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Motivi Raffaele Castagna

Sono stati restituiti all’isola d’Ischia i marmi votivi alle Nin-fe Nitrodi, rinvenuti nel secolo XVIII (in altra parte del gior-nale ne presentiamo una detta-gliata descrizione) e conservati finora al Museo Nazionale di Napoli. Essi dovrebbero arric-chire il patrimonio archeologico e culturale del Museo di Villa Arbusto, ma al momento si tro-vano, come tutti gli altri reperti di Pitecusa, chiusi nei depositi. Fino a quando?

Ovviamente tutto è legato alle vicende del museo. Il tempo passa infatti inesorabile e per il suo definitivo avvio si han-no sempre unicamente vaghe promesse e prospettive incer-te. Non si sa se effettivamente oggi ci sia ancora una concreta convinzione di concludere quel progetto iniziato molti anni or sono, quando tra l’entusiasmo generale si scelse il complesso di Rizzoli quale sede ideale per una esposizione museale.

Dove sono gli intoppi più rea-listici? Nessuno lo dice.

Una posizione chiara spe-riamo che possa e voglia as-sumere in proposito la nuova amministrazione comunale di Lacco Ameno cui darà vita la consultazione elettorale del 27 e 28 settembre, ponendo in pri-mo piano tra i propri obiettivi programmatici la realizzazio-ne del Museo di Villa Arbusto, anche per dare credibilità a va-rie manifestazioni del passato che hanno avuto la parvenza di inaugurazione della struttura.

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Il quadro politico isolano, in questi ultimi tempi, è stato ca-ratterizzato da una serie di at-

teggiamenti e di iniziative che dimostrano il declino del “parti-to”, del “gruppo” (gli ideali legati a questa o a quella visione della società) e la prevalenza sempre più specifica del senso e dell’a-spetto particolare (individuale) che poco concede alla collegia-lità e alla dialettica tendenti a concretizzare una conclusione unitaria, pur partendo da posi-zioni divergenti e contrastanti. Ne scaturiscono una conflittua-lità permanente e profonde la-cerazioni che spesso sono poco propizie per una corretta e pro-duttiva fase amministrativa. Il fenomeno si manifesta anche in quei centri in cui vige il sistema elettorale maggioritario che da molte parti si vorrebbe estende-re a tutti i comuni, senza tener presente il numero degli abitan-ti.

Nell’isola d’Ischia il partito che maggiormente mostra quan-to sia difficile restare uniti è la democrazia cristiana; e ne sono testimonianza oggi le esperien-ze di Lacco Ameno e di Ischia, come in passato lo furono Casa-micciola e Forio. Né mancano analoghe situazioni negli altri gruppi politici. Viene così a cre-arsi un clima di continua incer-tezza nella gestione della cosa pubblica, con la conseguenza che tutti i problemi non tro-vano mai adeguata soluzione, anzi si accrescono sempre di più nei loro aspetti negativi a cau-sa di quella “politica del rinvio e dell’attesa” che rappresenta la linea più seguita e ricercata, anche perché impedisce scelte che possono provocare appunto contrasti e dissapori tra le varie componenti (e si potrebbe pur dire tra i molti esponenti delle alte sfere di potere).

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Anche la stagione turistica 1992 se ne va e vive il suo ultimo periodo (settembre - ottobre) con il pensiero rivolto ai mesi trascorsi e a far un po’ di conti, con la speranza di riequilibrare qualche vuoto provocato da un afflusso non rispondente alle at-tese. Le voci maggiormente cor-renti sono state infatti, come al solito, improntate ad una dimi-nuzione degli arrivi, ma i bilanci bisogna trarli sempre alla fine.

Per quanto concerne l’anda-mento generale, nulla di nuo-vo sotto il sole “ischitano” con i problemi che da tanti anni si presentano (traffico, trasporti, caos, servizi insufficienti.....), con le lamentele abituali, con i grandi quotidiani e periodici interessati a quest’isola, ma sol-tanto per riproporre, sotto gran-di titoli, i soliti argomenti della speculazione edilizia, della ma-lavita e di situazioni negative.

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La situazione economica ita-liana di cui tutti abbiamo appre-so la gravità attraverso giornali, radio e TV, ci ha fatto capire che da parte dei vari responsabili e competenti l’unico rimedio pos-sibile è stato posto nel taglio alle spese e nell’aumento di tasse e imposte. Mai si è sentito parlare invece di richiamare e di impe-gnare coloro che occupano posti decisionali verso una più ocu-lata e saggia amministrazione delle risorse disponibili, evitan-do sprechi e progetti irrealizza-bili. Eppure questa dovrebbe essere l’unica strada possibie.

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Don Pietro Monti ha festeggiato i 50 anni di sacerdozio

L’archeologo e lo storicodi Vincenzo Mennella

Scopertasi quasi per caso la voca-zione per l’archeologia, è diventato negli anni archeologo provetto, ma ha conservato del dilettante tutte le caratteristiche più distintive ed interessanti: entusiasmo, desiderio di partecipare con immediatezza agli altri le proprie scoperte, disim-pegno da qualsiasi scuola, genuini-tà nella lettura delle scoperte. Tutto questo lo ha portato ad una concezione che potremmo definire ciclica del suo lavoro. Lo studioso di professione, specie l’archeolo-go, è abituato a fare i conti con i tempi lunghi, lavora, cioè, per la prospettiva. Pur essendo orgoglio-so delle sue scoperte, il professio-nista è pago del contributo che dà alla ricerca, che ha sempre un pri-ma e un dopo, che quasi sempre si distanziano di molto tra loro. Per l’autodidatta non sempre è così. Esso vuole concretizzare di volta in volta. Vuole una risposta imme-diata dalla scoperta e passa dal rin-venimento del reperto allo studio, al suo restauro, alla catalogazione, all’esposizione, alla divulgazione anche attraverso la pubblicazione fatta da lui stesso, se ne è capace. E così Don Pietro ha fatto tutto da sé. Certo con il contributo di altri studiosi, con il sostegno di qualche istituzione più sensibile, con l’aiuto di qualche mecenate. Tutto ciò che riusciva a racimolare subito tra-sformava in opere. E la credibilità di ciò che realizzava rappresentava valida credenziale per chiedere an-cora. Ha cominciato negli anni cin-quanta. Era il giovane Rettore che sperava di trovare testimonianze alla tradizione che voleva che una parte delle Spoglie di S. Restituta fosse custodita sotto la chiesa. Co-minciò a scavare. Forse non trovò il

tesoro che il contadino della favola aveva promesso al figlio, ma, come il figlio del contadino, col suo lavo-ro trovò una ricchezza ancora più grande, trovò le vestigia del culto, le radici della storia, ma principal-mente trovò il germe di una nuova passione: accanto al rettore zelante nasce e cresce nei decenni successi-vi l’archeologo e lo storico. Tutto quello che oggi, a miglia-ia, vengono ad ammirare sotto la chiesa di S. Restituta è il frutto tan-gibile del suo lavoro. Ogni anno il visitatore che viene da fuori trova qualcosa di più. Mentre la chiesa si abbellisce, si restaura nella strut-tura, diventa Santuario, prende corpo anche la sistemazione del Museo, offrendo al visitatore pa-gine sempre più complete di storia locale, arricchita da testimonianze provenienti da tutta l’Isola e non solo dall’Isola. Ispettore onora-rio dei Beni culturali, Don Pietro scandaglia l’Isola palmo a palmo, senza trascurare le coste e i fondali e scoprendo sempre nuove testi-monianze che suffragano talune sue teorie. Presto diventa un rife-rimento scientificamente affidabile per chiunque si trovi tra le mani un qualche reperto restituito dal sotto-suolo nel corso di lavori e, sensibile alla ipotesi che possa trattarsi di rinvenimento significativo, ne vo-glia capire l’importanza. I ragazzi-ni di lacco, invogliati da Don Pietro a rendersi utili in questa opera di recupero di ciò che il sottosuolo cu-stodisce, prima di usare come “pa-store” per i propri giochi i cocci che rinvengono, specie lungo le pendi-ci di Montevico, li portano a Don Pietro e sono orgogliosi quando riescono a reperire oggetti in zone inaccessibili al maestro. Ma anche

questo è già tanto lontano da noi. Oggi non si gioca più con le cosid-dette pastore! E intanto cresce il suo patrimonio culturale. Alle rare assenze di Don Pietro dalla chiesa di S. Restituta corrispondono vacanze di studio nelle località del Mediterraneo che storicamente sono legate alle nostre terre e alla nostra civiltà. E torna sempre, oltre che con una ve-rifica sul caòpo di quanto scoperto a distanza, anche con qualche inte-ressante reperto “racimolato”, non sappiamo quanto legittimamente, e destinato ad arricchire il suo Mu-seo. Si sa che gli scambi culturali sono sempre giustificati! Temerario nella prima fase degli scavi, lo hanno fermato in tempo, prima di mettere in forse la stessa stabilità della chiesa. Chiede aiuto alla tecnica e va avanti con sempre maggiore sistematicità e program-mazione. Poi vengono i lavori di ricostruzione del municipio e Don Pietro diventa un secondo diretto-re di cantiere, per fare in modo che l’opera fosse anche rivolta a faci-litare il suo intento di utilizzare al meglio ogni spazio possibile per il suo Museo che si va, così, sempre più ampliando. Oggi gli scavi di S. Restituta rappresentano una in-teressante passeggiata attraverso i

Don Pietro Monti, rettore del Santuario di S. Resti-tuta, Ispettore Onorario delle Antichità e dei BB. AA. di Lacco Ameno, ha festeggiato il 5.7.1992, i 50 anni di sacerdozio.Nell’occasione il prof. Vin-cenzo Mennella ne ha trat-teggiato la figura e l’opera di archeologo e storico con lo scritto che qui pubbli-chiamo.

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secoli, meta di migliaia di visitatori isolani e turisti ed in particolare di tutte le scuole dell’Isola e di quelle che vengono in escursione sull’Iso-la. Ovviamente l’ansia del ricerca-tore si è dovuta fermare a livello del mare, oltre il quale, non ha trovato traccia di vita, nonostante il bradi-sismo. Ma ormai la passione lo ave-va preso e quello che non può più trovare in profondità, Don Pietro lo va a cercare in estensione. L’esplo-razione interessa tutto il territorio di Lacco e poi quello isolano. E se non sono reperti archeologici, sono testimonianze di vita artigianale o contadina, come utensili ed attrezzi di lavoro, da tempo in disuso. Tut-to suscita l’interesse del “curioso”, e per ogni ritrovato c’è o si crea un posto adatto nel percorso museale. E anche questa è un’opera altamen-te meritoria al fine della conserva-zione. Come quella del pittore che

ferma sulla tela momenti di vita che saranno nel tempo testimonianze uniche di un determinato periodo storico, allorché il progresso avrà cancellato dall’uso giornaliero stru-menti ed abitudini, così l’angolo del Museo destinato alla esposizione di attrezzi che, pur essendo non anco-ra cancellati del tutto dalla nostra memoria, sembrano distanti da noi secoli, rappresenta l’unica possibi-lità che i posteri conoscano certe abitudini degli antenati. Ma Don Pietro non si è fermato al rinvenimento, al restauro, alla esposizione. Tutto ciò che egli ha rinvenuto, studiato ed esposto è anche stato da lui pubblicato. E le pubblicazioni di Don Pietro sono numerose e talune sono una mi-niera inesauribile di notizie, inter-pretate e legate tra loro. In tutte le scuole e le biblioteche dell’Isola è fonte insostituibile di consultazio-

ne il volume Ischia, archeologia e storia. Talvolta è difficile stabilire se la ri-cerca segua un disegno che l’autore ha già in mente o la tesi prenda via via corpo in una lettura scientifica-mente verificata del frutto della ri-cerca. E in ciò sta il pregio e il limite dell’autodidatta. Il fatto che, come si diceva, non c’è stretto legame con alcuna scuola, rende certamen-te la interpretazione più libera e talvolta viene facilitata quella intu-izione che costringe a riflettere an-che l’addetto ai lavori più ortodos-so, sempre che quest’ultimo non si lasci condizionare da una concezio-ne esclusivistica, che porti a bolla-re di eresia ogni lettura diversa da quella ufficiale. E Don Pietro ne sa qualcosa. Prima di essere accettato dalla archeologia ufficiale, ha dovu-to subire critiche severe, dalle quali ha saputo difendersi, sia sul piani culturale, che su quello operativo. E il piano operativo è stato quello che gli ha dato un notevole vantag-gio, perché Don Pietro ha la stoffa del manager, nel senso migliore del termine. Ho già avuto modo di ricordare, in altra circostanza, la ferma determinazione con cui Don Pietro ha saputo far valere le esi-genze della sua iniziativa culturale anche nei confronti dei Comune, in sede di ricostruzione di tutto il complesso che ospita il municipio e la maggiore estensione degli scavi. Il buon senso e il comune interes-se per le iniziative culturali hanno consentito sempre di trovare solu-zioni eque ai problemi via via che essi sorgevano. Erano però anche altri tempi; tempi nei quali ancora aveva senso l’omnia munda mun-dis di manzoniana memoria. E in una ottica di convinta collabora-zione, devo collocare il ricordo di una circostanza emblematica, che mette ancora una volta in risalto la passione di Don Pietro e la sua preoccupazione sul futuro della sua iniziativa. C’è stato un momento in cui tra le tante modifiche anche strutturali che andava realizzando in tutto il complesso, Don Pietro ipotizzò e non ricordo se addirit-tura, sia pure per poco, realizzò una rettifica al muro di confine tra il cortile della chiesa e quello

