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  • DOMENICA 20MAGGIO 2007

    DomenicaLadi Repubblica

    l’immagine

    Torturare in nome della democraziaBERNARDO VALLI

    la lettura

    “Ho visto il cielo in un tappeto”TAHAR BEN JELLOUN e ELENA DUSI

    la memoria

    Lindbergh e la scoperta dell’EuropaVITTORIO ZUCCONI

    il reportage

    La valle delle sorgenti perdutePAOLO RUMIZ

    cultura

    Se ritorna il mal di PrussiaSIEGMUND GINZBERG

    spettacoli

    I Beatles in India a scuola di OrienteFEDERICO RAMPINI e GIUSEPPE VIDETTI

    MARIA PIA FUSCO IRENE BIGNARDI

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    Interno di un ristorante elegante. Charlie Chaplin, la mogliee un notevole numero di figli si sistemano al tavolo, tra glisguardi curiosi e ammirati di quanti lo riconoscono. Arrivail cameriere, Chaplin chiede una trota bollita. Solerte il ca-meriere torna a mostrargli la trota, lui la prende tra le mani,la accarezza, le bacia gli occhi con tristezza, recita un addio

    accorato. I bambini ridono, applaudono e quando arriva il vino or-dinato, che il padre annusa, assaggia serissimo, fa un cenno di ap-provazione e subito dopo a sorpresa risputa, alla risata si uniscegran parte dei presenti.

    È uno dei ricordi più buffi che Geraldine Chaplin conserva delpadre, «che quando sentiva l’attenzione di un pubblico recitava,amava far ridere, oggi si direbbe che ce l’aveva nel dna. Per noibambini i suoi scherzi e le sue improvvisazioni erano una festa.Non so perché ma raramente usava Charlot per divertirci, solo unpaio di volte al ristorante ci fece la danza dei panini di La febbre del-l’oro, preferiva inventare cose nuove, ci raccontava di un passag-gio segreto dietro un divano e ci si infilava strisciando, apriva unarmadio e arringava una folla inesistente», racconta con la sua bel-la voce roca da fumatrice.

    (segue nelle pagine successive)

    con un articolo di FRANCESCA ALLIATA BRONNER

    Charlot mio padreTrent’anni dopo, Bologna con una “chapliniana”

    lo celebra e la figlia Geraldine lo racconta

    Il 14 settembre del 1940, a New York, Charlot aprì bocca eparlò per la prima volta nella sua storia cinematografica.Veramente lo aveva già fatto cantando una versione tuttasua della Titina, in una specie di grammelot ridanciano, inTempi moderni. Quel giorno di settembre — la guerra im-perversava in Europa ormai da un anno — nel film che

    venne presentato in America e che si intitolava Il grande dittato-re, Charlot, il Vagabondo, the Tramp, parlò sul serio, facendouno dei più lunghi ed emozionanti discorsi della storia del cine-ma e, perché no?, della storia.

    Nel finale del film il Vagabondo, che per la sua inquietante so-miglianza con Hitler (vera, reale: l’autista di Mussolini sostene-va che si fosse fatto crescere i famosi e tragici baffetti per asso-migliare all’uomo più amato del mondo) è stato scambiato peril Führer ed è in alto, sul podio, ad arringare la folla immensa del-le adunate naziste, pronuncia un discorso di sei minuti, lungo(troppo lungo, dissero alcuni puntigliosi critici), appassionato,appassionante, lungimirante, di un pacifismo utopistico edestremo. E scompare. Se ne va per sempre Charlot, immolatosull’altare della passione politica, ed entra sulla scena del cine-ma Charlie Chaplin.

    (segue nelle pagine successive)

    Repubblica Nazionale

  • (segue dalla copertina)

    Lei era la piùgrande dei fi-gli nati dalmatrimoniodi Chaplincon Oona

    O’Neil, era nata nel ‘44 aSanta Monica in California,

    la madre non era ancora ven-tenne, il padre aveva cin-

    quantacinqueanni e ne avevasettantatré allanascita di Chri-stopher, l’ultimo,

    dopo Eugene, Mi-chael, Josephine e

    Victoria. «Siamo tanti,troppi, è difficile mante-

    nere un buon rapporto contutti. Dopo la morte di mia ma-dre ci sono stati scontri e mo-menti burrascosi, adesso ci sia-mo calmati. E pensare che avrei tanto volu-to essere figlia unica. Perché ho dovuto divi-dere con tutti loro un padre così unico, cosìspeciale?», dice scherzando ma non troppo.

    Parla al telefono da Madrid, dove abitacon il marito Patricio Castillo e dove si è sta-bilita una trentina di anni fa con Carlos Sau-ra, regista di sette suoi film e padre dei suoidue figli. «Non ho mai lasciato la Spagnaperché non ho mai trovato il tempo di fare iltrasloco. Vivo tra Madrid e la Svizzera, manon ho radici, le mie radici sono dove c’èqualcuno che mi vuole bene. Sono nata inAmerica ma non mi sento americana. Ogni

    volta che ci vado mi sembra di arrivare inun altro pianeta, tutto di plastica, dove

    niente sembra vero. L’unico diverti-mento è quello di osservare la

    gente, in Americapuoi fa-

    la copertinaCharlot mio padre

    Turchia, in un paese remoto, arcaico, dovein strada c’erano solo uomini. Quando rien-travo in albergo da sola ero sempre un po’ ti-morosa e una sera vedo avvicinarsi un grup-petto di ragazzi, di quelli che in branco di-ventano animali feroci. Ero terrorizzata. In-vece volevano solo parlarmi di papà, imita-vano i gesti, il modo di camminare, cono-scevano i film, avevano le copie pirata». Perquesto è grata alla Cineteca di Bologna e al-l’impegno nel restauro accurato dei film«anche perché è un lavoro difficilissimo, ilmontaggio dei film era sempre molto trava-

    gliato, ci sono pezzi di tagli sparsi un po’ovunque. Andrò a Bologna prima della finedella rassegna, almeno per dire grazie».

    Lei il cinema di suo padre l’ha conosciutorelativamente tardi. Con una curiosa simili-tudine con Totò-Antonio De Curtis, Chaplinpadre era diverso dal grande attore che re-galava al mondo le emozioni del pianto e delriso. «Era un padre severo, in casa amava ilsilenzio, imponeva regole di comporta-mento. I film, per esempio. Da bambini, noifigli potevamo vedere qualche comica mu-ta, ma lui non approvava. Solo da adole-scenti nostra madre impose un proiettore asedici millimetri, uno schermo e una salettadove guardare il cinema di papà e ogni tan-to ci riunivamo tutti. All’inizio lui protesta-va, poi prese l’abitudine di stare con noi e in-dicando lo schermo ogni tanto diceva “èbravo quello che fa Charlot”, e noi ridevamo.Eppure, malgrado la popolarità, era insicu-ro come ogni artista. Ho il ricordo chiaro diquando ci portò a Parigi a vedere una mostra

    di Matisse e tutti ammiravano i dipin-ti. A un certo punto l’ho visto in

    disparte, tristissimo.“Una volta ero fa-moso anch’io”,

    mormorava. Tornòallegro solo quando

    cominciarono a rico-noscerlo e a chiedergli

    autografi».Soltanto più tardi, da

    adulta, dice Geraldine,«ho capito quanto era im-

    portante la disciplina chemi ha insegnato, nel lavoro,

    nel rapporto con gli altri,con se stessi. Non era con

    quello che diceva, ma con ilsuo comportamento, la coe-

    renza, la fedeltà ai suoi principie agli ideali che non ha mai tra-

    dito e per cui ha pagato che ci tra-smetteva le cose. So che tra le leg-

    gende su di lui c’è quella dell’ava-rizia. Ma non era avaro come padre

    e mi ricordo episodi di grande gene-rosità come quando, girando per

    Londra, l’autista Bob gli mostrò la ca-sa che avrebbe voluto comprare: papà

    gliela regalò. Mi ha anche inculcato ilrispetto per le idee degli altri. Lui era for-

    temente ateo ma ci mandò a studiare incollegi cattolici. Una volta la mia scuola

    lo invitò e ricordo che disse: “Vorrei tantopoter credere, sarebbe bello se qualcuno

    mi convertisse”».La memoria di Geraldine non è tutta ro-

    sea. Con il suo carattere ribelle e imperti-nente gli scontri con un padre autoritarioerano inevitabili. A quattordici anni volevatenergli testa. Se lui parlava dell’importanzadello studio, lei reagiva insolente con «chene sai tu che a scuola non ci sei andato». Cha-plin non parlava mai della sua vita prima delmatrimonio con Oona O’Neil. «Io avevo let-to qualche storia su di lui. Allora a tavola loprovocai, gli chiesi quante donne aveva avu-to nella vita. Non dimenticherò mai lo sguar-do gelido che mi rivolse prima di alzarsi e

    “Inventava gag

    30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20MAGGIO 2007

    MARIA PIA FUSCO

    A trent’anni dalla morte di Charlie Chaplin la Cinetecadi Bologna organizza una maratona, dal primo giugno

    a fine ottobre, di film restaurati, mostredi materiali inediti e incontri. Ci sarà anchela figlia Geraldine, che in un lungo colloquio

    ci ha aperto il libro dei ricordi

    cilmente diventare invisibile».L’America è il paese che ha cacciato suo

    padre, lo ha calunniato e offeso. «Quandopapà tornò la prima volta negli Stati Uniti perl’Oscar alla carriera, gli diedero un visto vali-do per un solo viaggio. Al ritorno ci disse:“Hanno ancora paura di me”. Oggi in Ame-rica soltanto le università studiano il cinemadi Charlot, insieme alla Gran Bretagna è ilpaese che meno coltiva il ricordo di mio pa-dre. La cosa bizzarra è che è amatissimo inSudamerica e negli stati in cui è più diffusa lapirateria. Qualche anno fa stavo girando in

