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di Massimo Ielasi

Lisa vive nel centro storico di Lucerna, quest’oggi piacevol-mente caotica per il Carnevale e luminosa per il sole improv-visamente apparso dopo una fitta nevicata; abita una piccola mansarda ove la trovo in com-pagnia della figlia Barbara, bra-vissima fumettista, e dell’amica Caterina che ha pazientemente raccolto e catalogato le foto del-la Meyerlist. L’artista è una don-na di gran fascino appassionata di musica, d’arte e della vita mondana; è ricca di humour, testarda, dolce e vitale tanto da andare ancora nel Bistrobar di Lucerna a far baldoria con gli amici. Un velo di malinconia traspa-re dai suoi occhi... forse è la nostalgia dei viaggi intorno al mondo per i suoi reportages, tra cui quelli su von Karajan e sulla principessa Sirikit, o, for-se, guardando le sue belle foto, per la tensione identificativa, propria dei veri artisti, risolta dalla Meyerlist con la ricerca umanistica attraverso il mezzo fotografico. “Lisa” inizio un dialogo che è soprattutto un piacevole “amar-cord” della fotografa, “quando sei venuta per la prima volta ad Ischia?” E lei dopo un profon-do sospiro: ‘Tra il ‘58 ed il ‘59,

Fotografaad Ischiasul finiredegli ann ‘50

non ricordo bene; venni a Forio con i miei due figli. Barbara e Tommaso, ed un amico. Ave-vo da poco divorziato... un’a-mica scrittrice ci aveva parlato in modo entusiastico d’Ischia come di un luogo incantevole paesaggisticamente ed acco-gliente, sia per la mitezza del clima che per la cordialità dei suoi abitanti; quando arrivai mi resi conto che era un piccolo paradiso terrestre ove il tempo sembrava essersi fermato, tan-to da rendere inutile l’orologio; venni per trascorrervi un mese, vi restai un anno. Fittai delle camere nel centro del paese, co-nobbi subito nuovi amici, molti dei quali “dotati d’arte”. Quotidianamente c’incontra-vamo al Bar Internazionale di Maria e Gisella per consumare l’aperitivo. Maria era una donna meravigliosa nella sua “non bel-tà”, intelligenza, furbizia, non-ché nel suo eclettismo e nella sua generosità, soprattutto con gli artisti, che spesso le regala-vano le loro opere, per lo più quadri, che ella, orgogliosamen-te, esponeva nel suo bar. Lei e Gisella erano sagge e discrete e tutti si confidavano e consiglia-vano con loro”. “Come vivevi a Forio?” interrompo i suoi ricor-di per un attimo - “All’inizio fa-cevo di tutto, perché i soldi era-no pochi; ricordo che compravo

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Lisa Meyerlist - Allegra vendemmia

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pezzi di stoffa che decoravo, cucivo e vendevo alla boutique Marù, oppure fabbricavo colla-ne, bracciali ed altra originalissima bigiotteria con i materiali più vari. Un giorno Maria mi chiese di fotografare nel suo bar la principessa Fakhrinissa, che dipingeva sassi raccolti sulla spiaggia di S. Francesco, ed un ricco econo-mista americano, di cui non ricordo il nome; ne fui felicissima e così iniziai a fotografare quell’universo umano che gravitava in quel periodo a Forio intorno al Bar Internazionale. Fotografai pittori come Bargheer, Pagliacci, Lelo Fiaux, Matta, Bolivar, Peperone, il Prin-cipe Enrico d’Assia ed i coniugi Russo, pittri-ce lei, letterato lui, il poeta W. H. Auden con Chester Kallman, attori come Anna Magnani e Jean Marais, ma anche personaggi del luogo dediti all’agricoltura o nel contesto di feste re-ligiose. Fu un periodo magico, mi sentivo libe-ra e felice, in un luogo semplice e sano, vitaliz-zato dalla presenza di personaggi di notevole statura umana e culturale”. “Fu difficile fotografare Auden?” le chiedo, mentre Barbara ci porta tè caldo e dolci fatti in casa. “Assolutamente no, conoscevo il mio me-stiere e lui era un vero gentleman, così come lo erano un po’ tutti... eravamo una grande fa-miglia. Ricordo, invece, che avevo difficoltà a stampare le foto perché usavo l’acqua del poz-zo nel cortile di casa che non era pulita, tanto che il padrone doveva renderla potabile con le anguille. Le impurità comparivano fatalmen-te sulle foto sotto forma di irritanti puntini, in particolare una foto di Bargheer ne risultò completamente ricoperta, ma al pittore piac-que a tal punto che la volle assolutamente, malgrado fosse mia intenzione distruggerla”. “Lisa” le chiedo infine, “tornerai ad Ischia?” “Non so, Ischia e soprattutto Forio sono cam-biate, troppi turisti, troppe auto, troppo chias-so, il paradiso forse non esiste più e con esso le suggestioni che un tempo attiravano persone di grande sensibilità”.…. forse no, cara Lisa, forse esistono ancora nelle tue fotografie, magari un po’ punteggiate ed ingiallite dal tempo.

Lucerna, 12 febbraio 1994

L. M. -Maria Senese con l’attore Zakarias Scot

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di Pietro Paolo Zivelli

Michele Longobardo sfoglia le pagine del corposo album fo-tografico ed è preziosa, sempre puntuale la sua memoria stori-ca, solleticata da esclamazioni colorite, vivacizzata da curiosi-

Un delicato e tenero amarcordtà aneddotiche quando ricorda i personaggi ritratti, catturati dall’obiettivo di Lisa Meyerlist. Le foto, canonicamente in bianco e nero, sono per me tes-sere di un delicato quanto tene-ro amarcord. Scorrono datate in una moviola i sentimenti e

Lisa Meyerlist

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non è retorico autorizzare ne-gli occhi e nell’intimo, un dolce quanto inconfondibile refolo di smagata nostalgia; consapevole, oggi, di aver perso un qualcosa, legato ad un’età più giovane, certamente non solo per questo, più bello; fascinoso l’input, la provocazione nella rivisitazio-ne per ritratti, photos d’auteur, quelli di Lisa Meyerlist. Cara e presente la rivivenza che ti viene offerta dai conversari con Michele e Massimo inanel-lati a ritroso con questi patinati momenti fotografici, “polve-re di stelle”, frammenti che mi straniano, mi portano quindi a riconsiderare ora, certo con giustificata partigianeria, che era meglio quel peggio e peggio questo meglio. Un annoso album di famiglia (come non considerarlo tale!) con tante storie che si intreccia-no in quella irripetibile atmo-sfera, ricca di favorevoli con-giunzioni astrali che portò sulla

nostra isola, ma soprattutto a Forio, tanti grossi personaggi del mondo dell’arte, della let-teratura, dello spettacolo, della scienza, della politica e dello sport.Ma fu poi caso che in tanti sce-gliessero Forio e l’isola d’Ischia in quegli anni ’50 e ’60.Forio era allora il crocevia ob-bligatorio per itinerari esclusi-vi, quando la sensibilità, quella autentica, dell’animo “ditta” dentro con forza, nella perento-rietà del doverci essere, per non mancare ad un appuntamento importante, da testimoni o da protagonisti.E non fatichi a riconoscere in questi ritratti persone che han-no caratterizzato profondamen-te la vita di quegli anni, volti fa-miliari sia per l’assidua frequen-tazione che per la notorietà che già li accompagnava.E, come per lei, demiurgo fascinoso, con la cornice del suo Bar Internazionale: Maria,

regina zingaresca, che tutti ac-coglieva nel sorriso millerughe, craccato il volto melanino da un sole saraceno; sguardo viva-ce, penetrante nei piccoli occhi scuri, ubiqui sbalzavano dalla frangia di capelli a scopetta, ta-glio Zibacchiello, accuratamen-te rinverditi nel colore che la ci-vetteria voleva più giovane degli anni vissuti. Da Maria, il profumo della pri-mavera nei grappoli fioriti del glicine, i basoli bagnati dall’u-more serotino, l’inebriante sa-pore del legno stagionato del portale, patinato di fresco nel colore deciso del verde imperia-le: da Maria e tutta quella gente che parlava, rideva, si intratte-neva, si corteggiava, si amava, si odiava, si sopportava, si ammi-rava, soprattutto viveva, seduta all’ombra di Maria.

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Un’artista francese del ‘700 nelle isole di Ischia e Procida e nei Campi Flegrei

Louise-Élisabeth Vigée-Lebrun

di Sergio Zazzera

L’estate del 1790, la giovane pittrice francese Louise-Élisabeth Vigée-Lebrun (Parigi 1755-1842)1 effettua un’escursione ai Campi Flegrei, della quale annota la seguente descrizione nei suoi Souve-nirs:

- “Andai a vedere, con M. Amaury Duval e M. Sacaut, la Solfa-tara, che è ancora attiva. Era il mese di giugno, cosicché il sole picchiava sulla nostra testa, mentre camminavamo su del fuoco. Nella mia vita non ho mai sofferto così il caldo. Per colmo della sventura, avevo mia figlia con me; la coprivo con la mia veste, ma questo aiuto era tanto tenue, che temevo ogni momento di veder-la cadere priva di conoscenza. Ella mi disse più volte: “Mamma, di caldo si può morire, è vero?” Allora, Dio sa se ero disperata di averla portata. Alla fine, notammo sull’altura una sorta di capan-na, nella quale ci fu consentito, grazie al cielo, di riposarci. Il cal-do ci aveva talmente soffocati, che nessuno di noi poteva agire né parlare. In capo ad un quarto d’ora, M. Duval si ricordò di avere un’arancia in tasca, il che ci fece lanciare un grido di gioia; perché quest’arancia era la manna nel deserto.

Quando ci fummo completamente ripresi, scendemmo a Pozzuo-li. Era domenica, gli abitanti erano vestiti a festa; ricordo ancora un giovane, dai capelli ricci e tanto impolverati, che la sua enorme parrucca aveva imbiancato il suo abito di taffetà blu-cielo; la sua giacca era di un color rosa pallido; portava un grosso mazzo di fiori all’occhiello; in una parola, era proprio il bel Leandro della parata francese e aveva un’aria tanto importante, così contento di sé, che mi fece ridere tanto.

Traversammo tutta la città per andare a pranzo in riva al mare, dove ci furono serviti dei pesci eccellenti. L’anfiteatro di Pozzuoli, benché in rovina, è ancora molto strano da vedere. Vi rimangono alcuni gradini situati di fronte al mare, davanti a grandi rocce cave e si pretende che proprio in questi antri gli attori antichi re-citassero le tragedie con maschere caratteristiche ed amplificatori di voce. Dopo pranzo, prendemmo una barca che ci condusse al promontorio di Miseno. Là, calpestavamo i frammenti di marmo più preziosi; poiché Miseno è stata distrutta da cima a fondo dai Longobardi e dai Saraceni: non vi rimane che il grande ricordo di Plinio.

Quanti luoghi di delizie non sono più ora che luoghi di morte! Baia! così rinomata presso i Romani che vi venivano per le cure

Escursioneai Campi Flegrei

1 Hautecoeur L. – Madame Vighée-Lebrun (Paris s.d.), 6, 124.

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termali, Baia non è più che un ammasso di rovine informi su cui gra-vita un’aria insalubre; anche la riva di questo mare è deserta. Si ve-dono ancora a Baia i resti di tre templi: di Venere, di Mercurio e di Diana, i cui basamenti le acque del lago d’Averno oggi coprono. Ma non rimangono affatto vestigia di questi palazzi magnifici, di queste belle terrazze: il mare ha inghiottito tutto» (2) -

Ritrattista ufficiale di Corte, M.me Vigée; che aveva appreso l’arte di dipingere dal padre, accademico di S. Luca, era giunta in Italia l’autun-no precedente, ufficialmente per una vacanza (3); si può fondatamente presumere, però, che ella avesse lasciato la sua patria per sottrarsi alla violenza della rivoluzione in atto (4), considerati i molteplici, quanto compromettenti, legami derivanti dai suoi rapporti con la famiglia re-ale e con la nobiltà della capitale.

Non v’è dubbio che l’artista fosse stata spinta a visitare la terraferma flegrea dalla visione avutane, alcuni giorni prima, dalla terrazza del ca-stello aragonese di Procida, dove aveva effettuato un’escursione, della quale i suoi Souvenirs conservano il seguente resoconto:

- «Partimmo alle cinque del mattino. Ero a bordo di una feluca insie-me con M.me Hart, sua madre, il cavaliere ed alcuni sonatori. Faceva il più bel tempo del mondo; il mare era calmo al punto di somigliare ad un grande lago. A poca distanza, si vedeva il costone del promon-torio di Posillipo, che il sole rischiarava in maniera incantevole. Tutto ciò mi avrebbe indotto a sognare dolcemente, se i rematori non aves-sero gridato tutti insieme, il che impediva di seguire un’idea.

Alle nove e mezzo giungemmo a Procida, e facemmo subito una pas-seggiata durante la quale fu colpita dalla bellezza delle donne che in-contrammo sul nostro cammino.

