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Il patrimonio idrotermale e climatico-ambientale

dell’isola d’Ischia

Un mosaico curativo naturaledi Massimo Mancioli

In rapporto con la sua complessa origine vulcanica, l’isola d’Ischia ha un patrimonio idrotermale fra i più ricchi ed interessanti del mondo: ben 69 gruppi (campi) fumarolici e 29 bacini idrotermali da cui scaturiscono 103 “emergenze sorgive”, sparse nei circa 42 kmq del territorio isolano.

Ogni singola sorgente ha caratteri-stiche chimiche e chimico-fisiche sue proprie. Esistono, poi, schemi classi-ficativi (quello di Marotta e Sica è lo schema ufficiale adottato in Italia e praticamente valido in tutto il mondo) che raccolgono le acque in gruppi e sottogruppi con caratteristiche com-positive analoghe.

La caratteristica di base delle sor-genti ischitane è quella di presentare acque notevolmente ricche di sali (da circa 2,5 a oltre 30 grammi/litro), cioè minerali, e calde o molto calde, cioè termali o ipertermali (dai 40 gradi in su).

Dai dati analitici accertati, possiamo distribuire qualitativamente le sor-genti ischitane in due grandi gruppi, con numerosi passaggi intermedi fra un gruppo e l’altro. a) Il gruppo delle acque cloruro-sodiche (o salse) net-tamente prevalente con ben 77 emer-genze sorgive, presenti in tutto il ter-ritorio isolano (Ischia Porto: 10 emer-genze; Lacco Ameno: 5; Casamicciola Terme: 8; ecc.).

Questo gruppo va suddiviso in un sottogruppo di acque salso-solfato-alcaline, presenti soprattutto a Casa-micciola Terme, salso-solfato-alca-lino-terrose, presenti specialmente a Forio, e salso-jodiche.

b) Il gruppo delle acque minerali bicarbonato-alcaline, rappresentato da 20 emergenze, presente soprattut-to a Casamicciola Terme ed a Barano. Passaggi compositivi intermedi sono anche qui presenti con acque bicar-bonato-solfato-alcaline, acque bicar-bonato-solfate e acque bicarbonato-solfato-alcalino-terrose.

Nelle acque cloruro-sodiche netta è la prevalenza del catione Sodio (Na) e

dell’anione Cloro (Cl) sugli altri ele-menti costitutivi. Il cloruro di sodio è, come noto, uno degli elementi base nell’attività vitale degli organismi vi-venti; le soluzioni fisiologiche più semplici usate in medicina nella prati-ca corrente altro non sono che soluzio-ni di cloruro di sodio allo 0,96%, cioè ad un livello di concentrazione salina isotonico con i liquidi organici. Solu-zioni fisiologiche più complesse (ad es. quella di Ringer-Lock) aggiungono alla base cloruro-sodica altri elementi salini (Potassio, Calcio, ecc.) capaci di dare alla soluzione fisiologica sempli-ce attributi di vitalità di maggior rilie-vo, cioè ancor più utili alle esigenze ed alle funzioni fisiologiche.

Tutto ciò può capirsi assai bene in Biologia Sperimentale, ove vediamo che organi isolati dall’organismo di animali da laboratorio (ad es. tratti di intestino tenue di coniglio) possono sopravvivere per un notevole lasso di tempo se immersi - con apposite ap-parecchiature - in soluzione fisiolo-gica semplice, ma solo se immersi in soluzioni fisiologiche ricche di altri elementi salini utili manifestano atti-vamente la loro vitalità.

Ciò premesso, è stato ampiamente dimostrato in esperienze ormai “clas-siche” (M. Messini, M. Mancioli) che alcune acque minerali, portate a livello isotonico con i liquidi organici dell’a-nimale da esperimento, sono in grado di svolgere un’azione di questo tipo, spesso addirittura migliore di quella svolta dalle soluzioni fisiologiche al-lestite in laboratorio. La stessa cosa si è potuta dimostrare studiando l’acque di Nitrodi di Barano (M. Mancioli).

Il concetto di “fisiologicità”, attri-buibile ad alcune acque minerali, è, nel pensiero del Messini - il fondatore della moderna Idrologia Medica - alla base della loro azione terapeutica. È, pertanto, interessante rilevare che, a parte i dati di Biologia Sperimen-tale forniti dalla ricerca sopra citata, tutte le sorgenti ischitane presenta-no, analiticamente, presupposti di “fisiologicità” nel senso indicato dal Messini. Per esigenze classificative e

per brevità non è possibile esprimere, nella definizione del tipo e sottotipo di acqua, tutte le componenti della solu-zione salina naturale. In realtà, però, queste presentano quella “armonica complessità costitutiva” che è alla base stessa dell’attributo di fisiologicità.

La presenza del Potassio è estrema-mente importante nel settore della di-namica muscolare e, più generalmen-te - con il rapporto Potassio/Sodio - nell’economia organica.

La presenza, in molte sorgenti, dello Zolfo - sotto forma di solfati - va ri-cordata per il particolare “tropismo” che ha questo elemento per le cavità articolari: somministrato, infatti, in varie forme chimiche, in animali da esperimento, è stato dimostrato (M. Messini) che lo Zolfo si concentra, appunto, a livello articolare. Ciò ac-quista particolare rilievo pensando che le membrane sinoviali e le parti tendineo-legamentose, le più delicate nell’economia articolare, sono costi-tuite, anche nell’Uomo, da composti organici in cui lo zolfo è l’elemento biologico portante.

Anche la presenza del calcio, in quantità biologicamente interessan-ti, è da tener presente. Si è visto, ad es., che i trattamenti balneo-fango-terapici con acque ricche di questo elemento hanno un’azione cosiddetta “sedativa” (S. Pisani), vale a dire - in sostanza - tale da ridurre o limitare fenomeni reattivi troppo intensi da parte dell’organismo trattato (reazioni termali generali o locali, con transi-toria, moderata riacutizzazione della sintomatologia dolorosa a livello arti-colare). Come ovvio, ciò può risultare utile nei casi clinici in cui tali reazioni sono prevedibili.

Qualche sorgente - ad es. la Tifeo che sgorga ad Ischia presso le Terme Continental - ha anche un carattere salso-jodico che raggiunge soglie bio-logicamente interessanti. Nel quadro generale delle indicazioni terapeuti-che delle acque ischitane tale caratte-re può risultare utile in alcune forme dismetaboliche, legate cioè ad altera-zioni del ricambio: ad es. in alcuni casi

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di obesità, nella gotta e nelle artropa-tie uratiche. In ginecologia il carattere salso-jodico risulta utile, in partico-lare, nelle forme peri-visceritiche. In otorinolaringoiatria il carattere di cui sopra trova il suo terreno d’elezione nel trattamento dell’adenoidismo e (mediante insufflazioni tubo-timpa-niche, associate alle consuete cure inalatorie) nella sordità rinogenea e nell’otosclerosi.

Si è usata, sopra, l’espressione “so-glie biologicamente interessanti” per sottolineare un fatto poco noto e cioè che la presenza di un determinato elemento chimico in una determinata quantità - dati che ci vengono forniti dall’analisi chimica dell’acqua minera-le - non significa sempre, automatica-mente, che quell’elemento svolga l’a-zione prevista “sulla carta”. Ciò perché la complessità delle soluzioni saline naturali è tale che ogni singolo com-ponente della soluzione va valutato nel quadro complessivo della soluzio-ne stessa, sul piano biomedico dell’a-zione esercitata dall’acqua minerale in toto. Se ad es. prendiamo in esame, in una cura per bibita, l’effetto del solfa-to di sodio contenuto nella sorgente, dobbiamo tener presente che altri sali possono far aumentare l’effetto lassa-tivo del solfato di sodio prevedibile in base ai dati analitici. In altre acque, al contrario, si ha una riduzione dell’ef-fetto lassativo previsto “a tavolino”. Nelle soluzioni fisiologiche naturali più volte ricordate, la presenza di de-terminate quantità di solfato di sodio non dovrebbe consentire alcuna azio-ne fisiologica, come, invece, in realtà si ha. Anche qui, quindi, questo sale è in parole povere “bloccato da altri ele-menti chimici presenti nella soluzione salina naturale”.

La complessità delle acque minera-li è ancora più profonda di quanto ci dicono i comuni dati analitici. È possi-bile, oggi, mettere in evidenza i cosid-detti oligoelementi, cioè gli elemen-ti contenuti nell’acqua minerale in quantità infinitesimale, spesso, però, biologicamente attivi, capaci di agire come catalizzatori di processi organici che si svolgono nell’intimità dei tes-suti. Si pensi, del resto, che - come ci mostra la Farmacologia - l’azione anti-anemico-perniciosa della Vitamina B12 inizia alla dose di “gamma” 15 in presenza del 4% di Cobalto, vale a dire in presenza di “gamma” 0,0000006 di Cobalto. Si tenga presente che il “gam-ma” è pari a 1/1000 di milligrammo...

Non c’è quindi da stupirsi se, specie nell’interpretazione dell’azione cura-

tiva delle acque a più debole minera-lizzazione, si possa ricorrere ad ipotesi che tengano conto degli oligoelementi presenti.

Il problema di fondo da risolvere in partenza nei trattamenti balneo-fan-go-terapici per ottenere risultati validi è quello di “intonare l’entità dello sti-molo (stress) termale, esercitato dalle cure stesse, alla capacità reattiva del paziente”.

Nelle cure inalatone e nelle cure gi-necologiche il contatto diretto dell’ac-qua con mucose particolarmente sen-sibili e capaci di elevato assorbimento consente di ottenere una azione locale di evidente interesse clinico-pratico, ma anche una azione più profonda e generale.

Le sorgenti termo-minerali dell’i-sola d’Ischia offrono un ventaglio di indicazioni terapeutiche quanto mai omogeneo, “convergente” su precisi settori della Patologia. Ciò consente l’attuazione di “cure mirate”.

Il patrimonio climatico-am-bientale dell’isola d’Ischia ha sempre goduto, nel corso dei secoli, di una fama ben merita-ta. Pochi sanno, tuttavia, che di fronte alla recezione poetica di tanti artisti, l’isola è l’unico cen-tro termale italiano dotato di un Osservatorio Geofisico (Casa-micciola Terme) che può offrire ai suoi ospiti ed agli studiosi un quadro esauriente dei requisiti climatologici locali. Le impres-sioni poetiche vengono, quindi, tradotte in precisi dati di fatto grazie alle osservazioni compiu-te dal climatologo C. Mennella. Un ulteriore programma di os-servazioni, da compiersi in pic-cole postazioni meteorologiche sparse nel territorio isolano, potrebbe portare ad una più ap-profondita conoscenza scientifi-ca delle varianti climatiche locali di maggior interesse biomedico. Sin da ora, tuttavia, è possibile rilevare le significative varianti collinari e collinari submonta-ne (il monte Epomeo raggiunge i 780 m.) dell’interno del terri-torio, nel quadro complessivo del clima marino-mediterraneo dell’Isola.

Sul piano biomedico pratico va sot-tolineato il fatto che la rapidità con cui, date le brevi distanze, è possibile venire a contatto con le varianti di cui

sopra, è senza dubbio importante per l’organismo umano e può acquistare, in particolari condizioni patologiche, un preciso significato climato-tera-pico. Alla blanda azione generale di stimolo esercitata da queste moderate varianti climatiche vanno, infatti, ag-giunte specifiche azioni legate alla ca-ratteristica della variante stessa (tem-peratura, grado di umidità, ventilazio-ne, incidenza dei raggi solari, ecc.).

È, inoltre, da rilevare (C. Mennella) che, in ragione della sua conformazio-ne orografica, l’isola d’Ischia ha una sua autonoma individualità climatica che la caratterizza differenziandola da altre isole vicine e dalla prospiciente costa campana: le ampie distese bo-scose del versante Nord dell’Epomeo hanno un ruolo preponderante in tut-to ciò e vanno considerate come il vero “polmone dell’Isola”.

Un confronto fra dati climatologici ischitani, rilevati a Ischia Porto ed a S. Angelo (cioè sulla costa Nord e su quella Sud), e quelli relativi ad altre Stazioni Termali italiane (rilevati ne-gli Osservatori più vicini ai luoghi di cura) è certamente interessante e fa comprendere come l’utilizzazione del-le cosiddette fasce fuori stagionali per l’attuazione di un termalismo a carat-tere continuativo nel corso dell’anno sia, ad Ischia, pienamente giustificato sul piano biomedico. C’è da osserva-re, su questo tema, che le moderne attrezzature di climatizzazione artifi-ciale consentono un termalismo an-nuale anche in località sprovviste di requisiti climatici idonei in autunno e nell’inverno. Ma è certamente ben diverso eseguire una cura termale e restar sempre chiusi in ambienti cli-matizzati e poter, invece, godere nel soggiorno curativo dei requisiti clima-tico-ambientali che l’Isola offre tutto l’anno. I dati climatologici relativi alla temperatura ed alla umidità possono essere tradotti sul piano del benessere o malessere individuale mediante lo schema di Shepherd.

Il nuovo di questa valorizzazione razionale dei beni naturali che affian-cano la cura termale vera e propria consente un allargamento nel tempo e nello spazio del concetto stesso di cura termale, non più considerata come ristretta al solo contatto diretto pa-ziente-sorgente, ma dilatata all’intera giornata di soggiorno curativo, aperta il più possibile al godimento di spazi più ampi offerti dal sub-territorio cir-costante.

In questa nuova ottica, il termalismo di oggi chiama direttamente in campo

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l’ecologia, anzi un tipo di ecologia con caratteri più radicali di quanto si sia soliti pretendere da sub-territori non destinati alla gestione della salute con mezzi di cura naturali. Nasce così una Ecologia Termale con esigenze spe-cifiche: parliamo, infatti, come obiet-tivo ideale, di comprensori turistico-termali (G. Spadea) e siamo contro la creazione di metropoli termali. Un Centro Termale altamente qualificato come l’isola d’Ischia può essere consi-derato come un oppidum, vale a dire come una fortezza circondata - come Roma insegnava - da un pomerium, cioè una adeguata zona di rispetto, sa-cra ed inviolabile... Ischia è un’isola... Abbiamo il mare. I requisiti climatico-ambientali illustrati vanno conside-rati, sul piano biomedico, come com-ponente di tutto riguardo nell’azione terapeutica delle cure ischitane.

Indicazioni terapeutiche

1 - Croniche reumo-artropatie (osteo-artrosi, arditi reumatoidi non in fase acuta; gotta; artropatie urati-che in genere; ecc.).

2 - Manifestazioni dolorose neuro-muscolari (mialgie, nevralgie, radico-lalgie), anche nel quadro delle affezio-ni di cui sopra (ad es. sciatalgie secon-darie a disco-artrosi lombo-sacrale; brachialgie secondarie ad artrosi cer-vicale, ecc.).

3 - Forme peri-artritiche (ad es. scapolo-omerali, con limitazione fun-zionale dell’articolazione della spalla, ecc.).

4 - trattamenti riabilitativi in Orto-pedia e Traumatologia, nel recupero funzionale degli artro-lesi, nei postu-mi di prolungate immobilizzazioni in gesso, negli esiti di interventi ortope-dici, ecc. In questo settore, partico-larmente importanti sono le pratiche idro-chinesi-terapiche (terapie di mo-vimento in piscine termali).

5 - InO.R.L. (Olorino-laringoiatria): riniti, faringiti croniche o recidivanti e nelle forme bronchitiche croniche, anche ad impronta asmatiforme, me-diante cure inalatorie.

6 - In Ginecologia, nelle croniche infiammazioni degli organi pelvici (vulvo-vaginiti, metriti, parametriti, annessiti, ecc.) mediante irrigazioni vaginali e/o aerosol ginecologici. In alcuni casi, specie se associate a trat-tamenti balneo-fango-terapici locali {Fango a mutandina) o generali, le cure ginecologiche risultano utili in talune forme di sterilità femminile e nelle perivisceriti.

7 - Un settore sino ad ora trascura-lo, ma meritevole di grande interesse, è quello della utilizzazione delle cure ischitane nel campo delle vasculopatie periferiche (disturbi circolatori venosi o arteriosi a carico degli arti inferiori). In questi casi vengono impiegate tec-niche d’uso che consentano una vera e propria “ginnastica vascolare” (ad cs. gli “anelli idrici” giapponesi, metà caldi e metà freddi, da percorrere a piedi), la massoterapia di scorrimento sotto la doccia a caduta tipo Evian, ap-plicazioni locali di fango “medicato”, a temperatura cutanea, nei disturbi capillari-venosi.

8 - Mediante maschere di fango (in cui il fango terapeutico è preparato con particolare tecnica e accuratezza) docce filiformi al viso, le acque ischita-ne sono particolarmente indicate nei trattamenti “eudermici”, in Dermato-logia e Cosmetica. Nella cellulite, utili tutte le cure esterne, in particolare gli idro-massaggi.

9 - Alcune tecniche termali (ad es. gli idromassaggi, le docce a pressione, le piscine caldo-fredde tipo Kneipp) ed i requisiti climatico-ambientali offerti dall’Isola risultano particolarmen-te utili nelle forme asteniche legate a “surmenage” psico-fisico. Parliamo, in questi casi, di “recupero psicosomati-co di base”, sempre più necessario nel-la vita stressante dei nostri giorn.

10 - A parte vanno considerate tre sorgenti usate per bibita: Nitrodi e Olmitello, di Barano, del Cappone di Casamicciola, che sono indicate nel-le dispepsie gastroduodenali. La Ni-trodi ha, inoltre, una spiccata azione diuretica e anti-urica che può essere utilizzata nella calcolosi renale e nei trattamenti delle forme gottose e ipe-ruricemiche: poiché un buon 25% de-gli artropatici che frequentano Ischia presenta alterazioni del ricambio dell’acido urico, la cura idropinica può affiancare in questi casi, con ragione di causa, il trattamento balneo-fango-terapico. L’acqua Nitrodi viene anche molto usata per uso esterno essendo particolarmente utile in Dermatolo-gia.

Controindicazioni

Come tutti i mezzi terapeutici, an-che le cure termali hanno, a fianco alle indicazioni, le loro controindicazioni che possono essere così riassunte:

Età molto avanzata; insufficienza cardiocircolatoria; grave insufficienza epatica e/o renale; forme tumorali; forme specifiche (t.b.); fasi acute di

processi morbosi (anche quelli per i quali, in fase non acuta, vi è indica-zione); stati cachettici (grave deperi-mento organico). Controindicazione transitoria è la gravidanza ed il perio-do mestruale. Controindicazione tran-sitoria locale è data da eritemi solari e forme irritative cutanee.

Le applicazioni in loco di fan-go, le sabbiature, le docce trop-po violente e i bagni troppo cal-di sono controindicati nelle varici, stati pre-varicosi, ectasie (dila-tazioni) e fragilità dei capillari. Nelle cure inalatone e ginecologiche sono da escludere le forme specifiche, le affezioni tumorali e le fasi acute delle malattie.

Tecniche d’uso

E’ stato già accennato ad alcune tec-niche d’uso mediante le quali le acque ischitane trovano utile impiego in Te-rapia.

La fango-terapia, estesa alle zone del corpo precisamente indicate dal medico termalista, precede la balneo-terapia. Questa può svolgersi, a secon-da delle necessità cliniche individuali, o in vasca singola, o mediante docce speciali (ad es. a pressione) o in pi-scina termale calda. Una tecnica par-ticolare è quella dell’ idro-massaggio subacqueo, eseguito da personale specializzato, in apposite vasche, o au-tomaticamente prodotto da augelli a getto convergente, in vasche singole o in piscina termale.

A proposito della fango-terapia, è opportuno rilevare alcuni dati impor-tanti. I processi di “maturazione” gra-zie ai quali l’argilla vulcanica del ter-ritorio isolano si trasforma gradata-mente in fango terapeutico avvengono in diversi mesi, seguendo una tecnica precisa. L’argilla vulcanica, opportu-namente essiccata e depurata, viene posta nelle vasche di maturazione in strati non superiori agli 80 < cm circa, in modo da consentire un quotidiano, agevole rimestamento della poltiglia che viene a formarsi con il continuo scorrere di un flusso d’acqua mine-rale calda. Le vasche di maturazione sono poste ali ‘aperto o in locali con ampia comunicazione con l’esterno, da ciò l’influenza, anche di microfat-tori biologici ambientali nei processi di “maturazione”. Micro-organismi di vario tipo, vegetali ed organici, alcuni caratteristici delle argille vulcaniche, vengono via via sviluppandosi confe-rendo, gradatamente, al fango carat-teri del tutto particolari, individuabili

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con apposite analisi. Ma già dall’a-spetto esteriore il fango “maturo” è ben diverso dalla poltiglia argillosa costituita dal fango “vergine”: il colo-re di quest’ultima, ad es. è marrone, mentre il fango maturo, per la presen-za dei micro-organismi di cui sopra e fenomeni chimici paralleli, diventa nelle vasche di maturazione decisa-mente verdastro. Una volta maturo il fango terapeutico è pronto per essere utilizzato: viene quindi trasportato in una vasca termale con funzione di bagno-maria, già pronto per l’uso, in appositi secchi.

