omenica FRANCO CARDINI ePAOLO RUMIZ DOMENICA...

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DOMENICA 7 OTTOBRE 2007 D omenica La di Repubblica il reportage Templari, viaggio nella leggenda nera FRANCO CARDINI e PAOLO RUMIZ la memoria Lambretta, e l’Italia si rimise in moto EDMONDO BERSELLI cultura Depero dal futurismo alla pubblicità ENRICO REGAZZONI il racconto La lunga, mortale bugia di Mata Hari PINO CORRIAS la lettura Rushdie-Pamuk, dialogo sulla patria a cura di ANTONIO MONDA spettacoli Il film a fumetti di Raymond Chandler GIANCARLO DE CATALDO GIUSEPPE VIDETTI MODENA D alle finestre dell’ultimo piano si vedono solo i tet- ti e la guglia della Ghirlandina. Nessuna brutta an- tenna, nessun segno di modernità oscena a sfigu- rare il panorama. Neanche i suoni che filtrano dal- le doppie porte delle classi allineate sui lunghi corridoi lasciano indovinare parentele con i ritmi di oggi. Violoncelli, flauti, l’acu- to di un soprano, il tasto di un pianoforte che insiste su un la, gor- gheggi, vocalizzi. E poi corni, clarinetti, oboi, frammenti di una lezione di solfeggio. Un disarticolato concerto mattutino anima il Palazzo Margherita, di fronte al Teatro Comunale di Modena che il sindaco Pighi ha proposto di intitolare a Pavarotti, sede dell’Istituto Musicale Pareggiato Orazio Vecchi. Qui il tenore, scomparso un mese fa (il 12 ottobre avrebbe compiuto settanta- due anni), teneva lezioni di canto col fido pianista Leone Magie- ra ai ragazzi del biennio superiore, quelli arrivati alla laurea, che oggi, dopo la defezione di Mirella Freni, possono ancora conta- re sull’esperienza di Raina Kabaivanska. I corsi riprenderanno regolarmente il 5 novembre, ma alle nove del mattino di un’ot- tobrata che a Ottorino Respighi avrebbe ispirato un poema sinfonico, l’Istituto è animato da un popolo invisibile di studen- ti alle prese coi propri strumenti e di insegnanti che cercano di ricucire le smagliature della lunga pausa estiva. «Questi sono ragazzi con una marcia in più», dice fiera la bi- della, mentre si avvia a fatica, tormentata dalla sciatica, lungo gli interminabili camminamenti che conducono alle aule. «Qui, sa, arrivano i migliori. Molti frequentano contemporaneamente l’università, altri lavorano, ma c’è anche chi dedica tutto il suo tempo. Sono persone speciali. E poi, senta a me, questo è un po- sto che non regala niente a nessuno». Vuol dire, lasciate ogne spe- ranza voi ch’intrate, perché quello della musica classica, dell’o- pera, è un percorso lungo, faticoso almeno quanto quello di un neurochirurgo, ma senz’altro meno remunerativo. Uno s’im- magina un piccolo mondo d’alieni sigillati dentro quelle aule da cui s’odono fili di suoni, invece nella bacheca di sughero all’in- gresso del primo piano sono appuntati messaggi umanamente rassicuranti: «Cercasi violinista e/o flautista per completare gruppo genere medievale-rinascimentale»; «Cercasi urgente- mente bassista età 14-18 per GRAN ROCK»; «Flautista diploma- to cerca pianista per duo fisso»; «Gruppo di Modena cerca ta- stierista genere reggae, hip-hop, R&B»; «Vendo piano verticale Hoffenbach color ciliegio 1000 trattabili». Insomma, chi entra e esce dall’Orazio Vecchi di musica ci capisce. «Ora bisognerà trovare qualcuno che sostituisca Luciano Pa- varotti», dice con amarezza la Kabaivanska con il suo delizioso accento bulgaro. «Non sarà facile, Luciano era… Luciano». Non era un insegnante facile, e a causa della malattia è rimasto in ca- rica appena un anno. (segue nelle pagine successive) Piccoli Pavarotti Nella scuola modenese dove insegnava Big Luciano per conoscere i ragazzi che sognano di diventare cantanti lirici crescono FOTO SIMONA GHIZZONI/CONTRASTO Repubblica Nazionale

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DOMENICA 7OTTOBRE 2007

DomenicaLa

di Repubblica

il reportage

Templari, viaggio nella leggenda neraFRANCO CARDINI e PAOLO RUMIZ

la memoria

Lambretta, e l’Italia si rimise in motoEDMONDO BERSELLI

cultura

Depero dal futurismo alla pubblicitàENRICO REGAZZONI

il racconto

La lunga, mortale bugia di Mata HariPINO CORRIAS

la lettura

Rushdie-Pamuk, dialogo sulla patriaa cura di ANTONIO MONDA

spettacoli

Il film a fumetti di Raymond ChandlerGIANCARLO DE CATALDO

GIUSEPPE VIDETTI

MODENA

Dalle finestre dell’ultimo piano si vedono solo i tet-ti e la guglia della Ghirlandina. Nessuna brutta an-tenna, nessun segno di modernità oscena a sfigu-rare il panorama. Neanche i suoni che filtrano dal-

le doppie porte delle classi allineate sui lunghi corridoi lascianoindovinare parentele con i ritmi di oggi. Violoncelli, flauti, l’acu-to di un soprano, il tasto di un pianoforte che insiste su un la, gor-gheggi, vocalizzi. E poi corni, clarinetti, oboi, frammenti di unalezione di solfeggio. Un disarticolato concerto mattutino animail Palazzo Margherita, di fronte al Teatro Comunale di Modenache il sindaco Pighi ha proposto di intitolare a Pavarotti, sededell’Istituto Musicale Pareggiato Orazio Vecchi. Qui il tenore,scomparso un mese fa (il 12 ottobre avrebbe compiuto settanta-due anni), teneva lezioni di canto col fido pianista Leone Magie-ra ai ragazzi del biennio superiore, quelli arrivati alla laurea, cheoggi, dopo la defezione di Mirella Freni, possono ancora conta-re sull’esperienza di Raina Kabaivanska. I corsi riprenderannoregolarmente il 5 novembre, ma alle nove del mattino di un’ot-tobrata che a Ottorino Respighi avrebbe ispirato un poemasinfonico, l’Istituto è animato da un popolo invisibile di studen-ti alle prese coi propri strumenti e di insegnanti che cercano diricucire le smagliature della lunga pausa estiva.

«Questi sono ragazzi con una marcia in più», dice fiera la bi-

della, mentre si avvia a fatica, tormentata dalla sciatica, lungo gliinterminabili camminamenti che conducono alle aule. «Qui, sa,arrivano i migliori. Molti frequentano contemporaneamentel’università, altri lavorano, ma c’è anche chi dedica tutto il suotempo. Sono persone speciali. E poi, senta a me, questo è un po-sto che non regala niente a nessuno». Vuol dire, lasciate ogne spe-ranza voi ch’intrate, perché quello della musica classica, dell’o-pera, è un percorso lungo, faticoso almeno quanto quello di unneurochirurgo, ma senz’altro meno remunerativo. Uno s’im-magina un piccolo mondo d’alieni sigillati dentro quelle aule dacui s’odono fili di suoni, invece nella bacheca di sughero all’in-gresso del primo piano sono appuntati messaggi umanamenterassicuranti: «Cercasi violinista e/o flautista per completaregruppo genere medievale-rinascimentale»; «Cercasi urgente-mente bassista età 14-18 per GRAN ROCK»; «Flautista diploma-to cerca pianista per duo fisso»; «Gruppo di Modena cerca ta-stierista genere reggae, hip-hop, R&B»; «Vendo piano verticaleHoffenbach color ciliegio 1000 trattabili». Insomma, chi entra eesce dall’Orazio Vecchi di musica ci capisce.

«Ora bisognerà trovare qualcuno che sostituisca Luciano Pa-varotti», dice con amarezza la Kabaivanska con il suo deliziosoaccento bulgaro. «Non sarà facile, Luciano era… Luciano». Nonera un insegnante facile, e a causa della malattia è rimasto in ca-rica appena un anno.

(segue nelle pagine successive)

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Nella scuola modenese dove insegnavaBig Luciano per conoscere i ragazziche sognano di diventare cantanti liricicrescono

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30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7OTTOBRE 2007

(seguedalla copertina)

«Se non otteneva i risultati chesi prefiggeva erano parolac-ce. Sa, noi modenesi siamopersone semplici, dirette»,conferma Liliana Forti, exdirettore del Vecchi, inse-

gnante di pianoforte e lettura delle partitureche ha ancora in cartella le schede di presenzafirmate dal maestro con l’inconfondibile calli-grafia. «Luciano mise in chiaro una cosa: dob-biamo portare i ragazzi su un palcoscenico. Dasubito», ricorda Giovanni Indulti, erudito e ca-rismatico professore di analisi e componentedel consiglio accademico. «Le lezioni, infatti, leteneva al Comunale (e più tardi, quando eramalato, a casa sua). Se ne stava seduto in fondoalla platea e da lì scrutava e guidava i giovani al-lievi. Appena tornato da New York, dopo l’in-tervento, mi chiamò: “Son qua, dove sono i ra-gazzi?”. Li volle anche a Pesaro, si annoiava invilla. Quando non otteneva quel che si era pre-fissato, diventava feroce. Ma li coccolava comebambini se seguivano i suoi consigli. Averel’approvazione di un Pavarotti non era cosa dapoco per gli studenti. Mi diceva: “Ma che staisempre lì fuori a fumare? Vien qui dentro che cimangiamo un cabaret di paste”. Già, lui esage-rava con il cibo e io con le sigarette. Una sera ar-rivò che noi si cenava con tortellini in brodo. Eraa dieta, restò a guardarci finché nei piatti non ri-mase nulla, poi se ne andò. Si lavorava, si scher-zava. Io vengo dalla frazione di Ganaceto, settechilometri da qui, ultima casa del comune diModena. Quando incontravo il maestro gli di-cevo: come state quaggiù in Africa?».

Pavarotti ha seguito con grande interesse ilpercorso finale del mezzo soprano ferrareseGloria Montanari, che si è laureata al Vecchi loscorso luglio e ha già una carriera avviata. «Pre-tendeva e otteneva il massimo», ricorda l’arti-sta. «A volte restavo sola con lui, al Comunale onella sua casa in Canal Chiaro. Mi ascoltava congli occhi chiusi, interrompendo solo quandodoveva fare qualche osservazione. L’ultimavolta che ci siamo visti è stato circa un anno fa.Mi telefonò, voleva che cantassi a Bergamo inuna serata in suo onore che purtroppo non si èmai fatta». Si commuove, quando ripensa a tut-to quel che ha appreso e che già mette a fruttonei récital in Italia, in Germania; alla generositàdel tenore che mai ha preteso una lira, neancheper le lezioni extrascolastiche. Diceva, anzi, chei mille euro della retta annuale del Vecchi era-no un’enormità. Bisogna dare ai ragazzi i teatri,non chieder soldi, insisteva. «Ha insegnato finoalla fine. Faceva ascoltare i suoi allievi anche al-le persone che gli erano care, gli amici d’infan-zia che negli ultimi giorni eran lì a giocare a car-te con lui. Li faceva cantare nel salone, poi li ri-ceveva in camera per i consigli. Il maestro sa-peva di morire, aveva dato istruzioni per il suofunerale, purtroppo non per i dettagli musica-li. Sarebbe stato un onore per noi allievi canta-re per lui quel giorno», conclude la Montanari.

Antonio Giacometti, compositore brescia-no, direttore pro tempore del liceo musicale,ventisei anni di docenza, ci riporta bruscamen-te alla realtà, con la scrivania ingombra di prati-che: graduatorie interne, precari da sistemare,riforme inadeguate, finanziamenti che non ar-rivano, insegnanti colpiti da insistenti emicra-nie e il lavoro che si è moltiplicato da quandohanno inglobato la scuola della vicina Carpi,trasformando l’Orazio Vecchi nell’Istituto Su-

GIUSEPPE VIDETTI

Ra-poni,v e n t i -q u a t t r oanni, di Su-biaco, provin-cia di Roma. Mi-nuta, occhi intelli-genti, jeans argenta-ti: una rockeusein miniatura.«Frequen-to da dueanni, facciola pendola-re», dice, gesti-colando col flautocome una fata con labacchetta magica. Nel-l’aula accanto, l’insegnante,un’americana, mostra la giustapostura a una violoncellista davanti a uno spec-chio a muro. «Ci sono allievi narcisi che prefe-riscono lo specchio allo strumento», scherzaMarinane Chen. Si è formata nelle prestigiosaJuilliard School of Music di New York, si è per-fezionata a Stoccarda, poi master class a Tori-no con una borsa di studio della Fiat. In Italia hatrovato l’amore ed è rimasta. L’allieva è Irene Al-zani, vent’anni, di Crema, corpo perfetto fa-sciato di rosso e nero stile White Stripes. «Mi di-vido tra il Vecchi e la facoltà di Scienza dei beni

la copertina A un mese dalla morte del grandissimo tenore, il 6 settembre,siamo andati all’Istituto musicale Orazio Vecchi di ModenaQui il maestro insegnò; poi continuò a seguire gli allievi,alcuni quando era già ammalato, ascoltandoli “fino alla fine”

Candida GuidaCITTÀ VICO EQUENSE (NA)ETÀ 24 ANNIVOCE CONTRALTOCORSO 2° ANNO BIENNIO SUPERIOREIDOLI VALENTINI TERRANIPEZZI FORTI ORFEO E EURIDICEDI GLUCK (ORFEO),TANCREDI DI ROSSINI

Chang Kwon LeeCITTÀ PO HANG (COREA DEL SUD)ETÀ 35 ANNIVOCE BARITONOCORSO 1° ANNO BIENNIO SUPERIOREIDOLI CAPPUCCILLI, PAVAROTTIPEZZO FORTE TRAVIATADI VERDI(GIORGIO GERMONT)

Gloria MontanariCITTÀ FERRARAETÀ 32 ANNIVOCE MEZZO SOPRANOCORSO LAUREATA LUGLIO 2007IDOLI HORNE, PAVAROTTIPEZZI FORTI CENERENTOLADI ROSSINI (ANGIOLINA),LA FAVORITA DI DONIZETTI

Paolo Vittorio MontanariCITTÀ MODENAETÀ 24 ANNIVOCE BARITONOCORSO 1° ANNO TRIENNIO SUPERIOREIDOLI BARTOLI, BRUSCANTINI,RICHTERPEZZO FORTE FLAUTO MAGICODI MOZART (PAPAGENO)

Fanny BellottoCITTÀ ROLO (REGGIO EMILIA)ETÀ 21 ANNIVOCE SOPRANOCORSO 2° ANNO FORMAZIONE BASEIDOLI FRENI, CALLAS, MINA,SCOTTO,PEZZO FORTE TOSCADI PUCCINI

Piccoli Pavarotti

A scuola di cantoorfani diBig Luciano

periore di Studi Musicali Vec-chi-Tonelli (www. comune. mo-dena. it/oraziovecchi), con trenta-sette docenti e seicento iscritti. «For-mare musicisti è sfornare disoccupati»,sbotta preoccupato, «e questa per noi èuna grande frustrazione. Ma lo sa che con illiceo musicale non si entra negli atenei? Per lefamiglie diventa un peso insostenibile mante-nere i figli qui e alle scuole superiori. Son pochiquelli che rinunciano all’università». E si av-ventura in un dedalo burocratico di procedure-tempi-modalità in cui solo studenti con una fer-rea motivazione riescono a orientarsi. «In Italiahanno vita facile le grandi accademie o l’altramusica», dice alludendo al pop. «In questa zo-na ne abbiamo esempi egregi: Vasco Rossi qui aZocca, la Caselli e Nek a Sassuolo, Zucchero e Li-gabue rispettivamente a Correggio e Roncoce-si, in provincia di Reggio Emilia. Anche Gucci-ni, sa, è nato a Modena. Un artista di musicacontemporanea, se è fortunato, incomincia araccogliere i frutti del suo lavoro alla soglia deiquarant’anni, come sta succedendo oggi al no-stro Mauro Montalbetti. E allora come ci si gua-dagna da vivere? Insegnando. Non c’è da mera-vigliarsi se negli ultimi vent’anni c’è stata l’in-vasione degli orientali. I coreani arrivano già di-plomati al biennio. Quest’anno ne abbiamoiscritti tre al triennio di canto», conclude scon-solato, fissando i due timpani dalle splendenticaldaie in rame sistemati come vasi cinesi agliangoli del suo studio («peccato, non abbiamoun corso di percussioni»).

I corridoi del Vecchi, però, sembrano rac-contare una storia diversa. Dietro ogni porta cisono una musica, una voce, un personaggio,una storia. Dentro ogni aula, una sorpresa, co-me nell’uovo di Pasqua. Giovani artisti che siesercitano in solitudine, piccoli gruppi con in-segnante, ensemble improvvisati. «Apra, entri,non abbia paura di disturbare», incita la bidel-la. Nell’aula di “Flauto e violino” c’è Francesca

LE FACCENelle foto di queste

pagine e in copertina,

alcuni allievi di canto

dell’Istituto musicale

pareggiato Orazio

Vecchi di Modena

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 7OTTOBRE 2007

lo di Napoli, autore di Dell’aurora».Il maestro Giacometti si rasserena, usa toni

persino trionfalistici quando racconta di quel-li che ce l’hanno fatta. Di Francesco Marsiglia,tenore napoletano di trentatré anni uscito vin-citore nel giugno 2007 dalla classe di MirellaFreni. Ha già esplorato in teatro Trovatore, Lu-cia, Bohème, Don Giovanni e Falstaff. «Sonoapprodato al Vecchi dopo aver vinto il concor-so di Spoleto, nel 2004. Volevo imparare daigrandi», racconta Marsiglia. Il sogno era stu-diare con Pavarotti, «ma il maestro era spessoassente, concentrava un anno accademico intre mesi, troppo poco per ottenere dei risultati,per questo decisi di frequentare il corso dellaFreni. Ora sto continuando con lei all’Accade-mia di Vignola, anche se Pavarotti resta per meun faro, un mito. Il maestro Muti mi ha chia-mato per un’audizione. Inizieremo a lavorareinsieme alla fine dell’autunno. Come ho fatto aottenere questi risultati? Grazie alla grinta conla quale mi sono cercato le mie opportunità».