Quasi tutte erano grandi e forti, e i loro costumi, così come i loro volti, richiamavano le donne greche. Vidi poche case gradevoli, es-sendo l’isola generalmente coltivata a vigneti ed alberi da frutta. A mezzogiorno andammo a pranzo dal governatore; dalla terrazza del suo castello si scopre il capo Miseno, l’Acheronte, i Campi Elisi, in una parola, tutto ciò che Virgilio descrive; questi diversi obiettivi sono ab-bastanza ravvicinati perché se ne possano distinguere i particolari, e il Vesuvio si vede in lontananza» (5). -

Da Procida, la giovane pittrice si era recata anche ad Ischia, come ella stessa narra:

- «Dopo pranzo, risalimmo sulla feluca per andare a sbarcare ad Ischia verso le sei della sera. Uno dei più graziosi effetti che ho visto arrivandovi, era quello di una quantità di case costruite qui e là sui monti, e molto illuminate, il che le presentava allo sguardo come un secondo firmamento. Andai a raggiungere M.me Silva, la mia ama-

2 Vigée-Lebrun L. -É., Souvenirs 2 (Paris 1835) 130 ss. (trad. nostra). Sono state pubbli-cate, di recente, due sillogi in versione italiana: Memorie di una ritrattista (Milano, 1990) e Ricordi dall’Italia (Palermo 1990).3 Hautecoeur L., o. c., 6 ss.; 23 s.; 71.4 Cifr., del resto, Hautecoeur L., o. c, 70 s.; S(chneider) A. R., s. v. Vigée-Lebrun Élisa-beth, in Encicl. Ital. 35 (Roma 1949) 337. Sui fatti di Francia, cfr. da ultimo ed in breve Bluche F. - Rials S. - Tulard J., La rivoluzione francese (tr. it., Roma 1994) 9 ss. In realtà, gli effetti di quegli avvenimenti cominciavano già a ripercuotersi nel Regno di Napoli: cfr. Cuomo V., La Repubblica Partenopea (Napoli 1992) 13.5 Vigée-Lebrun L.-É., o. c., 111 (trad. nostra).

Escursionea Procida

Escursionea Ischia e al monteS, Nicola

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Orribinuvole nere

bile portoghese, per percorrere con lei una parte dell’isola, che è affascinante; tutto il suo territorio è vulcanico, ha quindici leghe di estensione, e dappertutto si trovano tracce di focolari spenti. La maggior parte delle montagne, che sono in grandissimo numero e molto vicine le une alle altre, è coltivata. Il monte più alto (San Nicola) è più alto del Vesuvio.

Trovammo ad Ischia una società molto amabile, fra gli altri il generale baro-ne Salis; e l’indomani mattina alle sei, partimmo nel numero di venti persone, tutte montate su asini, per andare a pranzo al monte San Nicola. Non ci si può fare un’idea delle strade che occorse prendere; i sentieri erano burroni profondi pieni di enormi pietre annerite dal fuoco; e le alture di questi burroni essendo coltivate, questa terra fertile, accanto a questa terra desolata, offriva uno strano contrasto. Seguimmo fra le altre una strada a picco riempita di lave grandi come case, che rassomigliava assolutamente alla strada dell’inferno, e questo superbo orrido ci condusse in un luogo di delizie, sotto un pergolato di viti perfettamente coltivate, e presso una bellissima foresta di castagni. Là scorsi una sola piccola abitazione, che la guida mi disse essere quella di un eremita. L’eremita era as-sente; mi sedetti sul suo banco e scoprii attraverso un’apertura della foresta il mare e le isole Sirene, che la bruma del mattino contornava di un tono bluastro. Credevo di fare un sogno incantatore; mi dicevo: la poesia è nata là! Bisognò strapparmi alla mia piacevole contemplazione, ci restava ancora da salire ben altrimenti.

Giungemmo in una specie di deserto, contornato di burroni così profondi, che non osavo gettarvi il mio sguardo e il mio maledetto asino si ostinava a cammi-nare sempre sul bordo. Non potendo guardare in basso, mi metto a guardare in alto e vedo la montagna che dovevamo salire, tutta coperta di orribili nuvole nere. Purtuttavia bisognava attraversarla, col rischio di essere soffocati cento volte: si badi ancora che la strada era a picco sul mare e che non vi si trovava una sola abitazione. Il cuore mi batte ancora quando ci penso. Continuai, tut-tavia, non senza raccomandarmi l’anima a Dio. Impiegammo un’ora e mezzo, camminando sempre, ad attraversare quelle nuvole. L’umidità era tanto grande, che i nostri abiti erano inzuppati; non si vedeva a quattro piedi, al punto che finii per perdere la mia compagnia. Si può capire la paura che provavo, quando sen-tii il suono di una campanella; lanciai un grande grido di gioia, pensando bene che era quella dell’eremita in casa del quale dovevamo pranzare. Era lei, infatti, e mi si parò davanti.

Trovai tutta la mia compagnia riunita nell’eremo, che è situato sull’ultima cima delle rocce di monte San Nicola. Nondimeno in questo momento, la nebbia era così fitta, che era impossibile vedere alcunché; ma, quasi subito, le nuvole si dividono, la nebbia si dirada, e mi trovo sotto un cielo puro. Domino questi nu-voloni che mi avevano tanto terrorizzata, li vedo discendere nel mare che il sole segnava con una linea di opale e di altri colori dell’iride; alcune nuvole argentee abbellivano questo colpo d’occhio. Non si distinguevano le barche che dalle loro vele bianche che brillavano al sole. La nostra vista cadeva sui villaggi d’Ischia; ma questa massa di rocce schiacciava talmente con la sua superiorità tutto ciò che fa l’ambizione degli uomini, che i castelli, le case, somigliavano a piccoli punti bianchi; quanto agli individui, erano invisibili: che siamo, Dio mio!

Stavamo contemplando questo magnifico spettacolo, quando il generale Salis venne ad avvertirci che il pranzo era servito, notizia che non ci fu indifferente dopo tante fatiche e tribolazioni. Questo pranzo che ci dava, poteva paragonarsi a quello di Lucullo: tutto era ricercato, non mancava nulla, al punto che avemmo dei gelati per concludere. Bisognava vedere la meraviglia dei tre buoni religiosi che abitavano questa rupe e che profittarono di questo eccellente pasto; ne con-servarono i resti, del che sembravano contentissimi.

Dopo pranzo, M.me Silva ed io facemmo la nostra siesta all’aria aperta su dei

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sacchi d’orzo rovesciati, dove l’odore delle ginestre e di mille fiori ci profumava. Poi, ri-salimmo sui nostri asini per percorrere l’altro lato dell’isola. Là vedemmo innumerevoli orti, luoghi molto pittoreschi, e questa strada ci condusse alla nostra abitazione» (6).

Sicuramente, dunque, delle tre località visitate è proprio Ischia quella che suscita mag-giormente l’attenzione della giovane artista, affascinata, non soltanto dal paesaggio, bensì, essenzialmente, dalle testimonianze del fenomeno vulcanico, praticamente sconosciuto in terra di Francia; e il suo entusiasmo è tale, che le fa ritenere, addirittura, più alto del Ve-suvio (m 1277 s. m.) il monte San Nicola (m 787 s. m.) (7), che le si presenta sinistramente avvolto da quella bassa nube nera, che a Procida viene appellata, con espressione quanto mai pittoresca, “’a séccia re Sènto Nicola” (la seppia di San Nicola).

Quanto alla terraferma flegrea, viceversa, l’attenzione della Vigée sembra attratta, piut-tosto, dalla visione che, dalla terrazza del castello aragonese di Terra Murata, di gode dei Campi Flegrei, i cui luoghi vengono indicati - come per lo più avveniva nel ‘700 - con gli appellativi attribuiti ad essi dalla latinità classica (“Acheronte” per il lago d’Averno, “Cam-pi Elisi” per l’intera regione); e, in effetti, la visione diretta dei luoghi sembrerebbe avere smorzato, almeno inizialmente, il suo entusiasmo, visto c he in una lettera, indirizzata, nell’immediatezza, all’amica M.me du Barry, non si legge alcun accenno alla passeggiata procidana e all’ospitalità offertale dal governatore dell’isola, Paolo Antonelli (8), mentre ella si limita a dichiararsi “incantata” soltanto dal promontorio di Miseno e, viceversa, si diffonde, maggiormente, su altre località, come Pompei, Paestum e il Vesuvio (9).

A distanza di tempo, però, nella stesura dei suoi ricordi, ella si concede, come si è visto, una serie d’interessanti notazioni, soprattutto di costume, che mette conto analizzare, sia pure rapidamente.

Un primo dato che emerge dalla descrizione dei Campi Flegrei è quello che l’attenzione della giovane donna per l’ambiente è limitato alle “curiosità” che esso esprime. Della Sol-fatara - della quale ella si affretta a sottolineare l’attività - la colpisce, soprattutto, il caldo soffocante che, in piena estate, vi si sviluppa, al punto di destare in lei seria preoccupazio-ne per la salute della figlia Brunette, appena decenne (10); in proposito, anzi, è singolare il diverso atteggiamento che la Vigée assume, di fronte al vulcanismo di terraferma rispetto a quello che mantiene di fronte al vulcanismo ischitano: ma si tratta di una evidente ma-nifestazione di “femminilità”, che le fa temere le forze della natura, nel momento in cui si manifestano (11): non a caso, a Ischia, desta in lei timore la grossa nube nera che sovrasta il monte San Nicola. Nell’anfiteatro è attratta, particolarmente, dalle cavità della roccia, che avrebbero avuto - ella dice - la funzione di amplificare la voce degli attori (12). A Baia, infine, rimane incuriosita dall’acqua che sommerge i basamenti dei templi (che è quella del mare, ma che, con evidente errore geotopografico, ella attribuisce al pur sufficiente-mente distante lago d’Averno). In una parola, l’archeologia non risulta per lei meritevole di attenzione, se non per quanto di “strano” possa documentare dell’antichità, ovvero si-gnificare del presente (13). Ed è proprio per questo che, durante la visita a Procida, il suo

6 Vigée-Lebrun L. -É, o. c., 111 ss. (trad. nostra).7 Cfr. Touring Club Italiano, Guida d’Italia. Napoli e dintorni (Milano 1976) 389; 400.8 Giudice della Corte della Vicaria: cfr. Parascandolo M., Procida dalle origini ai tempi nostri (Procida r. s. d., ma 1976) 375.9 Nolhac P. de, Madame Vigée-Le Brun, peintre de Marie-Antoinette (Paris 1912) 166 ss.10 Hautecoeur L., o. c., 15 ss. Sulla ricorrenza del motivo delle lamentele per gli strapazzi durante le escursioni, v. Horn-Oncken A., Viaggiatori stranieri del XVI e XVII secolo nei Campi Flegrei, in Puteoli 6 (1982) 122.11 Non si dimentichi che l’ultima manifestazione eruttiva nell’isola d’Ischia rimonta al 1300-1303: cfr. D’Ambra N., Eruzioni e terremoti nell’isola d’Ischia (Forio 1981) 15. E, si badi, l’attenzione della giovane pittrice non è attratta, affatto, dalle tracce di attività vulcanica - meno vistose - che, presso-ché contemporaneamente, vengono osservate, a Procida, con occhio di scienziato, da Spallanzani L., Viaggi alle Due Sicilie e in alcune parti dell’Appennino 1 (Pavia 1792, ora in Opere 5.2 - Milano 1936 - 66 ss.).12 Ma v. infra, nt. 1913 D’altronde, anche nella visita che effettua a Paestum la Vigée manifesta un interesse meramente occasionale per l’archeologia: cfr. Nolhac P. de, o. c., 166.

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14 Sembra, dunque, assolutamente gratuito il riferimento a pretesi stimoli paesaggistici che alla Vigée attribuisce Rocco C., I campi Flegrei al tramonto del “Grand Tour”. I Ricordi dall’Italia di Élisabeth Vigée-Le Brun, in Proculus 5 (1992) 229.15 Si badi che la Vigée ebbe modo, a Napoli, di conoscere e ritrarre G. Paisiello: cfr. Nolhac P. de, o. c., 172; Hautecoeur L., o. c., 84.16 Un secolo e mezzo prima, il suo conterraneo J. - J. Bouchard aveva annotato osservazioni sull’abbigliamento della gente di Pozzuoli, decisamente più anodine (Bouchard J. - J., Journal - tr. it., Torino 1976-77 - e ciò, sicuramente, in sintonia con il suo spirito di “libertino”. Cfr. Di Bonito R., Uno spaccato sociale di Pozzuoli nel “journal” di un libertino francese del ‘600: Jean-Jacques Bouchard, in La Storia di Pozzuoli dalle origini all’età contemporanea, atti del convegno (Pozzuoli s. d. ma 1992) 97 s.17 Segretario dell’ambasciata francese a Napoli, come M. Sacaut: cfr. Vigée-Lebrun L. -É, o. c., 131 nt. 1.18 De la Chavanne C. -D. - Farjasse D. -D., L’Italie. Royaume de Naples (Paris 1835) 119; Bazzoni G. B., Da Napoli a Procida. Passeggiata (Milano 1845) 122 ss.19 Peraltro, incomprensibile, posto che, viceversa, è corretta la funzione di “amplificatori” della voce che la Vigée attribuisce alle maschere (lat. “persona” < “personare” = amplificare: cfr. Ange-lini G., Nuovo dizionario latino-italiano (Milano 1958) 1024, a.hh.vv.).20 Annecchino R., Storia di Pozzuoli e della zona flegrea (Pozzuoli 1960) 159 s.; Race G., Bacoli, Baia, Cuma, Miseno (Napoli 19887 29.21 Maiuri A., I Campi Flegrei (Roma s. d.) 72 ss.22 Che, peraltro, tale doveva essere, quanto meno, da un secolo e mezzo, stando alla testimo-nianza di Bouchard J. -J., o. c., 330 (ma, forse, da non più di tanto, stando ai documenti della R. C. della Sommaria citati da Papa L., Le attività marinare, in Cardone V. - Papa L., L’identità dei Campi Flegrei (Napoli 19937 194, e da Buccaro A., Strutture e funzioni dei porti flegrei fino al XIX secolo, ivi, 2007.23 Sono, pur sempre, “Souvenirs”, non già “Mémoires”, redatti in forma alquanto sintetica (al passato, il che è significativo di una stesura non coeva agli avvenimenti narrati7, senza troppo dif-fondersi in notizie e particolari, e vengono dati alle stampe soltanto sette anni prima della morte dell’autrice (v. supra, nt 1) a cura della Librairie de H. Fournier. E’ la tecnica che De Anna L. G., L’Italia dei Borboni e l’occhio del viaggiatore, in L’Alfiere, aprile 1994, 5, definisce del “dialogo con se stessi”.

interesse per l’elemento umano dell’isola prevale su quello per l’ambiente, che “curiosità” non offre: poche scarne parole, soltanto, sono riservate alle case e agli orti dell’isola (14).