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del municipio, in modo da rende-re autonomo l’accesso agli scavi, spinto dalla preoccupazione che un eventuale diverso affidamento della Rettoria di S. Restituta, allora nell’aria, avesse a determinare un qualche disimpegno nella gestione del Museo, ancora non completo, se affidata, insieme alla Rettoria, a chi non avesse la sua stessa passio-ne. Fortunatamente tutto rientrò nella normalità, per cui oggi gli sca-vi rappresentano una struttura uni-ca, giuridicamente appartenente al santuario, per la quale, tuttavia, si potrà sempre studiare una conve-niente forma di convenzione, per assicurarne una gestione adegua-ta, nell’interesse della collettività e della cultura, in armonia con tutte le altre iniziative pubbliche, che fanno di Lacco Ameno un centro di richiamo culturale di rilievo inter-nazionale. E sarà il consolidamento dei meriti acquisiti da Don Pietro e dalla Chiesa isolana. Non è facile né è mia intenzio-ne, ammesso cche ne avessi titolo, scendere nel merito delle pubbli-cazioni di Don Pietro, né appare necessario illustrare il Museo, cosa che è stata magistralmente fatta da competenti. Mi pare, tuttavia, opportuno cogliere qualche nota-zione, che inquadri la personalità e l’opera dell’autore, in armonia con quanto già son venuto dicendo. Nella introduzione all’ultima pon-derosa fatica di Don Pietro, Ischia altomedievale, Gerardo Sangerma-no sottolinea come nella meritoria opera di ricercatore e di promotore di cultura, Don Pietro sia mosso dal “sanctus amor patriae”, indagando i tempi e di toni della vita di Ischia altomedievale, per capire che cosa accadde nel periodo storico dopo il tramonto definitivo dello splendo-re della greca Pithecussai e il fio-rire di Aenaria romana. ma qual è la patria cui allude il Sangermano? Per il Sacerdote non può essere che l’umanità. Per il ricercatore è cer-tamente l’Isola, mentre un amore incommensurabile per Laco si può cogliere qua e là nelle opere dell’au-tore. Un bel campanile non guasta mai, se da esso è possibile ammira-re orizzonti senza confini. E questo

santo amore per il luogo nativo non fa velo al dovere di obiettività dello storico. Ed egli nella premessa allo stesso libro manifesta vivo il desi-derio che il lavoro, “che vuole ac-cendere un po’ di luce tra le tenebre del periodo altomedievale dell’Iso-la d’Ischia, venga bene accolto da-gli studiosi, cui particolarmente è rivolto. Certo resta la differenza cui si accennava prima, tra lo scoprito-re isolato e il seguace di una scuola. Le sue intuizioni non devono sem-pre essere prese per verità assolute, ma sono pur sempre intuizioni che fanno discutere, e questo è impor-tante. La comparazione con altre ipotetiche verità è sempre possi-bile, anzi auspicabile, perché uti-le; come quando, ad esempio, egli immagina che non una, ma tante erano le Pithecussai sul territorio isolano, localizzate nei punti di più facile accesso dal mare. Punti che, secondo la felice intuizione dell’au-tore, dovevano rappresentare come delle tappe anche per una sorta di via del mare per il collegamento tra le varie località dell’Isola, allo-ra non raggiungibili facilmente via terra, intuizione che ci fa pensare all’attuale percorso del metrò del mare. Don Pietro ricorda nel libro citato come il traffico con barche a remi fosse allora molto più comodo e redditizio di quello fatto a piedi. E’ anche questa una teoria che, però, nulla toglie alla primogenitura del-la Pithecussai che tutti gli studiosi, compreso ovviamente Don Pietro, localizzano ormai con certezza nel territorio di Lacco Ameno. Altra notazione che colloca l’opera di Don Pietro tra quelle da consultare da chi voglia conoscere, come egli stesso dice, “l’affascinante storia della nostra bella Isola, sta nell’ot-tica che l’autore dà alle sue ricerche e che fa dell’archeologo lo storico. Tra le sue pagine, infatti, si ritro-vano accurati e chiari riferimenti alle tipologie delle culture, ai mo-vimenti devozionali, ai loca sancto-rum, alle fondazioni monastiche con l’analisi delle costituzioni pa-trimoniali. Ma lo studio dello stori-co di Lacco Ameno, secondo quan-to nota l’introduttore citato, si apre

poi a più seducenti e intriganti pro-spettive, quando indaga i problemi del commercio, quello della vita domestica nei suoi usi e costumi, ma anche negli arredi e nelle pra-tiche dell’igiene quotidiano o quelli della pesca, spesso unica scelta di vita per le genti dell’Isola, esami-nata sia come attività economica che negli aspetti relativi al prodotto pescato, agli attrezzi e alle tecniche. Nel caso di Don Pietro, è sempre il Sangermano che parla, il significa-to di “storia locale” si muta più cor-rettamente in quello di “storia tota-le” di un determinato territorio ben definito dalla natura e dalla storia, alla comprensione della quale certo non fanno velo neppure alcune “in-genuità” dell’autore, giustificate sia dall’entusiasmo con cui egli, vero “genius loci”, affronta lo studio delle vicende alterne della propria “piccola patria”, sia dalla fatica, an-che fisica, che sempre accompagna la ricerca e la successiva esposizio-ne della stessa. E, per concludere queste diva-gazioni sull’attività di Don Pietro, frutto, tra l’altro, di lunga dimesti-chezza in decenni di quasi coabita-zione, durante i quali non è manca-to qualche momento in cui i ruoli si sono anche dialetticamente distin-ti, mi piace additare alla pubblica riconoscenza la fatica non sempre e da tutti adeguatamente apprezza-ta del nostro festeggiato, ricordan-do la sommessa considerazione, citata sempre dal Sangermano, di un anonimo Cassinese: “qui nescit scribere credit nullus esse laborem, sed qui habet intentos oculos et in-clinata cervice, tria digita scribunt, sed totum corpus laborat”. Una libera traduzione di questo latino approssimato può essere: Chi non conosce il mestiere dello scrivere crede che non ci sia lavoro in esso; ma per chi deve avere gli occhi at-tenti e il capo chino sulle pagine da rieòpire, tre sono le dita che scrivo-no, ma è tutto il corpo che fatica. E tu l’hai sperimentata questa no-bile fatica, e di ciò noi ti siamo gra-ti. E aggiungiamo l’augurio che tale fatica ti impegni ancora per molto.

Vincenzo Mennella

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Poesia in CampaniadiAntonietta Rossi e Carmine Negro

Da Ienco Elpidio a Elpidio Jenco

“Abbiamo gettato di là della siepe e dal rovo il fardello dei vostri cenci rettorici, che non sono tagliati per noi. Bisogna strapparli di dosso a tutta la vostra generazione ritardataria perché possa sentirsi vibrare su la pelle lo scroscio della nostra più vera poesia. Noi giovani ci prepariamo a questa divina fol-lia1”

Questo brano sintetizza me-glio d’altri il programma che animava Jenco e gli altri giova-ni intellettuali in questa zona di Terra di Lavoro nel primo No-vecento.

Tanto emerge dall’interes-sante convegno tenutosi nella Scuola Elementare “E. Jenco”

1 Crociere Barbare- Anno I n. 2, 15 marzo 1917

di Capodrise sotto il patrocinio dell’Amministrazione Provin-ciale di Caserta, del Comune di Capodrise e della Rivista Storica di Terra di Lavoro.

Dopo il rituale saluto delle numerose autorità intervenute l’incontro è stato aperto saba-to 9/5)1992 dalla relazione del prof. Carmine Cimmino, diret-tore della rivista citata sul tema “Per una biografia di Jenco2”.

Il relatore collocandosi “a metà strada tra rievocazione, testimonianza e storia”, ha vo-luto, con il suo intervento, dare un contributo per una più com-pleta conoscenza dell’uomo Jenco, all’anagrafe Ienco, nato il 9/2/1892 da una famiglia di piccoli commercianti in un pic-colo centro, Capodrise, dell’en-troterra casertano fortemente caratterizzato dal lavoro con-tadino e bracciantile. Il poeta è animato fin dagli anni giovanili, da uno spiccatissimo senso del “cenacolo di cultura” che ben presto lo porterà a collaborare alla rivista napoletana “La Dia-na” di Gherardo Marone e via via al pieno manifestarsi della sua maturità artistica nel clima spirituale di Viareggio dove ces-sò di vivere il 10/2/1959.

2 Per l’occasione è stato presentato un volume su Elpidio Jenco edito dal-la Rivista Storica di Terra di Lavoro Anno XVI, numero unico gennaio-di-cembre 1991.

Sabato 9 e domenica 10 maggio 1992 è stata ricor-data a Capodrise, in prov. di Caserta, la figura e l’o-pera dell’illustre concit-tadino nel 1° centenario della nascita (1892-1992)

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I lavori dopo un intervallo di musica classica, sono proseguiti con la relazione sulla “Cultura e Letteratura del I° Novecen-to” del prof. Tommaso Pisanti, dell’Università di Salerno.

Nel suo intervento, il prof. Pisanti, ha preso le mosse da alcune tra le più significative locuzioni della poesia di Jen-co “sorriso bianco” “silenzio di bronzo dei cipressi” per inserire l’esperienza artistica del poeta nell’ambito più vasto della lette-ratura e della cultura del tempo, evidenziando la rottura dell’ar-te in generale del I° Novecento con quella precedente. Se alla pittura classica tradizionale era subentrato l’impressionismo e quindi Picasso e il cubismo, se ai temi sentimentali del tipico Beethoven del “Chiaro di luna” Debussy, in un quasi omonimo componimento, aveva sostitu-ito con le sue dissonanze temi più intimistici ed evocativi del-le “impressioni”, nella poesia si abbandona il concetto di lettera-tura come copia, fotografia della realtà per evocare delle imma-gini, delle emozioni che vanno oltre il senso letterale del termi-ne. Jenco, pur distaccandosi dal futurismo e dal senso della velo-cità di un Marinetti, subisce in un primo tempo l’influenza del

Elpidio Ienco parla a Firenze per il “Nuovo Cenacolo Fiorentino” nel sa-lone dei Duecento di Palazzo Vecchio l’8 dicembre 1955. Gli è accanto il sindaco La Pira.

D’Annunzio filtrandolo, però, attraverso la sua continua espe-rienza esistenziale: è il poeta della “piccola realtà”, l’esponen-te di una “micropoesia” sotto certi aspetti assimilabile al Pa-scoli, è il poeta della realtà con-tadina della sua terra d’origine, della “luna fienaia”. Senza chiu-dersi nell’ermetismo di un Un-garetti, conosciuto a Napoli tra-mite la rivista “La Diana”, Jenco si batte per il riscatto sociale dei “suoi contadini” di cui conosce la fatica del vivere quotidiano, aderendo al socialismo. Il prof. Pisanti ha concluso il suo arti-colato intervento, collocando la figura artistica di Elpidio Jenco fra i poeti pre-ermetici.

La manifestazione, arricchita dalla lettura di pregevoli liriche del poeta, è ripresa il giorno se-guente, domenica 10/5/1992, con l’interessante relazione del prof. Gaetano Andrisani su “Jenco e la Diana di Gherardo Marone”. L’intervento del prof. Andrisani, ricco di riferimenti documentari, fissa l’attenzione sul periodo giovanile del poeta soffermandosi sulla rivista “La Diana” ed i rapporti di Ungaret-ti con la rivista stessa e la nasci-ta di “Crociere barbare” a Capo-drise che egli definisce “la cre-atura di Jenco più tipicamente

legata alla sua attività giovanile e al luogo della sua origine non solo anagrafica ma soprattutto culturale3”.

“La Diana” non ha una linea propria ma è aperta all’influen-za e all’esigenza di chi vi opera e per questo aperta a recepi-re le voci nuove che vengono dal mondo della letteratura e dell’arte.

Per comprendere il clima che si respirava alla Diana il relatore sottolinea i rapporti che inter-corsero tra Ungaretti ed il diret-tore della rivista Gherardo Ma-rone che l’ospitò nel dicembre del 1916 a Napoli dove il celebre poeta ermetico avrebbe compo-sto la famosa poesia “Natale”. E’ tramite la rivista che Unga-retti venne in contatto con la poesia giapponese. L’esperienza di Jenco alla Diana è significa-tiva per la sua formazione , so-prattutto per la realizzazione di quella pubblicazione “Crociere Barbare” che a ragione viene considerata come la creatura più legata alla sua poetica gio-vanile. L’oratore, nel delineare la figura artistica del poeta in riferimento ai suoi animosi anni giovanili ha messo in evidenza, tra l’altro, l’inarrestabile senso del nuovo che animava Jenco e i suoi giovani amici intellettuali, come traspare dai versi “rivo-luzionari” con i quali abbiamo voluto aprire il nostro articolo e che sono senza dubbio fonda-mentali per tutta la futura pro-duzione del poeta.

Ha chiuso i lavori il prof. Al-merindo De Lucia che ha tenuto una vivace relazione sul “mes-saggio civile e poetico di Jenco”

3 Da “Gazzetta di Gaeta” Anno XX n. 6 pag. 6. Questo numero della “Gazzetta di Gaeta” riporta integralmente l’intervento dell’au-tore al convegno celebrativo di Capodrise con il titolo “Ungaretti, Jenco e La Diana”.

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esaltandone il rigore morale ed ideale.Questo convegno se non si ri-solve in un accademico ricordo od un non procrastinabile atto dovuto, può consentire una ri-appropriazione delle radici cul-turali della provincia di Caserta, una volta fertile Terra di Lavoro ed ora particolarmente colpita da una profonda crisi economi-ca ed ideale.

Uno studio più sistematico dell’opera del poeta Elpidio Jen-co e delle tante altre personalità del mondo dell’arte e della cul-tura di questa provincia posso-no contribuire ad una crescita civile e morale che sia in grado di dare alle giovani generazioni necessari punti di riferimento.

Antonietta Rossi Carmine Negro

Poemi della primalbaLa prima raccolta di liriche -

Poemi della Primalba - defini-sce a meraviglia i risultati delle lunghe, pazienti ricerche della giovinezza. Rapidi tocchi, ma calmi, sereni, in una intuizio-ne stupenda del mondo e della vita4.

Il “rivoluzionare il contropun-to e i vecchi metodi d’armonia, nella stessa misura che i poeti hanno usato con l’ortografia e la sintassi grammaticale” per Jen-co è soprattutto “la via d’acces-

4 Gaetano Andrisani - Elpidio Jenco nella poesia del Novecento - Capua Centro D’arte e Di Cultura L’Airone 1975 pag.16.

so ad una concisa potenzialità espressiva5”.

Interessante il testo di una cartolina postale scritta dal po-eta da Firenze a Gherardo Ma-rone in data 4 settembre 1918 che esprime le tensioni che ac-compagnano la pubblicazione di questa prima opera. “Sono sempre nervoso per i miei Poe-mi. Te li ho spediti ieri. Bisogna lanciarli degnamente. Perché è tempo di finirla col pensarci dei tentatori di nuove vie, e dei pro-mettenti. Noi siamo chi siamo. O la nostra poesia è tale da farci reputare già artisti poderosi e realizzatori effettivi di spiritua-lità urgenti, o lasciamo di fare questa stupida parte di deute-ragonisti sfibrati, nel codazzo di Papini e Compagni. Troviamo in noi le forze per affermarci. I miei poemi sono un avvenimen-to; ed io mi vergognerei di co-prire valori come un .... Venere dei Medici. In Francia a 25 anni si è già maestri6”.

