli Incura-bili. In breve crebbe tanto il nu-mero degli aderenti all’iniziativa benefica che decisero (nella sedu-ta del 19 aprile 1602) di istituire un Monte, vale a dire una congre-gazione di persone con lo scopo preciso di perseguire i significati sociali della carità, indirizzandosi specificamente alle sette opere di misericordia corporale, da cui il nome di Monte della Misericor-dia. A distanza di qualche mese la

Il Pio Montedella

Misericordiaa Casamicciola

nascente istituzione stilò pure le regole e lo statuto che, approvati nel 1603, ebbero subito il regio assenso e l’approvazione pontifi-cia. Tra le numerose opere a favo-re degli infermi poveri, di cui il Monte volle farsi carico, un posto particolare spetta alla fondazione del complesso termale di Ischia. Proposta dal marchese di Vico, primo governatore della giovane istituzione e finalizzata ad acco-gliere malati bisognosi e infermi (anche religiosi) afflitti da di-sturbi reumatici, l’iniziativa è la più concreta testimonianza del riconoscimento dei benefici de-rivati dall’uso delle acque termali ischitane, così scientificamente illustrate da Giulio Iasolino nel suo De’ rimedi naturali che sono nell’isola di Pithecusa, hoggi det-ta Ischia. Anzi, la sistematicità della trattazione e la casistica dei casi risolti, addotti dallo Iasolino a conforto del sollievo procurato dai vari e specifici tipi di acque, agevoleranno certamente il lavo-ro della commissione del Monte, incaricata a studiare direttamen-te sul posto la possibilità della realizzazione. Difatti, quando Cesare Scrsale, Carlo Caracciolo, Giovanbattista Severini, delega-ti del Monte, insieme a medici, architetti e muratori si recarono nella nostra isola non ebbero esi-tazioni sulla scelta del sito: Casa-micciola e la valle dell’Ombrasco dove sgorgava la rinomata e por-tentosa acqua del Gurgitello. Qui, in una felice situazione di natu-ra dove “da una banda si sente

una aura soavissima del mare, e dall’altra si scorge una bellissi-ma vista di verdeggianti e ameni colli e valli”, si decise di erigere “due luoghi tra di loro divisi con bagni, camere et altre comodità necessarie, cioè uno per le per-sone religiose et l’altro a comune utilità di tutti”, con una casa per l’amministrazione ed una chiesa. Il complesso termale-ospedalie-ro così pensato fu posto in ope-ra immediatamente e, nel 1607, era già completato. Il progetto fu dell’architetto teatino Francesco Grimaldi, come sappiamo da un documento rinvenuto da Vincen-zo Pacelli nell’archivio del Monte e riportato nel suo lavoro su Ca-ravaggio e le sette opere di Mise-ricordia. Il nuovo edificio fu inizialmente capace di ospitare 74 ammalati contemporaneamente, a cui bi-sogna aggiungere il personale di servizio. Sicché, con due succes-sivi turni di 15 giorni ciascuno, si riusciva ogni anno, e per il solo mese di luglio, ad accogliere 148 ammalati bisognosi di cure ter-mali. Dalla ricerca condotta da Pao-lo Buchner nel 1944 - la quale ci documenta sul primo periodo di attività del complesso - sappia-mo che l’edificio era a due piani più interrato. Al piano terra vi era una corsia grande con 20 camere per i monaci ed 8 per i sacerdoti. Al piano superiore si sviluppa-vano 6 stanze per i laici ed una corsia comune; inoltre gli am-bienti per il Deputato, il medico, il “maestro di casa”, i ministri e

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gli inservienti, nonché la cappella ed ogni altro servizio necessario al funzionamento dell’opera, che nell’insieme si configurava con un’articolazione a corte, al centro della quale campeggiava un gran-de albero di gelso.Ma la richiesta sempre crescente di cure termali da parte di per-sone bisognose obbligò i respon-sabili del Monte a promuovere, già nel 1674, un ampliamento dell’Ospizio e dei bagni. Anche di esso fu artefice un prestigioso architetto napoletano, Francesco Antonio Picchiatti, il quale realiz-zò un secondo camcronc per 54 posti-letto, raddoppiò i bagni che passarono da due a quattro, ri-spettivamente per i religiosi, per i preti, per i laici ed infine per gli ammalati con piaghe. Fino a que-sta data i bagni del Monte erano stati l’antico bagno di S. Maria del Popolo, patrona dell’Ospizio degli Incurabili, e il bagno del Gurgi-tiello, praticamente due casupole con vasca in muratura nella quale si tuffavano contemporaneamen-te quattro o cinque persone. Una formula balneologica molto pri-mitiva ed insicura igienicamen-te, se si considera poi che l’acqua mai veniva cambiata. Intanto, con la seconda metà del Settecento, andò mutando in tutta Europa la concezione del-la balneoterapia: i luoghi di cura diventarono sempre più anche luoghi di piacere e di svago. An-che l’istituto del Monte avvertì la necessità di ammodernare il complesso di Casamicciola che affidò allo studio dell’architetto Giuseppe Pollio. Sicché nel 1778 si pervenne ad un secondo am-pliamento dell’Ospizio, che gua-dagnò un nuovo refettorio come pure si realizzò, sopra le sorgenti, uno stabilimento per i bagni che rispondeva a criteri di razionalità e di sicurezza igienica, al passo insomma con le analoghe struttu-re diffuse in altri luoghi dell’Italia e dell’Europa. La diffusione sociale della prati-ca balneologica, il livello raggiun-

to sia sul piano terapeutico e, più propriamente, delle strutture fisi-che, il prestigio dei medici che si avvicendarono nella direzione sa-nitaria, l’estensione della pratica curativa ad un periodo più lungo, fecero del complesso balneotera-pico del Monte di Casamicciola un istituto così noto e richiesto da necessitare di un ennesimo ampliamento. E, tra il 1857 e il 1863, l’Ospizio raggiunse, a dire del d’Ascia, più “elegante forma ... tale da parere piuttosto albergo di signori che di pezzenti”, con la possibilità di accogliere un gran numero di ospiti, circa duemila. Ma con la polverizzazione del patrimonio storico-ambientale provocata dal disastroso terre-moto del 1883, anche il rinnova-to edificio del Monte scomparve, travolto dalla violenza distruttiva del sisma. Le poche tracce rima-ste, e di cui ci documenta qualche immagine di repertorio, furono fatte demolire, in nome dell’inco-lumità pubblica, con due succes-sive ordinanze comunali, rispetti-vamente nel 1888 e nel 1892. Inserendosi nelle prescrizioni del Piano Regolatore, predispo-sto dall’Ufficio del Genio Ci vile di Napoli all’indomani del terremo-to del luglio 1883 ed esecutivo dal 4 marzo 1884, l’istituto del Pio Monte presentò all’ufficio prepo-sto, nel 1886, una prima docu-mentazione interlocutoria, volta a saggiare una eventuale possibi-lità di riedificazione del proprio edificio termale. Con la consulen-za professionale dell’ing. Florio il consiglio direttivo del Monte scelse, per la realizzazione dell’o-pera, un’area della Marina, speci-ficamente nella zona di Perrone, dichiarata sismicamente sicura dalla commissione governativa di controllo. La superficie da occupare risultò, dai calcoli elaborati dall’ing. Flo-rio, di 12.000 mq considerando una quantità di circa 40 mq per persona per un totale di 300 in-fermi. Un impianto in traccia, lungo 700 m, avrebbe trasportato

l’acqua minerale dalla sorgente del Gurgitello a Perrone, e preci-samente nella proprietà Maresca, Lombardi, Mennella. Ma l’istanza di modifiche al Piano Regolato-re, avanzata dal presidente della Commissione Edilizia dell’isola d’Ischia a nome di 252 cittadi-ni nel gennaio 1885 per l’arca in questione, costrinse il Pio Monte a ricercare un sito non interessa-to da attività artigianali e com-merciali così marcatamente sta-bilizzate come il sito di Perrone, occupato da numerose mattonaie che ancora nell’86 davano lavoro a 300 persone e dove la lavorazio-ne delle argille si svolgeva da se-coli e con risultati soddisfacenti, grazie anche alla presenza, ivi, di un’acqua ricca di sali. Sicché nel dicembre del 1887 il consiglio del Pio Monte deliberò di ricostruire l’ospizio e lo stabili-mento balneare non più a Perro-ne, dove tra l’altro il prezzo di in-dennizzo, per le ragioni dette, sa-rebbe stato molto elevato, ma alla marina di Ombrasco, a valle della :ollina di S. Pasquale, nel terreno Persico, un suolo libero, molto più ampio de primo e più pros-simo alle sorgenti de Gurgitello. Questo consentì un impian to di canalizzazione delle acque fermai più breve e meno dispendioso. Unico inconveniente fu piutto-sto la poca area zione, visto che il suolo Persico si estendeva quasi al livello del mare, ma anche que-sta connotazione fu tradotta in un vantaggio tecnico, cioè nella pos-sibilità di impiantare le fondazio-ni direttamente nell’acqua. Adottando un sistema che as-sicurava dalla trasmissione dei miasmi infettivi, Florio articolò l’organico secondo una distribu-zione regolare di padiglioni a cor-te disposti a pettine lungo un’ani-ma centrale. Assegnando ad ogni ammalato di malattie suppuranti un volume di 70 me ed a quelli di malattie croniche circa 50 me, Florio previde negli 8530 medi volumecoperto,6saledormitorio per infermi di malattie suppu-

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ranti con ben 20 Ietti ciascuna e 6 sale dormitorio per infermi di malattie croniche con 30 letti ciascuna, collegate due a due da servizi sui lati brevi e intervallati a spazi di giardino. Analogamen-te scompartita era la zona cen-trale dove, nell’area intermedia, figurava la chiesa con i relativi servizi, intervallata da due spazi-giardino intorno a cui si sviluppa-vano rispettivamente il vestibolo, il parlatorio, il guardaroba, la far-macia, la stanza per il “mastro di casa” e i refettori, la dispensa, la medicheria. Infine due sale con vasche, per tutta la lunghezza, chiudevano il fronte postico, a sua volta sovra-stato dagli impianti: pompe, va-sche di carico e di raffreddamen-to, fangaie. Rispetto allo schema di proget-to, la realizzazione registra una variazione: la dislocazione della chiesa dalla zona centrale - usata come ulteriore spazio refettorio in un’ala laterale, al posto di una sala dormitorio. L’obbligo di una ventilazione di-retta per le sale dormitorio fece sì che tutto l’organismo poggiasse su un piano cantinato usato come deposito di vini, legna e per le cu-cine. Il complesso, serrato in uno schema compatto e simmetrico, prevedeva due appendici: una, in angolo tra la strada litoranea e la nuova via del pio Monte, per abitazione del personale e gli impiegati dell’ospizio e l’altra come appartamento delle suore. Come si capisce dalla vastità del programma e dalle finalità socia-li dell’opera, la riedificazione del Pio Monte rappresentò non solo il momento più impegnativo del-la ricostruzione di Casamiccio-la conseguente al terremoto del 1883, ma costituì anche elemento di continuità con una tradizione termale che, proprio in Casamic-ciola, a metà ‘800, aveva raggiun-to livelli elevati. Il suo attuale abbandono, i re-centi episodi di spoliazione e di

depauperamento fisico e funzio-nale, mentre sconcertano quanti hanno a cuore il proprio patri-monio ambientale, sollecitano la ricerca di una corrispondenza tra ragioni per cui l’opera del Pio Monte fu realizzata e situazio-ne sociale mutata, con l’auspi-cio di vedere il suo recupero sia nell’ambito di una risistemazione dell’area portuale e sia nel quadro di una più estesa opera di tutela che veda riguadagnati insieme e in un organico contesto l’edificio del Monte, espressione matura di una consolidata socialità, e la ex villa Mele, poi albergo Savoia,

espressione di una residenzialità di buon tono e di piena adesione alla natura, elementi questi che insieme fecero di Casamicciola la sede prediletta del termalismo e della stazione di soggiorno.

llia Delizia

Le fotografie relative al Pio Monte del-la Misericordia e risalenti ad epoca di miglior fortuna del complesso ci sono state gentilmente messe a deposizione da don Pietro Monti.