Grande importanza pratica ha il grado di consistenza del fango tera-peutico, da cui deriva la sua particola-re plasticità, che permette una perfetta aderenza con le superfici cutanee trat-tate. Inoltre, poiché la temperatura delle applicazioni, che durano 12’-15’, si aggira sui 44-46 gradi C, la giusta consistenza del fango è indispensabile perché la pelle del curando sopporti bene tale temperatura. E’ noto, infat-ti, che la tolleranza della cute umana nel contatto con una fonte di calore è tanto pi ù elevata quanto più secca è la fonte calorica (ad es. nei “forni” a ca-lore secco si sopportano temperature che sarebbero del tutto impossibili col calore umido; non ci si scolta toccan-do il coperchio di una pentola che sta bollendo, ma venendo a contatto col vapore che ne fuoriesce; ecc.). Pertan-to, se il fango fosse troppo acquoso, sarebbe impossibile sopportarlo a 44-46 gradi C. Al contrario un fango tera-peutico di giusta consistenza sembra tiepido se applicato a 38-39 gradi C.

I trattamenti balneo-fango-terapici - cura classica del termalismo ischi-tano - e gli altri tipi di cura vengono prescritti dal medico termalista dello stabilimento, in base alle necessità cli-niche del curando, servendosi di una apposita cartella clinica in cui viene traccialo un preciso schema curativo; (numero, tipo e modalità dei tratta-menti, durata e temperatura dei bagni termali, sede, durata e temperatura delle applicazioni fango-terapiche; eventuali giorni di riposo nel corso della cura; durata e intensità del pe-riodo di reazione, che si pratica al ter-mine delle applicazioni balneo-fango-terapiche; eventuali avvertenze per il personale, ecc.).

II massaggio, totale o parziale, al termine della seduta balneo-fango-terapica è quanto mai utile: le parti-colari condizioni di relax delle masse muscolari che si ha in quel momento consente di ottenere risultati partico-

larmente validi senza forzare troppo la pratica massoterapica. Negli artro-sici e nei reumo-pazienti in genere, in cui si hanno condizioni ben diverse di quanto non si abbia negli sportivi pra-ticanti, ciò è senza dubbio importante.

Una variante, in molti casi utile, alla “cura classica” può essere fornita dal “fango massaggiato”. Con questa tec-nica viene eliminato lo stress termale prodotto dalla fango-terapia classica: il fango viene lievemente massaggiato in aree ristrette (ad es. mono-artico-lari) senza che il paziente venga, poi, avvolto con lenzuola e coperte di lana. Ciò può permettere la cura in sogget-ti defedati per i quali un trattamento classico sarebbe controindicato. Inol-tre, in altri casi, ciò può permettere un rafforzamento della cura classica a determinati livelli articolari partico-larmente bisognosi di un trattamento più intenso (ad es. a livello cervicale o lombosacrale).

Come accennato, il bagno termale può essere sostituito, in alcuni casi, con docce speciali, l’idro-massaggio subacqueo, ecc. L’argomento “piscine termali” acquista, nell’isola, un signi-ficato del tutto particolare. Infatti, a parte gli impianti esistenti nella quasi totalità degli alberghi ischitani - in al-cuni è in funzione anche una piscina curativa al coperto - sono presenti nel territorio isolano Parchi Termali do-tati di diverse piscine a temperature differenziate, ed inoltre di piscine di acqua di mare (gradevolmente agibili anche nelle fasce fuoristagionali gra-zie ad opportuno miscelamento con acqua termale calda).

La possibilità di abbinamento con le pratiche elio-marine permette a questo genere d’impianti, consenti-ti dalla splendida cornice climatico-ambientale dell’isola, di costituire nel termalismo mondiale dei nostri giorni un esempio unico.

Piscine termali del tutto partico-lari sono quelle, già ricordate, tipo Kneipp (piscine calde e piscine fredde affiancate) e quella giapponese (anel-lo idrico, metà caldo, metà freddo, da percorrere a piedi su un fondale ghia-ioso, che aumenta lo sforzo muscolare a livello dei polpacci), particolarmente utile nelle vasculopatie periferiche ve-nose o arteriose.

Una tecnica termale notevolmente interessante è quella delle “grotte” o “saune naturali”, in cui vengono uti-lizzati i vapori di sorgenti iper-termali. Questo tipo di cura risulta utile nel campo delle croniche Reumo-artro-patie (osteo-artrosi, artriti reuma-

toidi, ecc.) e delle altre affezioni in cui si pratica la balneo-fango terapia, particolarmente nelle forme con ma-nifestazioni dolorose neuro-muscolari (mialgie, nevralgie, ecc.) e nelle forme ad impronta dismetabolica con obesi-tà. Allo stesso tempo, l’inalazione dei vapori delle sorgenti ipertermali che si ha nella “grotta” risulta utile nelle af-fezioni delle vie aeree superiori e dei bronchi, essendo questa, in sostanza, anche una tecnica inalatoria.

La forte sudorazione (diaforesi) che si ha con le “grotte” è superiore, in ge-nere, a quella, pur elevata, che si ha con la balneo-fango-terapia classica. Anche lo stress di questa cura è con-siderevole. Ne consegue la necessità di un accurato controllo clinico prima del trattamento e - se giudicato oppor-tuno dal medico termalista - un recu-pero del potassio, perso con la grande sudorazione, mediante l’uso di farma-ci che lo contengono.

Le sabbiature hanno una antichis-sima tradizione curativa nell’isola d’I-schia: hanno le stesse indicazioni tera-peutiche della balneo-fango-terapia; vengono in genere eseguile all’aperto, in alcuni Parchi Termali e in alcune spiagge. Anche per questa tecnica cu-rativa naturale è necessario un con-trollo medico preliminare accurato, ed una adeguata sorveglianza nel corso del trattamento.

Di notevole interesse si è mostrato, in questi ultimi anni, l’uso dei bagni termali ozonizzati. L’ozono (ossigeno trivalente) viene fatto gorgogliare da uno speciale tappetino posto sul fondo della vasca (o dal bordo di piccole pi-scine curative).

Oltre all’azione stimolante delle bollicine sul circolo periferico (utile, soprattutto, nelle alterazioni dei ca-pillari), viene a crearsi nella cabina un’atmosfera ricca di ossigeno, una vera e propria “tenda di ossigeno”, utile soprattutto negli anziani che, in queste condizioni, sopportano molto più agevolmente la “fatica” della cura. Si è notato, infatti (M. Mancioli) che, con la diffusione di questa tecnica, i giorni di riposo infrasettimanale det-tati da reali esigenze mediche si sono considerevolmente ridotti.

Una tecnica termale degna di atten-zione è anche quella delle docce gengi-vali, utili per la loro azione di stimolo su gengive alterate da fatti piorroici. La sempre più larga diffusione delle alterazioni statico-dinamiche della colonna vertebrale, a partire dalla sco-liosi, fa sì che l’abbinamento fra prati-che termali e pratiche fisioterapiche di

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venti sempre più attuale. E’ evidente che i difetti di posizione dei corpi ver-tebrali costituiscono una importante “causa nociva in più” nell’evoluzione dell’artrosi (v. discopatie). Molte vol-te non ben “recepita” dal paziente, la scoliosi è assai spesso l’effetto di una anche lieve inclinazione dell’asse tra-sverso del bacino, a sua volta legata ad una lieve differenza nella lunghezza dei due arti inferiori. Partendo da una base non perfettamente orizzontale, la colonna tende a raddrizzarsi così come farebbe un albero piantato su un terreno inclinato; ne deriva una cur-vatura, più o meno marcata, in senso laterale, curvatura che ha quindi un fine di “compenso alla partenza su un piano d’orizzonte alterato”. Molti di questi casi, ancora lievi e addirittura pressoché “muti” nella loro sintoma-tologia, ma non per questo trascura-bili, vengono alla luce nel corso della visita medica di ammissione alle cure termali e richiedono, oltre all’abbina-mento curativo sopra ricordato, pic-coli, banali, ma utili consigli pratici (ad cs. l’uso di una semplice soletta di sughero sotto il piede della gamba più corta).

L’abbinamento delle pratiche ter-mali con quelle fisio-terapiche può essere attuata grazie alle efficienti pa-lestre create a fianco delle piscine ter-mali coperte in alcuni stabilimenti.

Fra le tecniche d’uso di maggior in-teresse pratico e dottrinario va senz’al-tro posta la “idro-chinesi-terapia”: chinesi-terapia (terapia di movimen-to), fatta eseguire da fisioterapisti specializzati in piscina termale. L’ab-binamento dei benefici traibili dalla balneo-terapia con quelli derivanti dalla terapia di movimento ha un ca-rattere sinergico, nel senso che le due componenti terapeutiche si potenzia-no a vicenda.

Questa tecnica termale e non solo indicala come trattamento d’elezione nel recupero funzionale degli artro-lesi, nei postumi di interventi ortope-dici, quando, per prolungala immo-bilizzazione ingesso bisogna superare fenomeni di ipotrofia muscolare, nelle atlopatie in genere (croniche alterazio-ni a livello articolare negli atleti), ecc., ma anche nel campo delle croniche reumo-artropatie e nel settore delle alterazioni statico-dinamiche dell’ap-paralo scheletrico (ad es. scoliosi).

Per il principio di Archimede, i mo-vimenti di un corpo immerso nell’ac-qua sono mollo più agevoli di quanto non possa avvenire fuori dall’acqua. In più, la blanda azione anlalgico-

miorilassanlc della piscina termale fa-vorisce in modo particolare le pratiche chinesi-terapiche.

La idro-chinesi-terapia e, in mol-tissimi casi, abbinata al trattamento fango-terapico o balneo-fango-terapi-co. Nel secondo caso si può dividere la giornata curativa (al mattino una tec-nica curativa, nel pomeriggio l’altra) per non affaticare il paziente.

Un altro abbinamento terapeutico che presenta lati interessanti è quel-lo fra cure balneo-fango-terapiche e trattamenti “chiroterapici”. Dal greco “Cheir”, “mano”, la “chiro-terapia” è un tipo di fisioterapia che tende, con tecnica manuale (“chiro-terapia atti-va”), ma anche strumentale (“Chiro-terapia passiva” mediante apparec-chiature per trazioni) a ripristinare gli spazi fisiologici fra i corpi vertebrali, alterati da alterazioni statico-dinami-che della colonna vertebrale. In cam-po termale questa tecnica è particolar-mente utile per risolvere rapidamente (anche se transitoriamente) episodi dolorosi acuti, durante i quali la cura termale è controindicata. Inoltre, dopo il trattamento balneo-fango-terapico la tecnica chiroterapica può essere applicala con buoni risultati “senza forzare la mano”, data la parti-colare recetti v ita del le masse musco-lari, ben rilassate dalla balneo-terapia. Ciò ovviamente ha la sua importanza. In alcuni casi può essere utile integra-re la cura termale con applicazioni di laser-terapia, magneto-terapia, ecc.

Curare razionalmente l’alimenta-zione nel corso della cura termale, evitando eccessi alimentari, è una re-gola di fondo valida per tutti. In alcuni casi, dovendo correggere condizioni di super-peso si ricorre a norme die-tetiche appropriate. L’aumento del metabolismo basale che si verifica nel corso della cura (e che si traduce in un maggior consumo calorico da parte dell’organismo) è, in questi casi, un elemento positivo non trascurabile per risolvere i problemi di linea.

Per quanto riguarda le cure inalato-ne, le cure ginecologiche e i trattamen-ti eudermici, le tecniche d’uso possono essere così illustrate:

a) cure inalatorie: inalazioni, ae-rosol, nebulizzazione ambiente, hu-mages. La grandezza delle micelle acquose prodotte dalle varie tecniche inalatone e diversa. Più le micelle sono piccole (a livello di qualche micron, ad es. negli aerosol) più il loro potere di penetrazione nell’albero respiratorio e grande. Le varie tecniche, che possono abbinarsi, vengono scelte dal medico

termalista in rapporto alle necessità cliniche del curando. Nelle inalazioni viene inalato il getto di vapore che sca-turisce dall’apposita apparecchiatura; negli aerosol si può scegliere fra una inalazione direttamente per via nasale o una mascherina che consente l’ina-lazione sia nasale che orale,

b) Cure ginecologiche: irrigazioni vaginali, aerosol ginecologici. Anche qui il potere di penetrazione della tec-nica aerosolica è maggiore, ma non è detto che in tutti i casi sia necessa-rio. Il medico termalista stabilirà con precisione se l’utile azione di lavaggio esercitato dalle irrigazioni sulle muco-se cronicamente infiammate può esse-re utilmente associata all’altra tecnica curativa.

c) Trattamenti eudermia: maschere di fango terapeutico adeguatamente preparato per questo scopo e docce filiformi al viso. Il fango terapeutico per questa tecnica termale è di colo-re bianco o biancastro, di consistenza finemente cremosa, del tutto inodore. Ciò si ottiene trattando il fango tera-peutico con ossido di zinco, bentonite ed eventualmente altri prodotti che non alterino la base terapeutica del fango stesso, ma ne rendano grade-vole l’aspetto e consentano, allo stes-so tempo, un’azione particolarmente utile.

Si è accennato ad un tipo speciale di fango che trova impiego nelle vasculo-patie venose periferiche: il cosiddetto “fango medicato”. Si tratta di un fan-go terapeutico arricchito di sostanze astringenti, che va usato a temperatu-ra corporea per curare o proteggere le manifestazioni varicose o pre-varico-se, le ectasie capillari, ecc.

La vasta possibilità di scelta fra le varie tecniche terapeutiche impone un ovvio “self-control” da parte del curando, che deve seguire la prescri-zione del medico termalista ‘ evitando di “fare di più”, empiricamente, per semplice curiosità o per tema di fare troppo poco. Il programma curativo giornaliero va scandito da orari che la-scino un giusto margine di tempo per il riposo e per il pieno godimento del-le risorse ambientali offerte dall’isola d’Ischia.

Specie nei trattamenti balneo-fan-go-terapici è importante osservare nella alimentazione un orario intona-to alla cura. Questa, infatti, va svolta lontano dai pasti. Se si desidera fare la cura la mattina presto, si potrà bere, al risveglio mattutino, un caffè o un the al limone, con un toast, riservando la

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prima colazione al dopo cura. Se, in-vece, la cura viene fatta la mattina più tardi, si farà la prima colazione due ore prima, evitando le pesanti colazio-ni “all’inglese” (con molto burro, uova, bacon, ecc.). Facendo la cura nel po-meriggio, alle 17, la seconda colazione dovrà essere sobria e si lasceranno passare 4 ore.

Specie per le persone con carnagio-ne chiara, si deve tener conto che con i trattamenti balneo-fango-terapici la cute acquista un allo grado di sensi-bilità per cui è più facilmente soggetta agli eritemi solari; opporiuno, quindi, ridurre nettamente, nei primi giorni, i tempi abituali di esposizione al sole.

L’intensa sudorazione può portare ad una lieve ipo-potassiemia, cioè ad un impoverimento del normale livello emalico del potassio, facilmente ri-solvibile con l’assunzione di prodotti ricchi di questo elemento. Sempre l’intensa sudorazione può creare, con eccessive perdite di cloruro di sodio, un impoverimento del contenuto in acido cloridrico del succo gastrico (ipocloridria), con conseguente pesan-tezza post-prandiale. In questi casi è opportuno fare uso di cibi che aumen-tano l’acidità gastrica (ad es. sottaceti, moderate quantità di vino, caffè, thè, brodi di carne, ecc.).

Una moderata attività sportiva, ade-guala ali ‘età e alle condizioni fisiche del paziente, è senz’altro consigliabile.

Anche il tenore di vita durante la cura deve essere intonato alla circo-stanza, evitando eccessi di ogni genere senza, tuttavia, privarsi degli svaghi offerti dall’isola.

Esponiamo sinteticamente, infine, i punti salienti di un tema assai dibat-tuto nell’isola d’Ischia: quello della associazione delle cure balneo-fango-terapiche con le pratiche elio-marine.

Si può rilevare che: 1 - Tale associazione è da consi-

derarsi relativamente nuova in Ita-lia, in quanto applicata dal 1952 (M. Mancioli, V. P. Consigli) solo in pochi dei Centri Termali che dispongono, come Ischia, dei requisiti climatico-ambientali idonei al suo svolgimento. Nei Centri termali rumeni e russi, sul Mar Nero, l’associazione in esame è da tempo largamente eseguita, ma solo nel mese di agosto, unico mese che of-fra condizioni climatiche idonee.

2 - Una attenta valutazione teorico-pratica dell’argomento ha dimostrato, su ampia base clinico-statistica, la va-lidità del trattamento.

3 - Ovviamente, anche in questo caso, è necessario:

a) una accurata selezione clinica; con esclusione, nelle croniche ar-tropatie, di tulle quelle forme che si presentano non chiaramente in fase di stabilizzata quiescenza sul piano flogistico-reattivo.

b) Esatta conoscenza microclima-tica dell’ambiente elio-marino da utilizzare, in rapporto a: ampiezza, orientamento delle spiagge, regime giornaliero delle brezze, temperatu-ra dell’acqua di mare nel corso della giornata; ecc.

c) Scelte idonee (e controllo) dei tempi e delle modalità di attuazione delle pratiche elio-marine e loro op-portuno distanziamento, nel corso della giornata, dalle cure termali. In questa programmazione si deve te-ner conto , fra l’altro, della particolare iper-reattività cutanea che si ha con le applicazioni fangoterapiche.

Tra i riflessi positivi di questa as-sociazione va segnalalo l’incremento delle pratiche balneo-fango-terapiche in tutti quei settori che interessano il campo preventivo. E’ possibile infatti che escludendo l’aprioristica vecchia concezione dell’incompatibilità fra pratiche elio-marine e balneo-fango-terapia, molti soggetti appartenenti a questo settore e che prima rinuncia-vano alle cure termali per non rinun-ciare al mare, usufruiscano volentieri del trattamento associato. D’altra par-te, la riconquista, nei vecchi artrosici, del godimento di beni naturali ritenuti fuori dalla propria portata, ha un no-tevole valore sul piano psico-somatico e induce, spesso, questi soggetti a modificare sostanzialmente abitudini troppo sedentarie di vita in contrasto con i moderni concetti della Geronto-logia (P. De Nicola).

La cornice estetica ambientale dell’i-sola d’Ischia è stata per secoli esaltata da poeti e pittori. Non tutti sanno però che anche questo fattore, che sembre-rebbe di dominio puramente artistico, ha una notevole importanza medica.

M. Messini, ad esempio, nell’ana-lisi biologica e medica del “bello am-bientale” impiega il termine di “este-toclimatologia” eri tiene essenziale prendere in esame gli “estcrocettori” di Sherrington, cioè quegli organi di senso che sono più particolarmente impressionati da stimoli provenienti dal mondo esterno. Ricorda opportu-namente B. Messina che “la radiazio-ne solare, la temperatura, l’umidità, la nebulosità, la pressione, i venti, l’elettricità atmosferica, sono in grado di influire più o meno rapidamente, in

maniera diretta, su determinati este-rocettori e, più o meno indirettamen-te, sugli enterocettori (propriocettori, viscerocettori, ecc.)”. Altri elementi (il colore dell’ambiente, i fattori estetici naturali, ecc.) sono capaci di influire su altri eslerocettori (ad es. la vista).

Per concludere l’ar-gomento “influenza del lato estetico sul comportamento bio-logico dell’organismo umano”, fatto psicosomatico non trascurabile legato funzionalmente all’apporto degli este-rocettori ai centri cerebrali, è da ricor-dare quanto osservato a Firenze a pro-posito della “Sindrome di Stendhal” ossia dello shock emotivo che colpì il grande scrittore francese (nella prima metà del XIX secolo) al suo primo im-patto con i capolavori della Galleria degli Uffizi, del Bargello, ecc. Ebbene negli ultimi cinque anni si sono regi-strati a Firenze ben 105 ricoveri ospe-dalieri per questa stessa sindrome.

Di fronte a questa iper-reattività emotivo-culturale verso i capolavori creati dall’Uomo, sta, in alcuni casi, ali ‘opposto, uno stato di “adagiamen-to” di fronte al bello naturale che può addirittura sconfinare con la noia. Gli “esterocettori” preposti a trasmet-tere ai centri cerebrali anche gli sti-moli “estetici” dell’ambiente esterno, captando quotidianamente sempre lo stesso stimolo, possono stancarsi. E’ famoso, al riguardo, l’episodio che Benedetto Croce riferisce nella sua “Estetica in nuce”: una principessa russa, sua amica, svendette una splen-dida villa alle falde del Vesuvio, vicina alla famosa “La Ginestra” che aveva ospitato il Leopardi, perché “stanca di rimirare sempre quella stessa “cuvet-te bleu” (bacinella bleu)”. Notare che quella “bacinella” era il golfo di Napo-li, incorniciato dalla penisola sorrenti-na e da Capri. Il bello naturale - con-clude Croce - deve essere filtrato dalla “cultura” umana.

Nell’Isola d’Ischia gli esterocettori di Sherrington non possono produr-re fenomeni paradossali come quelli ricordati. La estrema varietà del pae-saggio, delle luci, dei colori, arricchito ogni tanto da opere umane di partico-lare suggestione (il castello Aragone-se, la Chiesa del Soccorso, ecc.) costi-tuiscono un insieme allo stesso tempo vivo e armonico, ben dosato per una recezione sempre gradevolmente sti-molante.

Massimo Mancioli

La Rassegna d’Ischia 5/1992 13

di Giuseppe Amalfitano

Chi si sarebbe mai aspettato una conclusione di campionato così come è stata quella dell’Ischia di quest’anno? Mai e poi mai, dopo i proclami presidenziali di inizio campionato, si pensava che si do-vesse finire nel modo in cui è finito il torneo: una cocente sconfitta in-terna con la Reggina, buttata alle ortiche in un sol colpo tutta una programmazione e, come la ciliegi-na sulla torta, una grande e irrefre-nabile contestazione che ha coin-volto tutto e tutti. Il fatto che viene lampante nella mente degli addetti ai lavori e che, forse, si è giocato troppo con un giocattolo alquanto fragile e lo stesso, poi, tira tira, si è rotto.