Di maggiore considerazione, viceversa, ella mostra di ritenere meritevoli, in perfetta sin-tonia con la sua abilità di ritrattista, i personaggi, come i tre religiosi intenti, nell’eremo d’Ischia, a mettere in serbo gli avanzi del pranzo, e, soprattutto, il giovane popolano dall’ab-bigliamento decisamente... “casual”, il quale sembra quasi uscito da un’operina napoletana (15) e del quale ella delinea una caricatura che, per quanto gradevole, risulta, pur sempre, tracciata con lo sguardo rivolto dall’alto verso il basso, caratteristico di chi vive al seguito della nobiltà, fors’anche più della nobiltà stessa (16). Parimenti, bizzarra - per quanto invo-lontariamente - risulta l’immagine di M. Duval, suo compagno di escursione (17), il quale allevia le sofferenze cagionate a lei e alle altre signore presenti dal caldo della Solfatara, cavando di tasca ed offrendo loro, nientemeno, un’arancia - raccolta chissà dove! - che viene paragonata, iperbolicamente, alla manna biblica. Ed è per questo stesso motivo, evi-dentemente, che ella spende tanti aggettivi per le procidane e per il loro caratteristico abbi-gliamento (sul quale, peraltro, si appunterà l’attenzione anche di altri viaggiatori-diaristi, durante tutto il secolo successivo) (18).

Né mancano inesattezze storiche nella narrazione della Vigée, la quale, con la sua imma-ginazione, colloca i teatranti romani nella cavea dell’anfiteatro, con i volti coperti dalle ma-schere (trascurando che altro è un circo, altro un teatro) (19), ovvero attribuisce la responsabilità della distruzione di Miseno anche ai Longobardi, oltre che - com’è esatto - ai Saraceni (20). Corretto risulta, al contrario, il riferimento alla predilezione, da parte dei Romani, quale località termale, di Baia (21), di cui, tuttavia, ella compiange l’attuale stato di abbandono e l’aria mefitica (22).

Riteniamo che si possano trarre, a questo punto, delle conclusioni, circa l’utilizzabilità dei Souve-nirs di M.me Vigée-Lebrun come fonte storica. In proposito, non si può fare a meno di notare, per prima cosa, come essi siano nati, com’è fin troppo evidente, per soddisfare una personale esigenza diaristica dell’autrice, piuttosto che un intento letterario o, in ogni caso, divulgativo (23), e, dun-que, è probabile che proprio per tale motivo costei non si sia posta obiettivi di particolare esattezza

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storico-scientifica (24). D’altronde, non può escludersi che le vacillanti nozioni di cultura ge-nerale possedute dalla giovane artista siano il risultato di un’istruzione conseguita al di fuori di schemi scolastici ufficiali (25), che potrebbe avere determinato in lei, fra l’altro, la formazione di un interesse decisamente anomalo - quasi epidermico - per il vulcanismo, l’archeologia ed il termalismo (26). Viceversa, gli appunti di viaggio di M.me Louise-Èlisabeth costituiscono un documento, indiscutibilmente, valido, per la parte in cui contengono notazioni di costume, verso le quali l’autrice si mostra particolarmente attenta (27).

In buona sostanza, ella altro non è che una “turista-esule”, per giunta non “impegnata”, che deve riempire in qualche modo le proprie giornate; non si può dire nemmeno che ella sia pro-priamente “romantica” (28), ed anzi, a ben guardare, neppure fa trasparire un interesse ad esserlo. I suoi Souvenirs, dunque, offrono maggiori spunti di riflessione sul suo mondo, che non su quello che la circonda.

Né, peraltro (e purtroppo!), ci sono pervenuti gli schizzi delle località visitate e dei personaggi incontrati, che, pure, ella era solita realizzare (29); pur se, per formarsi un’idea “visiva” - forse un po’ più “oggettiva” - dello stato dei luoghi all’epoca della visita da lei compiuta ai campi Flegrei, si può ricorrere alle tavole realizzate dal Fabris per i Campi Phlegraei di lord Hamilton (30), che la Vigée ebbe modo di conoscere, durante il suo soggiorno napoletano (31), insieme con altri personaggi celebri dell’epoca, fra i quali il generale Salis (32), suo compagno di gita ad Ischia. I quali schizzi, verosimilmente, avrebbero potuto costituire - ancora una volta, in questo caso (33) - più che il testo scritto - una documentazione d’indubbio valore storico ed avrebbero potuto contribuire, sicuramente, ad arricchire di preziose raffigurazioni la galleria d’immagini del costume femminile tradizionale di Procida (34).

Sergio Zazzera

24 In altri termini, la Vigée scrive “per sé”, il che conferisce ai suoi “ricordi” il pregio dell’assenza d’in-teresse al travisamento dei fatti narrati; ella scrive, però, “a distanza”, col rischio del “filtraggio” degli avvenimenti.25 V. supra, nt. 3. In altri termini, a voler trarre delle conseguenze dalle argomentazioni di Mozzillo A., I “compagni di viaggio”, in Il Mattino del sabato, 24 gennaio 1987, 15, il “non letterato” non ha, di regola, interessi letterari, “passivi” (= di lettore di classici) od “attivi” (= di scrittore) che essi siano.26 Cfr. supra, ntt. 7, 10, 11, 12, 19. Sull’interesse (“ufficiale”) dei viaggiatori (dei secoli precedenti) per tali tematiche, cfr. Horn - Oncken A., o. c., 119; 123.27 In proposito, ci conforta l’autorevole opinione di Galasso G., Una pittrice nella Napoli del ‘700, in Il Mattino, 26 agosto 1984, 3. V., in ogni caso, supra, ntt. 15, 17. Sulla varietà di interessi che caratterizza il “Grand Tour”, cfr. De Seta C., La capitale del Grand Tour, in Meridiani, luglio 1993, 70 s.28 Cfr. S(chneider) A. R., o. l. c.29 Hautecoeur L., o. c., 87.30 Hamilton W., Campi Phlegraei (Napoli 1776) tavv. XVI-XXXII. Non si dimentichi, tuttavia, che la finalità dell’opera è profondamente diversa da quella che spinse la Vigée ad effettuare la visita della regione flegrea.31 Cfr. Nolhac P. de, o. c., 164; Hautecoeur L., o. c., 71 ss.; Rocco C.; o. l. c. Il parallelo interesse dell’Ha-milton per il vulcanismo e per l’archeologia aveva, in ogni caso, una consistenza sensibilmente diversa: cfr; Knight C., Sir William Hamilton, in Campania stagioni 2 (1980) 38.32 Il barone Rodolfo de Salis-Marschlins, svizzero dei Grigioni, era stato chiamato da Ferdinando IV, tra il 1789 e il 1790, insieme con altri uomini d’armi stranieri (cfr. De Sangro M., I Borboni nel Regno delle Due Sicilie, ora in De Sanfro M. - Bernari C., Storia di Napoli e dei Borbone (1735-1861) nel bene e nel male (Napoli 1994) 22, per “instruire nuove schiere”, ma fu congedato dal governo, per avere destato sospetti (cfr. Colletta P., Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825 (Capolago 1834) II, 1, 26).33 Come già avemmo occasione di ritenere, a proposito di quelli del Goethe (il quale era mosso, però, da interessi profondamente differenti): cfr. Zazzera S., Johann Wolfgang Goethe nei Campi Flegrei, in Proculus 4 (1991) 331.34 Sul quale v., dopo l’originaria descrizione di Q(uadrari) G., Abito delle donne di Procida, in Polio-rama pittoresco 1 (1836) 7 s., le mai superate notazioni di calderini E., Il costume popolare in Italia 2 (Milano 1953) 24 e tav. 130 (alle quali nulla aggiungono quelle di Porcaro G., 12 costumi dell’isola di Procida (Napoli 1991) 5 ss.), nonché di recente Zazzera S., Graziella nel dì di festa, in Simbol, aprile-giugno 1991, 24 ss.

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Eccellenza Rev.ma, Signori, siamo ascesi sul monte Epomeo che in un fascino di luce e di armonie sublimi corona a meraviglia le bel-lezze tutte della verde Enaria; anzi di tutto il golfo partenopeo, che l’abbraccia in ampio semicerchio, dall’isola di Capri, costa sorrenti-na, Napoli, Pozzuoli, Baia, Cuma, sino alle isole di Ponza e Ventote-ne, in uno specchio di glauco mare che si apre sconfinato verso sud. Monte che tiene il suo degno posto nella mitologia, nella scienza, nell’arte e nella storia civile e religiosa. Tutte queste diverse branche dello scibile umano, ciascuna per la sua parte, si sono occupate di esso, han cercato celebrarne le raris-sime bellezze e i tesori che si chiude in un seno, e si sono provate a ritrarre il grandioso panorama che offre; ma la immaginativa fu sopraffatta dalla grandiosità del soggetto, e la parola riuscì insuffi-ciente all’effetto desiderato. Non sono io che oso asserire tali cose; invece autori nostrani e stranieri, che, ammirando e studiando ,a fondo questo gioiello che Ischia possiede, l’hanno confessato. Il Cav. d’Ascia Giuseppe, penna apprezzata della nostra Forio, nel-la sua storia dell’isola d’Ischia dice: “Il picco di S. Nicola può essere ammirato, ma non descritto: non vi è penna né ingegno che possa ritrarre al vero le impressioni svariate e le scene molteplici, che of-fre questo sublime monumento della natura, innalzato dalla divina compiacenza, in un giorno di allegrezza, dopo secoli di collera”. E Wladimiro Frenkel, accennando alla impotenza in cui si trova lo scrittore di fronte a questo straordinario sepolcro di Tifeo, dice che, non potendo esso per forza maggiore diventare “doctus cum libro”, cade nelle solite espressioni di luoghi comuni, ripetendo con il geniale illustratore francese dell’isola d’Ischia e delle meraviglie di essa:

Sous ce ciel où la vie, où le bonheur abonde, Sur ces rives que l’oeil se plaÎt à parcourir,

Mons. Domenico Caruso

Discorso recitatosull’Epomeoall’occasionedel collocamentodel Nuovo Crocefissoin quella chiesetta il 2.4.1934

Note aggiuntaa cura di Raffaele Castagna

1) Opuscolo pubblicato dalla Tip. “Epomeo” di Forio.

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Chiesa di S. Nicola - Crocefisso ligneo posto sull’altare

Nous avons respiré cet air d’un autre monde Elise! et cependant qu’il faut mourir. (2)

o esclamando con la soave poetessa (3)

Vid’io la cima, il grembo e l’ampie falde Del monte altier che il gran Tifeo nasconde Fiammeggiar liete, e le vezzose sponde Dee lito bel di lumi ornate e calde.

Siamo dunque sul monte che vince ogni bellezza descritta e le sognate ancora.E per prima l’Epomeo vien celebrato altamente nella mitologia, che presenta l’isola come struttu-ra ed abitazione dei giganti che lottano contro gli dei , e Tifeo, o Tifone, il quale, agitando, come tan-te furie, le sue cinquanta teste, fece guerra a Giove, che lo fulminò, e ne fece dell’Epomeo il grandioso sepolcro, mentre le membra di lui, per queste pen-dici, diedero il nome a diversi paesi e contrade. Fu prostrato il gigante Tifeo, e messo a dormi-re sotto questo monumento di bellezza rara; ma non vinto in modo che non possa di tanti in tanto riaversi e scuoterlo e dargli dei niente desiderabi-li sussulti. E di fatti si riscosse più volte dal suo letargico sonno, ed eruttò lave vulcaniche dalla sommità e dai lati, scuotendo la terra e seminando distruzione e morte, sino a rimandare in fondo al mare l’istmo che avrebbe legata Procida al castello d’Ischia. Ho detto avrebbe! Ma che Procida fos-se stata congiunta a Ischia, molti autori lo danno per certo. Strabone nella sua Geografia, libro V, la dice una porzione di terra divelta da Ischia; e Plinio (Storia Nat. lib. IV cap. 6) deriva il nome Procida, non da quello della nutrice di Enea, come vorrebbero altri, ma dal fatto di questa secessione: “Non ab Aeneae nutrice, sed quia profusa (Pro-chyta) ab Enaria erat”. Fra i moderni lo Spallanzani (Viaggi sulle due Sicilie, tit. I, p. 213) e il Breislak (Descrizione della Campania, tit. 11 p. 181) sono pienamente convin-ti che tra le due isole esisteva un cratere comune che le riuniva. Ed ecco come Virgilio, En. IX v. 709 descrive questa secessione (4):

Qualis in euboico Baiarum littore quondam saxea pila cadit, magnis quam molibus ante

2) A. de Lamartine, Nouvelles Méditations, IX - “Sotto un cielo, ove abbonda la letizia, la vita, // Su questa sponda amica che l’occhio alletta e invita, // L’aria d’un nuovo mondo ci parve di sentire, // o Elisa!... E sarà vero che bisogna morire?” (traduzione del Sac. Mario Iacono in P. Polito: Lamartine a Napoli e nelle isole del golfo).3) Vittoria Colonna - Rime.4) Il passo descrive tutt’altra cosa (v. n. 5).