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Le chiese dell’isola d’Ischia

LA CONGREGA DI SANT’ANNA

IN CASAMICCIOLA

di Antonina Garise Il 1600 è il secolo delle confrater-nite, delle opere pie assistenziali, costituite da laici nell’ambito del cattolicesimo e nel respiro della Controriforma. In un periodo in cui le monarchie pensavano soprattutto a possedere forti eserciti e a favori-re la nobiltà, erano completamente ignorate le forme assistenziali e la popolazione, in caso di bisogno, po-teva solo contare sull’aiuto del Cielo. La Chiesa si sforza allora di incen-tivare e di mettere in pratica con maggiore puntualità le sette opere di misericordia, scendendo nel so-ciale con la collaborazione valida di quella parte di nobiltà, che forse in cuor suo avvertiva l’ingiustizia evi-dente del sistema, nel quale spesso il lusso e la ricchezza si appoggiavano sull’indigenza e lo sfruttamento del povero. Così si hanno opere assistenziali di ampio respiro, specialmente per i bisognosi e i più deboli e indifesi: basta ricordare i nomi degli ospeda-li più antichi di Napoli, per risalire alla loro origine. La Chiesa provvede infatti, sempre con l’aiuto dei laici, anche all’istruzione della gioventù che non ha i mezzi per studiare; mi piace ricordare a questo proposito i fratelli delle scuole cristiane che tut-tora educano ed istruiscono i ragazzi del Bartolo Longo a Pompei. A Casamicciola, nei primissimi anni del 1600, sorse il primo stabi-limento termale, il Pio Monte della Misericordia, dove venivano curati, con grande dignità i poveri, soffe-renti di quelle malattie per le quali le acque minerali del nostro paese sono salutari. L’opera fu realizzata per la generosità di alcuni patrizi napoletani. Alcuni anni dopo abbiamo, sem-

pre a Casamicciola, la costituzione di due pii sodalizi: quello di Santa Maria della Pietà (1616) e quello di Sant’Anna (1632). Ambedue hanno come scopo l’aiuto ai poveri, le visite agli infermi, un funerale dignitoso anche per l’indigente e infine il suf-fragio delle anime, mediante le mes-se. Nell’art. 1 dello statuto del 1897/8 si legge che la congrega e Monte di S. Anna fu fondata appunto nel 1632 e giuridicamente riconosciuta, oltre un secolo dopo, il 12.6.1782, con re-gio decreto, al tempo di Ferdinando IV di Borbone. Sempre nello stesso statuto si fa menzione degli scopi della pia istituzione locale: Benefi-cenza, funzioni religiose particolari durante l’anno, adempimento dei doveri cristiani e civili, assistenza gratuita agli infermi poveri e agli inabili al lavoro, oltre naturalmente il servizio funebre e i suffragi spiri-tuali per gli iscritti dopo la loro mor-te. Inoltre l’art. 75 accenna ad anti-che regole statutarie, che lasciano supporre, implicitamente, uno sta-tuto ancora più vecchio. Gli statuti successivi (1907, 1935) ribadiscono più o meno quanto enuncia il primo. Nell’Ottocento, negli anni prece-denti il terremoto, la congrega di Sant’Anna dovette essere abbastan-za ricca; prova ne è l’abbondante contenzioso tra essa e i confratelli morosi. L’istrumento più antico di ipoteca a favore del pio sodalizio ri-sale al 1717. Con il terremoto del 1883 anch’es-sa dovette perdere molti dei beni in suo possesso e la stessa cosa dovette accadere, naturalmente, ad alcuni degli iscritti superstiti, tanto è vero che il consiglio di amministrazione pensò bene, in più di una occasione, di deliberare una sanatoria per i fra-telli morosi, ma privi di ogni avere.

La congrega rimase inoltre senza una sua sede fissa fino al 1889, anzi per tutto il 1884, l’anno successivo al disastro, ci fu per essa un totale sbandamento, tali dovettero essere la miseria e lo sconforto nella gente seguiti alla quasi completa distru-zione del paese già provato dai sismi degli anni precedenti. La chiesa madre era crollata e dal 10.2.83 al 28.7.84 la sede parroc-chiale fu la chiesetta di S. Antonio di Padova a Perrone, l’unica a non aver subito alcun danno dallo scon-volgimento tellurico, per passare poi nella Chiesa del Buon Consiglio alla Marina. La congrega riprese la sua attività nel 1885, ospite della casa municipale: una delle sue prime se-dute, quella del 20 ottobre, riguarda la presa d’atto di una polizza di lire 560 emessa dal comitato centrale dei soccorsi, facente capo al Prefetto di Napoli, a favore del Pio Sodalizio, col vincolo dell’impiego dietro pa-rere della deputazione provinciale. L’assemblea, presieduta dal priore del tempo Domenico Mennella, de-libera all’unanimità di chiedere al Prefetto l’eliminazione del vincolo all’uso della somma suddetta. Il pio sodalizio si riunirà alla fine dello stesso anno per fare propria l’offerta del confratello G. Maresca di utilizzare come sede definitiva la chiesetta di S. Agrippino di proprie-tà della famiglia Maresca e costruita qualche secolo prima dai conti In-garrica, i primi proprietari di Villa Maresca. La congrega però doveva sobbar-carsi le spese per eliminare i danni causati alla costruzione più dalla mancata manutenzione dei proprie-tari che dal terremoto, che non colpì la zona pianeggiante di Perrone, se si escludono le due ville sottostanti la Molara. L’assemblea delibera all’unanimi-tà che le 560 lire della polizza siano usate per riattivare S. Agrippino. Si scrive così al Prefetto per ottenere l’autorizzazione ad utilizzare per questo fine la somma, realizzando così la sede per il pio sodalizio e una chiesa per la gente che andava popo-lando la piana di Perrone, dando ini-zio al rione che prende il nome dal Ministro Genala, l’autore del piano di intervento per dare una casa con i criteri antisismici ai superstiti del

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terremoto. Nel 1886 la sede della congrega è ancora il Municipio co-struito, anch’esso, nella parte bassa di Casamicciola, e il priore è Giu-seppe Maresca; con lui si perfeziona l’iter burocratico per ottenere l’uti-lizzo della somma precedente più quello di una seconda polizza di lire 112 per la sistemazione di S. Agrip-pino. Il prefetto esprime parere fa-vorevole, come si legge dagli atti in possesso della Congrega e comunica che ha già dato disposizioni al Banco di Napoli, perché siano facilitate le operazioni necessarie. Il 28 ottobre dello stesso anno la congrega si riunisce, forse per una sola volta, in casa del sig. Maresca per elaborare ed approvare il bi-lancio preventivo 1887. Questo si presenta preciso nei dettagli, spe-cialmente per quanto riguarda il rapporto fra il sodalizio e gli iscritti morosi, con pendenza a livello giu-ridico. Sono tante infatti le ipoteche con-venzionali a favore della congrega che richiamano gli strumenti del secolo precedente: il più antico è del 1717. Altra curiosità è la paga ad alcuni membri del consiglio di ammini-strazione, quali il segretario e il te-soriere. Viene puntualmente rimborsato l’ex priore, il sig. Luigi Siniscalchi, per una somma a lui dovuta dal periodo precedente il terremoto del 1883. Nel 1887 la sede è ancora la casa co-munale, come si deduce dalla lettura degli atti riguardanti le attività della congrega. L’anno successivo si appoggia alla Chiesa del Buon Consiglio, ma la sede delle riunioni è l’ufficio del da-zio attiguo alla chiesa; anche questa notizia si ricava da atti riguardanti il contenzioso tra la confraternita e gli iscritti morosi. Infatti la documentazione più so-stanziosa del periodo, ancora in possesso della congrega, riguarda la parte contabile e soprattutto il contenzioso con gli iscritti, che non hanno potuto pagare la propria quo-ta. Dagli atti si nota come il consiglio di amministrazione della confrater-nita, con una puntualità eccessiva e qualche volta lontana dalla carità cristiana, che pure aveva ispirato la costituzione di quella, riesce a

mettere letteralmente le mani, con l’avallo della legge, sui miseri beni, come la povera abitazione di gente veramente indigente e sprovveduta, la quale cercava di assicurarsi l’as-sistenza funebre al proprio decesso e una tomba al cimitero nel luogo riservato agli iscritti della congrega. Ecco la storia di due anziani co-niugi, Luigi Liborio di Rinaldo e Maddalena Morgera, morosi e già condannati in giudicato nel 1870: poverissimi, nell’anno di grazia 1877, impegnano la loro unica stan-za con cucina e cisterna, sita in lo-calità Cuccufriddo, che passerà al pio sodalizio alla loro morte, a saldo dei loro debiti presenti e futuri. II segretario e il presidente del tempo, con una precisa e attenta disamina, come si nota nel verbale relativo del marzo 1877, dimostrano che l’acqui-sto dell’immobile è un sicuro van-taggio per la confraternita, essendo i due poveracci ormai decrepiti, come li definisce il segretario. Col breve intervallo del periodo del

terremoto, quasi tutto il secolo XIX vede impegnato il sodalizio a regi-strare, rinnovare ipoteche conven-zionali a suo favore, quasi come se fosse il suo impegno più importante. Allo stato attuale e credo da un buon periodo di tempo la Congrega non possiede altro bene che le quo-te degli iscritti e la chiesa di S. Pa-squale, sua sede dal 1889. Infatti in tale anno la chiesa di S. Pasquale ai Cittadini è concessa al pio sodalizio con istrumento di comodato perpe-tuo, per notar Giovanni d’Ambra del 24.2.1889, dai fratelli Luigi ed Elisa-betta Mancusi, compatroni di detta chiesetta.Da quel momento fino ai giorni nostri la storia della Congrega di S. Anna e quella della Chiesa di S. Pasquale s’intrecciano e la custodia e la salvaguardia di quest’unico edi-ficio sacro, integralmente superstite al terremoto del 1883, sono affidate all’intelligenza ed al cuore dei mem-bri del pio sodalizio.

Antonina Garise

Casamicciola - Chiesa della Maddalena - Presunta statua lignea appartenente alla Congrega, come si rileva dal verbale di consegna tra il vecchio e il nuovo pri-ore, risalente al 1871. Di ignoto scultore czmpano, Fine secolo XVIII

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Sport

L’Ischiaesce

dalla C/1? La posizione di classifica dell’Ischia è certa-mente grave; nessuno, ad inizio di campionato e successivamente dopo una buona serie di po-sitivi risultati, avrebbe mai potuto pensare a tale disastrosa situazione della compagine isolana. Le vicende sono ormai a tutti note, ma è bene ricordare che da vari anni sulla panchina gial-lobleu non sedevano tanti trainers, tre per l’ap-punto: Villa, Bilardi, poi di nuovo Villa, ed ora Rambone. Se è vero che il primo allontanamento (durato soltanto una gara) di Franco Villa era forse giu-stifica to dalla mancanza di risultati, dobbiamo anche dire onestamente che il suo secondo (de-finitivo) allontanamento dalla panchina isolana è stato esagerato, in quanto non tutto era perdu-to e il gioco proposto dal mister napoletano era molto spettacolare ed accontentava la platea. Comunque, se cambio doveva avvenire, la scel-ta di Rambone ci è parsa sbagliata, in quanto,

come è ormai assodato nel calcio italiano di oggi, lo scossone alle squadre lo danno giovani allena-tori pieni di speranza per il futuro e non allena-tori che ormai hanno fatto il loro tempo, come appunto nel caso di Gennaro Rambone. Certo, volesse il cielo che ci sbagliassimo in questo giu-dizio! Significherebbe la salvezza per l’Ischia! Bisogna comunque convenire che, come lo stesso tecnico ha dichiarato, la compagine isola-na negli ultimi tempi è stata decimata da infor-tuni e squalifiche che ne hanno condizionato il rendimento. D’altra parte non si può affrontare un campionato professionistico, come la CI, con una ristretta rosa di giocatori e per giunta con elementi demotivati e con qualche annetto in più sulle spalle. La politica dei giovani, soprattutto locali, che aveva portato all’Ischia grande giovamento ed aveva regalato all’isola una compagine di tutto rispetto che é sfociata poi nei vari salti di catego-ria, non è stata più seguita e quest’anno nessun giovane, ovvero nessun prodotto locale, ha tro-vatospazio costante in squadra. Al termine della gara col Rimini, vinta dall’I-schia per 2-0, abbiamo sentito il parere del tec-nico Rambone sulla squadra e sulle prospettive di salvezza. A proposito del comportamento contro i romagnoli, Rambone ha elogiato i suoi giocatori per il magnifico primo tempo, ma ha poi ammesso che “col passare del tempo la

Villa (a sinistra) grida all’indirizzo dei suoi giocatori - Rambone (a destra) si rabbuia e amaramente esce dal campo : in fondo la musica non è cambiata (Foto di Giuseppe Amalfitano)

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squadra ha pagato lo scotto del nervosismo e di un calo fisico abbastanza preoccupante. Co-munque ciò era preventivato, perché quattro/cinque elementi non hanno una condizione ot-timale a causa degli infortuni. La realtà è che questo passa il convento e i ragazzi sono stati superati sul piano fisico dagli avversari”. In linea generale qual è al momento un punto debole della squadra? Soprattutto il nervosismo. Ad esempio oggi mi sono arrabbiato proprio per il nervosismo del secondo tempo che ci poteva costa-. re caro. E poi, pensi che ciò comporta ammonizioni e squalifiche, con le quali bisogna fare i conti, mentre proprio questi sono i momenti in cui si devono avere tutti a disposizione. Il gioco della squadra pare latitante. Che ci dice in proposito? E’ vero, la realtà è che non abbiamo un gioco. Facciamo delle cose belle solo per la volontà e per l’impegno, fin quando ci sorregge il fisico, poi veniamo a mancare, proprio perché, ad esempio, non ho mai avuto la stessa formazio-ne neanche per due settimane di seguito. Sarei presuntuoso e sciocco se dicessi di aver realiz-zato qualcosa di sostanzioso a livello tattico. Come vede questo finale di campionato? Ce la farà l’Ischia a salvarsi? Saranno importanti eventuali svarioni delle compagini in lotta con l’Ischia per la salvezza? Io dico che la corsa la dobbiamo fare su noi stessi. Se avrò la fortuna di avere ogni dome-nica una formazione decente - la migliore sa-rebbe un sogno per me - credo che la salvezza

sarà possibile, anche perché ho a disposizione un gruppo di ragazzi che stanno facendo sa-crifici e vogliono, senza mezzi termini, riuscire nell’intento. Nonostante tutti questi infortuni e squalifiche, la voglia di salvarsi c’è.