Raina Kabaivanska arriva in Istituto nel po-meriggio. Magra, elegante, gioielli preziosi ediscreti, la verve di una ragazza (è coetanea diPavarotti). Star della lirica, il soprano bulgaroha inciso Verdi e Puccini, Boito e Bellini, Mas-senet e Donizetti. Eppure con gli allievi del se-condo biennio superiore, una sorta di corsopost-laurea, ha un rapporto affettuoso, quasifisico. «Mariangel sei dimagrita?», chiede perprima cosa a un’allieva uruguayana sovrappe-so. Oggi i registi non vogliono più soprani conla stazza di un tempo, concordano tutti gli in-segnanti. Un’allieva di Aosta le chiede consi-glio per il repertorio da eseguire: «Il Don Pa-squalepuò andar bene. L’Elisirun po’ presun-tuoso. Rigoletto è troppo per te». A un’altra ac-carezza i capelli biondi: «Sei più tranquilla og-gi?». E spiega che questo mestiere è spietato,basta un giorno di stanchezza per perdere laparte, che senza personalità non si va avanti.«Ci vuole carattere, determinazione, buona

“Formare musicisti è sfornare disoccupati”, dice il direttoreAntonio Giacometti. Solo studenti con una ferrea motivazioneresistono nel dedalo burocratico dell’ordinamento degli studi,un percorso lunghissimo e alla fine poco remunerativo

culturali. Il liceo musicale in Italia non dà ac-cesso all’università, dobbiamo fare doppia fati-ca», protesta, «pensano che noi musicisti siamo

degli ignoranti». La Chen rinca-ra la dose: «Non sanno che que-sti ragazzi devono sapere alme-no l’inglese e il tedesco, devonoconoscere la storia, la psicolo-gia. È l’assenza di educazionemusicale nelle scuole che hacausato questa crisi spavento-sa». Dice Irene: «La mia è statauna libera scelta, non mi costafatica. So già che sarà difficile,che non sarò nessuno. Conoscouna laureata in violoncello cheè anche dottoressa, specializ-zata in urologia».

Cosimo Linoci, ventidue an-ni, di Maranello, ha scelto di ri-nunciare all’università. «Mi so-no detto, o una cosa o l’altra, edopo l’istituto tecnico ho decisodi studiare clarinetto a tempopieno. Parallelamente, ho inco-minciato a scoprire la storia delrock: Beatles, Doors, Pink Floyd:mica semplice come dicono

quella roba lì. Ho fatto la mia scel-ta, non volevo arrivare a trent’an-

ni col rimpianto di aver gettato laspugna». In quel momento una voce

contralto che arriva dall’aula attiguasquarcia il silenzio. Candida Guida è alta, ro-

busta, ha il sorriso generoso, una cordialitàcontagiosa. «Vengo da Vico Equense, qui so-no entrata dopo il diploma al Conservatoriodi Salerno. La mia è una famiglia contadi-na, mi sono innamorata dell’opera ascol-tando e cantando in chiesa la musica sa-cra di Perosi, Vittadini. E di don LuigiGuida (1883-1951), un mio antenato,pupillo di Cilea e direttore del San Car-

Alice MolinariCITTÀ MODENAETÀ 24 ANNIVOCE SOPRANOCORSO LAUREATA LUGLIO 2007IDOLI FRENI, SCOTTO,VERDIPEZZO FORTE OTELLO DI VERDI(DESDEMONA)

Taeko IshiharaCITTÀ EHIME (GIAPPONE)ETÀ 29 ANNIVOCE SOPRANOCORSO 2° ANNO BIENNIO SUPERIOREIDOLI VERDI, PUCCINI, DEVIAPEZZO FORTE LUISA MILLERDI VERDI(LUISA)

Christina MinòCITTÀ MODENAETÀ 20 ANNIVOCE MEZZO SOPRANOCORSO 3° ANNO FORMAZIONE BASEIDOLI CALLAS, HORNE,SUTHERLANDPEZZO FORTE SERSEDI HAENDEL

Veronica SimeoniCITTÀ ROMAETÀ 28 ANNIVOCE MEZZO SOPRANOCORSO 2° ANNO BIENNIO SUPERIOREIDOLI KABAIVANSKA, OBRATZOVA,KLEIBERPEZZO FORTE TROVATOREDI VERDI (AZUCENA)

Alberto ImperatoCITTÀ MODENAETÀ 23 ANNIVOCE TENORECORSO 2° ANNO FORMAZIONE DI BASEIDOLI PAVAROTTI, BRUSONCARRERAS, DOMINGO,PEZZO FORTE NOZZE DI FIGARODI MOZART

Annarita PiliCITTÀ LANUSEI (OGLIASTRA)ETÀ 26 ANNIVOCE SOPRANOCORSO 2° ANNO TRIENNIO SUPERIOREIDOLI CARTA, HOLIDAY,FITZGERALD, SUTHERLANDPEZZO FORTE COSÌ FAN TUTTEDI MOZART (VESPINA)

salute. Per questo non cerco mai LA VOCE maUN ARTISTA con la voce. Siamo soldati, dob-biamo essere pronti e vigili se vogliamo resta-re in piedi. È crudele, ma non sto qui ad ali-mentare illusioni. Pessimista? No, realista. Itempi son cambiati. Quando arrivai io, nei pri-mi anni Sessanta (sposò un modenese e rima-se in città, ndr), l’Emilia cantava ancora. Era unpiacere vedere questi uomini e donne in bici-cletta che intonavano arie di opere. C’era an-che un’associazione, Ater, che riuniva tutti iteatri della regione. Di ogni opera facevo alme-no ventiquattro rappresentazioni. Poi i varicampanilismi hanno distrutto tutto. La terradel bel canto non esiste più. Io sono qui solo pernon far morire questa meravigliosa tradizio-ne». Poi si rivolge al giovane soprano che sta periniziare il suo esercizio: «Postura, mi racco-mando la postura. E le gambe. Non tagliare leconsonanti, altrimenti sembra Rossini canta-to da una soubrette. Non si riscrive Rossini». Ealla fine: «Rifletti sulla tecnica, poi ci metti unpo’ di personaggio. Ti aiuterà».

Le città del bel canto sono ancora qui. Alli-neate lungo la via Emilia, che le attraversa co-me la riga tracciata da una matita in fuga versoMilano. Qui l’opera, un secolo fa e ancora finoall’Italia del boom, era pop. «Erano le bande dipaese che trasmettevano al popolo che nonandava a teatro le arie», spiega Liliana Forti. «Èuna tradizione radicata nel territorio quantoquella dei motori e dell’aceto balsamico. Chefelicità, oggi, quando gli studenti modenesiraggiungono i risultati di Alice Molinari e Pao-lo Vittorio Montanari». Li incontriamo nell’au-la della maestra di canto Tiziana Tramonti, so-prano versatile, una che con toscana franchez-za sa come scoraggiare gli allievi meno moti-vati dall’intraprendere un percorso che richie-de talento ma anche tanta perseveranza. «Civogliono due anni per capire se devono cam-biar mestiere», spiega. La Molinari, già laurea-ta, è una ragazza bionda, moderna, spigliata.«Chissà come andrà, il mondo è pieno di so-prani», dice pensierosa.

Nella classe si respira aria di grande compli-cità. Per la prima volta nella storia dell’OrazioVecchi, allievi e docenti hanno allestito un’o-pera, La finta schiava, di Francisco JavierGarcía Fajer, detto Lo spagnoletto (1730-1809), opera comica in miniatura che Monta-nari ha riscoperto tra i manoscritti della biblio-teca estense e di cui ha curato l’edizione criti-ca. Il giovane Montanari, fisico da modello evoce da baritono, è una forza della natura. «Sonqui dalle elementari, quattordici anni di corsi,anche due alla volta». Si è diplomato in oboe,laureato al Dams e ora coltiva il suo bel vocio-ne. Per far quadrare il bilancio, si è fatto assu-mere part-time in un Disney Store. È colto, di-namico, saggiamente polemico: «Quandomuore un regista, la Rai trasmette il suo film piùbello. Quando muore Pavarotti, un vecchioPorta a porta. L’opera lirica solo dopo le due dinotte». Un’allieva, mezzo soprano della for-mazione di base, mostra alla Tramonti il risul-tato della laringostroboscopia appena fatta. Èun esame diagnostico alle corde vocali che vi-ste così sembrano fragole tagliate a metà. «So-no sanissime, non abbiamo fatto danni!»,esclama l’insegnante. Poi, mentre il sole delcrepuscolo accende l’ocra dei palazzi e spruz-za raggi dalle finestre di Palazzo Margherita,Alice Molinari si congeda con quell’Ave Mariadall’Otellodi Verdi che la Kabaivanska ha can-tato in duomo un mese fa per l’addio a Pava-rotti. La Tramonti fa i suoi appunti. A noi, rapi-ti dal tramonto, è sembrata perfetta.

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32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7OTTOBRE 2007

La“leggenda templare” comincia presto. Era almeno dalla fine del Dodicesimo secolo, pa-rallelamente con le ripetute sconfitte dei crociati e degli eserciti “franchi” in Terrasanta,che sulle militiae, gli ordini religioso-militari, giravano strane e non sempre edificanti di-

cerie. Erano troppo orgogliosi e alteri, ma non sempre così intrepidi in battaglia come la lororegola avrebbe richiesto; tenevano un comportamento ambiguo con i musulmani, e si dicevache i Templari fossero perfino in amicizia con il “Veglio della montagna” e la setta degli “As-sassini”; non erano affatto così casti e temperanti come avrebbero dovuto, si mormorava di lo-

ro eccessi, di riti tra il magico e l’erotico, di bagordi («bibe-re templariter», si diceva: bere come un Templare). E co-me spiegare le immense ricchezze, se non col fatto che sa-pessero fabbricar oro e argento per mezzo d’alchimia?

Il fatto è che ormai, specie con la fine del Duecento, laloro funzione era giunta a una svolta. I crociati avevanoperduto la Terrasanta e, se l’ordine gemello ed emulo deltemplare, quello di San Giovanni di Gerusalemme, avevasaputo riciclarsi abilmente come potenza marinara po-nendo la sua prestigiosa nuova base nell’isola di Rodi, laMilitia Templinon era stata capace di fare altrettanto. Daparecchio tempo, anche nella curia pontificia di Roma, siventilava l’idea di fondere i due ordini in uno solo, se nonaddirittura di scioglierli.

Nel continente europeo, l’Ordine aveva sviluppato datempo una complessa attività economica, sia di tipo fon-

diario, sia legata al prestito e al trasferimento di danaro. Qualcuno si è stupito del fatto che, inquella fatale notte dell’ottobre del 1307, gli agenti di re Filippo IV di Francia riuscissero ad ar-restare tutti i Templari del regno senza un cenno di resistenza da parte loro. Ma tale stupore,del tutto fuori luogo, nasce da un malinteso. I Templari, in terra cristiana, erano sempre di-sarmati: ed era loro vietato rigorosamente l’uso delle armi contro i correligionari. Per giunta,

Dalla leggendaal best-sellerFRANCO CARDINI

il reportageIngiustizie storiche

Il 13 ottobre di sette secoli fa il re di Francia ordinò l’arresto di tuttii monaci-guerrieri del Tempio di Gerusalemme. Processo e condannafurono un’atroce montatura. Nel castello di Chinon ne restano le tracce

AL ROGOIl supplizio dei Templari

in una miniatura

trecentesca

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CHINON

È invisibile, sulla collina, la pri-gione dei cavalieri di Dio. L’hainghiottita la pioggia, e unostrato di nubi atlantiche che

dall’imbrunire ristagna compatto soprail fiume. Nessuna traccia, a Chinon, dellasinistra muraglia dietro la quale sette se-coli fa il gran maestro dei Templari Jac-ques de Molay fu chiuso e torturato, in-sieme ad altri dignitari, prima di esseremesso al rogo. È l’epicentro di una storiaterribile, e di una leggenda nera che ri-sveglia ancora furibonde passioni.

Alle nove di sera, sotto il maniero, il si-lenzio è così totale che par di sentire lependole nelle case. A quell’ora sulla vec-chia Francia scatta il coprifuoco, e a Chi-non il tempo si ferma. Palazzi in tufo gial-lino, vecchi hotel deliziosamente fané,odore di limo fluviale, antichi selciati euna nebbia dove ci si perde come in unbicchiere di Pernod. Per strada, solo unubriaco, che parla da solo sotto un terrifi-cante monumento a Giovanna d’Arco, ingroppa a un cavallo indemoniato che pa-re trascinarla all’inferno più che al co-spetto di Dio.

«Ma lei che ci va a fare a Chinon? DeiTemplari non è rimasto niente», mi han-no avvertito a Parigi. A sentire gli studiosila Francia sembra il posto meno adattod’Europa a ritrovare i monaci guerrieri.Tutto sembra spazzato via dalla persecu-zione, che qui ebbe il suo micidiale epi-

centro. Ma ci si mise di mezzo anche la Ri-voluzione, che fece a pezzi ciò che resta-va. A partire dal “tempio” di Parigi, tra-sformato in prigione dall’ancien régimeepoi abbattuto come la Bastiglia.

Tutto, nel viaggio, è sembrato depi-starmi da questo luogo maledetto. Lapioggia, l’inferno delle tangenziali parigi-ne, i saliscendi infiniti della Franciaprofonda, i boschi labirintici dopoOrléans, oltre la Loira, dove son finito da-vanti ai cancelli di una centrale nucleare,e poi sulla strada — sbagliata — di Lau-dun, la città dei “diavoli” e del rogo perstregoneria. In fondo, questo villaggionella pioggia che pare in capo al mondo.

In posti così addormentati sette secolinon sono niente, e forse tutto cominciò inuna notte così, il 13 ottobre 1307, quandogli sgherri del re — sguinzagliati nellostesso momento in tutta la Francia —uscirono per le strade per arrestare mi-gliaia di monaci-guerrieri con l’accusa dieresia, usura, sodomia e altro. «Un crimi-ne orribile, lamentabile, detestabile, ese-crabile, inumano e abominevole», cosìFilippo il Bello nell’apocalittica ordinan-za che in gran segreto fece scattare il pri-mo rastrellamento su vasta scala dellastoria. Li presero tutti, per mettere le ma-ni sul loro tesoro. Li separarono in prigio-ni diverse, li torturarono col fuoco e li ob-bligarono a confessare le stesse cose.

Il mattino dopo un rumore di chiavi-stelli mi strappa alle fantasticherie men-tre aspetto nella pioggia, sotto la fortezza.È madame Esnard, la guida, che si scusaper la quantità enorme di lucchetti da

aprire. Annuncia che il torrione di Cou-dray, dove fu incarcerato il gran maestro,è chiuso da mesi — me la sentivo — e pervisitarlo ci vuole un permesso da Tours.Spiega che a Chinon trionfa la leggenda diGiovanna d’Arco, che qui fu investita del-la sua missione dal re di Francia. Per iTemplari non viene quasi nessuno.

È strano, racconta, perché ci sono graf-fiti di prigionieri. Mani, cuori raggianti diluce, scudi e croci, che hanno fatto im-pazzire cercatori di simboli come LouisCharbonneau e il grande René Guénon.A Chinon, è vero, non è rimasto niente. Èil luogo meno templare che ci sia. Ma imuri, quelli sì, parlano eccome, a stra-piombo sulla Vienne, sulla collina crivel-lata di grotte, mascella cariata sopra i vi-gneti della Turenna.

Entriamo in un labirinto di gallerie,passerelle e ponteggi formicolanti dioperai: a Chinon è in corso un restauro,uno dei più grandi d’Europa, un’opera-zione da quattordici milioni di euro, e laprigione dei Templari è là in mezzo, sigil-lata da un recinto, dimenticata nellapioggia. Un dentone cilindrico in tufo cheaffonda nella gengiva della collina peruna profondità che pare collegarlo all’al-tro mondo.

Intanto da Tours arriva il via libera:aprono il torrione solo per noi. Entriamocon torce elettriche, molti dei graffiti pos-sono essere letti solo così. Sotto un soffit-to esagonale, formano un puzzle sulle pa-reti, seguono la sequenza dei pietroni ditufo come le pagine di un libro. I più notisono all’ingresso sulla sinistra, protetti da

tappeto di escrementi di pipistrello:«Nous sommes amenes devant l’inquisi-teur de france humbert paris qui torturales freres», siamo portati davanti all’in-quisitore Umberto che ha torturato i fra-telli. E ancora, un po’ più in alto, oltre a unferro di cavallo: «Abbiamo ricevuto colpidi frusta da Robert Fribault che è il boiadel re…». E, infine, su una pietra in alto asinistra della feritoia orientale: «RobertTalmont, precettore di Francia, è morto aChinon per le torture infertegli». Per leg-gere, bisogna mettere la torcia lateral-mente, per esaltare l’ombra nelle fessure.Ma tutto è fantasticamente chiaro, ed èforse per questo che gli storici non si fida-no ancora e la Soprintendenza ha prefe-rito lasciare i graffiti nell’ombra.