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constructam iaciunt ponto; sic illa ruinam prona trahit, penitusque vadis illisa recumbit. Miscent se maria, et nigrae attollontur arenae; tum sonitu Prochyta alta tremuit, durumque cubile Inarime Jovis imperiis imposta Typhaeo. (5)

Anche Ovidio (Metam. X IV v. 89) e Strabone (Storia Nat. lib. II cap. 88) parlano dell’Epomeo, abitazione di Tifeo, che, agitandosi, causa eruzioni e semina ruine (6). Sono parole di quest’ultimo: Mox in his Pithaecusis montem Epopon cum repente flamma ex eo emicuisset, etc... (7) Data tale importanza del monte che ci accoglie in tanto lieto giorno, la scienza lo fece subito oggetto delle proprie ricerche e dei suoi studi. Ne volle conoscere le origini, ne esaminò le lave trachitiche di cui è coperto e ne trovò delle antiche, medie e recenti; ne osservò i vari coni eruttivi e conchiuse che esso emerse dal mare, da una profondità di cinquecento metri sui primordi dell’età quaternaria, e che fu nucleo primario e centrale, per dirla col Fuchs, dopo altri, al quale si addossa-rono altre terre emerse sempre per successive eruzioni subacquee, che diedero alla nostra isola l’attuale fisica conformazione. E la scienza se ne occupò, e tuttora studia le acque sature di sali mine-rali e di radio, dotate di prodigiosa virtù sanatrice; come pure le acque potabili che l’Epomeo prodiga intorno intorno dalle sue visceri a sollie-vo dei sofferenti mortali. Tesori immensi che si chiude in seno, e non ancora tutti esplorati, né valutati; mentre all’esterno sulle sue pendici matura grappoli dolci e frutti di speciale sapore.

Di necessaria conseguenza e di loro pieno diritto subentrarono l’arte e la storia. Anche l’Epomeo tiene la sua arte. Sarà la cartolina illustrata che lo ritrae, e gli fa girare il mondo; lo schizzo sul taccuino del visi-tatore, l’acquerello del dilettante, la tela dell’artista che orna i salotti. Ma c’è di più: l’estro del poeta e la penna del romanziere che l’hanno cantato e descritto con alata parola, nonché l’articolo della cronaca del giornale, presentandosi l’occasione, come il bozzetto della rivista. Se l’è tanto bello l’Epomeo, per necessità dovette piacere all’artista che dinanzi a meraviglie simili non seppe né può restar muto. Non mi

5) “... In tal guisa di Baia // su l’Euboica riva il grave sasso, // ch’è sopra l’onde a fermar l’opre eretto, // da l’alto ordigno ov’era dianzi appreso, // si spicca e piomba, e fin ne l’imo fondo // ruinando si ruffa, e frange il mare, // e disperge l’arena: onde ne trema // Procida ed Ischia, e il gran Tifeo se n’ange, // cui sì duro covile ha Giove imposto” (trad. di Annibal Caro - SEI ed.). Virgilio paragona la caduta del gigantesco guerriero Bizia e il rimbombo del suo scudo nella rovina ai rumori che si avvertivano nella baia di Pozzuoli, allorché si costruiva il porto di Giulio: dei grossi blocchi di pietre insieme cementate venivano fatti scivolare in mare, e costituivano così una valida difesa dalla violenza delle onde, nonché una sicura piattaforma per la costruzione di lussuose ville e villini lungo la costa Il mare ne veniva talmente turbato da scuotere e da tormentare Tifeo, sepolto sotto l’isola d’Ischia 6) I riferimenti agli autori, alle loro opere e agli argomenti non sono del tutto esatti.7) In realtà il passo è di Plinio (“... il monte Epopo, dopo un’improvvisa eruzione di fiamme....”).

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trattengo però a riprodurre brani o a far nomi, avendone già riportati parrecchi, ai quali, solo per maggior comodo di chi desidera notizie più specifiche, aggiungo il Monticelli che ha dato alla geologia dell’isola d’Ischia un lavoro di tale importanza, da essere pubblicato negli atti della R. Accademia di Napoli, e il Sig. Pilla, nella sua descrizione geo-logica d’Ischia; i quali, classificando le diverse materie di cui l’isola è composta: varie specie di lave, tufo vulcanico, pomici e scorie, trattano dell’Epomeo che, dalla base a mezza altezza costa di tufo vulcanico, e per altra buona porzione è formato di lave di specie diverse. E così questo monte, mentre è allo studio, nella fredda calma dello scienzia-to, con la sua poesia lo attrae, lo innamora di sé, lo rende poeta e lo fa cantare, disposando l’arte con la scienza.

Se ho detto che l’Epomeo trova il suo degno posto nella mitologia, ciò va inteso nel senso che la superstizione idolatra lo fece abitazione di giganti che lottano con i Numi; dimora di Ninfe e di Sibille come fece di altre isole, non già che la sua esistenza sia mitica o leggendaria, e questo fece perché le sue bellezze rare lo facevano degno della dimora dei celesti. Siamo quindi di fronte ad una perfetta storia, la quale va ripartita, quale quella dei nostri popoli in primitiva, media e moderna ossia l’Epomeo tiene il suo posto nella storia orientale, latina o roma-na, medievale e contemporanea.

Chiesa di S. Nicola - L’altare maggiore

a) Nella storia greca trovo che l’isola d’Ischia col suo Epomeo era molto nota a quei popoli orientali, i quali la dissero Pitecusa dal perché fin da remotissimi tempi vi fioriva l’arte dei vasi di creta (da pitos/dolium) e che per Pindaro so-pracitato (8) la chiamò Arime ed Omero (Iliade, 2) la disse Arime o Inarime in cui trovavasi l’abitazione di Tifeo, la quale è nell’Epomeo (9).Anzi si vuole che quest’isola dai greci ebbe sia il nome di Enaria - a statione navium Eneae - (Plinio, Storia nat. III/6) , sia quello di Ischia (da Iscus / robur) perché il castello di questa città d’Ischia ritenevasi forte ed inespugnabile; oppure da Ischion / anca a cui essa isola somiglia nella sua fisica configurazione. E’ vero che il Mazzocchi, in una sua dissertazione storica “De Cathed. Eccl. Naeapolitanae” vuole che il nome Ischia sia venuto dall’antiquata parola francese isle , che sotto gli Angioini fu detta “isla”, e finalmente Ischia. Ma perché storica-mente costa che Papa Leone III già l’ave-va chiamata Iscla più secoli prima degli Angioini, bisogna riconoscere che i nomi di quest’isola sono proprio di origine gre-ca, come sopra si è detto.

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b) Né meno conosciuto era il nostro Epomeo nel periodo classico latino-romano, quando la Campania felix, Pozzuoli, Baia e Cuma, erno il soggior-no preferito degli Augusti e del Patriziato di Roma; come era stata la dimo-ra delle Sibille. E basti pensare per conferma richiamare le citazioni poco prima accennate di Ovidio, di Virgilio, di Plinio, per non desiderarne altre.

c) Sinora siamo rimasti nel puro mondo della scienza e del periodo classico pagano. Ma il soffio del Cristianesimo che divinizza le bellezze della natura, dando loro un soffio di vita soprannaturale, e servendosi delle medesime, come mezzo per elevarsi a idealità che trascendono i sensi e la portata dalla naturale ragione, venne a dare nuova vita alla solitudine dell’Epomeo. Da questo momento, di Tifeo che fa guerra a Giove, e delle Ninfe e Sibil-le resterà un semplice ricordo a pura erudizione mitologica. Sull’Epomeo, dall’età di mezzo, si troverà il soffio di vita cristiana; e non in grado comu-ne. Saranno le vicende e gli episodi; ma la nota religiosa riterrà il posto conquistato. L’eremo in origine doveva essere una grotta cavata nel tufo. Forse serviva per rifugio agli abitanti dell’isola, quando erano minacciati dalle incursioni dei pirati. L’Epomeo, che signoreggia il largo orizzonte del mare che lo cir-conda, era come il forte che proteggeva tutti i paesi adagiatisi sotto la sua ombra. Da questa vetta partiva l’allarme al vedersi le navi saracinesche, e tutti prendevano la via del monte. Cessato il pericolo di queste invasioni, in sullo scorcio del secolo XV, si dice che Beatrice della Quadra, con alcune sue compagne, amanti di solitudine e di quiete di spirito, siano venute ad abitarvi. Ma ben presto, sgomentate dalle intemperie, sloggiarono, andan-dosene a stabilire sul castello d’Ischia e fondandovi il monastero di S. M. della Consolazione, che vi restò sino al 1809, donde passò al convento dei Frati a S. Antonio. Quegli che poi ridusse la grotta originaria allo stato dell’eremo fu il tedesco Argout, governatore dell’isola, sotto re Carlo III, il quale, mentre inseguiva due disertori della guarnigione rifugiatisi su questo monte, essendogli ca-duto il cavallo e avendogli quelli spianato contro i loro archibugi, fece voto al suo S. Nicola di darsi al servizio di lui, se lo salvasse. Ottenuta la grazia, vestì l’abito eremitico, ordinò le cellette, lungo la grotta, nel tufo, ingrandì la chiesa, prese con se altri, e l’Epomeo risuonò delle lodi del Signore. L’Argout e i compagni vi menarono vita cristiana perfetta nell’esercizio di tante virtù e vi morì in odore di santità, dopo sedici anni di vita eremitica, e fu sepolto in questo tempietto. I compagni di lui, l’un dopo l’altro, si di-spersero e finirono. Ma vennero altri a prendere il loro posto, tra i quali per santità di vita si distinsero un Grigione, e poi un tedesco a nome P. Michele, il quale restò in quest’eremo sino all’età di 105 anni, e nel 1811 morì nell’eremo di S. Fran-cesco di Paola in Forio. L’Argout, coadiuvato da un certo Iacono Giuseppe di Fontana, pensò as-sicurare il mantenimento del culto della Chiesa, dotandola di una grande estensione di terreno circostante, e fondando canonicamente una Cap-pellania laicale perpetua, di cui l’ultimo sacerdote investito fu Don Pietro Vado, morto nel febbraio 1881. Ma e per disposizioni di leggi sopravvenute, e per incuria e anche malizia degli uomini, la dote propria della Cappellania fu indemaniata e poi venduta, e altra buona parte fu sperperata, sì che oggi ne resta tanto poco che è del tutto insufficiente allo scopo; e S. Nicola deve vivere della generosità dei suoi devoti. Ma con tutte le avverse vicende e i delitti degli uomini, l’Epomeo restò nel suo grado e ambiente. Tentativi ce ne sono stati, per scoronarlo di quell’au-

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reola religiosa che gli si era formata. Il popolo di Fontana però ci teneva al suo S. Nicola, come l’isola intera lo ha sempre venerato; e la generazio-ne pia di cinquant’anni fa, sapeva indicare questo monte, non col nome profano di Epomeo, bensì con quello di S. Nicola. Quando questa vetta si copriva di densi nuvoloni, guizzava il lampo e rumoreggiava il tuono, dicevano: S. Nicola si ha fatto il cappello, o si ha messo il cappuccio. E quando una bella nevicata la imbiancava, dicevano: S. Nicola si ha fatta la barba. Tutto era S. Nicola per i nostri, ed è doveroso e giusto che così sia per noi e per i successori, almeno da oggi. d) Ed eccomi così giunto al grande movimento attuale che s’impernia sull’Epomeo. E’ il periodo storico recente. Il turismo moderno non po-teva trascurare ai suoi scopi quello che in ogni età fu tanto apprezzato. E se oggi si può constatare con meraviglia e diciamo pure con tristezza che vi sono degli isolani, i quali non hanno ancora una volta visitato il loro S. Nicola, non c’è forestiero che si porti all’isola e non segni nel suo itinera-rio la puntata sull’Epomeo. A quest’ora che noi siamo qui raccolti per una festa di spirito, tanti e tanti, e sui transatlantici che li portano in Italia per gite turistiche, e sulle grandi stazioni ferroviarie, parlano dell’Epomeo. Esso quindi, mentre è per la nostra isola un dono speciale della Provvi-denza, ne è pure una gloria imperitura, che ne manda in giro per il gran mondo il nome e vi richiama gli ammiratori, le cui visite non fruttano soltanto ammirazioni, ma anche economici vantaggi.Più volte si è lamentato un certo stato di abbandono in cui questa vetta fu tenuta: difficoltà di accesso, assenza di qualunque comfort; le stes-se naturali bellezze spesso furono profanate e non mancò il delitto degli uomini a violazione del santuario. Ma che dire? Si parla di turisti, gente o senza religione alcuna o di una religione tutt’altra che cattolica, o, se cattolica, per niente praticata. E allora non deve far meraviglia, e molto meno scandalizzare, se il romitorio e la chiesetta siansi trattati come un luogo profano in momenti di assenza di chi lo custodiva.Il Frenkel, che spesso ho citato, a questo proposito dice: “L’ascesa all’E-pomeo non si compie né per visitarvi l’eremo inabitato e trascurato, né per... pregare nella chiesa di S. Nicola totalmente abbandonata, ma per guardare, per vedere, per mirare... come vuole la stessa etimologia del nome del monte: Epopon o Epopos, che preferiamo a quella indicata dal Dupays Epochon, carbone ardente.Per ben tre quarte parti sta l’affermazione del Frenkel; ma per il resto no! Egli ha guardato il turista del gran mondo, lo sport fatto a solo scopo di procurarsi delle emozioni, l’aspettare quassù la levata del sole, maga-ri sdraiandosi nella chiesetta tramutata in una buvette ancora, in quel momento. E’ vero questo per una parte. L’età ultra ottagenaria, che ob-bligava il fu eremita Fra Giovanni Mattera a riparare nella propria casa, le porte mal ferme, e il nessun senso religioso dei visitatori produssero quanto si è deplorato. Ma anco in questo periodo, che dicesi di abban-dono e di profanazione, ci sono state anime buone che han visitato S. Nicola con vera divozione. Il popolo credente e pio di Fontana non aveva perduto la sua fidente divozione verso S. Nicola, molto meno la fede, per non deplorare quanto commettevano visitatori di poca, o di nessuna re-ligione, e per aspettare con fiducia l’era della riparazione, che può dirsi arrivata, almeno per quello che riguarda il fatto religioso.

