L’autore di Lolita voleva che fosse...

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DOMENICA 15 NOVEMBRE 2009 D omenica La di Repubblica l’incontro Le passioni carnali di Almodóvar ARIANNA FINOS cultura Vita e miracoli del barbiere di Sicilia ANDREA CAMILLERI e FRANCESCO MERLO l’attualità Il paese dell’acqua libera e ribelle PAOLO RUMIZ i sapori Tutte le stelle della cucina basca JUAN MARI ARZAK e LICIA GRANELLO ILLUSTRAZIONE DI RICCARDO MANNELLI S uo nonno, il pittore Lev Linde, nel 1920 era emigrato da Mosca a New York con la moglie Eva e il figlio Adam. Con sé aveva portato anche una vasta collezione dei suoi paesaggi rimasti invenduti o a lui prestati da amici gen- tili e da istituzioni ignoranti — quadri che si diceva fos- sero la gloria della Russia, l’orgoglio del popolo. Quante volte negli album artistici erano stati riprodotti quei meticolosi ca- polavori — radure in mezzo a boschi di pini, con uno o due orsac- chiotti, e bruni ruscelli tra sponde ammantate di neve in procinto di sciogliersi, e quelle immense lande purpuree! Da tre decenni i «decadenti» locali li definivano «fesserie da ca- lendario»; tuttavia Linde aveva sempre avuto uno stuolo di tenaci ammiratori; assai pochi di loro capitavano alle sue mostre in Ame- rica. (segue nelle pagine successive) VLADIMIR NABOKOV L a pubblicazione dell’ultimo romanzo incompiuto di Vladimir Nabokov, L’originale di Laura, ha tutta l’aria di diventare un caso editoriale ancor prima che lette- rario. Nel libro c’è la storia di Flora (Laura, FLaura), fi- glia di un fotografo suicida e di una ballerina. La ragaz- za è sposata con Philip Wild, un neurologo benestante di «straordinaria grassezza», che sembra stia scrivendo un roman- zo la cui «struttura segreta» rimanda alla «mirabile struttura ossea» di Flora. Questa, fin dalla sua età prepuberale, ha dovuto subire ap- procci dagli amanti della madre (fra i quali quello, esilarante, di Hu- bert H. Hubert, un patetico charmeur), per cui la sua strada è se- gnata. Tuttavia, «tutto riguardo a lei è destinato a rimanere vago, persino il nome che sembra essere stato concepito per riceverne un altro su di esso plasmato da un artista straordinario». (segue nelle pagine successive) MASSIMO RIZZANTE spettacoli Gli incubi di Tim Burton al MoMA DANTE FERRETTI e ANTONIO MONDA Nabokov L’ultimo L’autore di Lolita voleva che fosse bruciato. Il figlio Dmitri ora lo pubblica. Ecco, in esclusiva per l’Italia, un capitolo del romanzo al centro delle polemiche letterarie Repubblica Nazionale

Transcript of L’autore di Lolita voleva che fosse...

DOMENICA 15NOVEMBRE 2009

DomenicaLa

di Repubblica

l’incontro

Le passioni carnali di AlmodóvarARIANNA FINOS

cultura

Vita e miracoli del barbiere di SiciliaANDREA CAMILLERI e FRANCESCO MERLO

l’attualità

Il paese dell’acqua libera e ribellePAOLO RUMIZ

i sapori

Tutte le stelle della cucina bascaJUAN MARI ARZAK e LICIA GRANELLO

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Suo nonno, il pittore Lev Linde, nel 1920 era emigrato daMosca a New York con la moglie Eva e il figlio Adam. Consé aveva portato anche una vasta collezione dei suoipaesaggi rimasti invenduti o a lui prestati da amici gen-tili e da istituzioni ignoranti — quadri che si diceva fos-sero la gloria della Russia, l’orgoglio del popolo. Quante

volte negli album artistici erano stati riprodotti quei meticolosi ca-polavori — radure in mezzo a boschi di pini, con uno o due orsac-chiotti, e bruni ruscelli tra sponde ammantate di neve in procinto disciogliersi, e quelle immense lande purpuree!

Da tre decenni i «decadenti» locali li definivano «fesserie da ca-lendario»; tuttavia Linde aveva sempre avuto uno stuolo di tenaciammiratori; assai pochi di loro capitavano alle sue mostre in Ame-rica.

(segue nelle pagine successive)

VLADIMIR NABOKOV

La pubblicazione dell’ultimo romanzo incompiuto diVladimir Nabokov, L’originale di Laura, ha tutta l’ariadi diventare un caso editoriale ancor prima che lette-rario. Nel libro c’è la storia di Flora (Laura, FLaura), fi-glia di un fotografo suicida e di una ballerina. La ragaz-za è sposata con Philip Wild, un neurologo benestante

di «straordinaria grassezza», che sembra stia scrivendo un roman-zo la cui «struttura segreta» rimanda alla «mirabile struttura ossea»di Flora. Questa, fin dalla sua età prepuberale, ha dovuto subire ap-procci dagli amanti della madre (fra i quali quello, esilarante, di Hu-bert H. Hubert, un patetico charmeur), per cui la sua strada è se-gnata. Tuttavia, «tutto riguardo a lei è destinato a rimanere vago,persino il nome che sembra essere stato concepito per riceverne unaltro su di esso plasmato da un artista straordinario».