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    BOLOGNA E CHAPLINDal primo giugno Charlie Chaplin

    abiterà a Bologna, per una Chaplinianache durerà fino al 30 ottobre e che farà

    del capoluogo emiliano il centro

    delle celebrazioni nel trentennale

    della morte, il giorno di Natale 1977

    Chaplinianapropone la primaretrospettiva integrale dedicata

    a uno dei massimi artisti del Ventesimo

    secolo: la mostra Chaplin e l’immagine(in Sala Borsa, inaugurazione

    per il pubblico il 2 giugno), sette film-

    concerto e un convegno di studi

    L’evento corona il lavoro di restauro

    iniziato nel 1999 dalla Cineteca

    del Comune di Bologna, col sostegno

    della Fondazione Cassa di risparmio

    in Bologna e in accordo

    con la famiglia Chaplin. Dopo

    un lungo vagare infatti è a Bologna

    per essere catalogato

    e digitalizzato l’immenso

    archivio di Chaplin. Sarà messo

    in Rete da metà giugno:

    www.charliechaplinarchive.org

    Repubblica Nazionale

  • uscire dalla sala. Mia madre fu durissima, mifece giurare che non avrei mai più toccatol’argomento».

    Figuriamoci quando, a dispetto dalla vo-lontà di tenere i figli fuori dal mondo dellospettacolo — «da buon borghese ci volevatutti dottori o architetti» — Geraldine impo-se la decisione di iscriversi alla Royal BalletAcademy di Londra. «“Vuoi fare la ballerinasfruttando il mio nome!”, gridava. Peggioancora quando David Lean mi propose difare l’attrice ne Il dottor Zivago». Non vole-va sentirne parlare. Oltretutto, poiché ero

    ancora minorenne, avrebbe dovuto firma-re lui il mio contratto. Si convinse a fatica, miaiutò mia madre». Dopo un inizio così pre-stigioso, il percorso di Geraldine attrice nonsi è mai interrotto. Ha lavorato con grandiautori come Robert Altman (da Nashville aUn matrimonio), Martin Scorsese (L’etàdell’innocenza) e tra gli europei, oltre a Car-los Saura, con Alain Resnais, Claude Lelou-ch, Pedro Almodovar, Richard Lester, Ja-mes Ivory, Jacques Rivette. Per qualche an-no il padre rifiutò ogni contatto, alla fine siammorbidì e le offrì persino una partecipa-

    zione a La contessa di Hong Kong.«A sessant’anni ho avuto un secondo

    scatto di carriera. Siccome sono l’unica chenon ha fatto il lifting, mi chiamano per tutti iruoli di nonna disponibili, ne ho fatti cinquein due anni. Sono venuta anche in Italia a far-la in Melissa P.e ora a Cannes sono nonna nelfilm di Jane Birkin Boxes e sono una streganel film spagnolo El orfanato». «Studia sem-pre, non smettere mai di imparare», è l’uni-co consiglio che ricorda di aver ricevuto dasuo padre e, se pure è convinta che non l’ab-bia mai vista sullo schermo, racconta che

    negli ultimi anniogni volta che gli chie-deva un parere lui ri-spondeva con affetto:«You are the best».

    C’è una nonna chele è particolarmentecara, ed è Hannah, lamadre di Chaplin, chelei ha interpretato inCharlie, il film del ‘92 diRichard Attenborough.«Quando me l’hannoproposto ho accettato su-bito con entusiasmo, sen-za neanche leggere la sce-neggiatura, anche se intuivoche mi volevano per il nome,non per il mio talento. Non l’a-vevo conosciuta, era morta pri-ma che nascessi, sapevo qualcosadi lei dai racconti pieni d’amore chetalvolta faceva mio padre. Raccontava diquando, nelle sere d’inverno, avvolgevalui e suo fratello nelle coperte poi si mette-va alla finestra e imitava tutti quelli che pas-savano, il lattaio, il poliziotto, il fornaio, nereinventava i gesti e le voci, facendoli ridereincantati. O di quando tirava i gelati nei tom-bini per rinfrescare quelli che lavoravanosottoterra... Ho letto tutto quello che potevo,mi ha aiutato molto la biografia di David Ro-binson. Era un’artista di varietà, povera, buf-fa, forte, dal destino tragico. Ho scoperto chealla fine era scivolata nella pazzia».

    È stata anche l’occasione «per conosceremeglio mio padre e capire di più Charlot. Èuna conoscenza che non finisce mai. Io nonho un film preferito tra i suoi, è sempre l’ul-timo che rivedo quello che prediligo, per-ché ogni volta trovo un dettaglio nuovoa cui non avevo badato. Ogni volta sirinnova la malinconia di non esser-gli stata più vicina, di non averglirivolto almeno alcune dellemille domande che vorreifargli ora. E non importase non mi avrebbe ri-sposto».

    LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 20MAGGIO 2007

    «Unregista meraviglioso. Ci dirigeva con la leggerezza di un direttore d’orchestra, dietrola macchina da presa sollevava e abbassava le mani quando voleva che mostrassimoemozioni più o meno intense». Sophia Loren, è stata «l’ultima diva» di Charlie Cha-plin, protagonista quarant’anni fa del suo primo e unico film a colori, La contessa di Hong Kong,l’ultimo della sua vita. «Aveva visto tutti i miei film — ricorda — soprattutto quelli diretti da Vitto-rio De Sica, mi cercò dicendomi che apprezzava moltissimo la mia recitazione. Non dimenticheròmai il primo incontro. Ero emozionata quasi come al primo ciac. Aveva un carisma unico». Pro-tagonista con lei un Marlon Brando ancora non troppo sfatto ma già ghiotto di gelati. «Ne man-giava in continuazione con una golosità infantile poi si lamentava di ingrassare, un uomo di char-me senz’altro, ma troppo concentrato su se stesso. Non l’ho mai più incontrato. Non c’è stata ami-cizia». E con Chaplin Marlon Brando si prendeva? «Direi molto poco. Era un rapporto curioso, c’e-ra un grande rispetto reciproco, ma io sentivo che Chaplin non lo amava. Ricordo che durante leriprese ci fu una sequenza in cui io ero nascosta nell’armadio della cabina di Brando, su questanave per miliardari in cui mi ero intrufolata per seguirlo; lui apriva la porta, entrava, e appena iouscivo facendo capolino dall’armadio, doveva solo dire “Hello!”. Gliela fece ripetere almeno tren-ta volte (e, ahimè, fui costretta anch’io), trovando ogni volta qualcosa che non andava. Quandoandai a vedere il film, realizzai che aveva montato il primo ciac».

    “Il grande dittatore”la storia mai raccontata

    (segue dalla copertina)

    SecondoDavid Robinson, biografo di Chaplin, collezioni-sta di cose chapliniane e generoso donatore di preziosimateriali alla Chaplinianache si svolgerà dal primo giu-

    gno al 30 ottobre a Bologna, Il grande dittatore è «un epico in-cidente nella storia dell’umanità». E questo epico incidente —l’incidente della somiglianza; l’incidente della coincidenza oquasi delle date di nascita, quattro giorni di distanza, di Cha-plin e di Hitler; l’incidente di un film che mette a confronto idue volti di un’umanità diversissima, come li contrappone lacopertina d’epoca di All Family News Magazine: metà faccia diCharlot con la sua bombetta affiancata a metà faccia di Hitlercol cappello militare e la ciocca nera cadente —, questo epicoincidente è al centro, con documenti inediti e appassionanti,dell’evento bolognese.

    I ricchissimi materiali degli archivi chapliniani, per grandeparte mai visti, contribuiscono a ricostruire non solo un climaculturale, umano e storico ma anche un affascinante metododi lavoro. Le ipotesi circa la nascita di Il grande dittatore— chea seconda dell’epoca dei documenti si chiama anche Heil Hi-tler, The Dictator, e più autobiograficamente The Man with theChaplinesque Mustache— sono tante. C’è chi dice che, al di làdelle evidenti simpatie di Chaplin — in una Hollywood che siera ben guardata dall’esprimere qualche forma di dissenso sulFührer, nell’America che allo scoppio della guerra si dichiareràal 96 per cento favorevole a restare nel suo beato isolazionismo—, la scintilla del film sia nata da un libro tedesco per bambiniin cui Chaplin era dipinto come un disgustoso acrobata ebreo.Poi ci fu l’incontro con Dan James, uno sceneggiatore di aper-te simpatie comuniste. Poi, certo, la spinta della crisi di Mona-co. E soprattutto la personale crisi di Chaplin, che cedeva allaseduzione, o alla necessità, del sonoro dopo tredici anni cheera stato messo a punto, e che doveva dunque inventare unnuovo modo di fare il “suo” cinema.