Insomma, con questo giocattolo ci hanno giocato a piacimento il Presidente, i dirigenti e, purtroppo, pure quasi tutta la stampa. Chi in-vece lo ha guardato e trattato con riverenza sono stati i tifosi, gli unici che sono stati presi per i fondelli da tutti, gli unici che hanno sacrifica-to centinaia di migliaia di lire per venire incontro alle esigenze della squadra del cuore e per godersi un pomeriggio spensierato sugli spalti del proprio stadio. Quei tifosi che sempre hanno amato la squadra, che l’hanno seguita pure in trasfer-ta e che mai hanno fatto una con-testazione fino al famigerato giorno dell’ultima giornata di campionato. Ed è nei confronti di questa gente, che è poi la vera anima del calcio, che devono rispondere tutti dal Presidente, ai dirigenti, alla stam-pa.

Bisogna cominciare a capire che le squadre di calcio, al di là dei “pa-droni” del momento, sono di tutta la comunità; infatti troppo spesso oggi si pensa che esse siano solo ed esclusivamente proprietà di questo o di quello; bisogna comin-ciare a capire che nel calcio come

SPORTDopo le delusioni (e le illusioni) del campionato e della coppa, il presidente Basentini dichiara che lascia e vende..

Ischia, futuro a rischionella vita si deve essere più umili ed ossequienti nei confronti dell massa perché se è vero che certe forme politiche di livellamento del-le masse sono ormai morte e che tutti sembrano essere diventati dei grossi “reucci” è pur vero che la sto-ria ci insegna che non bisogna tira-re troppo la corda in quanto se la si tira troppo tutto può succedere. Il calcio è lo sport più affascinan-te e tale deve restare non perchè lo vogliamo noi o lo vuole qualche altro ma soprattutto perché esso è appannaggio di tutta la società ci-vile, è bene di tutti e a tutti bisogna rendere conto.

Dunque all’Ischia non sono ba-stati proclami, abbonamenti in numero mai pensabile sull’isola, impegno dei giocatori e altro a far sì che la squadra raggiungesse gli obiettivi prefissati: il quinto posto, a nostro avviso è un ottimo piazza-mento ma non risponde, certo, alle aspettative della vigilia.

Ma si sono chiesti mai coloro che prevedevano e credevano in grossi risultati con quante probabilità gli uomini a disposizione di Cucchi potevano aspirare a grossi traguar-di visto che la rosa isolana era com-posta da giocatori non certo all’al-tezza dei traguardi sperati?

E ancora, come mai quest’anno non hanno tuonato le “cassandre” della situazione? Possibile che i proclami hanno reso tutti ciechi e sordi?

L’organico, insomma, non ha ret-to all’urto del campionato in quan-to per affrontare un tipo di torneo come quello di C1 per certi traguar-di bisogna attrezzarsi “coi fiocchi” per poterlo fare degnamente. Poi ci si sono messi pure infortuni vari e calo di condizione di alcuni ele-

menti per rendere più esplicita la “reale” forza della squadra isolana. A nostro avviso il grande merito di Cucchi è stato quello di mette-re insieme “certosinamente” tutti i tasselli di un mosaico non certo eccellente cercando di ottenere il massimo dalla sua squadra.

Quello dell’allenatore però, oggi, crediamo sia un grosso problema perché, al di là del fatto che Ba-sentini resti o vada via dall’Ischia, troppo pesanti sono state le accuse che abbiamo ascoltato nella confe-renza stampa di fine maggio dalla bocca del presidente nei confronti di Cucchi che crediamo non gli re-sti altro che rescindere il contratto con l’Ischia e accasarsi altrove, ol-tretutto perché nella circostanza citata non si sentì nessuna voce alzarsi per dissentire sul pensiero del presidente a proposito dell’al-lenatore.

Ed ora il futuro dell’Ischia Iso-laverde non è dei più rosei. Siamo ancora in alto mare per la società, Basentini pare proprio deciso a lasciare la navicella isolana, non si conosce la sorte dei giocatori (ricordiamoci che il Presidente af-fermò in conferenza stampa che li avrebbe venduti senza alcuna re-mora) né si può parlare di acquisti, la stagione turistica è ormai nel pie-no dell’attività e gli isolani hanno la mente rivolta solo ed unicamente al dio danaro (e pare proprio che bisogna farne tanto per trascor-rere tranquillamente l’inverno!) e quindi della squadra maggiore di calcio nessuno se ne frega e allora, ci si chiede, a che serve stare in C1? Tanto vale ritornare fra i dilettanti, almeno i pomeriggi sportivi saran-no più genuini in quanto scevri da grosse esposizioni di capitale che i

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presidenti e i dirigenti devono re-cuperare a tutti i costi (magari con gli interessi!). E ci sarebbe pure la possibilità reale di far giocare tut-ti elementi locali da valorizzare (come è successo in passato), e non è cosa di poco conto.

Attendiamo, dunque, fiduciosi i

prossimi eventi nella speranza che il calcio a Ischia non muoia assas-sinato dal dio danaro, come sono morte su quest’isola la cultura, l’a-micizia e, in un certo senso, pure l’onestà, assassinate dal più grande menefreghismo che è comunque fi-glio del dio danaro.

Squadra per squadra tutta la C1 – girone B

Al giro di boa del campionato ave-vamo lasciato una situazione di classifica, in C/1 girone B, che in un certo senso è cambiata moltissimo ora che è stata posta la parola fine al bel campionato professionistico di serie C.Infatti l’Acireale, ad esempio, che si era classificato, alla fine del gi-rone di andata, al secondo posto alla pari con la Fidelis Andria, è ri-uscito a salvarsi dalla retrocessione per un solo punticino mentre il Li-cata, fanalino di coda all’andata, si è classificato al quinto posto , alla pari dell’Ischia e di altre compagi-ni, e pare che possa disputare an-che la Coppa Italia con squadre di serie superiori.In definitiva possiamo affermare con assoluta certezza che questo campionato di serie C meridionale non finisce mai di stupire ed è sem-pre all’insegna dell’incertezza fino all’ultima giornata. Un dato risalta subito agli occhi di chi legge la clas-sifica: il Siracusa, terzultimo con 31 punti e quindi retrocesso, ha con-cluso il torneo a solo tre punti di di-stacco dal quinto posto utile per la Coppa Italia maggiore ed in questo fazzolettino di punti troviamo ad-dirittura dodici squadre ed inoltre se ci mettiamo pure i 30 punti del Fano allora dette compagini diven-tano tredici: segno nettissimo di un forte livellamento che non porta un grosso contributo né allo spetta-colo né tantomeno alla vitalità del campionato.Il nostro modesto pensiero è che ormai in serie C giochino soprat-tutto calciatori che sono di gran lunga inferiori, sia tecnicamente

che agonisticamente, ad esempio a quei giocatori che fino a una quin-dicina di anni fa calcavano i cam-pi della gloriosissima serie “D”, o quarta serie che dir si voglia, e ciò sta a dimostrare che è stato soprat-tutto il livello “professionistico”, che la Lega ha voluto assolutamen-te concedere alla serie C, che ha portato un sacco di “mezze calzet-te” a calcare i campi professionisti-ci con contratti di certo superiori al valore e creando una schiera foltis-sima di gente che si illude e che poi ad un certo punto viene scaricata, ritrovandosi ancora in giovane età senza “arte né parte”.Comunque il campionato di serie C/1 girone B 1991/1992 è alle no-stre spalle e le squadre dovranno trarre tutte le cose buone e dimen-ticare quelle meno buone per pen-sare al futuro in modo degno e ve-ramente “sportivo”. L’Ischia, di cui si parla ampiamente in altra parte della rivista, ha chiuso forse in modo non consono alle aspettative dei tifosi il suo campionato e, grat-ta gratta, anche altre squadre han-no forse emulato gli isolani perché il bello del calcio sta proprio nella imprevedibilità di certe cose anche se spesso si vuole far passare per prevedibili cose che assolutamente non lo sono.Una nota curiosa di questo campio-nato testé concluso è che a vincere la classifica dei marcatori sono sta-ti, alla pari, Insanguine della Fide-lis Andria, neopromossa, e Hubner del Fano, compagine che purtrop-po è retrocessa classificandosi al penultimo posto di classifica ma che ha realizzato ben 30 reti (qua-

si la metà delle quali porta la firma di Hubner) contro le sole 24 della Ternana prima classificata.

Ora non ci resta che passare in rassegna il campionato 1991/1992 delle altre diciassette squadre che hanno accompagnato l’Ischia in questa comunque emozionante passerella calcistica di C/1, inizian-do il discorso doverosamente con le due compagini neo-promosse in B , proseguendolo, come augurio per un pronto ritorno, con le tre com-pagini retrocesse e poi concluden-dolo con tutte le altre.

TERNANANon è stata una annata da record per la Ternana che ha concluso sì al primo posto in classifica ma con una media inglese di -7 e questo dato conferma la tendenza degli ul-timi anni che mostra, come diceva-mo prima, un grosso livellamento nei campionati cadetti a differenza della serie A dove esistono le cosid-dette “fasce di livello”. Comunque la compagine umbra ha avuto in Clagluna un condottiero valido e gli ha offerto pure un am-biente sereno, due cose che messe insieme danno quasi sempre come risultato la promozione.Crediamo di ravvisare in Raggi , Ghezzi e Di Sarno i migliori e ci di-spiace per Boccafresca che non ha avuto molta fortuna in terra um-bra.La Ternana ha giocato ad Ischia il 15 settembre 1991 (1^ giornata di campionato) vincendo per 1-0 con rete di Fanesi al 48’. Il ritorno si è disputato a Terni il 26 gennaio 1992 e gli umbri hanno vinto per 1-0 con rete di Ghezzi al 76’. La gara fu disputata in un clima di tensione in quanto i ternani veni-vano da una grossa contestazione e da un lungo ritiro susseguenti alla sconfitta subita a Licata in malo modo ad opera del fanalino di coda del campionato.

FIDELIS ANDRIANon sembri presunzione ma noi lo abbiamo detto sia nella carrellata di inizio di campionato che in quella del giro di boa che la Fidelis Andria aveva le carte in regola per il salto di categoria e scrivemmo pure che

La Rassegna d’Ischia 5/1992 15

“il più grosso acquisto per l’Andria è stato l’ingaggio di Mario Russo quale allenatore ... L’ex giocatore dell’Internapoli, infatti, è uno dei tecnici più preparati nel mondo del calcio ma nella sua carriera gli è mancato solo quel pizzico di for-tuna per poter calcare scene molto più prestigiose “. E Mario Russo non ci ha smentiti e con la sua Fidelis va a calcare “sce-ne molto più prestigiose”, un anello che mancava nella sua carriera di tecnico (a parte una breve brutta esperienza con l’Arezzo in B) e ci va con una compagine che ha regala-to al campionato ben trentacinque reti e il capocannoniere Insanguine che ( come detto, insieme a Hubner del Fano) ha messo a segno 14 reti.In definitiva si può dire che è stato il collettivo la vera forza della Fide-lis ed anche il pubblico ha recitato la sua parte, maturato e cresciuto dopo i tragici fatti che anni or sono portarono alla radiazione della società che si chiamava semplice-mente “Andria” (ad un arbitro fu staccato un orecchio!) e con il raf-forzamento della seconda squadra cittadina, appunto la “Fidelis” che allora militava nella categoria dilet-tanti regionale, portando la nuava società in pochi anni fino alla serie B. A nostro avviso i migliori sono stati Imparato, Insanguine e Petra-chi.

SIRACUSALa compagine aretusea non è riu-scita a salvarsi dalla retrocessione forse più per mera sfortuna che per demeriti propri.Infatti il Siracusa è stata squadra capace di vincere fuori casa, ma-gari con squadre di rango, e poi, di contro, di perdere in casa con com-pagini alla sua portata. Però non sono bastati un tecnico preparato quale Cadregari e un intramontabi-le grande giocatore, quel Maragliu-lo che ha disputato un campionato eccellente, ad assicurare la perma-nenza in C/1 al Siracusa. La verità è che la maggior parte dei commen-tatori, noi compresi, alla fine del gi-rone di andata non consideravano preoccupante la posizione di classi-fica degli aretusei.

FANOForse aveva ragione il Presiden-te dei marchigiani a sbraitare per l’inserimento del Fano nel girone meridionale: certamente ciò ha nuociuto molto alla compagine di mister Ciaschini, preparata soprat-tutto per il girone A e non certo ai campi trappola del girone B che l’ha “asfissiata” fino a “strangolar-la” con la retrocessione.La soddisfazione più bella, però, che i marchigiani hanno avuto dal campionato testé concluso è senza dubbio l’aver espresso il capocan-noniere del girone, quell’Hubner che farà parlare molto di se in fu-turo, oltre alla bella soddisfazione di aver fatto ben 30 reti, meglio di tante altre squadre e della stessa Ischia o della vittoriosa Ternana che ne hanno fatte rispettivamente solo 27 e 24.

MONOPOLII guai del Monopoli sono comin-ciati fin dall’inizio del campionato quando si era capito che il presi-dente non voleva più saperne della squadra e l’aveva iscritta al torneo di C1 senza troppa convinzione.Fu ingaggiato un giovane tecni-co, Campagna, esonerato alla 12’ giornata per far posto all’esperto Liguori e poi richiamato quando forse non c’era più niente da fare, alla 29’ giornata.Peccato per gli ex isolani Fabris (corteggiato fino al mercato no-vembrino anche da squadre di serie A) e De Carolis che hanno sempre dato il massimo.

ACIREALEBisogna proprio dire che l’Acireale ha conquistato i punti della sua sal-vezza nel girone di andata nel qua-le ha totalizzato ben 20 punti per la seconda posizione di classifica. Quindi un girone di ritorno disa-stroso ha permesso solo per il rotto della cuffia agli uomini di Busetta di salvarsi.Ma la compagine siciliana è forma-ta da giovani che sapranno valoriz-zarsi in futuro e lo stesso Busetta ormai è allenatore adatto al compi-to, sempre che venga riconfermato alla guida della squadra.

BARLETTAMister Bianchetti aveva sentenzia-to ad inizio di campionato “Cresce-ranno i giovani e crescerà il Bar-letta”, ed in un certo senso ciò si è verificato anche se i baresi si sono salvati dalla retrocessione per un solo punto. Il discorso del tecnico siciliano, ovviamente, era proiettato solo in “prospettiva”, riguardava soprat-tutto il futuro del Barletta. Per-ciò, se i dirigenti sapranno tenersi stretto questo allenatore allora la compagine pugliese saprà farsi ri-spettare nel prossimo campionato e dirà certamente la sua nei vertici alti della classifica.

CASARANOIl Casarano di quest’anno ha dato non pochi grattacapi ai propri ti-fosi. La compagine salentina, in-fatti, si era presentata ai nastri di partenza senza grosse ambizioni e con una intelaiatura forse non all’altezza della situazione. Ragion per cui la compagine di Balugani si è dovuta barcamenare come ha po-tuto nella bolgia infernale del giro-ne, raggiungendo un discreto sesto posto senza infamia e senza lode. Il brutto viene ora in quanto il pre-sidentissimo, il grosso industriale calzaturiero Filograna, ha deciso dopo quindici anni di presidenza di mollare tutto e pensare solo alle sue industrie. Ma il Casarano calcisti-camente è sempre vissuto all’om-bra del suo Presidente e senza di lui certamente il calcio casaranese ritornerà nell’anonimato e sarà una grossa perdita per la serie C.

CATANIAAnni or sono, quando per le vie dei nostri paesi esistevano ancora i fili scoperti della luce sui pali c’era scritto “Chi tocca i fili muore!”. Eb-bene ciò potrebbe dirsi per la squa-dra etnea ovviamente sostituendo la parola “muore” con “si brucia” perchè negli ultimi tempi non c’è pace per il Catania né per allenatori che vanno e vengono, per giocatori che compaiono e scompaiono, per presidenti che fanno il bello e il cat-tivo tempo e non c’è pace neanche per i tifosi. E la crisi del Catania ha allontanato, negli anni, pure i tifosi

16 La Rassegna d’Ischia 5/1992

della provincia che hanno appunto dato la possibilità di raggiungere la C/1 a ben due squadre della stessa provincia catanese, l’Acireale ed il Giarre.Ci sarà un futuro più sereno per il Catania? La risposta è molto ardua. Certo la speranza degli sportivi veri è che gli etnei riescano a sopravvi-vere e a ritrovare quella dimensio-ne che spetta ad una grande città quale è Catania..

CHIETII teatini di Volpi sembravano la vera rivelazione del torneo ma la classifica finale ha ridimensiona-to alquanto questa squadra che, comunque, è stata forse l’unica a partire fin dalla prima gara di cam-pionato con la stessa formazione vittoriosa in C/2.Fra i migliori Sgherri, cannoniere con 7 reti e il portiere romanista Alidori.

GIARREQuest’anno il Giarre ha avuto un suo “profeta del gol”, quel Buon-cammino ex ischitano che ha re-galato ai catanesi ben 11 reti e l’ac-cesso alla Coppa Italia maggiore. Ma non va dimenticato che è stato il collettivo la vera forza della com-pagine di Orazi che si sta inseren-do bene nel grosso giro delle prime posizioni di classifica.

LICATAPer gli agrigentini si può parlare proprio di “Giano bifronte”: un gi-rone di andata a dir poco disastroso e un girone di ritorno talmente bril-lante da far piazzare la compagine di Sonzogni al 5° posto, alla pari di Ischia, Catania e Salernitana e ad-dirittura pare che il Licata debba disputare la Coppa Italia maggiore.Una trasformazione, comunque, che porta la firma di quel bravis-simo allenatore Sonzogni, ex os-servatore della Juventus; e pen-sare che sulla panchina licatese quest’anno si sono seduti ben tre tecnici, Silipo, Ammirata e Sonzo-gni!A nostro avviso il migliore è stato il portiere Negretti.

NOLAUn campionato tranquillissimo quello disputato dal Nola di mister Varrella. Una squadra ben amalga-mata e affiatata che ha raggiunto la salvezza senza patemi d’animo.Fra i migliori l’esperto portiere Ge-novese.

PERUGIALa grande delusa del campionato. Con un girone di ritorno quasi per-fetto (per avendo cambiato ben tre tecnici: Papadopulo, Ammoniaci e Buffoni) era riuscita a raggiungere, a una gara dal termine, la Fidelis Andria al secondo posto ma nell’ul-tima giornata non ha saputo vince-re a Barletta e per Dossena e C. se ne riparlerà il prossimo anno per la promozione in B.

REGGINAE’ riuscita a salvarsi la Reggina e ha dovuto attendere l’ultima gara di campionato quando ha vinto qui a Ischia e, indirettamente, ha in-nescato pure la scintilla per quella contestazione balorda che hanno inscenato a fine partita alcuni tifosi isolani. Della presenza dei calabresi se ne avvantaggerà il prossimo campio-nato di C1 in quanto la Reggina si-curamente non ripeterà gli errori di quest’anno.

SALERNITANASiamo convinti che il 5° posto con-quistato dalla Salernitana premi

eccessivamente i campani perchè le cronache hanno sempre parla-to di una compagine alla ricerca della propria identità, ovvero di un collettivo sempre da costruire. Burgnich, subentrato a Simonelli, insomma, non è riuscito a dare un vero volto alla squadra.

SAMBENEDETTESEFra contestazioni, dimissioni di dirigenti, minacce di dimissioni del tecnico, situazioni insostenibili varie la Sambenedettese è riuscita a conquistare la sesta poltrona del campionato, il che non è cosa di poco conto. Molti comunque sono i giovani lanciati da Rumignani e questo pure è un grosso merito per la Samb.

Finisce qui la nostra carrellata sulle squadre che hanno accompagnato l’Ischia nella ennesima avventura di serie C/1. Come al solito molte squadre hanno rispettato le pro-messe della vigilia, altre hanno vis-suto dei bei momenti di gloria, altre ancora hanno assaporato l’amaro calice della retrocessione.E ora non ci resta che attendere il prossimo campionato per veder-ne comunque sempre “delle belle” nella speranza che l’estate ci conse-gni squadre all’altezza della situa-zione per farci godere qualche bel pomeriggio sportivo.

