omenica LEONARDO COEN ePAOLO GARIMBERTI DOMENICA...

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DOMENICA 7 SETTEMBRE 2008 D omenica La di Repubblica U na pagina quasi interamente bianca, con un allegro logo colorato in alto, una finestrella con la barretta intermittente che invita alla scrittura, e solo due pul- santi sotto: «Google search» e «I’m Feeling Lucky». «Mi sento fortunato»: ma che cos’era? I primi utenti di Google mostravano con orgoglio la loro ultima scoperta su Internet. A fare impressione era soprattutto la pulizia della presentazione e la rapidità del servizio. Era allora difficile so- spettare tutto quello che sarebbe venuto dopo: mappe, foto satelli- tari, servizi per le lingue, e-mail, fino al recentissimo browser Chro- me, il traboccante bouquet delle offerte che oggi occupano una por- zione maggiore, ma non di troppo, del bianco originario della scher- mata. All’epoca i motori di ricerca stavano già transitando dalla identità primigenia di indici di enciclopedia e alberi di Porfirio a vetrine commerciali: pagine piene di paragrafi e titoli, che rimandavano ad altre pagine piene di paragrafi e titoli — occorreva districare l’infor- mazione cercata come si trovano le more in mezzo ai rovi. (segue nelle pagine successive) spettacoli Sem Benelli, la vita delle beffe NELLO AJELLO e MASSIMO NOVELLI l’attualità Zenit, un calcio alla Russia perdente LEONARDO COEN e PAOLO GARIMBERTI i sapori L’arte del risotto, vera prova del cuoco LICIA GRANELLO e GUALTIERO MARCHESI le storie Mafia, guida alle parole d’onore ATTILIO BOLZONI STEFANO BARTEZZAGHI MOUNTAIN VIEW (California) D al mappamondo sullo schermo tridimensionale partono fasci di raggi-laser sottilissimi che si proiet- tano verso lo spazio. Ogni raggio è una miriade di puntini luminosi, acceso da milioni di “ricerche” in corso in questo istante. Spuntano da tutti i centri abitati del piane- ta, s’illuminano con colori diversi a seconda delle lingue. Minuto per minuto lo schermo riproduce l’attività di centinaia di milioni di utenti Internet che nel mondo intero stanno cliccando su Google le loro richieste: cercano nomi, località, prodotti, notizie, libri, imma- gini, video. C’è chi sta facendo la propria tesi di laurea e chi prepara un rapporto di lavoro, chi cerca un film e chi organizza una vacan- za, chi divora gossip sulle pop-star e chi indaga sulla solidità finan- ziaria dell’azienda che sta per assumerlo. Quei fasci di raggi-laser rappresentano i pensieri che agitano la popolazione mondiale; e le risposte che sta trovando su Internet. Il vero Grande Fratello abita qui, è questa la banca-dati mondiale delle nostre intenzioni. (segue nelle pagine successive) FEDERICO RAMPINI cultura Albert Kahn, il foto-archivio del pianeta MICHELE SMARGIASSI FOTO AFP Rivoluzione Esattamente dieci anni fa nasceva un’azienda che ha cambiato il presente e cambierà il futuro Siamo andati a vedere come Repubblica Nazionale

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DOMENICA 7 SETTEMBRE 2008

DomenicaLa

di Repubblica

Una pagina quasi interamente bianca, con un allegrologo colorato in alto, una finestrella con la barrettaintermittente che invita alla scrittura, e solo due pul-santi sotto: «Google search» e «I’m Feeling Lucky».«Mi sento fortunato»: ma che cos’era? I primi utentidi Google mostravano con orgoglio la loro ultima

scoperta su Internet. A fare impressione era soprattutto la puliziadella presentazione e la rapidità del servizio. Era allora difficile so-spettare tutto quello che sarebbe venuto dopo: mappe, foto satelli-tari, servizi per le lingue, e-mail, fino al recentissimo browser Chro-me, il traboccante bouquet delle offerte che oggi occupano una por-zione maggiore, ma non di troppo, del bianco originario della scher-mata.

All’epoca i motori di ricerca stavano già transitando dalla identitàprimigenia di indici di enciclopedia e alberi di Porfirio a vetrinecommerciali: pagine piene di paragrafi e titoli, che rimandavano adaltre pagine piene di paragrafi e titoli — occorreva districare l’infor-mazione cercata come si trovano le more in mezzo ai rovi.

(segue nelle pagine successive)

spettacoli

Sem Benelli, la vita delle beffeNELLO AJELLO e MASSIMO NOVELLI

l’attualità

Zenit, un calcio alla Russia perdenteLEONARDO COEN e PAOLO GARIMBERTI

i sapori

L’arte del risotto, vera prova del cuocoLICIA GRANELLO e GUALTIERO MARCHESI

le storie

Mafia, guida alle parole d’onoreATTILIO BOLZONI

STEFANO BARTEZZAGHI

MOUNTAIN VIEW (California)

Dal mappamondo sullo schermo tridimensionalepartono fasci di raggi-laser sottilissimi che si proiet-tano verso lo spazio. Ogni raggio è una miriade dipuntini luminosi, acceso da milioni di “ricerche” in

corso in questo istante. Spuntano da tutti i centri abitati del piane-ta, s’illuminano con colori diversi a seconda delle lingue. Minutoper minuto lo schermo riproduce l’attività di centinaia di milioni diutenti Internet che nel mondo intero stanno cliccando su Google leloro richieste: cercano nomi, località, prodotti, notizie, libri, imma-gini, video. C’è chi sta facendo la propria tesi di laurea e chi preparaun rapporto di lavoro, chi cerca un film e chi organizza una vacan-za, chi divora gossip sulle pop-star e chi indaga sulla solidità finan-ziaria dell’azienda che sta per assumerlo. Quei fasci di raggi-laserrappresentano i pensieri che agitano la popolazione mondiale; e lerisposte che sta trovando su Internet. Il vero Grande Fratello abitaqui, è questa la banca-dati mondiale delle nostre intenzioni.

(segue nelle pagine successive)

FEDERICO RAMPINI cultura

Albert Kahn, il foto-archivio del pianetaMICHELE SMARGIASSI

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Rivoluzione

Esattamente dieci anni fanasceva un’aziendache ha cambiato il presentee cambierà il futuroSiamo andati a vedere come

Repubblica Nazionale

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La sfidadi Google“Il futuroabita qui”FEDERICO RAMPINI

la copertinaRivoluzioni

Dieci anni fa in un garage della Silicon Valley due studentiventenni davano il via all’avventura di un motore di ricercache, bruciando le tappe, ha cambiato il mondo della comunicazione,ha trionfato in Borsa e adesso, nella straordinaria azienda-campusdi Googleplex, sta disegnando l’avvenire nostro e dei nostri figli

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tazione su Yahoo ha più peso in termini di popolarità visto il numero di utenti; un collega-mento al sito di Harvard è più autorevole che su un sito sconosciuto. Questi criteri logici e qua-litativi vengono codificati in complessi algoritmi matematici, i veri segreti industriali elabo-rati dalle menti di Page e Brin, grazie ai quali sgominano i concorrenti.

Bisogna anche trovare il modo di “scaricare” costantemente il contenuto globale di Inter-net in continua espansione, per scandagliarlo e ordinarlo alla velocità della luce. È un compi-to che richiede una formidabile potenza informatica. Qui scatta l’altra innovazione dei dueamici. Nessun supercomputer sarebbe stato all’altezza di quella sfida: un sistema centraliz-zato è troppo vulnerabile, in caso di guasto paralizzerebbe l’intero motore di ricerca. E co-munque nessun supercomputer, di quelli in uso alla Nasa o al Pentagono, è alla portata deiportafogli di due studenti universitari. Nasce allora l’idea di far “lavorare assieme” decine —poi centinaia, migliaia — di normalissimi personal computer, prodotti di serie, i meno cari sulmercato. (Ed ecco la banale risposta al quesito: perché anche Google come tante leggendarieaziende hi-tech della Silicon Valley viene creata in un garage? Perché un garage è il locale me-no costoso da affittare per chi deve stipare metri cubi di computer uno sopra l’altro). Quelloche i due ragazzi lanciano a metà degli anni Novanta è l’applicazione del taylorismo al cyber-spazio. Reinventano una ricetta antica: la divisione del lavoro, la specializzazione estrema del-le mansioni. Prendono una missione terribilmente complessa, e la spezzettano in un’infinitàdi singole operazioni più semplici. Al posto degli operai della Ford che nel primo Novecentoassemblavano le auto un bullone alla volta nelle prime catene di montaggio, loro mettono a

(seguedalla copertina)

Basta cliccare su google. com/trends per conoscere in tempo reale le domandepiù frequenti in questo preciso istante. L’inquietante visita al mappamondo coiraggi-laser, guidata dal ventitreenne addetto alle risorse umane Andrew Peder-son, mi serve come un brutale richiamo alla realtà: a dieci anni esatti dalla suafondazione oggi Google è la regina-madre di Internet, un’azienda che ha cam-biato per sempre il nostro modo di informarci. Una potenza che fa tremare Mi-

crosoft. Un’impresa con diecimila dipendenti sparsi in dozzine di paesi dalla California al-l’India. Un colosso che in Borsa vale più di Walt Disney, Ford e General Motors messe assie-me, ovvero trenta volte il New York Times.

Finché Pederson non mi porta davanti al mappamondo col fascio di raggi laser puntati nelcyber-spazio, ho potuto illudermi di essere in un parco giochi per eterni bambini, colpiti dal-la sindrome di Peter Pan. Si può vagabondare per ore in questo villaggio-vacanze che è Goo-gleplex, il quartier generale dell’azienda a Mountain View, nella Silicon Valley californiana.Lo chiamano campus per la somiglianza con le facoltà della zona come Stanford e Berkeley,città-studi immerse nel verde e carezzate dal sole, dove la popolazione universitaria si spar-paglia a studiare sui prati. A Googleplex l’atmosfera è perfino più rilassata e gaudente, la di-mensione ludica sembra dominare. Nel parco centrale un gruppo di ragazze giocano a bea-ch-volley sulla sabbia. Camminando all’aperto costeggio una piscina; una sala-fitness coi ta-pis roulant e le tv sintonizzate su canali in tutte le lingue; dei tavoli da biliardo; il salone permassaggi; il coiffeur. Tutto gratis. Design e decorazione del campus evocano un museo di ar-te contemporanea o il set di un film di fantascienza: in uno dei giardini c’è uno scheletro di Ty-rannosaurus Rex, circondato da fenicotteri rosa col tesserino d’identificazione “DipendenteGoogle” appeso al collo. Le mense aziendali sono ristoranti Slow Food con menu agrobiolo-gici. Il fondatore della ristorazione interna, il mitico chef Charlie, era il cuoco del gruppo rockGrateful Dead. Un manifesto annuncia un concerto destinato alla causa Free Tibet.

Nei bagni le istruzioni sono scritte in inglese, spagnolo, cinese, giapponese e hindi. Giova-ni di tutte le razze chiacchierano amabilmente in piccoli gruppi, seduti ai tavolini di tanti barall’aperto, sotto il sole californiano. In realtà stanno lavorando. Lo capisci solo quando osser-vi i loro laptop e orecchi le conversazioni. Non è in questo nirvana che ti aspetti d’incontrarei nuovi Padroni dell’Universo. Loro sembrano in perenne vacanza — e, se questo è il tecno-lavoro del Ventunesimo secolo, è il Giardino dell’Eden. Qui stanno progettando il nostro fu-turo digitale, gli itinerari dei nostri pensieri, i percorsi dei consumi culturali. Una volta alla set-timana, nella grande sala dell’auditorium i dipendenti incontrano i due fondatori, i trenta-cinquenni Sergey Brin e Larry Page, per una sessione di “democrazia aziendale” in cui tutto èpermesso: domande indiscrete, nuove idee, lamentele, critiche. Si può rivoltare come un cal-zino ogni progetto in cantiere. Una regola d’oro: ciascuno deve riservarsi il venti per cento delproprio tempo di lavoro «per fare qualcosa che gli piace»; è la ricetta dell’eterna creatività, ilsegreto per vivere in una fucina permanente di innovazioni.

Oggi chiunque abbia un computer o un telefonino con accesso a Internet (cioè la maggio-ranza della popolazione dei paesi sviluppati, ed anche trecento milioni di cinesi) è abituato acliccare l’argomento che lo interessa, un nome, una frase, e sa che in una frazione di secondovedrà apparire sullo schermo un’infinità di “link”, di accessi a siti che contengono le infor-mazioni desiderate. Delle ricerche che nell’èra pre-Internet potevano richiedere giornate in-tere in biblioteca, telefonate, scambi epistolari, ora si risolvono alla velocità della luce. Ma an-che quando Internet già si era affermato, alla fine degli anni Novanta, esplorarlo era compli-cato. Inserendo una parola-chiave nei primi “motori di ricerca” si ottenevano troppe rispo-ste irrilevanti. I contenuti del web erano già allora immensi e farsi strada in mezzo a quel caosprimordiale era come perdersi in un labirinto.

È per dare un ordine e un senso all’universo virtuale che Page e Brin cominciano a lavorareinsieme nel 1995. All’epoca sono due dottorandi di Stanford. Figli d’arte, cresciuti tutti e dueda padri e madri scienziati, Page e Brin maturano presto delle intuizioni geniali. Un motoredi ricerca per essere efficace quando parte alla caccia della parola richiesta non può procede-re senza un metodo, a casaccio. Deve escogitare il modo di ordinare i risultati secondo la loroutilità. Come misurare la diversa rilevanza di milioni di siti Internet che contengono la paro-la richiesta? I due si ispirano alla regola delle pubblicazioni scientifiche calcolando il numerodi “citazioni”: ovvero i link, nel cyberspazio, con altri siti. E non tutti i siti sono uguali. Una ci-

I FONDATORILarry Page e Sergey Brin,

(nella foto), dottorandi

dell’Università

di Stanford, mettono

a punto un metodo

avanzato per la ricerca

di informazioni su Internet

LE ORIGININel 1996 Page e Brin

creano un primordiale

motore di ricerca,

BackRub. Dai ricavi

di quest’invenzione

nasce il primo prototipo

di Google

LA NASCITAAndy Bechtolsheim

concede ai due ragazzi

un assegno di centomila

dollari. Il 7 settembre

1998 Google inc. apre

il proprio ufficio a Menlo

Park, in California

IL DECOLLOLe ricerche effettuate

dagli utenti di Internet

con Google crescono

rapidamente. Nel 1999

gli uffici sono trasferiti

a Palo Alto, al Googleplex,

in California

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 7 SETTEMBRE 2008

lavorare i personal computer. L’immane compito di ricopiare, catalogare, analizzare e sele-zionare l’intero universo di Internet, è frantumato in micro-mansioni, suddivise lungo la ca-tena di montaggio in cui lavora un esercito di computer-operai. «La più grande novità dopoGutenberg e l’invenzione della stampa cinquecento anni fa», la definisce David Vase, il re-porter del Washington Postche ha vinto il Premio Pulitzer per la sua storia di Google (pubbli-cata in Italia dalle edizioni Egea).