S. E. Rev.ma Mons. De Laurentiis, assecondando i voti di anime pie, nel 1932 dava incarico al Rev.mo Canonico Parroco Don Alfonso Mattera di

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far eseguire una prima riparazione, la più urgente alla chiesetta; provve-derla di porta esterna e interna, in modo che ogni atto men che rispettoso pe rla casa di Dio fosse impedito. E nella festa di S. Nicola, sei dicembre detto anno, la chiesa si riapriva al culto. La nota squillante della campa-nella echeggiò per queste pendici, da monte a valle, rievocò molti ricordi, ridestò sante assopite nostalgie, e della devota Fontana molti furono lieti di assistere alla solennità del rito che chiuse una dolorosa parentesi. Si affidò la custodia della chiesa e dell’eremo a un nuovo eremita, canonica-mente istituitovi dal Vescovo, e in tutta l’isola si è vista rinascere la divo-zione a S. Nicola, manifestata dall’obolo che volentieri vien dato. Se molti dunque puntano sull’Epomeo solo per guardare, per vedere e per mirare, altri lo guardano e lo ascendono per vera devozione, e per invocare il va-levole patrocinio del Santo. E noi oggi siamo su questa vetta non per gusto sportivo, bensì per l’at-tuazione di un’altissima idealità religiosa, destinata appunto a colmare un vuoto e a riparare indolenze passate. Il motivo ce l’ha offerto il Rev.mo Sig. Canonico Mattera Giovanni, di che noi gli rendiamo pubbliche e sentitissime grazie. Non solo la chiesetta nel suo assieme era stata profanata, ma anche una statuetta dell’Immacolata, la mensa dell’altare del Crocefisso spezzata con un colpo violento, e lo stesso Crocefisso, roso dal tempo, era andato in frantumi, e aggiungo pure che nel grande Reliquiario parecchie reliquie di santi erano state manomesse. Cose detestabili, e che noi detestiamo con tutto lo slancio della nostra fede; con l’intera vigoria del nostro spirito di cattolici. Ma, come sempre, dopo la notte buia e tempestosa viene il bel tempo; così anche per S. Nicola spuntò l’alba del giorno ridente, che ora noi con gioia santa ci godiamo, riconsacrandolo a Cristo Redentore. Era in corso l’anno centenario della Redenzione, che aveva movimen-tato tutto il mondo, convergendo verso Roma le menti ed i cuori; anzi si pellegrinò alla Città santa non solo da città e regioni del mondo cattolico, ma anche da gruppi di cattolici confinati nelle lontane regioni della Cina, dell’India, dell’Australia, del Canada: terre di religione buddista e pagana. E in tanto risveglio credete voi che avrebbe dormito l’Epomeo? Ah no! E non fu lo spirito di Tifeo che si ridestò, né la preveggenza del Club Turi-stico; fu invece la voce di Dio, lo spirito di religione a voler riconsacrata questa vetta a Gesù. Come ne medioevo, una disposizione provvidenziale, che i mondani direbbero caso, portò quassù l’Argout con i compagni, e poi altri dopo di lui, che, lontani dai rumori del secolo, dalla contemplazione di queste meraviglie della natura, si elevavano alle mistiche contempla-zioni delle bellezze divine, in una vita cristianamente perfetta e santa; così oggi, una disposizione provvidenziale ha preparato questa festa di spirito per noi. Il Canonico Mattera Don Giovanni, in una sua fisica indisposizione, che Dio in una sua benefica visita volle mandargli, volse un pensiero a S. Nico-la e si ricordò del Crocifisso che, in una sua ascesa a questo monte, essen-do sano, aveva veduto così malandato, col suo altare, al tempo stesso che al suo spirito si presentava il centenario della Redenzione che si svolgeva nel mondo, tutto con tanta solennità, e disse: Ma come? Si celebra il de-cimonono centenario della Redenzione, e alla Cappella di S. Nicola man-cano proprio i segni della Redenzione: la Croce e l’effigie del Redentore, il Crocefisso? Questo vuoto dovrà colmarsi. Così disse e fu subito all’opera. UN appello ai confratelli sacerdoti, i quali, generosi, risposero e l’ideale concepito è oggi un fatto compiuto: il Crocefisso è qui. E noi siamo saliti all’Epomeo per portarvelo a riaffermarvelo Re.

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Ed ora uno sguardo rapidissimo a quello che è l’anima della nostra festa, per la circostanza del giorno. Da questa vetta spingete lo sguardo a Roma, che resta al nostro NordO-vest... per raccogliere l’eco festiva, armoniosa e tutta divina che da essa ne viene. Le grandiose celebrazioni sono cessate, e a quest’ora, 11-12, il Papa in S. Pietro, e gli altri tre Cardinali delegati per le altre Basiliche Maggiori, murano la Porta Santa. I cuori palpitano all’unisono, e si effondono in atti di ringraziamento a Gesù e al suo Vicario per la compiuta Redenzione all’uno, e per il Giubileo straordinario concesso, all’altro. E con Gesù, col papa, con i fedeli del mondo intero siamo anche noi da questa meravigliosa vetta, e anche noi rendiamo a Gesù e al papa le nostre grazie. Facciamo però che sia un grazie non di semplice suono esteriore che pas-sa. Se gli uomini, che non possono andare oltre le apparenze esteriori, non si contentano di chiacchiere, pensate voi che possa mostrarsene soddisfatto il Signore, che guarda sino al fondo del nostro spirito? Noi abbiamo ricon-sacrata a Gesù la vetta dell’Epomeo, con un solenne atto di riparazione, ri-collocandone l’effigie al suo posto di onore. E questa riparazione l’abbiamo compiuta nella data solennissima della chiusra dell’anno giubilare, centena-rio della Redenzione. All’altro centenario nessuno di noi sarà più tra vivi. Ma si troverà su questa vetta il ricordo di questa data memoranda, il quale però non dovrà essere di quei ricordi che, affidati ordinariamente a lapidi e a marmorei monumenti, restano muti e freddi più del ghiaccio. Il nostro monumento che oggi abbia-mo eretto, è caldo, e dovrà restare caldissimo d’idee e di affetti, di fede e di opere. E per ottenere quest’effetto è necessario cooperare ai tanti aiuti che Gesù ci ha procurato con la sua Redenzione. Il Crocefisso è un libro scritto al di dentro e al di fuori. Fu scritto al di dentro, quando fin dall’eternità Dio Padre generava questo suo Figlio, Dio come Lui, nello splendore della santi-tà. Fu scritto al di fuori quando s’incarnò nel seno della Vergine e fu aperto al cospetto dei secoli, perché lo studiassero, quando fu disteso sulla croce. E voi collocandolo su questo monte, avete esposto questo libro divino non solo innanzi agli isolani ma innanzi a tutto il mondo che vi ascenderà. Col vostro atto avete detto al mondo che cerca luce di vero e di conforto: ecco il libro in cui è riposto il grande rimedio pe rla soluzione del gravissimo problema sociale, studiatelo. Ma per ottenere tanto benefico effetto, dovete studiarlo prima voi. Studiarlo con fede viva, perché nella conoscenza esatta di Gesù è riposta la nostra salvezza; studiarlo approfondendo il mistero della Reden-zione, e cercando di apprendere bene le verità di nostra religione, poiché dalla ignoranza di esse viene ogni ingiustizia e disordine privato e sociale. Studiarlo con ardore di carità penetrando sino al fondo di quelle piaghe me-ditandole una a duna, specialmente quella del costato, fornace di amore che compì la Redenzione. Sia tale la nota cara di questa festa, che tramanderete in eredità, alla ge-nerazione che cresce. E allora l’Epomeo brillerà di nuova luce, e tornerà al vostro spirito di credenti più caro che non le sue rarissime bellezze naturali. Esso sarà per voi novello Taborre, su cui il Crocefisso vi mostrerà gli splen-dori della dinità sua; e voi estasiati, pieno il cuore di paradisiaca dolcezza, gli ripeterete con S. Pietro: Sì, o Gesù, ce ne resteremo qui, sempre accanto a te con le spine e con la croce, più care al nostro cuore di qualunque altra gioia terrena, perché tu solo sei la nostra guida sicura, la speranza nostra, la nostra salvezza, nella presente ora trepida che traversa l’umanità.

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L’ascesa al monte Epomeo ha sempre costitu-ito per i visitatori ed i frequentatori, antichi e moderni, un momento particolarmente in-teressante del soggiorno sull’isola. Ecco una descrizione tratta dal Tableau topographique et historique des isles Ischia… dell’Ultramon-tano (opera pubblicata a Napoli nel 1822).

Scesi dalle nostre tranquille cavalcature, che ci hanno portato al termine del nostro pellegrinaggio, Fra Desiderio ci riceve presso la porta dell’eremo e ci conduce at-traverso un corridoio lungo e oscuro, scavato nella roccia, su una piccola terrazza situata al limite del precipizio.

È impossibile provare una sensazione più viva, uno stupore più completo di quello provocato dalla scena che si presenta al nostro sguardo! L’ascensione, lunga ma graduale da Forio sino alla vetta, e le tante cose interessanti presenti lungo il cam-mino, avevano impedito di valutare la vera elevazione della montagna sulla quale ci si trova; è con meraviglia che l’occhio l’osserva ora dall’alto della terrazza, sotto la quale l’Epomeo, dal lato nord, è tagliato a picco.Lo sguardo abbraccia i territori di Ischia, di Casamicciola, di Lacco e di Forio; il viaggiatore può tracciare, come delle linee geografiche, tutte le parti e i piccoli con-torni del cammino seguito; per una illusione ottica le colline e i promontori percorsi sembrano essersi appiattiti e disposti tutt’intorno alla base dell’Epomeo.L’isola intera, vista da questa vetta, rassomiglia a una miniatura, o piuttosto ad un mosaico, che su una vasta distesa d’azzurro (il mare) presenta i colori più brillanti e le tinte più armoniose.(…)

L’Epomeo vomitava anticamente fuoco e bisogna considerarlo come il capostipite di tutti i vulcani secondari che hanno contribuito alla formazione dell’isola; ma da secoli non si è avita più alcuna esplosione. Le sostanze di cui è composta la sommità dell’Epomeo, ed anche le lave, si trovano in uno stato di decomposizione alla sua superficie.Al di sotto della terrazza si vede un’altra punta meno elevata: ugualmente verticale e sembra lanciarsi contro il precipizio dell’Epomeo: è chiamata Catreca e tra essa e Piazza della Pera, verso oriente, occorre immaginare l’antico cratere dell’Epomeo; dalla parte d’occidente e d’oriente ne restano alcuni segni; ma tutta la parte del cono e del cratere dell’Epomeo, che guardava a nord, è crollata ed è probabile che la cate-na di piccole colline, presenti alle sue falde, da Casamicciola sino a Forio, così come buona parte del territorio di questi due comuni e di Lacco, devono la loro origine a questi crolli, che ancora ai nostri giorni di tanti in tanto si verificano e provoca-no grandi danni alle vigne e alle abitazioni situate nella zona sottostante. Si tratta dell’unica reazione che questo vecchio vulcano esercita a lunghi intervalli e che bi-sogna tollerare in virtù dei grandi vantaggi che la generazione presente riceve dalle antiche eruzioni, per la fertilità apportata alle terre dell’isola. I campi di lava nera, di cui l’occhio, dall’alto dell’Epomeo, può seguire tutto il corso lungo le coste verdeg-gianti, cominciano a trasformarsi in vigne. Ad ovest della punta di Catreca, allo stesso livello e tra interstizi di antica lava, si trova una fumarola chiamata del Fasano. Altre se ne vedono un po’ più giù di Catre-ca, nelle zone chiamate Frassi e Montecito. Secondo una antica tradizione , queste Stufe sono state molto frequentate fino a qualche tempo fa, ma poi sono state abban-