Fuori piove ancora, dall’alto della mu-raglia le isolette della Vienne sembranorisalire la pigra corrente come chiatteoceaniche. I muri parlano? «La realtà èche, dopo tutto il polverone sui Templa-ri, c’è ancora tanto da sapere e tanti do-cumenti da setacciare», brontola AlainDemurger, maxi-esperto francese sul te-ma, prima di consigliarmi una buonacantina da vino. È scettico sui graffiti diChinon; preferisce lavorare sugli atti delprocesso, una documentazione più chesufficiente. Ma la conclusione non cam-bia: i cavalieri di Dio erano «gente comu-ne», non «extraterrestri». Militari e mona-ci, reclute e novizi insieme, avevano il lo-ro inevitabile “nonnismo”, ed è a quei vi-zi che s’è aggrappato il re per le sue accu-se. Colpevoli o innocenti? La Francia —giurano qui — è ancora spaccata in due.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 7OTTOBRE 2007

PAOLO RUMIZ

Le segrete dei Templariuna teca di vetro. «Lì dentro», sorride ma-dame Esnard, «una femmina di pipistrel-lo è venuta a ripararsi la scorsa stagione».La torcia illumina gigli, scudi, asce, co-stellazioni, figure di santi, croci con la ba-se a scalini. Ma appena gli occhi si abitua-no al buio, ecco apparire ragnatele diiscrizioni meno profonde, addensatenelle tre feritoie aperte sul versante suddel torrione.

Nel contorno di un vascello sta scritto:«commanda eis philipe rege papa cle-mens quintus diabolis et dragonibus».Che significherebbe: papa Clemente e redi Francia Filippo, siete stati mandati daldiavolo e dal dragone. Filippo è definito“il falsario”. Niente di esoterico: è la ma-ledizione di uomini comuni, con le lororabbie e le loro paure. Finemente incisi, inomi di possibili progionieri: Jehan Ga-lubia, Geoffroy Verceil, Besançon Philip-pe, Pierre Safet cuciniere del maestro delTempio.

«Da qualche parte, in fondo alla feritoiapiù occidentale», spiega la guida, «c’era lafirma di Jacques de Molay, ma ora non siriesce più a leggerla». Racconta che i graf-fiti sono stati inventariati solo trent’annifa da un certo Yvon Roy, che li vide quan-do caddero i primi intonaci. Ma gli storicinon si fidano, perché lo scopritore «ven-ne lasciato solo per mesi a lavorare nellatorre» e si teme abbia manipolato qual-cosa per aggiungere prove in favore deiTemplari. Il problema è che nessuno, an-cora, ha trovato prove “contro” l’autenti-cità degli straordinari graffiti di Chinon.

In fondo al finestrone centrale, oltre un

c’era l’uso antico di rimpatriare dalle aree d’azione militare nelle retrovie europee i cavalieri fe-riti, invalidi e anziani. Le case templari d’Europa somigliavano più a ospizi e a pensionati che aconventi-caserma.

La “passione” dell’Ordine del Tempio durò cinque lunghi anni, dal 1307 al 1312, e si conclu-se con la disposizione di papa Clemente V che lo scioglieva formalmente, anche per prevenireed evitare una condanna inquisitoriale per eresia che almeno in Francia sarebbe stata senzadubbio formulata, perché tale era la ferma volontà del sovrano intenzionato a liberarsi dei fra-trese a incamerarne i beni. Di recente, Barbara Frale ha scoperto altresì un documento cheprova come il pontefice assolvesse in segreto i Templari da qualunque residuo sospettod’eresia. Ma il maestro dell’ordine, Giacomo di Molay, che si era confessato colpevolee che colto da un forte scrupolo ritrattò la confessione, fu arso nel 1314 come relapsus,eretico caduto di nuovo nell’errore, secondo la pratica inquisitoriale che in quel casonon perdonava.

All’indomani dello scioglimento dell’Ordine, l’opinione pubblica della cristianitàappariva divisa. Se personaggi come Dante presero posizione in favore dell’innocen-za dei Templari, altri — ad esempio Raimondo Lullo e Arnaldo di Villanova — si espres-sero in senso opposto. Tuttavia, fino alla Riforma, dell’affare del Tempio ci si andò pro-gressivamente disinteressando. La citazione dei Templari come eretici e in qualchemodo affini a una setta stregonica, che troviamo nel De occulta philosophiadi CorneliusAgrippa di Nettesheim, resta molto sul generico, anche se quei brevi cenni sono stati re-sponsabili dell’idea diffusa che fossero praticanti di magia, o addirittura maestri espertissi-mi in quell’arte. Ma è significativo che fosse proprio il più grande teorico della politica del Sedi-cesimo secolo, ch’era anche un fedele servitore della corona di Francia — e gran cacciatore distreghe — , Jean Bodin, a sostenere con pacato rigore la tesi dell’assoluta innocenza dei Templa-ri e della loro condanna dovuta alla volontà regia d’incamerarne terre e beni.

La “rinascita misterica” dell’Ordine del Tempio, insieme con il misterioso ordine dei Rosa-croce, è legata alle vicende della cultura ermetica dell’ultimo Rinascimento e all’alba dell’età deiLumi e coincide anche con la trasformazione delle logge massoniche da sodalizi artigianali o

professionistici in gruppi di esoteristi animati da una forte volontà di autonobilitazione caval-leresca incentrata su complessi rituali e su una costante meditazione esegetica relativa alla co-struzione simbolica del tempio di Salomone e ai segreti che da allora si sarebbero occultamen-te tramandati.

Quest’improbabile ma affascinante mitologia ha i suoi principali iniziatori in personaggi co-me il nobile scozzese cattolico André Michel Ramsay, residente in Francia e a lungo segretario di

François Fénelon. Con un suo celebre discorso alla massoneria francese, pubblicato nel 1736,il Ramsey collegava con ingenua e acritica convinzione — ma anche con una grande for-

za mitopoietica — le origini delle organizzazioni massoniche alle Crociate e ai sodalizidi cavalieri. Frattanto, un preciso rapporto tra antica sapienza cristiana e Ordine tem-

plare era stato proposto in Germania, dove era stato coniato il “romanzo” secondo ilquale, prima di morire sul rogo nel 1314, il maestro del Tempio aveva confidato il nu-cleo della sua saggezza ad alcuni seguaci che, superstiti, erano finiti in Scozia dovesi erano tramandati quella preziosa eredità. L’autentico iniziatore del templarismotedesco fu Karl Gotthelf von Hund, un proprietario terriero sassone che aveva com-piuto il tirocinio massonico in Francia e si era convertito al cattolicesimo.

Attraverso una intricata e complessa storia di filiazioni, di scismi, di liti e di reci-proche denunzie che giunge a sfiorare anche personaggi come Napoleone, il seme

gettato dal Ramsey e dal von Hund produsse un albero rigoglioso, i rami e le frondedel quale coprirono tutta l’Europa sette-novecentesca e continuano a coprirla. Più o

meno geniali falsari come Pierre Plantard — l’ex-collaborazionista francese ideatore del“Priorato di Sion”, che ha dato la stura alle favole contemporanee relative a Rennes-le-Châ-

teau alle quali ha attinto, di quarta mano ma anche a piene mani, Dan Brown — punteggianoquesta storia che è stata riraccontata, ritessuta, scompigliata e ricostruita fino alla noia. Eppurequest’infinita storia noiosa non ha ancora annoiato. Essa continua ad appassionare molti illu-si, convinti che per accedere senza fatica all’esclusivo “tiaso”, la confraternita dionisiaca deglihappy fews che conoscono i Grandi Segreti dell’universo, basti acquistare uno di quei libri dal-la copertina ornata di simboli inquietanti che si vendono nelle edicole delle stazioni ferroviarie.

LE ORIGINI

La nascita dell’Ordine

dei Templari risale

agli anni 1118-19

e ai regni crociati

di Gerusalemme

Suo compito era

difendere i luoghi

santi e i pellegrini

L’APOGEO

Nel Duecento l’Ordine

raggiunge il vertice

della sua potenza

e ricchezza,

combattendo anche

in Spagna contro

i Mori e accumulando

terre e castelli

LA CADUTA

Nel 1307 re Filippo IV

di Francia sferra

l’attacco contro

l’Ordine ormai

indebolito: accusa

i Templari di eresia

e si appropria

dei loro beni

I DOCUMENTI

A destra, lettera del fondatore

dell’Ordine Ugo de Païens (1127-29)

Conservata alla Biblioteca municipale di Nîmes,

ad essa è dedicato un capitolo del libro

La Révolution des Templiers (Perrin 2007)

della studiosa italiana Simonetta Cerrini. A sinistra,

verbale d’interrogatorio dei Templari (1307)

conservato presso gli Archivi nazionali di Parigi

Al centro, la Pergamena di Chinon (1308),

con la quale papa Clemente V assolve i Templari

Conservata nell’Archivio segreto vaticano, sarà

riprodotta in un volume di prossima pubblicazione

(per gentile concessione del sito www.templars.it)

Repubblica Nazionale

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Prodotti-mitoNell’ottobre del 1947 la Innocenti mise in venditail primo modello di uno scooter che per venticinque anniavrebbe goduto di grandissima popolarità e poisarebbe scomparso. Essenziale fin quasi a sembrareun’opera d’arte, quel Beaubourg motociclisticodivenne il simbolo della nuova “democrazia del motore”

Ben presto il Paese si divisein “vespisti e “lambrettisti”Della seconda si amavala tecnica sempre aggiornatama la prima riuscìad incorporare un alonedi bellezzadiventando “feticcio”

La prima Lambretta escedalla fabbrica Innocentinell’ottobre del 1947, ses-sant’anni fa. Sarà pur veroche è l’anno in cui Alcide DeGasperi sbarca i comunisti

di Palmiro Togliatti dal governo e i “pi-selli” di Giuseppe Saragat spezzano l’u-nità del Partito socialista: ma rimanevero che la Lambretta “A” è subito unmezzo di locomozione autenticamenteproletario. Costruzione spartana, anzi,più che spartana, essenziale al puntoche oggi potrebbe essere consideratauna specie di prodotto artistico, unasintesi tecnologica senza scarti, l’es-senzialità fatta scooter, un oggetto daesporre in qualche museo d’arte mo-derna culturalmente tendenzioso, in-sieme con la Lettera 22 della Olivetti e imigliori oggetti del design italiano.

Lambretta, ovvero funzionalità: clas-sico motore a due tempi, 125 centime-tri cubi da alimentare a miscela, che so-prattutto nella fase di avviamento era ingrado di rilasciare nell’atmosfera unmagnifico e oggi inquietante fumo az-zurrino. Cambio a tre velocità, 55 chilo-grammi di peso, quasi da libellula. Unalinea agli inizi senza troppe carenature,“esposta”, dove tutto è in bella vista, dalmotore ai pezzi assemblati come se fos-sero pacchetti, o meglio scatole. Unpuzzle, o un collage industriale, il desi-gn del nuovo scooter italiano. E unprezzo piuttosto ingombrante, in quel1947, cioè 156mila lire, quando lo sti-pendio medio mensile di un operaio eradi ventimila lire. Ma era cominciata laricostruzione, le industrie di guerra sta-vano per essere riconvertite, arrivava-no i soldi del piano Marshall e il succes-so del nuovo scooter avrebbe consenti-to la produzione di massa, e quindi l’ab-battimento dei prezzi (nel 1954, il mo-dello “F” costa 112mila lire).

La Lambretta della prima serie aveva«innumerevoli difetti», secondo i tecni-ci, non superava i 70 chilometri orari,ma consumava poco, un litro di misce-la per 39 chilometri, a velocità di crocie-ra, Con il progredire dei modelli e l’affi-namento delle soluzioni tecniche sigiunse rapidamente a un consumo as-sai inferiore: 50, addirittura 60 chilome-tri con un litro per il modello “F” del1954. Ci vuol poco quindi a intuire co-me il nuovo scooter realizzato da Ferdi-nando Innocenti, nato a Pescia nel

1891, industriale specializzato nei tubi,autore fra l’altro del ponteggio di ma-nutenzione nella Cappella Sistina, di-ventasse rapidamente uno degli stru-menti centrali nello sviluppo dell’Italiadegli anni Cinquanta.

Bastano pochi anni, infatti, e la Lam-bretta diventa uno dei totem dell’oriz-zonte italiano fra la ricostruzione e ilboom economico. Anni di frenesia pro-duttiva, di uno sforzo collettivo gigan-tesco, in cui l’urbanizzazione e l’indu-strializzazione trasformano profonda-mente lo stesso panorama del Paese. Epopolano le strade, asfaltate o ancorabianche, di quegli strani oggetti mecca-nici, che non sono motociclette auten-tiche, hanno una forma particolare, so-no gli “scooter”. Oggetti sommamentedisprezzabili, secondo i puristi dellamoto, quelli che vogliono sentire il ro-tondo scoppiettio del motore a quattrotempi: perché lo scooter ha le ruote pic-cole, «è meno sicuro alle alte velocità»,ma soprattutto contraddice vistosa-mente la sostanza maschia della dueruote classica, quella con il serbatoio dastringere virilmente fra le cosce e con latestata del motore in vista, pronta a ri-lasciare generose macchie d’olio suicalzoni del “centauro”.

Lo scooter invece è più cittadino,borghese, forse intrinsecamente im-piegatizio, adatto alla giacca e cravatta,e anche alle signore, volendo. E pazien-za per la Lambretta, che con la supremasobrietà delle sue linee sembra riassu-mere uno spirito ancora popolare, qua-si una gaddiana e ingegneresca arte del-la meccanica che si imprime sui metal-li e stampa la lamiera di pedane e care-nature; ma il fatto è che un anno e mez-zo prima della Lambretta era nata la suaconcorrente diretta, la Vespa di EnricoPiaggio e dell’ingegner Corradino D’A-scanio. Fortunata, fortunatissima la

Vespa, perché nes-sun prodotto italianoaveva mai avuto la for-tuna di un colpo dimarketing come il filmdel 1953 di William Wyler,Vacanze romane, in cui Gre-gory Peck e Audrey Hepburnavevano unito la loro bellezzasullo sfondo di una Roma incan-tata e incantevole, girando la capi-tale sui sellini dello scooter per eccel-lenza.

Troppo, troppo. Anche per il “pater-nalista” Innocenti, per il “capitanod’industria”, il “pioniere”, “l’osannatocreatore di lavoro”, era cominciata unarivalità che avrebbe contrassegnatoun’epoca e una psicologia collettiva.Vespisti e lambrettisti. Ognuno convin-to della superiorità implicita, connatu-rata, addirittura ontologica, ancorchéprobabilmente indimostrabile, delmezzo prescelto. Perché naturalmentelo scooter, in quegli anni Cinquanta, èun oggetto di fede. Si diventa, o megliosi nasce, lambrettisti o vespisti, mentreFerenzi lancia il suo slogan irresistibile:«Vespizzatevi».

È vero che tutti i ragazzi di paese dif-fidano degli scooter. Sono in grado direcitare i nomi delle migliori moto diquell’epoca: sigle bellissime e silhouet-te molto romantiche: la veloce Mon-dial, la filante Morini, la solida Mi-val. Epoi la bella e rossa Gilera, la ruggenteDucati di Borgo Panigale, poi la poten-tissima Laverda. E la Emmevì Agusta,l’Aermacchi, la Bianchi, la Benelli, el’imbattuta veloce Parilla. I più esperticonoscono a memoria l’intero bestia-rio della Guzzi: lo Zigolo, lo Stornello, laLodola, il Galletto, l’Astore, l’Alce, il Fal-cone. E non ignorano che ci sono ancheibridi, chimere fantastiche come il grin-toso ma confortevole Galletto, mezzo

s c o o -ter emezzo mo-tocicletta, la“moto dei preti”.

Ma per restare aldualismo competitivo fraLambretta e Vespa, bisognadire che la prima, con quel nomeche richiamava Lambrate, la Lombar-dia, il triangolo industriale, il Nordove-st, viene sempre identificata con Mila-no. E quindi con una classe operaia chesi sta evolvendo, accede ai nuovi con-sumi del sopravveniente miracolo. Ci sitrova davanti alla «democrazia del mo-tore», dicono i cinegiornali mostrandoministri che tagliano nastri e inaugura-no raduni, mentre vescovi e cardinalibenedicono l’Italia motorizzata.

Orgogliosi gli operai e i quadri dellaInnocenti, per i quali la forza della Lam-bretta, un milione di esemplari nei pri-mi dieci anni di produzione, è la capa-cità continua di sperimentare soluzio-ni tecniche e di design. Soddisfattissi-me le nuove generazioni urbanizzate,che con quattro o cinque stipendi ope-rai possono permettersi il lusso di ap-parire davanti al caffè e magari di invi-

ta-re la ragaz-za, con il debito fou-lard sui capelli, per una promettente“scampagnata”.

In effetti si fa fatica a tenere dietro al-la diffusione dello scooter nordista:verrà esportato in centoventi paesi,prodotto in aziende dislocate nel mon-do intero. Nel momento del massimosuccesso la Lambretta è anche un pro-digio fordista: sulla linea di montaggiooccorrono poco più di cinquanta se-condi per assemblarla. Cento esempla-ri vengono forniti alle Olimpiadi di Ro-ma del 1960, staffette dello sport mon-diale e dell’Italia rinata, mentre lo scoo-ter modificato per le alte prestazioni,carenato in modo tale da assomigliare aun siluro, batte i record di velocità, 202

EDMONDO BERSELLI

Due ruote, e l’Italiasi rimise in moto

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7OTTOBRE 2007

la memoria

Repubblica Nazionale

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Ancor oggi gruppi di appassionatisi disputano su eBay carburatori

e altri pezzi di ricambio e rimangono innamoratidi quella fusione di stile povero e efficienza assoluta

Ragion per cui la Lambretta si spegne(l’ultimo modello esce nel 1971), per-ché all’improvviso si ritrova fuori dalgusto, dalla tendenza, da un’idea di gla-mour. Non è inutile sottolineare che alsuo tramonto diviene proprietà di unasocietà indiana (Scooter India Ltd), checontinuerà a produrla per venticinqueanni: quasi un segno concreto che l’in-venzione industriale di Ferdinando In-nocenti era uno strumento perfetto peruna fase di modernizzazione, il simbo-lo del massimo risultato con il minimosforzo, la perfetta applicazione dellatecnologia produttiva alle necessità diun tempo particolare, dove il risultatoconta ancora più della forma.