Franco PostiglioneFallimentare il campionato dell’Ischia

Sull’attuale situazione dell’Ischia abbiamo sen-tito il parere di un ex calciatore isolano che ha calcato, in epoca in cui il calcio era vera passio-ne, anche i campi di serie nazionali: quel Franco Postiglione che è oggi anche apprezzato giorna-lista. Qual è il tuo pensiero sull’Ischia e sul campio-nato disputato? Questo campionato può essere definito falli-mentare, perché la dirigenza non ha saputo im-postare una squadra giovane. Insomma, sono stati ripetutigli stessi errori dello scorso anno. Allora pensi che ciò sia da imputare soprat-tutto alla dirigenza?Gli errori sono stati commessi per incompeten-za dei dirigenti che non sono all’altezza della si-tuazione.Come vedi il futuro? Vedo un futuro molto nero, perché non c’è ri-cambio in questa squadra che è fatta soprattutto di giocatori vecchi che oserei definire “cariatidi” che non danno nessuna sicurezza per il futuro. E del gioco praticato dalla compagine isolana cosa pensi? Niente, assolutamente non esiste gioco. Nean-che i ragazzini sulla spiaggia giocano così male, come l’Ischia.

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Alla Galleria Del Monte di Forio

EDUARD BARGHEER

Per Via Torrione, tra le scon-nessure dei basoli, l’odore acre e pungente di graspo torchiato di recente, la pozza d’acqua che ha risciacquato il fusto impregnato di vendemmia, il vociare sommesso cadenzato e lento della fatica. Bargheer: - Ecco, vedi quelle cre-pe sul muro, passano inosservate: nemmeno ci si sofferma un attimo a guardarle. Se le fissi un po’, co-minci a leggere la storia del vento, della pioggia, del sole, della salse-dine; la canna sfregata da un bam-bino mentre corre, scendendo le scale, felice di raggiungere il mare; il passo lento dei pescatori sotto cu-muli di reti e piombi, a riposare la loro stanchezza contro il muro. Tutto questo lavoro passa inosser-vato ad un occhio poco esercitato. Ma se ti soffermi soltanto un mo-mento a fissare quelle scalcinature, tu vedi che si animano; ci leggi tan-te storie con figure umane, forme vegetali, teorie di case: una forte espressione di vita! Io passo delle ore ad osservare i muri che conoscono il tempo e le stagioni e vi ritorno nei diversi momenti della giornata, perché è la luce nella complessità delle sue molteplici tonalità a suggerire le immagini, magicamente arabesca-te nel tempo crepuscolare, violente nel pieno sole, delicatamente sfu-mate al tramonto. Tutto questo mi parla, mi dà una suggestione vio-lenta. La mia pittura vuole comuni-care ciò che si nasconde dentro le cose; ciò che l’occhio non sempre riesce a vedere o, se anche legge, avverte in modo superficiale. Non basta coronare il mare con denti di schiuma per far vedere che è bur-rascoso, bisogna piuttosto comuni-care la forza che ha dentro quando ribolle in superficie; il colore è più vero del segno.

ma! Non si vuole nessuna causale individuale, forma da riprodurre, ma il concetto “nuvola”, il dramma dietro l’apparenza, una nuvola così che nell’osservarla si è convinti che essa in questo momento si dissol-ve. Molti osservatori di una nuvola così dipinta diranno certamente: - Ma una nuvola non è così, no, que-sto lo sappiamo, meglio. - Ma domandate soltanto a questi straordinari osservatori se le por-te del treno, su cui viaggiano ogni giorno, sono sopra ad angolo o ar-rotondate. Non lo sapranno. La rappresenta-zione spaziale in certi tempi prece-denti era l’illusione, era il tentativo di simulare col modellamento sulla superficie la terza dimensione. Si distruggeva così la superficie del quadro, invece di tradurre lo spa-zio sulla superficie. Lo spazio è il più grande segreto della pittura. Io disegno un oggetto tanto a lungo finché la sua forma è a me così fa-miliare che la potrei riprodurre alla cieca. Perciò si forma in me la rappre-sentazione di una composizione, che poi ritorna in un’ora felice. Leonardo dipingeva per mesi i suoi quadri, ma quello che conferi-sce loro la vita artistica, lo creava in un tratto. Lo scultore non deve solo modellare una figura come la vede,

Presso la Galleria Del

Monte di Forio, sino allafine del mese di giugno, esposizione di opere del pittore Eduard Bargheer.

In merito pubblichiamo

alcuni appunti curatida

Pietro Paolo Zivelli

Io voglio dire insieme l’Elba e il Tirreno; i pescatori di Finkerwer-der e quelli del molo di Forio. (Settembre anni ‘60 - Appunti da una conversazione con Bargheer, di ritor-no dal mare)

Giovedì 20 ottobre 1938 “In alcune epoche il problema principale della pittura era quello di dare un’immagine la più esatta possibile del mondo apparente; un bicchiere in modo tale da toccarlo, una rosa da cogliere. Questo problema fu risolto e al suo posto intervenne la fotografia. Veramente il dominio della forma e del colore è sempre il fondamento di ogni pittura, ma oggi il problema viene posto in una maniera più ap-profondita. Una nuvola si alza, si appallottola e si dissolve, un dram-

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ma deve penetrare più profonda-mente nelle leggi del movimento. Poi egli noterà che tutti i movimen-ti sono accoppiati tra loro. Quando osserva ciò, le sue opere hanno ve-ramente vita. Una figura di Kolbe si dissolve nell’aria; in una scultura di Marko invece si potrebbe immaginare che il piede sappia ciò che fa il braccio. Di Fidia si dice che egli abbia affer-mato: - Datemi una zampa di leone ed io creerò per voi il leone cui ap-partiene questa zampa. - Certo è solo leggenda, ma essa mostra quanto gli antichi greci sa-pevano su queste connessioni sul movimento. – (Dai ricordi della pittrice Gretchen Wohlwill: Eduard Bargheer - A cura di Volker Detlef Heydorn-Hamburger Kunstlermonographien) - Traduzione a cura di Nicola Luongo

Martedì, 29 novembre 1938 Ho visitato la mostra di Bargheer nel suo atelier di Jungfernestieg. Molto colpita dai suoi acquerelli. Bargheer disse sulla tecnica dell’ac-querello: - E’ sorprendente come l’ambiente influenzi la creazione di un acquerello. E’ sera, siedo fuori e dipingo, l’aria è umida. Perciò si asciugano lentamente e da soli, gli oggetti raffigurati assumono con-torni morbidi, sfumati: o un tem-porale scuote il cavalletto e minac-cia di metterlo giù, battaglia con gli elementi e senza il mio intervento penetra qualcosa di esso nel mio quadro, la sabbia viene soffiata sui colori, gocce di pioggia dipingono modelli sull’acquerello, il gelo di-segna fiori di ghiaccio sulla carta, il colore rovente fa coesistere com-patte le macchie coloristiche.Sempre la natura collabora. Questo è un fenomeno che è buo-no e giusto finché rimane naturale. Giammai si può causare qualcosa di simile artificialmente. Allora divie-ne maniera e porta alla morte del quadro che ha vita; da questa col-laborazione della natura dipende che l’acquerello in un certo modo è più facile della pittura a olio. Lei si meraviglia quando io dico questo e pensa: - Nella pittura a olio si può correggere mentre l’ac-querello tutto deve restare al pri-

mo colpo. Ma non si tratta di que-sto, bensì del piano nella sua vita. Nella sua formazione la tecnica dell’acquerello, lo scorrere dell’ac-qua sulla carta e la natura, come io dissi, sottraggono molto lavoro. Nel quadro ad olio invece bisogna rendere vitale ogni centimetro qua-

drato. Questo è il grande problema di questa tecnica. (Gretchen Wohlwill in “Eduard Bargheer” a cura di Volker Detlef Heydorn-Hamburgher Künstler-monographien) Traduzione di Nicola Luongo

Lavorando per “Aspettando Godot” la bandiera della disperazione e dell’antiprimavera

.... Bargheer nello scrivere la sceno-grafia si era essenzialmente preoc-cupato di rappresentare l’assurdo ed angoscioso problema dell’attesa che diventa infine drammatica cer-tezza di una eterna attesa di Godot. Lunghe strisce irregolari correva-no in senso orizzontale sul fondale (6x2), per una campagna che non era campagna, per un cielo che non era cielo, per un sole che non era luna, per una disperazione che era disperazione. Un paesaggio, quello suggerito da Bargheer, rarefatto, napalmizzato, nella esasperazione cromatica da un nero seppia ad un giallo ocra; dal grigio scuro delle quinte laterali al rosso mattone dei pantaloni di Lucky. Una desertica desolazione figu-rativa si sviluppava in pochi rami scheletrici e nodosi per un “albe-ro”, sulla sinistra del palco, quasi sul proscenio; l’albero era l’inter-locutore psicologico e logico, rife-rimento spaziale e temporale (alla fine metterà foglie) per i due poeti-vagabondi. L’albero, come ricordava Barghe-er, doveva svolgere un ruolo fon-damentale nella economia della scenografia, l’assurdità dei discorsi pronunciati da Vladimiro ed Estra-gone; doveva soprattutto, estrapo-lando, suggerire nella forma-colo-re, l’angoscia dell’attesa, prospet-tando in Vladimiro ed Estragone il dramma dell’intera umanità du-rante il periodo della guerra fred-da.... (Bargheer ed il teatro - La Rassegna d’Ischia - aprile 1981 - a cura di Pietro Paolo Zivelli) Mercoledì 28 marzo 1939.. Sulle pareti erano appesi accanto

ai lavori di Gabriele Stock-Schmi-linsky anche un disegno a china di Nolde e un paesaggio di Barghe-er: primavera sull’Elba, così mi sembravano astratti tutti gli altri paesaggi di lui che conoscevo, ma misteriosamente molto vicini alla natura. Io gli dissi ciò ed egli molto volen-tieri afferrò il tema: - Cercai di dipingere un paesaggio anteprimaverile con alberi, con pa-scoli e il fiume sullo sfondo. Io mi tormentavo senza essere soddisfat-to del mio lavoro. Allora mi venne incontro, una notte, l’anteprimave-ra in una bandiera a strisce larghe orizzontali. Le bandiere a me note erano certo spesso a strisce orizzontali ma una cosi non l’avevo mai vista. Essa co-minciava con una larga striscia in alto blu chiaro, poi seguivano una striscia stretta viola, una striscia molto stretta bianca, poi una più larga più gialla e più verde lumino-so sul bordo inferiore.Mi svegliai col cuore in gola e sape-vo - questo era proprio quello che cercavo - e mi venne in mente che veramente il colore dell’antipri-mavera deve essere ottenuto oriz-zontalmente e io seppi al momen-to che la striscia bianca sottile nel mezzo era la tempesta sullo sfondo e i segni sopra verticali erano certo forme vegetative, ancora completa-mente non colorate, ancora perme-ate dall’inverno. Dipinsi l’antepri-mavera così come l’avevo sognata e dipinsi gli alberi in nero e in bianco nel loro ritmo schierico sulle cro-maticità della bandiera come la vidi nel sogno. - (Brani dai ricordi della pittrice Gretchen Wohlxvill, op. cit.)