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donate a causa di un accesso difficile e scabroso. Dopo millenni l’Epomeo sembra ancora avere in sé, non soltanto nella sua base, ma anche sino alla cima più elevata, i germi della fermentazione vulcanica e i resti di un incendio, il cui fumo esala attra-verso numerose crepe, che è possibile osservare sulla superficie di questa montagna. Come esprimere il nostro stupore, nel vedere accanto alle fumarole di Fasano delle fosse profonde piene di neve, nel bel mezzo dell’estate?!Nei periodi caldi il fresco è un bisogno assai imperioso e indispensabile come quello del cibo. In alta Italia si fa uso del ghiaccio, ma, poiché l’inverno nel regno di Napoli non è talmente rigido da provocare forti gelate, si supplisce a questa mancanza con la neve, che d’altra parte è preferibile, secondo il parere dei medici. Si raccoglie la neve che cade sulle montagne più alte di Terra di Lavoro e per conservarla la si pone in recipientiLa neve congelata vi forma una massa coerente che bisogna sciogliere a colpi di ascia. Queste fosse, di cui le più grandi e le più numerose si trovano sull’alta monta-gna di S. Angelo dietro Castellammare e su un altro tratto dell’Appennino tra Nola e S. Severino, in Campania, soddisfano in estate le necessità della Capitale e della Provincia. Il Monte Epomeo fornisce neve sufficiente per gli abitanti dell’isola d’Ischia. Consi-derando che il consumo è notevole ed in continuo aumento per i molti stranieri che vengono per le cure termali, si può capire come sia cura degli Ischitani raccogliere quanta più neve è possibile sull’Epomeo. In effetti soltanto raramente si deve far ricorso alla Terraferma per approvvigionarsi di neve. Diamo ancora uno sguardo sull’isola che si stende al di sotto di noi, sino al mare che la circonda, alle isole e ai promontori che la limitano e l’abbelliscono, e poi la-sceremo la terrazza, questo luogo che ha a lungo attirato la nostra curiosità e che ci dà tanti rimpianti nel lasciarla, per rientrare nell’eremitaggio, anch’esso degno della nostra attenzione. Questo è completamente scavato nella roccia, ad eccezione della sola facciata della cappella, che è in muratura. Anche la Cappella deve essere stata originariamente una grotta naturale, come se ne incontrano spesso nei banchi di lava. Un uomo pio fu il primo abitante di questa, desideroso forse di allontanarsi dal mondo per una vita contemplativa sotto lo sguardo di S. Nicola. Egli non avrebbe potuto scegliere un ritiro più specifico per generare sentimenti nobili e puri; qui si è infatti tra Cielo e Terra! Il piccolo santuario conserva la sua semplicità primitiva, anche quando la sua ri-nomanza e l’accresciuta popolazione dell’isola vi richiamarono in pellegrinaggio gruppi sempre più numerosi. Ma sotto il regno di Carlo III di gloriosa memoria, si verificò un fatto che valorizzò grandemente l’eremitaggio di S. Nicola.

Il sig. Giuseppe d’Arguth, tedesco di nascita e comandante del Castello d’Ischia, volle di persona inseguire due soldati disertori della sua guarnigione, fuggiti in una foresta sulla vetta dell’Epomeo. Li sorprese in un luogo solitario, ma, mentre si ac-cingeva a catturarli, il suo cavallo cadde e fece cadere anche il cavaliere. Gli scelle-rati, armati dei loro archibugi, gli si slanciarono contro. Il castellano invocò il suo patrono S. Nicola, facendo il voto di dedicarsi al suo servizio, se si fosse salvato da sì grande pericolo. La sua preghiera fu accolta. Soltanto il suo cappello e il suo mantel-lo ebbero dei danni; nessuna ferita ricevette la sua persona: così si salvò miracolosa-mente. Dimessosi dal suo incarico, si ritirò sull’Epomeo. Fece ingrandire la chiesa e realizzare nella roccia varie celle. Con alcuni confratelli condusse una vita monacale, vivendo di dotazioni, con le quali aiutò anche i poveri e abbellì il santuario di S. Ni-cola. Morì dopo ave.r vissuto 16 anni sul monte e fu considerato un santo

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Artisti isolani

Mariolino Capuano

Opinioni di un burattino

di Tonino Della Vecchia

In questi giorni di fine maggio, a Forio, la festa di San Vito (il Santo Patrono) è già nell’aria. Come tante formiche, degli operai trasportano lunghi pali blu per l’addobbo, che odorano ancora dei botti per Santa Restituta. Non sono più, questi, giorni di esotico splendore che resistono in ogni vita come pietre di marmo, come si augurava Auden nella sua “Ischia”: ci restano almeno queste giornate di gran caldo, mentre altri turisti fanno galleggiare le loro “pagliette” lungo il corso. La boutique di Mariolino, piantonata dalle auto in sosta, ne domina la parte centrale. E’ un momento di relativa calma, quando entro. Solo una settimana fa si è inaugurata nella Galleria di Carolina Monti, ad Ischia Ponte, una sua mostra (resterà aperta fino al 21 giugno), che fornisce lo spunto a questa no-stra conversazione.Che significa per te dipingere? gli chiedo, mentre il rumore del traffico fa da sfondo alla domanda.

E’ un modo di manifestare quello che si ha dentro. Ho scelto questo modo di espressione, anche se sentivo che avrei potuto scrivere o scolpire, perché avevo un tempo forti stimoli soprattutto per la scrittura.

Pare, allora, che la pittura sia stata per te casuale.

Questo no. Fin da piccolo ho avuto passione per la pittura, nata in me sponta-neamente. Solo anni dopo ho cominciato a prendere interesse per i singoli pit-tori che vedevo per la strada, ma questo per osservare le varie tecniche dell’uso dei colori, dei pennelli, non come modo di espressione artistica.

Nel frattempo, un discreto viavai di amici, clienti, parenti anima oltre misura il locale. Un giovane turista col sacco incollato alla schiena gli chiede un paio di calzini esposti. “Che misura?” - “Undici e mezzo” - “Ed il colore?” - “Quello bianco sporco” risponde il turista, indicandolo col dito. “Bianco panna”, cor-regge Mariolino. Ci pare opportuno proseguire la nostra conversazione in un luogo più tran-quillo, così che ci trasferiamo nel suo studio, lasciando il controllo del locale alla moglie Lucia.

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Continuavi a dipingere durante gli anni degli studi?

Fino al termine, al Nautico di Procida. Mi rimangono solo pochi la-vori del tempo, perché li ho quasi tutti bruciati. Mi restano solo pochi disegni di compagni di classe, di amici... Erano disegni che eseguivo a scuola, al bar, dove capitava.

Poi tira fuori una piccola tela arrotolata: il suo autoritratto all’età di tredici anni, ben eseguito, che lascia indovinare il giovane lupo di mare che sarebbe diventato, ma anche l’artista che ora ammiriamo. Per quanto tempo hai navigato?

Dal ‘64 al ‘68 con periodi, talvolta, anche di sedici mesi. Poi aprii il negozio e anche col matrimonio tornai per qualche tempo a navigare.

In che periodo potremmo collocare il tuo vero confronto con la pit-tura, il tuo misurarti?

Guarda che, ogni volta che mi ponevo di fronte ad un foglio bianco o alla tela pulita, il confronto era sempre serio, a prescindere dalla mia età. Se invece ti riferisci al periodo nel quale ho ripreso a dipingere in modo regolare, allora andiamo agli inizi degli anni Ottanta. A farmi decidere fu una collettiva, che fece sorgere in me una sensazione di sfi-da. Oltre che di “fanatismo”. La pria prima personale l’organizzò l’ami-ca Maria Mennella all’interno di un’edizione del Premio Coppola. Fu un’esperienza deludente, per certi commenti ricevuti (e non sempre a torto), ma anche salutare.

Quali erano allora i tuoi soggetti? Mariolino mi mostra allora alcune tempere con uno sciatore d’ac-qua (di scarso interesse), un giornale straniero strappato incollato ad una parete e il Castello aragonese che si erge maestoso come l’iso-la di Saint Michel dopo la bassa marea, mentre un aliscafo giace sul fondo essiccato come un pesce che geme sulla sabbia.Dal portone in fondo, proviene la voce della figlia minore che invoca la traduzione tedesca per un certo capo di abbigliamento.

In verità, qualcosa prima dipingevo. Ma si trattava di esercizi, ed i soggetti erano nature morte per la maggior parte, che eseguivo a china. Poi è venuto il tempo dell’ideazione, di origine surrealista per qualche influenza avuta in passato e della quale non mi rendevo ben conto.

Cosa ricordi dei pittori che venivano a Forio?

Bargheer lo conoscevo attraverso i fatti che mia madre riportava in famiglia: il suo riposare in terrazza, l’allarme per qualche lucertola che gli entrava in camera... Se non ricordo male, l’abitazione di mia madre - giacché io vivevo con mia zia - fu la sua prima a Forio, sia prima che dopo la guerra. Era situata sopra la “Bussola” e dominava il porto. Ri-cordo invece bene quando Filippo Dakin si installava, coi suoi attrezzi, ben lbel mezzo della piazza Pontone (l’attuale Matteotti), imitato poco dopo da suo cognato Giocondo Sacchetti, che allora sfoggiava uno spe-ciale pennello che si era fatto spedire dalla Svizzera. Poi c’era Pagliacci. Il primo Pagliacci, quello del “Colpo di luna”, faceva danzare oltre alle

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ragazze anche le bottiglie, ed allora volavano sedie, bestemmie: era un leone di forza e di carattere. Poi è venuto il Pagliacci foriano, che aprì due boutiques alle sue amiche. Poco prima della sua morte, lo andai a trovare con Vito Mattera e gli organizzammo la sua ultima mostra.

E invece con i pittori foriani?

Solo con Gino Coppa vi sono scambi di opinioni, in tema di pittura. Di Peperone ricordo le sue straordinarie invenzioni quando, ragazzini, sotto un albero di noci nella campagna di San Giuliano, creava funghi con le noci o ancora ricreava a suo modo la montagna: erano di un fascino che magnetizzava la nostra fantasia... Ricordo ancora le litigate fra Maddalena e Bolivar, perché si aggiungesse un po’ di rosso ai qua-dri/ questi consigli, urlati dalla donna, facevano imbestialire Bolivar creando forti attriti.

Da cosa nasce l’esigenza di esprimerti attraverso il trompe l’oeil?

Dal fatto di non condividere una certa idea dell’arte contemporanea che porta materialmente gli oggetti all’esposizione. Credo che, se si vuole comu-nicare attraverso un dato oggetto, poniamo la tazza da bagno, questa vada raffigurata e non trasportata materialmente. Quando costruisco in me un quadro, devo però superare la noia dell’esecuzione, perché dal momento che l’ho ideato, è come se lo possedessi già. E questo lo sento più pesante della realizzazione stessa: è cioè una difficoltà psicologica che devo ogni volta su-perare.

Con quale intensità ti dedichi al lavoro?

Dalle due ore al giorno fino alle dieci nel periodo invernale: la pittura è una componente importante della mia vita.

MariolinoCapuano

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Uno dei tuoi primi lavori, che meglio ricordo, raffigura una chiesa dal portone spalancato. Al suo interno, un cumulo di sabbia.

Si trattava di un deserto illuminatissimo, po-sto all’interno di una chiesa (solitamente buie). E’ una sensazione ambigua, in quanto il deserto, che evoca generalmente fame, siccità, assenza di vita, è portatore di tantissima luce. Questo riflet-te l’antitesi presente nei miei lavori: il meno co-stituito dal deserto, il più dato dalla luce. Il qua-dro di cui parliamo si intitola “Restauro”.

Vi era in esso un riferimento alla realtà fo-riana, che del resto nei lavori di quel periodo è spesso richiamata?

Non in questo quadro. Per il resto, osservavo la realtà che mi circondava. Poi, sono andato oltre.

Ma in questi lavori, come vedevi il tuo paese?

Ogni paese costituisce una realtà a sé. Certo, non ne ero, né lo sono adesso, contento. Ma que-sto fa parte del mio spirito critico. Tengo però a precisare che non sono un nostalgico dei tempi andati: il passato non lo ricordo mai con piace-re, perché rivedo tempi difficili ed il desiderio di ragazzino di soddisfare tanti bisogni, la fame...

Ma questi inserti fotografici (chiamiamoli così), presenti in tanti lavoro, non hanno forse un significato di ricordo?

M. Capuano - Effluvio di estate - 1994 Acrilico su tela cm 60x80

Per me una foto antica ha il valore dell’ispirazione, che non è ne-cessariamente legata alla foto. Ad esempio, da una foto di un basti-mento può venirne fuori un nudo.

Quindi non ha una specifica funzione mnemonica... Dipingere il lungomare foriano e applicarvi sul lato un antico quadretto fami-liare, non credi che ciò comporti una particolare relazione fra la foto e il paesaggio?

Li vedo piuttosto come scene, attori (testimoni muti, chiamiamoli così) di una commedia che sto rappresentando. Lo scopo è quello di stimolare una continua riflessione intorno al quadro.

Seduti intorno alle sue opere, mentre dal cavalletto Mariolino ha fatto sparire il quadro al quale sta lavorando, la discussione fluisce c alma ed appassionata, in ciò favorita (credo) dall’assenza di scirocco. Ora prende un’opera dove un Pinocchio triste e sconso-lato siede nel braccio di una croce. A lato, la parte piena di quella stessa croce è sormontata dal cubo di Rubik, con le sue facce mul-ticolori mischiate. Riprende:

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Ricordi l’episodio di Pinocchio nel paese degli acchiappacitrulli? E’ un concetto molto interessante, perché in questo paese i furbi sono fuori, mentre gli onesti finiscono in galera. In questo quadro Pinocchio, fino ad ora un malandrino, fini-sce nella croce, mentre di fuori, sopra di essa, vi è l’arbitrio, la follia (penso alla “Corda pazza” di Sciascia, ma non glielo dico). I ruoli sono invertiti.