Che poi ci siano ancora oggi club egruppi di appassionati, che si disputa-no carburatori, pedane, manopole e va-ri pezzi di ricambio all’asta su eBay, nonfa che confermare lo spirito del lam-brettismo. Uno spirito fatto di efficien-za e di solidità, di motori potenti, di fun-zionalità completa ed eclettica. Ancoraoggi, chi predilige la Lambretta amaquell’eccezionale fusione di stile “po-vero” e di efficienza assoluta, senza nes-sun orpello, senza gadget stravaganti. Enel rivedere le vecchie versioni delloscooter, quel disegno che sembra unpiccolo Beaubourg motociclistico, nel-la sua nudità di scatole e tubi, sembra diritrovare l’immagine di un’epoca, e dirisentire il rumore bellissimo e irripeti-bile di quando il nostro tempo andava adue tempi.

MOTORE CENTRALELa più vistosa differenza

tra Vespa e Lambretta era

che in quest’ultima il motore

era collocato al centro

e non spostato lateralmente

4

CAMBIO AL MANUBRIOCaratteristico degli scooter

era il cambio a leva

al manubrio (e non a pedale

come sulle moto). Prima

a tre, poi a quattro velocità

1

FRENI A TAMBUROI freni erano a tamburo

Infinite le discussioni

tra lambrettisti e vespisti

su quali fossero i migliori

e più durevoli

2

LE RUOTETipiche degli scooter,

oltre alla carenatura, erano

le ruote basse, che non

impedivano agli spericolati

grandi inclinazioni in curva

3

LO SCAPPAMENTODalle marmitte di Vespe

e Lambrette emanava il fumo

di scarico dell’olio combusto

e il tipico scoppiettio

del motore a due tempi

5

AVVIAMENTO A PEDALECome su tutte le due ruote

dell’epoca, l’avviamento

era a pedale. In caso

di mancata accensione,

si provava a partire a spinta

6

chilometri orari sull’autostrada di Mo-naco di Baviera (e il Quartetto Cetracanta nella pubblicità il Lambret Twist,«Inventiamo qualche cosa che vi facciastrabiliar…», e giù rime sulla velocità).

Quanto ai pregi della rivale Vespa, ilambrettisti, a partire dai tecnici e daglioperai della fabbrica madre, minimiz-zavano, ridimensionavano, mugugna-vano: bel congegno, bella macchina,ma ha sempre usato lo stesso “cofano”,cioè la stessa forma esteriore. Senza co-gliere, in questo, o perlomeno senza vo-ler ammettere, che uno dei segreti del-la Vespa risiedeva proprio nell’avere in-corporato nel prodotto industriale unelemento distinguibile di estetica: era-no le forme dello scooter Piaggio, al di làdel suo contenuto tecnico e motoristi-co, a risultare così affascinanti, conquelle curve al posto giusto, inevitabil-mente allusive.

Sicché nel periodo della motorizza-zione, dopo che le Seicento e le Cinque-cento invadono città e strade, la Lam-bretta si ritrova in difficoltà. Anche laInnocenti prova a scommettere sul-l’auto, con alterne fortune. Il fatto è chela Lambretta non riesce a proporre al-tro che la propria funzionalità, mentreil nuovo mondo del consumo vuole an-che feticci, un alone di bellezza, una“cultura” iscritta nel prodotto. Propriociò che la Vespa era riuscita a imporrenell’immaginario mondiale. D’altron-de, tutti possono capire che c’è una dif-ferenza fra un testimonial come Gre-gory Peck, nella meravigliosa favola ro-mana con la Hepburn, e una star cine-matografica di secondo livello come illambrettista Rock Hudson.

SU REPUBBLICA.ITDa oggi sul sito

di Repubblica

tre audiogallerie,

curate da Chiara

Ugolini, con il racconto

di Edmondo Berselli

Una produzione

Repubblica.it,Repubblica Tve la Domenicadi Repubblica

MODELLO LI 150 (1959)Forse il più elegante tra i 26 modelli

sfornati dalla Innocenti. Caratteristica

la verniciatura bicolore

MODELLO TV 175 (1957)La maturità della Lambretta

a dieci anni dagli inizi. Opzionale

la ruota di scorta sul portapacchi

MODELLO A 125 (1947)La madre di tutte le Lambrette,

niente fiancate, motore a vista,

cambio a tre marce a pedale

150 SPECIAL GOLDEN SILVER (1963)Modello con alcune finezze

costruttive, come il tampone

anti-vibrazioni per le fiancate

IL DOCUMENTARIO

Va in onda venerdì 19 ottobre alle 21

su History Channel il documentario

Lambretta: l’altra faccia del miracoloitaliano, diretto da Enrico Settimi

Oltre alle interviste a storici, sociologi,

sindacalisti e a Luigi Cassola,

collaudatore dei primi modelli,

il documentario è stato realizzato

con materiale d’archivio dell’Istituto Luce

e della Innocenti, conservato

al Museo della Lambretta di Rodano

(Milano), che ringraziamo per l’immagine

grande a centro pagina

Nelle foto qui sopra, poster di vari modelli

di Lambretta e un gruppo

di scooter appena sfornati dalla catena

di montaggio della Innocenti nel 1949

A sinistra, un manifesto

con Giorgio Gaber in Lambretta

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 7OTTOBRE 2007

Repubblica Nazionale

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7OTTOBRE 2007

il raccontoPresunti colpevoli

All’alba del 15 ottobre 1917 la più celebre “femme fatale”della Belle Epoque cadde davanti al plotone d’esecuzione,condannata a morte per spionaggio e tradimento. L’accusaera una montatura, sorretta solo dalla cortina di finzioni,presunti intrighi e allusioni imbastita dalla stessa vittimaA cominciare dal suo nome e dal suo triste e grigio passato

Mata Hari amava se stessa. Amava gli uomini. Amavala menzogna. Morì in scena, come una diva, lan-ciando l’ultima bugia di un bacio, all’alba del 15 ot-tobre 1917, nella nebbia ghiacciata di Vincennes,periferia di Parigi, davanti al sipario di dodici zuaviinginocchiati e armati di fucile. Colpita dritta al cuo-

re, come lei aveva fatto con la Francia del nuovo secolo, spogliandosinella penombra elettrica dell’Odéon e della Belle Epoque. Danzatri-ce, amante, cocotte. Travolta anche lei dal nero della Grande Guerra.Imprigionata. Processata come spia dei tedeschi. E poi uccisa quasi in-nocente per colpa di altri inganni, come se il suo magnifico corpo dis-sanguato avesse potuto risarcire i massacri del fronte occidentale, chedalla Marna alle Fiandre piegava la Francia nel fango delle sue trincee.

Mata Hari nasce dalla schiuma del nulla, come un personaggio diLeblanc, ladra di cuori, come una dea: «Sono una farfalla che cerca ilsole». Compare in una memorabile notte parigina dell’anno 1905, trale quattro braccia in bronzo di Shiva, i sette veli, i dodici incensi: «Simuove sinuosa e quasi nuda», diranno i resoconti, «salvo due conchi-glie in metallo sui seni, i fili di perle sulle gambe ambrate, il rosso ver-miglio sulle labbra». Danza intorno al proprio scandalo di feuilletond’Oriente. Irradia il Casino de Paris e Les Folies Bergère. Oscura Isa-dora Duncan, Lola Montez e la Bella Otero. Incanta Cocteau. Irrita Co-lette: «Non sa danzare, ma sa spogliarsi».

Scrivono le gazzette: «È una creatura alta, bella, con una massa di ca-pelli neri. Il corpo ondeggia con infinita grazia tra il fluttuare dei veli el’odore inebriante dei profumi. In lei c’è tutto il languore fauve, sel-vaggio, di un’autentica orientale».

Invece Mata Hari, tranne l’erotismo che emana, è tutta finta. A co-minciare dai suoi passi di danza inventati in Indonesia e dal nome chesi è scelta pescandolo dalla lingua malese, “luce del giorno”, venendolei da una storia triste come le notti senza luna, come il grigio annoia-to del paesaggio olandese.

Si chiama Margaretha Geertruida Zelle. È nata il 7 agosto 1876 in unvillaggio medioevale della Frisia, Leeuwarden, che puzza di stallatico.Suo padre fa il cappellaio. La madre è morta giovane. Lei cresce bellae sola. Soffocando. Sognando. A sedici anni sulla spiaggia ventosa diScheveningen scopre lo sguardo degli uomini, il potere che esercita sulloro morbido metallo. A diciannove anni risponde all’annuncio ma-trimoniale di un tale Rudolph MacLeod, capitano dell’esercito delleIndie olandesi. Lo incontra ad Amsterdam, vestito di una incantevoledivisa. Ha vent’anni più di lei, il viso e il cuore segnati. Ma non fa in tem-po ad accorgersene. Lo sposa dopo tre mesi. Si imbarca con lui versoGiava, poi Sumatra, in coda a tutti i venti della lontananza colonialeche portano al sole dei Tropici e a una vita di seducenti avventure.

Ma il capitano non è quello che sembra. I massacri della domina-zione coloniale gli hanno riempito di incubi le notti. L’alcol lo rendeirascibile. La sifilide gli avvelena il sangue, la gelosia lo morde. La vitaè violenta. Si porta via il primo figlio con una intossicazione e la bam-bina secondogenita col disamore. Margaretha si piega alle piogge, aimonsoni, al cuore di tenebra. Si ammala di tifo. Sfiora la morte, risale.E risalendo, in un giorno estivo del 1904, nove anni dopo, vede la lucedel giorno, mata hari, come fosse la prima volta. Fugge. RaggiungeGiacarta. Si imbarca. Riattraversa la vita. E approda, nel nuovo inver-no, tra i saloni scintillanti del Grand Hotel di Parigi, con mezzo franconella borsetta, un revolver, i suoi fianchi sfrontati.

La sua scalata è una scalata di uomini. Dicono abbia avuto milleamanti nel letto e mille famiglie rovinate alle spalle. Industriali, av-venturieri, milionari, compreso il barone de Rothschild. Artisti, comeil compositore Massenet e forse Puccini. Ma specialmente ufficiali,

Nelle foto,Mata Harinel suocostumeda ballerina“orientale”,che facevaimpazzirele platee(maschili)della Parigidella Belle Epoque

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 7OTTOBRE 2007

per il suo piacere e per il loro: «Amo gli uomini la cui pro-fessione è morire». Giace con tutti, ne ama uno solo, ilgiovane capitano russo Vladimir de Masslov, detto Va-dim, che finirà per spezzarle il cuore e ripudiarla, neigiorni della caduta.

Dopo il primo ballo al museo Guimet, tempo sei me-si, Parigi è ai suoi piedi. Colleziona gioielli, segretissimiinviti, intrighi. Racconta di essere nata a Giava, dalla fa-miglia di un principe. Oppure in India, sulle rive delGange. Di essere cresciuta tra istitutrici e tigri ammae-strate. Di essere diventata ancella del dio Shiva che dan-za il mondo e che le ha preso il fiore del corpo su un al-tare di granito viola. Si dice esperta dei sessantaquattroriti lussuriosi indù, di filtri d’amore e di incantesimi delcuore.

Conquista la Spagna, balla a Vienna e alla Scala di Mi-lano nell’Armidadi Gluck. Frequenta le spiagge di Niz-za e le notti di Montmartre. «Veste raggi di luce, arma-ture, scudi, monili, calze di seta, corsetti, guanti, gam-bali». Compra una villa a Neuilly, con parco e scuderie.Alla domenica si fa fotografare al galoppatoio di Long-champs, con guardaroba sontuoso, in compagnia diSacha Guitry e Cecil Sorel.

Respira quelle stesse «evanescenze bianche azzur-re» che fanno fremere le pagine di Proust in Dalla par-te di Swan, il ferro recente della Tour Eiffel, e gli Alcools,appena pubblicati da Apollinaire. Gioca con lo scanda-lo permanente, lascia intendere notti d’amore sui wa-gon-lits che viaggiano l’Europa e tra-volgenti passioni nei privé dei grandirestaurants, dove i bidet sono ma-scherati da vasi di fiori. La sua vita è ungioco.

Ma quando gli eserciti del mondocominciano il massacro inauguratodal colpo di pistola a Sarajevo, quan-do dilaga il sangue e il tradimento,quando mezzo milione di soldatifrancesi muoiono a Verdun, in diecimesi di ecatombe perpetua, qualun-que gioco diventa intollerabile. Ilfreddo e la fame, che spengono le viedi Parigi, scacciano la Belle Epoquecome un cattivo ricordo, un peccatoche porta male, il rimpianto dei di-sfattisti senza onore. Mata Hari di-venta il simbolo di quel delitto. Il ber-saglio perfetto. Per questo gli agentidella polizia segreta ci mettono zelo a spiare le sue notti. I suoi viaggi.La sua passata intimità con certi ufficiali tedeschi, il nemico, con fun-zionari delle ambasciate russa e spagnola, covi di spie, di imboscati, ditraditori.

Lei se ne accorge e se ne lamenta con un alto funzionario di polizia:«Sono seguita dappertutto, hanno persino approfittato di una mia as-senza per frugare nei miei bagagli. Questo gioco idiota deve cessare.Se sono pericolosa dovete espellermi dalla Francia. Se sono soltantouna graziosa, piccola donna, avendo ballato tutto l’inverno, vorrei unpo’ di pace».

Quel che era ammirato come vita scandalosa di una cocotte, diven-

ta all’improvviso l’architettura di un sospetto, poi inchiostro da fasci-colo segreto, pedinamento, inchiesta. Fino all’ultimo giorno della suaterza vita, 13 febbraio 1917. Quando entrano in cinque, tutti ispettoridel Deuxième Bureau, nella stanza 131 dell’hotel Elysée Palace, dovel’agente segreto doppiogiochista Margaretha Zelle, alias Mata Hari,alias H 21, viene svegliata bruscamente, prima della colazione, infor-mata del mandat d’arrêt. Le viene ordinato di seguirli. E lei lo fa, «scen-dendo dal letto completamente nuda», come si addice alla leggenda.

Un’ora dopo due Citroën nere varcano i cancelli di Saint-Lazare, lapiù cupa prigione di Parigi. L’ultimo colpo di scena della diva vienestrillato da tutti i giornali di Francia, come solo vent’anni prima era ac-

caduto per l’ufficiale di artiglieria Alfred Dreyfus, il tra-ditore, che secondo la falsa accusa degli Stati maggiorisi era venduto ai prussiani che avevano umiliato laFrancia a Sedan. Stavolta il nemico interno non è l’e-breo, ma la prostituta. Questa donna eccentrica, «que-sta selvaggia, con labbra lascive, orgogliosa e indocile»,come scrive il capitano Bouchardon che per tre mesi,interrogatorio dopo interrogatorio, accumula indizisenza prove, piega i sospetti, la accusa «di avere causa-to la morte di cinquantamila francesi», trasforma uncontraccettivo rinvenuto nella sua borsetta in una «so-luzione nuovissima per inchiostri simpatici, atti a tra-smettere segreti». Le contesta la relazione con un ad-detto militare e un colonnello tedeschi, conosciuti pri-ma della guerra. La minaccia. La blandisce. Le toglieogni via d’uscita.

Il processo dura due udienze. Lei si proclama inno-cente, non si piega: «Voglio farvi presente che mi riser-vo il diritto di coltivare qualsiasi relazione mi garbi. Laguerra non è una ragione sufficiente per farmi cessaredi essere cosmopolita. Sono neutrale, ma le mie sim-patie vanno alla Francia. Se questo non vi soddisfa, fa-te quello che volete». La camera di consiglio si riunisceper meno di dieci minuti. La sentenza è una formalitàgià decisa e dice: morte. Al verdetto scoppiano applau-si e insulti. Scrivono le cronache di allora: «Alta, eretta,dominava la scorta superandola di almeno una testa.Molto elegante, passò tra la folla con l’andatura elasti-

ca della ballerina, il capo alto e unsorriso sulle labbra: il suo ultimosorriso per il suo ultimo pubblico».

Ma il cronista si sbagliava. Ilpubblico di Mata Hari sarebbe sta-to perpetuo e il suo sorriso avreb-be illuminato di malinconia altrivolti a suo nome, da Jeanne Mo-reau alla luce perlata di Greta Gar-bo, che si congeda con la grazia diuna dissolvenza cinematograficadal mondo raggelato degli uominie delle loro vendette, per volare via«come una farfalla che cerca il so-le».

Storici d’altre stagioni riabilite-ranno la sua innocenza: seduttricein troppi letti per tempi così com-plicati, ma non spia. Troppo sven-tata, troppo superficiale, troppo

fragile di cuore, per entrare davvero in quel gioco mortale. Vittima del-la sua celebrità, delle sue infinite bugie, della sua noncuranza.

Quella mattina, davanti al plotone di Vincennes, indossa un tailleurblu, scarpe leggere, guanti di capretto e cipria. Manda un bacio ai sol-dati. Sparano in dodici. Forse per l’emozione tre colpi soltanto la rag-giungono. L’ufficiale, secondo il regolamento, le appoggia la pistoladietro l’orecchio per il colpo di grazia e le sfigura il volto.