5 Mirko Lami -Poemi della Primalba- Pezzini Editore Viareggio 1991 Prefazione pag.II.6 Gazzetta di Gaeta op. citata pag. 6.

Cortile chiuso

Un tuffo di mimosa biondasgronda, in silenzio,nella nebbia...

Congedo

È sempre in mequest’ansia inappagabiledi ascesa.

Mi libero negli spazida questo grumo di argilla pesa,e mi sento affiorarealla superficie dell’infinito,come una polla d’acquache salga dalle radicidel mare.

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Nella miniatura è raffigurato l’im-peratore Enrico IV che, scomuni-cato da Gregorio VII, si inginocchia ai pied di Matilde di Canossa, alla quale chiede intercessione oresso il papa. Sulla sinistra è Sant’Ugo, abate del monastero di Cluny.

Anche la Chiesa non fu esente da quel processo di rinascita e tra-sformazione che agli inizi del nuo-vo millennio percorse l’Europa. Vi furono dei profondi mutamenti che per alcuni aspetti costituirono una vera e propria rottura con il passato. Vi fu infatti una tendenza a desiderare il ritorno a quel puri-smo evangelico dei primi cristiani, un maggior desiderio di spiritua-lità e la volontà che gli alti prelati abbandonassero quella felice con-dizione di benessere che li faceva vivere una vita più vicina a quella di un satrapo che non a quella di un ministro di Dio; nonché la volontà che i monasteri ritornassero ad es-sere solo dei luoghi di preghiera e pratiche ascetiche. A tutto ciò va da aggiungere il desiderio di scegliere papi più vicini a Dio e lontani da interessi materiali, affinché l’Isti-tuzione, libera da qualunque con-dizionamento, specie laica, potesse ritornare ad essere la guida morale dell’umanità, mondata da corru-zione e legami politici. Il Papato, durante il periodo della dinastia Sassone, si era trasformato

in una appendice dell’Impero, con pontefici scelti dal sovrano e fedeli più a lui che alla Chiesa; ma ciò era già da considerarsi un progresso in confronto a precedenti momenti durante i quali il Soglio era stato preda di famiglie dell’aristocrazia romana. I vescovi, a loro volta, con l’inve-stitura feudale, ricevuta insieme a quella ecclesiastica, erano diventati sempre meno pastori di anime per tendere alla politica e alla guer-ra. Le funzioni civili e militari che ora svolgevano li portavano ine-vitabilmente a trascurare i doveri pastorali. Il vescovo del X secolo infatti non aveva più nulla di quel suo predecessore, eletto dal popolo e dal clero della Cattedrale, dedito solo a preghiere ed a proteggere i fedeli dai pericoli del mondo. Con la sua trasformazione a vescovo-conte, voluta da Ottone il Grande per arginare lo strapotere dei feu-datari, era divenuto soprattutto un funzionario imperiale, inteso più a difendere gli interessi del suo si-gnore che non quelli di Dio. Anche nel nascente regno di Fran-cia, nonché in quello di Inghilterra,

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le trattative. Infatti, queste cariche erano poste pub-blicamente in palio per il miglior offerente. Ciò fece sì che molto spesso la cattedra vescovile fosse occupata da persone indegne o addirittura da adolescenti, a cui il ricco padre aveva voluto creare un vitalizio ed uno stabile avvenire. Ugualmente non fu raro il caso di ve-scovi, così lontani da Dio e dagli interessi della diocesi, che pressati da necessità vendettero tutti quei beni che era possibile alienare: dai terreni agli arredi sacri. Ovviamente pure le parrocchie non furono esenti da questo processo di corruzione e mondanizzazione. Oltre la simonia, anche il celibato ecclesiastico era nei pensieri di coloro che desideravano una rinascita spi-rituale della Chiesa. L’argomento, nel corso dei secoli, era stato oggetto di lunghe ed appassionate diatribe, anche a livello conciliare, continuando sempre ad es-sere ben lontano da una definitiva sistemazione. Una sostanziale differenza interpretativa esisteva però tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente, in quanto la prima appariva di gran lunga più severa della seconda. La tolleranza della Chiesa di Roma aveva però gene-rato nel tempo anche un notevole lassismo, specie in questo X secolo durante il quale era diventato raro in-contrare preti che non fossero ammogliati. Il degrado spirituale aveva toccato il fondo allorquando costoro avevano osato chiedere la trasmissibilità della carica ai figli. I monasteri erano anch’essi precipitati nel baratro della corruzione e della decadenza, con gli antichi ide-

si era intanto affermata la pratica di una assegnazione episcopale voluta non più dal basso da parte del po-polo ma dall’alto da parte del sovrano. Queste investi-ture però, sia nell’Impero che negli altri regni, quasi mai venivano concesse per merito ma acquistate dal beneficiario. La pratica, prima della Riforma, era di-venuta talmente diffusa che non si avvertiva neanche più il bisogno di condurre privatamente e di nascosto

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ali di castità ed umiltà messi de-cisamente da parte. La regola era ovunque infranta o dimenticata ed a nulla serviva chiedere un maggior controllo ai vescovi locali, in quan-to essi per primi distanti da quegli insegnamenti evangelici che avreb-bero dovuto essere anche per loro precetto di vita. Il monastero che meglio di qualun-que altro può indicarci il cammino della decadenza è senz’altro quello di Farfa. Dopo che per secoli era stato faro i fede e sapienza, in un mondo sconvolto dalla violenza ed aveva goduto della benevolenza di re ed imperatori, nel X secolo aveva decisamente smesso di essere luo-go di preghiera. I monaci vivevano infatti lontano da quei principi che la regola imponeva, ed il deterio-ramento spirituale aveva raggiun-to un tale livello che essi non solo convivevano con donne all’interno del convento, quanto trascuravano sinanche di assolvere le pratiche quotidiane del loro ufficio. A questo punto una riforma era veramente necessaria! Era neces-sario cioè che la Chiesa ritornasse a quel livello di dignità morale e spirituale dei primi secoli del cri-stianesimo. La rinascita però non poteva venire dall’esterno ed esse-re applicata con autorità, doveva invece venire dal profondo ed es-sere imposta con la forza e la disci-plina della fede.

La Rinascita, destinata ad avere una ampia eco in tutto l’Occidente ed a rivoluzionare completamente

Urbano II consacra l’altare maggiore dell’abazia di Cluny (miniatura del sec. XII)

il costume del clero, venne dal mo-nastero benedettino di Cluny. Fondato nel 910 dal duca Gugliel-mo d’Aquitania, in breve, grazie anche alla direzione di abati ve-ramente eccezionali, divenne un centro famoso in tutta l’Europa per rigore e spiritualità. Il momen-to favorevole ed il prestigio di cui godeva fece sì che tutti coloro che desideravano una riforma della Chiesa guardassero a questa abba-zia con interesse ed ammirazione. L’emulazione venne poi spontanea e pertanto molti furono i monasteri che vi adeguarono la loro regola ed ugualmente molti i nuovi che vi si affiliarono. Oltre al desiderio di moralizzare il costume del clero in ogni suo aspet-to, di porre fine alla vendita delle dignità ecclesiastiche e di liberare il papato da ingerenze laiche, in questa abbazia ebbe l’incubazio-ne anche un nuovo ideale di vita da parte del clero, che prevedeva un totale disinteresse per il potere temporale. Il messaggio, che pro-manava da questo pio luogo di me-ditazioni e preghiere, imponeva di considerare tutti gli uomini uguali davanti alla Chiesa, sia che fossero dei sovrani o dei semplici servi del-la gleba e di conseguenza tenuti ad obbedire alle sue leggi ed alla sua volontà nella stessa misura. Il monastero di Cluny, in poco tempo, vide lievitare di molto an-che la sua forza politica e la sua autonomia decisionale. Infatti, gli fu concessa l’esenzione dall’obbe-dienza al vescovo locale e fatto di-

pendere direttamente dalla Santa Sede. Ciò fu senz’altro un’acquisi-zione positiva, in quanto sia esso che gli altri monasteri affiliati po-terono così raggiungere quell’auto-nomia necessaria per contrastare lo strapotere dei vescovi-conti, i quali negli ideali propugnati da questi monaci vedevano un serio attenta-to alla loro posizione politica ed al loro arbitrio. Sempre nel contesto di questo desiderio di riaccostare la Chiesa a Dio e migliorare uomini ed istitu-zioni, si crearono anche degli ordi-ni riformati, quali i Certosini ed i Circestensi. Tra questi la figura più prestigiosa fu senz’altro San Ber-nardo di Chiaravalle. In Italia il pensiero di Cluny giun-se grazie all’opera di San Romual-do, che dopo un lungo pellegrinare attraverso vari monasteri europei, a Camaldoli fondò un cenobio ove lo spirito della regola di San Bene-detto doveva essere rigido e severo costume di vita per tutti i monaci. Da questo monastero ne nacquero poi moltissimi altri, sempre ani-mati dallo stesso fervore religioso e pervasi dallo stesso ascetismo che, dalla casa madre, furono chiamati Camaldolesi. Tra questi il più fa-moso fu certamente quello di Fonte Avellana, che per lungo tempo ebbe come guida Pier Damiani, che con il suo ardore mistico, fu senz’altro l’incarnazione dello spirito della Riforma. Nei suoi scritti fulminò gli aspetti poco edificanti del clero, invitandolo a ritornare alla pover-tà, all’onestà ed alla castità. Anche San Nilo non va dimenticato. Questo fermento religioso così profondamente avvertito a tutti i livelli e che percorse come un fre-mito l’intera Europa, portò anche alla nascita di movimenti ereticali, i quali, anche contestando il potere della gerarchia e alcuni aspetti del-la religiosità, della liturgia e del cre-do, erano però fondamentalmente anch’essi animati da propositi di rigenerazione e moralizzazione. La Riforma, in breve, traboccò dai monasteri ed invase l’Euro-pa, andando ad investire anche la popolazione laica. Il contatto con il mondo esterno la affinò negli

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obiettivi adattandola alla realtà, re-stò però inalterata nei suoi principi e nelle sue aspirazioni. Ebbe anche implicazioni politiche; infatti, in non pochi casi, il desiderio di dare protezione alla Chiesa in questo programma di rinascita, stette a significare un’aperta contestazione al potere feudale. E fu questo quin-di il motivo per il quale molte città aderirono con entusiasmo a questo nuovo modo d’intendere la fede e la religione. Inizialmente, il potere imperiale non fu avverso alla Riforma, anzi la sollecitò, l’aiutò e la sorresse. Enri-co II ed Enrico III diedero anche un considerevole contributo personale alla ventata rigeneratrice, conce-dendo alla Chiesa tutto l’aiuto di cui potesse avere bisogno. Successivamente però quando al-cuni pontefici di gran pregio, assi-milati profondamente lo spirito e gli ideali di Cluny, capirono che la Chiesa non sarebbe mai stata ve-ramente libera sino a quando non si fosse affrancata anche dalla tu-tela imperiale, allora ebbero inizio quelle lotte passate alla storia con il nome di “Lotte delle Investiture”.

Vincenzo Cuomo

L’affresco (Abazia di Monte Oliveto Maggiore) raffigura la cena dei monaci benedettini.

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Le tavolette votivealle Ninfe Nitrodi

Le prime notizie circa il rinvenimento di doni votivi alle Ninfe Nitrodi si leggono nel De’ ri-medi naturali che sono nell’isola di Pithecusa, oggi detta Ischia di Giulio Jasolino, edizione del 1689. Qui si trova infatti inserita un’aggiunta del dottor filosofo Giovanni Pistoja (mancante nel testo del 1588) in cui, oltre alla descrizione della Fontana di Nitroli (“situata sopra la montagna di Barano”) e delle sue virtù, si dice che, verso la fine del sec. XVII, alcuni contadini portarono alla luce due marmi antichi: - l’uno (grande circa un palmo per due) presen-tava raffigurate due donne in piedi sotto gli al-beri e tenendo per mano un bambino; una sola parola: VOTO; - l’altro recuperato solo in parte aveva la raffi-gurazione di un vaso per attingere l’acqua con l’iscrizione LYMPHA VMBR... (forse LYMPHA NITR... secondo una più attenta lettura, come alcuni scrittori successivi vollero annotare (1).).

Ma di questi due marmi presto si persero le tracce. Il Pistoja dice che aveva pensato e dispo-sto di portarli con sé, ma poi “o per incuria o per malizia dei marinari” furono lasciati all’imbar-co. E peraltro di essi non si ebbero più notizie.Miglior fortuna è toccata invece alla serie di

1) Aggiunta del dottor filosofo Giovanni Pistoja: “... Poco lungi stavano alcuni figliuoli a sbarbicar il terreno, mentre era stato solito ritrovarvisi, sotto alcune pietre dirute, certe monete d’Ottone; e con quest’occasione avevano dissotte-rati due marmi antichi, de’ quali a uno, che aveva forma di parallelogrammo di due palmi di lunghezza, e uno di larghezza, stavano scolpiti due alberi e sottovi un puttino guidato per le mani da due donne, con questa iscrizione, VOTO; a l’altro, che era in forma quadrata d’un palmo, e mezzo per faccia, vi erano impressi nell’angoli quattro vasi da portar acqua, col motto (che per essere il marmo rotto era diminuito) che diceva LINFA VMBR... Da tutto ciò si può scorgere l’efficacia maravigliosa di cotal’acqua, quale siccome stimo non era creduta inferiore a quella tanto e da tanti rinomata d’Umbria. Questi marmi volendo io portarli qui in Napoli li feci tragittare fino alla marina, e poi o per incuria o per malizia de’ marinari si lasciorno nell’imbar-co. Di detta acqua si servono ad ogni lor uso i paesani di detto luogo di Barano con mantenimento della loro salute, stimandola balsamo per nettare e conservare le viscere. Io ancora servendomene a tutto pasto ne sentii giovamento notabile per farmi abbondantemente orinare, e ciò giudi-co sia per qualche miniera di nitro, che vi si ritrovi, donde avrà possuto pigliare il nome di Nitroli”.