    Accanto ai bellissimi disegni suggeriti da Chaplin a RusselSpencer, quasi uno storyboard preparatorio per Il grande dit-tatore, è affascinante seguire sulle pagine dei vari copioni lo svi-luppo dell’idea e della sceneggiatura del film, la trasformazio-ne della macchina-cinema dal muto al sonoro, la sua esube-rante fantasia di situazioni e personaggi che poi, nella versionefinale, non troveranno posto perché — sottolinea Cecilia Cen-ciarelli, una delle responsabili del progetto bolognese — Cha-plin lavorò, rispetto alla massa delle sue idee, per sottrazione.

    Il personaggio del buon barbiere all’inizio potrebbe essere,si legge, un attacchino, o un qualsiasi balordo, o anche un pa-nettiere che nel campo fa dell’ottimo pane con la segatura.Chaplin immagina situazioni esilaranti — un intero batta-glione di Ss che scambiano il barbiere per Hitler in incognito,anzi, per Adenoid Hynkel, come lo ribattezza Chaplin nel film,e lo seguono disciplinati fino al confine austriaco — e le buttaelegantemente via. Descrive minuziosamente i dettagli del-l’abbigliamento di ogni personaggio, dalle braghe alle meda-glie. Inventa scenografie ironicamente terribili e le selezionacome solo chi ha sovrabbondanza di creatività può permet-tersi di fare. Crea una moglie del dittatore (doveva essere la po-polare attrice comica Fanny Brice) sempre lamentosa perchétrascurata da Hynkel tutto preso «a sterminare gli ebrei», mail personaggio viene tagliato. Annota piccole perfidie su «Be-nito» (nel film diventerà Napaloni, il dittatore con la sua cor-pulenta signora al seguito) che «fa arrivare i treni in tempo»,che ha costruito il suo potere «sull’olio di ricino», e che litigacon il bizzoso e puerile Hynkel su come dividersi l’America e ilmondo.

    Scrive pagine e pagine di appunti e di autoraccomandazio-ni che poi spesso ignorerà, ma rispetta il precetto «ridi da mo-rire e non essere serio, mai. Salvo forse alla fine». E noi sappia-mo che alla fine di Il grande dittatore il Vagabondo sarà serio,molto serio, tanto da venirne rimproverato, tanto da costrin-gere la produzione a giurare, nella pubblicità, che si tratta di unfilm «da ridere» (il che per molti versi è vero), di un film per bam-bini, e a invitare gli esercenti a vendere come gadget svastichee cartoline che mostrano le due facce di Hynkel e di Charlot.

    Chaplin comincia a girare nel settembre del 1939, pochigiorni dopo lo scoppio della guerra. Quando cade la Francia eviene invasa la Danimarca è tentato di rinunciare. «Hitler è unorribile minaccia per l’umanità piuttosto che qualcuno di cuiridere». Ma va avanti, gira centocinquantamila metri, li riducea tremilaseicento, due ore e sei minuti. Al posto del montaggiodi immagini pacifiste, che aveva ipotizzato, chiude il film conquel discorso che Robinson definisce improntato a «un idea-lismo utopistico e a una spudorata emotività»: più che il di-scorso del barbiere-Charlot, arrivato per sbaglio sul palco del-l’oceanica adunata, il discorso è di Charles Chaplin, la sua pre-sa di posizione inequivoca, il suo impegno personale, occhinegli occhi di chi lo sta ascoltando in tutto il mondo. Charlotparla, Charlot muore, si disse. Ma le sue ultime parole, che so-no anche le prime, sono quelle di un genio “umano”.

    IRENE BIGNARDI

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    FRANCESCA ALLIATA BRONNER

    Sophia Lorenl’ ultima diva

    DOCUMENTI INEDITINelle immagini accantosi alternano foto del filmIl grande dittatoree i bozzettidi Russel Spencer(collezione David Robinson)I documenti in pagina sono:in alto, il depositodel contratto firmatoda Chaplin per Il grandedittatoree, in basso, duepagine della sceneggiaturaAi lati delle paginela copertina d’epocadi All Family News MagazineIn copertina una fotodi Charlie Chaplin del 1918

    Repubblica Nazionale

  • MOENA (Trento)

    Ha piovuto sette ore di filama tra gli strapiombi le ca-scate tacciono. Muto loScafòn dei Còi, muto il “rif”che scende dallo Spiz dal Muss, muti i ri-gagnoli sotto il Costòn de la Forca. Piovig-gina sotto nubi negre, in quota le pietraiesono striate di neve fresca, sotto i duemi-la metri il cielo ha scaricato secchiated’acqua, i canaloni dovrebbero grondare,diventare tuono selvaggio. Invece niente,silenzio ovunque. Tace lo Sbalz de la Ve-cia; la cascata sullo Sgraben mormora ap-pena; i torrenti dei Lastè de qua e dei Lastède là sono “uadi” pietrificati, fiumare, leb-bra maledetta che divora i prati alti, pa-scoli incantati da Mago Merlino. La pesti-lenza che uccide i torrenti ora ha fatto il ni-do anche qui, nelle Alpi più segrete; sopraMoena, nella cattedrale di dolomia cheinghiotte le voci e prende per questo il no-me di Valsorda.

    Giacomone De Francesco, boscaiolo disettantanove anni, è piccolo e stagno, hamani grandi e occhi azzurri. Sale sveltocome uno hobbit, ogni tanto si ferma,guarda, ascolta e scuote il capo. Batte lavalle dal 1938, quando i genitori lo spedi-rono da solo a guardar le capre sui Lastè,ma una cosa del genere non l’ha vista mai.Sa bene che non è in pianura, ma in mon-tagna che si misura la grande sete che ar-riva dal cielo. In posti così le tubazioni del-l’Enel non arrivano, e nemmeno le idro-vore della Padania ladrona. Qui l’uomoc’entra poco. Il cielo ha scaricato neve sul-le cime e acqua in fondovalle, ma il boscoha bevuto tutto, come una spugna, senzalasciar niente alla terra e alle falde. Ha be-vuto perché ha la febbre, non ha cono-sciuto inverno. Quello del 2007 non è maiarrivato. E i tordi, che dovevano migrare anovembre, non sono passati nemmeno.

    Per la gente di città la montagna è unacosa immobile. Per Giacomo no, è unabestia che si muove. Il boscaiolo sa chel’Alpe «prende forma»; che dietro ogniforma c’è un evento — grandi nevicate,frane, alluvioni, malattie del bosco, fred-di eccezionali — e che dietro ogni eventoc’è una data precisa. L’inverno del ‘17 ne-vicò novantun giorni su centoventi, gliraccontava suo padre. Il rogo della seghe-ria fu nella primavera del ‘43, colpa deglialpini un po’ ciocchi e della loro cucina dacampo. Il vecchio è all’erta, sente ogni mi-nimo segnale di collasso. «Quel masso l’ènovo, un mese fa no ghe era», avverte in-chiodandosi sul sentiero. E poi, traguar-

    dando la neve in quota: «Son trent’anniche non vedo valanghe». Trenta esatti,non ventinove. L’ultima fu nel 1977. È co-me viaggiare con un libro di storia.

    «A dieci anni, quando andavo su dallecapre, ero sempre di corsa e mi guardavosempre alle spalle per paura dell’orso.Avevo imparato a muovermi con la testagirata all’indietro… Non c’era anima vi-va, il brivido della solitudine mi faceva riz-zare i capelli in testa». È tutto cambiatonell’Alpe. La “brentana”, la slavina di pie-tre che allora assestava la montagna ognidieci-vent’anni, oggi si scatena annual-mente, con la forza di uno tsunami, per-ché il riscaldamento planetario fa collas-sare i ghiaioni che per millenni son rima-

    32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20MAGGIO 2007

    PAOLO RUMIZ

    il reportageAllarme siccità

    Il clima che cambia, la grande sete...Abbiamo fatto un test per capirese è vero: una giornata in Valsorda,sotto le crode dolomitiche del Latemar,alla ricerca delle antiche fonticon chi se le ricorda una per unaEd ecco la febbre della montagna

    rato per mezzo secolo e che le “magnifi-che comunità ladine”, farcite di pubblicodenaro, lasciano franare nell’indifferen-za. Ogni tanto raccoglie un sasso cadutonel canale, lo getta. Racconta: «Pensa unpo’, lo spazzavamo con la scopa». Giaco-mo De Francesco l’ha fatto per una vita eora non può farne a meno. Spiega che «seil sasso si incarna nel legno, in segheria lalama si spacca». Non fa niente se da anninessuno usa più l’autostrada dei tronchi:lui vuol dire solo che c’è un legame tra ilcollasso meteorologico globale e la man-cata manutenzione del bosco. Sa che c’èun segreto parallelismo tra la scomparsadei nomi e delle acque. Per questo nomi-na ogni anfratto. Piana da Casòn, Valòndai Còi, Schenòn, Posta dei Ponti Alti.

    Non è un elenco: è un atto battesimale.Il vecchio teme che, assieme a lui, spari-scano anche i toponimi e, con loro, l’ani-ma dei luoghi. Valfredda, Crepa Neigra,Cima di Malinvern. Li ripete per esorci-smo, per costruire un’ultima diga controlo sfascio, per passare ad altri la memoria,e magari seminare una briciola di sé. «Seavessero ascoltato quelli come lui — sus-surra con reverenza l’uomo della foresta-le — gli ingegneri non avrebbero mai co-struito la diga del Vajont. I vecchi avreb-bero avvertito che il monte sarebbe fra-nato». Anche lì, sopra Longarone, il nomeparlava da solo. “Toc” vuol dire “pezzo”,montagna in bilico, roba che vien giù. Edifatti il Toc venne giù. Divenne la piùgrande frana dell’era moderna.