Giuseppe Amalfitano

Enzo Patalano (allenatore in seconda dell’Ischia)

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Il duro allenamento come estasi e supremo ideale di vita

Maria Guidamagico fiore di Vico Equense

Una pista di atletica potrebbe sorgere nel grande Centro sportivo di Monte Faito per la gioia di tutti i figli di Aequa

Maria Guida: il carattere vin-cente di questa ragazza, i suoi esal-tanti successi sono riconducibili alla poesia del suo mondo inconta-minato, che questo tempo crudele e dispersivo non è riuscito a scalfire. Il segreto è qui, nel trionfo dei valo-ri positivi. Per Maria Guida, cittadina di Vico Equense, parlano i risultati: il suo biglietto da visita è semplicemente favoloso:a) campionessa italiana nei 10.000 mt su pista nel ‘91, b) dieci presen-ze in nazionale dall’88 al ‘92; c) vincitrice degli Europei indoor di Genova sui 3000 mt con il tempo di 8.58.60 che rimane la seconda prestazione italiana di tutti i tem-pi; d) ad Adelaide (Australia) per i mondiali dei 15 km su strada, ad Aukland (Nuova Zelanda) per i Mondiali di Cross, a Neubrandem-burg per i 5000 mt su pista nell’88; e) a Strasburgo per la Coppa Euro-pa dei 3000 mt su pista nell’89; f) a Dublino per i Mondiali dei 15 km nel ‘90; g) a Torino per l’incontro internazionale indoor sui 3000 mt , ad Anversa per i Mondiali di Cross nel ‘91; h) a Parigi per l’incontro esagonale, a Genova per gli Euro-pei indoor, a Boston per i Mondiali di Cross nel ‘92. La sua prima gara risale all’anno 1979, quando correva con la po-distica Agaf di Moiano di Tonino Massa ed Eugenio Coppola. Il pri-mo ad accorgersi di lei è stato Nel-lo Scafarto di C.re di Stabia, che la osservò ad Afragola nell’80 in una gara su pista. Passata nell’81 all’Atletica Stabia ci restava due anni, per trasferirsi poi alla Fiat Sud Formia, che la tesserava per i propri colori grazie ai risultati delle

graduatorie nazionali. Il decennio presso detta società l’ha maturata compiutamente fino ad elevarla al rango di atleta a spessore naziona-le ed internazionale. Per una serie di infortuni alla schiena è rimasta ferma per circa 18 mesi dall’89 al ‘90. A causa di un impedimento oggettivo, riferito alla mancanza di strutture adeguate in Campania, ha scelto in piena libertà di allenarsi a Tirrenia presso il Centro Federale del CONI con Luciano Gigliotti, che è anche allenatore di Bordin. A domande come queste “qua-li sono i tuoi obiettivi futuri, cosa

rappresenta per te la corsa, ti sen-ti realizzata in pieno, come vivi al di fuori dello sport, costa sacrifici la corsa al tuo essere donna, hai rimpianti, hai dovuto rinunziare a qualcosa per la gioia di correre, vorresti essere un preciso punto di riferimento per le future leve, qual è il tuo sogno” ha risposto con una semplicità disarmante. Queste le sue risposte. Per scara-manzia non ama pronunziarsi sul futuro, la corsa è gioia di vivere, aiuta a lottare e a non arrendersi mai, si sente pienamente realiz-zata, al di fuori dello sport vive in funzione di esso: nessuna trasgres-sione, nessuna tentazione, ma solo riposo, vita sana e concentrazione. Il duro allenamento non contrasta il suo modo di sentirsi donna, non ha rimpianti, il peso di qualche ri-nuncia è compensato dalla bilan-cia delle soddisfazioni. Vorrebbe essere un punto di riferimento per le giovani leve che nascono in ab-bondanza nella penisola sorrentina e fioriscono per un inesorabile re-gredire di stimoli, dovuto alla man-canza di idonee strutture. I talenti naturali non hanno possibilità di esplodere da noi. Il suo sogno è di correre a Vico Equense su una pista degna di que-sto nome che potrebbe sorgere nel grande Centro sportivo di Monte Faito per la gioia di tutti i figli di Aequa. Sarebbe il premio più gra-tificante per questa ragazza nata per correre e che ha dedicato con grandi sacrifici la sua giovinezza alla causa dello sport. E intorno al suo nome fioriranno leggende. Una gazzella a figura di donna sarà vista nei secoli correre sotto pini e abeti.

Ferdinando Spano

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Alì ci fece sistemare su una jeep dell’Ospedale che si slanciò con molto brio sull’unica strada carrozzabile esistente allora nello Yemen: il tratto fra l’aeroporto, la città e la Reggia di Taiz (circa 25 km), tutto in terra battuta ma, a parte qualche emozionante sobbalzo, abbastanza ben tenuto. Era una strada a saliscendi molto erti che tagliava diritto come una via romana in una campagna ricca di cactus e di cespugli spinosi, qua e là coltivata a dura. Improvvisamente Taiz ci si presentò nel suo pittoresco insieme. La cittadina era sistemata sotto una strana montagna a picco, la Caira, su cui sorgeva una rocca di tipo medievale. Più in là, la parte centrale del Monte Saber (circa 3000 m. s. m.) fatta a spunzoni rocciosi nerastri, fra cui spuntava una ricca vegetazione di euforbie, arbusti vari, piante di melo-grano e - a partire dai 1600 metri di quota - piantagioni di caffè e di qat (arbusto le cui foglie - euforizzanti - costituivano la “croce e delizia” del mondo yemenita). Sfiorando la porta più importante della cittadina, Bab el Musa, si vedeva l’ag-glomerato scuro di case e casette rinserrate nel cerchio delle mura; ogni tanto si stagliavano palazzi bianchissimi e, infine, due belle moschee, anche esse abba-glianti nel candore della calce e del gesso con cui erano intonacate. Proseguendo in direzione est, si ritornava in aperta campagna e poi al quartiere raggruppato attorno al Royal Hospital e all’Ospedale vecchio.Sorgeva più in alto, sulle prime propaggini della montagna, un gruppo di villini ad un piano destinati ai medici. Dalla parte opposta, verso Nord Est, v’era il Dar

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el Diafa, cioè la “Guest House” (Palazzo dell’ospite) che era il nostro punto d’arri-vo. Nello Yemen, allora, non esistevano alberghi. Lo Stato stesso creava e gestiva, nelle cittadine più importanti (Taiz, Hodeida, Sanaa), ma anche in quelle più piccole ( Hibb, Gibla, Moka..) dei Dar el Diafa. Chi si spostava per servizio non pagava nulla: il conto veniva saldato dalle autorità competenti. Il Dar el Diafa di Taiz era un palazzotto costruito a “faccia vista” in pietre scure, ben squadra-te, con orlature in pietra tufacea verde (come quella che si trova in alcune zone dell’isola d’Ischia). Le camere erano molto spaziose, con due grandi finestroni ad arco ricoperti nel loro terzo superiore da vetrate policrome tenute in sesto da una struttura in gesso, riccamente intagliata, su cui erano inseriti vetri di tutti i colori. La parte superiore era fissa, mentre sotto si aprivano finestre a tre ante. Questi finestroni, da secoli la caratteri- stica dominante delle costruzioni yemeni-te, andarono purtroppo via via scemando nelle nuove costruzioni, perché molto costosi e perché si esaurirono gli abilissimi artigiani che sapevano crearli. Allora gli artigiani che eseguivano questi lavori preparavano una forma in legno dell’ar-co del finestrone, facevano una abbondante colata di gesso (il gesso yemenita ha qualità di presa e di durata eccezionali) e poi, rapidamente, seguendo solo la traccia di un misero disegnino eseguito su un foglietto di carta di quaderno, con un coltellino a punta tagliavano fulmineamente il gesso formando arabeschi baroccheggianti in cui venivano incassati pezzi di vetro di vari colori. Le cornici di gesso che contornavano ogni vetro coprivano perfettamente le imprecisioni del taglio delle grandi tessere sagomate di questo mosaico trasparente, rendendo l’assieme perfetto e indubbiamente molto suggestivo. Le camere erano a due letti, enormi, di ferro, con zanzariera a baldacchino. Tutte si aprivano su un corridoio molto largo e molto lungo, con i soliti finestroni colorati ad arco, arredato con un tavolo lunghissimo che serviva per tutti gli ospi-ti. Il guaio erano i servizi igienici, fatti “all’indiana”, con molta buona volontà, ma non certo ideali. La sera, a cena, Ali Humed ci fece compagnia e parlammo a lungo del lavoro da fare e dei vari problemi da risolvere. Cominciammo anche ad informarci sulla recente rivolta. Ali Humed era in questo settore molto diplomatico e prudente. Poi, nei giorni seguenti, parlando anche con altra gente via via incontrata per lavoro, ebbi un quadro abbastanza preciso di quanto era accaduto e, soprattut-to, restai ammirato dall’intelligenza tattica dell’Imam, che stava alla pari o forse superava il suo stesso coraggio alla Sandokan. All’inizio della rivolta, fatta scop-piare da uno dei suoi fratelli che gli insidiava il trono, l’Imam era praticamente solo, con non più di una trentina di ascari della Guardia Reale, tutte le donne di palazzo (una cinquantina, fra le tre mogli, le principesse, le dame di compagnia e la servitù), i ragazzini che accudivano ai servizi interni di collegamento (du-idar) e alcuni vecchi Cadi, amici fedeli del Re. Il fuoco infernale che l’Imam e il suo gruppetto riuscirono a sviluppare dalle finestre del Palazzo tenne a bada gli assedianti nelle prime ore della rivolta e permise di conservare anche quella parte del Palazzo adibita a tesoreria. Certo, però, la situazione poteva precipitare da un momento all’altro. I rivoltosi non avevano impiegato armi pesanti, ma in cima alla Caira, sulla rocca che dominava tutto il paesaggio, vi era un cannone di piccolo calibro perfettamente efficiente. Bastava rivolgere quella bocca da fuoco contro il Palazzo Reale (il Megham) e tutto sarebbe finito. L’Imam allora ebbe un’idea straordinaria: riempì diversi sacchetti di sterline d’oro, li nascose sotto

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la vestarella (futa) del duidar più sveglio che aveva e fece calare il bambino, con una fune, in una zona tranquilla del giardino reale. Il duidar sgattaiolò senza essere notato e corse a perdifiato sino alla Caira. Andò dal comandante, facendo tintinnare le sterline d’oro, e gli disse: - “L’Imam vuole comperare un piccolo pezzo di questo cannone e te lo paga molto bene, come senti da quello che c’è in questi sacchetti”. Il comandante del cannone rimase impietrito. Cosa fare? Non dare l’otturatore all’inviato imamiale? E se la situazione fosse cambiata?- “E’ un pezzo piccolo», ho detto - ripeteva il duidar quasi in cantilena. Fatto sta che l’otturatore del cannone passò nelle sue mani e i rivoltosi, sparsasi ra-pidamente la storia, si liquefecero di colpo e andarono a buttarsi in ginocchio ai piedi dell’Imam per chiedere perdono (che fu concesso, salvo che al Principe ribelle e a un colonnello). Alcuni anni dopo raccontai questo episodio ad Indro Montanelli che a Roma stava scrivendo il capitolo “L’Imam” del suo libro “Incontri”, ma restai sorpreso che non fosse, poi, pubblicato proprio il “fattarello” più gustoso della vicenda, mentre si ab-bondava in sparatorie e sortite a cavallo, scimitarra in pugno di stile salgariano, vere, intendiamoci, ma assai meno gustose e originali della realtà.

***

Ero rimasto sorpreso, nella cenetta allestitaci al Dar el Diafa, di vederci servire un ab-bondante piatto di spaghetti al pomodoro (un po’ scotti, in verità, ma buoni). In nostro onore? Solo in piccola parte, mi fu spiegato, perché qui gli spaghetti Cirio piacciono molto e si usano molto. Vidi, poi, in seguito, quanto fosse esatta la cosa e come le radici di questa nuova abitudine alimentare fossero in larga misura legate alla presenza, in Etiopia, di circa 20000 ascari yemeniti che si batterono valorosamente fra le nostre fila nell’ultima guerra.

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Taiz - Principi reali, autorità, il vice direttore dell’Ospedale, il dott. Manco e il dott. Mancioli (indicato con la freccia) - Foto Spinelli 1956

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La mattina dopo, di buon’ora, Ali Humed ci mandò a prendere con una jeep che ci portò al Royal Hospital. Era a quel tempo l’Ospedale più ampio e meglio attrezzato dello Yemen. Si calcolava che circa la metà della popolazione del Paese, cioè due milioni e mezzo di persone, gravitasse sul Royal. Era un vastissimo edificio, a due piani, che circondava un grande cortile giardino con alberi di ponchana regalis (che hanno una splendida fioritura ros-so- fiamma) e una fontana ottagonale di cemento affatto anonima sul piano estetico, ma purtroppo più che qualificata per ospitare larve di schistosoma Mansoni e quindi pericolo-sa. Si entrava da un viale appena abbozzato nella campagna circostante, fra qualche bancarella che vendeva tè e caffè preparato su fornelli “Primus” a petrolio, bibite varie mantenute al fresco in frigoriferi inglesi, anch’essi a petrolio, e cianfrusaglie varie. Un grande arco, con una garitta per un ascaro di guardia, immetteva in un portico: a destra gli ambulatori, a sinistra gli uffici e la direzione. Un altro portico si apriva sul lato opposto del cortile giardino. Una scala portava al primo piano, dove era sistema-to un grande Reparto di Medicina (180 letti), mentre a pianterreno erano il Reparto Radiologia e l’Ambulatorio Odontoiatrico. Nelle due ali laterali dell’edificio trovavano posto un grande Reparto Chirurgia, quello oculistico, quello otorinolaringoiatrico, il Reparto speciale per le “Donne reali” e, con ingresso diretto sul giardino, un appar-tamento composto da un salone per le riunioni, una stanzetta da letto, una toilette ed una cucina. Fu qui che Ali Humed mi sistemò, con Manco, in attesa che si liberassero i villini che ci erano stati assegnati. Sotto il nostro “salone” si apriva una galleria di una decina di metri che faceva comunicare la parte centrale dell’Ospedale con le cucine, i magazzini e i depositi vari, e infine, distaccato dal resto da un giardinetto , con il Re-parto Pneumologia (molto attivo, purtroppo, per la larga diffusione della t. b.). Passammo la giornata ad “esplorare” i nostri reparti (Manco si era “rintanato” nel vicino Ospedale Vecchio che funzionava, oltre che come appendice del Reparto, anche come Ospedale Militare; ci aveva lavorato qualche tempo, anni prima, ed era contento di appartarsi nel suo più quieto “tran-tran”. Notai, per prima cosa, che non esistevano “cartelle cliniche”: si scriveva tutto in un enorme librone rilegato a mano con la “costa” di cuoio. Non era certamente facile, in queste condizioni, girando di letto in letto, anda-re a “pescare” Mohamed Ali o Ali Mohamed... Gli infermieri, in parte yemeniti, in parte eritrei, che fungevano anche da interpreti, cioè da turgimàn, facevano a gara nell’aiu-tare in questa affannosa ricerca: “Deve essere qualche foglio più indietro”. “No, deve essere poco più avanti” e via di questo passo. C’erano oltre 120 ricoverati nel reparto. Era pazzesco procedere a quel modo. Mandai, quindi, un infermiere da Ali Humed con la mia prima richiesta: un pacco di fogli di carta protocollo. Così ogni malato ebbe la sua cartella, inserita in due fogli di cartone tenuti assieme da un nastro di cerotto e con un grosso numero progressivo (corrispondente al numero del letto, anch’esso molto vago sino allora) scritto in numeri arabi e nostrani. Questo fu solo l’inizio. Lavorai sen-za guardare l’orologio per cinque giorni filati. Uno scoglio difficile da superare e che si rivelò degno di essere tramandato come “storiella fuori serie”, riguardò il tentativo di appendere in capo ai letti un grafico con la febbre. Gli infermieri dovevano aggiornarlo tre volte al giorno. Dopo una settimana scoprii che tutti i malati febbrili avevano febbre tifoidea: sui grafici, infatti, apparivano “plateaux” febbrili continui, senza remissioni di sorta. Ma, perbacco! Erano malarici! Scoprii, allora, che gli infermieri, misurata la febbre alta, non segnavano l’assenza della febbre (“Tanto, se febbre non stare, perché segnare su carta?”), ma si limitavano

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a congiungere fra di loro gli apici degli accessi febbrili, formando, appunto, un “pla-teau” di febbre continua. Per fortuna, il buon senso può facilmente venire a capo di enigmi di questo tipo. Come si fa a rimproverare un personale dotato di tanta ingenua buona fede? Lo feci, ma finimmo per riderci sopra e i miei uomini, mortificati, mi offrirono in segno di pace una bella tazza di tè bollente aromatizzata allo zenzero e al chiodo di garofano.Due cose mi avevano subito colpito in Ospedale. Il vezzo, radicato in tutto lo Yemen (ma perché nel nostro Meridione, ad Ischia, no?) di incrociarsi, camminando, aspettare di essere distanti una ventina di metri e allora, solo allora, incominciare a chiamarsi e richiamarsi, urlando a squarciagola “Ja, Ahmii-in!” “Ja, Abduuu!” ecc. La galleria che passava sotto il nostro appartamento ospedalie-ro faceva da risuonatore. Altra cosa davvero impensabile. Il vitto dei malati (discreto in rapporto alle abitudini alimentari ed alle possibilità economiche del Paese) veniva portato nei vari reparti su portantine zincate che termi-navano con quattro bastoni, ciascuno sorretto, a spalla, da un inserviente. Scodelle, piatti, cùccume di ferro smaltato, contenenti il cibo, erano ricoperti da un lenzuolo fis-sato alla portantina con cordicelle. Malgrado questo apparato protettivo, nel pur breve tragitto dalle cucine ai vari reparti, avveniva assai spesso che un avvoltoio piombasse in picchiata sulla portantina e sollevasse un lembo del lenzuolo di copertura. Dietro di lui, fulminei, “picchiavano” altri avvoltoi che riuscivano ad arraffare il cibo e sparivano in cielo. Si era pensato di far scortare le portantine da ragazzi armati di bastoni, ma i risultati erano solo mediocri. Domandarono anche a me cosa si potesse fare. Maga-ri dichiarare guerra agli avvoltoi? “No, questo proprio no! Gli avvoltoi, assieme agli sciacalli, sono gli spazzini naturali del vostro mondo: se li distruggete corriamo rischi gravissimi di epidemie di tutti i generi”. La mia cultura in proposito era allora, appena arrivato, soltanto salgariana, ma giusta, come in breve ebbi modo di rendermi conto, vedendo all’opera torme di avvoltoi ripu-lire di sana pianta la città e la campagna avventandosi su carogne di animali. Questi terribili netturbini erano sensibilissimi solo ... alla nicotina. I bambini, a volte, per sbalordire lo straniero e rimediare, così, qualche bakscisc (mancia) nascondevano il tabacco di una sigaretta dentro un pezzo di pane, lavorando la mollica fino a formare una piccola palla: lanciata in aria, la palla di pane era subito preda di un avvoltoio, ma il volatile non faceva a tempo ad allontanarsi di molto che, fulminato dalla nicotina, veniva giù a peso morto. Manco rimediò subito un boy per il nostro alloggio. Tra le doti del buon Primaldo vi era, indubbiamente, quella della parsimonia. Badava lui ai conti della spesa e riusciva a mantenersi al di sotto di un tallero (un dollaro) al giorno a persona; il che era po-chissimo anche tenendo conto dei bassi prezzi e del nostro mangiare spartano (pasta-sciutta, hamburger di carne di zebù - la mucca con leggera gobba, unica fonte di carne yemenita, di ottimo sapore, ma dura come un sasso - alle volte solo frittate o un po’ di verdura). Per gli alcolici era, al momento, discorso chiuso. Ci voleva un permesso ima-miale, a cui avevamo diritto, ma bisognava andare a comperarli ad Aden. Tutte cose inattuabili appena arrivati a Taiz. Pensai ai consigli di Maria ad Aden... Al Reparto le cose cominciavano ad ingranare. Anche il piccolo, ma estremamen-te delicato Reparto Donne Reali (una trentina di letti, ma molti adibiti alle dame di compagnia o alle inservienti private delle donne più importanti della famiglia reale) incominciava ad essere più ordinato. Le infermiere eritree che vi prestavano servizio erano ben preparate e molto pazienti.

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Nel settore maschile la differenza tra personale yemenita ed eritreo era notevole. In quest’ultimo affiorava un complesso di inferiorità latente verso l’Occidente e si cercava di superarlo con manifestazioni anche vistose di efficienza (gli addetti alla Ethiopian Airline, ad Asmara, erano ad esempio più che americani nelle loro perfette divise, nella lucentezza dei bottoni dorati delle loro giacche, brillanti quanto le loro scarpe, ecc.). Gli Yemeniti, all’opposto, esprimevano nel loro atteggiamento un innato senso di supe-riorità, frutto - forse - della loro antichissima civiltà, per cui trattavano gli occidentali con la stessa affettuosa condiscendenza con cui noi, alla fine della guerra, trattavamo al primo impatto quei “bambinoni” di americani un po’ ingenui, un po’ “fessacchiot-ti”, con le loro strane abitudini di vita e di lavoro. “Bisogna prenderli così”. E allora le divise peggiori in stile europeo erano quelle degli yemeniti, la trascuratezza impe-rava in tutti i particolari in cui si doveva far sfoggio di “stile” occidentale, le misure igieniche più elementari erano trascurate come manie senza importanza pratica, ecc. Erano certamente ragazzi molto intelligenti, troppo intelligenti, forse, di esasperata impronta siculo-partenopea. Gli allievi infermieri, ad esempio, una volta imparato a fare le endovenose, le fleboclisi, le paracentesi (sempre molte in Reparto per via della Schistosomiasi Mansoni che produceva l’ascite) sparivano dalla scena per rientrare ai villaggi nativi dove facevano l’Akim, cioè il medico. “Dove diavolo si è cacciato Abdu Ahmin?” “E’ ritornato a Gibla per fare l’Akìm. Si è comperata una jeep usata per girare meglio nella zona”. Allah kerìm! (Allah è misericordioso) rispondevo io alzando gli occhi al cielo. “Ma quanto tempo ci vuole in Europa per diventare Akìm?” mi chiede-vano perplessi. Con carta e penna facevo vedere gli anni di studio dalle Scuole Inferiori all’Università. “E non sono veramente troppi?” “Quanto, quanto tempo! Sei anni solo per l’Università!” “E per diventare professore, come sei tu?” “Non c’è una regola pre-cisa, ma certo bisogna fare molti lavori scientifici, pubblicarli su Riviste specializzate, fare relazioni e congressi, ecc. Mettiamo, in media, 7-8 anni oltre la laurea, se tutto fila benissimo”. Ammutolivano per qualche secondo. Poi qualcuno diceva, come parlando a sé stesso: “Certo, però, che Abdu ne aveva imparate di cose nei soli tre, quattro mesi che è stato qui...”.