2) Manoscritto anonimo del sec. XIX di carte 174. Se ne attribuisce la paternità all’arcidiacono della Cattedrale di Ischia, Vincenzo Onorato (cfr. Agostino Lauro: A proposito di un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Napoli in Archivio Storico per le Province napoletane 85/86, 1970 - pp. 339/347).

marmi votivi, ritrovati nel 1757, già conservati nel Museo nazionale di Napoli ed ora restituiti all’isola d’Ischia per essere esposti nel Museo di Villa Arbusto. Se ne ha un preciso riferimento nel Ragguaglio Historico Topografico dell’isola d’Ischia (2):

- “Nel 1757 nel contorno, e nella vicinanza della ridetta rupe di Nitroli ad oggetto di fare degli aumenti nel fossarsi, e scavarsi taluni lavora-tori scovrirono un gruppo di belle e ben tira-te tavole di marmo, di cui essendosi parsa la notizia, il Signor della Guardia Governatore del Castello d’Ischia spedì forza nell’additato luogo, e così tutte le tavole di marmo ritrova-te furono trasportate nel quarto d’esso Signor De La Guardia sistente sul maschio del Castello d’Ischia. Indi essendosene fatta relazione al So-vrano, le medesime di Real ordine si doverono rimettere nel Real Museo. Le stesse erano di lunghezza circa palmi quat-tro, e di larghezza palmo uno e mezzo con belle iscrizioni incise in lingua pura latina, e greca; dedicate alla Ninfa Nitrolide. In una di esse si osservava scolpita una don-na co’ capelli sciolti; ed un’altra donna con un vaso nelle mani, la quale dinotava di bagnare a doccia la testa di quella donna che stava scar-migliata. La stessa ricevutane la sanità, dové dedicare alla ridetta ninfa Nitrolide quel bel gruppo di tavole marmoree fornite d’iscrizioni e di figu-re sculpite, che poi o dalle vulcaniche eruzioni dell’isola stessa, e dalle ceneri tramandate, o pure dallo sbocco del Vesuvio vennero sotter-rate. Le medesime doverono essere fatte nel tempo che la lingua latina e la lingua greca erano nel-la di loro aurea purità. Io nel tempo della predetta scoverta era gio-vanetto e stava in seminario per apprendere le

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3) L’autore è in genere ritenuto lo svizzero C. Haller, agente della Banca Rothschild a Napoli.

lingue, e le scienze; ed avendo usato de’ mezzi per tirare le copie dell’iscrizioni, non mi fu per-messo, ma solo potei usare le tavole e le incisio-ni, e considerarle. Intanto niuno del governo si messe a ricor-rere al Sovrano per ottenersi quel bel gruppo, acciocché se ne fusse adornata la graziosa fon-tana sita in mezzo della Città, e dell’abitato; sic-come non ci fu chi avesse pensato a ritrarre le copie di quelle iscrizioni, onde si fussero conser-vati li lumi di quelli monumenti, che arrecava-no dell’onore e delle notizie per l’isola d’Ischia: per prudenza bisogna finirsi di parlarne, e far-ne menzione. Tra le irregolarità e disaccuratezze successe ci fu quella soprattutto che niuno cittadino, o ecclesiastico, avesse giammai tenuta la meno-ma attenzione di conservare qualunque sia di quelle monete e medaglie rinvenute verso il 15 e 16 secolo, per potersi tenere alcun documento, che avesse potuto divisare e tempo, e dominio, e governo relativo all’isola, e sua antichità”. - Notizie meno particolareggiate si trovano nell’opuscolo Brevi e succinte notizie di storia naturale e civile dell’isola d’Ischia (pubblicato nel 1801) del dottor fisico D. Francesco De Si-ano, che pure si sofferma ad illustrare ampia-mente altri reperti:

- “Altri monumenti antichi sono stati scavati in Cumano situato nelle adiacenze di Testaccio, consistenti in statue di marmo bianco, che fu-rono trasportate al Museo di Portici, come mi è stato riferito, ma che non ho vedute. Due ne furono scavate nelle adiacenze di Nitroli, rap-presentanti una donna colla chioma scarmiglia-ta, ed una serva con una conca di acqua in atto di lavarle la testa; anche queste trasportate al detto Museo. La scoperta di queste ultime nel-le vicinanze di Nitroli accenna un simbolo della celebrità di quest’acqua”. - E in nota: “Sono sta-te accompagnate da una iscrizione che comincia NYMPHIS NITROLIDIS: e questi ed altri mo-numenti fan vedere che la parte meridionale è stata forse, come era di fatti, frequentata dagli antichi, e come lo sono più che la settentrionale quella del Vesuvio e dell’Etna”. -

A questo testo di F. De Siano si attiene l’A-nonimo Ultramontano, autore del Tableau to-pographique et historique des isles d’Ischia, de Ponza, de Vendotena, de Procida et de Nisida,

du Cap de Misène et du Mont Pausilipe - Napoli, 1822:

- (Bagno di Nitroli) “Alcuni anni or sono stati trovati due documenti antichi che, a quanto si dice, sono finiti in collezioni pubbliche della Ca-pitale. Uno di essi era un bassorilievo in marmo, raffigurante una donna scarmigliata ed una ser-va occupata a versarle acqua sulla testa. L’iscri-zione latina che comincia con le parole Nymphis Nitrolidis... fa chiaramente capire l’origine di questo documento”. - E altrove: - “Circa 50 anni fa, a Testaccio, in località Cumano, sono state trovati statue e bassorilievi che testimoniano la frequentazione degli antichi”. -

Un altro autore che si è occupato ampiamente dei marmo votivi è il dottor J. E. Chevalley De Rivaz nella sua trattazione delle acque termali e delle stufe dell’isola d’Ischia, uscita in varie edizioni, di cui la prima nel 1831, con il titolo: Précis sur les eaux minéro-thermales et les étuves de l›Ile d›Ischia. Qui i riferimenti non si discostano e non vanno oltre quelli del De Siano e dell’Ultramontano:

- “Si nota nei dintorni la sorgente del bagno di Nitroli, notevole per la sua antichità. In questo sito, molti anni fa, sono stati trovati due basso-rilievi in marmo, di cui l’uno raffigura una don-na con i capelli sparsi con una serva intenta a versarle dell’acqua sulla testa; c’è anche una iscrizione latina che comincia con queste parole: Nymphis Nitrolidis”. -

Più ricca di notizie si presenta la terza edizione del 1837 - Déscription des eaux minéro-therma-les et des étuves de l›Ile d›Ischia - in cui De Ri-vaz illustra i monumenti antichi, tra cui la statua di Ercole di Lacco Ameno, l’iscrizione perduta di Monte Vico e quella che tuttora si può legge-re nella chiesa di S. Restituta dedicata agli Dei Mani. Dei bassorilievi, dedicati alle Ninfe Nitro-di, la maggior parte dei quali ritrovati appunto presso il bagno di Nitroli, sono riportate le iscri-zioni con brevi riferimenti circa le raffigurazioni. In nota si aggiunge che tutti i bassorilievi sono conservati al Real Museo di Napoli e classificati con i n. 7, 16, 15, 33, 34, 28, 63, 75, 59, 86, 85. Lo storico isolano Giuseppe d’Ascia nella sua Storia dell’Isola d’Ischia, pubblicata nel 1867, riporta la notizia del ritrovamento descritto da Giovanni Pistoja ai tempi di Jasolino (4) e delle successive scoperte, che invero non devono tutte provenire dalla località di Nitroli. Presso l’acqua di Citara fu rinvenuto infatti il marmo cosiddet-

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to di Cappellina (5). Sono riportate in nota le descrizioni e le iscrizioni di tutti i bassorilievi, secondo quanto, come scrive il d’Ascia, “ne ha trasmesso il de Rivaz nella sua opera sulle acque termo-minerali dell’isola d’Ischia” (ci si riferisce alla sesta edizione ). Scrive il d’Ascia: “Dicemmo rinomate tali ac-que perché furono stimate non inferiori a quel-le rinomatissime dell’Umbria; venerate perché poste sotto la protezione di Apollo e delle Ninfe Nitrodi, le quali diedero nome al fonte più spe-cioso di questa contrada, che fu detto di Nitro-di e poi di Nitroli. I bassorilievi scavati a quelle vicinanze e da noi riportati confermano questa antichità: ai bassorilievi si aggiungono le mone-te di ottone dissotterrate accosto a questi fonti: alle monete i nomi de’ soldati e liberti romani che approfittarono di queste acque salutari “.

Nel 1876 fu pubblicata l’opera di Guglielmo Jervis, Guida alle acque minerali d’Italia, in cui si dà notizia del ritrovamento di G. Pistoja e di “due bassi rilievi marmorei rinvenuti presso il fonte di Nitroli, il quale sembra esser stato chia-mato allora Aqua Nitrodi. Questi rappresentano delle ninfe, cui vennero fatti i voti e portano le seguenti iscrizioni: VIVS. LEITVS. NYMPHIS. NITRODIBUS. VOT. SOL. L. ANI... - APOLLI-NI. ET. NYMPHIS. NITRODIBUS. C. METI-LIVS. ALCIMVS. V.S.L.A. Interessante peraltro è il fatto che il libro pre-senta in due pagine le immagini di 7 “bassori-lievi marmorei con iscrizioni votive romane, rinvenuti presso le Acque Minerali d’Ischia, conservati ora nel Museo Nazionale, a Napoli. Di queste varie iscrizioni e dei marmi votivi riporta delle citazioni ancora Erasmo Stanislao Mariotti nell’opuscolo Il Castello d’Ischia, pub-blicato nel 1951. In nota sono riportati alcuni riferimenti bibliografici: “Le iscrizioni trovate nell’isola d’Ischia furono pubblicate da: Cheval-ley De Rivaz - “Description des eaux minérales

d’Ischia”, Napoli 1835 -; Nicola Corcia - “Storia delle Due Sicilie” voll. 2, 1845; - Avellino, “In-scriptiones sacrae Musei Borbonici”, 1867 -; e d’Ascia - “Storia d’Ischia”, Napoli 1867 - . Il Mommsen nel C.I.L. vol. X ne conserva ed il-lustra venti, dal n. 6786 al n. 6805, e, tra l’altro, scrive: “.... in insula Ischia in loco adhuc dicto Nitroli in valle Foriae prope Serraram, ubi ther-mae sunt, sacrarium Apollinis et Nympharum Nitrodarum, sive Nitrodium, eruderatum esse et tredecim inde anaglypha (bassorilievi) illata in museum pubblicum Neapolitanum, scribit F. Daniele: vol. VIII (1792) p. 227, antiquitatum Herculanensium”.

Uno studio particolare si deve a Lidia Forti - Rilievi dedicati alle Ninfe Nitrodi - e si trova pubblicato in Rendiconto Accademia di Arche-ologia, Lettere e Belle Arti di Napoli, vol. XXVI, 1951. Vi sono contenuti i testi delle iscrizioni e le riproduzioni ftografiche di tutti i rilievi.

L’argomento trova ampia trattazione anche in alcuni testi di don Pietro Monti (6). “Il rinveni-mento di questi rilievi marmorei, dedicati alle Ninfe di Nitrodi, costituisce l’unico e più importante com-plesso votivo scoperto nell’Italia meridionale. I rilie-vi di Ischia sono rari in Italia, mentre sono più dif-fusi nelle province dell’Impero; citeremo ad esempio quelli rinvenuti in Tracia, presso Saladinovo, dove erano venerate le Ninfe Burdapenai, o presso le Aquae Calidae, o quelli trovati in Gallia a Bagnères de Luchon o a Les Fumades. In Italia, invece, per quanto il culto delle acque e delle Ninfe era molto diffuso, specie nella Campa-nia, tuttavia da nessuna località son venuti gruppi di rilievi marmorei come quelli ischitani. Il ritrova-mento di un gruppo di ben 11 rilievi marmorei è nel suo genere molto notevole. Se dalle testimonianze storiche appare che il culto alle Ninfe di Ischia fu molto antico, dall’analisi stilistica dei rilievi appare che esso durò molto a lungo fino al III sec. d. C. In questo lungo periodo di tempo, la venerazione alle Ninfe Nitrodi non fu mai interrotta dall’afflusso dei malati, perché, accanto a questi ex voto importan-tissimi, attestanti la gratitudine verso le divinità di persone più o meno ricche, ve ne furono altre più umili che offrirono piccole terrecotte, oggetti di me-tallo e monete”.

Raffaele Castagna(I riferimenti ad autori ed opere non rappresentano di cer-to un quadro completo di quanto è stato scritto sull’argo-mento. Ci siamo limitati, per ovvie ragioni, a testi facilmen-te reperibili o in nostro possesso)

6) Pietro Monti: Ischia preistorica, greca, romana, paleo-cristiana - 1968; Pietro Monti: Ischia, archeologia e storia - 1980; Pietro Monti: Ischia altomedievale - 1991.

4) “Il Dottor Fisico Giovanni Pistoja nel riferire su i due bassi-rilievi rinvenuti dice che in uno di essi il marmo era rotto e diminuito, e si leggea solo - Linfa Umbr. - Da ciò conchiudea che le acque di Nitroli fin dagli antichi tempi erano pregiatissime e la loro efficacia non si credea inferio-re a quella rinomata dell’Umbria”.5) “Nulla fu rinvenuto più grazioso del marmo di Cappelli-na. A dritta compariva Apollo che tiene con una mano un plettro e coll’altra appende la lira ad un albero su cui posa un corvo. Di due ninfe che gli son d’appresso la prima tiene l’anfora donde versa l’acqua salutare; la seconda prepara a vezzosa giovane larga conca, dove costei bagna le sue lun-ghe trecce. Questo basso rilievo è posto nel Museo Nazio-nale - nella sala del supportico degli Imperatori col n. 85”.