    In basso, il torrentone di fondovalle,che corre parallelo alla Cava, è già in sof-ferenza. Smottamenti mai sgomberati,accumuli di rami e alberi sradicati chepresto faranno diga con la ghiaia, prepa-rando il detonatore delle “brentane”prossime venture. «Se desfa tutt — bron-tola De Francesco — l’è sempre peggiosta Valsorda». Ma il peggio è il silenzio.L’acqua dovrebbe scrosciare, tuonare trai massi, e invece niente. C’è solo un chiac-chiericcio argentino, di pianura. Fa trop-po caldo. Da dieci anni lo zero termiconon ha fatto che salire. Nel bosco l’afa ri-stagna, ma anche dopo la pioggia gli scar-poni restano asciutti. L’erba è alta, per as-senza di pascolo, e le fragole sono scom-parse. Gli abeti non gocciolano, sono giàsecchi. Molti hanno la “rogna”, un paras-sita che qui chiamano “Bècherle”, aliasYps Typògraphus. Epidemie fulminanti,che scorticano anche le piante forti, falci-diano in dieci giorni popolazioni di tre-quattrocento esemplari. Verso la Costa diViezze, sopra Cavalese, lato sudest dellavalle, è come se un lanciafiamme extra-terrestre avesse raschiato il bosco, apren-

    in quota. Qui, allora, era Austria-Unghe-ria e l’impianto lo fecero i russi catturatisul fronte polacco: un toboga dove i tron-chi scortecciati, smussati, pezzaturastandard di quattro metri e venti, filavanocome missili. Si lavorava ai primi freddi,quando il gelo copriva di cristallo la pietraviva e la Cava diventava una pista di bob.Ogni cinquecento metri c’era una piaz-zola di controllo, a portata di voce di quel-la successiva, e se c’era un intoppo si ur-lava «Abaaauuff», a squarciagola, per evi-tare ingorghi. Quando il treno deragliava,racconta, erano dolori.

    Il vecchio sale, cammina a piccoli pas-si regolari, accarezza lo straordinario mo-numento alla storia alpina che lui ha cu-

    sti gelati e compatti nel profondo. Giaco-mone sa anche che a Moena o Predazzola gente ha smesso di osservare queste co-se. Gli ambientalisti hanno vita dura inTrentino. La valle vuole funivie, strade,alberghi, tutto il resto è un intralcio. Perquesto il boscaiolo non molla. Appenapuò, sale a dare un’occhiata, anche se haquasi ottant’anni. Va a far da sentinella,come gli alpini della Grande guerra.

    Mattino, cielo incerto, umidità che ri-stagna. Partiamo a piedi dalla frazioneForno assieme a Luca Dellantonio, car-pentiere di Moena, e il forestale Luigi Ca-sanova di Cavalese. Risaliamo per la Ca-va, il canale di pietra costruito nel 1916per far defluire a valle gli alberi abbattuti

    IN PIENA. Una veduta del lago Latemar in un periodo di acqua abbondante IN SECCA. Lo stesso lago fotografato in tempi di siccità

    La valle delle sorgenti perdute

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    -28% la riduzione dei mm di pioggiain Italia dal 2000 al 2006619,6 i mm di pioggia caduti in Italianel 2003, l’anno più secco 620,8 i mm di pioggia cadutiin Italia nel 2006

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  • LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 20MAGGIO 2007

    Tagliamo sul lato sinistro della valle al-la ricerca di altre sorgenti. Il bosco è but-terato di escrementi di cervo, piccole pal-le da rugby color grigio-fucile. Giacomo-ne fa strada gagliardo, è felice che final-mente qualcuno ascolti le sue storie. Or-mai cerchiamo l’uscita della valle che in-ghiotte le voci. Dopo il pulpito del Fraton,segnato da due larici, nella scura Val daMaudie dovrebbero esserci sette fonti.Ne troviamo solo tre: il Toal de l’ega, la Valdai strenti e la sorgente dai Codèri: sonoquasi vuote, formano un rigagnolo chetaglia il sentiero. Ma già raggiungiamo unsecondo pulpito, un piccolo eden coper-to di muschio sotto una fascia di stra-piombi. Un fantastico balcone: la parete,ad altezza d’uomo, è coperta di piccolescritte rossastre graffiate con pietruzzedello stesso colore.

    Leggo: «Oggi una saetta ha ucciso settepecore». Un metro più in là: «La Madon-na mi ha aiutato nel temporale». Due se-coli di storia incisi dai pastori nei mo-menti di solitudine. Date: 1888, 1913,1968. Molte le sigle, «Dsv», «Sfffd», «Ad»; eun nome in perfetto stampatello: «Tere-sa Valdinon». Un altro canalone, poi il Colda le Melestre, cioè dei sorbi rossi. «Que-st’anno le bacche sono rimaste sugli al-beri tre mesi in più», osserva l’uomo del-la forestale. Fa un caldo innaturale, su tut-ti noi incombe la certezza di un evento bi-blico. Ma ormai il vecchio accelera, è vici-no a Medil, il suo paese natale, oggi so-prannominato «paradiso dellefemmine» perché di femmine ne sono ri-maste due soltanto. Non gli leggi l’età, alboscaiolo. Unico segno: le mani, grosse erugose come pale di caterpillar.

    Ora i prati scendono verso l’Avisio. «Lifacevo di corsa in salita — racconta Gia-comone — alla fine dell’orario scolastico,tanta era la fame che avevo tornando a ca-sa. Capivo cosa c’era in pignatta già infondovalle». Scendiamo sotto l’abitato,in cerca delle ultime sorgenti. Ce n’eranodue, si chiamavano da Vestil, dal nomefassano del bucato. Vuote, estinte ancheloro. Il prato ha tombato tutto, neancheun occhio allenato potrebbe trovarle.«Qui era pieno di ramarri stupendi, giallie verdi, una volta ne ho portato uno ascuola, aveva due code». Oggi sono finitianche i ramarri. L’erba ha altri inquilini,altre abitatrici. Le senti nel silenzio. Chia-mano furiose, come se fosse estate piena,come se le Alpi fossero Grecia e la Valsor-da un sobborgo di Istanbul. Cicale. Mi-gliaia di cicale, dal desertico richiamo, ca-paci di tutto, come le locuste degli ebreid’Egitto, anche di riportare l’eco nella val-le senza i rumori.

    chiaiare le pigne di abete. Ora tagliamo amezzacosta verso destra su un vecchiosentiero, il Troi del Marciò, e sbuchiamodavanti alla Baita delle Casere, grandemadre dei formaggi d’alpeggio. Lì tutto siapre, negli ultimi pascoli, con una gran vi-sta sulle muraglie che chiudono la valle aoccidente. Almeno qui, in questa straor-dinaria abside di roccia, tutte le acque delLatemar dovrebbero grondare a cascata,ingolfarsi, formare un’unica valangad’acqua tra i larici.

    Invece niente. Al posto dell’acqua, fiu-mi di pietra. Quattro letti deserti, quattroserpentoni di ghiaie lunari che scendonocon curve da autodromo giù dalla PalaScura, dalla Val de la Vecia, dai Lastè de

    qua e i Lastè de là, per confluire in un uni-co greto in mezzo agli ultimi pascoli. «LaPala Scura no l’è più scura — brontola ilboscaiolo — l’è una slavina de piera». Si-lenzio perfetto. Tutto tace, persino la gi-gantesca cascata sotto il Colinòn. Taccio-no i campanacci della vacche che nessu-no porta più in quota. Ha ripreso a pio-vigginare, ma l’assenza di rumore è cosìtotale che potresti sentire il richiamo delSalvanèl, il folletto burlone che batte lecreste e i canaloni. Solo dopo cinque mi-nuti arriva un rombo che cresce, ma nonè il tuono, è il Globale che ci sorvola. Unjet a quota diecimila che passa sopra lenubi. Ne passano a centinaia ogni giorno,sopra la sconosciuta Valsorda.

    do irregolari smagliature.In Valsorda il silenzio delle sorgenti co-

    mincia dopo due guadi, sui millecinque-cento metri. È come varcare una frontie-ra invisibile. Acqua benedetta è il nomedella prima fonte perduta. Un anno fa for-mava una pozza a lato del sentiero, per-fetta per rabboccare le borracce, e da lìpartiva un rio che poi confluiva nel tor-rentone sopra i Ponti dei Scùri. Oggi, nel-le ghiaie in pendenza, ai margini del bo-sco, c’è solo una traccia minima di umi-dità; neanche lo spazio per avvicinare labocca. Dio ha fatto diluviare per ore, mapersino l’acqua che celebra il suo nome èscomparsa. Intorno, una cornice florealestupenda e inutile. Un abete formatobonsai, ciuffi d’erica, lamponi selvatici,piante medicinali note ai boscaioli: l’erbafàrfara, «magico espettorante»; il ranun-colo giallo d’alta quota; la primula visto-sa, da cui si trarrebbero favolose tisanedissetanti.