«Ancora adesso — mi dice Pederson — gran parte del lavoro qui ruota attorno al motore diricerca. Dall’esterno non ci si rende conto di quanto Google sia un concentrato di potenzainformatica». Ormai usa più di duecentomila personal computer, e aumentano ogni giorno.In confronto la Nasa e il Pentagono sono delle arcaiche botteghe artigiane. La passione deigrandi numeri è la chiave di questa storia, sta scritta fin dal nome scelto per l’azienda: unadeformazione di Googol, che in matematica indica la cifra formata da uno seguito da centozeri. Né Henry Ford né Thomas Edison, né l’Ibm né la Microsoft hanno conosciuto un trionfocosì rapido e così globale: il mondo intero si è “convertito” spontaneamente a questa tecno-logia in un decennio.

Certo il merito non è solo dei due geniali fondatori. I dottorandi di Stanford hanno trovatonella Silicon Valley degli alleati formidabili: investitori audaci e illuminati, pronti ad assume-re in proprio rischi elevati. Gente come Andy Bechtolsheim, che in un fast-food Burger Kingstacca un assegno da centomila dollari per due ragazzini sconosciuti: il capitale con cui fon-dano il 7 settembre 1998 la Google Inc. I celebri “capitalisti di ventura” John Doerr e MichaelMoritz, che mettono da parte la proverbiale rivalità, co-finanziano lo sviluppo dell’impresa,poi la sua quotazione in Borsa. Sarà il più grande collocamento azionario nella storia della Si-licon Valley, l’ingresso al Nasdaq il 19 agosto 2004 con un valore iniziale di 23 miliardi di dol-lari. Quattro anni dopo il rialzo è del 420 per cento.

Le disavventure altrui hanno contribuito ad aiutare Google. Il crac di Borsa della New Eco-nomy, e la crescente impopolarità di Microsoft alle prese con vari processi antitrust, indebo-liscono la concorrenza e fanno di Google la mèta prediletta dei giovani talenti scientifici piùdotati. Perché questa fantastica fabbrica di soldi nasce con un dna tipico della Bay Area di SanFrancisco: una controcultura radicale, trasgressiva, perfino anticapitalista. All’inizio Page eBrin teorizzano che non accetteranno mai la contaminazione della pubblicità. Poi in realtàquesta diventa la loro maggiore fonte di entrate; ma solo dopo avere inventato una forma dipubblicità non intrusiva, discreta, che appare “a richiesta”, strettamente collegata alle do-mande di chi consulta il motore di ricerca. La vedi se la vuoi vedere, perché la stai cercando. Ela pubblicità resta assente, proibita, in quello che viene definito «il pezzo di proprietà immo-biliare più pregiato del pianeta»: la pagina d’ingresso di Google, candida e vergine come allanascita.

In questo decennio ogni resistenza è stata travolta. Ex-colossi dominanti come Aol e Yahooche pochi anni fa guardavano i ragazzini di Google con superba sufficienza, si sono inchina-ti a usare la loro tecnologia. Google ha conquistato la stratosfera, le sue mappe del globo ter-restre sono così accurate che le basi militari devono oscurarne i dettagli troppo precisi. Ha dif-fuso con successo il suo servizio di email. Ora ha il suo browser in concorrenza con l’Explorerdi Microsoft. Ha in corso la schedatura dell’intero genoma umano. Eppure a Mountain Val-ley sono convinti che la loro sfida è appena iniziata. «La mappatura integrale di migliaia di mi-liardi di pagine Internet non ci basta — mi dice Pederson — perché tanta parte dello scibileumano è ancora off-line, su carta, non è tradotto in forma digitale, è contenuto nelle bibliote-che tradizionali, è segmentato in centinaia di lingue diverse. Il prossimo traguardo è questo:rendere accessibile, traducibile e consultabile all’istante tutto l’universo delle conoscenzeche ancora non sono su Internet. Questo significa che a oggi abbiamo fatto appena il cinqueper cento del nostro cammino».

Al suo decimo compleanno Google ci arriva con una “macchia”, una contraddizione ri-spetto all’ideologia libertaria di Page e Brin: è il compromesso galeotto con il regime cinese, lacollaborazione con la censura di Pechino, il prezzo pagato per entrare nel mercato più vastodel mondo con un motore di ricerca in mandarino. Eppure quell’incidente non ha intaccatola credibilità di questa azienda-mito tra i giovani. Mesi fa, in uno degli scherzi che costellano lasua comunicazione quotidiana, da Googleplex fu diffuso l’annuncio dell’apertura di una nuo-va filiale sulla luna. Da allora l’ufficio del personale continua a ricevere curriculum vitae daigiovani laureati delle migliori università americane che si candidano per quella sede. Sonoconvinti che Google sulla luna prima o poi ci andrà davvero, e vogliono arrivarci con i primi.

GLI APPLICATIVICon la crescita di Googlenascono numeroseapplicazioni ad essocollegate. Fra questeDesktop, News, ProductSearch, Maps, Earth,Youtube e Ricerca Libri

LA NOVITÀIl 2 settembre 2008esce Chrome, il nuovobrowser open sourcesviluppato da Google,in grado di concorrerecon Internet Explorere Firefox

IL FATTURATOGoogle registrauna rapida crescitadel suo fatturato. Questopassa dai 2,5 miliardidi dollari del 2004 (annodell’ingresso in Borsa),ai 10,6 miliardi del 2006

I DIPENDENTII dipendenti di Googledispongono del ventiper cento del loro tempolavorativo per occuparsidi progetti personaliNel 2007 sono statiin totale 15.916

(segue dalla copertina)

Google era, ed è rimasto, bianco: bianco come la pagina che inibisce lo scrittorein crisi. Apriti, Sesamo: una o più parole-chiave da scrivere nella finestrella perottenere i primi dieci siti pertinenti, e poi altri dieci, e altri dieci ancora. Pulizia

e rapidità.A questo punto l’utente informato e magari informatico si diffondeva in spiegazio-

ni fra il tecnico e il magico a proposito degli algoritmi matematici che promuovevanoGoogle a motore di ricerca intelligente, retrocedendo con ciò gli altri a motori di ri-cerca stupidi. Link, intrecci, visite quotidiane, la logica del funzionamento della Reteche conta di più della logica commerciale della promozione. Né potevano mancarela domanda e la relativa risposta: «Bello, ma cosa vuol dire il nome Google?» «Viene dagoogol — (purtroppo non da Gogol) — ed è il nome del numero formato da 1 seguitoda cento zeri, nome trovato nel 1938 dal nipotino novenne di un matematico ameri-cano; ma ricorda anche la parola inglese per “binocolo”». Scienza e infanzia, mate-matica e mito: altre spiegazioni evocano una formula magica usata da tribù primiti-ve per propiziare una buona caccia.

Dieci anni dopo to google è un verbo inglese che significa «cercare su Google» e cheha goffi, ma ricorrenti, calchi italiani in «googlare» o «googolare». La sua home page èla pagina iniziale su cui si apre il browser nella maggior parte dei computer degli In-ternet cafè, e molti utenti hanno installato la barra con la sua finestrella in modo da po-ter accedere a Google direttamente durante la navigazione in qualsiasi altro sito.

«Basta andare su Google», «l’ho trovato su Google» (non «su Internet» o «con Goo-gle»): da strumento di ricerca — Google come tramite a siti Internet — Google pare es-sersi trasformato direttamente nella meta, che è come confondere l’aereo con l’aero-porto di arrivo e dire «sono andato a Jumbo». Nel linguaggio ma soprattutto nella pra-tica quotidiana — dalle ricerche di studio a quelle di ristoranti — Google incarna infat-ti il rapporto pulito e semplificato che abbiamo oggi con la conoscenza: la scelta di unaparola-chiave ci mette a contatto, tramite uno o due clic, con un insieme di siti, insie-me che è ormai facile e comune confondere con l’estensione concettuale della parola.

Se la maggior parte dei lavori e degli studi che si compiono oggi ha il computer (e ilcomputer connesso in rete) come principale strumento, non ha più senso alcuna di-visione fra lavoro esecutivo e lavoro creativo, se non viene tradotta in quella tra chi la-vora con ciò che trova su (cioè con) Google e chi la-vora a qualcosa che finirà su Google (cioè su In-ternet). Quel che Google tace ai suoi utenti,cioè, è che esiste un mondo di conoscenze edi idee non linkato, non indicizzato, ignoto algeniale algoritmo del PageRank e quindiestraneo a Google medesimo. Ciò che si repe-risce con il motore di ricerca più intelligentebasta a soddisfare i più modesti appetiti di co-noscenza: il resto richiede necessaria-mente ricerche compiute senza mo-tore.

STEFANO BARTEZZAGHI

Il nuovo apriti-sesamoma attenti ai miraggi

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Repubblica Nazionale

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MOSCA

Ventinove agosto, Costa Az-zurra. Sono le nove menoun quarto di una magnifi-ca, calda sera d’estate. Allo

stadio Louis II del Principato di Mo-naco si stanno affrontando le

squadre del ManchesterUnited, campione

d ’ E u r o -

pa,i nm a -glia ros-sa, e delloZenit diSan Pie-t r o b u r -go, che havinto laCoppa Ue-fa, in magliaceleste. Russi einglesi, una rivalità emblemati-ca: i due paesi negli ultimi tempi sisono sempre guardati in cagnesco. Pri-ma la vicenda della morte di Alex Litvi-nenko, ex agente dell’Fsb, in asilo politicoa Londra, ucciso in circostanze oscure colpolonio 210, e le accuse di Scotland Yardcontro l’ex agente del Kgb Andrej Lugo-voj, diventato deputato della Duma alleultime elezioni. Poi, l’aspro contenziosoper il controllo della holding petroliferaTnk-Bp, metà britannica metà russa. In-fine, la chiusura di quasi tutte le sedi delBritish Council imposta dalle autoritàrusse, perché sospettato di favorire atti-vità antigovernative e di foraggiare l’op-posizione. Mosca rivendica la «sovranitànazionale» ed esige più rispetto dal restodel mondo: Putin incarna perfettamentequesto revanscismo perché, come di-chiara il grande regista Nikita Michalkov,«è il leader che ha ridato dignità alla Rus-sia».

Putin è anche il primo dei tifosi delloZenit, la squadra della sua città, la com-pagine che ha dominato il campionatorusso e ora sta schiacciando nella loroarea i famosissimi campioni del Man-chester. In palio, la Supercoppa europea,un titolo prestigioso che i russi non han-no mai conquistato. Solo la Dinamo Kievriuscì a battere 3-0 il Bayern nel 1975, maper i russi del terzo millennio quella vit-toria non conta. C’era l’Urss e la Dinamoera una squadra ucraina.

Nella tribuna vip, il fior fiore della jetsociety russa, ben conosciuta da Saint-Tropez a Montecarlo: Roman Abramo-vic, l’ex venditore ambulante diventato ilre degli oligarchi, insieme alla fidanzataDaria è come se facesse gli onori di casa.Il suo yacht “Pelorus”, lungo 115 metri, èattraccato al molo grande, sotto la Rocca.Gli è vicino l’amico trentaseienne AndrejMelnicenko, proprietario della Mdm, lapiù importante banca d’affari russa: è lui,si dice, che gestisce il patrimonio perso-nale di Abramovic. Melnicenko ha appe-na speso 250 milioni di dollari per “A”, unmegayacht made in Germany (cantieriBlohm und Voss) ancor più sofisticato diquello di Roman, e anche più lungo: 119metri. È la nave ammiraglia della flottadei miliardari russi che ormai, quanto anumero, sono secondi soltanto agli ame-ricani. Non c’è giorno che questo prima-to non venga vantato dai giornali russi,con smisurato gordost’, la fierezza nazio-nalpatriottica.

“A” è un palazzo sul mare, con-cepito dalla geniale penna di Phi-lippe Starck e realizzato dall’archi-

tetto navaleMartin

l’attualitàCalcio & politica

Il suo primo tifoso è Vladimir Putin. La Gazprom, la più grandeholding energetica del mondo, è il suo sponsor. Lo Zenitdi San Pietroburgo, che a fine agosto ha conquistato la Supercoppaeuropea, non è soltanto una straordinaria squadra di calcio:è l’immagine perfetta del revanscismo di un’intera nazioneChe dalla Georgia agli stadi vuole ostentare il proprio orgoglio

LEONARDO COEN

partitadi ritorno

PROPAGANDAQui accantoe a centro pagina,manifestidella propagandasovieticaA destra,foto di squadraper lo Zenitdi San Pietroburgo,il logo della societàe una gigantografiadel giocatoreAndrej Arshavinutilizzataper la campagnaelettorale di Putin

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 SETTEMBRE 2008

RUSSIARepubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 7 SETTEMBRE 2008

Era l’hockey su ghiaccio il gioco dove si concentrava l’orgoglionazionalistico e l’ideologia di superpotenza dell’Unione So-vietica. Uno sport per “uomini veri”, che esaltava il collettivo,

nel più puro ossequio alla dottrina del socialismo realizzato, conquelle maglie rosse con la mitica scritta CCCP (in cirillico, che inrealtà si legge SSSR, Unione delle Repubbliche Socialiste Sovieti-che). E da veri uomini sovietici, «nastajashy mushiny», prima gio-cavano e poi bevevano per brindare alle vittorie, tante, o conso-larsi delle sconfitte, poche. Il più grande attaccante, russo ma for-se in assoluto, che abbia mai solcato il ghiaccio con i suoi pattinida virtuoso, che usava come Maradona usava i piedi, ValeryKharlamov, si fratturò braccia e gambe dopo una partita nel 1976guidando ubriaco la sua macchina privata (privilegio, quellodella vettura di proprietà, che solo le star dello sport e dello spet-tacolo potevano allora permettersi). Riuscì a riprendere a gio-care, ma cinque anni dopo si ripeté e morì con la moglie a solitrentatré anni.