Il suo corpo, celebrato con migliaia di parole, non lo reclama nessu-no. Finisce come un cadavere anonimo sul tavolo di marmo della fa-coltà di Medicina, per le esercitazioni di anatomia. Nessuno tra gli stu-denti lo riconosce. E in una manciata d’ore si dissolve, scompare.

Mata Hari, la bellissimache mentiva troppo

PINO CORRIAS

ALLA SBARRAQui accanto,

un ritratto di Mata Hari

quando era all’apice

del successo,

nel primo decennio

del Novecento

Nel disegno a sinistra,

il processo

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MicroMega 5/07

Antonio MassariC’È DEL MARCIO

A PALAZZO DI GIUSTIZIA

La storia delle inchieste scomode di Woodcock e De Magistris,

che il partito dell’impunità vuole affossare (di De Magistris, Mastella ha puntualmente

chiesto il trasferimento!)

Repubblica Nazionale

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Una grande mostra al Mart celebrail rapporto pionieristico dell’artistatrentino con l’industria, tanto in Italia

che negli Usa, dove egli si recò più volte per lavoro. La suaproduzione fu vastissima, dai marchi aziendalialle copertine di “Vogue” e “Vanity Fair”

CULTURA*

“Fu il primoa dar vita a una

specie di studiopubblicitario”,

dice Emanuele Pirella“Ma all’inizio gli vennero

rifiutate quasi tutte le proposte”

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7OTTOBRE 2007

FUTURISTAQui sopra, un bozzetto per Venus Pencils

Nella pagina accanto, locandina

Depero Futurist House

del 1928

IN VIAGGIOA sinistra, il “bagaglio per New York”,

un promemoria di viaggio; a destra, un “dizionario

di inglese” disegnato. Entrambi i fogli sono tratti

da uno dei quadernetti di Depero

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 7OTTOBRE 2007

MILANO

Sfoglio le bozze del poderoso catalogo della mo-stra Deperopubblicitario insieme a EmanuelePirella, personaggio storico dell’advertisingna-zionale e persona deliziosamente colta. Ci vie-

ne subito incontro la sezione dedicata all’auto-réclame,come la chiamava lui, fitta di quei manifesti della “Casad’arte futurista Depero” con i quali si faceva pubblicità e siopponeva a un costume che odiava, quello di riconosceregli artisti solo una volta morti. «In effetti, prima di lui, e an-che ai suoi tempi, i grandi cartellonisti erano dipendentidelle tipografie, niente di più», osserva Pirella. «Dudovich ecompagni, ad esempio, lavoravano per l’Igap, cioè lo stam-patore. Facevano proposte e bozzetti, ma la Fiat commis-sionava i manifesti all’Igap, e non a loro. Con Depero per laprima volta si configura una specie di studio pubblicitario.Non fu un passo facile. A me è successo di scrivere la prefa-zione a un librone di manifesti fatti per la Fiat fra il 1920 e il1940, che contiene elementi interessanti per studiare i rap-porti tra futurismo e pubblicità. E che ospita anche le lette-re di Depero, seccatissimo perché gli vengono rifiutatequasi tutte le proposte. Lui, Prampolini, e tutto il gruppo deifuturisti si sentivano destinati alla pubblicità in generale,per il culto che avevano della modernità e dell’industria.Ma a quella dell’auto in particolare, poiché era uno dei mi-ti del loro movimento. E Depero detestava che l’ufficio pub-blicitario della Fiat non riuscisse ad accettare manifesti chenascevano espressamente come bozzetti: tanto che con ilsuo gruppo organizzò nel 1933 alla galleria il Milione, in Mi-lano La mostra del cartellorifiutato, esponendo tutte le pro-poste bocciate. Come a dire: guardate questi committentiche non capiscono le cose nuove, d’avanguardia...».

Più tardi, verso la metà degli anni Venti, si prese FedeleAzari come manager, e le cose cambiarono. «Azari era unaspecie di account, gli portò clienti come Campari, Presbi-tero, la magnesia San Pellegrino, e cominciò a trattare icompensi per lui». Già, Campari: la bottiglietta disegnatada Depero sopravvive egregiamente, non è vero? «Sì, e pre-figura una cosa che sta accadendo ora, e cioè che le botti-glie, anziché semplici contenitori, diventano dei segnali,dei simboli. A noi capita di iniziare col disegno di una bot-tiglia di liquore, o il packaging di biscotti, un discorso chesi concluderà con la pubblicità vera e propria del pro-dotto. Lui fu il primo a immaginare che la botti-glia potesse essere un elemento della comu-nicazione aggressiva che Campari vole-va. Nelle facoltà di Scienza della comu-nicazione, noi raccontiamo il caso di LeoBurnett, che riprogettò il pacchetto diMarlboro, sigarette inizialmente destina-te a un pubblico femminile, con una grafi-ca da macho: segni rossi e forti, linee obli-que, quanto ci vuole per i gusti di un cowboy che vive, appunto, nel Marlboro Coun-try. Ma questo accadeva negli anni Cin-quanta, dunque ben dopo l’intuizione di Depero».

Ecco un manifesto notevole, “Se la pioggia fosse bitterCampari”, e l’omino di Depero ha l’ombrello rovesciato al-l’insù. Per l’epoca, bisogna riconoscere un certo coraggioanche al committente, non trova? «Già, ci sono moltissimestorie di autori e nessuna dei committenti, che poi sono iveri autori. Restiamo a Fiat e Campari: la prima teneva ilgrande centro, pensava alla famiglia italiana come target,dunque evitava gli azzardi e bocciava De Chirico, Carrà, Ro-sai e Depero. Campari no, bottiglia nuova, colore rosso vi-vo, trasgressione e botta d’alcol piacevole, dunque unapubblicità che chiede complicità con il target, da Depero aMunari. Fino a oggi, dove c’è la campagna di “red passion”sulla stampa e in tv gli spot sono firmati da Tarsem, registaangloindiano che gioca sugli equivoci e i travestitismi, co-se molto cifrate, rivolte a un pubblico giovane che ama sen-tirsi parte di un clan».

Continua lo sfoglio, le immagini sempre più tagliate, at-triti di colori piatti e forti, e il fantastico uso del lettering, leparole che diventano colonne grafiche, e si fanno visual. «Icaratteri esplosi, deformati e resi espressivi facevano partedella poetica futurista. Sul lettering, Depero era capace ditrasformare le parole in immagini, e anche la sua voglia diapplicarsi a tecniche e materiali differenti nasceva dalla vi-sione del mondo dei futuristi. C’erano in lui l’ansia dellameraviglia e la capacità ardente di affrontare il nuovo, chepoi sono l’eredità di Marinetti». Sospinte da quest’ansia, lelettere disegnate da Depero prendono vita, mettono gam-be e braccia, e vanno. Soldatini dell’alfabeto che possonoanche intimorire: e se di fronte ad essi Pirella pensa a Stein-

berg, si riesce a capire come a qualche industriale d’alloratremassero le vene ai polsi. Per arginare il rifiuto dei com-mittenti meno coraggiosi, Azari consiglierà a Depero di

non presentare un solo bozzetto di campagna, ma tre.«E anche questo è anticipatore, lo facciamo anche

oggi».Scorrono i marchi, aziende di varia gran-

dezza. Il cioccolato Unica («bello, anche te-nendo conto che all’epoca i suoi concorren-

ti facevano del decorativismo tardo liberty»),il liquore Strega («pubblicità d’immagine, il

segno è cambiato, è più araldico»), poi la ma-gnesia («sapore infantile»), le bellissime ma-

schere di gomma Pirelli, la stilizzata emicraniadel Veramon, il Gas («era meglio affidarlo a Rosai,

così bravo nei paesaggi urbani...»), infine il celebreomino Presbitero. «Quest’uomo matita è rimasto

nella memoria collettiva. Come il “Punt e mes” di Ar-mando Testa, forse come il mio “O così, o

Pomì”, e come il “Jesus jeans” foto-grafato da Toscani. Quell’omino ha

ottant’anni, ma ancora oggi se vediun bambino con i capelli ritti in testa,

puoi dirgli che sembra Presbitero».Parliamo poi della parentesi francese

di Depero, quando tocca a lui meravi-gliarsi per le insegne luminose e per tutte

quelle luci sulla Torre Eiffel, che la fanno di-ventare una vera macchina da comunica-

zione («oggi lo chiamiamo ambient media»).Pirella trova che Depero sia più bravo sul per-

sonaggio che non sul marchio astratto (a en-trambi, per puro caso, viene in mente Ray-

mond Loewy e il suo marchio delle Lucky Strike,«un pacchetto così bello che vien voglia di com-

prarlo solo per guardarlo»), ma trova comunquestrepitosa la vastità della sua produzione. «Ha la-

vorato con una generosità incredibile, sia comequantità di proposte che come varietà di soluzioni.

Una cosa curiosa è il suo costante rifiuto del fondobianco, che nel nostro mestiere è quasi un obbligo. Se

lo usi, hai una grande incisività, la figura esce in modoforte. Se non lo usi, vuol dire che ti aspetti una grande

complicità con l’utente. E già allora, come dicevo a pro-posito della Fiat, questa complicità non era affatto scon-

tata. Ricordo che agli inizi, il mio incubo era il pastore sar-do, che in seguito sarebbe diventato la casalinga di Voghe-ra. Ad ogni proposta mi veniva obiettato: ma il pastore sar-do capirà? Quando a me era chiarissimo che in ogni caso ilpastore sardo non si sarebbe mai interessato a quel pro-dotto».

Ma alla fine, Depero pubblicitario ce la fece a farsi rico-noscere? «In Italia non c’è mai stato un riconoscimento de-gli autori che avessero a che fare con la pubblicità. Non esi-stono, insomma, storie della pubblicità attendibili, serie.Negli altri paesi ci sono libri che si occupano dei fonda-mentali, da noi si trovano testi su autori americani, ma suDepero o Dudovich al massimo qualche tesi di laurea, o ro-ba da bancarella. E invece di bravi da studiare ce ne sareb-bero: Confalonieri Negri, il primo Testa... Certo, questo si-lenzio ha responsabilità anche nostre, se pensiamo allamostra di Testa che Gillo Dorfles organizzò tempo fa. Dor-fles aveva scelto di esporre tre quarti di bozzetti di pubbli-cità e un quarto di opere di Testa pittore. Nottetempo, Te-sta capovolse questa proporzione, buttò via un sacco dibozzetti e triplicò la sua presenza pittorica».

E perché mai lo fece? «Perché il pubblicitario, se lo inter-visti, ti racconta che lui ha scritto anche un romanzo, o chefa anche il pittore. È un mestiere che ha sempre albergatodentro di sé un senso di colpa. Un senso di colpa, per unacultura che ha visto le merci e il denaro come qualcosa dideteriore. Lo stesso Depero, su Campari, non dà alcuna ra-gione di consumo, coltiva più l’aspetto simbolico e intan-gibile che quello della performance del prodotto. Questoanche per l’assenza di slogan, la parte redazionale che la-vora sulle ragioni di vendita, ma soprattutto perché il pro-getto futurista mirava a esaltare l’industria nel suo com-plesso, non ad aiutare la diffusione di un singolo prodotto».

Il catalogo volge al termine. Le belle etichette del chiantiSpalletti («potrebbero uscire oggi»), le architetture pubbli-citarie per il padiglione del libro Bestetti Treves, gli strepi-tosi bozzetti di copertina del periodo americano (per Vo-gue, Vanity Fair, Sparks, New Auto Atlas...). E infine la par-te editoriale, la copertina del libro dell’amico Gilbert Clavel(Un istituto per suicidi) e quella, formidabile, del catalogodella Galleria Museo Depero, a Rovereto. Ma lei, Pirella,l’assumerebbe uno così? «Bè, vista la coscienza dei mezziespressivi e la tastiera di cui disponeva, direi di sì».

ENRICO REGAZZONI

Dal futurismo alla pubblicità

CINEMACopertina di Movie Makers,

dicembre 1929,

esemplare a stampa

COLORIProgetto per una copertina

di Vogue, 1929,

collage di carte colorate

COLLAGEBozzetto pubblicitario

per Vanity Fair, 1930,

collage di carte colorate

VOLUMIBozzetto pubblicitario

per Vogue, 1930,

collage

LA MOSTRA

Dal 13 ottobre al 3 febbraio 2008

al Mart di Rovereto si tiene la mostra

Deperopubblicitario, dall’auto-réclameall’architettura pubblicitaria. Raccoglie

manifesti, locandine, disegni e materiali

mai visti prima (alcuni riprodotti in queste

pagine per gentile concessione del Mart)

che documentano la sua attività nel campo

della nascente grafica pubblicitaria

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EESSEECCOO

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tel. 028054417 fax 028692631 [email protected] www.thesecondrenaissance.com

SPIRALI

mercoledì 10 ottobre, ore 17,45Palazzo Altieri, piazza del Gesù, ROMA

Dibattito con

CORRADO SFORZA FOGLIANIin occasione della pubblicazione del libro

Il diritto, la proprietà, la banca

Oltre all’autore, intervengono

Carlo Fratta Pasini, Antonio Martino,Francesco Perfetti, Aldo Pezzana Capranica del Grillo,

Aldo G. Ricci, Armando Verdiglione

Repubblica Nazionale

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adesso, che la lingua è una delle cose che puoiportarti ovunque, così come la tua cultura.Ma questo non significa che il resto sia estra-neo.

Rushdie. Come scrittore, il tema dell’ap-partenenza ritorna costantemente. A voltescompare, ma poi inevitabilmente riappare.Anch’io non mi sento in esilio, anche se c’èstato un momento della mia vita in cui nonpotevo andare in India e ho sentito cosa que-sto possa significare. Voglio aggiungere cheil fatto che io non viva nella mia patria ha avu-to un impatto non marginale sulla mia scrit-tura. Devo a questo il distacco, il coraggio e lasconsideratezza di aver affrontato la vita diun intero mondo, come ho fatto con I figlidella mezzanotte. La distanza può aiutare ascrivere bene.

Pamuk. Io scrivo della mia patria e dellamia casa, perché è l’unica cosa di cui so scri-vere. Ma ci tengo a dire che il mio intento nonè tanto quello di rappresentare la realtà del-la Turchia, quanto quello di raffigurare l’u-manità attraverso uomini, donne e luoghiche conosco. Anch’io ora mi trovo fuori delmio Paese, ed è un motivo in più per non vo-lerne enfatizzare le caratteristiche peculiari.

Rushdie. Mi viene in mente che quandouscì I figli della mezzanotte la New York Re-viewof Books pubblicò una recensione estre-mamente generosa, arrivando a dire che «uncontinente aveva trovato la sua voce». Ovvia-mente ne fui molto lusingato, ma il problemaera che gran parte del continente in questio-ne era invece infuriato.

Pamuk. Io credo che non esista patria, ocasa, se non poni nella massima considera-zione l’umanità. E quindi la patria finisce peressere il mondo. Ogni volta che un giornali-sta o anche un amico mi dice «il tuo libro è au-tobiografico», io rispondo «non dirlo a nes-suno».

Rushdie. Mi piace molto quello che haidetto prima a proposito della patria come

madre, e mi è venuto in mente che mia ma-dre conosce tutti i segreti più coloriti e pic-canti della sua generazione. È una specie diGarcia Marquez del pettegolezzo. Ma vorreiora riflettere sul rapporto tra lo scrittore e illuogo in cui vive. Pensa a Scott Fitzgerald e laRiviera, Joyce e Trieste, Hemingway e Parigi.Molti tra questi scrittori hanno scritto, con ri-sultati magnifici, anche dei luoghi dove sitrovavano a vivere, mentre se un indiano vi-ve a New York ci si aspetta che scriva solo del-l’India. Questo è valido anche per l’arte figu-rativa: se Picasso trova ispirazione nell’arteafricana va tutto bene, se invece è un artistaindiano a farlo — ma lo stesso si può dire ov-viamente per altre realtà non occidentali —nasce immediatamente il sospetto. E tuttociò ignora anche la realtà della diaspora in-diana.

Pamuk. Hai perfettamente ragione, maquello che raccontavi mi faceva venire inmente, sempre a proposito del concetto dipatria, quanto sia bello e francamente moti-vo di orgoglio venire da una cultura antica...Perdonami America!

Rushdie. C’è qualcosa di estremamentedelizioso quando in questo Paese ti descri-vono un palazzo del primo Novecento comeantico... Ma, a parte le battute, dobbiamo ri-flettere anche sul fatto che tutti, prima o poi,abbiamo lasciato casa e i nostri genitori.Questa è già un’idea narrativa che va di paripasso con la constatazione che rimaneresempre a casa è una cosa triste.

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7OTTOBRE 2007

la letturaRadici

L’autore dei “Versetti satanici”, sul cui capo tuttora pendela “fatwa”, e l’ultimo Nobel per la Letteratura, minacciatodi morte per aver denunciato l’olocausto degli armeni,si sono incontrati a Manhattan nell’ambito del festivalorganizzato dal “New Yorker”. Ecco cosa si sono detti

Rushdie. Per me la patria è il posto dove so-no cresciuto e dove ritorno. Sono nato aBombay e continuo a chiamarla così, rifiu-tandomi di usare il nuovo nome, Mumbay.Continuo ad amarla, anche se è molto diver-sa da quella della mia gioventù. Io parlol’hindi e quando sono a Bombay la mia lin-gua riappare, come se fosse stata messa insoffitta insieme ad altre cose care e dimenti-

cate. Ecco, quello per me significa sen-tirmi a casa.