    «Chissà se c’è acqua nella sorgente del-la Pala Scura», chiede a se stesso il vec-chio, inforcando il binocolo. La Pala Scu-ra, eccola lassù, in mezzo alle nubi, incas-sata sotto il Latemar, dove «un abitante deMedìl — racconta — el ga copà l’ultimoorso col s’ciop a l’avancarica». Storie dimetà Ottocento, narrategli dal nonno,ma che facevano ancora notizia tra le dueguerre mondiali. Il binocolo esplora an-cora più in alto, tra il Valòn dei Còi e il Co-linòn, sotto lo squarcio blu genziana ches’è appena aperto nelle nubi. Lassù, ride,c’è la conca dove il Felicetti Gioacchino silasciò scappare sette camosci in una vol-ta sola, battendo ogni record di scalognavenatoria. Passiamo la Baita Valsorda, lepraterie dei Tièser, imbocchiamo un ca-nalone, dritti su in linea di massima pen-denza, con Giacomone che morde il pen-dio senza fiatone, senza passi falsi, senzasmettere di raccontare. Diavolo d’un uo-mo, ha spostato migliaia di tonnellate ditronchi e non ha un briciolo di mal dischiena. Ride: «Se te me domandi comeche l’è fatt, no so miga».

    Sopra c’era la cascata dei Gradienti.«C’era», ripete il boscaiolo, perché stavol-ta c’è solo una ragnatela di bave di ragno.Al posto delle canne d’organo d’acquapiena, fili d’argento appesi a una gron-daia di balze rossastre, inghiottiti pocopiù sotto da un materasso di muschiosmeraldo. Accanto, nella foresta, mascel-le di cervo ripulite dalle intemperie, can-dide come ossi di seppia. «Un zoven», di-ce il vecchio guardando i denti: un giova-ne esemplare. E intanto fischia il frin-guello dal becco in croce, un attrezzosghembo che fa da cavatappi per scuc-

    IL PAESE DELL’ACQUAIl disegno della Valsordaè di Paolo Rumiz. Nelle fototonde (di Luca Dellantonio)sorgenti della Valsordain piena e in secca e cascatelleIn basso, una veduta di Moena

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    LA MAPPA

    LASTÈ DE LÀ

    LASTÈ DE QUÀ

    VAL DE LA VECIA

    VAL DE LA FRATTA MAGRA

    CASCATA DAI GRADIENTI

    FONTE BENEDETTA

    SORGENTE DAI CODERI

    SORGENTE VAL DAI STRENTI

    SORGENTE TOAL DE L’EGA

    PRIMA FONTANA DA VESTIL

    SECONDA FONTANA DA VESTIL

    Repubblica Nazionale

  • la memoriaGrandi imprese

    WASHINGTON

    Iduecentocavalli galoppavano ge-nerosamente per scollare le ruotedal fango e l’uomo che li guidavachiese a loro un altro sforzo, vita omorte. Go, Go, alé, forza, vai. Le ruote sistaccarono, ma dopo pochi metri ri-piombarono nell’erba fradicia.

    «Come on, come on, get up», dai, dai,su, su, li incitava sottovoce l’uomo alleredini e i cavalli risposero ancora, lepulsazioni dei loro cuori salirono a1.475 al minuto, il massimo di cui fosse-ro capaci in quell’aria grondante di ac-qua. Le ruote si alzarono una secondavolta, soltanto per sprofondare di nuo-vo nel fango. Cinquecento metri, quat-trocentocinquanta, quattrocento,mancavano al fossato dove lui e i suoicavalli si sarebbero disintegrati in unlampo, trecentocinquanta metri sol-tanto, quando davanti ai loro musi sistagliò una sagoma terrificante. Untrattore.

    Per l’ultima volta, l’uomo chiesepietà a quel cielo che aveva osato sfida-re, a quella terra che non lo voleva mol-lare, e con un urlo finale i cavalli schio-darono le ruote dal fango, il carretto ala-to si alzò nell’aria, sfiorando il trattoreper due metri. Erano le sette e cinquan-tadue del 20 maggio di ottant’anni orsono, il 1927, su un prato dell’isola diLong Island chiamato Roosevelt Field,dove oggi uno shopping center offre lesolite cianfrusaglie fabbricate in Cina ei bambini non alzano neppure più il na-so a guardare i jumbo partiti dal Ken-nedy verso quell’Europa che raggiun-geranno in sette ore e che l’uomo delcarretto alato avrebbe impiegato tren-tatré ore e mezza per toccare. Facendodi lui, di Charles Augustus Lindbergh, ilCristoforo Colombo alla rovescia, il na-vigatore che avrebbe aperto agli ameri-cani le rotte aeree dell’Europa, come ilgenovese aveva aperto le rotte navaliper l’America agli europei. Lindberghfu la risposta del Nuovo mondo al Vec-chio continente. Fu l’americano chescoprì l’Europa.

    Non che avesse cominciato benissi-mo la propria vita di pioniere, Lindy, co-me lo chiamavano in famiglia, o “l’A-quila solitaria” come i titolisti dei gior-nali l’avrebbero esaltato. La sua primaimpresa, nel 1918 ad appena sedici an-ni nel Minnesota, era stata un alleva-mento industriale di galline per sfama-re le città pronte alla crescita vertigino-sa di ogni dopoguerra, arrivando adaverne seimila in una enorme stia ri-scaldata da stufe a temperatura costan-

    te contro gli inverni di quelle regioni, lepiù fredde d’America. Un’avventurache finì quando un ritorno di fiammanelle stufe consumò in pochi minutil’intero impianto. La vita della futura“Aquila solitaria” era cominciata con ilpiù grande arrosto di polli nella storiaamericana. Uno superstizioso ci avreb-be letto un presagio infausto.

    E Lindbergh non era neppure il suovero nome. Il nonno paterno si chiama-va Mansson, Ola Mansson, quando erastato costretto a scappare nel 1859 dalvillaggio natale di Gardlosa, in Svezia,dove la sua carriera di deputato al par-lamento era crollata fra accuse di truffae appropriazioni indebite. Allo sbarcoin Québec e sulla via di quel Midwestamericano fra Illinois, Missouri e Min-nesota dove tanti emigrati dalla Scandi-navia si sarebbero finalmente sistema-ti si era autoribattezzato Charles Lind-bergh e si era adattato a una vita di com-merci, di fatica e di qualche scambio difucilate con le tribù locali, i Chippewa.Dunque nel breve spazio di una vita, insessant’anni, una famiglia di emigratisvedesi in fuga e con falsa identità, pas-sarono dalle guerre indiane alla primatrasvolata atlantica non-stop, una mi-sura temporale che dà il senso della ver-tiginosa accelerazione della storiaamericana.

    Ma non era l’accelerazione della sto-ria quella che preoccupava il nipote deldeputato truffatore quando il suo mo-noplano e monomotore, battezzato“Spirit of St. Louis” in onore del finan-ziatore che appunto a St. Louis gli avevaanticipato 10.500 dollari per costruirlo,raggiunse le coste del New England ecalò su di lui il primo sipario di quellache sarebbe stata per trentatré ore lasua nemica più insidiosa: la nebbia.Con 1.703 litri di benzina disseminatiovunque per coprire i 5.810 chilometrifra le coste di New York e l’aeroporto LeBourget di Parigi, il motore del suo ae-reo, un Wright di serie, e i suoi nove ci-lindri non potevano neppure sognaredi alzarsi sopra le nubi, le foschie, il cat-tivo tempo, il ghiaccio che gli aerei di li-nea oggi scavalcano senza fatica. Chiu-so nel pozzetto di ottanta centimetri didiametro per un metro e trenta di altez-za, che stringeva la sua figura allampa-nata nella atroce scomodità che poi mi-lioni di passeggeri paganti in classe eco-nomica avrebbero sperimentato lungola stessa rotta, “Lindy” non poteva al-lungare le gambe né guardare avanti, se

    non attraverso un piccolo periscopioretrattile che uno dei costruttori del-l’aereo con esperienza di sommergibi-lista gli aveva installato.

    Non che ci fosse nulla da vedere, lun-go quella costa nebbiosa del NordAtlantico e poi sul lastrone grigio dell’o-ceano, o che lui desiderasse vedere, sa-pendo bene che tra gli scogli del NewEngland, poi del Canada, della NovaScotia, l’ultima terra prima di virare aest e cominciare la traversata, c’eranosparpagliate le carcasse dei ventisetteaerei che prima di lui avevano tentatol’impresa. E che si erano puntualmenteschiantati, inseguendo il premio di ven-ticinquemila dollari — il costo di due otre buone abitazioni — messi in paliodall’albergatore di New York Orteig peril primo trasvolatore senza scalo. Dopoil naufragio più recente, quello di tre ar-gonauti su un trimotore, Lindbergh,che aveva conosciuto la sua razione didisastri come pilota di aerei postali,aveva preteso che il suo “Spirit of St.Louis” avesse un motore solo. «Ci sonosemplicemente meno coseche si possono guastare»,aveva spiegato al fabbrican-te, la Ryan Aviazione, e al pro-gettista. «I nove cilindri delmio motore Wright devonoprodurre 14 milioni e 500mi-la esplosioni interne per fun-zionare da New York a Parigi.Moltiplicate questo numeroper tre e capirete perché unmotore unico è più sicuro».