Kharlamov e il portiere Vladislav Tretjak erano gli assi di unasquadra di campioni che vinse tutto (tranne le Olimpiadi diLake Placid nel 1980 e gli americani ci fecero perfino un film su

quella partita, un po’ come Italia-Germania 4 a 3). Mavinse barando in nome dell’ideologia comu-

nista e della ragione di Stato. Eranoufficialmente dilettanti, in realtà

tutti stipendiati e privilegiati con igradi di capitano o maggiore dell’Ar-

mata Rossa (Cska), della polizia (Di-namo), o con finti incarichi direttivi

nelle ferrovie (Lokomotiv) o nelle mi-niere (Shakhtior). Alle Olimpiadi e ai

Mondiali giocavano contro squadre diveri dilettanti e stravincevano: per que-

sto Lake Placid fu una tragedia per Tretjake soci e una leggenda per gli americani, che

schieravano universitari.Poi c’era la sfida delle sfide, in cui ci si gio-

cava tutto, qualcosa di più di uno scontro

sportivo, quasi, avrebbe detto il professor Huntington anni dopo, «uno scontro di ci-viltà», tra il dilettantismo di Stato e il professionismo del business: Urss contro Canada.Ad anni alterni, a Mosca e in una capitale canadese dell’hockey, al meglio di sette incon-tri (non poteva esserci pareggio). I «dilettanti» sovietici con il casco, i professionisti ca-nadesi senza, come usava allora nell’Nhl. E anche in questo dettaglio, apparentementeinsignificante, c’era un messaggio politico mistificante, come sempre ai tempi dell’Ursse della Guerra fredda. Noi sovietici siamo dilettanti, il giorno dopo dobbiamo lavorare equindi proteggerci da incidenti gravi; noi nordamericani siamo professionisti, romper-ci la testa contro la balaustra fa parte del nostro mestiere e dello spettacolo per il qualesiamo pagati. Vinca il migliore. Ma nelle frequenti risse collettive a centro campo anchei russi si toglievano caschi e guantoni per picchiare meglio.

Così era lo sport negli anni in cui la Russia si declinava CCCP in cirillico e i grandi spor-tivi erano inavvicinabili per noi stranieri, anche perché non si doveva vedere quanto era-no diversi dagli operai dei «kombinat». Quando ottenni un’intervista a Jashin, l’unico por-tiere che abbia mai vinto il Pallone d’oro, si presentò con nome e patronimico, Lev Iva-novic, e aggiunse scherzando «detto il ragno nero». Ma sul bavero della giacca aveva ap-puntato l’Ordine di Lenin, la massima onorificenza sovietica in tempo di pace, e per tut-ta l’intervista parlò come un automa sotto lo sguardo severo del funzionario che mi ave-va accompagnato. Nemmeno una sillaba sulla sua vita privata, riuscii soltanto a sbirciareil suo appartamento di ben quattro stanze, quando a Mosca oltre il cinquanta per centodella popolazione viveva in coabitazione.

Dopo la nazionale di hockey il collettivo più celebrato e vantato era la Dinamo Kiev, al-lenato da Valerij Lobanovskij, che forniva dieci undicesimi alla nazionale di calcio, tra cuiil grande Oleg Blokhin. La vittoria nella Supercoppa europea contro il Bayern Monaco nel1975 fu commentata come un’altra prova della superiorità dello sport «dilettantistico»socialista contro quello professionistico borghese. Forse perché mancava questa con-trapposizione, le vittorie nelle gare individuali, come quelle di atletica dove allora tuttierano ufficialmente dilettanti, venivano meno esaltate dalla propaganda di regime: nep-pure quelle di eccezionali campioni come il velocista Borzov o il saltatore in alto Brumel.

Per non parlare degli sport “sconvenienti” per la loro profonda radice borghese e clas-sista, come il tennis. Quando Alex Metreveli, georgiano di Tbilisi, che oggi come ricordasovente Gianni Clerici fa il commentatore alla tv russa (chissà se continuerà dopo la guer-ra?), andò in finale a Wimbledon contro un altro «socialista», il cecoslovacco Kodes nel1973, l’anno dello sciopero dei professionisti, Sovetskij Sport ignorò la notizia. Metreve-li si vendicò esibendo per le strade di Tbilisi una Rolls Royce bianca di seconda mano, cheaveva importato clandestinamente grazie, dicevano le malelingue, alle sue potenti ami-cizie nel Partito comunista georgiano.

Lo sport al tempo dei SovietPAOLO GARIMBERTI

Francis. Andrej l’ha regalato all’amatissi-ma moglie Alexandra Nikolic, ex manne-quin serba di trentuno anni che spesso, atorto, viene presentata come ex miss Ju-goslavia. Per celebrare il loro matrimonioa Cap d’Antibes, dove hanno acquistatouna fastosa villa, Andrei ha speso 35 mi-lioni di dollari: cantava Christina Aguile-ra per un cachet di 1,5 milioni di dollari.La cabina matrimoniale di “A” è un loft incui il letto gira secondo i capricci dellacoppia: per godersi sempre il tramonto.La piscina ha il fondo trasparente, è cometuffarsi in mare. L’equipaggio è compo-sto da 37 uomini. Il ventinove agosto è an-che il giorno del terzo anniversario di ma-trimonio: i coniugi Melnicenko darannouna grande festa, dopo la partita, a bordodella loro stupenda barca.

Coi due magnati, in tribuna, c’è Alek-sej Miller, il potentissimo amministrato-re delegato della Gazprom, la più grandeholding energetica del mondo, il rubi-netto del gas che tiene in ansia i governidi tutta Europa. Basta che il Cremlino mi-nacci di chiuderlo e sarà buio dalla Spa-gna alla Finlandia, dalla Germania alla

nostra povera Italietta. La Gazprom è losponsor dello Zenit.

Coi miliardi del gas è nata la squadrapiù fantasiosa che la Russia abbia maischierato in campo: capace di fare a me-no per l’intero primo tempo di Andrej Ar-shavin, oggetto del desiderio dei club piùimportanti del mondo. È in questa squa-dra, sfrontata ed esuberante, che si ri-specchia a meraviglia la nuova Russia diPutin e Medvedev. Quella che minacciagli Stati Uniti per la questione dello scu-do stellare. Quella che riprende il suoruolo storico nel Caucaso, umiliando laGeorgia e irridendo al resto del mondocon il riconoscimento di due staterellifantoccio. Quella che pretende di dare alrublo la stessa credibilità del dollaro odell’euro. Quella che punta sulla sua ri-nata potenza militare per dire che lamaggior parte del fondale dell’OceanoGlaciale Artico le appartiene. È la Russiache mostra i muscoli: con il ritorno dellaparata militare sulla Piazza Rossa; con ilritorno sulle rampe di lancio dei missiliintercontinentali; con il ritorno dellegrandi celebrazioni, a cominciare da

quelle della tradizione zarista.Lo Zenit sta controllando la partita.

Seimila tifosi russi lo incitano rumorosa-mente. A San Pietroburgo, i quattro gran-di Bar Sport della ex capitale imperialesono al settimo cielo. Birra, vodka, cham-pagne colano a fiumi allo Zenitka, al Pit-Stop, al Football Bar, al Bristol. È il qua-rantaquattresimo del primo tempoquando Pavel Pgrebnjak segna il primogol contro l’United. In tribuna, la prima aesultare è la «zarina di ferro», ValentinaMatvienko, la governatrice di San Pietro-burgo, fedelissima di Putin, la donna piùpotente della classe politica russa.«Tjotja», zietta Valya, come la chiamano ipietroburghesi, afferra il telefonino.Chiama qualcuno. Ci vuole poco ad in-tuire chi: Vladimir Vladimirovic, il pre-mier. Il capo che ha sferzato l’Occidentepoche ore prima, in una intervista allaCnn.

Nel secondo tempo lo Zenit dilaga.Gioca Arshavin, la squadra non si accon-tenta di amministrare il vantaggio, vuoledi più. Come Putin. Come Medvedev.Come il russo della strada. E continua a

mettere in difficoltà la squadra più fortedel mondo, la favoritissima che inveceannaspa e subisce l’iniziativa dei russi: alcinquantanovesimo arriva il raddoppio.In Russia, nonostante l’ora tarda, gli spet-tatori sono decine di milioni. Anche per-ché questa magica notte di calcio fa di-menticare il mese di passione, di criticheinternazionali, di messa all’indice per lacrisi georgiana. È come uno sfogo libera-torio. Neanche il gol della bandiera delManchester frena il furore agonistico deirussi, in campo e davanti agli schermi. Èil settantatreesimo, a Mosca e San Pietro-burgo è già passata la mezzanotte. LaRussia non va a dormire: aspetta il fischiodi chiusura. Lo Zenit batte il Manchester2 a 1.

Medvedev telefona alla Matvienko. ASan Pietroburgo la folla dei bar sport in-vade Nievskij, Ligovka, il lungo fiumeMojka e Fontanka. Assieme alle bandie-re dello Zenit spunta il tricolore russo. Al-la faccia della legge che vieterebbe l’usonon autorizzato dei simboli nazionali. Èuna legge che ha le ore contate: la Dumala straccerà pochi giorni dopo. Come si

può vietare ad un popolo che ha ritrova-to la fierezza, l’orgoglio e la fiducia nelleproprie potenzialità, di sventolare lo ros-sijskij trikolor? Dagli spalti di Montecar-lo, la governatrice promette che la festacontinuerà: domani, a San Pietroburgo,«perché tutta la città possa gioire di que-sto trionfo».

Dice Sergej Lukianenko, noto scritto-re di fantascienza russo: «In questo lun-go agosto del 2008 mi sono sentito duevolte orgoglioso di vivere in Russia. Laprima, quando, nonostante i rimproveridella Nato, la Russia ha fermato il geno-cidio in Ossezia del Sud e poi ha distrut-to l’esercito georgiano. La secondaquando, in una situazione di pesantissi-mi pressioni, il nostro presidente Med-vedev ha riconosciuto l’indipendenzadell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud. Era-no vent’anni che chinavamo il capo di-nanzi ai diktat dell’Occidente. Per la pri-ma volta nella storia contemporanea, laRussia ha deciso di difendere i propri in-teressi». Arshavin e gli altri possono sol-levare la Supercoppa. È solo l’inizio diuna nuova storia russa.

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Repubblica Nazionale

Page 6: omenica LEONARDO COEN ePAOLO GARIMBERTI DOMENICA ...download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/07092008.pdf · gini, video. C’è chi sta facendo la propria tesi di laurea e chi prepara

le storieLinguaggi

Voci di un altro mondo, apertamente minaccioseo all’apparenza innocenti, cariche però sempredi un messaggio: sono le frasi-chiave degli uominidi Cosa Nostra. Un cronista le ha annotate in annidi lavoro nei suoi taccuini e ora le ha travasatein un libro che è uno spaccato del pensiero criminale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 7 SETTEMBRE 2008

Giuseppe MadoniaPiù parlano e più li pagano,perché dovrebbero stare zitti?

‘‘

Antonina BruscaLa disgrazia di Falcone...

Michele GrecoDitemi in che cosa avrei mafiato

Antonino PattiPure Garibaldi pagò il pizzoper sbarcare a Marsala

IL LIBRO

Parole d’Onore(Bur Rizzoli, collana

Futuro Passato,

416 pagine, 12 euro)

sarà in libreria

il 10 settembre

Scritto dall’inviato

di RepubblicaAttilio Bolzoni,

è la storia di mezzo

secolo di mafia

raccontata

dai mafiosi Parlano

gli uomini

di Cosa Nostra:

sopravvissuti, pentiti

e mai pentiti, liberi

o sepolti per sempre

nei bracci speciali

del 41 bis

ATTILIO BOLZONI

Mafia, le parole d’onore

Luciano LiggioSecondo lei esiste la mafia?...Se esiste l’antimafia…

Gaspare MutoloPer me modica quantitàsono quattro chili

‘‘Parla poco l’uomo d’onore, ascolta

tanto e non fa domande . Le chiacchiere

non sono mai piaciute a Cosa Nostra

E ancora meno ai boss di Corleone

È tutto segreto per lo “zio Totò”

Leonardo MessinaLa mafia è un organismodemocratico

«L’avevo allevata, era il sangue mio,

il fiato mio», il mafioso di corso dei Mille

ricorda la sua Rosaria. Ma le regole

in Cosa Nostra sono inviolabili

In famiglia non entra chi ha parenti

sbirri o sorelle e madri “malandate”

Totò RiinaLa curiosità è l’anticameradella sbirritudine

L’IMMAGINENella foto, passanti

in una strada

di Marsala (Trapani)

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«Si vota per alzata di mano, davanti a tutti

Non ci sono scrutini segreti. Il capo

della “famiglia” viene eletto dalla base,

ma al centro non è lui: è la “famiglia”...»

Leonardo Messina spiega Cosa Nostra

prima dell’avvento dei Corleonesi

Per trentotto omicidi gli hanno creduto

Ma mai per quel “fatto” avvenuto

l’11 maggio del 1860. Il primo

a replicare alle sue “rivelazioni” è stato

Craxi dal rifugio di Hammamet:

«Questa verità lasciamola

al signor Patti e ai suoi bisnonni»

Sembra un signorotto di campagna,

quando tutti gli altri sono già

all’Ucciardone lui ha ancora il porto

d’armi. È il grande traditore

delle «famiglie» di Palermo

La sua frase preferita: «La violenza

non fa parte della mia dignità»

La domanda è di un parlamentare

della Commissione antimafia. Liggio

risponde.È il 1975. Si replica nel 1999

Questa volta è Michele Santoro

che chiede: «Esiste la mafia?»