Pamuk. La mia patria è laTurchia e la mia città è Istan-bul. In ogni altro posto nonsono a casa, tuttavia resistodi fronte al concetto di esi-lio. La patria è il luogo do-ve vivi le tue prime im-pressioni, apprendi la

tua lingua, la tua cultu-ra. Dove hai la tua

prima percezionedel mondo. È illuogo verso ilquale provi unsenso di appar-tenenza. È il luo-go dove è tuamadre, semprepronta ad acco-

glierti e a proteg-gerti. Anzi in un

certo senso è tuamadre. Ho comin-

ciato a pensare cosa siala casa quando sonovenuto per la primavolta a New York nel1985, per il dottorato diricerca di mia moglie.Riflettevo allora, come

NEW YORK

l faccia a faccia Salman Rushdie-Orhan Pamuk - organizzato

dal New Yorker Festival sul temadella patria e moderato da DeborahTreisman - si è svolto venerdìnotte in una sala da ballo chiamataHighline Ballroom: un posto defilato,all’estremità della Quattordicesimastrada che si affaccia sull’Hudson,troppo a sud per appartenereall’area trendy di Chelsea,troppo a ovest per respirarel’eterna giovinezza del VillageAscoltare il dibattitotra lo scrittore indianosu cui pende tuttora la fatwae il Nobel turco minacciatodi morte per aver denunciatol’olocausto degli armenicostava venticinque dollarie non prevedeva alcuna formadi security: niente metaldetector, poliziotti,o vigilantes

Pamuk e Rushdiedialogo sulla patria

La mia patria è la Turchia e la mia cittàè Istanbul. La patria è il luogo dove vivile tue prime impressioni, apprendila tua lingua, la tua cultura. È il luogo doveè tua madre, sempre pronta ad accogliertie a proteggerti. In un certo senso è tua madre

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 7OTTOBRE 2007

Pamuk. Questo è un concetto che meritaun approfondimento. Adorno diceva che lamoralità non consiste nel sentirsi a casa. Lacasa non può essere il criterio di conoscenza:è indispensabile arricchirsi con la cultura el’esperienza, e solo allora potrai avere unsenso profondo di cosa sia realmente la casa.

Rushdie. Ognuno di noi prova due impul-si opposti: quello verso casa e verso le proprieradici, e quello di andare via e di sognare. Nelprimo caso si privilegia la comodità e la soli-dità, nel secondo la scoperta di noi stessi.Culturalmente la casa è stata sempre privile-giata: l’andare via è sempre problematico.Tuttavia siamo da sempre affascinati dalle fi-gure dei pionieri e anche dei vagabondi: pen-sa a Chaplin.

Pamuk. L’umanità vuole entrambe le co-se, e sappiamo quanto si possa essere arric-chiti anche dai viaggi interiori. Ritornando aquello che è il nostro mestiere, rimango sem-pre spiazzato quando scrivo, ad esempio,una storia d’amore e leggo un commento deltipo «Pamuk scrive dell’amore in Turchia».Noi due viviamo anche il problema che le no-stre lingue madri non sono universali. Pensaa quanto è stato più facile in passato perDickens, o anche Balzac. Tutto ciò ha un con-notato imperialista che mi fa infuriare.

Rushdie. Per molto tempo ho resistito al-l’idea di dover scrivere dell’India, e infatti ilmio primo romanzo, Grimus, è un tentativodi spostare altrove l’ambientazione e la col-locazione temporale. Ma ad essere sinceri,sperando di non far venire i capelli ritti al mioeditore presente in sala, lo trovo un risultatofallimentare e persino imbarazzante. Poi,con I figli della mezzanotte, ho scritto di qual-cosa che conoscevo bene e che mi apparte-neva sin da bambino. Mi è sembrato di tro-vare la chiave per aprire la porta. Mi chiedose è possibile pensare a un Borges senza Ar-gentina o a un Proust senza la Francia. Anchese poco fa citavamo Hemingway, profonda-mente americano, che ambientava i suoi ro-manzi in Francia, Spagna e Italia. Quando hoscritto Fury, ambientato a Manhattan, sape-vo che mi sarei messo nei guai. Non mi sfug-giva che avrebbero detto «ma cosa ci vuoledire, insegnare?». Voglio aggiungere che an-cora adesso non mi considero uno scrittoreamericano come DeLillo, Roth o CormacMcCarthy, ma che nello stesso tempo pensoche la grandezza e la bellezza di New York stianel fatto che ognuno porta una storia che di-venta immediatamente una storianewyorkese. Ognuno può aggiungere unostrato alla città, consapevole del fatto che aNew York si trova la sintesi tra una storia lo-cale e una storia universale.

Pamuk. Una delle differenze maggiori chetrovo con Istanbul è che lì mi sento respon-sabile per qualunque cosa, a New York diniente. Sono qui unicamente con la mia li-bertà. In patria finisco per essere interrogatosu tutto, mentre qui soltanto sul mio ultimolibro.

Rushdie.Orhan, sono commosso per il tuosenso di responsabilità. Io mi sento così irre-sponsabile... E succede anche a me di essereinterrogato su tutto. Non c’è volta che non mivenga chiesto di risolvere il problema me-diorientale!

Pamuk. Preferisco sempre quando possoparlare del mio lavoro. Spesso i miei libri ven-gono definiti autobiografie romanzate, ma èvero solo in parte. Il mio sforzo è quello di in-ventare, e quindi di identificarmi con le miecreazioni, di trovare una loro voce anchequando sono portatrici di valori diversi. Espesso mi viene chiesto come faccia a scrive-re da ateo di personaggi religiosi.

Rushdie. Noi abbiamo il dovere di scrive-re al meglio delle nostre possibilità, e il nostrocredo religioso deve essere irrilevante. Tut-tavia voglio estendere il discorso all’idea direalismo. Kafka ha scritto quel meravigliosoromanzo che è Americasenza essere mai sta-to in questo continente. E il bello è che nonparla dell’America ma di un posto che si chia-ma America. Questo ci dice che il romanzonon è una forma realistica ma un sogno a cuisi dà una forma.

Pamuk. L’autenticità non può essere l’u-nico criterio, e il realismo può nascere dal ri-cordo: Joyce ha scritto di Dublino a Trieste.

Rushdie. Si è portato lì le sue esperienze,persino gli aneddoti minimi e apparente-mente insignificanti che sono stati trasfigu-rati nelle sue opere. Ma ho voglia di rifletterea questo punto sulla funzione attuale del ro-manzo. Mi viene in mente Dickens, che con isuoi libri ebbe un ruolo importante nellariforma dei collegi inglesi. Oggi una situazio-ne come quella che lui ha descritto arrive-rebbe alla conoscenza di tutti velocementeattraverso i media. Tuttavia sappiamo che imedia manipolano, falsificano, e a volte arri-vano al paradosso di essere ininfluenti. Nel1971, durante la guerra del Bangladesh, furo-no pubblicate foto che documentavano gliorrori lì perpetrati. Eppure, nonostante que-ste prove, il governo pachistano non ha mairiconosciuto quanto è successo. Di fronte aepisodi del genere penso che il romanzo ab-bia ancora un ruolo importantissimo.

Pamuk. A questo riguardo vorrei tornaresull’idea di autenticità. Troppo spesso è unconcetto usato come arma politica per scre-ditare chi scrive qualcosa di scomodo. Tem-po fa sono stato in Kurdistan per un reporta-ge e anche in quel caso ho raccolto una seriedi testimonianze di orrori e mostruosità, ol-tre alle storie di corruzione. Quando il saggiovenne pubblicato, le stesse persone che miavevano raccontato quei fatti dichiararonoche non ero attendibile perché non ero cur-do. Perché non appartenevo al loro mondo.L’“autenticità” fu utilizzata come un proiet-tile.

Rushdie. Sono assolutamente d’accordo.Pensa che attualmente è in corso in India undibattito a livello accademico sui narratorida inserire nel programma didattico. La scel-ta privilegia sempre quelli più “indiani” o cherisiedono in India. Ma a me viene in menteKipling, che descrisse il paese in maniera mi-rabile e assolutamente dettagliata, e Forster,che in Passaggio in India ebbe il coraggio diandare controcorrente rispetto al suo Paesee raccontare anche la realtà del coloniali-smo.

Pamuk. Se possiamo tornare per un atti-mo alla filosofia che deve dar forma alla scrit-tura, non si può cercare l’originalità ad ognicosto: l’esagerazione è una mancanza di ri-spetto per l’esperienza umana.

a cura di ANTONIO MONDA

Ognuno di noi prova due impulsi opposti:quello verso casa e verso le proprie radici,e quello di andare via e di sognareCulturalmente la casa è statasempre privilegiata: l’andare viaè sempre problematico

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42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7OTTOBRE 2007

Nel 1947 Hollywood commissionò una sceneggiatura all’autoredel “Lungo addio”: carta bianca e un’offerta economica sontuosaMa il progetto non vide mai la luce e lo scrittore rimaneggiò l’idea

per un episodio di Marlowe. Due disegnatori francesi hanno ripresola versione originale e l’hanno trasformata in una graphic novelora in uscita in Italia. Senza tradire le atmosfere da crime story,come spiega un grande esperto del genere

SPETTACOLI

MARLOWENella foto ,

Robert Mitchum

e Charlotte Rampling

nel film Marlowe,il poliziotto privato,del 1975

Repubblica Nazionale

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IL LIBRO

Scritta da Raymond Chandler nel 1947

la sceneggiatura di Playback non divenne

mai un film. Quando la Universal

abbandonò il progetto, Chandler adattò

l’idea originale per un romanzo del ciclo

di Marlowe. Ora la prima versione rivive

nei fumetti, anticipati in parte in queste

pagine, di Ted Benoit e François Ayroles

Il libro, pubblicato da Bd (144 pagine,

14 euro), uscirà il 18 ottobre

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 7OTTOBRE 2007

Grazie a due autori francesi di indub-bio talento, Ted Benoit e François Ayro-les, la sceneggiatura originale di Play-back rivive oggi sotto forma di fumetto.O, per meglio dire, di graphic novel. Daquando ha adottato la definizione anglo-sassone, il buon vecchio fumetto ha ces-sato di essere vizio solitario da guardoniretrò, porno da pomeriggi piovosi, e si èritrovato sui piani alti della libreria di ca-sa. Accanto, magari, agli Immortali disempre, ma con meno polvere sul dorso.Non è un caso che a rispolverare questodimenticato Chandler d’annata sianostati i francesi, che della bé-dé hannosempre avuto il massimo rispetto. Be-noit e Ayroles, poi, si sono mantenuti fe-delissimi al testo originale, “girandolo”come lo stesso Chandler avrebbe prete-so, senza nessuna forzata attualizzazio-ne, e con tavole di geometrica nudità, oracupe e notturne, ora luminose di neve,che restituiscono intatto il fascino dell’e-poca, sia quanto ad ambientazione chesul versante visionario.

È, insomma, questo Playback, un per-fetto film a fumetti del ‘47, con le faccegiuste, le giuste durezze e i giusti tremo-ri. E con tutte le incongruenze e le inve-rosimiglianze che hanno reso unico il ge-nio narrativo dell’autore. Chandler pre-dicava asciuttezza, rigore, rispetto delleprocedure, un patto chiaro ed essenzia-le con il lettore in nome della restituzio-ne del delitto alla violenta contempora-neità, alla “strada” che è dominio di sta-tisti dal piglio di gangster e dark lady sen-za pietà. Ma poi, nei suoi lavori, pratica-va il delitto inverosimile, la trovata ingiu-stificata, il gusto aperto del letterario, iltutto condito da abbondanti dosi del piùspudorato melodramma. Chandler erascrittore di caratteri e di emozioni, non dimeccanismi a orologeria. Gli sceneggia-tori ingaggiati per le riduzioni dei suoi ro-manzi impazzivano per districarsi nellespirali della confusione, e ogni tanto, co-me nel Grande sonno, spuntava, da qual-che parte, un morto senza senso.

Ma, in fondo, che importanza ha tuttoquesto? Chandler è entrato nel gotha dinoi ammalati di “noir” per il suo roman-tico, titanico eroe senza macchia e senzapaura, per i dialoghi alla Hemingway(meglio di Hemingway), per l’odore delvento caldo di una California immagina-ria come le sue miliardarie disperate. Del“giallo” in sé, a noi chandleriani, poco in-teressa. Perciò, mentre sfogliamo questofilm a fumetti che ha il sapore delle coseperdute per sempre, dobbiamo ricono-scere che i saggi produttori qualche ra-gione l’avevano, nel fulminare un film dicelluloide che non sarebbe passato allastoria. Il tempo è più avanti di Chandler,ma ciò che di lui resta è più avanti deltempo. Un giorno, a spazzare via il simu-lacro del “noir” custodito nei nostri cuo-ri romantici, sarebbe arrivato, mettia-mo, un Ellroy. Ma nessun Ellroy sarebbemai nato senza un Chandler.

GIANCARLO DE CATALDO

«Si tratta di uno deipiù insoliti contrat-ti che siano mai sta-ti firmati a Hol-lywood, o almenocosì mi è stato det-

to. Mi pagano una grossa somma per unsoggetto e una sceneggiatura, e loro sitengono solo i diritti sul film. La cosa in-solita è che non mi assumono, ma s’im-pegnano esclusivamente ad acquistare idiritti del film che verrà ricavato da unsoggetto e una sceneggiatura che scri-

verò a modo mio, senza nessunasupervisione». Così, con un

misto di incredulità e di legit-timo orgoglio, RaymondChandler commenta, inquesta sua lettera del ‘47 al-l’amico James Sandoe, l’of-ferta-che-non-si-può-ri-

fiutare della Universal. Aquasi sessant’anni, il discepo-

lo di Dashiel Hammett, dopo aversurclassato in popolarità (e vendite) il

maestro, è entrato nel cuore delle majordi Hollywood. Merito, certo, di un paio disceneggiature di alto profilo (Dalia Az-zurra, La fiamma del peccato). Ma ancorpiù riconoscimento, da parte dei prag-matici cinematografari, dell’entusiasti-ca risposta del botteghino. Un tipo simi-le, con quel suo tocco da Re Mida, non bi-sogna lasciarselo scappare.

Nasce così Playback. Il film,nelle intenzioni di

Chandler, dovrebbe raccontare la storiadi Betty, un’avvenente fanciulla perse-guitata da un destino avverso che la met-te per due volte (da qui il titolo) davanti al-la stessa, tragica vicenda. Accusata (in-giustamente) di aver ucciso il ricco mari-to, graziata da un giudice garantista chela crede innocente, Betty fugge da NewYork per rifugiarsi nella gelida Vancou-ver. Qui, il giorno stesso del suo arrivo, siritrova accusata, e sempre senza ragione,di un nuovo delitto. Seguono incubo, so-lidarietà da parte di un poliziotto-dandy,fuga e un epilogo romantico-avventuro-so con happy end ambiguo, in stile, perintenderci, dichiaratamente “noir”.

Le premesse per un nuovo blockbu-ster ci sono tutte, ma, almeno per unavolta, i grandi produttori hanno sbaglia-to i calcoli. Chandler, notoriamente in-cline al perfezionismo (e alla depressio-ne), la tira in lungo, scrive e riscrive, sfo-ra i tempi contrattuali di consegna e,quando finalmente il copione lo soddi-sfa, il film salta per problemi produttivi.Convinto che il cinema, in definitiva, ser-va sostanzialmente a incrementare ilreddito di uno scrittore, ma al prezzo dipervertirne il talento letterario, per unpaio d’anni Chandler continuerà a intes-sere con Hollywood un rapporto gravidodi reciproci sospetti. Finché, dopo unduro confronto con l’odiato Alfred Hit-chcock sul set di Delitto per delitto, tor-nerà alla scrittura a tempo pieno. Diecianni dopo l’offerta della Universal, Play-back, stravolto e riadattato, diventeràAncora una notte, settima e penultimaavventura della saga di Philip Marlowe,investigatore.

Chandler,il film

segreto

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Repubblica Nazionale

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Comeil sale per il cioccolato. Sensuale, particolare, a volte estremo, altre facilissimo, mai banale. Per carità, nul-la è stato inventato, se è vero che già in epoca precolombiana il cioccolato incontrava il miele solo di sfuggita eper la mera necessità di smussare gli angoli violenti di una lavorazione grezza. Oggi, con le tavolette raffinate esinuose proposte dall’intero pianeta cioccolatiero — una sfoglietta ben confezionata non si nega a nessuno —la fantasia dilata i confini e rende giustizia a un alimento totalizzante: torbido e carnale, mansueto e impalpa-bile, godereccio e truffaldino, dietetico e ingrassante, benefico e dannoso.

Come l’acqua per il cioccolato, scriveva Laura Esquivel, per simbolizzare la rabbia che sale dal basso, acqua che bolle perlegarsi al cacao della bevanda cara a Montezuma. Snobbata a lungo in favore di latte e panna, oggi l’acqua diventa l’emul-sione di una mousse finissima, dove lo zucchero non c’entra per nulla: abbinamento principe, un crostaceo.

In principio, furono le carni rosse che più rosse non si può, ovvero la selvaggina rude: cinghiali e piccioni, insaccati e taglidi risulta come la coda. Il cioccolato usato per spegnere, arrotondare, rendere ruffiani fondi di cottura altrimenti sguaiati e

scostanti. Ricette ricamate e complesse come te-le di ragno. Mai sentito parlare del sanguinacciochietino? Sangue fresco di maiale, mosto cotto,strutto, cannella, cotti a fuoco lieve per oltre dueore, e poi amalgamati con un trito di pinoli, zuc-chero, cedro candito, scorza d’arance, mandor-le tostate e cioccolato vigoroso per trasformare iltutto in una crema sontuosa e tentatrice.