    La sua velocità di crociera,mentre virò verso un’albache era ancora lontana ventiore di solitudine e di gelo, eraquella di una buona automo-bile in un’autostrada senzaautovelox, 170 chilometri al-l’ora a 1.300 giri, guidato dal-la bussola e dalle stelle, quan-do riusciva a vederle dai fine-strini laterali. Non aveva ra-dio, che avrebbe appesantitoil trabiccolo di tubi di acciaioal molibdeno e di tela e non sarebbe ser-vita a nulla, neppure a comunicare conle navi, poche e troppo distanti. Nonaveva autopilota, né altri comandi chenon fossero la barra in mezzo alle gi-nocchia e la pedaliera, che doveva azio-nare costantemente per tenere in lineadi volo un aereo instabile e riottoso, co-sa che gli avrebbe salvato la vita, co-stringendolo a smanettare e a muovere

    i pedali e impedendogli di cedere al suosecondo, e altrettanto micidiale avver-sario, il sonno.

    Ma agli avversari, meccanici, atmo-sferici e soprattutto umani, il CristoforoColombo alla rovescia avrebbe fattopresto il callo e l’abitudine. La stessa in-tensità, ostinazione, concentrazioneche aveva dedicato al sogno della vita —quello di volare, concepito quando un«pazzo su una macchina volante» avevasfiorato il tetto della sua fattoria di fa-miglia nel 1915 — avrebbe poi dimo-strato nella capacità di rendersi indige-sto e di antagonizzare quella stessa opi-nione pubblica che lo aveva beatificatodopo il volo e poi abbracciato durante latragedia della sua vita, il rapimento el’assassinio del suo angelico bambinodi un anno e otto mesi. Come l’aeropla-nino, oggi sospeso a stagionare comeun prosciutto sotto le volte del Museodell’aviazione di Washington, anche ilsuo pilota era un solitario, uno scontro-so, un riottoso. Le folle accorse a LeBourget per accoglierlo, decretandogliun trionfo che soltanto la Francia deiBlériot, dei Saint-Exupéry, fresca deiduelli aerei sui cieli della Marna, potevaregalargli, lo spaventavano. Ogni cittàamericana gli dedicò le parate di co-riandoli gettati dalle finestre, ma luiaveva sempre il broncio. Ogni visiona-rio e investitore lo rincorreva per asso-ciare il suo nome a un nuovo aereo, auna nuova compagnia, come fece ilcreatore della Pan Am, Tripp. E non ci fuun occhio asciutto, nell’America del1932, quando Betty, la governante deiLindbergh, andò nella stanza di CharlesAugustus junior per accendergli la stu-fetta elettrica nella notte fredda del NewJersey e scoprì che la finestra era aperta.E il lettino dove avrebbe dovuto dormi-re il bambino era vuoto.

    Mai prima, e mai dopo, tanta com-mozione e tanta rabbia avrebbero ac-

    Lindbergh, l’americanoche scoprì l’Europa

    VITTORIO ZUCCONI

    Ottant’anni fa, il 20 maggio 1927, “l’Aquila solitaria”decollava da Long Island su un monomotore di tubi d’acciaioe tela per raggiungere dopo trentatré ore l’aeroporto pariginodi Le Bourget. Un’avventura straordinaria che brillanella vita sfortunata di questo controverso, amato e odiato“eroe dei tempi moderni”

    34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20MAGGIO 2007

    Non poteva guardareavanti,se nonattraverso un piccoloperiscopio retrattile

    SPIRIT OF ST. LOUISIn alto, lo “Spiritof St. Louis”nel maggiodel 1927 con a bordoCharles Lindberghdurante una provadi volo su San Diego;in basso, Lindbergh

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  • compagnato un caso di cronaca nera, laricerca dell’“Aquilotto”, come fu subitochiamato il bambino. Una nazione im-pazzita, fulminata, in animazione so-spesa fino al ritrovamento del corpo na-scosto sotto il terriccio e le foglie di unbosco a pochi metri dalla casa e fino alprocesso contro l’“immigrato illegale”che fu arrestato e condannato per il de-litto, il falegname tedesco BrunoHauptmann, che andò alla sedia elettri-ca protestando la sua innocenza e rifiu-tando addirittura l’offerta formale dicommutazione della pena in ergastolose avesse confessato. Ep-pure fu proprio nel mo-mento di convergenza fral’ammirazione e la com-mozione, fra il trionfo del-l’esploratore e la dispera-zione dell’uomo, chequalcosa si spezzò persempre, in lui e nella na-zione che lo aveva santi-ficato.

    Se ne andò a vivere inInghilterra, con la mo-glie Anne già in attesa diun altro figlio ma che iLindbergh non vollerofar nascere in America.E anche la moglie, co-me avrebbe scopertoper caso la figlia rovi-stando tra vecchiecarte della madre, loavrebbe tradito conun amante segreto,come lui avrebbevoluto tradire l’A-merica. In quell’Eu-ropa che lo avevaosannato all’atter-raggio, fu sedotto daimiraggi di ordine, diautorità, di efficienza, di pro-gresso che i nazisti proiettavano. Visita-va ammirato e ossequiato gli stabili-menti degli Heinkel e dei Messersch-mitt, i laboratori della Luftwaffe, le reg-ge di Goering, aviatore come lui e assodella Grande guerra. Tentò invano diincontrare Mussolini, visitando la Ro-ma Imperiale. E si scagliò contro Roo-sevelt quando capì che il presidente sta-va spingendo verso l’entrata in guerra,mentre giurava di volerne restar fuori.Con la maschera dell’isolazionismo,della dottrina dell’“America First”, l’A-

    LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 20MAGGIO 2007

    merica prima di ogni altro interesse, di-venne un apologeta del nazismo. Equando, dopo Pearl Harbor, si scossedal suo incantesimo, Roosevelt glielafece pagare negando a lui, al primo, almassimo aviatore della storia america-na, l’arruolamento in aviazione e il suovecchio grado onorario di colonnello.Dovette accontentarsi di nascondersisul fronte del Pacifico, dove addestrava

    UOMO DELL’ANNODa sinistra in basso,

    il giornale di bordodi Lindbergh;

    lo “Spirit of St. Louis”che vola sopra

    la Tour Eiffel; la primapagina del New YorkTimes del 22 maggio

    1927 che dà notiziadel successodell’impresa;

    la copertina di Timedel gennaio del 1928

    che incorona Lindberghuomo dell’anno

    giovani piloti di leva sbalorditi dal tro-varsi di fronte all’“Aquila” in persona. Edi compere diecine di missioni di guer-ra in solitudine, senza l’autorizzazioneufficiale dei comandi. Navigando ecombattendo a vista.

    A vista, proprio come era arrivato nel-le acque dell’Irlanda nel pomeriggio delgiorno dopo il miracoloso distacco dalfango di Long Island. Gridando in silen-zio anche lui «terra, terra», di fronte aipescherecci che gli indicavano la vici-nanza del continente, in un momentoche celebrò contorcendo il suo metro enovanta per raggiungere una delle dueborracce d’acqua sotto il sedile. Unistante di gioia che il motore spezzò,mettendosi a tossire e sputare fumo,dopo ventiquattro ore di perfetto fun-zionamento. «Ecco, è finita — si disse —sono stato troppo presuntuoso, troppoarrogante, troppo sicuro di me stesso».E mentre dal finestrino laterale aperto,ormai a pochi metri dall’acqua, gridavaa uno sbigottito pescatore che non po-teva sentirlo «vado bene per l’Irlanda?In che direzione è l’Irlanda», i duecentocavalli che lo avevano strappato alloschianto contro un trattore, ripreserofiato e il loro cuore ricominciò a battere.

    Riprese quota. Sorvolò emozionatoPlymouth, il porto del Devonshire dalquale la storia dell’America bianca e an-

    glo era cominciata quattro secoli pri-ma, con la partenza dei pellegrini a bor-do del Mayflower nel 1620, attraversò laManica, puntò su Cherbourg, la boccadella Senna, poi via verso Parigi, le lucidella sera, la folla che nel buio riusciva aintravedere attorno al prato del Bourgete che lo avrebbe inghiottito alle venti-due e ventiquattro, appunto trentatréore e mezza dal decollo. Leggenda vuo-le che, dal finestrino, avesse detto: «So-no Charles Lindbergh, ce l’ho fatta», mala frase dovette sembrargli troppo reto-rica e fino alla morte, nel 1971, avrebbenegato di averla mai detta. Sostenne diavere chiesto soltanto: «C’è un mecca-nico, qui?», e di essersi subito preoccu-pato di mettere al sicuro il proprio aereodi tela dalle grinfie dei cacciatori di sou-venir pronti a sbranarlo. La sua ultimafoto poco prima della morte, insoppor-tabilmente posata e insieme perfetta-mente naturale, ci mostra un vecchiosettantenne ancora eretto e in giacca,magrissimo e in piedi su una scoglieradel Nord Atlantico. Volta le spalle all’o-biettivo e guarda l’oceano verso il qua-le si lanciò quando aveva appena venti-cinque anni e dal quale, viene il sospet-to, forse non tornò più.