Traduzionei Nicola Luongo

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GIULIO GRABLOVITZ (1846 -1928) e gli studi geofisici nell’isola d’Ischia III Parte

Sul Mareografo d’Ischia Variazioni nel periodo delle sesse marine in Ischia

La stazione mareografica, pro-posta dal sottoscritto nel 1884 e posta in funzione nel 1889, si stacca alquanto dal concetto degli altri mareografi, perché destinata da bel principio ad in-dagini speciali attinenti alla ge-odinamica e le fu apposto perciò il nome di mareosismica. Non è peraltro da credersi che 1 suoi particolari meccanici si stacchino essenzialmente da quelli di ogni altro mareografo, che anzi l’apparecchio non è al-tro che il modello del Mati, con qualche modificazione oppor-tuna, anzi necessaria, suggerita dall’esperienza, fra cui la sosti-tuzione d’un movimento a bi-lanciere a quello a pendolo, non consigliabile in località ove nei casi più interessanti sorgerebbe il pericolo d’arresto. Fu dapprima collocato su un manufatto rotondo costruito in addietro a scopo di ormeggio su uno scoglio trachitico entro il porto, ma nel settembre 1898, per necessità d’indole pratica, venne trasportato sulla più vici-na riva, che ne dista 75 metri dal lato sud-ovest del medesimo. Nella livellazione di precisione effettuata nel 1913 dall’Istituto Geografico Militare e che ora verrà ripetuta, vennero com-presi i detti punti nel poligono chiuso di 33 chilometri in giro all’isola, con diramazioni, una delle quali giunge al faro. E’ ovvio che l’applicazione dei criteri mareografici alla geodi-namica non è tanto semplice quanto a primo aspetto potreb-

be sembrare. Se una breve serie di letture eseguite simultane-amente in moltissimi punti in giro ad un’isola su prestabiliti capisaldi nell’ora di alta o bas-sa marea pressoché stazionaria, ma preferibilmente a bassa ma-rea in giornata di calma ecce-zionale e possibilmente di qua-dratura lunare, può quasi emu-lare una livellazione terrestre di precisione, altrettanto non può sperarsi attraverso a tutte le vicissitudini atmosferiche ed a tutti i variabili stadi di marea, specialmente se, non potendosi praticamente ottenere la simul-taneità, fa d’uopo ricorrere a riduzioni facenti capo alle regi-strazioni del mareografo. E’ da raccomandarsi a quanti si occupano di maree la presa in considerazione di ogni cogni-zione, di ogni sistema, di ogni metodo ad esse relativo, per giungere con passo sicuro ad applicazioni di qualsiasi natura. Nel caso della geodinamica le seguenti applicazioni sembrano le più importanti, sia in quest’i-sola, sia altrove, cioè: 1) Il rapporto fra lo stato della marea e le variazioni di tempe-ratura e d’efflusso delle sorgive termali, specialmente di quelle più prossime al mare; studio che valse a dissipare infondati timori e giovò anzi a fornire la previsione di tali variazioni e persino della sospensione, con uno o due giorni di precedenza,unicamente in base alle indica-zioni del mareografo. 2) L’influenza dell’agitazione

del mare, facile ad apprezzarsi nelle condizioni meccaniche di questo mareografo, sulle per-turbazioni ai sismografi tanto alla stazione meteorica del por-to, elevata 30 metri e distante 500 dal mare aperto, quanto alla stazione geodinamica della Grande Sentinella, elevata 120edistante 400 dal medesimo. Forse in tutta l’isola non v’è un punto di completa insensi-bilità ed altrettanto avviene in terraferma, ove nell’interno v’è pericolo di scambiare qualche forte mareggiata per vero moto sismico. 3) Le oscillazioni secondarie del mare, chiamate sesse, a so-miglianza dei laghi, e regolate ordinariamente dai gradienti barometrici e dai venti; senon-ché, all’intervenire d’una causa sismica acquistano proporzioni grandiose, come in occasione del terremoto Calabro dell’8 settembre 1905 splendidamen-te illustrato dal ch.mo prof. Gio-vanni Platania nel voi. XII del Bollettino della società sismo-logica italiana. Tali oscillazioni, irregolari o complesse altrove, sono qui isocrone con un perio-doche nel 1890 era di 13m 45s; sul volger del secolo si ridusse quasi improvvisamente a 12m 30s ed ora non è che di 12mOs. La cau-sa di ciò, le coste essendo inalte-rate, va ricercata in un aumento di capacità dell’estuario per mo-dificazioni del fondo marino, e forse non rimarrebbe senza suc-cesso la ripetizione

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d’uno scandaglio sull’isola sot-tomarina innalzantesi fra Ischia e Capri fino a soli 134 metri (nel 1895) sotto il pelo dell’acqua, di fronte a profondità circostanti di 900 a 1000 metri. 4) Lo studio dei bradisismi in connessione con le livellazioni di precisione, da cui evidente-mente non possono ottenersi risultati immediati. Notevole è intanto quello della smentita del sospettato bradisisma appenni-nico, almeno nelle grandi pro-porzioni volute da un eminente sismologo estero, come risulta dalla memoria dello scrivente, (Sul sospettato bradisisma ap-penninico - Bollettino della so-cietà sismologica italiana, vol. XXIII), la quale invece corrobo-ra la realtà dell’abbassamento graduale della parte orientale di quest’isola.

A queste applicazioni della ma-reografia vanno aggiunte: 5) Per la geofisica: Lo studio delle variazioni periodiche della superficie del globo o deforma-zioni della massa terrestre per effetto dell’attrazione della luna e del sole nel loro moto diurno, mediante i pendoli orizzontali, studio che se non è consigliabi-le in un’isola, né presso i litora-li, stante la possibile pressione della marea liquida che ne può mascherare la vera essenza, è attuabile nell’interno dei conti-nenti e richiede assolutamente il coordinamento orario d’uno dei metodi di analisi armonica delle maree. 6) Per la marea in se stessa: La cognizione delle costanti armo-niche, in base alle quali è con-sentita la previsione giornaliera delle alte e basse maree con le

loro escursioni in quest’isola, applicabili a tutto il golfo di Na-poli ed estensibili con le debite lievi riduzioni ad altri porti del Tirreno ed allo studio delle cor-renti dello stretto di Messina per reazione della marea ioni-ca svolgentesi in fase pressoché contraria. A sì interessante stu-dio portò notevole contributo su tal base il prof. Platania ed è sperabile che l’avvenire cor-robori ognor più i raggiunti suc-cessi. Qui la previsione della marca viene giornalmente inserita nel bollettino affisso al pubblico all’ingresso della Direzione del R. Osservatorio in Ischia. (Giulio Grablovitz - Sul mare-ografo d’Ischia - Estratto dalla “Rassegna Marinara” anno I, n. 7/8 - Napoli, Stab. Tip. Luigi Pierro e Figlio, Via Roma 402 -1922)

In merito alle sesse, oscillazio-ni secondarie del mare, citate nel precedente scritto, il Gra-blovitz aveva già pubblicato nel 1909 un opuscolo dal titolo:

Variazioni nel periodo delle sesse marine

in Ischia. Ne riportiamo alcuni signi-ficativi passi, tralasciando i riferimenti più specificamente tecnici.

Ancora nel dicembre 1889, appena impiantata nel porto di Ischia la stazione mareosismica nell’intento di stabilire le even-tuali relazioni tra i movimenti del mare ed i fenomeni sismici, ebbi ad accertare la presenza di oscillazioni isocrone, analoghe alle sesse che già si erano osser-vate in qualche lago ed il cui stu-dio ha in oggi acquistato grande diffusione non solo nei laghi, ma pure nei mari. L’esistenza di tali oscillazioni, specialmente nel fatto del loro sensibile isocronismo, m’era già

stata resa palese ancora prima di impiantare il mareografo. Avendo cioè collocato nel 1888 un termometro registratore Ri-chard nel bacino dei fanghi del-lo Stabilimento balneo-militare, mi avvidi che il mare, in presen-za di alte maree straordinarie, rigurgitava nel bacino stesso e, invadendolo, raffreddava sensi-bilmente l’acqua termale stessa in cui trovavasi immerso il bul-bo del termografo. Tale raffred-damento, che era di 3 a 7 gradi si manifestava ad intervalli di un quarto d’ora incirca, in gui-sa che nell’intervallo di due ore presso l’alta marea, si contava-no da 8 a 9 di tali oscillazioni, talché da un totale di 209 di queste dedussi un periodo me-dio di 13m 47s. Posto in funzione il mareogra-fo il 9 dicembre 1889, accertai subito la realtà del fenomeno ed i primi risultati d’una sorpren-dente uniformità vennero da me esposti in una nota intitolata

“Ricerche sulle Maree d’Ischia” e pubblicata nei Rendiconti del-la R. Accademia dei Lincei (voi. VI, I semestre, fase. I). Il periodo allora determinato s’accordava molto soddisfacen-temente con quello già desun-to per mezzo del rigurgito nel bacino dei fanghi, poiché dalle registrazioni mareografiche del 10-11 dicembre mi risultarono i seguenti valori da tre gruppi dif-ferenti di oscillazioni:

Numero di DurataOscillazioni mediacomplete di ogni oscillazione 71 13m44s 67 13m45s 89 13m51s Tot. 227 media 13m47s

Tale periodo si mantenne co-stante o quasi per lungo tempo ed in ogni caso la variabilità, degna di ulteriori indagini, era tanto esigua da potersi attri-buire anche alle incertezze del

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calcolo, specialmente nei casi di frequenti interferenze. Ma da qualche anno a questa parte dovetti accorgermi che il periodo s’era sensibilmente e permanentemente depresso, perché non giungeva mai a 13 minuti. (...) Riguardo alla causa di una varia-zione permanente come quella in questione, il problema è sempli-ce, se si ammette che l’oscillazio-ne propria d’un bacino non possa essere differente da quella che gli spetta in armonia alle leggi della gravità ed in rapporto all’esten-sione ed alla profondità del me-desimo, perché in tal caso basta ammettere che una di queste siasi modificata sensibilmente, per ren-dere ragione di una corrispondente variazione del periodo. Se poi non si voglia ammettere che i periodi siano esclusivamente legati alla forma ed alle dimensioni del baci-no, conviene supporre che le oscil-lazioni obbediscano a qualche altro impulso forzato d’ignota natura ed origine, ma sincrono alle oscillazio-ni osservate. Nel primo caso, dato che nella conformazione delle coste vicine all’isola d’Ischia e nel golfo di Na-poli, ove probabilmente risiede l’oscillazione principale, non s’è osservata nel decorso ventennio alcuna modificazione alle coste, tale da giustificare simili variazioni permanenti nel periodo oscillato-rio, converrebbe invece ricercarlo nelle profondità. Nel secondo caso ci troveremmo alla presenza d’un arduo problema di geofisica per ri-solvere il quale occorrerebbero ben più profonde ed estese indagini, ma una ispirazione ci viene già dal fatto che le sesse prodottesi in oc-casione d i ben accerta ti fenomeni tellurici o vulcanici assunsero pe-riodi anormali, come fu osservato in occasione dei terremoti calabro-siculi e delle eruzioni vesuviane. Intanto giova rammentare che a Libeccio del golfo di Napoli sorge un’isola sottomarina, rfguardo alla quale l’ex direttore del R. Ufficio Idrografico, comandante Gaetano