Oppure i ravioli di memoria carnica detti cial-sons, dove la base della farcitura — biscotti, uvet-ta, canditi, fichi, rum, zucchero, cacao, confet-tura di prugne — prima di essere insaporita in unsoffritto di burro, cipolla e prezzemolo, vienerinforzata con cioccolato fondente. Nulla, co-munque, a confronto dei cento ingredienti pre-visti dal millenario Mole Poblano, re indiscussodelle Ricette immoralidi Montalbàn, con il cioc-colato protagonista e tentatore.

I cuochi di nuova generazione, lavorandoquasi sempre per sottrazione, diversificano lecotture là dove una volta tutto si univa. Così, ilcioccolato si offre nudo&crudo al palato, conabbinamenti soavi e d’autore, dai ravioli di bur-rata, provola e spuma di caglio e fondente diGennaro Esposito, alle crocchette liquide dicioccolato con caviale e chinotto di Carlo Crac-co, su su fino al risotto con olio d’acciughe, li-mone, cacao di Stefania Moroni (Aimo e Nadia)e al bon bon di foie gras e cioccolato di FilippoChiappini Dattilo. Più in là si è spinto ErnestoIaccarino, reinventando un campione della cu-cina barocca campana come le melanzane colcioccolato a squisita, sfiziosa millefoglie su basedi torta caprese.

Ma più ancora degli chef, vale il lavoro deimaestri cioccolatieri, che stanno insegnando aiclienti il piacere del cioccolato reinventato apralina-aperitivo: tavolette al latte con sale dol-

ce di Cervia, bocconcini crema di parmigiano e miele, pistacchi e mandorle salate, gelatina di birra.Condizione indispen-sabile, il valore della materia prima. La via italiana della qualità assoluta aperta dai fratelli Tessieri (Amedei), capaci di vin-cere con il loro Chuao il primo premio all’ultimo Chocolate World Contest di Londra, è diventata percorso virtuoso di mol-ti artigiani. Rimandate ai mittenti le mediocri coperture (lingotti da lavorare) con grassi vegetali diversi dal burro di cacao,la scelta cade su masse di cacao di piccole piantagioni iperselezionate, più facili da armonizzare con ingredienti sapidi.

Il resto è nella maestria dei pasticceri. Se riuscite a farvi largo tra l’infinita folla del prossimo Eurochocolate, in program-ma dal 13 al 21 ottobre, prenotate una delle cento lezioni-degustazioni a disposizione degli appassionati. Tra “Salumi&ba-ci” e “Il buono, il dolce e il salato”, troverete il cioccolatino che fa per voi. Il cum grano salisè d’obbligo.

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7OTTOBRE 2007

i saporiGusti a sorpresa

In principio era la bevanda sacra di Mayae Aztechi, irrobustita dai contributi fortidi peperoncino e zenzero; poi ha traversato l’Europae i secoli a braccetto con zucchero e latte; ora torna sulle tavolepiù raffinate con abbinamenti inediti e fantasiosi. Come si potràsperimentare durante la gastro-maratona di Eurochocolate

Chefdegli

LICIA GRANELLO

Le nuove ricette “immorali”

LA TRADIZIONE

Cioccolata

L’INNOVAZIONE

itinerari

Appoggiato a mezza

costa all’imbocco

della Val Venosta,

dominato

dal bellissimo,

trecentesco

Castel Juval,

è circondato

da coltivazioni

di uva, albicocche e mele. Jorg Trafoier sposa

frutta e cioccolato nei ravioli con fegato d’oca

DOVE DORMIREHIMMELREICH

Via Convento 15

Tel. 0473-624109

Camera doppia da 110 euro, con mezza pensione

DOVE MANGIAREKUPPERLRAIN (con camere)

Via Stazione 16, località Maragino

Tel. 0473-624103

Chiuso domenica e lunedì a pranzo,

menù da 65 euro

Castelbello (Bz)Immersa

nella collina

che si affaccia

sull’Adriatico,

fa parte delle “città

dell’olio” e vanta

buone produzioni

di vino e formaggi

Nel ristorante-padre

dell’alta cucina marchigiana, Lucio Pompili declina

il cioccolato con fegato e miele

DOVE DORMIREVILLA CARTOCETO

Via Umberto Primo 11

Tel. 0721-893020

Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARESYMPOSIUM 4 STAGIONI

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Serrungarina

Tel. 0721-898320

Chiuso lunedì e i feriali a pranzo, menù da 70 euro

Cartoceto (Pu)Appoggiata

sulla riva destra

del Ticino, a metà

strada (35 km)

da Milano e Pavia,

ha un bel centro,

con cuore

nella rinascimentale

Piazza Ducale

Nel suo locale, Enrico Gerli propone gli gnocchi

alla romana con verdure e cioccolato

DOVE DORMIRENUOVO HOTEL

Corso Togliatti 21

Tel. 0381-325026

Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARE I CASTAGNI

Via Ottobiano 8

Tel. 0381-42860

Chiuso domenica sera, lunedì e martedì a pranzo,

menù da 45 euro

Vigevano (Pv)

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BISENTI (TE)Concezio Centini

Piazza V. Emanuele 1

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MelanzanaCento varianti

per le mulegnane c’a’ciucculata, storico,

modernissimo esempio

di dolce-non dolce

della provincia di Salerno

Affettate e fritte (una o due

volte), si alternano a strati

con salsa di cioccolato,

amaretti e canditi

PeperoneÈ l’ingrediente-base

del mole poblano,

uno dei piatti-simbolo

della cucina messicana,

che assembla con cotture

separate e progressive

bocconi di tacchino,

verdure, spezie, frutta secca

e cioccolato fondente

Va fatto riposare un giorno

PiccioneLa carne che meglio

si abbina al cioccolato entra

in molte ricette tradizionali

e innovative, dalla salsa

di accompagnamento

del petto rosolato (ma rosa

all’interno) alla terrina

speziata. Note dolci anche

per il foie gras, cotto

con cioccolato e porto

SalmìL’unione tra cioccolato

e selvaggina è spesso

mediata dalla marinatura

con vino rosso e spezie,

come nel maremmano

cinghiale al cioccolato

o nel pasticcio di sostanzasiciliano. Cioccolato

anche nella piemontese

lepre in civet

EurochocolateLa kermesse di Eurochocolate,

a Perugia dal 13 al 21ottobre,

dedicherà spazio alle creazioni

salate con due aree didattiche:

“Il cioccolato in cucina”

e “Salumi & baci”. Tra corsi

di pralinerie e degustazioni,

spiccano le date dedicate

ai Paesi produttori di cacao

e al commercio equosolidale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 7OTTOBRE 2007

La cioccolata è dolce? La maggior parte dinoi lo dà forse per scontato, ma tale dif-fusa convinzione è frutto di un’espe-

rienza storica tutto sommato recente. Un’e-sperienza iniziata nemmeno cinque secoli fa,quando gli europei scoprirono il cacao nell’A-merica centrale e si stupirono dell’importan-za, economica e simbolica, che gli indigenidavano alla strana bevanda ottenuta con queinoccioli abbrustoliti, frantumati e ridotti inpolvere. Gli antichi Maya e gli Aztechi bolliva-no in acqua caldissima quella polvere, ag-giungendovi i sapori forti e pungenti del pepe,del peperoncino, dello zenzero, sporadica-mente ammorbiditi da un po’ di miele e da unimpasto di farina di mais. Quella bevanda,densa e schiumosa, era offerta agli déi e bevu-ta dai sacerdoti durante i riti sacri.

Sappiamo come andò a finire. Gli europeiimitarono l’uso indigeno ma cambiarono iconnotati alla bevanda, liberandola dai sapo-ri forti e contaminandola con il gusto dolcedello zucchero, che a quel tempo furoreggia-va in Europa. La cioccolata diventò una be-vanda alla moda, particolarmente amata neicircoli aristocratici e ammessa ampiamentenei conventi come rompi-digiuno nei periodidi astinenza dal cibo.

Il successo della dolce bevanda (e più tardi delle tavolette, che la re-sero solida e trasportabile) fu strepitoso ma non univoco. Fra Sei e Set-tecento si tentarono esperimenti di ogni genere, per sottoporre il ca-cao agli usi più diversi e utilizzarlo nelle più diverse composizioni. La

corte fiorentina dei Medici si rese famosa, nel-l’Europa seicentesca, per una ricetta segretache dava alla cioccolata un eccitante profumodi gelsomino (si seppe poi che il segreto stavanel mescolare il gelsomino non al liquido cal-do, come altri tentarono di fare, ma alla polve-re di cacao che si sarebbe sciolta nel latte). Lacioccolata potenziata con chicchi d’ambra fua lungo propagandata (fino a Brillat-Savarin)come formidabile ricostituente di un corpodeprivato delle sue migliori energie. Nel Sette-cento vi fu chi propose di mescolare il cacaocon il vino o con la birra, con il caffè o con il tè,con l’acquavite, addirittura col brodo di carne— per ottenerne sapori salati anziché dolci.

Queste sperimentazioni non sono termina-te. Il cioccolato si sposa all’aceto balsamico,che unisce il dolce all’agro; alla menta, che an-tepone l’idea del fresco a quella del caldo, de-viando altrove la sensazione di dolcezza; adaromi piccanti e spezie forti, che paiono ri-condurci là dove questa storia era cominciata,riconvertendo la “scelta europea” dello zuc-chero verso un recupero degli antichi usi mayae aztechi. Per non parlare del cacao impiegatoa condimento delle carni: un uso già praticatonell’alta cucina rinascimentale, rimasto in

certe tradizioni regionali soprattutto di ambito popolare (penso al“dolceforte” toscano e ad altre simili preparazioni).

Se qualcuno oggi ci spiega che la cioccolata è buona anche salata,non dobbiamo stupirci. E faremmo un torto alla storia se lo ritenes-simo un innovatore.

Cacao storydal pepe al miele

e ritornoMASSIMO MONTANARI

‘‘

Manuel V. MontalbànSa di zolfo quest’eccellente

salsa che accompagnaqualsiasi cosa che

l’affamato d’amore puòingollare a cucchiaiate...È squisito e cioccolatoso

piombo fuso, questo molepoblano, in grado

di stuzzicare le zone piùaddormentate dell’uomo

e della donna…

‘‘

Da COL CAVOLOMondadori

ZuccaIl dolce e l’amaro

si sposano nei ripieni

delle sfoglie, esaltando

le note aromatiche

del fondente, ammorbidite

dalla pastosità della zucca

Insieme, anche

nella minestra cremosa

tiepida con chips

croccanti

Birra artigianaleContende a liquori

e vino il primato

del miglior abbinamento

A fare la differenza,

la scelta dei malti,

il dosaggio del luppolo,

la rifermentazione

in bottiglia,

il tasso alcolico

(9 gradi)

SaleL’accostamento più

estremo è una delizia

del palato, a patto

che il sale sia privo

dei sedimenti amari

che caratterizzano

la tipologia comune. Il più

goloso è con grani di sale

dolce di Cervia o altri fleur

de sel (raccolti in salina)

ExtravergineSe la tradizione

ammette solo panna

& burro tra i grassi

di accompagnamento,

l’olio di qualità entra

nelle nuove ricette

dalla farcitura di tortini

col cuore morbido alle

emulsioni per profumare

le tartare di pesce

ScampiAbbinamento molto amato

dai cuochi di nuova

generazione, per il gioco

di contrasti con la

dolcezza dei crostacei

Invece di essere cotto,

come nella cucina d’antàn,

il cioccolato viene usato

a crudo, grattugiato

o tagliato a scaglie sottili

SfogliaL’impasto con cacao

in polvere o cioccolato

sciolto a bagnomaria regala

profumo e gusto particolari,

che esaltano ripieni e ragù

di carni rosse. Oltre

a tagliatelle, tortelli e ravioli,

ottimi anche gli gnocchi -

perfetti con la ricotta –

e i semolini del fritto misto

TORINOGuido Gobino

Via Cagliari 15/A

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Repubblica Nazionale

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le tendenzeSobrio è bello

Perla, piombo o magari fumo di Londra in versionefemminile (per il giorno e per la sera), ma ancheper l’arredamento. Trionfa il colore per eccellenzadel guardaroba maschile, declinato in infinite sfumatureda stilisti e designer. Stavolta però la sua serietàsi stempera e la grisaglia diventa perfino sexy

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7OTTOBRE 2007

Piùsobrio dei technicolor annunciati per la pros-sima estate, più accessibile del bianco (che saràvirginale ma ingrossa), più chic del classicissi-mo blu. È il grigio il protagonista assoluto di que-sti primi scampoli d’autunno e dell’inverno.Mutuato dai più algidi guardaroba maschili, il

grigio approda nella versione femminile come simbolo delbon ton. Nelle vetrine dei negozi, per le strade e sulle pagi-ne dei giornali, si prende la sua rivincita di colore troppospesso trascurato dalle donne in caccia di emozioni estre-me. Ed è ancora il grigio che avanza con buona pace delleirriducibili del nero, che del look dark sentono suonare il deprofundis già da un paio di collezioni.

Ma dire grigio è dire tutto e niente perché le sue sfu-mature sono infinite: si va dal ghiaccio appena impolve-rato sino al ferro, dal fumo di Londra al canna di fucile. Cen’è per tutti i gusti e per ogni tipo di esigenza. Ed è per que-sto che in tutte le sue nuances si adatterà meravigliosa-mente a cappotti, accessori, abiti ma anche all’arreda-mento. Un divano del grigio-non-colore preserva dallosporco, non incupisce la casa (come capita con il nero in-tegrale) e si accorda con qualsiasi elemento d’arredo opavimento. È quel che si dice un passe-partout. Il grigiova praticamente d’accordo con tutte le sfumature del-

l’arcobaleno: imprezio-sisce il bianco, normaliz-za i flou e alleggerisce ilnero. Una donna grigiadalla testa ai piedi nonstanca mai, neppure sestessa, e così anche le in-tegraliste del total colorsaranno soddisfatte.

Il grigio è come il cielodopo la pioggia. Può sor-prendere, riservare colpi

di scena e rivelarsi incredibilmente affascinante nelle suedeclinazioni più glamour come il perla, l’acciaio e ilpiombo. Soprattutto se abbinato a sete lucide, garze leg-gere, chiffon trasparenti e georgette evanescenti, offresoluzioni da gran sera. Per non parlare dell’innata capa-cità di dare il giusto risalto ad origami, perle, strass e bril-lanti, ovvero a quei ricami che gli stilisti, nell’ultima sta-gione, ci hanno servito dall’antipasto al dessert.

Il grigio è anche inaspettatamente sexy. Non a caso spes-so le sottovesti di raso, recentemente tornate in voga, sonofumo di Londra. Della doppia anima del grigio sa qualcosaanche Jane Birkin che, in occasione dell’ultimo Festival diCannes, ha lasciato stupiti per la sua intramontabile graziasottolineata da uno splendido abito di chiffon grigio di Al-berta Ferretti.

Se invece si affronta l’accessorio, la tinta dell’inverno èeclettica e priva di stagionalità. Come si può dire di una po-chette o di una ballerina in pelle grigia se è estiva o inverna-le? Praticamente impossibile. Se i colori netti condizionanotroppo, il grigio lascia aperte le porte. Perché non dimenti-chiamoci che ciò che è trendy può essere anche pratico.

Altra novità è l’uso del grigio nell’abbigliamento deibambini. Per anni vietatissimo, considerato una tinta “vec-chia” e troppo seriosa, rispunta nella versione street styledella felpa e nei vestitini. L’abbinamento felpa grigia e jeansè ormai un sodalizio vincente anche per gli adolescenti ditutto il mondo. E piace anche alle mamme perché “fa gio-vane”. Ecco la tendenza global per eccellenza.