Il senatore Marcello Dell’Utri:

«Se esiste l’antimafia»

Era un esattore del racket, la sua vita

è cambiata quando ha conosciuto Koh Bak

Kin, un cinese di Singapore. Così è diventato

il più grande importatore di morfina base

di tutto l’Occidente

Giuseppe MarcheseNon potevo sposare una figliadi separati ma un’orfana sì:mio fratello mi proposedi uccidere suo padre

Sono 5 al maxi processo del 1986. Sono 423

dieci anni dopo. I pentiti fanno paura

In Sicilia li chiamano spioni, muffuti, infamoni,

confidenti di questura, cantanti, carabinieri

a cavallo, indegni, scatascini, vomitini,

lenti di panza

I suoi figli Enzo e Giovanni sono stati appena

arrestati, suo marito Bernardo è all’ergastolo

La donna si sfoga: «Su di loro dicono

solo fesserie. E ora per l’anniversario

della disgrazia di Falcone c’è questo can can,

questa pubblicità»

Sono voci che provengono da un al-tro mondo. Salgono minacciose,stordiscono. A volte arrivano sfug-genti e all’apparenza innocue, avolte sono volutamente cariche dipresagi. Nascondono sempre qual-

cosa, portano sempre un messaggio. Tutto èmessaggio nella loro parlata. Anche i dettagliche sembrano più irrilevanti, i gesti che ac-compagnano o prendono il posto delle voci.Anche i silenzi. È un coro inquietante che ho ri-trovato sul mio taccuino. Quelle parole e quei“discorsi” sono diventati i miei appunti.

In questo libro i mafiosi parlano di moralitàe famiglia, di affari e delitti, di regole, amori,amicizie tradite, di religione e di Dio, di soldi edi potere, di vita e di morte. Del rapporto con ilcarcere e con la legge, di latitanze infinite, del-la Sicilia e dello Stato. In alcune circostanzescoprono fragilità, in altre mostrano una stu-pefacente fibra. E ricordano con rimpianto i lo-ro antichi privilegi, descrivono i luoghi-simbo-lo della loro autorità. L’Ucciardone, primo fratutti. Confessano il loro passato o difendono illoro presente. Raccontano ancora di mogli e difigli, di padri, di sorelle o fratelli rinnegati. Spie-gano chi sono e da dove vengono. Uno di lorodice: «Perché in Sicilia, quello a cui non si puòrinunziare, è la considerazione che hanno glialtri per te».

È quella che loro chiamano la dignitudine. Illibro è una raccolta di pensieri e di “ragiona-menti” mafiosi. Parole d’onore. È un inventa-rio di follie. Una combinazione fra il delirio e lalogica più implacabile, fra la paranoia e unaspaventosa razionalità. Non è solo un linguag-gio e non è solo un codice quello di mafia: èesercizio d’intelligenza, esibizione perma-nente di potere. Ogni riflessione è un calcolo,ogni modo di dire svela una natura di crimina-li molto speciali. «Conoscere i mafiosi ha in-fluito profondamente sul mio modo di rappor-tarmi con gli altri e anche sulle mie convinzio-ni… Per quanto possa sembrare strano, la ma-fia mi ha impartito una lezione di moralità»,spiegava Giovanni Falcone in Cose di Cosa No-stra a Marcelle Padovani. Falcone è stato il pri-mo, con il rigore del magistrato e la passione ci-vile di certi grandi siciliani, a esplorare sino infondo la mentalità mafiosa. Diceva: «Cono-scendo gli uomini d’onore ho imparato che lelogiche mafiose non sono mai sorpassate néincomprensibili. Sono in realtà le logiche delpotere, e sempre funzionali a uno scopo. Incerti momenti, questi mafiosi mi sembrano gliunici esseri razionali in un mondo popolato dafolli. Anche Sciascia sosteneva che in Sicilia sinascondono i cartesiani peggiori».

In Parole d’Onore protagonisti sono mafiosigrandi e piccoli, noti e meno noti, i palermita-ni e quegli altri delle province interne. Ogni ca-pitolo è una storia a parte, mai del tutto però se-parata dalle altre. È come un fiume sotterraneoche scorre nella vicenda siciliana per oltre cin-quant’anni. È un andare avanti e indietro neltempo con un ordine dettato dalle loro argo-mentazioni. Sempre le stesse, sempre uguali.Eterne. Ogni capitolo ha dentro una frase pro-nunciata da un mafioso. Riferita a un processoo a un pubblico ministero. Carpita da una mi-crospia. Urlata o sussurrata in una piazza. So-no molte voci ma la trama è una sola. Tutto sitiene in Cosa Nostra.

Il mio mestiere di giornalista mi ha portatoanche a far conoscenza con molti di loro. Neipalazzi di giustizia. Nelle borgate. Qualche vol-ta anche nello loro case. Li ho incrociati sullestrade di Palermo, dove un quarto di secolo fainfuriava la guerra di mafia. Fra gli ultimi orti diBrancaccio e dopo le case diroccate sul maredella Bandita, dietro i palazzoni di Passo di Ri-gano e dell’Uditore, in mezzo ai vicoli dell’Ac-quasanta e dell’Arenella. Li ho rivisti qualcheanno dopo, rinchiusi nelle gabbie delle aulebunker. Un osservatorio unico per capire il lo-ro pensiero. Dal maxi processo di Palermo del-l’inverno 1986 alle ultime scorribande dellaprimavera del 2008. Dai Buscetta e dai Liggio— passando per Totò Riina e per le stragi — fi-no al “decalogo” ritrovato nel covo dei Lo Pic-colo, padre e figlio, capi improvvisati di unaCosa Nostra dall’incerto futuro.

L’idea di questo libro è nata tanto tempo fa,forse nel 1993. Nelle settimane successive al-l’arresto di Totò Riina ho soggiornato per qual-che tempo a Corleone, in più di un’occasioneho avuto modo di incontrare suo fratello Gae-tano. Ero là per ricostruire la vita di quei “con-tadini” siciliani che avevano tenuto in ostaggiolo Stato italiano. Con Gaetano Tanuzzo Riinaabbiamo parlato di tante cose. Anche di Tom-maso Buscetta. Di quello che aveva confessatoal giudice Falcone. Di quello che aveva fattonella sua esistenza fra la Sicilia e l’America, Pa-lermo e il Brasile. Gaetano Riina, un giorno, miha dato una risposta che ho riconosciuto comeuna delle più formidabili parole d’onore maisentite. Mi ha detto, a proposito del pentimen-to di Buscetta: «Ha visto il mondo e gli è scop-piato il cervello».

Repubblica Nazionale

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Giusto cento anni fa il ricchissimo banchiereebreo-francese si cimentò in un “giro del mondoin centoventi giorni” e ne trasse un grande progetto:

“Les Archives de la Planète”. Decine di fotografi riportaronoda ogni luogo della Terra migliaia di pionieristiche foto a coloriIl tutto fu travolto dalla crisi del ’29. Siamo andati a vedere cosa ne rimane

CULTURA*

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 SETTEMBRE 2008

Albert

l’ultimoutopista

Kahn

BOULOGNE-BILLANCOURT

Cosa resta quando un’utopiava in frantumi? Quandoun’idea nobile di pace e ci-viltà viene travolta dalla

brutalità della storia? Restano l’amarezzadell’utopista sconfitto, l’autunno del suosilenzioso scontento, la tristezza del suosguardo. Lo sguardo di Albert Kahn or-mai ottantenne, ridotto a ospite per caritànel palazzo dove era stato uno degli uo-mini più ricchi di Francia e del mondo, losguardo che sognava di abbracciare tut-to il pianeta in un immenso ritratto a co-lori, quello sguardo stanco continuò peranni a posarsi ogni mattina su questi duealberi glauchi del grande giardino, un’e-picea del Colorado e un cedro dell’Atlan-te, nati ai due estremi del pianeta, eppu-re tanto simili che non sapresti dire qua-le dei rami verde-azzurri che si sfioranoappartenga all’uno o all’altro. Persino delgiardinaggio, come di tutta la sua vita,Kahn aveva fatto una metafora di frater-nità universale.

Il tempo è spietato con le utopie per-denti. E quella di Albert Kahn, piccoloebreo alsaziano diventato miliardario emorto in miseria, ovvero l’idea che percambiare il mondo bastasse guardarlo,guardarlo attentamente, guardarlo tutto,è stata davvero sfortunata. Il suo pacifi-smo andò a sbattere contro l’orrido ma-cello della Grande guerra. La sua immen-sa fortuna, contro la crisi del ‘29. La suaeredità morale, contro l’arroganza nazi-sta. Di Albert Kahn, forse l’ultimo utopi-sta del Ventesimo secolo, anche in Fran-cia pochi ricordano oggi il nome. Bisognaprendere la linea 10 del metrò parigino fi-no al capolinea Boulogne-Billancourt efare ancora una passeggia-ta fino ai bordi della Sennaper scoprire che quell’uto-pia è ancora lì, intatta, ma-terializzata in un patrimo-nio straordinario e misco-nosciuto dell’umanità: il ri-tratto del mondo, tutto a co-lori, di un secolo fa. La bel-lezza di settantaduemilalastre autochromeprese nelcorso di un ventennio, apartire dal 1910, dal Canadaall’Indocina, dal Maroccoalla Mongolia. Ed è solol’abbozzo (mancano l’Afri-ca subsahariana, l’Ocea-nia, la Russia) di quello che,se Kahn non fosse finito inrovina e l’Europa in fiam-me, sarebbe stato il grandeArchivio del Pianeta: l’enci-clopedia visuale su cuiavrebbe potuto formarsiun’élite di nuovi illuminati,classe dirigente universalee pacifica del mondo pros-simo venturo.

Sono ancora tutte qui,quelle pioniere foto a colo-ri, assieme a centoquarantachilometri di filmati e aquattromila lastre stereo-scopiche, custoditi in sca-tole ermetiche dentro stan-ze refrigerate, inaccessibilial pubblico se non attraver-so le riproduzioni con cui il Museo AlbertKahn allestisce ogni anno piccole affasci-nanti esposizioni dedicate ogni volta a unpaese diverso (fino a marzo, ad esempio,è il turno dell’India). Solo una minimaparte del patrimonio è stata finora digita-lizzata e duplicata. «Sono ancora possibi-li scoperte», assicura Vladimir Pronier,addetto alla comunicazione del Museo,«è appena riemersa una cassa di lastre su-damericane di cui non sospettavamo l’e-sistenza». Almeno in questo, il sogno diKahn non è ancora interrotto.

Era cominciato con un’infanzia alsa-ziana oppressa dalla guerra: quella fran-co-prussiana del 1870. Il piccoloAbraham (non ancora Albert) Kahn hadieci anni, e i suoi genitori, piccoli com-mercianti, volendo restare francesi, la-

sciano con dolore la “provincia perduta”.I tedeschi vincono quella guerra perchépiù bravi in geografia: carte migliori, stu-dio del territorio sono armi potenti quan-to la fucileria automatica. Albert se ne ri-corderà da grande, quando cercherà diredimere la scienza della terra dal pecca-to originale militarista, per farne unostrumento di fraternità tra i popoli. Seianni dopo lo troviamo a Parigi, commes-so di negozio, poi piccolo impiegato nel-la banca Goudchaux. Pare che il suo fiutoper le oscillazioni di borsa sia leggenda-rio. Scommette sulle miniere d’oro suda-fricane e sui diamanti De Beers: diventaricco. Nel 1892, poco più che trentenne, ègià socio del suo datore di lavoro. Sei an-ni dopo fonda una banca a suo nome.

Alla vigilia del millennio è miliardario.

Compra questa palazzina nel sobborgodi Boulogne, affida il giardino di quattroettari a un celebre architetto, Achille Du-chêne, perché ne faccia il riassunto deipaesaggi del mondo: foresta alsaziana,roseto con serra francese, parco inglese,giardino giapponese con casette per il tèfatte arrivare da Tokyo, palude, prateria.Un microcosmo politico-botanico (oggisplendidamente restaurato e visitabile). Icolleghi lo chiamano già “il finanzierestravagante”. Il suo stile di vita non lismentisce. Vegetariano, burbero, gesti-colante, afflitto da un greve accento alsa-ziano, trasandato per scelta (si siede suicappelli nuovi per stazzonarli). Riservatofino a nascondersi: fotograferà il mondo,ma di lui esistono solo una decina di ri-tratti, quasi tutti rubati. Umanista misan-

MICHELE SMARGIASSI

Il fermo-immagine del pianeta

Settantaduemila lastreautochrome, prese nel corsodi un ventennioa partiredal 1910, sono ancoraconservate in un museoalla periferia di ParigiE nel lavoro di duplicazionenon mancano le scoperte...

BANCHIERE MECENATEUna delle rare foto di AlbertKahn ritrae il miliardariosul balcone della sua banca a ruede Richelieu, Parigi, nel 1914

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 7 SETTEMBRE 2008

tropo: rimasto scapolo, nelle rare imma-gini lo si vede sorridere una sola volta,mentre gioca con un cagnolino. Lavora-tore instancabile, sveglia alle cinque dimattina, finestre dello studio aperte an-che d’inverno: impietosito, regala guantie sciarpe ai dipendenti.

Ma ciò che colpisce la fantasia dei col-leghi è il modo con cui decide di spende-re i suoi soldi. Per la verità, sulle prime sicomporta come un qualsiasi ricco filan-tropo. All’alba del secolo fonda le borse distudio Autour du Monde, che permetto-no ai migliori diplomati dell’Ecole Nor-male Supérieure di passare un anno in gi-ro per il mondo per formarsi una co-scienza nuova. Kahn appartiene a pienotitolo al milieuebraico progressista euro-peo, ferito dall’affaire Dreyfus, a cui stan-no strette le angustie nazionali. Ha ungrande amico e ispiratore: Henri Berg-son, poco più anziano di lui ma già in gra-

do di dargli lezioni private. All’inizio nonvuole che i beneficiari delle borse cono-scano la provenienza del denaro. Poi de-ve cedere alle insistenze dei premiati. Èqui che il suo progetto, da classica filan-tropia, cambia corso e diventa un’inedi-ta avventura politica e pedagogica. I bor-sisti presenti e passati diventano soci diun club esclusivo, la Société Autour du

Monde, dove frequentano i migliori spiri-ti dell’epoca. Non è difficile al banchieree all’amico filosofo radunare nella tenutadi Boulogne nomi eccellenti: nel librod’oro ci sono le firme di Tagore, Rodin,Einstein, Kipling, Gide, Jaurés. Nel 1919ospita i delegati della conferenza di pace:un filmato d’epoca ce li mostra saltellan-ti e un po’ stupiti nel giardino-micro-mondo. Essere invitati ai colloqui infor-mali della Societé,dove per Bergson «si re-spira almeno per qualche ora un’atmo-sfera morale», è un segno di distinzione,

il poeta Charles Péguy teme addirittura di«non fare un’impressione abbastanzaimportante al signor Kahn». Di ogni col-loquio, il banchiere utopista fa redigereun verbale e lo invia ai potenti della Terra,stampato su bollettini dalle testate elo-quenti: Orientamento nuovo, Spirito

pubblico... Ma non basta ancora. Kahnnon è certo un rivoluzionario, sogna unasocietà stabile e perfino tradizionalista (ilsuo mito è il Giappone), ma pacifica esenza frontiere; non auspica rivoluzioniclassiste ma la riforma etica della classedirigente. Si assume l’onere di formarneuna tutta nuova. Coi viaggi, d’accordo.Ma serve una memoria più duratura, tra-smissibile, uno strumento di conoscenza«oggettivo e universale».