    Sorvolava le carcassedei ventisette aereiche ci avevanoprovato prima di lui

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  • Se daia un soldato, anche il migliore che hai sottomano, il più disciplinato, il più leale, la missione di reprime-re un’insurrezione armata, una guerriglia, con profonde radici nella popolazione, rischi di farne un sevizia-tore. Puoi giurarci. Se poi lo impegni in un’area urbana, il rischio aumenta. È un vecchio discorso, al quale hoimparato a credere. L’ho ascoltato, con qualche variante, in Vietnam, quando si chiamava Indocina, in Al-geria, ancora in Vietnam, e naturalmente in Iraq. E non enumero le altre situazioni, createsi in diversi conti-nenti, in cui i militari cercavano (e cercano) di spiegare, giustificare quella sporca missione affidata loro spes-

    so da governi democratici. «I politici non affondano le mani nella merda», dicevano con rabbia gli ufficiali a Saigon e aAlgeri, e dicono adesso a Bagdad.

    Quando, alcuni mesi dopo l’invasione dell’Iraq, il maggiore Gregory Peterson studiò alla School of Advanced MilitaryStudies di Fort Lavenworth i problemi tattici che l’esercito americano doveva affrontare, si ac-corse che quei problemi erano gli stessi dell’esercito francese d’Algeria negli anni Cinquanta.Non a caso il film di Gillo Pontecorvo e Franco Solinas, La battaglia d’Algeri, è stato studiato nel-le scuole militari di mezzo mondo, da quelle degli Stati Uniti a quelle latino-americane (dalle qua-li uscirono in particolare i seviziatori argentini). In quel film si racconta come gli ufficiali dei pa-ras, alcuni dei quali ex uomini del Maquis (la Resistenza agli occupanti nazisti in Francia), af-frontarono la guerriglia urbana, applicando anche la tortura. Essi riportarono l’ordine ad Alge-ri, ma qualche anno dopo se ne dovettero andare, sconfitti, dall’Algeria diventata indipendente.

    Nonostante il deludente finale, gli ufficiali francesi d’Algeria sono stati, per alcuni anni, i gran-di esperti della controinsurrezione. Il colonnello Roger Trinquier fu uno di questi. I suoi scritticircolano ancora nelle biblioteche militari. E in essi, accanto a saggi, rispettabili consigli, si leg-

    gono le misure politico-militari da prendere nei riguardi dellapopolazione. Misure che includono l’accettazione della tortu-ra negli interrogatori e l’uso di metodi terroristici per combat-tere il terrorismo. Prima dell’insurrezione in Algeria, il colon-nello Trinquier aveva conosciuto quella indocinese (conclu-sasi nel 1954 con la sconfitta francese di Dien Bien Phu) ed è daquella esperienza che aveva tratto le sue teorie sul come con-durre una controinsurrezione.

    All’inizio prevalgono sempre i buoni propositi. In Iraq le co-se sembravano semplici. L’esercito americano e il loro alleatiinglesi liberavano il Paese dalla feroce dittatura di SaddamHussein. Gli iracheni, si pensava a Washington, avrebbero ac-colto con favore i liberatori e quindi facilitato la transizionedalla dittatura a un nuovo ordine stabile. Ma, in un batter d’oc-chio, i liberatori sono diventati occupanti. Ho visto entrare iprimi marines a Bagdad, nell’aprile 2003. Erano reparti com-battenti non preparati e poco inclini ad assumersi il compitodi mantenere l’ordine nella capitale in preda ai saccheggi del-la popolazione arrivata dai sobborghi (in particolare da quel-la che oggi è Sadr City, abitata da un vasto proletariato sciita).

    Il non avere programmato la fase successiva alla presa di Bagdad fu il primo grande errore.Altrettanto grave si rivelò la decisione di dissolvere l’esercito, controllato dai sunniti, che inrealtà si era già in larga parte liquefatto. Ufficiali e soldati si erano dispersi, erano ritornati a ca-sa o si erano dati alla macchia, portando con sé le armi in dotazione. Armi poi servite quandol’insurrezione dei sunniti, privati di un potere quasi secolare, ha preso corpo, con il contribu-to dei terroristi arabi, modello Al Qaeda, affluiti in Iraq. Altra imprevista situazione fu quellacreata dalla maggioranza sciita, infine liberata dal dominio sunnita, e quindi legittimamentearrivata al potere a Bagdad con regolari elezioni,ma rivelatasi anche alleata dell’Iran sciita, os-sia del Paese mediorientale più ostile agli americani. Quest’ultimi, con grande sorpresa, han-no scoperto che quelli che dovevano essere i loro amici in Iraq erano in larga parte sotto l’in-fluenza dell’Iran teocratico. Al quale George W. Bush aveva offerto, con la sua guerra, quel forte ancoraggio nel mondoarabo che gli sciiti di Teheran e di Qom sognavano da secoli.

    Questa rapida sintesi spiega perché non si è mai visto in quattro anni un soldato americano bere in pubblico una co-ca cola con una ragazza irachena. Né più semplicemente si è visto un soldato americano disarmato camminare su unmarciapiede di Bagdad. Da tempo non si vede neppure un occidentale, quale che sia la sua nazionalità. In Fiasco (pub-blicato in Italia da Longanesi) Thomas E. Ricks, corrispondente del Washington Postal Pentagono, cita il proverbio conil quale gli iracheni annunciavano che la situazione stava peggiorando, vale a dire che l’insurrezione armata stava co-

    36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20MAGGIO 2007

    l’immagineFotografie dall’inferno

    BERNARDO VALLI

    LA MADRE. Maggio 2003, una donna cerca i resti del figlio vittima di Saddam

    LA FOLLA. Aprile 2003, manifestazione spontanea a Bagdad

    GLI SCOMPARSI. Una donna tocca le foto degli scomparsi nelle carceri di Saddam

    LA BOMBADonna ferita da una bomba,

    Suleymania, Kurdistaniracheno, giugno 1997

    Quando arrivòl’ordine di non

    trattare i detenuticon i guanti

    un maggiore disse:“Ricordiamoci

    chi siamo”

    LA TEMPESTA DI SABBIAIraq, aprile 2003

    I CAPANNONI Verso Al Mahawil, 2003

    Torturare in nome

    IL SACCHEGGIO. Marine tra i resti di un magazzino saccheggiato a Bagdad nel 2003

    Repubblica Nazionale

  • minciando. Dicevano: «Il fango sta diventando più umido». Era pochi mesi dopo la liberazione diventata subito occupazione. Si era appena nell’agosto 2003. E gli americani, seb-

    bene ancora ignari della trappola in cui erano inciampati nella valle del Tigri e dell’Eufrate, sentirono che il fango ira-cheno si inumidiva e si affrettarono a rimettere in servizio il carcere di Abu Ghraib, a ovest di Bagdad, dove Saddam Hus-sein custodiva i suoi veri o presunti avversari. L’inaugurazione avvenne il 4 agosto e già il 14 dello stesso mese il capita-no William Ponce, un ufficiale della Human Intelligence Effects Coordination Cell presso il quartier generale del gene-rale Ricardo Sanchez, comandante del Quinto Corpo, mandava un promemoria ai suoi subalterni. «Smettiamola di trat-tare questi detenuti con i guanti», diceva il messaggio. Il colonnello Steve Boltz, superiore di Ponce nell’intelligence mi-litare in Iraq, aveva dato in precedenza un consiglio diventato una parola d’ordine: «Bisogna spezzare quegli individui».E quegli individui erano gli iracheni arrestati e suscettibili di dare informazioni utili alla protezione dei soldati america-ni bersagli di attentati terroristici sempre più frequenti, e non ancora troppo micidiali.

    Le reazioni all’invito del capitano Ponce furono entusiaste. Sempre Thomas E. Ricks ricor-da quella di un soldato del Terzo reggimento corazzato di cavalleria operante nell’Iraq occi-dentale. Basandosi sulla sua esperienza in Afghanistan, dove aveva interrogato i taliban e gliuomini di Al Qaeda, quel soldato suggeriva con meticolosa precisione di amministrare ai de-tenuti «schiaffi sulla faccia a mano aperta da una distanza non superiore a mezzo metro e col-pi al centro del viso col dorso della mano a una distanza di circa quarantacinque centimetri».Aggiungeva che «la paura di cani e serpenti di solito dà buoni risultati». L’intelligence dellaQuarta divisione di fanteria suggerì che i prigionieri venissero colpiti con i pugni chiusi e fos-sero sottoposti a «elettroshock a basso voltaggio».

    Non tutti reagirono allo stesso modo. Un maggiore del 501° battaglione di intelligence mi-litare consigliò: «Facciamo un respiro profondo e ricordiamoci chi siamo». Alcuni evocaronoGeorge Washington che, durante laGuerra di indipendenza, ordinava dirispettare i prigionieri inglesi anche segli inglesi maltrattavano i prigionieriamericani. Ma era soltanto l’inizio. Co-se ben peggiori avvennero poi nel car-cere di Abu Ghraib, come si è a lungoraccontato e come tante fotografie te-stimoniano.

    Nell’autunno del 2003 arrivò in Iraqun esperto della repressione: il colonnel-lo a riposo Stuart Herrington, veteranodel Vietnam. Herrington si era distintodurante quella guerra nel Phoenix Pro-gram. Il nome dell’operazione, il cuiobiettivo era di eliminare i capi vietcongnelle aree rurali, era un compromessotra la parola inglese e quella vietnamita,Phung Hoang, che designa un mitico uc-cello non capace di risorgere dalle cene-ri ma in grado di volare ovunque. Neil Sheehan nel suo libro, per me il migliore, sul conflitto viet-namita (A bright shining lie), ricorda che il Phoenix Program fu attuato dalle squadre omicidedella Cia. Le Counter Terror Teams di un tempo diventarono, proprio per assolvere il compito,le Provincial Reconnaissance Units. Quest’ultime, secondo William Colby supervisore del Phoe-nix Program, uccisero sessantamila vietcong reali o sospettati di esserlo.