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Lo scoppio della guerra civile

La seconda repubblica spagnola

Note storiche Giuseppe Alparone

Mentre cresceva la violenza poli-tica, si intensificarono i contatti e gli accordi fra gli ufficiali per l’or-ganizzazione della sollevazione. Il loro segno di riconoscimento era la parola CAFE (Camaradas arriba Falange Espanola!), che richiama alla mente il Viva Verdi! del nostro Risorgimento. Avuto sentore della congiura il governo dispose trasfe-rimenti e sostituzioni di ufficiali superiori, provocando indignate proteste, di cui si fece portavoce dal suo quasi esilio il generale Franco in una lettera ai presidenti del con-siglio e della repubblica. Lettera ispirata alla sua proverbiale astuzia e molto ambigua: se l’insurrezione fosse riuscita ne sarebbe stato l’a-raldo, se fosse fallita era un monito inascoltato. Né Azaña, né Cesàres Quiroga gli risposero. Gli avvenimenti del periodo che precedette l’Alzamiento del 18 lu-glio del ‘36 sono oggetto di vivace polemica fra la storiografia di de-stra e quella di sinistra, soprattut-to per l’ultima seduta delle Cortes prima delle vacanze anticipate per il caldo soffocante. La tesi storica in ballo non è da poco: l’assassinio del leader di destra Josè Calvo Sotelo fu soltanto un atto di rappresaglia per l’uccisione di un ufficiale degli Asaltos, il tenente Castillo, ope-ra dei Falangisti, una formazione politica in concorrenza con quella di cui era segretario Calvo Sotelo, o deve collegarsi al contenuto del discorso che questi pronunciò in quella drammatica seduta delle Cortes? Tranne che in una lunga ed arti-colata serie dedicata al cinquan-tenario dello scoppio della guerra civile, trasmessa nell’estate dell’86, improntata a notevole obiettività,

la TV di stato in più di un’occasio-ne, come, ad esempio, la morte di Franco nel ‘75, ha preferito addirit-tura ignorare quella tragica seduta parlamentare. In un film fatto di frammenti di cinegiornali, intitola-to Morire a Madrid, del quale un critico arguto di cui purtroppo non ricordo il nome, scrisse che il regi-sta, essendosi procurati molti ne-mici a destra, aveva preferito non farseli anche a sinistra, quella se-duta è ricordata con poche parole: “Calvo Sotelo minaccia il governo”. Nei passi di quel discorso riportati dal giornalista Giovanni Artieri nel suo libro Quattro momenti di sto-ria fascista non vi è segno alcuno di minacce, a meno che non vogliamo così definire la frase che la violenza non impedita dal governo provoca-va altra violenza, di cui approfittò Casàres Quiròga per rispondere che con quella affermazione Calvo Sotelo si assumeva una grave re-sponsabilità. L’oppositore rispose che le sue spalle erano abbastanza larghe da portare quella ed altre responsabilità, ma il capo del go-verno, che era un uomo d’onore, sapeva che egli era nemico della violenza. In quella seduta erano iscritti a parlare i segretari dei due maggio-ri partiti di opposizione, José Ma-ria Gil Robles, capo della C.E.D.A. (Confederaciòn Espanola De-réchas Autònomas) appoggiata dalla Chiesa, e Josè Calvo Sotèlo di Renovacion Espanòla. Il primo dette un saggio della sua eloquen-za tribunizia di avvocato penalista, con un esordio pacato in cui disse che uno stato può vivere nell’anar-chia. Continuò elencando le violen-ze, di cui chiamava responsabile il governo che non le reprimeva, che da mesi insanguinavano il paese, un discorso infuocato che lo sto-rico antifranchista Miguèl Tunòn de Lara definisce un’insalata di menzogne (alcuni anni oro sono il senatore Giorgio Pisanò scrisse nel settimanale Candido che nel suo ultimo discorso alla Camera Giaco-

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mo Matteotti mentiva sapendo di mentire). Il discorso di Josè Calvo Sotèlo fu più pacato, ispirato ad una visio-ne storica degli eventi. Supplicò il presidente Casàres Quiròga di non consegnare il paese alla sinistra di non voler essere ciò che erano stati Kerensky in Russia e Karoly in Un-gheria, che avevano favorito l’asce-sa al potere di Lenin e di Bela Kun. Contro la storiografia di destra il Tunon de Lara nega con forza che le sue parole furono accolte da vio-lente minacce della sinistra, a cui Calvo Sotèlo oppose una citazione storica, la risposta di S. Domenico di Silos al re visigoto: 2Voi potete togliermi solo la vita!” C’è in particolare una frase della Pasionaria, negata dalla storio-grafia di sinistra e citata spesso da quella di destra, mentre l’inglese Hugh Thomas, salomonicamente, la mette in dubbio: “Quest’uomo ha parlato per l’ultima volta e mor-rà con le scarpe ai piedi!” (Sulle co-lonne del Popolo d’Italia Arnaldo Mussolini aveva scritto che Giaco-mo Matteotti si sarebbe ritrovato con la testa rotta). L’epilogo tragi-co avvenne nella seconda decade di luglio. Ai funerali di un giovane falangi-sta vittima della violenza di sini-stra scoppiò un tumulto nel quale un ufficiale degli Asaltos, il tenen-te Castillo, uccise un altro giovane falangista. Per rappresaglia venne freddato a revolverate mentre usci-va di casa per andare al comando di polizia dove prestava servizio. I commilitoni decisero di vendicarlo. Essendo già partito per la villeggia-tura, Josè Maria Gil Robles sfuggì alla morte. La notte del 13 luglio, alle tre del mattino, una pattuglia di Asàltos comandata dall’ufficiale Fernando Condès bussò alla por-ta della casa di Josè Calvo Sotèlo, ingiungendo al parlamentare di seguirli al comando di polizia. L’al-tro oppose inutilmente l’immunità parlamentare da cui era protetto, poi, temendo che si trattasse di terroristi travestiti da agenti, si af-facciò al balcone per interpellare la scorta che il governo gli aveva dato dopo le minacce. Gli uomini della

scorta lo rassicurarono sull’identità dei commilitoni che conoscevano uno per uno. Dopo che gli era stato proibito di telefonare, Josè Calvo Sotèlo obbedì all’ordine di seguirli, raccomandando alla moglie di tele-fonare subito al leader dei monar-chici Antonio Goicoechea. Lo fecero sedere nell’automobile accanto al conducente e quando il veicolo si mosse l’agente Vitoriano Cuenca gli appoggiò alla nuca la canna della pistola e tirò il grilletto due volte. La morte fu istantanea, i proiettili attraversarono il cervello ed uscirono dalla fronte.

Dumini, Poveromo, Malacria e Viola dopo aver ucciso Matteotti (il richiamo è inevitabile, anche se i citati assassini non erano in divi-sa) andarono a seppellirne il corpo in località Quartarella, dove alcuni mesi più tardi fu ritrovato dal cane di un cacciatore. Los Asaltos invece bussarono al cancello del cimitero e consegnarono la salma al custo-de insonnolito, che poi, letti i gior-nali, avvisò le autorità. L’ufficiale Condès e i suoi uomini non ebbero alcun fastidio per quel delitto, né prima del 18 luglio, quando scop-piò la guerra civile, né dopo. Il 25 luglio venne distrutto il fascicolo delle indagini. Il Tunon de Lara ne attinge i nomi da Cartas a un escul-tòr (Lettere ad uno scultore), il li-bro di memoria di Indalecio Prie-to, segretario del partito socialista e ministro della guerra durante la guerra civile, il quale scrive che per la vergogna di ciò che aveva fatto l’agente Cuenca, l’ufficiale Condès gli aveva confidato propositi di sui-cidio, da cui lo aveva dissuaso per-ché la vita doveva dedicarla alla di-fesa della repubblica. Quell’ufficia-le morì nella battaglia per la difesa di Madrid, che fu un gran bagno di sangue, e sull’altro fronte cadde il capitano Vela, uno degli eroi della difesa dell’Alcazar. L’impressione suscitata dall’as-sassinio di Calvo Sotèlo fu enorme. Sono state pubblicate più volte le foto della salma, con due buchi nel-la fronte che poi al funerale sono coperti dal cappuccio del saio di cui venne rivestito come terziario

francescano. Sfruttando l’emozio-ne i congiurati decisero di passare il Rubicone. Il rovescio della me-daglia fu la ineguale distribuzio-ne delle forze. La ribellione venne schiacciata nel sangue a Gijòn, Bar-cellona e Madrid, a nord Mola fu temporaneamente in crisi per scar-sità di munizioni e in Andalusia Queipo de Llano per mancanza di uomini. Si lanciò per radio il mes-saggio convenzionale “Alle 17 del 17 il cielo è sereno su tutta la Spa-gna!”, poi la data fu spostata di un giorno. Antonio Goicoechea andò a Roma a chiedere aeroplani e si incontrò con Galeazzo Ciano, gene-ro di Mussolini. Con i fondi forniti dal finanziere Juan March vennero noleggiati due piccoli apparecchi per andare a prendere Franco alle Canarie e Josè Sanjùrjo, capo desi-gnato della ribellione, esule in Por-togallo. Franco giunse a Tetuàn, l’aereo di Sanjùrjo alla partenza da una pista semisconosciuta, giacché il governo del dittatore Carmona non voleva compromettersi, im-bardò al decollo e si incendiò. Il pi-lota Juan Ansaldo, proiettato fuori, si salvò e nelle memorie scrisse che il peso delle valigie del generale fu la causa del disastro. Il temporaneo successore alla testa del movimen-to insurrezionale fu il più anziano dei generali, Miguèl Cabanèllas che poi a Salamanca rimise nelle mani di Franco quel potere che il Caudil-lo esercitò fino alla morte avvenuta nel novembre del 1975. Chi legge le pagine dell’opera sto-rica di Hugh Thomas vede come in un crescendo rossiniano il susse-guirsi delle insurrezioni in tutti i presidi della Spagna e del Marocco. Il generale Mola, impadronitosi fa-cilmente di Burgos, capoluogo del-la Vecchia Castiglia, in piena notte formò un governo provvisorio. A Madrid Casàres Quiròga minimiz-zò la portata della ribellione mili-tare, ma il presidente Azàna con molto realismo telefonò a Burgos a Mola chiedendogli di far cessa-re la sedizione militare. Offriva le dimissioni del governo, seguite da un rimpasto dove i generali avreb-bero avuto i ministeri che voleva-no. Mola rifiutò. La parola era alle

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armi. Le forze migliori dei ribelli erano concentrate nel Marocco, ma non era facile passare lo stretto di Gibilterra giacché sorvegliato dalla flotta, dove i marinai, uccisi gli uffi-ciali, avevano formato dei soviet ed erano pronti a difendere la repub-blica. La strage degli ufficiali, per la solidarietà fra la gente di mare, ebbe delle conseguenze nei rap-porti con la Gran Bretagna, grande potenza navale, dove l’Ammiraglia-to aveva peso nella politica etera. Mentre i laburisti all’opposizione organizzavano aiuti per i repubbli-cani, i conservatori al potere, sotto la falsa neutralità del non interven-to, furono quasi sempre favorevoli ai nazionalisti. A risolvere la situa-zione fu decisivo l’intervento degli aeroplani mandati da Hitler e Mus-solini. Con gli idrovolanti Dornier ed i bimotori da trasporto Junkers venne realizzato il primo ponte ae-reo della storia, a rinforzare le scar-

se truppe di Queipo de Llano. Un battaglione venne traghettato dal cacciatorpediniere Sanchez Bar-caztegui, ma al ritorno i marinai uccisero gli ufficiali e si unirono alla flotta repubblicana. A Franco rima-se la cannoniera Dato per scortare le navi passeggeri cariche di truppe dirette ad Algeciras. Nella versio-ne spagnola (Aznar) la Dato alla testa del convoglio attaccò da sola le navi repubblicane, attirandosi il disordinato fuoco (Franco aveva contato sulla mancanza di ufficiali e tecnici per le centrali di tiro), poi, defilatesi le navi cariche di truppe, filò ad Algeciras dove fu fotogra-fata ormeggiata alla banchina con un buco nella murata nel mascone di prora, unico colpo messo a se-gno dalla flotta repubblicana. La versione data da Franco Pagliano, storico dell’aviazione italiana, dice che nello stretto c’erano due cac-ciatorpediniere repubblicani, Le-

panto ed Alcalà Galiano. IL primo, colpito da una bomba lanciata da un idrovolante nazionalista, era andato a Gibilterra per affidare i feriti all’ospedale della Royal Navy. L’altro attaccò il convoglio, colpì la Dato, schivò le bombe sganciate dai trimotori da bombardamento comandati dal colonnello Bonomi, ma, spaventato da un’altra onda-ta di bombardieri, abbandonò lo stretto e puntò su Malaga. Quella spedizione traghettò quattromila soldati, altre ne seguirono nelle ac-que controllate dagli aerei naziona-listi, italiani e tedeschi. Queipo de Llano con queste for-ze poté iniziare l’offensiva contro i repubblicani. La lunga guerra civile era cominciata e si sarebbe conclu-sa il 28 marzo 1939 con la resa di Madrid.

Giuseppe Alparone

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I racconti di Carla PesciatiniSahara

“C’è un caldo africano. Proprio non si sopporta. Un caldo così l’ho sofferto una sola volta in vita mia, in pieno Sahara. Ma nel deserto, almeno, hanno un rimedio: vanno a spasso con il lago”.