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Yenen - L’aeroporto di Taiz negli anni ‘50 e ‘60 - Direttrici di volo all’atterraggio e al decollo (Disegno dell’autore)

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ll mio Yemen (1955 - 1968)2. Primo incontro con l’Imam

Dopo quei primi giorni di duro lavoro, in cui non avevo avuto letteralmente il tempo per mettere il naso fuori dell’Ospedale, attendevo con gioia il riposo del venerdì (che nei Paesi arabi equivale alla nostra domenica). Mi attirava molto la massiccia mole del Monte Saber, su cui avevo già appreso varie storie e leggende. Sarei andato molto di buon’ora, per evitare il sole cocente, e poi, alla fine della mattinata, il consueto tempo-ralone estivo, ad arrampicarmi sin dove potevo. Mi svegliai, quindi, alle 6 e mi equipaggiai per la montagna: scarpe da safari (acqui-state ad Aden), un cappellino con visiera, calzoni corti e calzettoni bianchi di cotone, borraccia d’acqua e macchina fotografica. Stavo proprio uscendo quando Alì Humed piombò sorridendo nel cortile con una jeep guidata da un ascaro vestito di cotone ce-leste, armato sino ai denti (era una guardia reale, seppi poi).“Caro Professore, buon giorno! La prego, dobbiamo correre subito all’Aeroporto per-chéè arrivata da Sanaà la Regina anziana, la prima moglie dell’Imam. Si è sentita male o era già malata quando è partita; fatto sta che ha chiesto subito di lei per essere visitata. Evidentemente ha saputo dell’arrivo da Roma di un Professore e vuole subito vederla. E’ un grande onore per Lei, caro Professore! Ma dobbiamo correre subito”.“Benissimo, caro Alì, ma mi lasci infilare un paio di pantaloni lunghi!”“No, no, non possiamo far aspettare la Regina! Sarebbe una grave offesa!” “Ma che ci vuole, Alì? E’ solo un attimo!” “No, no, non è possibile far aspettare e poi è una visita di urgenza, senza formalità, all’Aeroporto. Salti sulla jeep e andiamo!”. Aveva già fatto prendere, nel mio studio, la borsa con il fonendoscopio, l’apparecchio della pressione, il martelletto per i riflessi. Non ci fu nulla da fare: dovetti partire così come ero, in calzoncini corti. Incitato dai Fisa-fisa! (“Presto, presto!”) di Alì Humed, l’ascaro-autista si lanciò come un pazzo sulla strada a saliscendi che portava all’Aeroporto. Ma che voleva dire, esattamente, “Regina anziana”? Appresi, poi, gradatamente che la possibilità che dà il Corano di avere tre mogli era così realizzata, in pratica, nelle classi più abbienti e nella nobiltà:1) Ci si sposava da ragazzini con ragazzine (12-14 anni entrambi i coniugi).2) Arrivato a 35-40 anni, lo sposo prendeva un’altra moglie, sempre di 12-14 anni.3) Sui 60 anni, ci si sposava una terza volta, con una ragazzina, al massimo una vedova ventenne. In questo modo, nella casa, ogni moglie aveva un’età e un ruolo nettamente diffe-renziato: l’anziana era la vera padrona; la seconda governava la casa e comandava la servitù; la terza era, ovviamente, solo per l’amore.

Con questo sistema non esistevano conflitti domestici. Inoltre, a pensarci bene, non è questa la “routine” normale della vita di coppia nelle classi agiate dei Paesi occidentali? Solo che, col sistema yemenita, si faceva a meno di avvocati, divorzi, etc.. Il Corano, poi, severissimo in materia, imponeva allo sposo di fare alle tre mogli gli stessi identici regali. Quindi nessun futile pretesto di litigio e astio fra le tre mogli. A parte la convenienza, non avere tre mogli era, per un nobile, decisamente dequa-lificante, come per un “cummenda” milanese girare senza macchinone di lusso e non avere il palco alla Scala.

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I miei calzoncini corti mi preoccupavano. Innanzitutto erano sconvenienti per un primo contatto con una Regina. E se, in più, fosse stata anche una regina “bacchettona”, come alcune nostre pie dame e si fosse sentita oltraggiata nel pudore? Bah, ormai ero in ballo - per forza maggiore - e dovevo ballare. Quando arrivammo all’Aeroporto, fui subito introdotto in uno dei modesti edi-fici che contornavano gli hangar del campo. La Regina mi attendeva, sdraiata su un divano, contornata dalle sue dame di compagnia e dalle sue kaddame (le persone di servizio, di colore, che erano giuridicamente considerate come “schiave”, ma che, in realtà, erano trattate molto bene). Era una donna di mez-za età, dal contegno signorile, vestita di un abito yemenita bianco ricoperto da un leggerissimo caffettano nero. Si tolse lo sciar-sciaf (il velo nero che tutte le donne - meno le contadine - portavano sul viso a coprire, soprattutto, il naso e la bocca) e, tramite Alì Humed che per deferenza era voltato in modo da non poterla guardare, mi raccontò ordinatamente i suoi guai. Si trattava di evidenti turbe neuro- vegetative, intonate all’età della Regina. L’ascoltai a lungo, chiesi il permesso di visitarla e, infine, cercai di tranquillizzarla spiegandole che mol-te donne della sua età, all’inizio della menopausa, hanno disturbi del genere, solo molto fastidiosi, ma allo stesso tempo, per grazia di Dio, non gravi, non pericolosi come Lei temeva. Alì Humed traduceva puntualmente quello che io dicevo, molto lentamente, staccando bene frase per frase. Ci fu qualche doman-da, ci furono le mie risposte, poi passai a scrivere una elaborata prescri- zione utilizzando i farmaci che sapevo si trovavano a Taiz, più un prodotto inglese che avevo visto ad Aden. Molto regalmente, la Regina si compiacque di porgermi i suoi ringraziamenti e mi fece, anche, un breve discorsetto di benvenuto che Alì - guardando il suo orologio da polso - tradusse telegraficamente, pensando alla mattinata festiva che se ne stava andando. Ringraziai a mia volta e dissi che ero sempre a dispo-sizione di S. M. Felici e contenti per questo primo incontro reale (“Professore, è andato tutto benissimo, malgrado i suoi calzoncini corti!” ridacchiava Alì) stavamo risalendo in jeep sulla via del ritorno, ma non avevamo pensato che l’entusiastica acco-glienza della Regina poteva avere ripercussioni al Megàm, cioè al Palazzo Reale. La Regina, infatti, telefonò subito a Palazzo e disse all’Imam che quel nuovo “Barafassur” venuto da Roma era veramente un “Akim Tamàm” (un medico o. k.). Perché non se lo faceva venire subito alla Reggia? La potenza delle donne yemenite, malgrado l’apparente impronta maschilista di quel popolo, era davvero notevole: superiore o pari solo a quella delle donne americane. L’Imam si convinse subito e ordinò che fossi condotto alla sua pre-senza. “Questa volta, caro Alì, non facciamo scherzi! Passiamo per l’Ospedale e mi infilo un paio di quei dannati calzoni lunghi! Andiamo a Corte, perbacco!” Ma non ci fu niente da fare. L’Imam aveva detto: “fisa” e “fisa” doveva essere. Mi ricordai che prima di partire da Roma sia Vinci che il Dr Selim Cattàn, un alto funzionario del Ministero degli Esteri, maronita, quindi esperto della psicologia araba, mi avevano, invano, raccomandato di farmi crescere un bel barbone. “Se la vedono così, senza barba, con l’aspetto di un ragazzino, che razza di Professo-re sarà per l’Imam?” Ora mi trovavo non solo senza barbone, ma anche in short! Era andata liscia con la Regina, ma era all’Aeroporto. E a Palazzo?

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Arrivammo alla Reggia di Hoseifra che dominava Taiz e l’Ospedale. Era il palaz-zone più scombinato e asimmetrico che avessi mai visto al mondo (volendo, anni dopo, mettere un ascensore per l’Imam, si vide che era impossibile creare l’apposita “tromba” per contenerlo nella salita dal piano terra al terzo piano; ad ogni piano infatti ci si trovava sulla testa un muro di altri locali che sbarravano il passaggio). L’ala di ingresso del Palazzo, tuttavia, aveva un suo tocco di nobiltà con i grandi finestroni arcuati, ornati di vetri policromi (del tipo descritto al Dar el Diafa, ma molto più raffinati). Fitte le Guardie Reali e ben armate, con doppia cartucciera a tracolla, fucili lunghissimi, “jambie” nel cinturone arabescato alla vita. Calzavano sandali di cuoio con robusta suola fatta con pezzi di copertoni di jeep. Avevano fac-ce barbute convenientemente “feroci”, secondo il ruolo loro affidato.

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Di fianco al palazzo sor-geva una serie complessa di piccoli edifici senza al-cuna linea architettonica: erano la “Malìa” centra-le (la Tesoreria di Stato) e altri uffici. C’era pure, ben evidenziata, una gab-bia con un grosso leone, in verità un po’ acciacca-to dagli anni, che doveva rappresentare la “regalità” (ma non la rappresentava molto bene, dato che di-versi gatti in tutta calma e con spavalda coda ritta, entravano e uscivano dalla gabbia dopo aver arraffato qualcosa da mangiare). Pensai che i nostri supe-rastuti reggitori delle Pub-bliche Finanze avevano avuto tante idee, ma non quella di intimorire i con-tribuenti con un leone vivo davanti all’Ufficio centrale delle tasse. Salimmo “fisa-fisa” al pri-mo piano, al grande “Ma-frég” dove l’Imam dormi-va, lavorava e passava la massima parte delle sue giornate. Tutte le case ye-menite hanno un mafrég, praticamente un vero li-ving room destinato solo al padrone di casa ed ai

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suoi ospiti. Per le donne - nelle grandi case - esiste un altro mafrég a loro riser-vato. Quello reale era costituito da un grande salone di circa 25 metri x 8. Un lato era tutto a finestroni ad arco, coi tradizionali arabeschi di vetri policromi legati in gesso. Tra i finestroni erano appesi al muro scimitarre dal fodero d’oro lavorato, cinturoni riccamente ricamati in oro e argento, fucili, jambie d’oro e d’argento, cappellini rigidi, dorati che servivano di base ai turbanti, etc.; qua e là, poi, a contrasto, orologi occidentali di pessimo gusto, calamai e cento cian-frusaglie da grandi magazzini poggiati su mensolette di gesso. Lungo tutta la parete, sotto i finestroni, erano allineati materassi e cuscini, ricoperti da stoffe pregiate, che formavano un lungo divano a livello del pavimento, con braccioli costituiti da altri cuscini, duri, a forma rettangolare allungata. L’armonia, nella confusione, era la nota dominante e veniva spontaneo ricordarsi della descrizio-ne che Salgari fa della reggia di Sandokan a Mompracem. Il davanzale dei finestroni arrivava a pelo dello schienale formato dai cuscini del lunghissimo divano parietale, cioè a non più di 50-60 cm dal pavimento. Questo inconsueto abbassamento del margine inferiore delle finestre creava una spazialità sorprendente. L’atmosfera era allietata inoltre dal multicolore gioco di luci policrome che filtrava dal di fuori. Il lato opposto del salone, tutto bianco, non conteneva che un grande materas-so di permaflex, ricoperto di broccato e di lino bianco e carico di cuscini; era il letto-divano su cui l’Imam leggeva, dormiva e lavorava, ingombro di “wareghe”, cioè dei fogliettini di carta che si usavano per tutte le pratiche. Sulla parete vici-no al letto erano appese le armi da guerra del Re. Il pavimento era interamente ricoperto di tappeti di tutti i tipi, anche cinesi (dono di Mao Tse Tung). Ho più volte tirato in ballo Sandokan, ma devo ripetermi perché non trovo altro personaggio a cui paragonare l’aspetto dell’Imam Ahmed, aspetto di un vecchio guerriero arabo non di maniera; nobile, sveglio, rapace. Di statura media, aveva masse muscolari poderose nella metà superiore del corpo; un collo veramente taurino, petto e spalle e braccia da lottatore professionista. L’addome, con l’età (quanti anni aveva? In Yemen non esisteva anagrafe e non si festeggiavano i compleanni... Forse 63/64) si era fatto prominente, ma le gambe erano musco-lose, ben tornite, con caviglie relativamente sottili, mani e piedi “da signore”. Il viso era caratterizzato da una notevole finezza e fierezza di tratti: fronte spazio-sa, occhi enormi, nerissimi, con folte sopracciglia nere arcuate, naso aquilino, labbra carnose. Aveva un barbone ampio, ben curato, di vari colori: il bianco dell’età era coperto dall’henné (che tutti gli anziani usavano in Yemen) e si con-fondeva col castano-scuro-rossiccio naturale. In testa era completamente e ac-curatamente rasato (si faceva radere la testa due volte alla settimana, col raso-io). La carnagione era bianca, con una consistente impressione di abbronzatura, come nei nostri uomini del Sud. Colpivano subito l’intensità e la profondità del suo sguardo e la varietà e mobilità eccezionale della sua mimica facciale. Da un atteggiamento regale di assoluto distacco - da “basileus” bizantino - si poteva passare, in un lampo, ad un minaccioso aggrottamento delle sopracciglia e allo sguardo “feroce” o ad un benevolente, accattivante atteggiamento da buon pa-triarca, comprensivo delle debolezze umane, generoso, misericordioso... Dice-va- no gli amici francesi, pensando, evidentemente, a Luigi XIV, “Il a les reflex d’un Grand Roi”. Era il primo nel suo Reame nella perfetta padronanza della lingua araba: era

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considerato da tutti un raffinato poeta, talvolta equiparato persino ai “grandi”, come Omar el Kajam. Ricordo, negli anni che seguirono, molte nottate trascorse a Palazzo (era come i gatti, preferiva dormire di giorno e star sveglio la notte): dai fi-nestroni del Mafrég si ammirava, nell’assoluto silenzio della notte, il meraviglioso cielo bleu dell’Arabia trapunto da stelle lucenti (“luppicanti”, diceva, ammirato, il veterinario marchigiano che lavorava a Taiz). - “Vedi quelle due stelle vicine?” - mi disse una volta (io sono “emeralopo”, cioè di notte sono quasi cieco, ma, perbacco, le stelle dell’Arabia sono così vistose che le vedevo pure io) - “ebbene quelle due stelle - e me ne disse il nome - sono le nostre stelle, la mia e la tua: sono vicine. Così io mi sento con te che col tuo lavoro fai del bene al mio popolo” - e mi diede una affettuosa “pacca” sulla schiena. La cultura coranica dell’Imam era formidabile: come Papa-Re non poteva essere altrimenti. Tutto veniva “filtrato” attraverso questa cultura, per cui non esisteva-no, o esistevano solo in forma relativa, altre realtà, altre verità. Ciò però non in-terferiva minimamente nella sua condotta politica quotidiana: era un abilissimo reggitore del suo stato e seguiva con intelligente interesse la politica internazio-nale dei Paesi arabi, senza fanatismi e improvvisazioni. Alle volte dava l’idea di essere un Papa pre-rinascimentale. Le distanze sulla ter-ra, ad esempio, erano per lui “tabù”. C’era nel Mafrég un grosso mappamondo giapponese di plastica. Lo presi una volta per fargli vedere quale era la distanza con gli U.S.A.

L’Imam Ahmed in tenuta di gala (disegno dell’autore, 1960)

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- “Molto, molto più di Aden? Molto più di Addis Abeba?” Vide il mappamondo e rimase fortemente perplesso. Alzò le spalle e disse “Sono lontani”. Poi subito dopo infilò un discorso sulla saggezza e bontà di Allah. Forse aveva temuto per un momento di averli troppo tra i piedi quegli americani. Quando lo vidi quella prima volta, l’Imam era semisdraiato sul suo divano. In-dossava un lungo, candido camicione di cotone su cui era infilato un vistoso pan-ciotto di damasco dorato, a ramages rossi e violacei. Dai due taschini del panciotto sporgevano un vero arsenale di voluminose penne stilografiche nere, di formato gigante (le sue preferite, fabbricate per lui dalla “Mont Blanc” o in Giappone, con enormi pennini d’oro): ne aveva una vera collezione e ci teneva moltissimo. Era, “come al solito”, mi disse Alì, circondato di wàreghe, bigliettini ritagliati in formato lungo e stretto da fogli di carta qualsiasi, anche di quaderno a righi o a quadretti, che costituivano le infinite “pratiche” a lui rivolte. Tutto nello Yemen imamiale si muoveva solo al suo comando. Il suo “La-bass” (il nulla-osta, la “bassa” di una certa terminologia burocratica militare nostrana, chiaramente derivata dall’arabo) era indispensabile per procedere alle operazioni più modeste: ad esempio il benestare alla partenza di un aereo (ricordo, a Sokna, una povera russa che restò accoccolata all’ombra creata da un’ala del Dakota che si era fermato lì, ma doveva proseguire per Sanaà. L’Imam dormiva e l’aereo rimaneva inchiodato alla pista con un caldo infernale: nessuno aveva il coraggio di prendere l’iniziativa di farlo ripartire. La poverina fu ospitata per la notte da me e dal dr Andrey, che avevamo una lussuo-sa stanza nel palazzotto per gli ospiti, vicino alla pista, e solo la mattina seguen-te poté proseguire il viaggio). Il “la-bass” sostituiva la sua firma nei documenti e nelle pratiche. (Dopo la sua morte ci furono delicatissime serie questioni legali, dovute a questa ferrea usanza, nel riscuotere ingenti somme imamiali depositate presso i Lloyd di Londra). Come ben appresi, anche la semplice richiesta della li-cenza annuale, con automatica domanda dei biglietti aerei (I classe) passava per la firma imamiale. Capitava, così, che molti colleghi aspettavano invano settimane e settimane, mandando all’aria i loro programmi europei. Io risolsi il problema, approfittando del mio continuo contatto con l’Imam, ma senza essere obbligato ad assillarlo troppo, scrivendo le mie wàreghe su foglietti di carta azzurrini, gli unici ad essere colorati nella marea delle pratiche rivolte all’Imam. Avvisavo i “Duidhàr” - i bambini di Palazzo addetti ai piccoli servizi- e, puntualmente, la mia wàrega compariva al posto d’onore, ben in evidenza, ad esempio infilata, ben arrotondata, dietro un orecchio o fra l’alluce e il secondo dito del piede sinistro dell’Imam, che erano, imparai presto, gli “archivi” personali privilegiati del sovrano. Così non ebbi mai a lamentarmi di lunghe attese alle mie domande. Bastava che, durante una visita, accennassi appena, col mento, alla di-rezione giusta, sussurrando timidamente sottovoce wàrega, perché prontamente il mio pezzetto di carta fosse afferrato dal Re, letto con attenzione grazie agli occhiali che aveva sempre al suo fianco, e firmato col fatidico La-bass e riconsegnato a me con un bel sorriso e magari gli auguri per un buon viaggio. Il la-bass era sempre scritto di traverso sul margine superiore della wàrega, per si-gnificare che l’Imam era in testa in tutte le cose, non in coda. In completa assenza di scrivanie o di leggii, la wàrega veniva bene aperta e distesa sul palmo della mano si-nistra: il pollice piegato a dovere ne impediva lo scivolamento. L’Imam impugnava una delle sue penne giganti e, umettandosi spesso le labbra, scriveva velocemente. La scrittura araba, come

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è noto, va da destra a sinistra: con questo andamento la pressione del pennino non faceva che spingere il foglietto di carta contro l’incavo formato dal pollice che la bloccava. Per questo motivo tutte le carte d’ufficio erano lunghe o lunghissime, secondo le necessità, ma mai in nessun caso oltrepassavano la larghezza di un foglio protocollo diviso in due per lungo, altrimenti la presa d’arresto della mano sinistra non avrebbe funzionato a dovere. L’Imam mi accolse con uno stile regale che mi parve ben intonato: cortesia e gentilezza di modi, un certo sussiego iniziale che via via lasciò il posto ad una partecipazione più spontanea e umana. Si entrava nel salone del Mafreg rigorosamente, senza scarpe. Ciò, nella mia disgraziata tenuta in calzoncini corti, con alti calzettoni bianchi di cotone, poteva forse addolcire l’impressione d’assieme: molto colo-niale, ma di tipo inglese e, quindi, accettabile anche a Corte. Ci fu una serie di domande cortesi sulla mia sistemazione in una bella casa (con ordine ad Alì Humed di sollecitare la faccenda) e si passò subito al tema medico. Certo, a questo riguardo, i problemi non erano pochi, anche se, grazie ad Allah, tutto sommato, nulla vi era di cui preoccuparsi seriamente. Questo fu il succo di un accurato esame obiettivo a cui il Re si sottopose con buona volontà, anche se, in alcni movimenti o posizioni obbligate, brontolava sottofondo tra sé e sé. Certo, a lui, guerriero nato e vissuto, i disturbi dell’artrosi e quella “pesantezza” del grosso addome e di qualche chilo in più non dovevano far piacere.- “Non riesco più a montare a cavallo come una volta”.D’accordo, ma cuore e pressione erano a posto: era ancora un “leone”.- “Ho tanta forza nelle braccia che nessuno mi batte a braccio di ferro”. Verissimo: assaggiai appena la sua forza muscolare e ne rimasi colpito. Il suo aspetto di lottatore professionista non era un bluff. Si affannò, poi, a parlare molto a lungo con Alì Humed che, alla fine, tradusse così: “Sua Maestà dice che qualche anno fa un “kelp ibn iaùdi” (cane figlio di ebreo) di un medicastro francese gli ha fatto una puntura lombare sbagliata. Da allora, molto spesso, la realizza- zione pratica dei desideri fisici di Sua Maestà non può compiersi come lui ancora desidera e come sempre ha fatto prima”. Capii subito che tutti i suoi discorsi sulla salute andavano a finire lì. Era il suo “punto nero” e si poteva ben capire che lo fosse: era l’immagine stessa della po-tenza virile ed era stato un amatore di alto rango. Era difficile rispondere all’ansia imbarazzata del suo sguardo. Era un problema scottante e delicatissimo. “Maulàna» (Mio Signore) - dissi - la volontà di Dio, nella mia come nella Sua re-ligione, è imperscrutabile. Come Akìm (medico) posso, però, farLe rilevare che, così come dimostra il Suo stesso interessamento al problema, finché c’è in Lei il pieno desiderio dell’amore, nulla è mai da considerare perduto. Proveremo ad aiutare il Suo legittimo desiderio, sempre con l’aiuto di Allah”. La mia risposta (“Era pacato e sereno e non invocava diavolerie moderne”, dis-se poi alle sue donne) lo soddisfece. Mi ringraziò, mi augurò un lungo soggiorno in Yemen, si alzò a sedere e mi tese affettuosamente le mani verso le labbra per il rituale gesto di omaggio al “Maulàna”. Mi inchinai e me ne andai. Anche in questo secondo round, decisivo, non ero stato messo k. o. dai calzon-cini corti. La barba consigliatami a Roma non avrebbe potuto aggiungere nulla di meglio.