Cassanello in una sua conferenza al II congresso geografico nazionale (Roma 1895) così si esprimeva: — “Tra Ischia e Capri, per esempio, giace nel mare, con evidente rasso-miglianza di profili a talune terre vicine, una vera isola, spingente per ora a 134 metri sotto il pelo del-le acque la sua vetta più sollevata. Profondità di circa 900 metri la dividono da Ischia, di 1000 metri da Capri; nessuna fondata traccia di così caratteristica configurazio-ne esiste nelle carte d’uso comune, possedute prima dello scandaglia-mento italiano. Si tratta di basso-fondo non accertato dagli idrografi che ci precedettero? di creazione destinata ad arrestarsi a profondità prestabilita? di bradisismo volto da irresistibile marcia a trasformare potentemente le condizioni, oltre-ché batimetriche, anche nautiche ed estetiche di quella regione?” Forse questi fenomeni abissali del mare sono, e per l’azione del volume d’acqua sovrapposto e per lo smorzamento della massa liqui-da stessa, assai più formidabili, ma assai meno fragorosi dei fenomeni subaerei e ne sarebbe una prova diretta la violenta rottura dei cavi sottomarini in presenza a palesi fe-nomeni vulcanici. Giova pur tener presente che la detta isola sottomarina viene qua-si a costituire un barraggio nel bel mezzo dell’imbocco del golfo di Na-poli, talché una sua eventuale som-mersione od emersione, nonché modificare la profondità dell’estua-rio, deve alterare sensibilmente i limiti virtuali dell’oscillazione del golfo rispetto al mare aperto. Anche il fatto dello strano mare-moto avveratosi il 31 maggio 1902 e del cambiamento repentino suc-cedutovi nel periodo delle sesse potrebbe militare in favore di una silenziosa, per quanto rapida mo-dificazione dell’isola sottomarina e se nuovi scandagli rivelassero un’alterazione delle condizioni batimetriche di quel bassofon-do, sarebbe già aperta una via alla spiegazione del fatto; mentre trovando il fondo inalterato, con-verrebbe ricercarne altrove la cau-sa, ma non molto lungi, perché,

come ho già detto, il periodo di 13m9 corrispondeva discretamente alle dimensioni generali del golfo di Napoli, ove sembra aver sede, perché se anche il fenomeno delle sesse si presenta a Napoli assai più complesso che ad Ischia per la so-vrapposizione di oscillazioni secon-darie di minor periodo, ciò si può attribuire alle irregolarità della co-sta ed alle condizioni dei bassofon-di, mentre al largo prevale il perio-do principale con lievi interferenze. Posso aggiungere che nell’ago-sto 1893, trovandomi a Ponza per l’impianto d’un apparecchio si-smico, intrapresi una breve serie di osservazioni marco-metriche, le quali confrontate poi con le simul-tanee registrazioni mareografi-che d’Ischia, mi rivelarono la quasi completa estinzione del fenomeno delle sesse in quei paraggi, perché l’ampiezza mi risultò ridotta ad un quarto di quella osservata ad Ischia.Se anche nessun giudizio si può pronunciare fino a prove più matu-re, è fuor di dubbio che le variazioni permanenti accertate ad Ischia nel periodo delle sesse marine sono di grande interesse e dimostrano l’uti-lità d’estendere tali ricerche ad altri punti, traendo partito non solo dei mareografi che già esistono a scopo geodetico, ma istituendone altri in località adatte sotto il punto di vista geofisico e lontane per quanto pos-sibile da cause perturbatrici estran-ce allo scopo delle indagini. Ischia, 26 gennaio 1909.

Giulio Grablovitz

(La I e la II parte riguardanti la figura e l’attività di Giulio Gra-blovitz, che fu il primo direttore dell’Osservatorio Geodinamico di Casamicciola, sono state pub-blicate rispettivamente sui se-guentinumeri de “La Rassegna d’Ischia”: n. 1/2 - Febbraio 1989 n. 3 - Aprile 1989)

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Fatti e personaggi della storia di ieri e di oggi

La spedizione dei Mille(1860)

di Vincenzo Cuomo

La spedizione dei volontari gari-baldini, che si andava preparando per liberare l’Italia meridionale ed attuare finalmente quell’unità nazionale da decenni inutilmente rincorsa dalle menti più illumina-te della penisola, inizialmente non trovò una pubblica rispondenza da parte del Cavour. Il suo orien-tamento era dettato non solo dalla sicura avversione che percepiva da parte di Napoleone III, ma anche dai momentanei rapporti non trop-po idilliaci con l’Inghilterra, unica potenza che avrebbe potuto con-cedere aiuto o benevola neutralità. Nel contempo, però, il primo mini-stro sardo si rendeva conto che fer-mare Garibaldi con la forza avreb-be significato urtare la sensibilità di tutti quegli italiani che speravano di veder completata l’opera inizia-ta l’anno precedente con la secon-da guerra d’indipendenza. Ancora, intuiva che ostacolare la spedizione voleva dire inimicarsi vieppiù il so-vrano, già duramente provato per la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia, e che, dichiaratamen-te guerrafondaio, aveva concesso il suo tacito personale benestare al generale in camicia rossa. Nonostante le difficoltà e gli scon-tenti legati ad una sua qualunque decisione, il Cavour diede ugual-mente l’ordine, anche se non trop-po convinto, di ostacolare la par-tenza dei volontari. Ma il suo vero sentimento in merito all’impresa ci è ancora in parte ignoto e pro-babilmente, al momento, non era del tutto chiaro neanche a lui. Sua ferma intenzione era però rendere manifesto a tutte le potenze euro-pee che il Regno di Sardegna non aveva alcun tipo di legame o ade-

nostante alcuni anni prima avesse rifiutato il comando di un’analoga spedizione nel Mezzogiorno e poi tentata dal Pisacane, in quanto in Sicilia il sentimento liberale e pa-triottico gli appariva di gran lunga più maturo ed avanzato in con-fronto a quello esistente nella parte continentale del Regno delle Due Sicilie. L’Isola infatti era una delle zone più calde d’Italia, anche se le rivolte sempre avevano avuto più una colorazione separatista-sociale che non indipendentista-unitaria. Garibaldi, però, sperava di mani-polare a suo favore questo forte sentimento di avversione al domi-nio borbonico-napoletano. Altro motivo che spinse il Generale alla partenza era la presenza di vari fo-colai di rivolta che lasciavano ben sperare, sia per consistenza nume-rica che per forte sensibilizzazione a suo favore. La conquista della Sicilia, per Garibaldi, doveva però rappresentare solo la prima tappa di una ben più lunga campagna che aveva come obiettivo finale la liberazione di Roma e Venezia e la conseguente creazione di un’Italia unita. La spedizione ebbe il suo punto di raccolta a Quarto, vicino a Genova. I partecipanti, tutti ferventi patrio-ti e provenienti in gran parte dalle città del settentrione, erano per la maggior parte membri della picco-la e media borghesia urbana, con una prevalenza di professionisti, studenti ed intellettuali. Era com-pletamente assente il ceto contadi-no, sia meridionale che settentrio-nale. Quelli del nord infatti, anche se dotati di una maggiore consa-pevolezza nei confronti di quelli del sud ed anche se molto spesso erano apparsi disposti a lottare per migliorare il loro tenore di vita o

Spedizione dei Mille

Il termine entrò nell’uso qualche tempo più tardi della conclusione dell’impresa di Garibaldi al Sud.Invero pare che fossero 1088 più una donna, Rosalia Montmasson, moglie di Crispi.La loro impresa costituisce una delle pagine più epiche del nostro Risorgimento ed ha suscitato la fantasia di scrittori e di pittori che ne hanno tramandato i tanti e tanti episodi.

renza con questi rivoluzionari; da abile e consumato politico, intuiva peraltro quali vantaggi sarebbero venuti al Piemonte dalla riuscita di una spedizione, attuata sì da ri-voluzionari, ma al grido di “Italia e Vittorio Emanuele” e che marcia-vano all’ombra della stessa bandie-ra dell’esercito del suo Stato. Garibaldi, che già da tempo era la figura più rappresentativa e presti-giosa della sinistra, decise di accet-tare la guida di questi uomini, no-

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I Mille e l’esercito meridionale (cartolina d’epoca)

ottenere conquiste politiche, non avevano e non potevano avere un orizzonte così vasto da compren-dere un ideale tanto lontano dalla loro vita quotidiana, quale era ap-punto l’unità d’Italia. Tra questi volontari, molti dei quali destinati ad assurgere a grande glo-ria, ricordiamo: Francesco Crispi, il futuro capo del governo; Nino Bixio, che sarà soprannominato il secondo dei Mille; Benedetto Cai-roli, membro di una famiglia che aveva versato copiosamente il san-gue a favore della causa italiana. Vi era pure il futuro storico della spedizione: Giuseppe Cesare Abba, che con le “notarelle di uno dei Mille” contribuirà a rendere noti e cari alla sensibilità dei giovani del-le generazioni che seguiranno l’ar-dore, l’entusiasmo e il sentimento patriottico che animava questi uo-mini. Anche il romanziere Ippolito Nievo era dei loro. Notiamo infine Giuseppe Bandi, anch’egli parte-cipe e narratore della spedizione, nonché il giornalista francese Ma-xime du Camp. Da un punto di vi-sta strettamente militare, che solo in parte però serve a spiegare il tra-volgente successo della spedizione, va detto che questi uomini non era-no nuovi ad imprese di guerra, in quanto l’anno precedente avevano combattuto nel corpo dei Cacciato-

ri delle Alpi, sempre al comando di Garibaldi. La traversata non presentò ecces-sive difficoltà e la marina sarda non fu incontrata. Dopo una breve so-sta a Tala-mone, in Toscana, per rifornirsi di armi, il Lombardo ed il Piemonte, i due piroscafi della società Rubattino che erano stati sequestrati o quasi per il viaggio, approdarono a Marsala (11 maggio 1860), ove, malamente contrastati da alcuni legni borbonici e sorretti dalla benevola presenza della flot-ta britannica, i volontari poterono felicemente sbarcare. La fede e l’entusiasmo di cui erano pervasi li spinse ad iniziare subito la marcia verso l’interno. Garibaldi, duran-te i primi giorni, assunse anche la carica di dittatore, che proclamò di esercitare nel nome di Vittorio Emanuele. Le guarnigioni borboniche, colte di sorpresa dal travolgente avanzare dei Mille, si ritirarono senza impe-gnarsi in grossi scontri. I Garibal-dini intanto avevano anche iniziato ad usare una tecnica di combatti-mento completamente sconosciuta agli eserciti regolari: la guerriglia, fatta di veloci attacchi a sorpresa ed ancor più veloci ritirate, con con-seguente disorientamento, scom-piglio nelle retrovie e distruzione o sottrazione di notevoli quantità

di materiale. 11 potenziale bellico dell’esercito di Francesco II pre-sente in Sicilia era però ancora in-tatto. Un’armata di oltre 25000 uo-mini, perfettamente equipaggiata, era pronta a respingere gli invasori. Era questa quindi la forza che i pa-trioti avrebbero dovuto abbattere prima di veder conclusa la parte iniziale del loro piano. Il primo combattimento di una certa entità si ebbe a Calatafimi (15 maggio), ove un’unità borbonica, di circa tremila armati e guidata dal generale Landi, aggredì i Ga-ribaldini. La vittoria arrise però a questo manipolo di idealisti. In tal modo, lo scontro, pur restando nel-la storia militare solo un episodio di ben poca rilevanza in confronto alle grandi battaglie del secolo, si guadagnava di diritto l’accesso tra i momenti più significativi del no-stro Risorgimento. Durante la battaglia, Garibaldi, nel mezzo della mischia, preso dal-la disperazione di non riuscire, ri-volto a Bixio, che gli aveva chiesto sul da farsi, gridò: “Qui si fa l’Italia o si muore!” Aveva perfettamen-te capito che in quel momento era in gioco sia il destino dell’impresa che la loro stessa vita. La frase, da alcune fonti contestata come non vera, rende però magnificamente la drammaticità del momento. Infatti

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i Garibaldini, se non fossero riusciti a respingere la colonna borbonica, di certo per il futuro non avrebbe-ro ricevuto quell’aiuto da parte dei locali che poi invece ebbero; e la spedizione si sarebbe chiusa con un massacro al quale, dopo l’esercito, avrebbero partecipato di sicuro an-che i tribunali e perché no anche le plebi rurali, così come già era acca-duto ai tempi di Pisacane e dei fra-telli Bandiera. Dopo la vittoria Garibaldi puntò decisamente su Palermo, mentre l’armata si ingrossava per l’ade-sione di molti giovani siciliani: i “picciotti” che, alimentati nel loro desiderio patriottico da volontà superiori, si erano decisamente schierati dalla parte dei liberatori. Costoro, nella maggioranza, fatte le debite eccezioni per idealisti sepa-ratisti ed unitari, rappresentavano l’espressione della ribellione di una classe contadina, oppressa da una miseria millenaria, che univa que-stione politica e questione sociale, sperando che il trionfo di Garibaldi sui Borboni segnasse finalmente l’inizio di quella rivoluzione agraria da tempo attesa. Le loro aspettati-ve in breve andranno deluse! I moti di Brente, duramente repressi dal Bixio, ne saranno una cruda testi-monianza. Al momento però il loro contributo fu prezioso ed interven-ne a dare nuova forza e slancio alle Camicie Rosse. La marcia sulla capitale fu veloce ed attuata sempre seguendo i det-tami della guerriglia: finti sposta-menti, marce notturne ed attacchi a sorpresa. Ciò continuò, ovvia-mente, a dare quei risultati posi-tivi che già in precedenza si erano avuti. La presa di Palermo (27-30 maggio 1860), effettuata contro un esercito senza mordente, mal guidato, diso-rientato dalla rapidità con la quale si erano svolti gli ultimi avveni-menti, condizionato dalla sempre crescente ostilità delle popolazioni locali e pavido nei confronti di que-sti irregolari che sembravano pro-cedere avvolti in un alone di invin-cibilità, fu così una nuova vittoriosa pagina di storia scritta dai Garibal-dini. L’ingresso in città avvenne da porta Termini. Dopo alcuni scontri,