La panchina in muratura ac-canto alla porta della libreria di Vito era un punto di riferimen-to essenziale nella nostra realtà spazio-temporale: noi vi con-fluivamo come i gabbiani sul-lo scoglio del Soccorso. Anche quel giorno stavamo seduti là, affranti da un pesante scirocco, che rendeva faticoso perfino re-spirare.“Oggi c’è un caldo africano. Pro-prio non si sopporta. Un caldo così l’ho sofferto una sola volta in vita mia, in pieno Sahara. Ma nel deserto, almeno, hanno un correttivo: vanno a spasso con il lago”. Gino parlava spesso dell’Alge-ria, del Sahara e dei tuareg. Le sue evocazioni di quella terra oltremare ci facevano sognare: oh! le lune su palmeti e mina-reti, i silenzi fra le dune, i tene-brosi mantelli che occultavano le persone come dei congiura-ti! Noi, sull’isola, ci dovevamo accontentare della luna sulle quattro palme giovinette che stentavano a crescere sulla piaz-za, del rumore delle moto con le marmitte truccate, dei turisti napoletani sbracati e sudaticci. Il caldo, quello, si, era africano: portava con sé, sul vento, perfi-no la sabbia rossa del deserto. Corresse Pierluigi: “A spasso sul lago. Capisco che il caldo oggi non fa ragionare, ma...la lingua ha le sue regole! Anche noi, poi, volendo, potremmo andare sul mare, no?” Pierluigi era un professore. Non era pignolo, ma non po-

teva tollerare un uso impreciso, anzi, diciamolo pure, scorretto di una preposizione. “A spasso con il lago! Con il lago!”, ribadì Gino, sicuro di sé. Sembrò felice che Pierluigi gli fornisse l’occasione di darci un saggio della sua esperienza di vita. “I tuareg vanno a spasso con il lago”, precisò, piccato. “Ma che dici. Io ho naviga-to, sono stato fino alle Antille, e non ho mai sentito dire una cosa simile! Vito sopportava tutti i giorni le nostre chiac-chiere oziose: riusciva anche a seguirle, senza rinunciare all’a-scolto dei brani di opera, che il registratore diffondeva. “Che bello! Che bello!”, commentava di tanto in tanto, e noi non sa-pevamo mai se approvava una nostra idea o se si entusiasmava per un acuto. Ora, in fase di tra-sloco, stava mettendo in ordine i libri nella nuova libreria. La sua era una fatica di Sisifo: il locale era troppo piccolo per i volumi che avrebbe dovuto contene-re, pertanto lui non faceva che spostarli da una parte all’altra. Quando finalmente gli sembra-va di averne sistemato alcuni, si accorgeva che quello spazio conquistato, in realtà, era stato usurpato ad altri che ora gia-cevano a terra. Avrebbe potuto risolvere il problema che lo tor-mentava, vendendo i libri, come fanno tutti i librai, ma lui, se gli si chiedeva una pubblicazione, temporeggiava, prendendo a pretesto la confusione del tra-sloco che non gli faceva trovare

più niente. Messo alle strette da qualche cliente irremovibile, si liberava del l’importuno che voleva privarlo dei suoi teso-ri, indirizzandolo all’Editorial World: “Guardi, voltato l’angolo c’è l’altra libreria, dove troverà sicuramente quello che cerca”. “Proprio non l’ho mai sentito dire”, ripeté Vito pacatamente, ma decisamente. Gli dispiaceva contraddire Gino. Gino era un grande pittore, il migliore, e Vito avrebbe voluto essere d’accordo con lui, quasi per una forma di rispetto e di ammirazione. Ma tant’è, nemmeno il Papa gode della prerogativa dell’infallibi-lità quando non parla ex cathe-dra. Gino in quel momento non stava parlando di pittura, dun-que, si poteva anche dissentire da ciò che affermava. “Anch’io ero scettico come voi, anch’io feci come il Professore, cioè corressi il tuareg. Quando mi disse: - Vado a passeggio ‘avec le lac’ -, pensando che non conoscesse il francese, lo ripre-si: - Sur le lac, au bord du lac -. Rise, rise di me, europeo incol-to”. Gino fece una pausa: il tem-po necessario per godere della sua piccola vittoria. Noi pendevamo dalle sue lab-bra, impazienti di conoscere gli sviluppi della storia. Quell’Afri-ca così vicina, bel suol d’amore, appena oltre l’orizzonte marino, dove gli eroici padri avevano ri-fiutato il pane e chiesto il piom-bo per il moschetto ed estinto la sete con il sangue del loro cuo-re, l’Africa, dunque, dopo tan-

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ti canti epici e tanti racconti di Gino, ci riservava ancora delle sorprese. “- Vieni con me e vedrai -, mi invitò il tuareg. Si chiamava Mohammed, era magro, alto, un portamento nobile e fiero. L’ho anche disegnato”, continuò Gino. Centellinava i racconti e noi lo ascoltavamo, fremendo come assetati a cui fosse dato da bere goccia a goccia. “Non divagare, non divagare, continua!”, lo pregai. “Io non avevo la forza per se-guirlo: ero disidratato, la bocca secca, faticavo a respirare. Vidi Mohammed allontanarsi fra le dune ed ebbi il sospetto che mi abbandonasse al mio destino, che se ne andasse per non as-sistere alla mia fine”. I racconti di Gino immancabilmente ave-vano momenti di suspence, sa-pientemente inframmezzati con le descrizioni dei personaggi e dell’ambiente. Infatti, a questo punto, il narratore si dilungò a parlare delle sfumature ocra/rosse delle sabbie sotto i raggi radenti del sole al tramonto e del caldo che riverberava dalla terra e produceva con la rarefa-zione dell’aria strani fenomeni. Fosse l’effetto dell’aria rarefat-ta, fosse il suo stato di semiin-coscienza, alla fine, l’immagine di Mohammed gli era apparsa lontana, evanescente come in un sogno. Non si poteva interrompere Gino nei momenti di lirismo, altrimenti si sarebbe arrabbiato e avrebbe smesso di raccontare. “Dunque Mohammed, anzi la sua immagine evanescente, era lontana”, disse Vito, che voleva riportare Gino al tema principa-le. - Come fa l’eco della pia cam-pana - completò il registratore, che trasmetteva un’aria dalla Wally. “No, no, scomparve proprio, scomparve dietro una duna che

chiudeva l’orizzonte! Per fortu-na Gino non si era lasciato di-strarre dalle campane dell’altra storia. Ed era in mezzo a noi, dunque era sopravvissuto alla terribile avventura: almeno ave-vamo questa confortante cer-tezza. “Ritornò dopo un tempo lungo come l’eternità, quando ormai stavo delirando”. Gino fece un’altra pausa sapiente, da narratore navigato. “Ritornò con il lago. Oh, si! Erano fre-sche, erano ristoratrici le sue acque”. “Il miraggio, vuoi dire”, inter-venne il professore. Ricomparve Mohammed, o come diamine si chiamava, e insieme a lui appar-ve un miraggio”. “Riapparve proprio con il lago. Mohammed riapparve in com-pagnia di un lago, alle cui acque

debbo la vita”. “Ma come è possibile! Questo è un mistero più incomprensibi-le del woodoo dei Caraibi! Vito non nascondeva di essere un po’ seccato. A lui piaceva vagare con la fantasia, ma anche distin-guere fra fantasia e realtà. “E’ possibile! In Sahara il ven-to sposta le dune, così né fiumi né laghi hanno letti o alvei in luoghi fissi. Mi ero dimenticato di dirvi che quel giorno soffiava forte il ghibli, dunque il tuareg camminava con il lago, o il lago con il tuareg, come più vi piace, anzi, il lago, gremito di fenicot-teri rosa, ci seguì per un po’ sul-la via del ritorno”. Gino tacque. Ora la nostra fantasia volava sulle ali dei fenicotteri rosa e completava il suo ricordo.

Sogno Un sogno deve essere bizzarro, altrimenti che sogno è? Ma

il suo era stato davvero troppo strano: gli aveva lasciato la sensazione di aver perduto qualcosa di sé per sempre.

L’aliscafo fu ormeggiato al pon-tile, poi fu issata la passerella e finalmente cominciò il deflusso dei passeggeri. Mina, come ogni sera, era in attesa di Ciro. Come ogni sera, lui sarebbe disceso a terra fra gli ultimi, o perché trat-tenuto da qualcuno su un nuovo progetto per la promozione tu-ristica dell’isola, o perché, preso dalla lettura dei giornali che si portava sempre appresso, si di-menticava dell’approdo. Invece, Ciro era in plancia e sembrava impaziente di sbarca-re. - Ha qualcosa che lo turba, o forse non si sente bene -, pensò Mina. Gli andò incontro e lo sa-lutò con un bacio sulla guancia. “Sei stanco?” Era una domanda inutile. La stanchezza gli si leg-geva sul volto. “Si, una giornata pesante. In

città il caldo è insopportabile. Già da questa mattina le strade erano infuocate, puoi immagi-nare la temperatura di questa sera, dopo una giornata di sole. Credo che sull’asfalto si possano cuocere le uova”. Mina lo osservò: era dimagrito. Gli avrebbe fatto bene un po’ di riposo. Magari, poter prendere tutti e due qualche giorno di fe-rie, da godere insieme, in mon-tagna! Ma era inutile sognare: sull’isola si lavorava in estate e anche per Ciro, durante i mesi estivi il lavoro aumentava, per-ché doveva dar notizia di tutte le manifestazioni che avevano luogo sull’isola. Una frenesia: concerti classici e musiche d’avanguardia, libri in piazza, pittori nelle strade, feste dell’uva con tarantelle e

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‘ndrezzate, premi di letteratu-ra, di poesia, di giornalismo. Ce n’era per tutti i gusti. Povero Ciro, di giorno aveva il lavoro in redazione e ogni sera face-va le ore piccole per uno o più impegni assolutamente indero-gabili! Aveva ben ragione di es-sere stanco e nervoso! Mina lo seguiva, discreta, comprensiva: rispettava il suo silenzio. Avreb-bero parlato a tavola, davanti a un piatto di spaghetti profumati di basilico, o più tardi, mentre ascoltavano musica e bevevano un goccio di wisky. Quella sera, per fortuna, sarebbero rimasti a casa. Ciro era stanco, ma soprattut-to preoccupato: era stato tutto il giorno sotto l’impressione del sogno che aveva fatto la notte precedente. Ora sentiva il biso-gno di parlarne con Mina. Un sogno deve essere bizzarro, al-trimenti che sogno è? Ma il suo era stato davvero troppo strano: gli aveva lasciato la sensazio-ne di aver perduto qualcosa di sé per sempre. O almeno fino a quando non avesse trovato il modo di riappropriarsi di ciò che aveva perso. Già, ma che cosa aveva perso, di che cosa doveva riappropriarsi? E come riuscirci, poi! Doveva raccontarlo a Mina. Forse, un po’ della sua preoc-cupazione sarebbe scomparsa e forse Mina avrebbe potuto sug-gerirgli un rimedio. “Una parte di me è rimasta nell’ascensore del giornale”, disse, non appena si fu seduto in macchina. “Si, una parte di me è rimasta in ascensore”, ripeté. Mina era paziente, era abitua-ta ai pindarici voli di lui e finse solo un poco di irritazione. “Un ascensore non è un posto adat-to, per lasciarci qualcosa di te! L’ascensore del giornale, poi! E a Napoli, per giunta! Inoltre, tu appartieni interamente a me

e non puoi perdere frammenti qua e là! Gli sorrisi vezzosamen-te, mentre metteva in moto la macchina: “Sarebbe stato più carino, se tu mi avessi detto: “Una parte di me resta sempre con te”. Mina aveva ragione, l’ascen-sore era un posto squallido e lui vi aveva lasciato la fantasia. Op-pure l’inconscio? O il desiderio? Il fatto di non sapere nemmeno che cosa era rimasto lì dentro lo teneva in uno stato terribile di angoscia. Mentre andavano verso casa le avrebbe raccontato il sogno. Era in ascensore, mentre sognava.... No, detto così il racconto risul-tava poco chiaro. In effetti lui sognava sempre, e non solo in ascensore. Era più corretto dire: durante un sogno si era trovato in un ascensore, che a lui pare-va quello del giornale. L’ascen-sore stava salendo, la corrente elettrica all’improvviso si era interrotta e lui era rimasto chiu-so là dentro, al buio. Era una si-tuazione paradossale: sapeva di stare sognando, ma non poteva vincere la sua claustrofobia. Per uscire dall’incubo, non aveva trovato altra via che risvegliar-si. Da sveglio, naturalmente, si era trovato nel suo letto. Cioè. il suo corpo era nel letto. Ma il corpo non aveva mai abbando-nato il letto, nemmeno durante il sogno. E allora? Quella parte di sé che in sogno era in ascen-sore, era evidente, vi era rima-sta intrappolata. La questione, adesso, era scoprire quale parte e come liberarla. Ecco, aveva finito di raccon-

tare. Ora, mentre Mina guida-va, lui continuava a seguire il filo dei propri pensieri. Se nella scatola sospesa fra un piano e l’altro fosse rimasta la fantasia, che disastro! Come avrebbe po-tuto continuare a fare il gior-nalista? Perché, insomma, nel raccontare la realtà, un giorna-lista deve metterci una buona dose di fantasia! Ancora peggio, se non avesse potuto più con-tare sull’inconscio. Lui voleva scrivere ancora poesie e aveva bisogno dell’inconscio, nel qua-le trovava materia per poetare. Non meno grave sarebbe stato perdere il desiderio. Qui, tutta-via, si consolava, pensando che soltanto la tradizione popolare avallava la credenza che i sogni sono desiderio. C’era anche una canzone che affermava la stessa cosa, ma nessun uomo di scien-za aveva mai fatto una ipotesi del genere. Aveva smesso di parlare e an-cora rimuginava i suoi dubbi, quando Mina, fermata la mac-china al belvedere del Cuot-to, dove andavano talvolta ad aspettare il raggio verde, gli si fece vicina e, con fare giocoso, cominciò: “Quale parte di te? Fammi controllare. La fron-te? Il naso? Gli occhi? Mentre elencava le varie parti del volto, le sfiorava con una carezza, La bocca? Fammi constatare. Mina avvicinò le sue labbra a quelle di Ciro e lui seppe allora che no, il desiderio non era affatto rima-sto in ascensore. Forse la fantasia, forse l’incon-scio.

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Polvere di lunaSebbene il vento fosse caduto e soltanto una brezza dolce muovesse l’aria, il mare era ancora grosso e a me sembra una follia che lui ci si avventurasse da solo, come era evidente che ave-va intenzione di fare. vaNon riuscii, però, a dissuaderlo dal suo proposito.