A me, invece, veniva da pensare (forse un po’ banalmente) alla solitudine dell’uomo nella croce, al silenzio di Dio...

E’ il tipo di sensazione che intendo trasmettere con i miei quadri, senza entrare, in definitiva, nel merito delle singole interpretazioni, legittime o meno che pos-sano sembrare.

Ma come nasce il testimone Pinocchio?

Tempo fa vi era un negozio di cianfrusaglie di fronte al mio locale. Mi ci reca-vo spesso e sempre mi capitava di posare lo sguardo in un cartone dov’erano in vendita vari Pinocchi. Così pensai che avrebbe potuto diventare l’attore della mia commedia, senza che - tienilo presente - mi identificassi in lui, ma che rappre-sentasse la mia idea allo stesso modo, poniamo, di Pulcinella... Pinocchio è un discorso che ho avviato fin dai primi lavori e che ho portato avanti parallelamente ad altre opere, anche se solo di recente mi sono deciso a farlo “recitare” in pub-blico.

Mi viene da pensare, a questo proposito, al famoso quadro “impacchettato” e legato con uno spago. Di ritorno da una mostra collettiva in Germania alla quale aveva partecipato con alcuni pezzi, alla Dogana un solerte funzionario si ostinava a voler scartocciare il quadro per poterlo vedere. Anche questo è Mariolino.

Tonino Della Vecchia

M. Capuano - Ritorno alle origini - 1993 - Acrilico su tela cm 100 x 70

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Rassegna Libri Premi MostreQuesto volume pubblicizza l’esito di una ricerca

sull’origine, la trasformazione e le destinazioni di uno dei tanti edifici antichi di Napoli, attuale sede della Procura circondariale.

Racconta la storia di un palazzo sopravvissuto - almeno in parte - alle varie vicende di uno dei tanti quartieri - quello degli Incarnati - sorti fuo-ri della cinta muraria aragonese e che, per quasi due secoli, costituirono l’unica forma di sviluppo urbano della Città.

L’edificio non può vantare committenze reali o nobiliari, nomi di architetti famosi o una vita pa-ragonabile a quella dei palazzi interni alle mura.

Può però vantare di essere stata sede, nel cor-so dei secoli, di tre qualificanti attività umane: la preghiera; l’espiazione, la giurisdizione.

Queste attività valgono - di per sé - a giustifi-care la ricerca. A tale giustificazione va aggiunta l’ambizione di apportare un piccolo contributo alle numerose iniziative socioculturali per fare conoscere la Città - anche minore - innanzitutto ai propri cittadini, ed il desiderio di soddisfare la “curiosità” di conoscere le radici e la storia di un luogo ove - tra magistrati, funzionari e impiegati - operano quotidianamente 550 napoletani.

La ricerca condotta, con molta precisione, da Vincenzo Cuomo - noto studioso di storia patria - si augura altresì di contribuire ad arrestare l’opera di manomissione costante, di spoliazione sistematica ed i guasti di chi si illude che vi pos-sa essere progresso disperdendo o cancellando la “memoria storica” di una Città.

Al prof. Alfonso Scirocco, all’autore e all’editore che hanno permesso la realizzazione di questo la-voro, il più sincero ringraziamento.

Raffaele Di FioreConsigliere Pretore Dirigente

Il Convento di S. Francesco di Paola fuori le muraOspedale Carcere Preturadi Vincenzo Cuomo

Fratelli Fiorentino ed. - pp. 72

Convento, carcere, pretura: S. Francesco di Paola è un documento della storia politica, sociale, urbana di Napoli. Il completamento del complesso sacro nella forma che giungerà fino a noi e gli permetterà di ac-quistare nel tempo funzioni differenti è legato ad un momento doloroso della vita del Mezzogiorno: la pe-stilenza del 1656. Già dall’inizio del secolo non solo alla periferia, ma anche all’interno delle mura della capitale vicereale larghe estensioni sono occupate da monasteri degli ordini maschili e femminili, oltre trecento. Nella città spopolata dall’epidemia la paura dei moribondi e la religiosità superstiziosa dei sopravvissuti accresce il patrimonio del clero. “Li religiosi han fatto impoverire in questo regno e più precisamente nella nostra città di Napoli la maggior parte delle genti per le donazio-ni procurate da essi nella passata peste”, affermerà un cronista. Non è un caso se immediatamente dopo la peste i Padri Minimi, che hanno cura della cappella eretta nel Cinquecento dai fedeli presso Porta Capua-na, riescono a condurre a termine i lavori cominciati da decenni con un piano ambizioso per la costruzione di una chiesa imponente e di un grande fabbricato per i numerosi frati. Col tempo si incrementano proprietà e rendite del convento, che diventa uno dei più ricchi della città; si modifica il tessuto urbano, nella zona pri-ma periferica e poco e male abitata si infittisce l’edilizia, nasce un quartiere all’esterno di Porta Capuana, il bor-go S. Antonio Abate. Ricchezza e collocazione non più marginale nel contesto cittadino preparano all’edificio un nuovo destino.

Nel Settecento in tutta Europa l’Illuminismo spinge i governi a limitare i privilegi e la ricchezza, generalmen-te male amministrata e poco produttiva, della Chiesa. A Napoli, tra contrasti e accordi, in vari momenti tra i quali spiccano il concordato con Benedetto XIV del 1741 e l’espulsione dei gesuiti del ‘67, lo Stato cerca di sottoporre a tassazione il clero e le sue proprietà, di li-mitare il numero degli ecclesiastici e di ridurre gli ordi-ni religiosi. Il complesso di S. Francesco supera tutte le tempeste nate dal conflitto tra Stato e Chiesa. Viceversa è vittima di un’altra grave congiuntura. Quando sul fi-nire del secolo la rivoluzione francese infiamma l’Eu-ropa, anche il regno borbonico è costretto a schierarsi in difesa delle monarchie legittime. Gli avvenimenti incalzano. Il 2é aprile 1792 l’Austria apre le ostilità; il 10 agosto l’assemblea legislativa sospende Luigi XVI dalle funzioni regali; il 20 settembre la cannonade di Valmy ferma i prussiani; la guerra lambisce l’Italia per l’occupazione della Savoia da parte dei francesi. A Na-poli si seguono con trepidazione e sdegno crescente gli

avvenimenti parigini, l’umiliazione della monarchia, la decapitazione del re e di Maria Antonietta, sorella di Maria Carolina. Fin dal 1789 si interrompe il fervore di riforme che ha caratterizzato l’avvento della nuova dinastia, le risorse del paese sono mobilitate per raf-forzare l’esercito. Forse per questa ragione il convento e la chiesa di S. Francesco sono incamerati dal dema-nio. La chiesa, chiusa al culto, andrà in rovina e sarà demolita; il convento sarà riadattato e convertito ad al-tra funzione. La riutilizzazione per l’edilizia civile degli edifici religiosi è un fatto frequente. E’ avvenuto con i Borboni per i beni dei Gesuiti. Avverrà di nuovo sotto i Napoleonidi, quando saranno soppressi gli ordini mo-nastici contemplativi (1807) e tutti gli ordini possidenti (1809), 212 conventi maschili e femminili.

Nella capitale e nelle province gli edifici tolti alle comunità religiose diventano sede di uffici pubblici, scuole, biblioteche, ospedali, caserme. Il convento di S.

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Francesco diventa ospedale per de-tenuti: una destinazione risponden-te alla maturazione di una moderna civiltà giuridica.

Dalla metà del Settecento, da quando il saggio Dei delitti e del-le pene del Beccaria ha infiammato il dibattito sulla riforma del diritto penale, il problema delle carceri ha assunto un’importanza nuova. Nel-la scala delle punizioni previste per chi infrange la legge acquista impor-tanza prevalente la privazione della libertà personale per un tempo più o meno lungo. La detenzione è in-sieme espiazione del delitto, risar-cimento del danno sociale, mezzo di redenzione del reo. Ec co, allora, l’attenzione all’edificio carcerario, alle strutture che possano agevo-lare la sorveglianza, e permettere il raggiungimento del doppio sco-po di sottoporre il detenuto ad una sofferenza e di avviarne il recupero. Ecco, anche, l’attenzione alla situa-zione igienica, l’impegno dello Sta-to ad assicurare condizioni di vita decenti. In tutta Europa filantropi e studiosi si occupano dei vari aspetti dell’universo carcerario. Un inglese, John Howard, pubblica nel 1777 una inchiesta, The State of Prisons, in cui espone i risultati di un viaggio che lo ha condotto a visitare le prigioni in-glesi, olandesi, tedesche, danesi, sve-desi, russe, polacche, svizzere, bel-ghe, francesi, spagnole, portoghesi, italiane. Dovunque trova corruzione morale, sporcizia, malattie. L’impe-gno dei governi per assicurare ai de-tenuti più umane condizioni di vita è insufficiente.

Nel regno borbonico le cose non vanno meglio. Sul finire del seco-lo nelle province e nella capitale le autorità segnalano locali malsani, affollamento, ricorrenti malattie infettive. La decisione di dedicare una struttura apposita ai detenuti ammalati, presa nel 1792, è una di-mostrazione di sensibilità, di parte-cipazione all’evoluzione della cultura europea, tanto più lodevole quanto più lontana dalla preoccupazione per le riforme è la situazione politica del regno. E’ una decisione che ri-specchia la superiore intelligenza del Medici, futuro ispiratore della poli-tica borbonica durante la Restaura-zione. La decisione, rispondente allo spirito dei tempi, sarà portata alla sua realizzazione nel Decennio, nel

fervore di rinnovamento dello Stato sul modello francese che investirà il Mezzogiorno.

Dopo l’eversione della feudalità, unica fonte del diritto ed unico ti-tolare dell’amministrazione della giustizia è lo Stato, che fissa nei co-dici norme giuridiche certe ed uguali per tutti, distribuisce sul territorio i tribunali, nomina e stipendia i ma-gistrati, punisce i rei: uno Stato che si assume il diritto-dovere di indiriz-zare e sorvegliare la vita dei sudditi, che allarga il campo della preven-zione e della repressione, che affida anche al controllo dell’ordine pub-blico il consolidamento dell’assetto borghese della società. L’apparato poliziesco accresce la sua efficienza. Il carcere diventa il luogo privilegia-to della punizione del crimine. Con i codici e l’ordinamento giudiziario anche i regolamenti carcerari sa-ranno ereditati dal Borbone al suo ritorno nel 1815. Nel rafforzamento delle misure di controllo il convento di S. Francesco, trasformato in car-cere con costosi lavori, conserverà per decenni il particolare carattere di ospedale.

L’ultima trasformazione è legata allo sviluppo demografico ed edili-zio di Napoli. La zona in cui è sorto il complesso religioso non è più fuori dalle mura, e neanche alla periferia della città. Nel corso dell’Ottocen-to l’abitato della città si è esteso. S. Francesco, diventato carcere comu-ne, è circondato di case, di negozi, di botteghe artigiane. La presenza di questo, e di altri istituti carcerari nel cuore dell’abitato è socialmente pericolosa. In una zona (allora) pe-riferica, all’inizio del Novecento si costruisce un grande complesso car-cerario rispondente a quelli che sono (allora) i dettami della sicurezza e dell’igiene. L’edificio di S. France-sco assume nuova dignità. Nel 1808, con l’introduzione dell’ordinamen-to giudiziario di stampo francese, sono stati istituiti i giudici di pace, uno per ogni ripartimento, nominati per tre anni tra i proprietari domi-ciliati in loco con competenza non molto estesa nel ramo penale (sulle trasgressioni per le quali la legge ir-roga una pena non superiore a gior-ni dieci di carcere e una multa non maggiore di ducati venti) e nel ramo civile, e con compiti di polizia: per Napoli se ne nomina uno per ciascu-

no dei dodici quartieri, e la sua sede è nel quartiere stesso, in modo che la giustizia sia vicina al suo utente. Con la Restaurazione al giudice di pace subentra il giudice di circon-dario, con attribuzioni non diverse da quelle del suo predecessore, nel-la capitale ugualmente uno per ogni quartiere, con sede nel quartiere. Fatta l’unità d’Italia cambia anco-ra la denominazione del magistra-to monocratico, ma non mutano i suoi compiti e la sua localizzazione: abbiamo il pretore, ma continua la sua presenza nel quartiere di compe-tenza. Nel 1924, passato al comune l’onere di provvedere alla sede per le preture, si decide, con una decisione che dovette essere traumatica per i contemporanei abituati ad avere vicino il giudice per le questioni più attinenti alla vita quotidiana, di con-centrare in un solo edificio le preture della città. E’ scelto S. Francesco, che si trova libero, con una disponibilità, dice il suo storico, di 199 stanze. In favore di questa destinazione gioca la vicinanza di castel Capuano, dove dall’epoca di Don Pedro di Toledo sono stati accentrati i principali tri-bunali del regno. Non più convento, non più prigione, l’edificio costruito nel Seicento ha una ulteriore, impor-tante funzione pubblica, continua ad essere una presenza rilevante nella vita sociale cittadina.

È l’ultima metamorfosi, o lo at-tendono nuovi destini? Questo ce lo diranno gli storici futuri.