Quello strumento esiste. È la fotogra-fia. Kahn è totalmente immerso nell’at-mosfera positivista: crede nei “fatti”, ècerto che vedere è sapere. La sua racco-

mandazione ai borsisti: «Dimenticatetutto ciò che vi hanno detto, e tenete gliocchi aperti». Vedere il mondo è capirlo,capirlo è già cambiarlo. «Guardare da vi-cino i volti della terra», dirà in uno dei suoirari scritti, serve a diventare «più intelli-gentemente nazionali e più risolutamen-te internazionali». Lui per primo fa la pro-va. Parte esattamente cent’anni fa, nelnovembre 1908, per un giro del mondo incentoventi giorni, assieme al fedelissimoAlfred Dutertre, che è ben più di unochauffeur, è guida, guardaspalle e croni-sta del viaggio. Ricorda qualcosa? Sì, sem-brano i due personaggi del più celebre ro-manzo di Verne: Phileas Fogg e il suoastuto servitore Passepartout, a volte è lavita che imita la letteratura. Nella valigiarossa disegnata per loro da Vuitton por-tano fotocamere, cineprese e lastre. Tor-nano con immagini, filmati e un’idea di-speratamente ambiziosa. Far vedere tut-to il mondo ai futuri governanti illumina-ti. Kahn progetta un archivio immenso ecostantemente aggiornato di immagini:lo chiama Les Archives de la Planète, lo af-fida a un luminare della “geografia uma-na”, Jean Brunhes. Ingaggia decine di fo-tografi. Si procura dai fratelli Lumière letecnologie più avanzate di riproduzioneesistenti al momento: il cinema, inventa-to da soli dieci anni; la stereoscopia, cheproduce l’illusione della profondità; e lafotografia a colori, il cui primo sistema ef-ficiente è appena stato messo in com-mercio. Rinuncia a malincuore solo alfilm sonoro, già possibile ma ancora inaf-fidabile.

Il mondo che i suoi fotografi riportanoa casa è davvero il mondo nuovo.Brunhes utilizza quelle immagini per lesue lezioni alla Sorbona e ai borsisti dellaSociété. È rapito dalla suggestione di queiquadretti dai delicati toni pastello che siravvivano a tratti in rossi e gialli saturi. Eanche noi lo siamo, cent’anni dopo. Gliautochromessono oggetti magici: positi-vi unici, lastre di vetro visibili in traspa-renza, come le moderne diapositive. Mi-lioni di umilissimi granuli di fecola di pa-tata pigmentati in tre colori, verde-viola-arancio, compongono un mosaico dal-l’effetto in bilico fra schermo televisivo edipinto pointilliste. Per un pubblico an-cora abituato alle immagini color seppiadelle stampe all’albumina, dev’essereuno shock di realismo brutale. Noi che leosserviamo da un’epoca di immagini fintroppo colorate, troviamo invece nostal-gica, onirica quella tavolozza.

Scendono anche in Italia, a diverse ri-prese, i fotografi di Kahn: il classicista Cu-ville, Léon dallo sguardo d’antropologo, irigorosi Gadmer e Dumas. Nessuna del-le loro immagini è memorabile per qua-lità estetica o per contenuto. I fotografi alservizio del grande pacifista percorrono

un’Italia piegata dalla guerra e già in odordi regime, ma non la raccontano: la os-servano. Le istruzioni di Brunhes del re-sto sono esplicite: né immagini d’attua-lità né cartoline, ma documenti impar-ziali: luoghi (monumenti, ma anche casemisere) persone (famose, come Turati oPirelli, ma anche anonimi popolani). Ri-prese sempre frontali, composte, in pie-na luce, senza sghiribizzi d’artista: le im-magini degli Archives dovranno essereconfrontabili, le si dovrà riunire in gene-ri, tipologie, secondo il mito positivistadella tassonomia perfetta. Ma è proprionel loro insieme sterminato, è scorren-done a centinaia sullo schermo del siste-ma di consultazione elettronica del mu-seo, che le immagini del mondo di AlbertKahn ci avvolgono nella loro nebbiolinairidata, ci trasportano in un sogno arco-baleno di pacifica saggezza. Il colore è ungrande traditore. Per rendersene conto,basta tornare a Parigi e vedere un’altramostra sorprendente, quella delle foto-grafie (anch’esse eccezionalmente a co-lori) scattate da André Zucca durantel’occupazione nazista: tra strade soleg-giate, abiti vivaci, afficheschiassose, il tal-lone hitleriano sembra leggero (del restoZucca lavorava per la rivista della Wehr-macht, Signal). Dunque anche il coloredel mondo nuovo di Albert Kahn è artifi-ciale: ma almeno è l’artificio di un mirag-gio di pace e non di un progetto di morte.

Globalista, pacifista, multiculturalista,il piccolo banchiere alsaziano ha il tortodi nascere troppo in anticipo. Sulla poli-tica, sulla tecnologia: oggi probabilmen-te finanzierebbe un progetto Unesco suInternet. Ma a scrivere la parola fine sullasua utopia è la stessa cosa che l’ha resapossibile: la ruota delle fortune finanzia-rie. Sapendo fiutare i rialzi, Kahn intuisceanche il baratro. Nel 1929, quando WallStreet schianta, sa che per lui è finita. Cer-ca di mettere in salvo l’unica cosa a cui tie-ne davvero: gli Archives. Li affida a unafondazione appoggiata alla Sorbona. Manon fa in tempo a finanziarla: lo tsunami

delle borse lo travolge. Bancarotta. I po-chi spiccioli rimasti vanno a rimborsarele ultime spedizioni dei suoi fotografi, nel1931. Kahn ha passato i settanta. Cedetutto, archivio casa e mobilio, alla Prefet-tura della Senna, che generosamente gliconsente di abitare fino alla morte nellestesse stanze, ormai vuote, che hannoospitato i grandi della terra. Di quei novelunghi anni non sappiamo nulla: nientescritti, niente testimoni, silenzio. Il desti-no non risparmia a Kahn neppure la piùdolorosa delle nemesi: lo fa morire nelnovembre del 1940, quando i soldati te-deschi, sempre loro come settant’anniprima, sono di nuovo padroni della suacittà, e il mondo d’improvviso è tornato inbianco e nero.

LE IMMAGINIA sinistra: ragazza accanto a un’acquasantiera all’ingresso di San Zeno,Verona (Fernand Cuville, 1918). Qui sotto: il poeta Rabindranath Tagorenel roseto del giardino di Albert Kahn (Auguste Léon, 1921). In bassoda sinistra: commerciante di frutta e legumi davanti a una bottegadi vasaio nella medina di Tunisi (Jules Gervais-Courtellemont, 1909-1911);coppia di sposi svedesi nell’atelier di un fotografo a Karingberget(Auguste Léon, 1910); fedeli indiani al tempio di Hathi Singha Ahmadabad (Stéphane Passet, 1913)Per tutte le foto: © Musée Albert-Kahn / Conseil Général des Hauts-de-Seine

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r a -r epersi-no quel-la di Ga-b r i e l eD ’ A n n u n -zio. Erano itempi in cui undramma come Lacena delle beffe, del1909, veniva messoin scena in tutto ilmondo e interpretato daattrici e attori del calibrodi Sarah Bernhardt, Ida Ro-land, John, Ethel e LyonelBarrymore, e l’opera lirica L’a-more dei tre re, diretta da ArturoToscanini, riscuoteva gli applausientusiasti del pubblico del Metro-politan di New York nel 1914.

Ma chi era Sem Benelli, che morì il 18dicembre del 1949 a Zoagli, sulla Rivieraligure di Levante? Oggi il suo nome dicepoco o niente al grande pubblico. Anche tragli addetti ai lavori è pressoché dimenticato oconsiderato marginale. Di lui, semmai, ci si ri-corda a malapena per la trasposizione ci-nematografica de La cena delle beffeche Alessandro Blasetti realizzò nel1942. Grazie a un cast che anno-verava Amedeo Nazzari,Clara Calamai (che simostra a seno nudo),Osvaldo Valenti,Luisa Ferida,

Memo Benassi,Valentina Cortese,

il film fu un trionfo.Con l’eccezione della

nuova rappresentazione deL’amore dei tre rerisalente a qual-

che anno fa, nel dopoguerra sulle suecommedie anticonformiste, satiriche, e

sui drammi spesso a sfondo rinascimenta-le, così come sulla sua figura, calò il sipario. Il si-

lenzio è stato infranto, adesso, dallo storico SandroAntonini con il libro Sem Benelli. Vita di unpoeta: daitrionfi internazionali alla persecuzione fascista,pubblicato dall’editore genovese De Ferrari. Moltodettagliato, ricco di documenti e di testi inediti, in

MASSIMO NOVELLI

«Com’ènoto, la sera del 20 mag-gio u. s., al Teatro Eliseo di Ro-ma, la commedia OrchideadiSem Benelli ebbe un’acco-glienza talmente ostile daparte degli spettatori che se

ne dovette sospendere la rappresentazione. Il lavo-ro è stato poi definitivamente tolto dal cartellone».Inviata a Francesco Peruzzi, ispettore responsabiledella prima zona dell’Ovra, la lettera porta la firma diArturo Bocchini. Il capo della polizia, nella stessamissiva, dispone la «vigilanza ordinaria» dell’auto-re dell’opera contestata, oltre a un «cauto servizio diosservazione degli ambienti e delle persone che fre-quenta ed in genere del suo comportamento, rife-rendo tempestivamente ogni emergenza». È il pri-mo luglio del 1938, l’anno delle leggi razziali. SemBenelli, il drammaturgo sorvegliato dalle spie fasci-ste, è caduto in disgrazia presso i gerarchi di Musso-lini. E l’«accoglienza talmente ostile» alla sua Orchi-dea, che in realtà al debutto ha riscosso un notevolesuccesso, è stata creata ad arte con la violenta gaz-zarra inscenata da una cinquantina di squadristimandati all’Eliseo da Achille Starace, segretario na-zionale del Pnf, e da Andrea Ippolito, il federale diRoma.

Non è la prima volta che la mannaia della censu-ra del Minculpop, il Ministero della cultura popola-re, si abbatte sul commediografo nato da genitori diumili condizioni a Filettole, una frazione di Prato, il12 agosto del 1877. Negli anni Trenta, ormai, i tagli aisuoi testi e i divieti sono all’ordine del giorno. Comeè accaduto nel maggio del 1933, allorché l’Opera na-zionale dopolavoro «ha vietato a tutte le compagniefilodrammatiche di rappresentare lavori di RobertoBracco e di Sem Benelli», in odore di antifascismo ocomunque in contrasto con «i criteri educativi e mo-rali» del fascismo. Pressato dai creditori, vigilato dal-l’Ovra, colpito dal divieto di scrivere nuove opereteatrali, Benelli è un uomo disperato, sebbene l’am-biguità dell’atteggiamento del fascismo verso ilmondo della cultura gli permetta, saltuariamente,di riprendere a lavorare e di ritrovare un po’ di tran-quillità. Durerà poco. Il suo destino di «antifascistanotorio», secondo la schedatura dell’Ovra, sembrasegnato. E le persecuzioni lo costringeranno a fug-gire in Svizzera nel novembre del 1944, dopo averecollaborato con la Resistenza a Milano. Eppure so-no trascorsi solamente poco più di due decenni daquando la sua popolarità aveva minacciato di oscu-

Nei primi anni del NovecentoSem Benelli era amico di Marinetti,la sua popolarità oscurava quella

di D’Annunzio e i suoi drammi, a cominciareda “La cena delle beffe”, venivano rappresentati

in tutto il mondo. Interventista, ammiratoredi Mussolini, finì però per diventare un nemico

del fascismo, che lo censurò e lo mise al bandoOra un libro e il recupero di un carteggio

col fondatore del Futurismo hanno riaccesol’interesse sulla sua controversa vicenda artistica

SPETTACOLI

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 SETTEMBRE 2008

Benelli

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Marinetti

particolare per quanto concerne le vessazioni delMinculpop, il volume ricolloca Benelli nella vera di-mensione. E restituisce la fama, il talento e a volte lagenialità, soprattutto la coerenza di un uomo e di unintellettuale che, nonostante qualche compromes-so con il regime, non prese mai la tessera del partitofascista. Si batté per la libertà dell’arte e per questo,a differenza di tanti altri autori italiani, venne perse-guitato.

Ebbe una vita intensa, che si dispiegò di pari pas-so con le vicende salienti dell’epoca. Dopo avere de-buttato intorno ai vent’anni nel giornalismo e nelteatro, diresse per qualche periodo la rivista Poesiainsieme a Vitaliano Ponti e a Filippo Tommaso Ma-rinetti, che l’aveva fondata nel 1905. I rapporti conquello che sarebbe diventato il vate del futurismo al-l’inizio furono buoni, come testimoniano le letteredi Marinetti che pubblichiamo grazie alla disponi-bilità della Società economica di Chiavari, dove èconservato il fondo Benelli. «Il tuo Castello del Silen-zio è sovranamente bello» gli scrive verso il 1908-1909. E commentando la lettura de La morale di Ca-sanova, che Benelli compose insieme a Luigi Feder-zoni, futuro presidente dell’Accademia d’Italia, glifa sapere: «Ho finito di leggerlo. Lo considero, oltreche una bella opera d’arte, anche un successo sicu-ro». Dopo la Prima guerra mondiale tra i due l’ami-cizia venne meno e, alla fine, afferma Antonini, li di-vise «un disprezzo reciproco». Il successo raggiunseBenelli già nel 1909 con La cena delle beffe. Fu l’avviodi una popolarità nazionale e internazionale checrebbe a dismisura, resistendo a lungo anche allecensure del fascismo. Sulle prime interventista, poilegionario fiumano e non ostile a Mussolini, il dram-maturgo cambiò decisamente idea dopo il delittoMatteotti, nel 1924, divenendo un fiero avversariodella dittatura, tanto da fondare la Lega italica, unraggruppamento antifascista che venne scioltoquasi subito.