Quando l’ultimo tedesco fu uscito, Ottavio decise che era ora di chiudere il bar; spense le luci sulla terrazza e il mare sot-tostante celò nelle tenebre gli smeraldi e i lapislazzuoli delle sue acque. Prima di rientrare, disse: “C’è ancora una lampara”. La luna, fino a quel momento mortificata dalle lampade elet-triche, fece discendere anche su noi i suoi freddi raggi. Nell’oscu-rità prendemmo un aspetto lie-vemente spettrale. La lampara era sotto la luna, come appesa a un invisibile filo che la tenesse là, a perpendico-lo, sul filo dell’orizzonte, proprio dove finiva l’argento del riflesso lunare. Forse non era una lampara di pescatori, era la barca di due in-namorati, perché era luminosa come la felicità. “Cambia il tempo: è lonta-na, ma si vede vicina”. Ottavio, come un aruspice, era capace di tradurre in pronostici ogni se-gno naturale: il colore del mare, i venti, i voli dei gabbiani, la visi-bilità delle isole all’orizzonte. Le sue doti divinatorie suscitavano un poco la mia invidia. Lui sa-peva tante cose dell’isola, più di quante ne conoscessi io! Gli detti la buonanotte e andai a dormire. Il giorno successivo un forte vento gonfiava il mare. Onde rabbiose ruggirono fino al tra-monto contro la scogliera alla base dei contrafforti della ter-razza. A notte, sebbene le barche non fossero uscite, la luce solitaria brillava sul mare. La luna giuo-cava a nascondino con nuvole e

cirri e il mare prendeva parte al gioco, illuminandosi in perfetta sincronia con l’apparizione del pianeta e spegnendosi in tempo per favorirne l’occultamento. Pure la luce misteriosa si mo-strava a intermittenza, saltabec-cando qua e là, probabilmen-te in balia dei marosi. La sua scomposta mobilità suggeriva l’idea di un tentativo di volo: come quello di un gabbiano im-plume, che si esercitasse a fare salti e capriole sul mare, prima di affrontare gli spazi del cielo. A tratti scompariva nei solchi di acqua, per riemergere, poi, e schizzare in alto, forse sulla cre-sta di un’onda, proprio quando la luna usciva allo scoperto. Si sarebbe detto che ambiva a ga-reggiare o a congiungersi con il pianeta. “Anche stasera c’è quella luce. Appare e scompare”, disse Ot-tavio. E’ strana. Non può essere una barca; chissà che cosa è!” Mi ricordai della luce durante il giorno e scrutai il mare, in cer-ca di un oggetto, boa, barca, re-litto, che potesse esserne la fon-te, ma non vidi nient’altro che il biancheggiare dei marosi e una nave che stava doppiando capo Imperatore. Il vento verso sera rafforzò e nemmeno quel giorno i pesche-recci lasciarono la banchina. Tuttavia, quando calò l’oscurità, anche la luce tornò a brillare sul mare, stancamente ripetitiva in quel suo affannoso altalenare sulle onde. “Si deve parlare a Paolo di que-sta luce”, disse Ottavio. “Penso che lui sappia dircene qualcosa,

sappia trovarne una spiegazio-ne”. Conoscevo Paolo: era creativo e poliedrico. Passava con disin-voltura dall’ufficio nel quale la-vorava al mattino, una prosaica banca, alla scuola pomeridiana di surf e al suo atelier notturno del vetro soffiato e del modellag-gio con la creta. Scriveva anche fantastiche storie. Non lo vede-vo, però, nella veste di un ricer-catore che potesse darci la spie-gazione logica di un fenomeno. Ma forse di lui non ne sapevo abbastanza e Ottavio aveva dato un suggerimento giusto. Telefonai a Paolo in orario d’ufficio, per dirgli della luce. “Mi trovi con le lune. Questo la-voro di merda! Per fortuna, ogni tanto si accende una luce. E se è misteriosa, tanto meglio; fa so-gnare di più. Stasera lascio tutto e vengo lì, all’Umberto a Mare”. Paolo arrivò sul tardi, quando ormai disperavo di vederlo, por-tando sul tetto della macchina il suo windsurf. “Ho chiuso l’ate-lier un po’ prima. Ero troppo cu-rioso di venire a vedere che cos’è questo mistero”. Rifiutò il drink che gli volevo offrire e cominciò subito a scaricare tavola e vela e a rassembrarle. Sebbene il ven-to fosse caduto e soltanto una brezza dolce muovesse l’aria, il mare era ancora grosso e a me sembrava una follia che lui vi si avventurasse da solo, come era evidente che aveva intenzione di fare. Non riuscii, però, a dissua-derlo dal suo proposito. “Vado!” gridò a mo’ di saluto; e già scivolava verso l’infinito, come un grande angelo, e scom-

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pariva alla nostra vista. Rimanemmo in ansia a guar-dare il mare e la luce lontana, che oscillava stancamente, con-tinuando ad assecondare il moto ondoso. “E’ esperto, non gli succederà niente”. Ottavio non voleva dar-lo a vedere, ma era preoccupato come me. Affidò il bar a Vittorio per poter seguire meglio la vi-cenda. Poco dopo un’ombra passò sulla luce e la cancellò per un momento. “Le è arrivata vicino, l’ha oscurata con la vela”, dis-se Ottavio. Restammo col fiato sospeso, perché ora temevamo davvero per il nostro amico. La luce poteva nascondere un peri-colo e la nostra curiosità lo ave-va spinto ad affrontarlo, da solo, nella notte. Improvvisamente, dal punto luce partì un razzo che squar-

ciò l’oscurità: sembrò centrare la luna; attratto e catturato dal pianeta, scomparve, poi, nella sua luminosità. Sussultai. “Oddio! Paolo è in difficoltà! Ha lanciato un raz-zo, un SOS!” Immaginai Paolo, naufrago, aggrappato alla sua tavola e tremai per lui. “Non aveva razzi, con sé”. Anziché confortarmi, la preci-sazione di Ottavio accrebbe la mia ansia. Era vero. Paolo aveva indossato la muta ed era partito senza nemmeno il giubbotto di protezione. Ora, la luce sul mare era scomparsa e l’oscurità totale rendeva la notte più minacciosa. “La luce non c’è più. E’ succes-so qualcosa. Dovremmo telefo-nare alla capitaneria, chiamare i soccorsi”. “Aspettiamo un momento, pri-ma di pensare al peggio”. Otta-vio, ormai, per mantenersi cal-

mo, faceva forza su se stesso. Restammo in silenzio a scruta-re il mare, un mare vuoto, sotto la luna chiara, che brillava, ora, in tutta la sua pienezza. Finalmente, dopo un tempo lungo come l’eternità, quando disperavamo di rivedere Paolo e l’angoscia sommergeva ogni al-tro pensiero, uno sciabordio e il frusciare di una vela si mescola-rono al rumore della risacca. Credo che urlai, correndo ver-so la battigia: “E’ Paolo, è Paolo che torna! Anche Vittorio lasciò il bar per assistere all’approdo di Paolo. Vidi l’windsurf arrivare, bianco contro la luna, e posare a terra la sua ala di angeli stanco. “Sei tornato, finalmente! Che cosa è successo? Che cosa era quella luce che ha solcato il cie-lo?” Assalii Paolo con le mie do-mande; non gli detti nemmeno il tempo di toccare terra e di ri-prendere fiato. “Era un pezzetto di luna cadu-to in mare. Restava a galla, ma non era capace di riprendere quota, poveraccio, proprio come le rondini. Non avrebbe potuto resistere ancora per molto: era stremato. L’ho aiutato a risali-re”. Mentre parlava, armeggiava con le attrezzature e si toglieva la muta. “Ma va!”, disse Ottavio, che nel frattempo ci aveva raggiunto insie-me a Vittorio. Anche quest’ultimo sembrava scettico. Io non sapevo se gli credevo o no; mi affascinava l’idea di un frammento di luna che per alcune sere era stato a galleg-giare davanti al mio balcone. Ma non dissi niente in favore di Paolo. “Non mi credete, vero?” Paolo guardò me, sperando nella mia so-lidarietà. Fece una pausa, per darci il tempo di mutare atteggiamento e di dargli fiducia. Infine si spazientì: “Guardate, dunque!” Ci fece vedere le mani aperte: cosparse di polvere di luna, fosforescenti, brillavano nella notte, proprio come il piane-ta.

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SemiE’ davvero bello, qui, ma non è un miracolo! Io continuo a pensare che tutto questo è merito tuo: hai il pollice verde, sai come curare le piante. O forse hai ragione: hai l’ottimismo per far spuntare i fiori sulle pietre”.

Mary dispose le carte da gioco sul tavolo del giardino, per fare un solitario e subito uno stuolo di passeri le fu attorno per bec-care i semi. Li conosceva tutti: il capostipite e iniziatore del gioco, con ciuffetto sulla testa, indice sicuro di un un pizzico di follia, la sua compagna, ge-nitrice di due covate, minuta e nervosetta, sempre guardinga, pronta a spiccare il volo al mini-mo segnale di pericolo, i pargoli della prima covata, passerot-ti allegri e senza complessi, e quelli della seconda, ancora con le tracce della lanugine fra una piuma e l’altra, incerti nel volo e più timidi dei fratelli maggiori. Tutti intorni a lei, a becchettare allegramente. “Anna, vieni a vedere!” Anna si avvicinò con precau-zione, perché non voleva spa-ventare gli uccelli. “Incredibile. No, credo che se non l’avessi vista con i miei occhi, una cosa simile non l’avrei mai creduta possibile. Quando mi racconta-vi, pensavo che tu avessi inven-tato una storia. “Sei tu che inventi e scrivi sto-rie, anzi, potresti fare un raccon-to su questo fatto.” “Una fiaba illustrata: io la scri-vo e tu la illustri”. Anna era una scrittrice. Veniva da Roma a passare le vacanze al mare. Era amica di Mery da tempo e non si stupiva più delle cose che le accadevano. Mary di-pingeva e abitava sull’isola tutto l’anno. “La realtà è sempre più fanta-siosa della fantasia. Scusami per il luogo comune, ma non trovo

altro commento. Però, certe cose capitano solamente a de-terminate persone”. Anna tentò di andare più vicina al tavolo e i passeri volarono via. “Vedi? di me hanno paura”. “Non ti conoscono. Con me han-no confidenza, ormai si fidano”. “No, non è questo. Sanno che credi nei miracoli”. “La vita è un miracolo, come non crederci? Mary guardò Anna con i suoi occhi azzurri, scosse i fluenti capelli ormai ar-gentei e le sorrise. Mary credeva nei miracoli, perché credeva nell’amore: le sue scelte di vita erano state guidate dall’amore. Fra le ric-chezze e l’amore, fra la sua arte e l’amore, aveva sempre scelto quest’ultimo. Ed era stata ripa-gata delle rinunce e dei sacrifici. No, non doveva usare queste pa-role, che gettavano sulla sua vita l’ombra del rimpianto; lei non aveva rimpianti, aveva avuto tanta luce e calore: dal sole che splendeva alto nel cielo dell’isola e dall’amore di Rocco e dei figli. “Non è un miracolo tutto que-sto? Con un gesto, Mary indicò ad Anna lo spazio circostante, orto e giardino: i fiori, intorno ai quali ferveva la costante ope-rosità delle api, gli ortaggi e i legumi rigogliosi che sembrava-no crescere a vista, i frutti sugli alberi che occhieggiavano fra le foglie, invitanti come tentazioni. Le ciliege erano là, dolci rubini a portata di mano e le albicocche sarebbero state, anche quelle, ben presto mature. “E’ davvero bello, qui, ma non è un miracolo! Io continuo a

pensare che tutto questo è me-rito tuo: hai il pollice verde, sai come curare le piante. O forse hai ragione: hai l’ottimismo per far spuntare i fiori sulle pietre”. Anna provava un poco di invidia per la capacità che aveva Mary di interpretare in positivo i fatti della vita, di volgere in opportu-nità le avversità. Mary osservava gli alberi da frutto, così carichi, che i rami si curvavano fin quasi a toccar ter-ra. Per evitare che si spezzassero sotto il peso dei pomi turgidi, Rocco aveva messo sotto ad al-cuni dei pali di sostegno. “Io mi occupo della casa. Il giardino non è merito mio. E’ Rocco che lo cura. Io mi limito a incoraggiare i fiori e i frutti”. “Sei straordinaria! Che fai? Ci parli? Anna rise con bonaria iro-nia. “Ma certo! Ci parlo, li accarez-zo. Loro sentono che li amo e crescono, si tingono dei loro co-lori più brillanti, si rigonfiano di dolci succhi. Fino a ora non ho fatto niente per loro, ma posso fare qualcosa”. “Mangiarli e farli mangiare agli amici”, disse Anna pratica e sbrigativa. “Anche i fiori: vio-lette, calendule, narcisi, sono buoni in insalata. I grappoli di acacia puoi farli fritti con i car-ciofi, le patate novelle e le zuc-chine. Invece i fiori di oleandro e di datura, velenosissimi, posso-no costituire un piatto di sicuro effetto per i nemici”. A Mary piaceva l’humour nero di Anna: era la difesa di una donna che da sola doveva tenere a bada il mondo. “Qui sull’isola non ci sono ne-mici”. “Ecco il tuo ottimismo. Ti im-brattano la porta di graffiti di-sgustosi, ti gettano immondizie nel cortile, ti uccidono il gatto e tu vedi in queste azioni la bontà del prossimo”.

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“Sono ragazzi. Il gatto è scom-parso, forse è fuggito con una micina napoletana”. Mentre parlava, Mary, che aveva ab-bandonato il gioco, si era messa a disegnare. Riproduceva carte da gioco: aveva già completato il sette di fiori, il nove di picche, l’otto di quadri. “Si, credo che posso fare qualcosa per loro. E Rocco sarà contento. Con tante fatiche che gli costa l’orto, è per lui un dolore quando vede che metà del raccolto viene rovinato dagli uccelli”. “Mettete degli spaventapasse-ri o issate sugli alberi delle gi-randole o delle banderuole, che

allontanino con il movimento i predatori”. I passeri, ora che le due donne erano prese dalla conversazione, erano tornati alla spicciolata, petulanti e pronti alla rissa per aggiudicarsi il piatto più ricco. “Sono prorio golosi di questi semi”, osservò Mary. “Questa loro golosità mi sarà alleata. Vedi come amano i semi delle carte? Guarda quanti là sopra, a disputarsi il sei di fiori! E gli altri che si contendono il tre di quadri! Buoni, buoni che vi sto disegnando un bel nove di cuo-ri, golosoni, così ne avrete tutti in abbondanza! Mary conti-

nuava a disegnare alacremente. Riempirò il giardino di carte da gioco: le spargerò per terra, le affiggerò agli alberi. Il giardi-no diventerà il loro territorio e lo difenderanno da altri uccel-li usurpatori. Salverò i frutti, Rocco sarà contento e loro pure saranno felici”, continuò Mary, indicando i passeri. “Non saran-no più costretti ad andare in cer-ca dei semi e dei frutti della ter-ra, perché credo che un passero che ha gustato il seme del giuoco e della fantasia trovi insipido il normale cibo”.

La bandiera controvento“Vuoi dire che non c’è più nessuna bandiera controvento? Sono convinta invece che esiste

ancora nel cuore di ognuno: è un’aspirazione, una necessità. E’ un archetipo”.