Alfonso Scirocco

Due poeti americani

Nat ScammaccaStanley H. Barkan

Cura e traduzione diEnzo Bonventre

Casa Editrice Il SaliceMarzo 1944

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Rassegna Libri Premi Mostre

Hobbes ridePoesie di Gaetano Assante

L’Atore Libri Fienze ed.(Romanzi, racconti, diari, biografie...) - In cop. Pissarro, I tetti rossi (part.)

Le 54 poesie della raccolta, divisa in due steccati, 20 in “questa vo-race assenza di memoria”, 34 in “Hobbes ride”, costituiscono “un incesto affascinante del creato” esi-stenziale, sottoposto a raggi ultra-violetti ovvero ad una sorta di esa-me autoptico, che offre al lettore un risultato di ardita conclusione, rap-presentando, secondo le convinzio-ni dell’autore, il punto di partenza della ribellione.La stupefacente fotografia dei luo-ghi disegnati sul vortice della me-moria partorisce la poesia dell’a-maro risveglio, a contatto di pelle con la realtà rivissuta, riesplorata e rielaborata in ogni suo minimo particolare.

I versi vengono fuori con veemente intensità, seminando rovi, bagliori im-provvisi, appassionata autocritica fino a delineare un quadro di sferzante liricità e di sconvolgente verità.La citazione di alcuni brevi passi della raccolta, oltre alla riproposta di una vibrante musicalità, costituisce un omaggio alla liricità di Gaetano Assan-te, che fa il suo ingresso maestoso nel mondo della poesia con l’esperienza di un magistrato d’assalto, capace di sviscerare il quotidiano nella sua ter-rificante testimonianza:

“vivere oggi è memoria di scale...”“porti nel sacco a pelo un mondo immobile...”“il sole si frantuma tra le grate...”“dentro la nebbia degli allucinogeni divaricati sogni hanno i ragazzi...”“la mia età ha la fretta dell’ultimo sole di settembre...”“scoprire la vita come andare a funghi...”“agli animali impellicciati preferisco il doloroso porcospino...”

Perché Hobbes ride? Il titolo è alquanto ermetico ma originale. La poe-sia va soltanto interpretata, in base alla propria sensibilità, mai spiegata, come una lezione di storia o di politica. Possiamo concludere, sulla base delle nostre convinzioni, dopo aver let-ta e riletta la raccolta, che per il grande filosofo inglese, Thomas Hobbes, soltanto le api e le formiche sono animali politici. L’uomo, per via del suo naturale egoismo, non è un animale politico per virtù vocativa, ma sempli-cemente per necessità sociale. Il riso di Hobbes, intravisto dall’autore e tradotto in versi, evidentemente si sprigiona dall’amaro risveglio, come per esempio la caduta del muro di Berlino, che suona come una condanna storica per l’idea del comunismo.

Ferdinando Spano

La Maremma cantava il suo agostodi Giuliana Matthieu Chiocchini

Editrice Nuova Fortezza

Ad un lettore poco attento e rifles-sivo il libro di Giuliana Matthieu Chiocchini potrebbe apparire solo ed unicamente una raccolta di racconti. Racconti ben scritti, di grande spessore e con un indubbio risvolto psicologico. In realtà esso è invece qualcosa di gran lunga supe-riore, in quanto in possesso anche di un significato esistenziale e di un messaggio di notevole profondità. Nella rievocazione della vita e del-la morte del giovane figlio Antonio, deceduto drammaticamente du-rante una calda giornata d’agosto, è presente infatti pure una tratta-zione filosofica sulla vita, la morte, il destino e la religione. Il tutto con alle spalle quell’antica Maremma, muta testimone di questa trage-dia. Non solo, ma anche millenaria presenza nel cuore dell’umanità, con i suoi scenari naturali di luce e vegetazione e quell’atavico senso di mistero che sembra avvolgerla,

proteggerla ed isolarla. In tale li-bro, tra l’altro, essa sembra abban-donare pure la propria collocazio-ne storico-geografica, per divenire una realtà a sé stante, quasi mistica e fiabesca, nella quale si muove la Matthieu con i suoi sentimenti ed il suo dolore di madre. I ventuno racconti, di breve stesura ed eleganti nella forma, sembrano essere slegati tra loro, mentre as-solutamente non lo sono in quanto il filo conduttore è Antonio: il ven-tenne centauro, protagonista della sua vita e di quella della mamma. Il lamento dell’autrice, che sul filo del ricordo piange il figlio morto, mai però appare fastidioso, anzi, al con-trario, in quanto è un dolore forte,

virile, intriso di pudore e dignità. E’ quasi un melodioso canto che spa-zia tra la vita e la morte, subliman-dosi in una dimensione superiore che le avvolge entrambe.A questo punto il mio pensiero sa-rebbe incompleto se non mi sof-fermassi anche sulle rare qualità espressive, nel campo della lette-ratura, di cui è dotata la Matthieu. La sua prosa, indubbiamente af-fascinante e persuasiva, è dotata pure di una sublime capacità di penetrazione e magistrale descri-zione dell’azione. Per cui ecco che la rievocazione, i personaggi, i luoghi ed i paesaggi, subito ci ap-paiono intensi, chiari e vibranti. Anche sentimento e sensibilità

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sono degni di nota, in quanto vi si avvertono spontaneità, affetto fa-miliare e senso religioso della na-tura, ma pure quella provvisorietà di cui è intrisa la nostra condizione umana. Infine, non possiamo non rilevare altresì la totale assenza di qualunque ampollosità, prolissità o retorica, in quanto nell’opera tutto

è drammaticamente vivo e realisti-co. I concetti sono nitidi, semplici ed efficaci, mentre l’immenso do-lore dell’autrice ci appare come un granitico monumento, che si eleva verso i cieli più lontani alla ricerca dei temi eterni dell’uomo e del suo mistero.

Vincenzo Cuomo

Palluccella, ‘o Stuorto e ‘o Scartellatodi Vincenzo de Meis

Ed. Esselibri - Simone

Non è certo prerogativa esclusiva dei napoletani quella di ribattezza-re il prossimo con nomignoli e stor-piature del nome; ma qui l’usanza è certo più diffusa che altrove e mag-giormente colpisce per l(inventiva con la quale vengono creati, talvol-ta senza neanche un pretesto appa-rente, gli appellativi più stuzzicanti accosto a quelli più ovvii e banali. Con questa breve raccolta l’autore non ha inteso compilare un elenco dei nomignoli in uso a Napoli; ope-ra ciclopica, se non impossibile, che avrebbe richiesto ben diversa qualità d’indagine e quantità di spazio. Viene qui proposto solo un breve campionario, selezionato fra quei soprannomi uditi direttamente dall’autore durante la sua perma-nenza in un vicoletto della vecchia Napoli durante gli anni dell’ultima guerra mondiale. Si vedrà che gran copia di quei titoli fanno riferimento alla pro-fessione propria del soggetto, o di un suo familiare, come nel caso di “donna Vicenza ‘a pumpèra”, dove la pumpèra è solo la sconsolata ve-dova di un pompiere. Numerosi sono i nomignoli ispira-ti da un difetto o malformazione fi-sica; peraltro non occorreva essere dotati di grosse deformità per en-trare a far parte del Gotha dei privi-legiati; era sufficiente una lieve ar-cuazione delle gambe per meritare

la denominazione di “’o stuorto”. Nel migliore dei casi si poteva sperare in un diminutivo, se l’in-fermità non era totale. Così chi era orbato di un occhio passava per “’o cecatiello”; se si vantavano grosse difficoltà di pronunzia, senza esse-re completamente muto, si poteva contare su “’o mutillo”, termine di-verso da “cacaglio”, che invece sta-va a indicare il balbuziente, come “mezalengua”. Il diminutivo, dunque, non sta-va solo a significare la giovane età del portatore di handicap ma, più spesso, a quantificarne la parziale infermità. Molte le derivazioni del casato, proprio o acquisito col matrimo-nio, come quella signora convolata a nozze col signor Pochet che, da allora, veniva identificata come “... chella ‘e Pochet”. Qualsiasi caratteristica poteva essere sfruttata e utilizzata per un nuovo... battesimo. Era sufficiente una breve permanenza all’estero per divenire “americano” o “tede-sco”, con prelazione riservata agli emigranti di ritorno in patria. Qualche volta si stanavano antichi soprannomi di famiglia, in disuso da generazioni, il cui ripristino ve-niva resto necessario dalla scarsità di requisiti da parte del catecùme-no. Alcuni di questi nomignoli resta-vano di oscuro significato per gli stessi portatori; così come “Muc-ciuèlla”, “Pappagnacco”, “Casizzo-ne”, restavano insolute incognite per i più, e venivano accettati senza eccessiva preoccupazione circa il loro significato. Le scarne note aneddotiche che qui vengono riferite riguardano personaggi ormai scomparsi e che forse mai più ritorneranno nel-

le strade di Napoli, nonostante che ancora gli sopravviva qualche barlume di quello spiritaccio “bef-feggiatore e arguto che, una volta, era appannaggio primo di questo allegro popolo”, come acutamente osserva Romualdo Marrone. Nelle citazioni originali si è avuta l’accortezza, quando è stato pos-sibile, di adottare testualmente lo stesso linguaggio usato da quei popolani, con tutta la particolare struttura sintattica e grammaticale che ne caratterizzava la parlata.

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Poesie sceltee documentidi Yves Lecomte

Ed. Tommaso Marotta (Na)

Il 14 aprile a Villa Pignatelli l’Associazione culturale “Ele-onora Pimentel de Fonseca” (presidente Carla Vidiri Vara-no, vicepresidente Vincenzo Cuomo) ha presentato il libro del poeta francese Yves Le-comte: Poesie scelte e docu-menti, Ed. Tommaso Marot-ta. Hanno illustrato l’opera il prof. Francesco D’Episcopo dell’Università di Napoli e la prof. Carla Vidiri Varano. Ha brillantemente introdotto e coordinato l’incontro il gior-nalista Ernesto Filoso. Nu-merose ed avvincenti poesie sono state lette da Mafalda Fontana Pappalarlo. In conclusione si è esibito il quartetto Lazzari Felici con antichi canti popolari napo-letani. E’ intervenuto l’autore che, oltre a leggere alcuni suoi componimenti in francese, si è espresso in termini assai elogiatici sia nei confronti della manifestazione dedica-tagli che della città di Napoli.

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I Bersaglieri ieri oggi e domanidi Vincenzo Cuomo

Edito dal Comando dell’Ottava Brigata Bersaglieri di CasertaEdizione fuori commercio

In occasione del 158° anniversario di fondazione del Corpo, l’VIII Brigata Bersaglieri “Garibaldi”, con sede a Caserta, ha inteso cele-brare l’avvenimento pubblicando un volume sulla prestigiosa e lu-minosa storia dei Fez Cremisi. L’opera è stata realizzata dallo sto-rico Vincenzo Cuomo, già noto nel panorama militare della nostra Nazione per precedenti lavori, tra cui non si può non ricordare “La legione Carabinieri di Napoli”. Alla stesura dell’elegante e raffinato libro hanno ampiamente con-tribuito, con autorevoli scritti, sia il generale comandante la Brigata Aldo Di Mascolo che il Capo di Stato Maggiore Colonnello t. SG Sil-vano Bigongiari. Il volume è anche corredato da una lunga serie di foto. Quelle d’epoca sono state inserite in relazione al testo, mentre quelle recenti, inerenti l’impiego e la preparazione dell’VIII Brigata, sono state invece collocate alla fine. A chiusura troviamo pure una pagina nella quale sono stati evidenziati tutti i Reggimenti e i Bat-taglioni che compongono tale prestigiosa unità da combattimento. Il testo, che è una vera e propria pagina di storia d’Italia, filtrata attraverso questo prestigioso Corpo, affronta l’volversi, l’impiego e l’affermazione dei Fanti piumati dal momento in cui La Marmora fondò la specialità sino ai nostri giorni. I Bersaglieri infatti, nati nel Regno di Sardegna nel lontano 1836, si distinsero durante l’arduo e difficile cammino risorgimentale, per poi continuare a restare indi-scussi protagonisti dei campi di battaglia anche dopo l’unità. Scor-rono così ancora sotto i nostri occhi l’arrivo nel Mezzogiorno nel 1860, la lotta contro il brigantaggio, le imprese coloniali, la conqui-sta della Libia, la grande guerra, la nascita dell’Impero e il disastro-

so secondo conflitto mondiale. Occasioni, comunque, che sem-pre hanno consentito a queste truppe, fez pendente o piume al vento, di scrivere una bella pagi-na di storia militare. Oggi, ancora attivo e operan-te, il Corpo dei Bersaglieri, così come conclude la sua opera l’Autore, è “una struttura com-plessa e bene amalgamata nel panorama delle forze armate italiane. Altamente addestrato ed in possesso di una rara pro-fessionalità, appare quindi mili-tarmente idoneo per ogni tipo di impiego. Esso è però anche un chiaro punto di riferimento per la nostra passata storia, simbolo di devozione alla Patria, garan-zia di tutela per le nostre tradi-zioni, nonché severo custode di quel cammino risorgimentale voluto dai nostri Padri. I Fanti piumati sono tuttavia pure la certezza del rispetto delle Isti-tuzioni democratiche, della di-gnità dell’uomo e della sacralità della vita. Ciò, non solo in Ita-lia, quanto soprattutto durante i loro interventi fuori dai confini nazionali”.

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Claudia Ferrai - III G - a. sc. 1993/94

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