caratterizzati da asprezza e punte di alta drammaticità, il generale Lanza, incapace a fronteggiare la situazione, accettò di arrendersi, nonostante avesse ai suoi ordini un quantitativo numerico di soldati di gran lunga superiore a quello dei patrioti. Al termine di questo episodio ed al di fuori dei “picciotti”, alcuni dei quali preferirono anche far ritorno alle loro case, continuarono ad es-sere pochi gli isolani che si arruo-larono nell’esercito di Garibaldi, nonostante questi avesse bandita anche la leva. Notevoli aiuti dove-vano però arrivare dal nord, con varie spedizioni successive, e tali da permettere il prosieguo delle operazioni. Il 18 giugno infatti rag-giungeva la Sicilia un contingente di oltre 2500 nuovi volontari gui-dati dal Medici. In questo periodo, inviato dal Cavour, giunse nell’iso-la anche La Farina. Il primo mini-stro piemontese temeva sia il pro-sieguo dell’avanzata verso Roma difesa dalle truppe di Napoleone III, sia che questo moto democra-tico potesse travolgere l’Italia tutta. Compito di La Farina era quindi sensibilizzare l’opinione pubblica a favore del regno di Sardegna e chiedere l’immediata annessione, senza attendere che fosse Garibaldi a volerlo. Per il suo comportamen-to irriguardoso e provocatorio fu però in breve allontanato per ordi-ne dello stesso dittatore. Garibaldi, l’uomo che guidava questi idealisti, al momento aveva poco più di 50 anni ed un passato che già sapeva di leggenda, per aver lungamente ed instancabilmente combattuto per la libertà in varie parti del mon-do. In possesso di notevole fascino personale, che sconfinava in una immediata seduzione, era fiero nel portamento e gradevole nella figu-ra di semplicità, non priva nel con-tempo di personalità e carattere. La rappresentazione più nota, con la quale è anche passato alla storia, è quella che lo ritrae con la camicia rossa”, il poncho sulle spalle ed il sigaro in bocca. Ed è proprio il caso di dire che mai immagine oleogra-fica sia stata più vicina alla realtà. Nella vita quotidiana, ma anche nei momenti di maggior celebrità,

fu sempre lontano da affettazione e mai abbandonò la sua sobrietà, la sua umiltà e la sua intelligente comprensione per le classi più po-vere. Ma, al di là di considerazioni politiche, che spesso hanno diviso i suoi contemporanei e gli storici successivi, va ammirato soprattutto per la sua totale assenza di retorica, nonché per il rifiuto di promozioni, gratificazioni e prebende. Anche la ricchezza, va sottolineato, sempre lo lasciò del tutto indifferente. Completata la conquista della Si-cilia, con la vittoria di Milazzo, gli armati garibaldini iniziarono a tra-sbordare sul continente, eludendo la flotta borbonica che pattugliava lo Stretto e che alla pari dell’eser-cito già dava segni di cedimento, nonché quella del Persano che ugualmente aveva ricevuto l’ordine di impedire il passaggio. Intento del primo ministro sardo era infat-ti fermare i “Mille” e provocare sul continente un moto insurrezionale unitario che, scavalcando Garibal-di, chiedesse l’immediata annessio-ne del Reame al Regno di Piemon-te. L’auspicato moto e l’intercet-tamento dei legni dei patrioti non ebbero il successo che Cavour si au-gurava. Le Camicie Rosse poterono così completare il passaggio sulle terre di Calabria. Scontri di grosse proporzioni non ve ne furono, solo la presa di Reggio impegnò gli ar-mati da ambo le parti. Dopo di che le truppe borboniche cominciarono a disarmare ed a ritirarsi disordi-natamente verso il nord del paese. I comandanti dei reparti e gli stessi generali, fatte le debite eccezioni, davano al mondo uno spettacolo di inettitudine e codardia come rare volte era accaduto nel corso della storia. L’avanzata dei Garibaldini attraverso le terre della Calabria e della Basilicata si trasformò così in una marcia trionfale, mentre molte furono le città che insorsero ancor prima del loro arrivo. Quanto pro-gresso il sentimento liberale e pa-triottico aveva compiuto da quando nel ‘99 i Sanfedisti ugualmente ri-salivano la Calabria diretti a Napoli ed animati da ben altri sentimenti! Francesco II, intanto, il 24 giu-gno (sempre del 1860), spinto dal Consiglio della Corona, concedeva

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finalmente quella costituzione per la quale da decenni la parte più avanzata del regno si batteva. Era però troppo tardi! Il gesto da nes-suno fu inteso di magnanimità, ma solo di estrema debolezza. Il Regno delle Due Sicilie continuava così a sfasciarsi sotto i colpi dei conqui-statori, mentre il giovane ed ine-sperto sovrano si preparava a paga-re anche per le colpe degli avi, che in decenni di malgoverno avevano scavato un solco d’incomprensione e distacco tra Corona e Popolo. Fattosi grave il pericolo, il 6 set-tembre, il re e la regina si trasfe-rirono nel forte di Gaeta, mentre Garibaldi il giorno successivo (7 settembre 1860) faceva solenne ingresso nella capitale tenuta tran-quilla dalla camorra e dal ministro di polizia Liborio Romano, inti-mamente legato con i capi di que-sta organizzazione, che imposero il rispetto dell’ordine. L’accolse una popolazione festante! Ma sol-tanto ad una ristretta minoranza fu chiaro ciò che stava realmente accadendo: l’Italia si apprestava nuovamente a divenire unita e li-bera dallo straniero dopo secoli di dominazioni e divisioni. Con delle potenzialità belliche ancora intatte, i resti dell’esercito di Francesco II, che si erano ritirati tra Gaeta eCa-pua, riformati i quadri, iniziarono finalmente a contrastare gli invaso-ri. Fu così deciso un attacco contro la linea delle Camicie Rosse che li fronteggiava. Dopo alcuni succes-

si iniziali, sul Volturno (2 ottobre) furono travolti da questi irregolari che, ancora una volta, si seppero battere con coraggio e disciplina; Garibaldi in quell’occasione appa-riva anche un valido stratega, dopo aver già ampiamente dimostrato le sue capacità di grande tattico. In-tanto, sempre per volontà del ditta-tore, la flotta borbonica veniva con-segnata all’ammiraglio Persano, comandante di quella sarda. La presenza di Garibaldi a Napoli indusse molti capi de-mocratici a raggiungerlo, nel-la speranza di forzarne la volontà e sospingerlo alla realizza-zione di un’unità d’Italia lontana dal condizionamento cavouriano-piemontese. Garibaldi, invece, no-nostante la venerazione che ancora aveva per Mazzini -anche lui ovvia-mente a Napoli - riuscì a conserva-re la sua autonomia di pensiero e, spinto in tal senso anche dal Ca-vour, indisse un plebiscito (21 otto-bre) con il quale si riprometteva di unire (unico termine a lui gradito) il Regno delle Due Sicilie al nascen-te Regno d’Italia. Somma aspira-zione di Garibaldi era che da questa unione potesse veramente nascere uno stato nuovo, che non fosse solo un ingrandimento del regno di Sardegna. Il risultato fu largamen-te favorevole all’annessione, sia in Sicilia che nella parte continentale del regno, e non poco influì la po-sizione del dittatore apertamente a favore del “sì”.

Il Cavour, sempre nell’intento di sottrarre l’iniziativa ai democratici e far restare il Regno di Sardegna protagonista sia in campo politico che in quello di guida nella realiz-zazione del nuovo stato, ora che i Garibaldini erano gli incontrastati padroni del vecchio reame bor-bonico, abbandonò l’antica idea di una insurrezione moderata nel Sud, per orientarsi verso una spe-dizione in appoggio ai Mille. Sua ambizione era ora anche occupare parte dello Stato Pontificio. Con una brillante, coraggiosa e spregiudicata azione politica e di-plomatica riuscì a carpire a Napo-leone III il permesso necessario per attuare il suo piano, presentandolo come l’unica garanzia possibile per sottrarre il Territorio di San Pietro all’azione conquistatrice dei demo-cratici garibaldini avanzanti. L’e-sercito piemontese si faceva infatti garante dei possedimenti papali, mentre nel contempo s’impegnava ad evitare che potessero sorgere, sia a Roma che a Napoli, delle re-

pubbliche di stampo maz-ziniano. Segretamente fu così preparata una sommossa di moderati in Umbria e Marche, con l’intento di sollecitare l’aiuto dell’e-sercito sardo, sia contro le truppe papaline, che già in precedenza si erano mac-chiate di crudeli eccessi, che contro un dilagare del sentimento democratico. L’insurrezione fu però di un’intensità inferiore alle aspettative, anche se ser-vì ugualmente ed egre-giamente allo scopo. L’I 1 settembre infatti il gene-rale Cialdini varca- ^ va i

I risultati del plebiscito del 21-22 ottobre 1860

Voti favorevoli all’annessioneNapoletano 1.302.064Sicilia 432.053

Voti contratiNapoletano 10.312Sicilia 667

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confini ed entrava nei territori della Chiesa. Si temeva solo un eventua-le intervento austriaco alle spalle, che fortunatamente non ci fu. Lo scontro tra i due eserciti avvenne a Castelfidardo (18 settembre), ma più che una vera battaglia fu una scaramuccia. La ritirata dei papali-ni sancì la vittoria dei Piemontesi, che in breve si ritrovarono padroni dell’Italia centrale. Cialdini però, dimenticando che quelle non era-no terre di conquista, ma territo-ri italiani, si lasciò andare ad un comportamento eccessivamente severo destinato a divenire, nel momento in cui entrò nei territori del Regno delle Due Sicilie, anche violento e quindi decisamente con-trario allo spirito dell’impresa che si stava svolgendo. A suo favore va affermato che, specie in Abruzzo, incontrò una forte opposizione da parte di contadini sanfedisti e rea-zionari, che sobillati dai borbonici avevano dato vita a bande armate per respingere quelli che erano loro descritti come invasori. Al termine e con l’esercito di Vittorio Emanue-le II già entro i confini ex borbonici, alla sovranità del Papa restava solo la regione del Lazio; mentre Napo-

leone III, per salvare la sua posizio-ne nei confronti delle altre potenze, rompeva i rapporti diplomatici con il Regno di Sardegna. Lo zar di Rus-sia, che da sempre si ergeva a lonta-no protettore del Regno delle Due Sicilie, ugualmente ritirò il suo am-basciatore da Torino. Anche altre monarchie espressero la loro indi-gnazione per l’”aggressione” perpe-trata dal re di Sardegna, senza però giungere all’aperta rottura delle relazioni. Solo l’Inghilterra si mo-strò favorevole a ciò che stava av-venendo, in quanto da anni avversa al regime dispotico ed ottusamente reazionario dei sovrani borbonici. Al seguito del suo esercito anche Vittorio Emanuele giunse nel Me-ridione. L’incontro con Garibaldi avvenne a Teano o nei dintorni (26 ottobre), ove il dittatore, salutan-dolo primo re d’Italia, gli consegna-va quel reame creato per volontà normanna nel lontano 1030. All’ingresso nella capitale il Savoia non ricevette accoglienze trionfali da parte del popolo. A ciò contribuì in maniera rilevante il suo aspetto lontano da quella magniloquente presenza, imponenza nel porta-mento e ricercata eleganza, tanto

care alla sensibilità del popolo par-tenopeo. Anche al re i nuovi sudditi non fecero una buona impressio-ne, a causa della loro grossolanità, rumorosità e profonda ignoranza. Vittorio Emanuele era infatti abi-tuato ai suoi torinesi con una ben diversa tradizione di civiltà e rap-porti con la monarchia. Insieme al sovrano e per ordine del Cavour giunse a Napoli anche Luigi Farini, quale governatore del nuovo Sta-to. La scelta fu infelice e forse non a caso, in quanto costui era forte-mente avverso a Garibaldi. E non era il solo! Anche tra le file dell’e-sercito l’Eroe Dei Due Mondi con-tava molti nemici. Al termine della spedizione i Mil-le, che grazie al loro impegno ed al loro sacrificio, avevano regalato un nuovo regno al Re di Sardegna, non ebbero neanche la ricompen-sa di essere passati in rassegna dal sovrano. Le umiliazioni non erano ancora finite! Diffidando della fe-deltà alle Istituzioni, a causa del loro orientamento prevalentemen-te democratico, il governo di Tori-no sostenne la tesi che dovevano essere tutti rinviati a casa senza alcuna possibilità di essere inseriti

A sinistra : Sentinella garibaldina in un dipinto di Gerolamo Induno (Museo del Risorgimento, Torino) A destra : Ingreso di Garibaldi a Messina (stampa dell’epoca)