Il resto della sua vita si compendia nell’altalena ditrionfi e di progressivi contrasti con il fascismo, diforti indebitamenti e di improvvisi ma effimeri gua-dagni, di furori e di crisi laceranti. Nell’ultimo scor-cio della sua esistenza, ai tempi del Fronte popolareper le elezioni del 1948, si schierò con le sinistre. Ful’estremo atto controcorrente di un uomo che lasciòscritto di sé: «L’artista è l’eroe che i tiranni invidianoe che gli Stati vogliono assoggettare e deformare,perché egli vive per l’uomo ed è spesso contro lo Sta-to. Se mi direte anarchico, non importa: sono anar-chico perché credo l’uomo più importante delloStato».

LE FOTOGRAFIENelle foto, da sinistra:Filippo TommasoMarinetti; Clara Calamaia seno nudo nel filmLa cena delle beffe;Eleonora Duse(a sinistra) e EmmaGramatica nel drammaLa Gioconda; Luisa Feridane La Cena delle beffe.Nel tondo in alto, un ritrattodi Sem Benelli nel 1928Le foto de La Gioconda,Luisa Ferida e Sem Benellisono tratte dal libroVita di un poeta: dai trionfiinternazionalialla persecuzione fascistapubblicato da De Ferrari

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Un “trombone fascista”

o un “libero libertario”?NELLO AJELLO

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 7 SETTEMBRE 2008

I DOCUMENTII documenti riprodotti sono, a sinistra

e in alto, lettere di Marinetti a Benelli e, qui sopra,testi di Benelli. Gli originali appartengono

al Fondo Benelli, Società Economica, Chiavari

Fra le sentenze che Sem Benelli sparge a piene mani nelle sue opere se ne trova una su se stes-so: «È difficile guardarmi con occhi limpidi». Quasi a dire: io sono un rebus. Come accade peri rebus, nel suo caso le domande si presentano a grappolo. Per esempio: furono meritate, o al-

meno spiegabili, le punizioni che gli inflisse il regime littorio? E lui, Benelli, fu un vero antifascista?Un’aria enigmatica lo circonda. La si respira anche in una pagina che Giuseppe Bottai, ex pleni-

potenziario della cultura fascista, gli dedicò nel suo Diario 1944-48, a fascismo sepolto. «Un’altravittima letteraria», egli scrive, «Sem Benelli. Che ha raccontato le sue disavventure nei vent’anni.Con qualche ragione, bisogna riconoscerlo, di più che non gli altri. Ci s’accanì su di lui, fino a cir-confonderlo di un’aria di martirio». Ma com’era politicamente, secondo Bottai, il drammaturgo diPrato? «Non fascista», è la risposta. «Mussoliniano». E qui una spiegazione: «Egli appartenne a quelgenere pericoloso d’antifascisti che, in odio a un fascismo dichiarato in dottrina e attuato in con-creta e conseguente politica, più concorsero, certo senza volerlo, ma taluni con una punta di mali-zia, a fomentare il mussolinismo». Un brano di prosa involuta che approda tuttavia a una conclu-sione precisa: personaggi come lui «davano ragione a Mussolini contro il fascismo». L’accusa è didoppiezza. Per sua natura, d’altronde, l’autore della Cena delle beffe «era senza dignità, da far so-spettare che i suoi personaggi più autobiografici fossero i Giannettacci, che abbondano nei suoidrammi».

Mussolini, destinatario di tanto amore da parte del commediografo, non sempre ricambiò. A Be-nelli lo legò una costante ambivalenza di sentimenti. In origine — così si racconta — ne ammiravae quasi invidiava l’attitudine letteraria per le scene madri. Tanto che in una tarda notte del 1910, difronte ai propri genitori che ne osteggiavano l’unione con la diciassettenne Rachele Guidi (la futu-ra donna Rachele), egli, ancora fervido socialista, minacciò di ammazzare la ragazza e di suicidarsiseduta stante se essi avessero ritardato il consenso. In un suo libro, Antonio Spinosa fa risalire l’a-troce quadretto all’influsso della Cena delle beffe, alla cui rappresentazione i due fidanzati avevanoappena assistito nel teatro di Forlì. Supposizione forse un po’ arbitraria.

Lo è certo di meno il ricordo che del rapporto Mussolini-Benelli conservava Cesare Rossi, ex ca-po ufficio stampa della Presidenza del Consiglio, implicato poi nel caso Matteotti e autore d’un ce-lebre memoriale contro il Duce. Benelli, egli scrive, suscita la «particolare attenzione» del capo fa-scista per «i suoi insigni meriti di fortunato autore» e «il suo fervore patriottico», ma soprattutto per-ché «posa a rivale di D’Annunzio, che nel 1924 è ancora in vena di antifascismo».

Senonché, una volta rivelatosi D’Annunzio fascista a tutti gli effetti, un consistente motivo di con-senso del dittatore verso Benelli sarebbe svanito. Ipotesi plausibile. Invano lo scrittore paragonò ilDuce a Napoleone, lo definì «genio in cima a una piramide» o addirittura «Dio in terra» e sostenneche, a parte lui, nel Secolo Ventesimo non si vedevano «che tenebre»: motivo per il quale era natu-

rale che gli venisse affidato «il compito maggiore del mondo moderno». Niente da fare: Mussoliniaveva smesso di ammirarlo. Il dittatore — riferisce Galeazzo Ciano nel suo diario in data 21 maggio1938 — «critica l’arte di Sem Benelli, che consiste nel mettere in pubblico la parte deteriore dell’u-manità. “In ogni casa c’è un cesso e tutti lo sanno. Ma non per questo lo si mostra all’ospite, quan-do viene a far visita”».

Anche in quest’ottica va visto il diniego, da parte del capo del regime, di accogliere il dramma-turgo fra gli «accademici d’Italia». Al riguardo, Mussolini si mostra irremovibile. «Quante recrimi-nazioni da parte di teatranti, critici e attori», racconterà, «per il mio perenne rifiuto di inglobare nel-l’Accademia Sem Benelli. Ma neanche il suo essersi arruolato volontario per l’Africa Orientale miha convinto della sua improvvisa fedeltà al fascismo».

Favori di altro tipo gli vengono concessi. Benelli figura, infatti, tra gli intellettuali e giornalisti cheil regime sovvenziona. Causa o pretesto dell’elargizione, le spese che lo scrittore affronta per i re-stauri nella villa di Zoagli (Genova) dove vive. Benefici che coesistono — paradosso solo apparenteper chi abbia qualche pratica dei regimi totalitari — con ogni sorta di angherie a suo danno. Agentidell’Ovra ne sorvegliano le mosse negli stabilimenti della Cines che frequenta per lavoro. Si indagasui suoi viaggi («impedirgli passaggio di frontiera», prescrive un ordine di polizia nella primaveradel ‘39). Fino ai provvedimenti più drastici. Per lui, come per altri «reprobi», si dispone «l’immedia-to ritiro della circolazione delle opere a stampa» e si vieta ai giornali di farlo collaborare. Siamo nelgennaio del ‘45. A un passo dalla catastrofe.

Ma è il “dopo” di Sem Benelli a prolungarne la parabola politica in un modo che apparirà, insie-me, coerente e paradossale. Nel concedere la propria firma, in vista del 18 aprile 1948, all’“Alleanzaper la difesa della cultura” (una sottocategoria del Fronte democratico popolare), egli si lancia inuna emozionata apostrofe: «Aderisco al vostro Fronte incandescente», scrive fra l’altro, «perché ilfuoco purifica e fluidifica». Continua: «Vi aderisco essendo e volendo essere sempre italianissimo,non balcanico, ma nato sulle rive della Toscana, dove l’aria è in perenne vibrazione». E così con-clude: «Aderisco con piena libertà di libertario». Motivazioni probabilmente sentite, dato il perso-naggio. Non però tali da commuovere tutti gli spettatori. Non se ne lasciò suggestionare, per esem-pio, Carlo Levi, uno degli intellettuali più in vista del disciolto Partito d’Azione, oltre che celebre scrit-tore. L’autore di Cristo si è fermato ad Eboli rivelò ai giornali d’aver ritirata l’adesione al Fronte, do-lendosi di figurare nella stessa lista dei firmatari insieme a Sem Benelli, «trombone fascista».

La traiettoria etico-politica del drammaturgo si sarebbe forse ancora evoluta, chissà con qualeultima catarsi. Il suo tempo, però, era scaduto. La morte lo raggiunse nel dicembre del 1949, troppopresto per consentirgli di interpretare un ruolo consistente, secondo il suo stile, nella nuova Italia.

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i saporiGastro-scommesse

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 SETTEMBRE 2008

La prova

del cuoco

Chilo vuole all’onda e chi sgranato; chi amail minimalismo gustativo — si deve senti-re soprattutto il riso! — e chi si sdilinqui-sce per le mantecature barocche; chi losceglie come piatto unico — gli inossida-bili dell’ossobuco con risotto — e chi ec-

cede apposta nelle dosi per aver la scusa di rielaborarloal salto. E poi i colori. Non c’è alimento che possa van-tare un tale arcobaleno: dal bianco più candido al neropiù cupo, passando per il giallo e il rosso. Una cromati-cità splendente, che le ricette hanno il potere di molti-plicare, grazie ai cento ingredienti pronti ad avvolgere ichicchi in un abbraccio polisensoriale. Occhi, naso epalato si beano di tanta bontà.

Il risotto è croce e delizia di quanti praticano i fornel-li, fiore all’occhiello e punto di non ritorno per genera-zioni intere di spadellatori dilettanti, aspiranti profes-sionisti, cuochi di lungo corso. Non c’è ricetta che evitial suo esecutore una rabbrividente miscellanea di sen-so della sfida e giustificato timore. Perché il riso è prota-gonista dell’attimo fuggente: basta un’esitazione, unmestolino di brodo mal calcolato, e il guaio è fatto.

Certo, anche la pasta obbliga a surplus di attenzioni.Ma la diffusione dei marchi artigianali ha creato mag-gior confidenza con la cottura di paccheri e pennette:basta scolare con qualche attimo di anticipo e rifinire inpadella per la consistenza perfetta. Il risotto, invece, ècrudelmente selettivo: a volte, il solo tragitto dal pianodi lavoro al piatto risulta esiziale. Perfino le ricette di re-cupero sono scandite dal tempo: per realizzarle biso-gna che il composto si sia raffreddato e rassodato natu-ralmente, altrimenti l’arancino s’affloscia, il tortino alsalto si sfalda, e addio alle star della cucina di avanzi.

Allo stesso modo, gli dei della cucina maledicono chicerca scorciatoie come l’utilizzo di risi parboiled,che —vetrificati da una super-termizzazione — non possonoscuocere (da cui l’utilizzo nelle insalate). Ma l’impossi-bilità di assorbire i liquidi impedisce ai condimenti diamalgamarsi, comandamento primo di un buon risot-to. Così, la cottura “al dente” sta alla mano del cuoco co-

me l’ultima pennellata del pittore che regala splendorealla tela o la condanna alla mediocrità. Ma il risotto per-fetto più che una questione di tempo è una scelta filo-sofica. Perché ogni passo è segnato da una scelta. A par-tire dalla qualità dei chicchi: meglio il poderoso Carna-roli o il piccolo, elegante Vialone Nano? In realtà, l’ec-cellenza di entrambi si differenzia in maggior tenutaper il primo, miglior assorbimento per il secondo. Chiama il lieve scricchiolio dei chicchi sotto i denti sceglieCarnaroli, mentre i “vialonisti” sono irretiti dalla raffi-nata setosità che seduce il palato.

La Grande Sfida non finisce qui. Soffritto iniziale osemplice tostatura? Olio o burro? Brodo o acqua? E qua-le brodo: manzo, gallina, pesce, verdure? Mantecaturao parmigiano a parte? Le discussioni sono infinite, cosìcome la cura maniacale dei dettagli. Tra i campioni deirisotti, Giancarlo Morelli boccia il vino nei risotti orto-lani perché lascia un fondo metallico; Paolo Loprioreestrae gli ingredienti della preparazione e li reinseriscesotto forma di aria,spray e liquidi soavi; Gualtiero Mar-chesi a volte sostituisce il brodo con l’acqua per esalta-re il sapore dei chicchi.

Se volete affrontare il cimento, scegliete un buon ri-so coltivato senza pesticidi, che trasformano le risaie indistese di acqua morta, abbinatelo a ingredienti di qua-lità, sommate i piccoli grandi trucchi degli chef, e lan-ciatevi. Alla peggio avrete di che dispensare tortini esformati per i giorni a venire. Ma se riuscirete nell’im-presa, entrerete nell’Olimpo dei Grandi Risottieri e gliamici vi faranno la ola.