Crepuscolarisenza tristezza

VITA A PALAZZOÈ di Nicole Farhi

questo tailleur

con giacca e pantaloni

palazzo in cachemire

grigio platino. Il mini

cinturino in vita rende

l’insieme femminile

COLLO DI PELLICCIATotal grigio per l'uomo

che sceglie Lardini

Completo classico

e, sopra, un cappotto

impreziosito dal

collo di pelliccia. Per es-

sere eleganti sempre

COWGIRL DA CITTÀMaglia lavorata a filo

grosso per il completo

gonna più casacca

di Kenzo. Indossato

con stivali e cappello

Una mise da vera

cowgirl metropolitana

SPIRITO SPORTIVOPer un uomo sportivo

ma impeccabile

c’è il completo Seventy

della collezione inverno

Per il tocco in più si può

osare l’abbinamento

con la sciarpa bianca

FORME MORBIDEÈ ispirata ad una donna

dalle forme morbide

e femminili, quasi

un quadro di Vermeer,

la signora Louis Vuitton

disegnata da Marc

Jacobs. Vince il grigio

CARATTERE IBERICOStivale in morbido

camoscio matelassè

per Castagner. La casa

spagnola delle espadrillas

propone una collezione

invernale che piacerà

alle ragazze

ALTA QUOTATacco vertiginoso,

e a spillo, per la scarpa

sandalo da gran

sera proposta da Miss

Sixty. È ideale

sia con la gonna

che con i pantaloni

SEMPLICEMENTE CHICScarpa da ginnastica

grigio ferro per Alexander

McQueen. È sportiva

ma glamour. Per chi vuol

essere alla moda anche

indossando semplici

jeans e maglietta

GRIGIO

IRENE MARIA SCALISE

CATTIVE COMPAGNIESandalo da cattiva

per Burberry. Tacco alto,

zeppa e tante borchie

grigio argento

che illuminano il modello

da sera. Perfetto

anche in pieno inverno

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 7OTTOBRE 2007

Chiaroscurocome la vita

MARINO NIOLA

UN’IDEA TENERATenero come quello

dei bambini piccoli

è il morbido cappello

Chanel con pon pon

Un tocco giovanile

che rallegrerà i cappotti

più seriosi dell’inverno

BASTA UN NODOCravatta Armani

super chic con piccole

righe in grigio. Adatta

ad abiti da cerimonia

ma anche al semplice

completo di taglio

sartoriale

MISS BON TON L’abitino bon ton H&M

che ricorda gli anni

Cinquanta ha il collo

ad anello e la mezza

manica che permette,

volendo, di abbinarlo

ai guanti lunghi

ECCO L’ALLUMINIOSi chiama Lagòdi Philippe Starck

la poltroncina grigia

in poliuretano rigido

e gambe in alluminio

È disponibile laccata

nero, rosso, argento

KIT DA LAVOROCartella di Tumi. Perfetta

per la città o per brevi

viaggi di lavoro. C’è

un triplo scomparto

per notebook, accessori

e documenti, vani

con divisori e trousse

L’ORA DEL RIPOSOSi chiama Orsala comoda dormeuse

di Rodolfo Dordoni

per Driade. Ideale

per leggere un libro,

ricevere gli amici

e fare un riposino

SOLO L’INDISPENSABILEBorsa preziosa di Jil

Sander in stampa cocco

Una pochette rigida

e grande quanto basta

Può ospitare: il cellulare,

le chiavi di casa

e un piccolo portafoglio

TEMPO MODERNOOrologio Breil,

Globe Small Second,

con cinturino in vernice

grigia. È minimal quanto

basta e può essere usato

di giorno e di sera senza

timore di sfigurare

SIGNORE SBADATEAmpia borsa di Prada

per quelle che nella bag

ci vogliono mettere tutto

È in morbida pelle glassè

sfumata. Per le più

sbadate c’è anche

la targhetta per il nome

EFFETTO MONTAGNACappellino Cruciani

in lana fantasia effetto

montagna anni

Cinquanta. Va bene

anche per le giornate

più fredde in città

o per girare in bici

FO

TO

CO

RB

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Il grigio? Ce lo ha dato la moda.Ma non gli Armani, gli Yamamo-to, i Cardin e altri indiscussi

maestri del mezzo tono. No, il piùmedio dei colori viene da molto piùlontano. Addirittura dal fashionmedievale. Che inventa letteral-mente la parola e dunque la catego-ria del grigio. Il termine infatti entranelle lingue romanze, e quindi an-che in quella italiana, attraverso ilcommercio delle pellicce. Nel Me-dioevo con il termine grigio, deri-vante dal germanico grisie dal fran-cese gris, ci si riferiva al mantello dicerti scoiattoli siberiani usato perconfezionare gli abiti di dignitari ealtri potenti. O, più tardi, alla pelledi alcuni orsi, come il grizzly, dettocosì proprio perché il suo pelo ri-corda quelle parrucche di capelligrigi che in inglese si chiamanogrizzle. Solo successivamente laparola grigio smette di essere sem-plicemente il colore di un animaleper diventare un colore e basta.

Il colore per eccellenza, il simbo-lo stesso del chiaroscuro. Con la pa-rola grigio di fatto indichiamo l’in-finita gamma delle variazioni chestanno fra il bianco e il nero, i duenon-colori assoluti, i poli oppostidella scala cromatica. Esattamentecome il bene e il male sono i poli op-posti della scala morale. Nessuno diquesti assoluti esiste veramente.Perché la vita, come le cose, non èmai perfettamente bianca o perfet-tamente nera, ma sempre grigia.

Simbolo della mediazione deicontrari, emblema della coinci-denza degli opposti, il grigio ha lacapacità di significare le cose piùdiverse, a seconda del suo tono,della luce e dell’oscurità che me-scola. Si può dire che la realtà siaquel che Cartier Bresson dicevadella fotografia. Un catalogo infini-to di punti di grigio. Più o meno lu-minosi.

Non a caso i mistici vedevano Dionon come una luce assoluta bensìcome una nuvola grigio tempesta,un biancore opalescente, un fulgo-re tenebroso. Proprio come la cali-gine divina che appare a Mosè sulmonte Sinai.

Anche il saio dei monaci in origi-ne è grigio come la cenere a signifi-care penitenza, contrizione,umiltà. Perfino quando a indossar-lo sono degli autentici vip come ilcappuccino François Leclerc duTremblay, il potentissimo segreta-rio del cardinale di Richelieu, so-prannominato per questo l’emi-nenza grigia. Umiltà dunque, mapiena di orgoglio. Come quella diCenerentola che, lo dice il nomestesso, vive nel grigiore della cene-re, ma alla fine mette sotto tutti. Co-me la Julia Roberts di Pretty Wo-man. O come quella della Griseldaboccaccesca, emblema immortaledella moglie sottomessa, votata adun destino plumbeo fin dal suo no-me, che deriva appunto da gris, gri-gio.

Dalle donne grigie delle fiabe agliuomini grigi della civiltà industria-le. Il colore della medietà celebra ilsuo trionfo sociale a metà Ottocen-to quando diventa la divisa degliuomini d’affari, eminenze grigiedel mondo borghese, avvolti nei lo-ro completi di grisaglia. Il grigiorefatto tessuto appunto. È l’apoteosidell’uomo medio, annullato dalFumo di Londra che veste un ruolopiù che una persona. Un po’ comeil Tasmania che imperversa oggipiù che mai nei palazzi del potere,confermandosi come colore cen-trista per antonomasia. Il colore delcompromesso.

Oggi il grigio domina nell’archi-tettura, nello stile, nel design. Co-prendosi di bagliori trionfali nel-l’alluminio degli edifici che illumi-nano il profilo delle città. Satinatocome quello delle leghe leggere. Ometallizzato come quello delle au-to. Non è certo lo stesso tono dellecittà industriali annerite dal fumo eavvolte dalla nebbia, come la Lon-dra di Charles Dickens o la Berlinodi Walter Benjamin. Quello era ungrigiore untuoso che pesava sullecose e sulle anime. Quello di oggi èun riflesso del cielo, un metallorampante. È grigio light.

Repubblica Nazionale

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48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7OTTOBRE 2007

‘‘

‘‘l’incontroVite da set

MONTREAL

Mano nella mano. Per-sino, gli occhi negliocchi. Ringiovanitidall’amore, giovanil-

mente dimostrativi, Sophie Marceau eChristophe Lambert sono diventati lospot dei loro cuori. Ma dopo mesi emesi di sì e di no, di dico non dico, difughette e nascondini. E c’è voluto unintero oceano per prender le distanzee rendere finalmente ufficiale la lorofresca relazione, nata per caso («noncredo al caso: ma se esiste, fa le cosemolto bene») sul set francese del se-condo film di Sophie regista: è al di làdell’Atlantico, a Montreal, al XXXI Fe-stival des Films du Monde, dove laMarceau ha presentato in prima inter-nazionale La disparue de Deauville(Trivial), che i due attori scintillano al-l’unisono tra shopping e bacetti inpubblico. Lei è, come sempre, un in-canto. Lui ha il look un po’ arruggini-to, ma al punto giusto, del desiderabi-le cinquantenne. Lui, l’Immortale se-riale di Highlander, è in Canada ancheper i sopralluoghi del suo primo filmda regista, All We Have Is Now («storiadi una vita-bis assegnata a uno chenon ha combinato nulla la prima vol-ta»). Lei è qui per farsi applaudire ecoccolare. Coccole maiuscole. Il diret-tore del festival le consegna il GrandPrix des Amériques, per i suoi meriti diinterprete e, addirittura, di regista:proprio a Montreal, cinque anni fa,aveva ottenuto il premio per la regiacon Parlez-moi d’amour, sofferta ra-diografia d’una coppia in crisi, cioè —in filigrana — di Sophie e del registafranco-polacco Andrzej Zulawski, ilcompagno da cui si era da poco sepa-rata dopo quindici anni di convivenzae un figlio, Vincent, oggi dodicenne.

Lei è bella e radiosa. Tintinnano iminuscoli orecchini di brillanti. Sorri-de. Ringrazia. Ha un abito giallo-shock, che illumina ogni suo residuod’adolescenza, giunchiglia d’autun-no. «Il 17 novembre compirò quaran-tun anni», sussurra. È come se lancias-se una sfida: «Non mi fa paura invec-chiare. Anche se mi preoccupo a voltedel mio aspetto, fa bene accompagna-re il tempo che passa, liberarsi di que-sta giovinezza che spesso è soprattut-to un peso. Da ragazzina avevo il ter-rore d’arrivare ai trent’anni. Sono sta-ti invece una svolta felice: il passaggiodall’idea di prendere a quella di dona-re». Si dovrà forse abituare a qualchefrustrazione professionale? «Al con-trario: in età avanzata ricevo propostedi ruoli più interessanti che in passato.L’anno prossimo sarò la fata di Cene-rentola. Alla lettura del copione sonoesplosa d’entusiasmo: Uauh! È tutta lavita che aspettavo un personaggio co-sì!».

Anche Sophie Marceau è una favoladi Cenerentola: cresciuta a Chelles,banlieue operaia di Parigi, scuole alCollège Curie, nella periferica Gentil-ly, a quattordici anni incontra il Prin-cipe Azzurro, che, nell’era del cinemae della riproducibilità tecnica dei so-gni, non è un trono ma un film, Il tem-po delle mele di Claude Pinoteau. Suc-cesso planetario, tappa storica deglischermi francesi, una pellicola dallaparte degli adolescenti, del loro vissu-to, sul loro rapporto con la quotidia-nità e il resto del mondo: una Notte pri-ma degli esami d’Oltralpe, di appenauna generazione fa. «Era l’estatedell’80, avevo terminato la quarta, vo-levo guadagnare qualcosa durante levacanze e avevo captato l’annuncio diun’agenzia di casting in cerca di teen-ager. Un mese dopo, mi han chiamatoper il ruolo di Vic, la protagonista». Lei,su mille candidate. Non sarà il lavorodi una sola estate. Sarà “la paghetta”assicurata per sempre: gli incassi stra-tosferici renderanno inevitabile, dueanni dopo, il rituale Tempo delle mele2, che varrà alla Marceau il César per ilmigliore «espoir féminin».

Da allora, l’attrice — contesa dai seteuropei e americani, da Police di Pialata Braveheartdi Mel Gibson, da Fort Sa-ganne di Corneau alla Bond Girl inAgente 007-Il mondo non basta, a fian-co di Pierce Brosnan — diventa l’iconagiovanile del cinema francese, in codae, insieme, alla pari con gli altri mitidella Francia in celluloide. Non ha ne-gli occhi la magia araba di IsabelleAdjani né, sulle labbra, quello spillod’enigma con cui Carole Bouquet ave-va punzecchiato Luis Buñuel. MaSophie Marceau è la bellezza scolaret-ta, la teen che tutti desidereremmo in-contrare o contemplare, svolazzante,leggera, inafferrabile anche se a porta-ta di mano: il tempo che fugge. Il suosguardo non ha mai perso la spavalde-

piuttosto timida e discreta. Non mi la-mento. Ma è evidente che ho dovutomettere da parte qualcosa: quel cheera più mio. Che ho poi avuto la fortu-na, o la forza, di recuperare più tardi.Ma non dimenticherò mai la violenzadi trovarmi, da un giorno all’altro, sot-to la luce accecante — in tutti i sensi —dei riflettori».

È anche per questo che, più adulta,ma sempre giovanissima, si è messadietro la cinepresa. Un corto, L’aube àl’envers, concepito durante le ripresedi Braveheart e presentato a Cannes a“Un certain regard”, e poi i due lungo-metraggi, Parlez-moi d’amour e La di-sparue de Deauville: «La regia mi asso-miglia, mi ci riconosco. Mi completa,mi fa sentire a mio agio. Appartiene almio bisogno di avere il controllo dellecose. Recitare è meraviglioso, ma perme è un mestiere di dolore. Conse-guenza logica: a quattordici anni nonmi sentivo pronta per fare l’attrice. Mitrascino dietro, da allora, quell’insicu-rezza». La voglia di regia le è nata neglianni-Zulawski, la stagione della suapiena maturazione d’interprete, du-rante le riprese dei film girati con lui eper lui: Amore balordo, Le mie notti so-no più belle dei vostri giorni, La fedeltà.«Andrzej ha avuto un grande ruolonella mia vita, dunque nel mio cine-ma, dove mi influenza ancora. Si im-para tanto dai grandi. Ma ancora di piùdai meno grandi (ride), perché capisciquello che devi evitare: senza contareche contribuiscono molto a ridarti fi-ducia...».

Sophie Marceau: d’ora in poi, più re-gista o più attrice? «Dipenderà dalleoccasioni e dagli stati d’animo. Ho co-minciato a dirigere film quando ne hosentito il bisogno: si gira se si ha qual-cosa da dire». Difficile stanare la ne-cessità di La disparue de Deauville, fra-gile thriller su una “femme fatale” (in-terpretata dalla stessa Sophie) che tor-na da un plumbeo passato. La Mar-ceau difende la nuova prova, ambien-tata nell’hotel di Deauville che è daanni quartier generale delle star al Fe-stival du Cinéma Américain, di cui èstata più volte ospite d’onore o giura-ta: «Un hotel è già di per sé una storia:ogni hotel è stato prima o poi teatrod’un delitto. L’idea del film nasce da lì:che succede, che è successo, dietroquella porta in fondo al corridoio? Unavolta in albergo, la suspense è inevita-bile, soprattutto la sera, quando sirientra soli e ci si inoltra nel corridoiodella nostra camera... Brrrr».

Di hotel, la Marceau ha fatto colle-zione nella sua carriera d’attrice: «Piùche attrice, nomade. Gitana. Con ibimbi al seguito, finché erano piccoli».Ma nel film l’attrice-regista vuole sfio-rare un brivido più profondo, quellodell’amore, «che è sempre al centro dinoi e delle nostre storie. Anche quan-do non ne parliamo: è solo un modo dievitarlo, dunque, ancora una volta, di

ria malinconica dell’adolescenza, néil candore sorpreso e gioioso davanti acatastrofi adulte, come, due anni fa,durante la passerella sul tappeto ros-so di Cannes, la caduta birichina dellaspallina rivelatrice, in diretta, del suoseno di fiaba.

Alla Marceau, il grande schermonon ha solo ingrandito l’esistenzaquotidiana: gliel’ha sostituita. «Il ci-nema è tutta la mia vita. Ho avutoun’infanzia e poi il cinema. In mezzo,nulla. Ma il cinema mi ha dato tutto. Èstato la mia bacchetta magica: va’,puoi toccare il mondo con un dito.Nello stesso tempo, il cinema mi haanche tolto tutto. Sono stata strappa-ta alla mia infanzia e alla mia identità.Mi chiamavo Danièle Sylvie Maupu. Aquattordici anni mi hanno detto: d’o-ra in poi sarai Sophie Marceau. Sonostata programmata come immaginepopolare, mentre ero una ragazzetta

parlarne... Si dice sempre: l’amore, ahl’amore, che meraviglia. È vero. Mapuò anche essere distruttivo, deva-stante. Un amore ossessivo, eccessivoapre confini invalicabili, come quellidell’incesto, a cui si allude nel film, oassegna diritti assurdi: appropriarsidegli altri. L’amore può fare tanto ma-le. Anche all’altro estremo, la mancan-za d’amore, l’indifferenza. Che c’è dipiù terribile del non sentirsi amati?».L’amore, dentro la parabola Zulawski-Lambert, ha avuto per Sophie un altrocapitolo importante, il produttore UsaJim Lemley, che le ha dato una bambi-na, ora di cinque anni: «Un’esperien-za piena, fantastica: la rivelazione diun altro pianeta, la riscoperta dell’in-nocenza. Mia figlia è una continua do-manda di vita, di affetto ancora a livel-lo primario. È il mio Parlez-moi d’a-mour permanente».

Ma con il cinema sempre alle costo-le. Due i prossimi film come attrice,entrambi francesi. Il primo, già girato,tra Parigi e Londra, Les femmes del’ombre, di Jean-Paul Salomé: «La sto-ria, durante l’occupazione nazista, diquattro donne della Resistenza (le al-tre sono Julie Depardieu, Laura Smet,Mélanie Laurent) reclutate dai servizisegreti di Churchill per operazioni disabotaggio e spionaggio». L’altro film,di cui comincerà le riprese il meseprossimo, è diretto da Marina Devant:«Un thriller psicoanalitico, assai sin-golare». L’antica Vic del Tempo dellemele non ha smesso di sognare: «I re-gisti che mi hanno cambiato o che micambierebbero la vita? Dopo Antonio-ni, che mi ha diretta in Al di là delle nu-vole, progetto affascinante ma pur-troppo fallito, Martin Scorsese, cinea-sta finora senza macchia, che costrui-sce magnifici ruoli femminili, e BrianDe Palma: discontinuo, simpatica-mente imperfetto, sempre sorpren-dente. Un regista rock&roll».

L’amore è sempreal centro di noie delle nostre storieL’amore può esseremeravigliosoma può essereanche distruttivo,devastanteL’amore può far malequanto la sua assenza

In uno dei suoi prossimi film saràla fata di Cenerentola: un personaggioche entusiasma questa ragazzinadi quarantuno anni che, proiettataadolescente dalla banlieue operaia

di Parigi nel cuoredel grande cinema,della fiaba diCenerentolaè la perfetta incarnazione“Il cinema - dice - mi hadato tutto e mi ha toltotutto: mi ha strappatoalla mia infanzia

e alla mia identità. Non mi lamento:ho messo da parte quel che era più mioma adesso lo sto recuperando”

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TO

AP

MARIO SERENELLINI

Sophie Marceau

Repubblica Nazionale