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Rientrai, felice, verso il mio alloggio ospedaliero con una bottiglia di Pepsi-Cola comperata per strada. Stava venendo giù l’acquazzone delle ore 14. Le strade erano piene di gente che si beava a farsi bagnare ed a sguazzare nella pioggia. Ora mi sentivo sicuro, a casa mia.Come ben presto mi resi conto, le donne di Palazzo erano circa una sessantina: la Regina anziana, che avevo visitato all’aeroporto, la Regina giovane, una giunonica ragazza siriana con i lunghi capelli rosso-tiziano, una ventina di dame di compa-gnia scelte a turno fra la parentela più fidata, le principesse, e una quarantina di kaddàme, personale di servizio, alcune con mansioni privilegiate e trattamento “au pair”, altre con mansioni via via più umili. Le kaddàme erano le schiave, originarie direttamente dall’Africa o figlie di kaddàme con ruolo, quindi, di liberte. Erano tut-te, più o meno “catramine”, cioè di pelle scura, molto affezionate alla famiglia reale di cui si sentivano con fierezza parte integrante. L’élite delle kaddàme faceva in pratica la stessa vita delle principesse: a Palazzo ognuna aveva la sua linda stanzetta, con un bianco letto preso nel magazzino dell’o-spedale e una grande “singer” di modello antiquato, che troneggiava su un tavoli-no. Esattamente al contrario di quanto si poteva immaginare, l’harem dell’Imam Ahmed era molto simile ad un convento di suore di clausura. C’erano ovviamente “mafrég” per le donne reali, ma del tutto riservati: solo qualche volta le mogli dei

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L’Imam al lavoro nel suo mafrég, nel palazzo reale di Taiz. Un duidhar ed una piccola kaddama sono pronti a eseguire i suoi ordini (disegno dell’autore, 1957)

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medici e dei diplomatici vi erano accolte. Erano interminabili i conversari di questi lady-party arabi, intorno a piccole tazze di thè aromatizzato, qualche “narghilé” e molti ramoscelli di “qat” di ottima qualità, che alcune principesse spiluccavano al-legramente. Nascevano poi per le principesse sposate problemi che richiedevano soluzioni di tipo boccaccesco. Come fare ad incontrare il proprio marito nel periodo di servizio a Corte, che alle volte durava mesi? Si doveva chiedere un permesso speciale all’I-mam per far penetrare il marito nella stanza della principessa, in pieno harem. Anche questi permessi di indole riservata seguivano la via ordinaria delle infi-nite domande che venivano indirizzate all’Imam. Bisognava, cioè, scrivere su un pezzetto di carta la domanda di autorizzazione che l’Imam doveva vergare col suo “la-bass”. Le principesse interessate a questi permessi la facevano fina con i “duidhar”, i ra-gazzini, come detto, adibiti a tutti i servizi interni del Palazzo. Erano loro, infatti, che consegnavano le wàreghe all’Imam e potevano, entro certi limiti, curare che venissero poste in evidenza in modo da essere al più presto firmate. Una volta avuta la wàrega, il marito poteva restare con la moglie per il numero di ore precisato nell’autorizzazione reale. Le male lingue, che non mancano mai in ogni parte del mondo, sussurravano che alcune principesse avessero approfittato di questo sistema per far salire nella loro stanza non il marito, ma il loro amante. Tecnicamente, la dinamica della manovra era possibile, poiché, quando un uomo entrava nell’harem, era preceduto da duidhar che gridavano “Tarik! Tarik!”, cioè “Pista! Pista!”, al che tutte le donne dovevano rintanarsi nelle loro stanze e non farsi vedere o per non vedere l’intruso. Ma, in realtà, salvo forse qualche eccezionale “performance”, a me non sembra-va possibile che esistessero una principessa e un ammiratore disposti a giocarsi la testa con tanta disinvoltura (perché la posta in gioco in caso di intoppi era proprio la testa!).

Quando venivo in Italia, mi divertivo a scherzare con mia madre, nei pochi gior-ni che passavamo assieme. Allestivo mirabolanti storielle di principesse bellissime che mi facevano gli occhi dolci e mi prendevano una mano. Da un lato a mia ma-dre piaceva di sentire suo figlio così apprezzato da quelle principesse da fiaba, ma dall’altro sopraggiungeva il suo rigoroso concetto del peccato.“Sono cose che fanno male all’anima e al corpo!” - diceva mia madre. “Ma se quelle insistono proprio, che devo dire, mamma?”“Pussa via!” - affermava decisa mia madre. “Ma, mamma, quelle non sono mica gatti o galline! Sono principesse reali e sono delle gran belle ragazze! Quando si riesce a vederle senza il loro velo in faccia....” “Ah, potresti pure scoprirle per vedere se sono veramente belle? E tu, figlio mio, non te curà de sapello”. Questa incisiva sentenza, che primeggiava nel suo lessico famigliare, me la faceva sentire ancora più vicina e più cara.

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3. L’inizio: uomini e cose

Dopo più di un mese nel mio alloggio all’Ospedale, la provvisorietà della mia siste-mazione incominciava veramente a darmi fastidio. Per fortuna in quei giorni partì un collega che occupava un posto nella “casa degli scapoli”, al momento, appunto, occu-pata dai “singleton”, ma già, per contratto, destinata a me quando fosse arrivata mia moglie. Così, finalmente, augurando ogni bene e felicità al dr Paltrinieri, che se ne andava in India con l’Organisation Mondiale de la Santé, potei prendere possesso della sua camera e subentrare nella felice comunità degli scapoli, a pochi passi dall’ospedale.

La “Casa degli scapoli” era un solido villino a “faccia vista”, fatto di pietre ben squadra-te di un caldo color rossiccio con qualche inserimento ornamentale di pietre tufacee verdi (come nell’antica architettura ischitana). Una grande veranda, coperta da lamie-ra ondulata, si apriva su un giardino con grandi eucaliptus, melograni e folti cespugli di rose di Natale. Il cancello del giardino, di legno, grande e sbilenco, era fiancheggiato da una casetta per l’ascari di guardia che il Governo ci passava. Il tetto del villino era di tipo yemenita: di terra accuratamente battuta, come un campo da tennis, che poggiava su un sistema di travi di legno contorte (tronchi d’albero) ricoperte all’interno della casa da uno spesso strato di gesso yemenita (il migliore del mondo) che, per così dire, modernizzava le strutture lignee dando loro una certa “linea”. Non posso che dir bene dei tetti yemeniti. Nei mesi caldi mantengono dentro casa un fresco delizioso e la loro azione termostatica è avvertibile anche nelle fredde serate invernali. Se durante la stagione delle piccole e grandi piogge (primavera-estate) si produce qualche minima infiltrazione d’acqua, basta chiamare gli specialisti del ramo che, in un paio di ore, rimettono tutto a posto. Bene aveva fatto, quindi, il geometra tedesco che aveva costruito il villino a optare per il tetto tradizionale. L’interno era ampio e confortevole: un bel soggiorno-pranzo a “L”: tre camere da letto, un grande corridoio centrale che finiva con un finestrone, una stanza da bagno con doccia funzionante (servita da un bidone argentato posto sul tetto, ove l’acqua esposta ai raggi solari diveniva caldissima anche d’inverno), una grande cucina e retrocucina che si apriva sul giardino. Per molti anni l’unico mezzo per cucinare era il fornello “Primus”, a petrolio, che andava bene se gestito con molta cura (altrimenti anneriva spaventosamente le pentole e puzzava). Poi, con gli americani, vennero le bombole di gas. Era a petrolio anche il frigidaire (di marca inglese, ottimo), ma, prima di averlo, andavamo avanti, per l’acqua fresca, con il sistema sahariano: una brocca di terracotta a collo stretto, chiuso con una pannocchia spolpata di granoturco in funzione di tappo, che veniva appesa all’aria. L’acqua trasudava attraverso la terracotta porosa ed evapo-rava col vento, anche se era al sole. Con questo semplice, antichissimo sistema l’acqua della “borraccia sahariana” è sempre deliziosamente fresca. Di primaria importanza era infine il filtro a candele di terracotta, che garantiva la potabilità

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(Leggendo e annotando) *Pietro Monti

Il V centenario della scoperta dell’America

Siamo ormai vicini al cinque-centesimo anniversario dell’ap-prodo di Cristoforo Colombo (1451 - 1506) in un’isola che egli chiamò San Salvador. Ma il 12 ottobre 1992 sarà per alcu-ni americani una occasione per manifestare il proprio orgoglio, per altri per confessare la pro-pria vergogna. A scanso di equivoci, Cristo-foro Colombo fu indubbiamen-te un grand’uomo e può essere facilmente posto tra i dieci uo-mini più importanti che hanno cambiato il corso della storia (M. H. Hart). Francisco Lòpez de Gomara nel 1552 disse che l’impresa di Colombo non era paragonabile a nessun altro evento a partire dalla creazio-ne se si escludono la nascita, la morte e la resurrezione di Gesù (J. N. Wilford, Discovering Co-lumbus). Tuttavia, sia che si conside-ri l’impresa di Colombo una “scoperta” - come preferiscono i tradizionalisti - oppure uno “scontro” - come insistono i revisionisti - in realtà la natu-ra dell’influenza esercitata da Colombo sulla storia appare evidente dalle conseguenze di quell’evento. Questo viene rico-nosciuto sia dagli estimatori sia dai detrattori del navigatore (W. Irving - The Life and Vojages of Christopher Columbus).

Dodici miti intorno a Colombo

Per capire un poco Colombo oggi, è necessario tener presen-te almeno 12 miti che hanno circondato in passato e che con-tinuano ancora a circolare su di lui. La fonte dei fatti che elimi-nano le invenzioni, gli attacchi, le deformazioni, è il giornale di bordo del primo viaggio scritto da Colombo, donde scaturisce cosa il celebre navigatore fece e perché lo fece.

Il primo mito è di vecchia data e sostiene che Colombo non fosse italiano, perché le lingue scritte da lui usate sono il lati-no e lo spagnolo. Il principale artefice di questo mito, in una biografia pubblicata nel 1940, è stato Salvator de Madariaga, il quale, seguito da altri, affer-mava che Colombo proveniva da una famiglia ebrea stabili-tasi a Genova. Anche se altri sostengono altre nazionalità, la maggior parte degli storici con-cordano nell’affermare che fos-se figlio di Domenico Colombo, tessitore genovese, e di Susanna Fontanarosa. Da un punto di vi-sta storico vi è un fondo di veri-tà circa la sua nazionalità, se si pensa che l’Italia, prima dell’u-nificazione avvenuta nel 1861, era più un’espressione geografi-

ca che una vera nazione. Del re-sto i documenti legali scoperti a Madrid e a Genova attestano le origini italiane di Colombo.

Un altro mito è quello che non volle riconoscere a Colombo al-cun merito per aver attraversa-to l’Atlantico, perché altri, come Leif Ericson, avrebbe com-piuta la stessa impresa prima del 1492. Anche se questo può essere vero, è stato il viaggio di Colombo il primo ad avere un’influenza sociale, politica ed economica, oltre che religiosa, sul successivo sviluppo di que-sta parte del mondo. Però altri europei sono diventati famosi, come il portoghese Pedro de Ca-bral, che nel 1500 si ritrovò per caso in Brasile per un errore di rotta, e Amerigo Vespucci che, per l’errore di un cartografo te-desco che lo considerò il primo esploratore di quei luoghi, usur-pò a Colombo il diritto di dare il proprio nome al Nuovo Mondo.

Un terzo mito è quello che vuo-le Colombo motivato dal denaro e dalla gloria, e non dal suo in-teresse per Dio. Solo gli ingenui potrebbero affermare che Dio era del tutto estraneo dalle mo-tivazioni di Colombo, il quale, benché non abbia condotto con sé un sacerdote, se non nei suoi ultimi viaggi, non escludeva le profonde implicazioni religiose. Era convinto che fosse stata la mano di Dio piuttosto che la sua conoscenza dell’astronomia, della geografia e della matema-tica, ad aiutarlo nel suo storico successo. Riteneva di essere sta-to scelto da Dio, come afferma il profeta Isaia (II, 1012), per estendere il suo dominio nel mondo e per convertire molti

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popoli al cristianesimo (K. Sale - The Conquest of Paradise). Un quarto mito riguarda l’a-spetto fisico di Colombo che molti descrivono grazie ai nu-merosi ritratti che esistono di lui. Purtroppo si tratta di con-vinzioni infondate, come ha dimostrato un recente studio di John Noble Wilford, poiché tutti i ritratti di Colombo sono stati dipinti dopo la sua morte. Il primo venne eseguito dal pit-tore veneziano Lorenzo Lotto sei anni dopo la sua morte. Tutto ciò che noi sappiamo del suo aspet-to fisico ci è stato tramandato da uno dei suoi figli, Fernando. Un quinto mito è che nessuno sa come Colombo riuscì a ottenere l’appoggio di re Ferdinando e della regina Isabella per compiere il suo viaggio. Egli raggiunse il suo scopo grazie ad una perseveranza durata oltre dieci anni, malgrado i rifiuti e il ridicolo, e grazie all’intercessio-ne del confessore dei Reali, Juan Pérez, del commissario reale, Luis de Santàngel, e dell’astronomo francescano Antonio de Marche-na. Con lo sguardo lungimirante a nuove imprese, sia Ferdinando sia Isabella accettarono la proposta (i Patti dell’aprile 1492) del naviga-tore, vantaggiosa per le due parti contraenti.

Un sesto mito sostiene che Isabel-la impegnò i gioielli della corona per finanziare il viaggio di Colom-bo. Si tratta di pura fantasia poiché in realtà fu un viaggio sovvenziona-to con i fondi dello Stato. I due so-vrani erano convinti che l’impresa avrebbe offerto un vasto profitto per la Spagna, in quanto le ricchez-ze dell’Oriente potevano essere raggiunte navigando verso Ovest. Per questo, approvando l’accordo, conferirono a Colombo il titolo di ammiraglio dei mari oceanici e la giurisdizione sulle terre da lui sco-perte.

Un settimo mito è quello secon-do il quale Colombo dimostrò che la terra era rotonda. Questa idea

si diffuse negli Stati Uniti con l’ap-parire della biografia di Colom-bo scritta da Washington Irving e venne addirittura fatta propria dal filosofo americano John Dewey. Benché alcuni leaders europei ri-tenessero allora che la terra fosse piatta (oggi esistono ancora in In-ghilterra i mem?bri della terra piat-ta), la convinzione che fosse roton-da risale ad Aristotele e Colombo si limitò ad accettarla.

C’è anche il mito che Colombo non fosse un grande navigatore. Guar-dando al passato, si sottolinea che egli perse una nave durante il pri-mo viaggio e altre quattro durante il quarto. Con ciò si vorrebbe mini-mizzare l’impresa della traversata iniziale di 2.400 miglia che lo vide giungere alle Bahamas, per porre l’accento su ciò che accadde dopo la sua grande scoperta. Samuel E. Morison, ammiraglio della Marina degli Stati Uniti, sostenne che le gesta di Colombo come navigato-re erano state riconosciute sia da quelli che avevano navigato con lui sia da quelli che erano venuti dopo di lui. Colombo aveva il coraggio, la determinazione, la fede, il genio, la tenacia, l’intuizione e la volontà del grande navigatore, oltre ad una certa dose di fortuna. Colombo, per ottenere il meglio dal suo equipag-gio, stendeva due diversi diari di bordo, di qui le critiche relative alle sue capacità marinare.

Un altro mito sostiene che Colom-bo in realtà non si rendeva conto dell’importanza della sua impresa. Mentre sbagliava nel ritenere di aver scoperto l’India, sapeva benis-simo di aver aperto la porta di un “otro mundo”, che non era stato esplorato da nessun altro europeo prima di lui. Ritenne però che si trattasse dell’altra estremità dell’A-sia, ignorando in anticipo il conti-nente che si sarebbe chiamato le Americhe.

Un altro mito è quello secondo il quale Colombo fu responsabile dello sterminio di molti indigeni. Il leader del Movimento degli Indiani Americani “fa apparire Hitler come un delinquente minorile” (J. Elson - Good Guy or Dirty Word?”, in

Time, 26 novembre 1990). Queste pretese efferatezze contro Colom-bo e i suoi compagni sono prive di fondamento perché non vi é alcuna certezza sul numero degli indige-ni esistenti all›epoca. Se davvero i conquistadores avessero annienta-to la maggior parte degli indigeni, come si spiegherebbe la presenza nelle due Americhe di un›intera nuova razza di meticci (quattro milioni in Guatemala, sette milioni e mezzo in Perù, quarantacinque milioni in Messico), derivata dalla mescolanza di sangue nei matri-moni misti fra indigeni e spagnoli? La politica spagnola aveva auto-rizzato i suoi cittadini a criticare il comportamento per ottenere un atteggiamento più umano. E Bar-tolomé de Las Casas e altri missio-nari spagnoli ebbero piena libertà d›indicare i difetti di colonizzazio-ne da parte dei sovrani perché gli indigeni dell›America venissero trattati umanamente (S. De Ma-dariaga - The Rise of the Spanish American Empire, Macmillan, New York 1947, cap. 2). Più che la bru-talità dei conquistadores spagnoli furono le malattie che gli europei portarono con sé.

Altro mito è quello secondo cui Colombo introdusse la schiavi-tù nel Nuovo Mondo. Se da una parte bisogna riconoscere che egli permise la cattura degli indigeni perché fossero schiavi, dall›altra non va dimenticato che una civil-tà come quella azteca aveva cono-sciuto lo schiavismo molto prima di Colombo. «In realtà, ciò che gli Spagnoli introdussero in America fu l›abolizione della schiavitù de-gli indiani: un principio, anche se inizialmente discusso nella teoria e violato nella pratica, alla fine pre-valse», afferma Salvador de Mada-riaga.

L›ultimo mito è quello che vuole Colombo artefice della distruzione di un paradiso terrestre. Si tratta comunque di un›affermazione fal-sa, nonostante l›alto livello di civi-lizzazione raggiunto in alcuni cam-pi dagli Aztechi, dagli Incas e dai Maya. Alcune di queste popolazioni portavano in sé i semi della propria distruzione , specie nei sacrifici (gli

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Aztechi strappavano il cuore alle loro vittime, gli Incas le strangola-vano e i Maya le annegavano). Se da punto di vista della morale cri-stiana le azioni dei conquistadores appaiono deplorevoli, più terribili e sanguinarie erano quelle degli indi-geni prima dell›arrivo di Colombo (gli Aztechi nel consacrare un tem-pio, arrivavano a sacrificare una o due persone al minuto, mentre gli Incas probabilmente sacrificavano almeno cinquanta mila persone all›anno), soprattutto quando, ol-tre ai prigionieri di guerra, per pla-care le divinità delle loro religioni panteistiche, immolavano donne e bambini innocenti. Di qui appare evidente che il Mondo Nuovo era ben lontano dall›essere un utopico paradiso terrestre.

Tutti questi falsi miti stanno oggi turbando l›anniversario e lasciano in ombra l›impresa compiuta da Colombo dal momento che questi mali non ebbero molto a che fare con il suo viaggio iniziale. Il quinto centenario ha signifi-cati diversi. Ciò che non bisogna dimenticare mai è la prospettiva storica che ci insegna che Colombo non fu né «un orco sanguinario» né «un santo di gesso» (William H. McNeill dell›Università di Chi-cago). Sarebbe meglio porre l›attenzione sui cambiamenti che hanno aiuta-to a trasformare la vita e i costumi del Vecchio e del Nuovo Mondo: i cibi e i prodotti diversi che vennero scambiati (come l›introduzione del cavallo in America e della patata e del mais in Europa), per non citare le malattie che hanno afflitto en-trambi gli emisferi. Ma soprattutto non si può igno-rare l›anniversario della nascita del Cristianesimo nelle Americhe, lasciando da parte gli errori, gran-di o piccoli, in campo sia laico che religioso. Nella speranza di un futuro mi-gliore per il mondo intero, la storia non potrà misconoscere che, se il mondo oggi è migliore, fu proprio per l›impresa compiuta da Cristo-foro Colombo nel 1492.