Il vercellesePiero Rondolinoproduce risoCarnaroli bio:

il riso “Acquerello”,stagionatoper migliorareconsistenzae assorbenza dei sughi,è amatissimodai grandi chef

Nel borgo sulle collinedell’Oltrepò, grandeè la tradizione risottieraOltre alle ricettedello stellatoEnrico Bartolinide “Le Robinie”(il “rape rossee gorgonzola”vale il viaggio),imperdibili i risottidi Mario Musoni,con carta dedicata

DOVE DORMIRELOCANDA MONTESCANOVia Montescano 61Tel. 0385-61344Camera doppia da 85 euro,colazione inclusa

DOVE MANGIAREAL PINOVia Pianazza 11 Tel. 0385-60479Chiuso lunedì e martedì,menù da 40 euro

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LICIA GRANELLO

Montescano (Pv)

Ugo Alciati e SavinoMongelli dirigonola cucina di “Guido”,il ristorante dell’Agenziadi Pollenzo, sededell’Universitàdi ScienzegastronomicheTra i piatti più golosi,il magnifico risottomantecatocon anguilla e limonidi Amalfi caramellati

DOVE DORMIRECARPE NOCTEM ET DIEMVia Amedeo di Savoia 5 Tel. 339-1019233 (con cucina)Camera doppia da 80 euro,colazione inclusa

DOVE MANGIAREGUIDO (con camere)Via Fossano 19 Tel. 0172-458422Chiuso domenica,menù da 50 euro

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Pollenzo (Cn)

itinerari

la fieraDal 12 settembre

al 5 ottobre, seconda edizionedi Risitaly a Isola della Scala,

Verona, cuore della piana dovesi coltiva il Nano Vialone VeroneseIgp, unico riso in Italia identificato

dall’indicazione geograficaprotetta. Tra le curiosità, i menù

realizzati da grandi chef,con il riso protagonista

dall’antipastoal dolce

All’onda o sgranato, mantecato o con parmigiano a parte,base Carnaroli o Vialone Nano, di colore bianco, nero,giallo, rosso, verde... Non c’è piatto che possa vantaretanta varietà di ricette e tale arcobaleno cromatico:la classica croce e deliziadi chiunque pratichi i fornelli

Repubblica Nazionale

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PrimaveraDagli asparagi alla zucca,gli ortaggi sono amicidei risotti. Nei più fini,doppia cottura separata:metà verdura sbollentatae aggiunta durantela preparazione del riso,metà spadellatae mescolata alla fineNiente vino

Foglia d’oroEtica ed esteticasecondo GualtieroMarchesi. Il risotto,senza soffritto iniziale,si manteca con un burroacido, preparatoriducendo cipolla e vinobianco insieme al burroRifinitura con una fogliad’oro commestibile

Midollo alla piastraNel locale a pochi passidalla Madunina, a Milano,Carlo Cracco offre la suaversione rivoluzionariadel risotto alla milaneseIl midollo, esclusodagli ingredienti iniziali,trionfa sul riso gialloin forma di medaglionecotto alla piastra

GialloCipolla, burro e midollofanno da base al riso,bagnato con poco vinoe tirato a cotturacon brodo di manzoo gallina (anche insieme)Prima di fine cottura,zafferano in polvereo pistilli. A fuoco spento,burro e parmigiano

BiancoNel risotto base, cipollatritata e fatta appassirecol burro (versione lightcon l’olio), riso tostatoqualche minuto, bagnatocon mezzo bicchieredi vino, portato a cotturaversando brodoMantecatura con burro,parmigiano a piacere

Zuppa di pesceIl bergamasco ChiccoCerea (“Da Vittorio”) tirail risotto con un fumettodi pesce. Lo stessobrodo viene “sferificato”e appoggiato sul riso,così che, una volta incisala superficie, possairrorare anche i fruttidi mare appena scottati

LiquiriziaMassimiliano Alajmoha scoperto similitudinitra i pistilli di zafferanoe le radici di liquiriziaÈ nato così un classicode “Le Calandre”:il tradizionale risottogiallo viene impreziositodalla polvere amarognolae rinfrescante

CaldofreddoCreazione di GiancarloPerbellini, a Isola Rizza,Verona. Il risotto caldo,mantecato al finocchio,viene arricchitoda una emulsione freddadi pomodoro crudoall’olio. Il contrastodi temperature esaltai gusti di riso e verdure

NeroAglio e cipollacon extravergine, seppietagliate in piccoli pezzi,vino bianco e salsadi pomodoro a piacere,insieme alla vescichettadel nero. Il riso si tiracon fumetto o acquaNella ricetta fiorentina,bietole e parmigiano

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 7 SETTEMBRE 2008

Il risotto alla milanese (“el risott gial cunt el safran”) deve lasua fama alla popolarità del suo ingrediente principale (le ri-saie non sono lontane da Milano), alla semplicità e alla faci-

lità della preparazione. Facilità? Così sembrerebbe, ma in effet-ti la sua buona riuscita dipende fondamentalmente dalla preci-sione e sensibilità gastronomica del cuoco (professionista o “ca-salingo”) che se ne occupa.

Come in tutta la cucina, la parte più importante non è la ricet-ta in sé, ma la cura che si mette nello scegliere i prodotti, lo “sti-le” con il quale si manipolano e i tempi di cottura. La sua prepa-razione è quindi, sì, semplicissima ma proprio per questa ragio-ne deve rispettare rigorosamente i principi fondamentali dellatecnica culinaria, i tempi e le temperature, la scelta della qualitàdel riso (non tutti i risi sono adatti a farne dei risotti), l’uso dellozafferano e la tempistica del suo inserimento nel riso; tutte coseche si sanno, ma che spesso non vengono osservate.

Quando ero ragazzo i risotti sapevano sempre di formaggio.Ero a Berlino, a una cena con Emil Jung, tre stelle alsaziano,

buon amico, e si discuteva naturalmente delle cucine dei nostripaesi. Parlando di “acidità”, mi disse: certo che voi risolvete ilproblema dell’acidità con due prodotti, il pomodoro e il parmi-giano. Aveva ragione! Perché il parmigiano è alto di acidità e perquesta ragione in Italia si utilizza universalmente questo for-maggio. Ricordo che da ragazzo si metteva il parmigiano anchesulle verdure cotte: una bella grattata sugli spinaci li rendeva an-cor più appetitosi. E quando non c’è il formaggio, c’è il pomo-doro; se non tutti e due. Lavorando in Francia avevo poi matu-rato una riflessione: in quella cucina si faceva molto uso del“burro acido”, preparato cuocendo prima la cipolla, con vinobianco o aceto, lasciandola intiepidire, per aggiungere poi delburro. Nella cottura della cipolla, la parte alcolica del vino bian-co o dell’aceto, se ne va, e rimane la parte acida; il burro così pre-parato (beurre blanc o beurre Nantese) si utilizza come condi-mento.

Ne consegue che, se manteco il risotto con questo burro aci-do, non ho più bisogno di mettere troppo parmigiano. Faccio to-stare semplicemente il riso nel burro, in modo che resti al den-te, e quando è ben tostato lo spruzzo con un po’ di vino bianco,in modo di fargli assorbire un po’ di acidità già all’inizio dellapreparazione. Segue un’operazione che ho visto fare da un cuo-co inglese: lo salo, come del resto si salano il pollo, la carne, il pe-sce, vincendo, debbo dire, la mia meraviglia per tale operazio-ne. D’altra parte poi saliamo il brodo, e allora perché non salaresubito anche il riso? Riassumendo, quindi: quando si è tostato ilriso, mantenendolo al “dente”, e lo si è salato, lo si mescola, lo sibagna con il brodo e, cuocendolo, si aggiunge lo zafferano.

A proposito della cottura “al dente”: il “dente” vero è quandoil riso non è crudo all’interno ma, se è stato tostato bene all’ini-zio, ha potuto mantenere naturalmente questa durezza in-confondibile, come nella pasta al dente che non trattiene l’ami-do all’interno ma, essendo di grano duro, quando è cotta al pun-to giusto rimane al dente. Il dente vero quindi è questo, nonquando rimane il bianco dentro. Al termine della cottura il risodovrà essere leggermente cremoso, ovvero “all’onda”. Questacremosità è data dalla leggera fuoruscita dell’amido di riso du-rante la cottura. A questa cremosità si aggiungerà un pizzico diformaggio e un poco di burro: e questo è il risultato del risotto.Così si esaltano i profumi di tutti i componenti e si evita che tut-ti i risotti sappiano solo di parmigiano.

Così ho sconfittoRe parmigiano

GUALTIERO MARCHESI

In una delle capitalidello sci alpino, NorbertNiederkofler applicala sua massima:chi segue i dettamidella naturanon ha bisogno di ricetteCosì è riuscitoa coniugare raffinatezzadel risotto mantecatoe profumoinebriantedel pino mugo

DOVE DORMIRECIASA ROBYStrada Micurà de Rü 67 Tel. 0471-849525Camera doppia da 70 euro,colazione inclusa

DOVE MANGIAREST. HUBERTUSStrada Micurà de Rü 20Tel. 0471-849500Chiuso martedì,menù da 70 euro

DOVE COMPRARECAPRIZEVia Col Alt 96Tel. 0471-836162

San Cassiano (Bz)

i classici i creativi

Al saltoRiciclo del risottoavanzato grazie a pocoburro e alla padellaantiaderente (o di ferro),in cui viene rosolatoe girato come unafrittatina. Nella ricettadedicata a Gianni Brera,il risotto di partenzaè con salsiccia e fagioli

Repubblica Nazionale

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le tendenzeScienza & arte

Nelle case si diffondono giganteschiquadri neri. Televisori, sempre piùgrandi e sempre più sottili, conschermi fino a 150 pollici (381 centi-metri), sottili fino a 9,9 millimetri. Lecappe aspiranti diventano anche

climatizzatori (l’ha fatta Faber) e troneggiano nel-le cucine come lucidi totem. Le videocamere assu-mono forme sinuose, colorate, capaci di passareindenni nell’acqua e nella sabbia. Sinuose anchele lampade, per esempio PizzaKobra progettata daRon Arad per iGuzzini, che si alza sulle proprie spi-re come un serpente. Amplificatori per lo stereo si-mulano la forma di antichi grammofoni ma, nel lo-ro bianco corpo in ceramica, celano raffinateperformance. Tavoli avveniristici integrano pan-nelli solari e garantiscono ininterrotta energia alpc e al cellulare anche in giardino.

Prestazioni, forma e funzione si articolano insie-me per oggetti tecnologici dall’imprevedibile po-tere seduttivo, talismani che non solo animano lenostre case ma ci accompagnano ovunque: com-puter portatili, cellulari, lettori mp3. Sul design de-clinato in tecnologia alcuni hanno costruito la lorofortuna. Per esempio grandi aziende come la Ap-ple, che continua a produrre irresistibili oggetti deldesiderio, dal McBook Air all’iPhone; ma anche in-gegneri come James Dyson (accanto la sua testi-monianza) che, dopo aver rivoluzionato l’aspira-polvere sostituendo il tradizionale sacchetto condue camere cicloniche che non si ostruiscono conla polvere, si è dedicato alla lavatrice inventando laprima con due cestelli, e ora fa di tutto per pro-muovere il matrimonio fra design e tecnologia.

Matrimonio che potrebbe sembrare un fatto re-cente. In effetti, i progressi della rivoluzione indu-striale, mentre offrivano la possibilità di produrrein serie una quantità sempre più elevata di oggettia un costo sempre minore, imponevano di otti-mizzare i modelli produttivi. Questo ha inizial-mente fatto sparire tutto quello che non era stret-tamente necessario alla funzione che l’oggetto do-veva svolgere. In sostanza, agli oggetti veniva sot-tratto ogni decorazione e orpello.

Eppure la tecnologia ha subito offerto oggetti cuioggi riconosciamo il segno, il valore stilistico pro-prio del design, almeno nel significato che soprat-tutto noi italiani attribuiamo a questa parola an-glosassone, ovvero di sintesi fra bellezza e funzio-ne. Addirittura, molti studiosi, tra cui un pensato-re eclettico come Vilém Flusser, fanno nascere lastoria del design industriale proprio con l’affer-mazione della produzione seriale sull’artigianato.Dice per esempio Flusser in Filosofia del design,edito in Italia da Bruno Mondadori: «La culturaborghese moderna ha operato una netta separa-zione fra il mondo delle arti e quello della tecnica edelle macchine; così la cultura è stata rigidamentescissa in due rami che si escludono a vicenda: quel-lo scientifico, quantificabile e “duro”; e quello ar-tistico, qualificativo e “morbido”. Questa deleteriasuddivisione ha iniziato a diventare insostenibileverso la fine del Diciannovesimo secolo. La paroladesign si inserì nella breccia e andò a formare unponte fra le due branche. Ciò è stato possibile per-ché il termine esprime una connessione fra arte etecnica. Per questo in epoca contemporanea desi-gn indica grosso modo il luogo in cui arte e tecnicavengono di comune accordo a coincidere».

AURELIO MAGISTÀ

DesignHi-tech

Televisori come quadri, amplificatorivintage, videocamere e lampade dalle spiresinuose. Sempre di più l’industria puntaa sposare l’anima “dura” delle macchinecon le forme “morbide” rubateal mondo della creatività

OSCURI SEGRETIBianco alla luce,Mr Hyde rivela al buiodecorazioni fosforescentiDi SerralungaDomani, sul sitocasa.repubblica.it,una ricca fotogalleriasul design hi-tech

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 SETTEMBRE 2008

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I totemdell’utilema bello

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Punto primo, funzionareEcco il mio aspirapolvere

JAMES DYSON

POSIZIONE RELAXAssume diverseposizioni il letto

Groove, che integrasistema audio

a 150 wattDi HollandiaInternational

LUCE ECLETTICALampada a sorpresa:la apri e rivelauna postazioneper pc e hi-fio altri oggettiÈ Angel di Naos

SOTTO IL MAREPesa solo 200 grammila fotocameraSanyo Xacti CA8,per immersionifino a 1,5 metri

Un prodotto è bello davvero soltanto se funziona come si deve. Ti disamori in fretta di qualcosache è bello a vedersi ma che non svolge il compito per il quale è stato creato. Per questo, secon-do me, ingegneria e design vanno di pari passo. Prendete per esempio l’aspirapolvere, un og-

getto che conosco piuttosto bene. Ero frustrato dall’inefficienza del mio aspirapolvere e irritato da co-me i produttori prendessero in giro la gente continuando a vendere aspirapolvere col sacchetto, chesi otturavano e non funzionavano. Doveva esserci un modo migliore.

Mi ci sono voluti quindici anni, 5.127 prototipi e sangue, sudore e lacrime in gran quantità per per-fezionare il primo aspirapolvere senza sacchetto e che non perde aspirazione. E a dieci anni di di-stanza, gli ingegneri della Dyson continuano a lavorare per affinare sempre di più la nostra tecnolo-gia. Molti considerano i nostri aspirapolvere belli. Sono stati giudicati un classico del design e sonoesposti in musei di ogni parte del mondo. Ma non è questo che mi entusiasma. La soddisfazione vie-ne dal fatto che questi aspirapolvere fanno davvero il lavoro che dovrebbero fare. Perché un bel desi-gn non è fatto di un’elegante confezione: un bel design è fatto di quello che c’è sotto alla superficie, latecnologia che c’è dentro.

Un oggetto di uso quotidiano come la macchina per espresso Achille Gaggia, del 1938, è un validoesempio. Il suo elegante aspetto cromato, diventato un’icona, ha fatto diffondere in tutto il mondo lamoderna cultura italiana del caffè, ma non è un prodotto estetico. Gaggia era un ingegnere che vole-va semplicemente trovare un modo per realizzare il caffè migliore possibile. Il segreto del suo succes-so sta nel sistema di pistoni a molle, che spingono l’acqua ad alta pressione attraverso la polvere dicaffè finemente macinata collocata dentro a un filtro. La macchina per espresso eliminò la necessitàdel vapore, che produceva un’infusione di qualità molto inferiore. È un esempio eccellente di comela funzione dovrebbe sempre venire prima della forma. L’aspetto è una felice coincidenza.