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nelle file dell’esercito del nascente regno d’Italia, cosa che invece Ga-ribaldi desiderava ardentemente. Ciò, tra l’altro, era dettato anche dal bisogno di far sparire questi ir-regolari, che gettavano una sinistra luce su un’impresa che doveva agli occhi del mondo apparire legittima e legale. Una posizione così dichiaratamen-te discriminatoria, da parte di un governo che nulla aveva obiettato nell’inserire nei suoi quadri solda-ti provenienti dai disciolti eserciti degli altri Stati italiani già occupati ed annessi, era sorretta anche dal timore che successivamente Ga-ribaldi potesse incitarli alla guer-ra contro l’Austria e lo Stato della Chiesa, fondando questa volta su reparti ben armati ed equipaggiati che, urtando la suscettibilità del-le altre potenze, avrebbero potuto mettere in pericolo le conquiste sino ad allora ottenute. Infine, si voleva evitare di inquinare l’eser-cito piemontese, al momento per tecnica, efficienza e preparazione tra i migliori d’Europa, con l’im-missione di uomini privi di spirito, tradizione e disciplina militare. Portavoce di tanta ostilità fu il ge-nerale Fanti, ministro della guerra, che arrivò al parossismo di dichia-rare che avrebbe preferito l’assor-bimento dell’armata borbonica a

tralasciava un’occasione preziosa per iniziare, anche se solo attraver-so i quadri militari, un amalgama tra Nord e Sud. Ancora, con questa esclusione venivano definitivamen-te accantonati l’ardore e la parteci-pazione democratica e popolare al Risorgimento, che continuava così ad essere solo un’azione voluta ed attuata da una minoranza che si identificava con il partito moderato che faceva capo a Cavour ed al go-verno torinese. Con l’annessione, almeno per il Mezzogiorno, aveva così termine l’epopea risorgimentale. La fusione avvenuta però in modo frettoloso e con leggerezza, alimentò malcon-tenti, creò squilibri e aggravò la già precaria situazione economica dei luoghi. Il nuovo Stato che si era creato risolveva sì il problema dell’unità d’Italia, ma peggiorava la situazione delle masse, che no-nostante gli sforzi non riusciranno mai ad identificarsi con esso. Aveva allora inizio un nuovo e ben più aspro capitolo di storia, avver-tito questa volta da una fascia ben più larga di popolazione e che an-cora non può considerarsi defini-tivamente concluso: la Questione meridionale.

Vincenzo Cuomo

quella garibaldina perché soldati più esperti, volutamente dimenti-cando gli insuccessi di cui si erano resti protagonisti negli ultimi tem-pi. Fra tanta avversione una sola voce si alzò a difenderli, anche se cauta e sommessa: quella di Vitto-rio Emanuele II. Al termine prevalse la posizione del Cavour, come al solito più con-ciliante e distensiva. Dei Garibaldi-ni furono passati nell’esercito regio circa 1700 ufficiali e 7000 solda-ti rigidamente selezionati. In tal modo veniva data soddisfazione ad entrambe le richieste! E’ evidente però che la vittoria arrise ai mode-rati conservatori. La conseguen-za fu l’aumento del numero degli scontenti e degli ostili al nuovo re-gno e al nuovo sovrano, mentre si

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Storia di Mergellina

diAngela D’Ercole

Mario Parlato

Dalla piazza Principe di Napo-li, in cui ha termine la Riviera di Chiaia, si passa alla Torretta: località così denominata da una torre del sec. XVI, eretta contro i pirati ed in seguito incorporata nell’edificio che fu costruito per un circolo fascista. A sinistra di questo ha inizio la Via Mergellina (intermedio tra essa e via Caracciolo si esten-de l’ampio viale Princ. Elena, signorile e alberato). Prenden-do la parallela via Piedigrotta, lasciandoci a destra l’Ospedale di Marina, si giunge alla famo-sissima chiesa di Santa Maria di Piedigrotta. Questa e celebre per la sua festa settembrina, cui è connessa la più tumultuosa, gioconda e pittoresca delle ma-nifestazioni popolari dei napo-letani, che vi abbinano anche la solenne cerimonia del battesi-mo delle nuove canzoni (1).

tre il Capaccio suppone che de-rivi dal nome megari dato all’ isolotto di Castel dell’Ovo e che equivarrebbe al latino mergum, a sua volta derivante da mergus che significa smergo o uccello acquatico. Il mergurus, vale a dire il piccolo colombo di mare, potrebbe darci la soluzione del quesito: il diminutivo di mer-gus, usato dai pescatori che si imbarcavano su questa spiag-gia, un po’ per corruzione, un po’ per diminuzione si sarebbe trasformato in Mergulinus e poi in Mergoglino. Come esempio di etimologie fantasiose, ma indubbiamente poetiche, è da citare ciò che as-serisce il Summonte: così detta dal vezzoso sommergere delli pesci. (3) Spiegazione che seduce anche il canonico Celano: vien chiamata Mergellina dal continuo guizzar dei pesci su i onde, che poi si sommergono (4). E infine il De Lauzières (nella Guida nobile, I - 83) propone Mergellina da margo, margellus (margine). La Riviera di Chiaia sin dal 1500 terminava poco oltre la Torretta nella strada di Mergellina che si svolgeva lungo la costa; l’amena

Pianta di Napoli con veduta di Mergellina del 1653, di Bastiaen Stopendaal

La canzone costituisce, come si sa, una parte cospicua del patri-monio avito di Napoli. Una bella discesa alberata con-duce dalla chiesa di Piedigrot-ta alla piazza Sannazzaro e da questa, lasciando sulla destra la “fontana del leone”, si giunge rapidamente a Mergellina, oggi molto diversa purtroppo da quella che seguiamo nostalgi-camente attraverso i quadri e le stampe della scuola di Posillipo. Nel secolo XIII Mergellina era chiamata Mirlinum: denomi-nazione attribuita ad una torre che stava sulla riva del mare e dalla quale un anonimo croni-sta quattrocentesco vuole che avesse inizio la fuga di Vannclla Gaetani di Traietto. (2) Comunque è certo che nel pe-riodo aragonese questa par-te del borgo di Chiaia veniva chiamata Mergoglino. Secondo il Martorelli il significato del nome sarebbe quello di sito molto gradito agli smergi, men-

1) G. Dona - Napoli e dintorni - ESI - Napoli 1966

2)V. Gleijeses - Il borgo di Chiaia - ESI, Bari 1970

3) G. Dona - Le strade di Napoli - Ed. R. Ricciardi - Napoli 1943 - pag. 316.4) Ivi-pag. 318

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insenatura, celebrata dai poeti, è nota per la dimora che vi ebbe Jacopo Sannazzaro. Dal Castel dell’Ovo a Mergellina, la costa fuori le mura allineava nella seconda metà del ‘500 tre torri diverse: quella del palazzo Alar-con de Mendora, la torretta e la terza del poeta (5). Mergellina era dunque, in quel tempo, una zona rustica e pri-mitiva, popolata da poche case di pescatori, presso la spiaggia,

6) G. Pane - op. cit. p. 192

Pianta di E. Giraud - La città dalla aparte di Chiaiacon veduta di Mergellina e chiesa di Piedigrotta, sec. XVII

Mappa di G. Carafa - Topografia della città di Napoli e veduta di Mergellina - sec. XVII

5) G. Pane - Napoli seicentesca nella veduta di A. Baratta in Napoli nobilis-sima - 9 - fase. 4/6 - 1970.

e di contadini sulle pendici del colle. Per circa tre secoli, la piccola ap-pendice del borgo di Chiaia non subì sostanziali trasformazioni; anche se ai primi del Seicento Giovanni Simone Moccia ave-va abbellito il luogo con statue e giardini, “con tanta vaghezza che suole nell’està essere stanza dei signori viceré del regno” (6). Tuttavia, nonostante la costa di Posillipo non fosse servita da strada, ma da sentieri in discesa dal crinale di Villanova o dagli

approdi costieri, già nel 1775 la pianta Carafa documenta nu-merosi “Casini” in questo luogo a Mergellina “strada fatta dal caratterizzarlo in maniera assai precisa. Ne abbiamo testimo-nianza, più che in una vecchia fotografia della vicina piazzetta del Leone, in una litografia da-tabile a questi anni, relativa al Palazzo Reale in Posillipo; inol-tre, come ci informa il Catalani, gli antichi casini di Mergellina vennero, all’inizio del secolo scorso, sostituiti dal palazzo che edificò Domenico Barbaja, il fa-

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moso impresario teatrale, con suo stravagante disegno e “sen-za alcun fiore architettonico”. F. Alvino (Il regno di Napoli e Sicilia descritto ecc... p. 50) così illustra la zona: “oggi si chiama ancora la casa del re ed appartiene alla fami-glia Bolso. Le più belle, case di Mergellina sono le seguenti: di Saponara, al principio della strada, dopo la quale v’erano innumerevoli abitazioni di soli pescatori, ma oggi accomodate a graziose case da Correale. La casa dei Rossi, quella di Raffa-elli (abitata dal sig. Achille Wi-annelly), l’altra di Buono, e la celebre di Caracciolo pel dattilo annosissimo che vegeta nel suo giardino; la casa di Caposse-lo....; in seguito è posta la casa dei signori Vacca. Le due case di Ferraja e Barbaja vicino alla Ca-

sina del re con bei giardini alle spalle e l’ultima tiene fra l’altro graziose grotte con teatro e gal-lerie alla pompeiana, ove talvol-ta si davano bellissime feste; in-

fine l’ultima casa di Mergellina è quella di Marra” (G. Pane - op. cit. p. 229)

Angela D’Ercole Mario Parlato

‘O Surecillo Zi! Zi!....Zi! Zi!.

Vurriemurì,m’a ditt’o surecillo;ma che schifezzachella scorza ‘e casoe chili’addòre funesto‘e bruciaticcio!No! nun me a pigliaca scorza e a tradimento.Io songo delicato di palato,coi dentini piccolie gentiliFammi truvàvicino a trappulellanupoco ‘e pruvolone,chellu ddoce e....

grazie tantedell’ospitalità!...e.... scusamiper qualche panneciellorusucato!Dimane ca me truovedint’a trappulella,mìneme nu vasillo, avvolgemi dinto‘a carta bianca,e dammi l’onorata sepolturasotto terra.Nun me fa truvà!No!...a chillo gattone brutto,brutto.... e nniro.

Umberto Patalano

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Capitolo I

Avvenimenti politiciL’Insula Major base di appoggio e di rifornimenti

per le flotte gotica e bizantina

Quasi contemporaneamente alla seconda fase della produzione della cera-mica sigillata D/2, nelle officine dell’Isola d’Ischia compaiono manufatti di terracotta grigia dipinta. Probabilmente con questa nuova tecnica decorativa si cerca di supplire l’ingobbiatura a colori di età romana o le vernici rosse lu-centi della sigillata africana. Le cause determinanti di questo capovolgimento di nuova tecnica credo che vadano ricercate negli avvenimenti politici che si abbattono sull’Africa del Nord e sull’Italia, i quali fanno interrompere le relazioni commerciali tra i centri produttivi più importanti del Mediterraneo. Innanzitutto con l’occupazione dell’Africa da parte dei Vandali (429) e della Sicilia tra il 467 e il 477 i rapporti commerciali con l’Italia si assottigliano. (i) La caduta dell’Impero d’Occidente (476) ed il susseguirsi delle invasioni bar-bariche in Italia ostacolano i contatti tradizionali tra il Nord e il Sud. Inoltre l’occupazione di Napoli, fatta saccheggiare da Belisario con tanta violenza che non vi restò traccia di popolazione; le guerre gotico-bizantine in Campania: Totila assedia Napoli da terra e da mare (542); la città partenopea diventa base bizantina, poi viene ripresa da Totila e soltanto a seguito del suo ritiro (568) ritorna in possesso di Bisanzio. Nasce il Ducato napoletano, tra il 5 ottobre 660 ed il 31 agosto 661, ad opera di Costante II che “ordinò” duca il napoletano Basilio; la popolazione della Campania s’avvia verso un “nuovo corso”; Napoli, dotata di cinta muraria, di flotta e di monetazione propria, diventa la base navale bizantina più impor-tante del Mezzogiorno. (3)

Sullo sfondo di queste tensioni politiche e commerciali, l’Insula Major, piaz-zata all’ingresso del golfo partenopeo, non restava soltanto a guardare. Pur nell’assenza di fonti scritte è possibile collegare qualche nodo storico tra la città di Napoli e l’isola d’Ischia, che era stata già accaparrata per la feracità del suolo, per i giacimenti argilliferi e come terra di rifugio durante gli assedi. (4)

1) Vittore Di Vita - Storia della persecuzione vandalica in Africa - Città Nuova Editrice, Roma 1981, pp. 34-35. Non è azzardata l’ipotesi che artigiani africani siano scappati e, sbarcati a Napoli ed a Ischia, abbiano dato maggiore vigore alle fabbriche di terrecotte della Campania.2) Procopio - De Bello Cothorum I, 8 pp. 55/56 Camp. Nell’attesa che venisse raggiun-to dall’esercito, accampatosi nei sobborghi, Belisario ancorò la flotta, proveniente dalla Sicilia, nel golfo di Neapolis, da marzo ad aprile. Nell’indifferenza generale per i domi-natori, fossero Goti o Greci, è facile immaginare la popolazione dell’Insula Major che, presa dall’interesse di immediate speculazioni, offrisse appoggio e rifornimenti alle navi assediami.3) Landolfo Sagace - Hist. Rom. XVIII, 15; A. Crivellucci - Fonti, II - Roma 1912, p. 45.4) Ricordiamo che, escluso Paolo Diacono, non v’è alcuna testimonianza scritta sull’Italia di allora; la nostra unica fonte è costituita dal materiale archeologico.