Pietro Monti

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Fatti e personaggi della storia di ieri e di oggi

Il mondo feudaledi Vincenzo Cuomo

Credere che il feudalesimo sia stato solo un sistema politico, senza nessuna implicazione economica, sociale, intellettuale e di costume, è senz’altro un er-rore di valutazione, in quanto fu soprattutto una civiltà. Sorto tra i Franchi, si affermò durante il periodo carolingio, per raggiungere successivamen-te quella sistemazione definitiva con cui noi oggi lo conosciamo. Questa fase finale - che è anche la più importante - si sviluppò durante un periodo di carenza del potere centrale, assumen-do una struttura e degli aspetti completamente diversi da quel-li posseduti precedentemente. Questa trasformazione, volendo datarla, possiamo farla partire da quel vuoto di potere che va dalla deposizione dell’ultimo imperatore carolingio, Carlo il Grosso, nell’anno 887. Il feudalesimo, semplificato, Incororonazione di Carlo Magno

lo si può racchiudere in tre ele-menti base: il beneficio, il vas-sallaggio, l’immunità. Il benefi-cio era il territorio che il sovra-no dava in concessione alla per-sona prescelta per l’investitura; il vassallaggio era il rapporto di fedeltà e sudditanza dell’infeu-dato verso il suo signore; l’im-munità, infine, rappresentava il trasferimento di alcuni diritti dal sovrano all’infeudato. Dicevamo che il periodo della monarchia franca fu il momen-to in cui questo sistema politi-co-sociale-economico sorse e si affermò con vigore, assumendo quelle che poi saranno le sue ca-ratteristiche salienti. Carlo Ma-gno, anche se non ne fu il crea-tore, fu però un tenace assertore di questa nuova realtà politica che aveva sostituito quella clas-sica dell’Impero Romano; e molto si impegnò per farla fun-zionare. I Missi Dominici con-trollavano con occhio vigile an-che i vassalli più lontani, per poi riferire dettagliatamente all’im-peratore. Alla sua morte dovette essere sicuro di aver circondato la novella autorità imperiale di una schiera di fedelissimi, pron-ti a dare la vita per la salvaguar-dia dell’integrità dell’Impero e del suo rappresentante. Ma gli eventi dovevano però smentirci! Con lui in vita i vassalli gli furo-no sempre fedeli, ma allorquan-do con i successori la maestà della figura sovrana iniziò una lenta ma inesorabile decadenza, il feudalesimo subì una trasfor-mazione profonda, che in breve lo porterà ad assumere una ve-ste completamente diversa da quella che il grande Re aveva voluto. Il primo mutamento avven-

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ne quando il beneficio, che da sempre era stato vitalizio, cioè alla morte del titolare ritornava all’autorità che lo aveva conces-so, nell’877 con Carlo il Calvo nel capitolare di Kiersy divenne ereditario. Con la nuova normativa era sancito che il figlio potesse ac-quisire feudo, proprietà e ric-chezze del padre senza che il so-vrano potesse opporsi. Ciò fu un altro grosso colpo al prestigio imperiale. Una ulteriore altera-zione dell’equilibrio dei tre ele-menti su cui si reggeva il potere imperiale feudale fu la Constitu-tio de feudis, emanata da Corra-do II (1204 - 1039), con la quale si permetteva l’ereditarietà an-che ai vassalli minori, cioè a val-vassori e valvassini. In sintesi, quindi, in questa fase termina-le dell’evoluzione del concetto feudale, si ebbe uno slittamento del potere dalle mani del re in quelle dei suoi vassalli, i quali, anche se teoricamente conti-nuavano ad esercitarlo in nome del sovrano, in realtà lo eserci-tavano esclusivamente per loro mentre l’imperatore non era più nelle condizioni di impedirlo, avendo costoro usurpato le sue funzioni. La struttura feudale era pira-midale, con alla base una gran quantità di servi della gleba con tanti doveri e quasi nessun di-ritto; una parte centrale forma-ta da feudatari e cavalieri, ed un vertice su cui spiccava maestosa la figura dell’imperatore. Que-sti, circondato da un’autorità e da un prestigio immenso, era di gran lunga al di sopra non solo dei suoi vassalli, ma anche di tutti gli altri abitanti dell’im-pero, laici o ecclesiastici che fossero. Il potere non era mai però pari al prestigio, in quanto limitato dai vassalli che avevano tutto l’interesse che non diven-tasse mai tale da condizionare il

loro. Nella realtà, quindi, questa suprema autorità, solenne e ie-ratica, era molto meno potente di quanto potesse sembrare: era condizionata dalla realtà dei feudatari, dei quali, anche volendo, non poteva assoluta-mente fare a meno, e che costi-tuivano il fulcro della sua forza militare. Senza l’ausilio di que-sti cavalieri non si poteva intra-prendere nessuna azione. Era quindi la stessa struttura feu-dale che impediva al sovrano di avere un esercito esclusivamen-te suo ed a lui solo fedele. Nel regime feudale tutto il ter-ritorio apparteneva al sovrano. Egli lo frazionava in una serie di contee, marchesati e ducati, i cui titolari investiti del bene-ficio - per sua esclusiva volontà - erano all’interno dei loro pos-sedimenti padroni assoluti di terra, uomini e cose. A nessuno dovevano rendere conto del loro operato, tranne naturalmente a colui che li aveva investiti. Con la scomparsa dell’Impero caro-lingio ed anche dopo la nasci-ta del Sacro Romano Impero Germanico degli Ottoni, specie quando sul trono non sedeva un imperatore forte ed autoritario

e man mano che il loro potere andava accrescendosi, questi feudatari furono sempre più i veri arbitri della politica euro-pea. Sentirono anche il bisogno di crearsi delle corti, che nulla ebbero da invidiare, per sfarzo e magnificenza, a quella dell’im-peratore. Costoro, nel momento in cui si trovavano nella necessità di ricompensare dei sottoposti, come premio per averli fedel-mente serviti, si comportavano allo stesso modo di come il so-vrano aveva fatto con loro: sud-dividevano il territorio su cui avevano giurisdizione in piccole parti e le concedevano in bene-ficio. Per ben comprendere que-sto processo storico-politico è da tenere presente che, soprat-tutto nell’Alto Medioevo, altre forme di ricchezza, se non fosse la terra, non se ne conosceva-no e la circolazione del danaro si era talmente contratta che in alcune regioni europee era ad-dirittura scomparso ed i locali erano tranquillamente ritornati ad uno scambio diretto in natu-ra. Questi baroni, fulcro dell’Im-pero, beneficiari dell’imperato-

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re, uomini di nobili ed antiche casate, erano an-che cavalieri. Cioè, durante una solenne e sacra funzione, erano stati benedetti tali. Con questa investitura, essi erano entrati in una situazione di privilegio. Potevano aspirare ad un beneficio, ad un comando o ad un incarico. Potevano an-che entrare armati in chiesa e sedere a tavola con altri cavalieri. Oltre questi diritti avevano acquisito anche molti doveri, ai quali, a danno del loro onore, non si sarebbero mai sottratti e che costituivano un vero e proprio codice di comportamento. La Cavalleria fu infatti un idea-le di vita e costituì un supporto del feudalesimo, nel quale crebbe e si sviluppò. Ritornando ai baroni, essi non uscivano dai loro turriti manieri se non ricoperti di splen-dide e sfavillanti armature e cavalcando focosi destrieri. Abilissimi nel combattere, invincibili nella lotta, erano di una possanza e di un corag-gio eccezionali; non vi era combattimento che rifuggissero o pericolo che temessero. Erano completamente analfabeti e di ciò si facevano vanto, perché oltre il mestiere delle armi nessun altro ne conoscevano o ritenevano fosse adatto a loro. Normalmente vivevano fuori delle città, in un castello ben difeso e vigilato, arroccato su una collina, in una posizione strategicamente perfetta. Costruito molto in alto, per poter me-glio dominare la vallata circostante, spaziando su un orizzonte vastissimo, permetteva di avvi-stare con molto anticipo l’arrivo di nemici o ban-de di predoni. Esso era anche un centro di po-tere, in quanto era lì che il barone vigilava sulle sue terre. Microcosmo autosufficiente, ospitava tutte quelle persone che il signore riteneva po-tessero servirgli nell’esercizio delle sue funzioni. Cinto da robuste mura merlate sorvegliate da uomini in arme e fiancheggiato da torri, aveva tutt’intorno un profondo fossato colmo d’ac-qua. Un ponte levatoio, apribile con un sistema di argani, costituiva l’unica strada di accesso a questa fortezza. L’interno, oltre un’ampia piaz-za d’armi, aveva edifici di pubblica utilità quali: depositi, alloggi per gli armati ed un mulino. Il pozzo, indispensabile in caso di lunghi assedi, non mancava mai. Seguivano le abitazioni di coloro che vivevano all’interno di questa rocca, nonché le scuderie. Su tutto troneggiava il Ma-schio. Fortezza nella fortezza, di aspetto austero e severo, era l’abitazione del barone. Ma, oltre tale destinazione, aveva anche il compito di ser-vire come ultima difesa nel caso le mura fossero state superate dai nemici. Il castello, oltre questa funzione difensiva, aveva anche una funzione

sociale. Esso, infatti, allorquando un grave peri-colo armato si profilava all’orizzonte, era pronto ad accogliere tra le mura i contadini del contado con famiglia, animali e masserizie. Ciò, chiara-mente, faceva sì che il rapporto tra contadino e feudatario non si racchiudesse in una semplice sudditanza, ma anche in un vero e costante aiuto in caso di necessità. Il mondo feudale, oltre che dai castelli, era po-polato anche di città. Esse non erano più quelle splendide romane, rivestite di marmi, abbellite con statue, costellate di lussuose ville e dotate di terme e fogne. Dopo la contrazione, in seguito al disfacimento dell’Impero, erano diventate - pri-ma della ripresa dell’anno Mille - solo dei grossi borghi con poche migliaia di abitanti stipati per lo più in vecchie case addossate l’una all’altra. Erano condizionate dalle mura, che per forza di cose agivano da busto impedendo all’abitato di estendersi troppo. Questa protezione si era resa necessaria nel momento in cui le legioni non fu-rono più in grado di mantenere l’ordine e fer-mare i barbari. Queste mura si cercava far sì che non avessero mai un perimetro troppo esteso, a causa del gran numero di uomini in armi che sa-rebbero occorsi per assicurarne la difesa in ogni parte. Quando poi l’abitato traboccava, allora si provvedeva alla costruzione di un nuovo giro, di diametro chiaramente maggiore, che inglobasse sia la città vecchia che le nuove costruzioni. In queste città si viveva male! Mancava l’illu-minazione notturna e le strade, oltre ad essere strette e tortuose sempre a causa della carenza di spazio, non erano pavimentate e tranne qual-cuna erano fangose con la pioggia e polverose con il sole. Anche le antiche mura consolari, che univano l’Europa da un capo all’altro, erano mal ridotte e, non essendovi la necessità, nessuno si industriava a ripararle. Le fogne poi erano solo un ricordo legato alle costruzioni repubblicane o imperiali dell’antica Roma. L’igiene, componen-te fondamentale del mondo antico, era comple-tamente scomparsa. Ciò, chiaramente, favoriva la nascita e la diffusione di feroci epidemie che per tutto il Medioevo tormenteranno l’umanità. La città medievale era una presenza di note-vole operosità. Le sue strade ospitavano arti-giani e lavoratori che avevano le loro botteghe un po’ dappertutto. Il mercato, luogo d’incontro con il contado ed i centri vicini, era il punto più caratteristico e pittoresco. Al centro dell’abitato faceva bella mostra di sé la Cattedrale. Gran-de e maestosa, era il simbolo della città e della forza economica e spirituale dei suoi abitanti.

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Il vescovo, che vi aveva sede, era quasi sempre e specie nella fase iniziale dei Liberi Comuni, la massima autorità. Sul da-vanti trovava posto il Sagrato, vero palcoscenico della vita so-ciale, ove si radunava l’arengo e si decidevano le questioni più importanti inerenti il presente e il futuro della cittadina. Altro edificio ugualmente importan-te, al pari della Cattedrale, era il Palazzo Pubblico. Di robusto impianto, era il simbolo del-la libertà del Comune e la sede delle Magistrature. Era anche dotato di una torre merlata che nessun’altra costruzione poteva superare in altezza, pena l’ab-battimento. Con i fermenti dell’anno Mil-le, che porteranno alla rinascita della città, assistiamo ad un’ul-teriore trasformazione del mon-do medievale feudale: la nasci-ta dei Liberi Comuni. Con essi, le città riguadagnarono quella forza e quel prestigio che ave-vano perduto durante i secoli bui, a vantaggio del castello. La ripresa fu dovuta soprattutto ad una nuova classe emergen-te: la borghesia, che operò dei notevoli mutamenti all’interno della compagine sociale e nella struttura del pensiero. Questo periodo segnò, infatti, la sua af-fermazione come forza traente e privilegiata. Le città, appena trasformatesi in liberi comu-ni, vennero inevitabilmente in contrasto con il signore locale, depositario dei valori e della tradizione feudale. In tal modo, la Città ed il Castello divennero l’immagine di due concetti po-litici in chiara antitesi tra loro, nonché due posizioni di potere: l’uno emergente e l’altro teso alla conservazione della sua for-za e del suo privilegio. Il feuda-tario, chiuso nel suo maniero e sordo ad ogni istanza di autono-mia e libertà da parte di villici e

borghesi, rappresenta il medio-evo in tutta la sua completezza, con le sue idee e la sua conce-zione politica. Il borghese della città, invece, era l’uomo nuovo, il rappresentante del ceto emer-gente e della nuova forza econo-mica in attesa di affermazioni politiche. La conseguenza, nel tempo, di questa dura lotta di predominio, fu una guerra aper-ta, ove il barone, sconfitto dalle preponderanti forze cittadine, fu costretto ad abbandonare la sua rocca e stabilirsi in città, di modo che la borghesia potesse meglio controllarne le azioni. Questi baroni inurbati, quasi sempre valvassori o valvassini, dopo il loro insediamento e la costruzione di abitazioni degne del loro rango, costituiranno dei nuovi poli di attrazione intor-no ai quali verranno attratte le energie prorompenti di questi centri che, in tal modo, comin-ceranno a dividersi in consorte-rie o gruppi politici per poi com-battersi. Molti di loro, durante

la prima fase comunale, riusci-ranno anche a raggiungere del-le posizioni di gran privilegio e comando, sino a condizionare l’intera politica del Comune. Il contrasto tra Castello e Cit-tà è però solo un aspetto di una lotta a più ampio respiro, con alla base le stesse motivazioni, che fu combattuta tra l’Impero e i Liberi Comuni, sostenuti in questo loro sforzo dalla Chiesa che con la lotta delle investiture aveva acquisito una sua dimen-sione politica, al di fuori prima ed in antitesi poi con l’Impero. In tal modo il mondo feudale si avviava al tramonto. Ma, così come era stata lunga la gestazio-ne, così ugualmente lunga sarà l’agonia. Di trasformazioni ve ne saranno ancora e per poter porre la parola fine bisognerà attendere la Rivoluzione Fran-cese, che con un atto burocra-tico annullerà una situazione ormai anacronistica e lontana dalla realtà.

Vincenzo Cuomo

Castel del Monte (Andria, Bari), fatto erigere da Federico II. Intorno al 1240 questo Castello, dalla pianta ottagonale, con otto torri massicce agli angoli, divenne la residenza dell’imperatore

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Associazione culturale Cypraea - Amministrazione provinciale di Napoli

Premio Cypraea un premio per la cultura del mare

Una turbonave, l’Ausonia della Siosa Grimaldi, ha fatto da cornice all’ottava edizione del

Premio Cypraea,

istituzionalizzato dall’Am-ministrazione Prov.le di Napoli, col patrocinio della Comunità Europea, dell’As-sessorato Istruzione e Cul-tura Regione Campania, dei Comuni di Piano di Sor-rento, Meta e Sant’Agnello.

Il Premio è stato assegnato

- per la narrativa a Romano Battaglia, - per la scienza a Antonino Zi-chichi, - per il giornalismo alla trasmis-sione di Raiuno Big e alla rivista Gardenia ed. Mondadori.

Un quadrinomio perfetto scelto da una Giuria partico-lare per la sua composizione, perché costituita da giovani studenti delle Università di Tel Aviv, di Praga, di Barcel-lona, Bocconi di Milano, La Sapienza di Roma, di Bolo-gna, di Genova, di Bari e per Napoli da Federico II, l’O-rientale e il Navale e da grup-pi di studenti di licei classici e scientifici, istituti magistrali, tecnici commerciali e nau-tici. “Un mondo variopinto, - afferma Cecilia Coppola, presidente della Cypraea - un giacimento culturale formato dai giovani, proiettati in un messaggio d’azione, di cre-scita culturale per un futuro che li veda seri protagonisti e gestori della vita”. Una speciale sezione del Premio Cypraea è dedicata al Premio Giovane Europa che per questa edizione ha proposto il seguente tema: “Il mare come elemento di

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confronto fra le culture eu-ropee”. La giuria composta da Giuseppe Binni, Vincen-zo Cuomo, Gennaro Ferrara, Lino Matti, Antonia Pillo-sio, Antonino Sposito, dopo un’attenta selezione dei nu-merosissimi lavori pervenuti, ha dichiarato vincitori:

Uri Dagul dell’Università di Tel Aviv; Lidia Notarangelo dell’Un. La Sapienza di Roma;

Gildo Russo e Leonarda Nar-della dell’Un. Bocconi di Mi-lano; Roberto Notarangelo dell’Un. di Urbino; Sabrina Schots, Anammaria Aiello, Katia Astarita, Sergio Guarino dell’Un. di Napoli; la classe III C del Liceo Sal-vemini di Sorrento; Sofia Adelizzi, Giuliana Aiel-lo, Francesca Baiano dell’Isti-tuto Tecnico Commerciale di Sorrento;

Alessandro Palla del Liceo Mamiani di Roma; Coppola Michele, Mon-giovì Luca, Barone Antonino, Dell’Amura Giuseppe, Iac-carino Giuseppe dell’Istituto Tecnico Nautico N. Bixio di Piano di Sorrento e la classe II B della Scuola Me-dia G. Amalfi di Piano di Sor-rento.

A consegnare i premi, in de-naro e in sculture dell’artista veneto Gianni Visentin, sono state personalità del mondo politico e della cultura. Il noto stilista milanese Gianni Tolentino ha dedicato alla Cypraea alcune delle sue più belle creazioni e il Trio Bucarest ha eseguito musi-che di Smetana (al violino Marianna Muresanu, al vio-loncello Ilie Ionescu, al pia-noforte Alessandra Brucher) creando un’atmosfera di ma-gia e commozione, apprez-zatissima dal folto pubblico presente nella Sala Maiorca.

La manifestazione è stata con-dotta dalla giornalista Donatella Trotta. Tra i presenti ricordia-mo l’assessore alla cultura della Provincia di Napoli, Giuseppe Tortora, l’On. Amelia Cortese Ardias, l’On. Giuseppe Motto-la, l’armatore Ugo Grimaldi, il Comandante del Gruppo Cara-binieri Antonino Razza, il consi-gliere provinciale Rosellina Gar-giulo, il presidente del Comitato Diocesano on. Gennaro Alfano, Bruno Petretta, vice presidente dell’Ansa di Napoli, e Maria Ro-saria Irbicella, il prof. Raffaele Vacca, Mariolina Pizzolongo, Rosetta Rossi, Rosanna Stor-naiuolo e la presidente dell’Aci-sif Anna Maria La Posta.