Sono talmente convinto che il design non possa prescindere dall’aspetto ingegneristico che qual-che anno fa mi dimisi dalla carica di presidente del Museo del design di Londra. Ritenevo che i cura-tori del museo non dessero il giusto riconoscimento a quegli ingegneri che risolvono problemi quo-tidiani sviluppando tecnologie innovative. Si tendeva a dare la preferenza all’estetica superficiale. Nelmomento in cui presentai le mie dimissioni, stavano organizzando una mostra per celebrare Con-stance Spry, la decoratrice floreale inglese degli anni Cinquanta, ma continuavano a ignorare un’in-dustria su cui molti paesi hanno costruito il loro successo. Achille Castiglioni, Fiat, Rolls Royce e Isam-bard Kingdom Brunel: la lista degli eroi del design è interminabile.

Da allora, però, il Museo del design è migliorato tantissimo e recentemente ha organizzato una mo-stra intitolata Design per meno di cinque sterline, una vera e propria celebrazione della progettazioneingegneristica e del ruolo fondamentale che essa interpreta nella vita di tutti i giorni. Erano esposti og-getti a basso costo, che avevano un’importanza che andava al di là del loro prezzo: tra questi, una bot-tiglietta spray dagli Stati Uniti, un vaso di fiori di plastica dal Giappone e un accendino Bic dall’Italia.

I progettisti sono i veri eroi misconosciuti che stanno dietro a grandissima parte della nostra vitaquotidiana: hanno creato la sedia su cui state seduti e la stampatrice che ha realizzato questo quoti-diano. E il futuro è nelle loro mani: pensate allo sviluppo di pannelli solari, centrali eoliche e macchi-ne elettriche. Sono molto rincuorato nel vedere che in Italia, in controtendenza col resto del mondo,sta aumentando il numero di giovani che scelgono di studiare ingegneria. Da parte mia, continueròa fornire supporto alla nuova generazione di progettisti attraverso la James Dyson Foundation, il brac-cio filantropico della Dyson. Organizziamo progetti come il James Dyson Award, un premio interna-zionale per studenti di progettazione, e stiamo cercando di costruire una scuola di progettazione. IGalileo del futuro sono là fuori da qualche parte, e meritano di essere celebrati.

Traduzione di Fabio Galimberti

SPAZIALELa lampada Itis

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PIANO ENERGETICOTavolo multimedialea energia solareDi Intelligence Forms

SPORT ACQUATICICustodiada i-phoneimpermeabilefino a tre metri:H2OAudio

ASPIRAZIONIDC22 AllergyParquet di Dysonè per chi soffredi allergie. Ruotemorbide da parquet

COMFORT IN FORMASurfchairè una postazionemultimedialeergonomicaDi Kenneyh Lylover

VINO AL FRESCOLa cantinetta di Hooverè illuminata a led, lucefredda che non ne alterala temperatura interna

TELEFONO ALLA GUIDASi chiama Minikit Slimil viva voce Bluetoothdi Parrot, con comandovocale e audio di qualità

SCATTI ESTREMIOptio W60di Pentaxpuntasu robustezzae tenuta stagna

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 7 SETTEMBRE 2008

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Repubblica Nazionale

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48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7 SETTEMBRE 2008

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‘‘l’incontroDonne di punta

scherma da Andrea Magro. L’attualecommissario d’arma del fioretto la videper la prima volta a otto anni: «Dimenticatutto quel che sai», le disse. Al resto hapensato lui fino a quando Margherita hacompiuto vent’anni. La campionessacresce nella palestra dello Stadio Friuli,casa dell’Udinese calcio. «Le dovevi spa-rare per fermarla», ricorda ora Magro,«veniva da una buona famiglia, ma sem-brava nata per strada. Le davi una rac-chetta e giocava a tennis, una bici e face-va ciclismo, altrimenti correva. Una forzadella natura: avrebbe potuto emergere intantissimi sport».

Margherita sceglie la scherma. Senzatentennamenti. La leggenda vuole che aispirarla siano i cartoni animati di LadyOscar. Spadaccina nella Francia di MariaAntonietta, donna piena di passione co-stretta dal padre a comportarsi come unuomo. Determinata, severa, idealista.Qualche tratto si riconosce in Lady Mar-gherita, che però ride spesso, prende la vi-ta «come se la bottiglia fosse sempre mez-za piena».

Ma l’ombra della famiglia, solida, rigo-rosa, triestina, si avverte: la ricerca dellaperfezione è incessante e non lascia unattimo di tregua. «Dicono che sono bella,ma ho dei capelli da strega». Ma come?«La mia casa è in un disordine perenne»,si lamenta, ma forse il disordine Marghe-rita non sa nemmeno cosa sia. La sua ca-sa, due piani nel cuore antico di Narni,terrazza sulla campagna dolce dell’Um-bria, è piena di bellezza. Non solo la sua,che già basterebbe, ma anche l’arreda-mento, le porte di legno scolpito, i piattidecorati, la tv che sbuca da una mela ver-de sono pennellate di gusto. Solo un anti-pasto di quel che Lady Margherita ha ap-peso alle pareti. Poster incorniciati di mo-stre, le mostre d’arte che l’appassionanosin da quando era bambina, «e mio pa-dre, il vero intenditore di famiglia, noncome me, mi accompagnava in tutti i mu-sei. Quando vado a una mostra comproposter e catalogo, ma mi rifornisco anchenei mercatini, una delle mie passioni». Inordine sparso, ecco Marcello Dudovichal Museo del barone Revoltella a Trieste;l’esposizione Tra Picasso e Dubuffet dipalazzo Bricherasio a Torino; l’austerocartellone della rassegna Libri stampatidal secolo XV alla fine del secolo XVIII. Poiil surrealismo di Delvaux tra Magritte e deChirico, e ancora de Chirico a Palazzo Za-barella di Padova. Non è un caso, «de Chi-rico diceva che un quadro non va spiega-to, e io non tento nemmeno di spiegareperché lui sia il mio artista preferito: so so-lo che molte figure che rappresenta mi af-fascinano, soprattutto il manichino che èpreponderante nella sua pittura. Mi col-piscono i colori, il contrasto tra classico emoderno. La sua mostra a Padova è la piùbella che abbia mai visto. Mi sarebbe pia-ciuto disegnare, ma ho capito presto chenon era la mia strada. Mi diletto con le ca-ricature: porto sempre un blocco e unapenna con me, quando vedo una perso-na che mi ispira la interpreto a modo mio,poi strappo il foglio e lo butto via. Magari

bassi chiedeva il numero di telefono a Jo-sefa Idem per lavorare su nuove iniziati-ve: «Mi piacerebbe fondare nel mio pic-colo un’associazione dedicata a questotema, che mi sta accompagnando daquando sono finite le Olimpiadi».

Tutto questo vortice di diritti umani epittura, fioretto e libri consumati («sonoal terzo tentativo di leggere Il Maestro eMargherita») lascia in secondo piano leragioni per cui Margherita Granbassi erafamosa anche prima delle Olimpiadi. Mai motivi della sua celebrità extrasportivasono sempre lì, non perdono consisten-za, anzi. Mezza Italia si chiede come un’a-tleta così bella sia ancora single, libera,sola, dipende dai punti di vista. Una con-dizione che, tra un gossip e l’altro, la ac-compagna da quando s’è lasciata conFrancesco, che è di qui, di Narni, «anchese non abbiamo mai diviso la stessa casa,io ho vissuto sempre da sola». EbbeneMargherita? «Sono una romanticona,anche se credo che in un rapporto di cop-pia non si debba essere dipendenti. Biso-gna amarsi al di là della necessità di stareinsieme. Vivere da soli è importante perconoscersi: non si sta bene con gli altri fi-no a quando non si sta bene con se stessi.La solitudine fa male solo quando non èvoluta».

A Margherita piace Matteo Marzotto,che ha conosciuto a Pechino. Il look di La-po Elkann la affascina. «Sto cercando unuomo così forte da dimostrare di poter es-sere debole». La ricerca non durerà a lun-go, se è vero che lei è una delle donne piùapprezzate d’Italia. Con quella bellezzanaturale e selvaggia che deriva anche dal-la vita sportiva: «Essere bella non è un me-rito mio, ma dei miei genitori, non mi sen-to realizzata per un complimento in più.Noi sportivi abbiamo la fortuna di prati-care qualcosa che fa bene al fisico, manon abbiamo molto tempo per dedicarcial nostro corpo. Non sono molto attentaa messe in piega, creme, trucchi. Per que-sto sogno sempre qualcosa di semplice especiale al tempo stesso: una settimanadi benessere, una vacanza in cui farmimassaggiare e coccolare».

le poche caricature rimaste un giornovarranno un sacco di soldi…».

Già si intravede qualcosa, si compren-de perché sia stata lei a scuotere il torpo-re di tanti atleti in Cina. Margherita ha ri-vestito la sua casa di Narni come se do-vesse viverci per sempre, ma questa si-tuazione, spiega, è solo un passaggio.«Questo è il mio rifugio, la mia base, per-ché a un passo da qui, a Terni, lavora ilmio maestro Giulio Tomassini. Questestanze mi rappresentano alla perfezioneperché c’è un gran disordine. Mi piace ac-cendere il fuoco d’inverno, nel mio belcamino. Mi rilassa cucinare qui, sonouna che sperimenta e non va spesso al su-permercato, quindi sfrutta la sua creati-vità con quel che c’è in dispensa. Ma que-sta non è la casa della mia vita».

Margherita è donna di frontiera, pron-ta ai cambiamenti, agli incroci. Si trovabene ovunque, è appassionata di cucinaetnica. «Mi sento triestina nel profondo,nella mia città vorrei tornare a vivere. Mimancano i diversi volti della mia regione,il mare, ma anche il Carso. Siamo un cro-cevia tra popoli, il nostro sangue è misto,anche se il cuore batte nell’Europa cen-trale. Essere triestini significa adattarsi atante situazioni». Suo nonno era un trie-stino famoso, gli avevano pure intitolatouna via. «Non l’ho mai conosciuto, mi so-no arrivati solo i racconti su di lui. Ma Ma-rio Granbassi già negli anni Trenta erauna sorta di personaggio multimediale,si occupava di radio, carta stampata, cu-rava un giornale per bambini. La polie-dricità è un valore che affascina ancheme. Mio nonno partì volontario giova-nissimo per la guerra di Spagna, con duebimbi piccoli: erano scelte che si faceva-no in un periodo molto diverso, più idea-lista di quello attuale. Cadde nel ‘39, èseppellito nel cimitero di Saragozza doveriposano esponenti delle due fazioni».

La campagna per il Tibet è nata tra que-ste mura e il palasport dove si sono di-sputati i Mondiali di San Pietroburgo nel2007. «Già lo scorso anno le domande deigiornalisti erano insistenti, ma io sapevopoco o niente. Mi sono documentata, hoscoperto una situazione disperata cheemergeva grazie allo sport, alle Olimpia-di. Quando mi hanno chiesto se fossi di-sposta a boicottare i Giochi di Pechino, ioho risposto che se fosse servito a qualco-sa avrei rinunciato. Una volta giunta inCina, sembrava che qualcosa fosse cam-biato, nessuno chiedeva più niente, maappena tornata in Italia è arrivata quellanotizia sulla repressione in Tibet. Hopensato a quando avevo gioito per le me-daglie, non è che mi sono sentita in colpa,ma è un po’ come se fossi mancata al-l’appello. Noi atleti non siamo supereroi,e nemmeno esperti di politica. L’unicacosa che possiamo fare è comunicare, fa-re in modo che non si dimentichi questodramma: così ho pensato alla maschera,un simbolo di protezione, e non al fioret-to, che è un’arma, qualcosa di inappro-priato per un popolo pacifista comequello tibetano». La campagna conti-nua, l’altro giorno al Quirinale la Gran-

Noi atletinon siamo supereroiL’unica cosache possiamo fareè comunicare,fare in modoche il drammadel Tibetnon si dimentichi

È“una forza della natura”,racconta il suo primo maestro di fiorettoLei, più cautamente, si definisceuna che prende la vita “come sela bottiglia fosse sempre mezza piena”

Triestina, bella,bellissima, singlesenza rimpianti,la campionessadi scherma era famosagià primadelle OlimpiadiDa Pechino è tornata

con qualche medaglia in più e l’impegnoa favore del Dalai Lama: “ Non voglio- dice - mancare all’appello”

MATTIA CHIUSANO

Margherita Granbassi

NARNI (Terni)

Tutto è partito così, senzapreavviso, un segnale di ri-volta, la coscienza che si ri-sveglia. «Regalerò la mia ma-

schera da scherma al Dalai Lama», unavoce che viaggia rapida dall’Italia e arrivadritta in Cina, dove gli atleti rimasti a Pe-chino stanno consumando gli ultimigiorni dell’Olimpiade. Già, il Tibet, le po-lemiche così roventi alla vigilia quanto di-menticate durante i Giochi. Perché nonricordarsene in questo modo, con un re-galo che diventa slogan, un dono simbo-lico? La maschera di Margherita Gran-bassi non è qui, nel suo appartamento nelborgo medievale di Narni. È rimasta aTrieste, a casa dei genitori, in attesa di es-sere donata, sul serio, quando gli ingra-naggi per arrivare al Dalai Lama si mette-ranno in movimento. Nel frattempo restail suo gesto, che fa proseliti, le ultime oredi Pechino sono una sequenza di cam-pioni che si associa, applaude, vuole re-galare indumenti da gara al leader spiri-tuale. «Non è feticismo sportivo», spie-gherà il canoista Antonio Rossi, il porta-bandiera, «ma un gesto simbolico sui di-ritti umani». Un successo, insomma.

Dalla sua casa Margherita entra ed escecon una velocità impressionante. Il frul-latore olimpico non s’è spento, ci sono gliimpegni con Sky, la cerimonia al Quiri-nale da Napolitano e a Villa Madama daBerlusconi, poi l’immancabile matrimo-nio di un amico. Su e giù per l’Italia, le lu-ci dell’autostrada di notte, gli autogrill, ilcavo dell’iPod che si connette, la sua mu-sica. Di Margherita Granbassi si sa tanto,quasi tutto. Campionessa del mondo,vincitrice di una Coppa del mondo di fio-retto e di due bronzi a Pechino. Bella, bel-lissima, single senza rimpianti. Ventottoanni, carabiniera, triestina. Il padre Gian-franco è titolare di un’agenzia pubblicita-ria e docente universitario, la madre Giu-seppina caricava lei e i tre fratelli in autoper portarli ad Udine, per imparare la

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