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Il primo aggancio-stori co ci riporta al tempo del lungo ed avventuroso assedio di Belisario (536), il quale, per ripopolare Napoli saccheggiata, fu costretto a far venire uomini e donne “per diversas villas neapolitanae civitatis”. Lo spopolamento in verità fu dovuto più ad un esodo che a stragi, per cui è facile scorgervi il rifugiarsi di profughi sull’Insula Major. Un secondo aggancio storico scaturisce dai diritti terrieri che i nobili napoletani e la chiesa esercitano sull’isola d’Ischia (5). Da una lettera di Gregorio Magno apprendiamo che l’anno 598 “cives et seniores neapoli-tanorum” detengono sulle due isole, “de insulis”, “privilegia” economici e sociali non indifferenti (6). Come pure la Chiesa romana, accumulando nell’Italia proprietà terriere, a mezzo di donazioni pie, possedeva anche sull’Insula major la “terra episcopatui s. sedis”. E non credo che detti “privilegia” si estendessero al solo paesaggio, costituito dei profitti de-gli orti, dei frutteti, delle vigne, dei castagneti, del taglio boschivo, della “piscagione” e che si lasciassero sfuggire quella crescente prosperità de-rivante dalle attività del “corpus figulorum” e del “corpus fabrorum-fer-rariorum” impiantate nel centro industriale di Lacco Ameno: industrie che le ricerche archeologiche di questi ultimi anni hanno messo alla luce.

5) G. Magno - epist. citata più volte.6) C. Wickham - L’Italia nel primo Medioevo - Jaca Book, Milano 1983, cap. I “L’e-redità di Roma” p. 30. Il potere delle città italiane era nelle mani dei consigli citta-dini che avrebbero avuto nel vescovo il loro rappresentante. A Napoli, al secolo VII, i vescovi ebbero come loro rivali i nobili locali, il cui ruolo ufficiale era di rappresen-tanti del governo centrale.

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Le informazioni ed i materiali rinvenuti nell’esplorazione archeolo-gica sono stati così ricchi ed interessanti da accertare un impianto non solo di fabbriche di terrecotte ma anche di un’officina metallur-gica. Questa attività artigianale locale, oltre all’ambiente, all’insedia-mento altomedievale ed ai manufatti, è attestata dai numerosi rifiuti di fornaci e dalle scorie di ferro (7). E, data la portata dei materiali, si è potuto dedurre che gli artigiani insulani non si ridussero a pro-durre il minimo indispensabile per la loro comunità e per la minu-ta popolazione dei villaggi dell’Isola, ma dovettero esportare anche a Napoli. E, soprattutto durante gli assedi dei tragici eventi appena elencati, le flotte gotica e bizantina, avendo l’Insula Major a base di appoggio e di rifornimenti, si servivano indubbiamente di gran par te della produzione di stoviglie locali. Un attento studio di confronto dei materiali alto medievali, visti in un contesto geografico più vasto, potrà dare ragione sia allo sviluppo della nuova tecnica artigianale, impiantata sull’isola d’Ischia, sia al suo influsso sui mercati della Campania e del meridione d’Italia.

7) Lacco Ameno, Musco Archeologico S. Restituta, sala dei materiali archeolo-gici altomedievali.

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Capitolo II

Evoluzione della ceramica bizantina dipinta ischitana (1)

Le terrecotte dipinte di produzione ischitana, provenienti dal centro in-dustriale localizzato nei pressi del Santuario di S. Restituta in Lacco Ame-no, in netto proseguimento con fabbriche di età romana, vanno studiate in rapporto alla stratificazione delle aree archeologiche, all’esame dell’argilla locale, alla lavorazione e manipolazione dei vasi, all’impiego di stecche, di pezze, di pettini, di pennelli, di coloranti e di inclusi nell’impasto dell’ar-gilla. Siamo in un periodo di lavorazione in cui i centri dell’Italia Meridiona-le, essendosi isolati, producono materiali per uso proprio e non per largo commercio. Cessano le ingobbiature a colori eseguite per immersioni nel liquido colo-rante di età romana; compaiono le decorazioni “a larghe linee”, condotte a semicerchi, ad ovoli, a macchie, con il pennello sull’esterno del vaso crudo, appena asciugato. Cessano le decorazioni a rotella di ogni tipo, i motivi applicati ed impressi, e subentrano quelle a fasce rettilinee, ondulate, intrecciate, alternate, pro-dotte generalmente sulla spalla del vaso, a mezzo di pettini o di forchette. Anche se non molto frequente, rimane l’ingobbiatura giallina, stesa sull’e-sterno del corpo a mezzo di pennello.Si tratta di una produttività più o meno lunga e sempre più scadente, la quale sembra che subisca gli effetti degli eventi storici narrati per cui non sfugge dall’essere esaminata e distinta anche nella luce di alcuni periodi storici.

(l) Da questo capitolo in poi la Ceramica bizantina dipinta sarà menzionata con l’abbreviazione CBD.

Lacco Ameno - Museo “Santa Restituta”Frammenti della CBD ischitana

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Primo periodo La ceramica bizantina dipinta compare a seguito dell’invasione vandali-ca in Africa del Nord e in Sicilia e durante le guerre gotico-bizantine (429-565) e reca i segni della ceramica sigillata D/2.

Secondo periodo Predomina sui mercati dell’Impero Bizantino nell’Italia Meridionale e specialmente al tempo di papa Gregorio Magno che istituisce in Campa-nia i patrimonia terrieri della Chiesa Romana (565-606).

Terzo periodo Con la nascita del Ducato Napoletano (662) le fabbriche di Napoli comin-ciano a prevalere sui centri viciniori.

Quarto periodo Questa produttività, con l’accentuarsi delle incursioni arabesche, dopo essersi molto impoverita, si spegne almeno sull’Isola d’Ischia, dove le in-dustrie cessano dal produrre, probabilmente a seguito dell’occupazione dei Mauri (812). L’area sacra di S. Restituta e quella industriale vengono abbandonate; i sopravvissuti lasciano le marine e si rifugiano sulle alture.

Il presente studio cerca di presentare l’evoluzione delle forme della ce-ramica altomedievale, rinvenuta sull’isola di Ischia, senza sfuggire i mo-menti storici, lungo un arco di tempo che va dalla fine del V alla fine del-l’VIII sec. d. C. Le ceramiche vengono suddivise seguendo lo schema tradizionale: A - B/l B/2 -C/1 C/2 - D/l D/2.

I vasi e i frammenti di ceramica altomedievale con inclusi vitrei e calcarei possono considerarsi di produzione non ischitana. I momenti pertinenti alla vita familiare, alla tavola, alla cucina, all’agri-coltura, alla pesca, alla molinaria, alla tessitura, alla produzione vasaria, alla sepoltura, saranno evidenziati durante la presentazione delle singole forme e degli strumenti di lavoro. Voltarsi a guardare indietro può indurci a considerare il tempo andato nell’appiattimento, mentre quello fu un pe-riodo costituito dal volgere delle stagioni e delle ore, di giorno e di notte, nel lavoro quotidiano, vasto, nella sua semplicità.

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Capitolo III

Identificazione delle aree altomedievali dell’Isola d’Ischia

Le fitte tenebre che gravavano su quasi tutta la storia altomedievale della nostra isola, dovute alla aridità delle fonti antiche e alla posizione geo-grafica, isolata nel mare, sfiorata appena dal flusso delle invasioni barba-riche, sembrano diradarsi alla luce delle nostre indagini archeologiche, condotte in alcune aree dei comuni dell’isola: Lacco Ameno, Forio, Serra-ra Fontana, Barano, Ischia. Una esposizione di materiali altomedievali, provenienti da alcune zone dell’isola d’Ischia, si trova allestita in una sala del Santuario di S. Resti-tuta, dove, in occasione del XVII centenario dell’arrivo di S. Restituta, si svolse il primo colloquio di studi altomedievali: La tradizione storica e archeologica in età tardo-romana e medievale: i materiali, l’ambiente (7-8 maggio 1984). (i)

1 )La tradizione storica e archeologica in età tardo-antica e medievale: i materiali e l’ambiente - A cura del Centro Studi su l’isola d’Ischia - Tip. A. Cortese, Napoli 1989.

LACCO AMENO L’area più ricca di materiali altomedievali è quella concentrata intorno al Santuario di S. Restituta in Lacco Ameno.

Un angolo dell’area cimiteriale paleocristiana, antistante la basilica, con tombe a enckitrismos e a cassa - Lacco Ameno - Scavi di S. Restituta

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Dalla pianta di Lacco Ameno risalta come questa località fu prescelta prima dai coloni della Calcide e di Eretria che vi impiantarono la nuova città di Pi-thekoussai, poi dai Romani che, insediatisi ai piedi di Monte di Vico, costrui-rono villette sulle colline circostanti e perfino sulla spiaggia di San Montano; e continuò ad essere occupata per tutto l’Alto Medioevo. Le ceramiche caratterizzate da diverse e specifiche produzioni, i resti di abi-tazioni, di figuline, di fornaci, le necropoli, i diversi tipi di sepoltura hanno permesso l’esatta distinzione delle sovrapposte civiltà: greca, romana, altome-dievale.

A - La prima area comprende la basilica paleocristiana, la sala del Battistero, il cimitero e resti di abitazioni sovrapposte a quelle romane. Le prime sepol-ture cristiane sono state effettuate dapprima fuori l’ambiente sacro, più tardi anche sotto il pavimento della basilica. Del cimitero vengono presentate, per la sovrapposizione delle tombe, due-piante, disegnate alla scala 1:100. La prima

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(strato superiore) comprende tombe terragne, a cassa (inizi VI-VIE sec); la seconda (strato inferiore) tombe a cappuccina e a enckitrismòs (IV-V seco-lo); vengono riportati, ad un livello più basso, anche otto sepolcri insigni, pagani (a cassa di marmo, tettoia e cumulo (II sec. d. C).

La misurazione delle quote è stata effettuata con un sistema pratico e preci-so, di sotto il livello del solaio, in tal modo tutte le tombe hanno avuto la loro quota sulla pianta. Sovrapponendo le due piante elografiche si può avere una visione immediata della sovrapposizione delle tombe.

Cosa che si può ancora verificare lungo le pareti dello scavo, dove le tombe, in massima parte, restano ancora in situ.I tipi delle deposizioni sono i seguenti:1) inumazioni a cappuccina per adulti e bambini;2) inumazioni in anfore, oi enckitrismòi, per bambini;

Sepolcro a cappuccina, con lucerna rossa, recante l’immagine del grappolo d’uvaLacco Ameno, cimitero cristiano antistante la chiesa di S. Restituta

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3) inumazioni a cassa con utilizzo di soli tegoli e malta;4) inumazioni a cassa con utilizzo di pietre e malta e copertura in tegole;5) inumazioni a cassa con utilizzo di soli lastroni tufacei di riporto; 6) inumazioni in fosso o pozzo comune, rivestito a muro a secco, coperto con lastroni di tufo. Sulla base di queste forme tombali è stato possibile enucleare cinque fasi o momenti cronologici.La prima, riferibile ai due primi tipi di sepoltura, tra il IV e fine del V secolo. La seconda, riferibile al terzo e quarto tipo di sepoltura, che segna più direttamente un’azione di trapasso verso una tomba più comoda, cronolo-gicamente va tra il VI e fine del VII secolo.La terza fase, riferibile al quinto tipo di sepoltura, non va oltre il IX secolo. La quarta fase, riferibile al sesto tipo di sepoltura, e cioè a poveri sepolcri rabberciati alla men peggio tra le rovine del complesso sacro distrutto, è databile tra il IX e la fine del Mille. La quinta fase, rappresentata dal tipico pozzo comune e cioè dal sesto tipo di sepoltura, va dal Mille in poi, ad eccezione delle tombe singole riservate per le persone eminenti.

(1 - Continua)

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