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La cerimonia di premiazione è stata preceduta da una serie di manifestazioni nella penisola sorrentina. A Piano di Sorrento nel Centro Culturale sono state allestite una mostra filatelica “C. Colombo nel mondo”, tema-tica del comandante Giuseppe Coppola e una su “Il mare come elemento di confronto fra le culture europee” (ricerche ed immagini degli studenti parte-cipanti al Premio Giovane Euro-pa) a cura di Ernesto Gaudiello e Giuseppe Schettino. A Villa Crawford, a Sant’Agnel-lo, Lino Matti, giornalista RAI, e Antonella Fantò, caporedatto-re dell’AGL, hanno tenuto una conferenza sul tema “Terra e mare nell’Europa del 2000”. Il maestro Paolo Scibilia ha ese-guito un concerto pianistico. Di particolare suggestione l’i-tinerario naturalistico all’agru-meto “Il Pizzo”, gentilmente con la guida della signora An-tonia Maresca. La passeggiata si è conclusa con una meren-da contadina che Pappone, del Ristorante La Ripetta, ha fatto gustare agli ospiti nello stupen-do scenario della terrazza pro-spiciente il mare, tra fiaccole e profumo di antica gastronomia locale, mentre sfilavano sulle onde le barche della processio-ne di Sant’Antonino. (Da sinistra) Antonio Sposito, Littoria Russo, Lino Matti, Amelia

Cortese Ardias, Cecilia Coppola, Giuseppe Tortora, Angelo Stilla

Giuseppe Mottola e Alessandro Palla

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Il muro di piantodi Giovanna Scarsi

Ed. Sciascia - pp. 162

di Carla Vidiri Varano

Ne Il muro di pianto (una rac-colta di liriche con lucide note di critica esegetica ed interessanti elzeviri) il substrato poetico di Giovanna Scarsi poggia su un vasto sedimento letterario/fi-losofico e se ne avvale. L’iter speculativo muove dalla con-sapevolezza degli umani limiti conoscitivi e della inesauribile attrazione del pensiero verso l’inconoscibile. Da qui l’avvio ad effettuare una verifica della verità che le consente di appro-dare anche ad una filosofia di indirizzo pragmatico. Una veri-fica concepita non come sterile passatempo ma come bisogno intimo di volgere all’azione ciò che dalla creatività umana o dal suo io più interno ella può raccogliere e rielaborare alla luce delle proprie e sofferte esperienze esistenziali. Questo suo anelito non scaturisce da un troppo facile ottimismo nei confronti delle possibilità della comprensione (ella infatti non viene catturata dall’idolo del-la spelonca filosofica), quanto piuttosto dal sapere che i pre-concetti fatalistici tàrpano le ali del pensiero e dell’agire umano. Quello della Scarsi è un discor-so di poeta/critico che punta al coraggioso intento di muovere in attivo il nonsenso montalia-no del mondo. Si nota infatti nell’autrice, sulla scorta del filo-sofo pragmatico James, un de-siderio irrinunciabile di credere in qualcosa, di cercare una via catartica pur nell’amara consa-pevolezza dei tanti pericoli insiti in questa impresa.

co-decadente ad autosservarsi e a meditare sulle perenni con-flittualità esistenti in natura. E inoltre sull’amore “male oscu-ro” che talvolta costa dolorosi attriti tra sensi e spirito, ferinità e purezza. Sicché anche “il ses-so è dramma”, osserva l’autrice. Proprio come avviene all’onda del mare che penetrando con sforzo nel ventre d’una con-chiglia emblematizza la disar-monia d’una natura che anela all’armonia e che coinvolge in un perpetuo travaglio tutto il creato. E inoltre gli spaccati pa-esaggistici (soprattutto quelli della costiera amalfitana) di-ventano nella Scarsi un’occa-sione per meditare sulle proble-matiche esistenziali. E natural-mente i temi legati all’amicizia e agli affetti familiari. In specie l’inconsolabile rimpianto d’un padre teneramente amato che seppe trasmettere la religione dell’amore e dell’arte inculcan-do il senso etico dell’esistere. E infine la sezione intitolata “Sa-lotto fin de siécle” che include una galleria di personaggi che furono gli antesignani della ri-voluzione artistica e sociale di quell’epoca. Quella “belle épo-que” così suggestiva per il noto contrasto tra i languori elegan-ti di una vita raffinata e frivola e l’intenso fermento storico e ideologico che sarebbe sfociato sul piano artistico in tanti ca-polavori immortali e sul piano storico nel sanguinoso primo conflitto mondiale. E dunque gli Scapigliati, i Crepuscolari (di cui sono noti gli appassionati saggi dell’A.): Rovani, Gozzano, E. Duse, etc: affiancati a grandi maestri del passato perché non esiste movi-mento contestatario che non si avvalga delle importanti lezioni precedenti. E accanto ai lettera-ti vengono inseriti musicisti e artisti di ieri e di oggi come pro-

Impresa vòlta a trasformare i dati dell’esperienza grazie alla operosità creativa della mente. In questo naturalismo umani-stico la scrittura è uno “stru-mento sociale d’azione” che trova significato solo nella ca-pacità di raggiungere degli sco-pi educativi e illuminanti. Uno strumento per trarre agostinia-namente alla luce la verità che è dentro e fuori di noi, sebbene sappia che per l’uomo non vi è mai la possibilità di discrimina-re con certezza tra vero e falso, tra bene e male. All’uomo occorrono continue e stressanti verifiche. Questo mi par essere il messaggio pre-valente del libro. Un messaggio profondo in quanto finalizzato alla valorizzazione della ricerca etica ed estetica. Poesia quella della Scarsi come momenti di vita trasfigurati liri-camente e assurti a dimensione categorica (in senso gentiliano di “atti dello spirito”). Ma anche poesia sorvegliata dall’occhio severo e acuto del critico che è in lei, sempre pronto a far prevale-re sulla contemplazione pura o sui cosiddetti “scarti della nor-ma” la lucida meditazione circa le esperienze esistenziali e circa l’indagine sui “mores”. Ciò non per giudicare impietosamente i mali sociali ma soprattutto per cercare spiegazioni e possibili rimedi. Il libro si divide in varie sezio-ni che hanno un titolo indicati-vo del contenuto. Le prime due comprendono liriche di caratte-re meditativo-filosofico dettate da varie occasioni di canto. Per esempio la tentazione romanti-

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ficui spunti di meditazioni e ri-visitazioni. In alcuni dei suddet-ti componimenti si notano dei riusciti tentativi di trascrizione diretta dalla musica alla poesia in virtù di quella corrisponden-za preconizzata da Baudelaire e realizzata dai simbolisti tanto da far esclamare a buon dirit-to da Verlaine “de la musique avant toute chose”. Liriche quelle della Scarsi prevalente-mente di stampo impressioni-stico/evocativo a caratterizzare delle particolari atmosfere care alla sua innata ed ereditata vo-cazione musicale. Potremmo chiamarla un’emozione lirica che s’innalza a volo di rondine da un fondo di romantico pes-simismo tutto nutrito di equi-librio neoclassico ed aperto a sollecitazioni di stampo simbo-listico-decadente (nell’accezio-ne positiva del termine). Infatti immediati tratteggi simbolici stanno a sottolineare con ardite analogie e sinestesie ambivalen-

La Repubblica partenopeadi Vincenzo Cuomo

Casa Editrice Fausto Fiorentino, Napoli. 1992, pp. 180

ze barocche che, partendo da un presupposto drammatico, si rasserenano poi in una conclu-sione di serena dimestichezza col dolore, di tranquilla equi-distanza da gioia e sofferenza. E persino la triade parnassiana “calme, luxe et volupté” in alcu-ni versi sembra realizzarsi senza sforzo mentre lo stesso indefi-nito delle parole è un invito alla libertà interpretativa. Infatti “omnis determinatio est nega-tio” suggeriva Spinoza. Così l’A. ama più suggerire che non de-scrivere come avviene in quelle poesie definite dal Novalis “del fiore azzurro” che schiudono i loro calici in violette penombre crepuscolari e in quei soffusi toni prevalentemente il pensie-ro della Scarsi si volge all’inda-gine e alla trasfigurazione lirica con quel linguaggio veramente autentico e ricco di spessore che la contraddistingue.

Carla Vidiri Varano

Vincenzo Cuomo sviluppa la tesi secondo la quale la re-pubblica partenopea del 1799 non sarebbe tramontata se protagonista della rivoluzione fosse stato il popolo e non un ristretto gruppo di generosi e di intellettuali che avevano mutuato dalla Francia le idee, i modi della rivolta e le istitu-zioni, quando esse erano estra-nee alle condizioni storiche e sociali delle popolazioni meri-dionali. Egli, infatti, mette in luce con dovizia di particolari che le ri-voluzioni devono avere legami e connessioni col passato: le

tia, alla rassegnazione, al con-formismo. Da ciò scaturiscono due con-clusioni che finiscono con l’es-sere estremamente significa-tive, e cioè anzitutto il ricono-scimento di una separazione di fatto tra quelli che erano gli ideali progressivi di una mino-ranza intellettuale ed i bisogni concreti delle masse popolari; in secondo luogo, l’affermazio-ne che una rivoluzione, come si è già accennato, non si può fare senza il popolo e cioè sen-za la sua partecipazione attiva e relativamente cosciente, e senza proporsi il perseguimen-to di obiettivi che siano stati da esso, sia pure inconsapevol-mente designati; e che il po-polo si muove giammai sotto lo stimolo di idee astratte, ma soltanto se è sollecitato dalle necessità di risolvere dei pro-blemi concreti. Ne nasce, dun-que, una originale “lettura” della rivoluzione del ‘99 ispira-ta, ne siamo certi, al pensiero dello storico inglese Edward Carr secondo il quale “l’essere considerato o meno un fatto storico dipende da un proble-ma di interpretazione. Ciò vale per ogni fatto della storia”. La storia è essenzialmente “interpretazione”. Lo stile di Cuomo (lo stile, cioè il linguag-gio, è strumento fondamen-tale di interpretazione) mai distaccato dalla vita intensa e spesso drammatica del pen-siero, è vivo nel suo spessore di concretezza quando annunzia una prosa di largo respiro e sempre accattivante senza mai far ricorso ai lenocini verbali di una retorica fine a se stessa.

Alberto De Vico

idee - avverte Cuomo - quanto più sono universali tanto più hanno il consenso del popolo, mentre quelle “reali e concre-te”, interpretando interessi particolari, sono come viziate da debole impulso propulsore. L’aspetto più originale del libro di Cuomo è questo: rin-tracciare il fallimento della re-pubblica partenopea nel fatto che la rivoluzione non era sta-ta promossa dal popolo signi-ficherebbe ignorare che sono stati sempre pochi quelli che hanno acceso il fuoco della ri-voluzione e che le idee radicali hanno strappato i più all’apa-

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Le poesie di Maria Teresa EpifaniMare, se tu potessi...

Mare, staseravieni, vaitorni, rivaimare, che hai?Sospiri, sei inquieto...“Non posso cantare agli amantile dolci canzoni d’amoresussurro le amate parolema esse son sole”.Mare, staserafrangi e rifrangi quei fluttisulla nera scogliera.Sei inquieto, sei in pena...“Non possocolmare le barche,le reti son vuote,quel bimboresterà senza cena”.Mare, staserasollevi mugghiante crinieraal cielo oscurato.Sei inquieto, sei irato...“Non posso arrestare la gocciaintrusa, stranierache tutto avvelena.Nel fondo essa regna sovrana.Corone di alghe rossastrele danzano intornoformando barriera”.Mare stasera tu tacisolenne, in preghiera.Tu soffri, tu speri...“Non possovarcare la sogliadell’umano volere;il vento ha reciso le veledi tutto il creato”.Mare, se tu potessi parlare...Mare, se tu potessi osare...

Maria Teresa Epifani Furno

Le poesie di Maria Teresa Epifani costituiscono un riflesso vissuto di una sofferta esperienza esistenziale e l’ispirazione di una fantastica ri-visitazione di momenti concreti di ciò che ha potuto osservare nella vita quotidiana.

La forte ispirazione creativa, il lin-guaggio cromaticamente descritti-vo, la convinzione con cui riesce a rappresentarci il suo mondo inte-riore; la riflessiva capacità di una intelligenza, che non solo indaga sulla complessità tematica dei con-tenuti sociali, ma li tramuta anche in una originalità poetica e li comu-nica mediante un lirismo attento, che esprime tutta la sua trasogna-ta fantasia e il bisogno di saper mitizzare una esperienza, che vive tra una realtà fantastica, intarsiata di affetti, di intensi sentimenti, di piacevoli ricordi, ricca di tenerezza, di luminosa e fantasiosa immagi-nazione, di espressività creativa, adornata da un alone di inventività che percorre i pensieri più sottili e più vitali di un’esistenza motivata

da una riflessione esistenziale, che, ragionevolmente e concretamente, perdura, non per rattristare, ma per colmare l’animo di un più in-tenso affetto e una concretezza che comunica tutto il vigore di una sof-ferenza interiore. Il mondo poetico di Maria Teresa Epifani si realizza, allora, nel sogno di un mito che ti si presenta con tutto il suo misterioso fascino, la sua incantata e incantevole bellez-za e con un rimpianto celato di una visione fantastica che non si ritrova più nella realtà e nella esperienza di oggi, ma che riaffiora da un suo mondo culturale e da ricordi lonta-ni, adolescenti, la cui suggestione rappresenta la sua prepotente ispi-razione poetica.

Ettore Mastrogiacomo

A 25 anni dalla scomparsa dell’ispiratore

Celebrato a palazzo Barberini il Premio Luigi Prete 1992

Il prestigioso Premio Luigi Prete è stato celebrato nella splendida sala degli Angeli dello storico Palazzo Barberini in Roma in una edi-zione - quest’anno - superba, ricorrendo il venticinquesimo anno dalla scomparsa del suo intestatario. Sono stati insigniti dell’importante riconoscimento, per il 1992, - lo storico Germàn Arciniegas, letterato che è già stato ambasciato-re di Colombia presso lo Stato italiano, poi docente titolare di catte-dra latino-americana alla Sorbonne di Parigi e quindi ambasciatore presso la Santa Sede, autore di una sessantina di libri, fra i quali attente disamine del Rinascimento italiano con riferimento a Co-lombo e ai Vespucci riguardo la scoperta del continente americano;- Sir Paul Girolami, presidente della Glaxo e di altre società, econo-mista noto in Europa tutta, negli Stati Uniti d’America, in Giappo-ne, etc. Queste due elette figure sono state ampiamente illustrate dal Presi-dente delle Accademie e del Premio Aurelio Tommaso Prete di Mo-rigerati, ispettore onorario per i Beni artistici, archeologici e storici.

Hanno ritirato le pergamene nell’alto grado di “Accademico inter-nazionale”: la psicologa dr Rodica Munteanu, ministro segretario di Stato per gli Affari sociali presso il Governo di Romania; Henning Elof Sjostrom, avvocato del Forio di Stoccolma; dr Luigi Savella, prefetto della Repubblica; Carlo Giovannelli, giornalista; prof. Co-stantino Vassilakis, letterato e storico greco; prof. dott. Fabio Ferri, primario cardiologo.

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Diplomi di “Membro accade-mico” sono stati consegnati a: prof. Giuseppe Genoni, archeo-logo; prof.ssa Clotilde Salustri, docente universitaria; arch. Lu-isa Chiumenti, storica d’arte; gen. Alberto Moro, scrittore; dott.ssa Angela Racanicchi, patrocinante in diritto canonico; prof. Luigi Ri-sani, basso baritono; pittore Eraldo Giraldi, giornalista; dott.ssa Ma-ria Antonietta Coccanari, psichia-tra; scrittore Alberto Picotti; dott. Manlio Occhipinti, direttore di Banca.

I Premi Burckhardt Campidoglio d’oro sono stati due: uno assegnato alla pittrice svedese Daniella Do-dig, l’altro a Triantafillos Karayan-nis, professore emerito di Atene, scrittore e storico.

Agli artisti che hanno partecipato alle cinque mostre collettive sono stati assegnati premi per il quali il presidente Prete ha ringraziato gli elargitori nelle persone di: on. Nil-de Jotti, dott. Antonio Viesti, on. Arnaldo Forlani, ing. Arnaldo Pre-te, on. Achille Ricci, on. Giovanni Paolo Azzaro, acc. Burckhardt. Sono risultati vincitori dei premi: Jacqueline P. Fricker (Corsica); Luigi Servolini (alla memoria); Mario Tarchetti; Giulia Giusti (Ar-gentina); Marina Poggi d’Angelo; Ettorre Piccolo; Irene Paceviciute; Gabriella Monastra (alla memo-ria); Annemarie Asam e Manfredo Acerbo; Arcangelo Longo; Laura Tarantola; Raffaele De Marinis; Carmen Remigi; Fausta Beer; Pa-olo Lattanzi; Barbara Michel Jae-gerhuber (Germnaia); Gianfranco Maiuri; Oretta Rangoni Machiavel-li; Roberta Cencini; Eva Varsanyi (Ungheria); Gabriella Di Natale; Silvia Dayan (Israele); Mariella Berardi; Ferruccio Lattanzi; Ful-via Antonacci Madaro; Livia Mar-cellini Hercolani Gaddi; Mariolina Pentangelo; Enilson Graciliano De Melo (Brasile); Teodor Raducan (Romania).

Federico P. Torre

Viaggio intorno al mondo di De Orsi

di Debora Naimo

Edizione Valori Umani, Napoli, 1992, pp. 124

Pasquale De Orsi, uomo di vasta e profonda cultura, è un nome ben noto nel panorama intel-lettuale della nostra penisola. Giornalista, saggista, narratore, commediografo, conduttore di trasmissione televisive di gran pregio, nonché direttore della raffinata ed elegante rivista Va-lori Umani. tuttavia, nonostante l’indiscusso valore e la notorie-tà, il nostro panorama lettera-rio ancora era privo di un’ope-ra, sospesa tra la biografia e la recensione, che consentisse di venire a conoscenza di tutta la vasta e poliedrica produzione e di penetrare l’universo umano ed intellettuale dell’Autore. A colmare questo vuoto ha provveduto la giovane studen-tessa ed affermata attrice Debo-ra Naimo. La pregevole opera è il frutto di un paziente, accurato e docu-mentato lavoro di ricerca. Essa, sin dalle prime pagine, pone in condizione di scoprire la dimen-sione artistica e narrativa di De Orsi, di poterne avere una vasta e completa panoramica, nonché di coglierne le sfumature. Que-sta lettura cronologica viene a porsi sotto i nostri occhi come un immenso affresco in cui vi è tutto il mondo interiore dello scrittore. La Naimo ha inteso divide-re l’opera in capitoli, nei quali, con una narrazione autentica, serena e pacata, si scandiscono le varie molteplici attività. In tal modo, partendo dalle lonta-ne origini, sotto i nostri occhi scorrono i tanti settori in cui il De Orsi è stato ed ancora è im-pegnato protagonista: teatro,

poesia, critica letteraria, confe-renze, narrativa e collaborazio-ni a pubblicazioni. Ovviamente, non poteva mancare il capitolo dedicato a Valori Umani, rivi-sta da lui voluta e fondata, che ovunque ha sempre suscitato plausi e consensi per l’alto con-tenuto culturale. E’ un libro che avvince il let-tore e lo tiene legato a sé sino alla fine. La sua lettura chiarisce dubbi e scioglie interrogativi. Da esso emerge uno studioso, attento osservatore dei proble-mi sociali, con una partecipa-zione umana profondamente sentita e sofferta. Il De Orsi, in questi fogli, mai ci appare uno scrittore di maniera, in quanto costantemente affiora lo spirito del vero educatore e direttore morale della società. Dalla sua prosa appare pro-rompente l’intenzione di influi-re sulla crescita civile e spiritua-le delle masse, volendo far loro intendere l’importanza di atavi-ci valori umani, quali la solida-rietà, il coraggio, lo spirito di sa-crificio, l’amore e la fratellanza. Per tutti questi motivi, nonché per quella calda e pacata visio-ne di un solido mondo antico, il prof. De Orsi, che è nato in Lucania, può senz’altro quindi essere affiancato a quegli uomi-ni che con il loro riconosciuto talento onorano la propria terra di origine.

Vincenzo Cuomo

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Motivi Raffaele Castagna

Si è consumato a Lacco Ameno l’ultimo atto dell’amministrazione democristiana, espressione della consultazione elettorale del 1990: 16 consiglieri la maggioranza, 4 la minoranza. Il consiglio è stato sciolto per le dimissioni di dieci suoi componenti, ma a questa so-luzione si sarebbe comunque ar-rivati, in quanto non c’erano più numericamente le possibilità di amministrare. La domanda che vien subito da porsi, quando si conclude una vi-cenda che ha visto due parti con-trapposte, è questa: chi ha vinto? Ma nella situazione specifica sa-rebbe il caso di chiedersi chi debba ritenersi il perdente, senza il ben-ché minimo appiglio ad una sua sia pur piccola soddisfazione. E in tal caso non è affatto difficile dare una risposta. Dalla parte degli sconfit-ti si ritrovano la credibilità nelle istituzioni (e in quelle espressio-ni, politiche e non, che tendono a rappresentarle) e le sorti del paese, lasciato privo di una giunta ammi-nistrativa in un periodo molto de-licato della vita isolana con tanti problemi che fanno sentire il loro peso per quanto concerne sia la ge-stione di servizi essenziali, sia l’at-tuazione di importanti punti della

senz’altro quello del mare e quindi della balneabilità: si tratta nella fat-tispecie di colpi veramente mortali, poiché è l’immagine di Ischia che viene a deteriorarsi in uno degli aspetti più caratteristici della sua rinomanza e della sua vocazione turistica.

*** Una parte degli elettori di Forio, salvo ulteriori diversi provvedi-menti, è chiamata alle urne (5-6 lu-glio) e l’evento dovrebbe assicurare al paese nuovamente una ammini-strazione che potrebbe non diver-sificarsi di molto dalla precedente. Troppi eventi si sono verificati nel paese, eccessive tensioni si sono create tra le varie forze politiche, perché si possa chiaramente de-terminare le direzioni più logiche e appropriate in tutta la vicenda che dura ormai nell’incertezza da trop-po tempo. Al di là di qualsiasi ovvia e partico-lare considerazione, al di là di una dialettica capace di tutto contrasta-re e di tutto accettare, al di là della volontà di battersi per certi obiet-tivi, occorre anche porsi obiettivi, occorre anche dimostrare di saper accettare i verdetti.

nuova legge sulle autonomie locali. Ci sono soprattutto due settori su cui possono maggiormente incide-re i riflessi negativi del momento, e cioè quello sco-lastico e quello museale. Quanto siano brevi i tempi (e delicati cer-ti aspetti di campanile) per dotare di una sede, anche se provvisoria, il Liceo Scientifico, all’inizio del prossimo anno scolastico, è a tutti noto! E discorso non diverso tocca da vicino la tanto attesa realizzazio-ne del Museo archeologico di Villa Arbusto, sulla quale sussistono e si accrescono sempre più gli interro-gativi relativi alle circostanze che ne ritardano l’apertura e agli enti responsabili da cui non parte l’as-senso definitivo.

*** La stagione turistica non è certo iniziata con i migliori auspici. Di fronte alle incertezze e ai contrasti in sede politica e amministrativa, che si presentano come non mai estesi a tutta l’area isolana, si sono acuiti i soliti problemi in quei servi-zi legati più direttamente al perio-do estivo e sui quali nulla si fa nei mesi invernali. Il settore maggiormente tocca-to da questa negativa situazione è

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