    Herrington era stato uno dei protagonisti di quell’operazione e poi aveva raccontato in un li-bro quell’esperienza (Silence was a Weapon: The Viet Nam War in the Villages). Herrington eraconsiderato un esperto negli interrogatori, un’attività di solito riservata ai sergenti e ai capora-li. Lui era dunque uno specialista di rango, visto l’alto grado. Per questo fu richiesta la sua con-sulenza in Iraq. Appena arrivato a Abu Ghraib non nascose la sua disapprovazione. Le torture

    subite erano evidenti sui corpo dei detenuti. E gli uomini della Task Force 121, che li avevano catturati, si guardavano be-ne dal contestare i reperti medici. Forte della sua esperienza vietnamita, sapendo che gli arresti in massa non spengonoun’insurrezione, e che i maltrattamenti dei prigionieri non favoriscono la collaborazione della gente, Herrington espres-se giudizi molto severi. Si stupì che alcune unità scaricassero davanti al carcere di Abu Ghraib, come se fosse immondi-zia, donne e uomini arrestati in massa durante i rastrellamenti. Spesso donne e uomini nudi. Ma ci volle del tempo pri-ma che si venisse a sapere quel che accadeva realmente nel carcere a ovest di Bagdad. E le rivelazioni sulle torture in Iraqsono continuate. E continueranno fino a che i soldati, come dicono loro stessi, dovranno affondare le mani…

    LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 20MAGGIO 2007

    della democrazia

    LE FOSSE COMUNI. Maggio 2003, si aprono le fosse comuni dei tempi di Saddam

    Amnesty International presenta il rapportoannuale sulle violazioni dei diritti umaniFrancesco Zizola ha prestato il suo occhioper documentare le violenze in IraqDove, come accade in ogni guerra, i soldatisi trasformano, loro malgrado, in seviziatori

    IL LIBRO, LA MOSTRAMercoledì prossimo Amnesty Internationalpresenta il suo Rapporto annualesulle violazioni dei diritti umani nel mondo.Nella stessa occasione verrà presentatoil libro fotografico Iraq di Francesco Zizola(prefazione di Pietro Veronese, edizioniEGA, 96 pagine, 26 euro), dal quale sonotratte le immagini di queste pagine. Le foto

    del libro (il cui ricavato contribuirà a sostenerele campagne di Amnesty) verranno anche espostedal 13 settembre al 14 ottobre prossimi, in un nuovospazio che si aprirà in una fabbrica dismessa nel cuoredi Roma. Si tratta di Arsenale23, officina multimediale,in via Francesco Caracciolo 23

    LA RELIGIONE. Aprile 2003, manifestazione di sciiti a Kerbala

    LA STATUA. Aprile 2003, si abbatte la statua del fondatore del partito Baath

    LA MOSCHEA. Aprile 2003, alla moschea di Kerbala prima manifestazione libera

    Repubblica Nazionale

  • Quando negli anni Ottanta, ancor primadel crollo del Muro, tornò a campeggia-re sull’Unter den Linden la statua eque-stre di Federico il Grande — sì quella chenel piedistallo ha la testa di Kant, il filo-sofo che aveva definito l’illuminismo

    come «il secolo di Federico», perennemente espo-sta all’ingiuria dell’evacuazione dello sterco, giustosotto la coda del cavallo — qualcuno l’aveva im-brattata con la scritta: «Prussia di merda». L’oltrag-gio vandalico fu subito cancellato. Ma l’episodioriassume l’ambivalenza della Germania sull’ante-nato prussiano. Trasversale, anche in famiglia, traparenti: Thomas Mann era affascinato dalla figuradi Federico, scrisse in piena Prima guerra mondialeun saggio su Federico e la grande coalizione, soste-nendo che non c’era contraddizione tra grande cul-tura tedesca e pugno di ferro. Suo fratello Heinrich,l’aveva contraddetto, con un libro intitolato: La tri-ste storia di Federico Secondo.

    Il filo di ambivalenza, verrebbe quasi da dire schi-zofrenia, riguardo la Prussia percorre in qualchemodo tutto il labirinto della storia tedesca ed euro-pea. Voltaire era infatuato di Federico «pacificatoredella Germania e dell’Europa», lo considerava la mi-gliore speranza per la diffusione dei “lumi”, al pun-to da trascorrere tre anni alla sua corte. Ma poi ne fudeluso e ci litigò di brutto. «Sarebbe stato cento vol-te meglio restasse il protettore dei filosofi, piuttostoche trasformarsi nel perturbatore dell’Europa», ilmodo in cui ne scrisse al suo amico D’Alambert.Kleist, attratto e al tempo stesso inorridito dallaPrussia (pensate al suo Principe di Homburg), finìsuicida. Anche in Karl Marx, che in Prussia aveva la-sciato un cognato capo della polizia, e nel suo ami-co Engels, accanto alla repulsione per lo stato di po-lizia al cui confronto l’Inghilterra esce vincente, af-fiora a tratti nostalgia, se non ammirazione per la di-sciplina, come dire, la serietà della loro terra d’origi-ne (anche se prussiani erano diventati solo dopol’annessione della Renania, che fu anche la ragioneper cui il padre ebreo di Marx dovette farsi prote-stante).

    Non erano stati la sinistra, i sindacati, e nemme-no il capitalismo illuminato, ma fu un uomo di de-stra, il prussiano Bismarck, ad inventare stato so-ciale, assistenza sanitaria e pensioni, nonché il mo-do far quadrare i conti per continuare a pagarle. Ilcolmo di dichiarazione d’amore, come dire, “socia-lista”, per la Prussia la raggiunge Oswald Spenglernel suo Preussentum und Sozialismus, il libro che èin pratica la continuazione del suo Declino dell’Oc-cidente. Vi denuncia il marxismo, i sindacati, la con-trattazione e la concertazione operaie come cedi-mento al capitalismo britannico, per contrapporvila virile “via prussiana”. Peccato che poi quel tipo di“socialismo” sarebbe sfociato nel “nazional-socia-lismo”.

    Ma anche in Hitler, che non è prussiano di Berli-no ma austriaco di Vienna, c’è una sorta di duplicità,schizofrenia riguardo la Prussia. Teneva il ritratto diFederico Secondo dipinto da Graff appeso dietro lasua scrivania. Se l’era portato persino nel bunkerdella fine. Era nella chiesa di Federico a Potsdam cheaveva proclamato il Terzo Reich. La propaganda na-zista era incentrata sulla “prussianità”, Hitler cerca-va costantemente l’identificazione con Federicocapo militare. Nei momenti di solitudine e sconfit-ta rispuntava costantemente l’ossessione del “mi-racolo” che avrebbe dovuto salvarlo quando tuttosembrava perduto sui campi di battaglia, come suc-cesse a Federico di Prussia nel momento per lui piùbuio della Guerra dei sette anni. Ma poi è contro latradizione prussiana che si dirige la sua colleraquando è proprio un gruppo di generali, quasi tuttiprussiani, eredi dichiarati delle tradizioni militari diFederico il Grande, a tentare di farlo fuori nel luglio1944.

    Quando gli alleati, verso la fine della Secondaguerra mondiale, cominciarono a discutere sul chefare di una Germania che aveva combinato tantisconquassi, Henry Morgenthau, segretario al Teso-ro e intimo di Roosevelt, aveva proposto un piano ditotale deindustrializzazione, niente fabbriche, solocampi. Sembrò troppo severo, o si capì che era ir-realizzabile (l’industrializzazione non si improvvi-sa, e nemmeno si cancella). Ed erano comunque so-praggiunte altre priorità, serviva una Germania chefacesse da baluardo alla Russia di Stalin. Per cui sipassò al piano B, anziché il bucolico piano Mor-genthau, venne adottato il piano Marshall. Anzichéabolire la Germania, se ne fecero due. Il 25 febbraiodel 1947, il decreto numero 47 emesso congiunta-mente delle autorità di occupazione americana,britannica, francese e russa abolì invece la Prussia,«da sempre culla del militarismo e della reazione».

    Era prevalsa l’identificazione Prussia = militari-

    Sessant’anni fa le forze alleate cancellarono dalle cartegeografiche il Paese divenuto simbolo del militarismo che aveva portatola catastrofe in Europa

    Eppure ai tempi di Federico e anche dopo l’avvento di Hitlernell’odierno Brandeburgo si respirava aria di tolleranza e democraziaTanto che oggi qualcuno rimpiange la patria di Bismarck e di Kant

    38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 20MAGGIO 2007

    SIEGMUND GINZBERG

    PrussiaMaldi

    Il fascino inconfessabile

    del grande stato-caserma

    Anche Marx e Spengler ammiraronola disciplina junker primache si reincarnasse nella furia nazista

    FEDERICO IL GRANDE(1712-1786)

    Voltaire ammirò le sue ideeilluminate prima che salisse al trono

    1843Elmo da ufficiale corazziere

    1809Raro elmo da corazziere

    1857Elmo di cuoio per fanteria

    1896Elmo per graduato di fanteria

    1897Elmo da ufficiale della riserva

    IMMANUEL KANT(1724-1804)

    La sua Critica della ragion puracambiò per sempre la filosofia

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