“Tutte le bandiere andavano col vento. Se soffiava lo scirocco, che arrivava umido, fosco per la sabbia che portava con le nubi del suo corteggio, cominciava a girarsi la banderuola della chie-sa del Soccorso, proprio la pri-ma che il vento incontrava nella sua corsa. Gemeva per la ruggi-ne che la salsedine incrostava sull’asta e continuava a cigola-re per un po’, finché trovava la posizione giusta: un mugugno da vecchia quale lei era. Tutte le altre, man mano che il vento le raggiungeva, docilmente si ade-guavano, girandosi: le bandiere variopinte dell’albergo Interna-zionale, quelle rosse che segna-lavano le tempeste, quella trico-lore sul tetto appena completato della nuova villa del deputato locale”. Mentre rintuzzava il fuoco del forno, Peppino parlava. Era una sera malinconica di fine stagio-ne. La pioggia, contrariamente

al solito, era caduta ininterrot-tamente tutto il giorno e i turisti tedeschi si erano raggruppati da Umberto a Mare, come gabbiani infreddoliti, per assistere da die-tro i vetri del ristorante al super-bo spettacolo delle folgori che cadevano in mare su tutto l’arco dell’orizzonte. Io, stanca del ruggire dei maro-si che si accanivano con rabbia sui contrafforti dell’albergo, fin quasi a ghermire la mia finestra, e del sibilare del vento in ogni pertugio dei vecchi infissi, mi ero rifugiata al Grottino, confor-tevole come una caverna primi-genia e altrettanto protetto da un percorso segreto fra vicoli, porticati e scale del vecchio bor-go. Il fuoco a legna, l’odore della pizza e la compagnia di Peppino erano preferibili alla tregenda temporalesca e alla vista dei te-deschi immalinconiti. Ero l’unica cliente e Peppino poteva sfogarsi, confidarmi la

sua amarezza. Alla fine del mese avrebbe chiuso il locale: il primo forno sull’isola a lavorare il pane con il lievito, il primo a cuocere la pizza. Le due novità portate sull’isola dal padre, che da Na-poli era emigrato a cercar fortu-na in un oltremare raggiungibile e fraterno. Tutto via: foto anti-che e ricordi. Verkaufen, si ven-de: il prezzo in lire e in marchi su ogni oggetto, sulle terracotte antiche, sui bacili di rame, sui ferri di cavallo e le vecchie chia-vi; si vende, verkaufen: lo stesso cartello affisso ora sulle stovi-glie, come, in tanti luoghi dell’i-sola, sui terreni e sulle case. Lui se ne andava. Basta con un pa-ese distrutto dalla cupidigia dei suoi abitanti e basta anche con l’Italia dei furbi: se ne andava a lavorare all’estero. Terminate le geremiadi, Peppino aveva preso a narrare l’apologo della bandie-ra a illustrazione della sua uma-na vicenda.

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“Se invece era il mistral a scuo-tere le chiome degli alberi” - con-tinuò - “e a disegnare onde d’er-ba sui fianchi della montagna, si muoveva per primo il pavese sull’albero maestro del Gabbia-no, il battello che porta i turisti a fare il giro dell’isola, attracca-to alla banchina Nord, e tutti i drappi e le bandiere, uno dopo l’altro, gli andavano dietro”. La gente accettava questa man-canza di carattere come cosa normale. Non una critica si era mai levata, mai una protesta. E perché avrebbero dovuto prote-stare? Era sempre stato così. Un giorno una bandiera si op-pose al vento. Veramente non era una bandiera come le altre, era la camicia rattoppata e stinta di un vecchio contadino, appesa a un palo della vigna ad asciu-garsi dal sudore. Successe dun-que che questa camicia si mise a garrire come una bandiera, ma anziché mettersi nella direzione delle altre, si volse controvento. Uno sforzo tremendo! Tanto che cominciò a farsi rossa. Più gar-riva e si opponeva e più il rosso si accendeva. E la gente si mera-vigliava, criticava o approvava: - Guarda quella! Crede di cambia-re il mondo! - Ma anche: - Era ora di cambiare! - La bandiera garriva, dunque, contro tutti i venti e il suo com-portamento cominciò a destare curiosità. Dapprima furono i paesani ad andare a vedere, poi, per osservare il fenomeno, la gente si spostò dai paesi vicini. Infine del fatto si impadroniro-no i mass media e furono orga-nizzati, per discutere il fenome-no, dei dibattiti, ai quali presero parte gli immancabili politici, oltre a sociologi, psicologi e sin-dacalisti. Tanta pubblicità portò le folle e le agenzie turistiche presero a organizzare viaggi, per far ammirare la bandiera con-trovento.

Il vecchio contadino, offriva a tutti il benvenuto alla sua ma-niera: - Volete un bicchiere di vino? -, chiedeva ai visitatori. I paesani bevvero e ringraziaro-no, ma quando cominciarono ad affluire i cittadini, questi misero mano al portafoglio e pagarono con denaro la cortesia del vec-chio. Era così povero il vecchio, che non aveva nemmeno dove mettere le monete: non aveva borselli e le tasche dei pantaloni erano sfondate, forse rosicchia-te da qualche topo che vi aveva trovato i resti di una merenda. I denari finirono così nelle toppe scucite della camicia controven-to. Giorno dopo giorno, la cami-cia si appesantì e non fu più in grado di garrire. Perse anche il colore rosso. Rimase sul palo e finì lacerata dalle intemperie. Ora, tutto è tornato come un tempo. Tutte le bandiere vanno nella stessa direzione, dove gira il vento”. A Peppino piaceva parlare per apologhi: non era la prima volta che me ne raccontava. Lui aveva speso tanti anni nelle battaglie politiche e non si riconosceva nel tempo ristagnante e inglo-rioso che vivevamo, contro il quale parlava, quando era con me e con altri vecchi amici. “Vuoi dire che non c’è più nes-suna bandiera contro vento? Sono convinta invece che esiste

ancora nel cuore di ognuno: è un’aspirazione, una necessità. E’ un archetipo”. Non lo dicevo soltanto per confortare Peppi-no, ne avevo la certezza. Dove-vo raccontargli un episodio di vita scolastica, per trasmettere questa certezza anche a lui, per ridargli la speranza. “Proprio oggi, passando fra i banchi, ho notato l’anomala bandiera in un disegno di Caterina: la bambina ha cinque anni; i suoi disegni rivelano la sua maturità, voglio dire che la sua realtà è da tem-po strutturata logicamente e mi ha sorpreso vedere che aveva aveva disegnato tante bandiere volte a est, tranne una, volta al contrario. Ho voluto ‘correggere l’errore’ attraverso l’esperienza: ho fatto osservare dalla finestra della scuola le bandiere del pa-ese, tutte volte nella stessa di-rezione. Pensavo che Marianna si sarebbe convinta a mettere la sua nel verso giusto, ma non l’ha fatto. - Questa va così -. Mi ha detto semplicemente”. “Mi auguro che tu abbia ra-gione, che almeno in cuore una bandiera da opporre al vento ci resti sempre”.

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ElisirUscii in giardino e respirai l’odore della terra calda, appa-gata d’acqua e il dolciastro profumo delle infide dature; ma ogni aroma fu presto soverchiato da quello inconfondibile del tè, che Lilo stava versando nelle tazze

La casa era bellissima era una proiezione della personalità di Lilo, la proprietaria, specchio della sua vita avventurosa, per-meata dello stesso suo fascino. Anche Lilo era bella, di una bel-lezza difficilmente eguagliabile, non corrotta dal tempo, anzi im-preziosita dai segni che le emo-zioni, nel corso di un’esistenza intensa e lunghissima, avevano lasciato sul suo volto di valchi-ria. Proprio questi segni, come la patina degli anni sui mobili antichi e sugli arredi della casa, rendevano Lilo unica e inimita-bile. Lei e la sua casa, con la loro bellezza, erano vittoriose nella sfida al tempo e perciò ancora disponibili al futuro. La casa era antro di Sibilla e reggia, vantava le raffinatezze di un’abitazione borghese, la semplicità di una casa rustica, la severità di uno studio d’artista e anche l’esplicita ambiguità di una garçonnière contava segreti passaggi come un castello me-dioevale e torri come una rocca, immune soltanto dalla austerità rinunciataria di un chiostro: era, insomma, tante dimore in una, ma sempre luogo dove la vita era entrata con il suo turbinare. Lo studio, dove Lilo modellava e di-pingeva era all’ultimo piano e le sue vetrate si aprivano su delle ampie terrazze: soltanto l’Epo-meo, ammantato di colori in-costanti, le sovrastava; il paese si stendeva giù in basso, senza interruzioni fino alla costa, bian-co, calcinato sotto il sole. L’astro affossava in una luce livellatrice il groviglio delle antiche costru-zioni e l’orrore delle nuove ed

enfatizzava la rotondità delle cupole rosate e delle torri sara-cene. Dalle terrazze si godeva, dunque, uno dei più bei pano-rami dell’isola: con il mare che ogni giorno, sul fondale dell’o-rizzonte, metteva in scena un repertorio diverso di onde e di maree, di bonacce e di foschie, e, assecondato dal cielo, anche di tramonti di fuoco e di notti argentate e di tempeste, queste ultime annunciate in anticipo con balenio di folgori e scariche di tuoni Era per me una gioia fare visita a Lilo, ma ogni volta che varcavo la soglia della sua casa, cadevo preda di uno smarrimento simi-le a quello che avevo provato una volta, toccando un frammento di foresta pietrificata: cosciente della mia caducità e attonita di fronte all’altrui eternità. I milio-ni di anni di un frammento liti-co o una vita come quella di Lilo erano per me misteri ugualmen-te inaccessibili; del resto, la casa custodiva i segreti della vita di lei con accorgimenti ancora più sofisticati di quelli usati dalla natura per custodire i propri; né Lilo mi avrebbe mai concesso la sua guida di mistagoga: anzi go-deva del mio sconforto quando non ero capace di discernere fra fatti e dati discordanti e testimo-nianze apparentemente attendi-bili, che, invece, avallavano delle falsità. Come ritrovare un filo in mezzo a tanti ritratti, dissemi-nati su tavolinetti e ripiani: oli, dagherrotipi, disegni, sculture, fotocolor, nei quali lei appariva nelle vesti di tutte le epoche e di

tutte le fogge? Come distinguere i veri dai falsi? Come cantante li-rica aveva interpretato ruoli nel Nabucco e nella Butterfly, nella Manon e nella Turandot, nella Carmen e nell’Aida, ma aveva vissuto in Argentina, dove ave-va ballato milonghe e tanghi, poi in Cina e in Egitto, alla corte del Kedivè, mi aveva racconta-to, ma forse confondeva episodi reali della propria esistenza con i films che aveva interpretato a Holliwood. Una volta era anche stata strappata dalle mani di corsari dalmati, sottratta alla loro lascivia e ricondotta in pa-tria su un veliero, avventurosa-mente. Fra la Lilo e il suo salva-tore, durante la traversata, era esplosa una grande passione e quando lei parlava di quella sto-ria, si emozionava ancora. Segreti tanto più inaccessibili quanto più messi in evidenza, come tracce lasciate apposita-mente per confondere investi-gatore e lettori in un racconto di Poe. Quel giorno, a costo di appari-re indiscreta, ero decisa a venire a capo di uno dei suoi segreti, il segreto chiave di ogni altro. Si, dopo il tè, avrei chiesto a Lilo la data di nascita. Avevo un pre-testo per farlo: invitandola alla mia festa di compleanno, avrei portato il discorso sull’età; le avrei confessato la mia e le avrei chiesto la sua. Non sapevo an-cora come avrei formulato la domanda: doveva sembrare oc-casionale, quasi un inciso senza importanza. Determinata, dunque, a porta-re a compimento il mio disegno, premei il campanello d’ingresso. Udii il suono propagarsi all’in-terno dell’abitazione e ridestare echi a ripetizione sotto le volte delle stanze. Lilo venne ad aprir-mi la porta, elegante in un com-pleto di foggia indiana: pantalo-ni e casacca di seta color panna,

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che valorizzavano il suo corpo longilineo. I capelli, che ancora conservavano tracce dell’oro di un tempo, erano raccolti a chi-gnon e le lasciavano liberi il col-lo e le orecchie, adornati di perle rosate. “Puntualissima, ma lo sono anch’io. Vieni, accomodati. Il tè è pronto, lo prenderemo fuori”. “Speravo proprio che me lo proponessi. Anche il giardino fa parte del tuo mondo delle mera-viglie”. “E in abbandono. Sto lavoran-do e non voglio interrompere questo momento creativo. Del resto il giardino può attendere, ha la sua vita. Le mie piante sono autonome, da quando ho installato un sistema di annaf-fiamento automatico”. Rise, sco-prendo denti perfetti e candidi. Se quel sorriso era opera di ‘re-stauro’, il dentista meritava un plauso. “Puoi precedermi, io ti seguo subito con il tè”. “Posso aiutarti?” “Non mi occorre aiuto: ho pre-parato tutto sul carrello; devo soltanto versare l’acqua nella te-iera e sono pronta”. Uscii in giardino e respirai l’o-dore della terra calda, appagata d’acqua e il dolciastro profumo delle infide dature; ma ogni aroma fu presto soverchiato da quello inconfondibile del tè, che Lilo stava versando nelle tazze. “Mi soni ricordata che prediligi l’earl gray”, disse. Dovevo subito introdurre l’ar-gomento che mi stava a cuore, prima che Lilo mi catturasse nel suo mondo fantastico: quando si abbandonava ai ricordi e comin-ciava a raccontare, perdevo, non solo il filo dei miei pensieri, ma anche la cognizione del tempo; forse per un sortilegio che lei metteva in opera. Dopo la prima sorsata di tè, le dissi: “La prossima settimana vorrei che venissi a pranzo da

me, festeggerò il mio complean-no”. “Che bello! Una festa! Aveva le reazioni entusiastiche di una adolescente. “Chi hai invitato? Dimmi”. “Sei la prima che invito; ci saranno i soliti amici: Vale-ria, Pierluigi, Agnese, Vittorio, Odette. Non è una festa da sban-dierare, ormai. E’ da tenere ri-servata”. Mi sorrise, ammiccante. “Im-para da me!” “Ora che mi ci fai pensare, non hai mai festeggiato un comple-anno, così la tua età resta per tutti un mistero”. Avevo detto, quello che mi premeva di dire; ora attendevo la reazione e la ri-sposta di Lilo.

Lasciò vagare intorno lo sguar-do, come in cerca di una scappa-toia, poi catturò il mio con i suoi occhi innocenti, celesti chiari occhi della verità. “Non ho età, non posso averla. Io non sono mai nata. Davvero, non sono mai nata, anche legalmente. Qualcuno commise un errore a scrivere l’ora di nascita sui re-gistri dell’anagrafe: scrisse zero zero, anziché dodici. Così, es-sendo l’ora annotata inesistente, non sono mai nata, sono senza tempo”. Mi sorrise di nuovo. E ora, mia cara,prendi un pasticcino. Senti quanto sono buoni questi con le mandorle.

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