(segue nelle pagine successive)

MASSIMO RIZZANTE spettacoli

Gli incubi di Tim Burton al MoMADANTE FERRETTI e ANTONIO MONDA

NabokovL’ultimo

L’autore di Lolita voleva che fossebruciato. Il figlio Dmitri oralo pubblica. Ecco, in esclusivaper l’Italia, un capitolo del romanzoal centro delle polemiche letterarie

Repubblica Nazionale

(segue dalla copertina)

Ben presto parecchi dei suoi inconso-labili dipinti a olio finirono per esse-re rispediti a Mosca, mentre un’altrapartita dei medesimi mise il broncioin appartamenti d’affitto prima diandarsene tutti insieme su in soffit-

ta, o strisciare furtivamente di sotto, fino alla ban-carella del mercato.

Che cosa può esserci di più malinconico di unartista scoraggiato che muore non a causa di ba-nali malattie, ma per il cancro dell’oblio che inva-de suoi quadri un tempo famosi quali Aprile a Jal-tao Il vecchio ponte? Non dilunghiamoci sulla scel-ta di un luogo di esilio sbagliato. Non soffermia-moci a quel pietoso capezzale.

Suo figlio Adam Lind (che fece cadere l’ultimalettera omettendo di segnalare un errore di stam-

pa in un catalogo) ebbe più successo. Prima deitrent’anni era diventato un fotografo alla moda.Sposò la ballerina Lanskaya, una danzatrice in-cantevole, anche se con un che di fragile e goffo chela teneva in bilico su una stretta cengia tra benevoliapprezzamenti e recensioni entusiastiche di per-fette nullità. I suoi primi amanti appartenevanoper lo più al Sindacato dei Fautori della Proprietà,tipi alla buona di origine polacca; ma Flora proba-bilmente era figlia di Adam. Tre anni dopo la suanascita Adam scoprì che il ragazzo oggetto del suoamore aveva strangolato un altro giovane, irrag-giungibile, che egli amava persino di più. AdamLind aveva sempre avuto una certa inclinazioneper i trucchi fotografici e questa volta, prima dispararsi in un albergo di Montecarlo (la stessa not-te, triste doverlo dire, in cui sua moglie aveva ri-portato un autentico successo nel Narcisse et Nar-cettedi Piker), egli regolò e mise a fuoco la macchi-na fotografica in un angolo del salotto per ripren-dere l’evento da differenti prospettive. Questi au-toscatti dei suoi ultimi istanti e di un tavolo con ipiedi leonini non vennero un granché bene; ma lavedova li vendette con facilità, per l’equivalentedel costo di un appartamento parigino, alla rivista

locale Pitch, specializzata nel calcio e in diabolicifaits-divers.

In compagnia della figlioletta, di una governan-te inglese, di una bambinaia russa e di un amantecosmopolita, si sistemò a Parigi, poi si trasferì a Fi-renze, soggiornò a Londra e fece ritorno in Francia.La sua arte non era tale da sopravvivere al declinodella bellezza come pure a un difetto, che andavapeggiorando, della sua graziosa ma troppo spor-gente scapola destra, e intorno ai quarant’anni latroviamo ridotta a dare lezioni di danza in unascuola parigina non esattamente d’eccellenza.

I suoi amanti fascinosi ora erano rimpiazzati daun inglese avanti negli anni ma ancora vigoroso cheall’estero cercava rifugio dalle tasse e un luogoadatto per gestire i suoi affari non del tutto legali nelcommercio vinicolo. Era ciò che di solito si defini-sce uno charmeur. Il suo nome, falso senza alcundubbio, era Hubert H. Hubert.

Flora, una bambina deliziosa, come diceva leistessa scuotendo appena il capo (sognante? Incre-

dula?) ogni volta che parlava di quegli anni prepu-berali, aveva una vita familiare grigia, segnata dal-la salute cagionevole e dalla noia. Solo un certoqual dottore super-orientale molto costoso, conlunghe dita gentili, avrebbe potuto analizzare isuoi sogni notturni di torture erotiche nei cosid-detti «labs», laboratori di primo e second’ordinedalle rosse cortine. Non ricordava suo padre, e suamadre le piaceva poco. Restava spesso sola in ca-sa con Mr Hubert che le «ronzava intorno» (rôdait)costantemente, canticchiando un’aria monotonae quasi mesmerizzandola, avvolgendola, per cosìdire, in una sorta di sostanza appiccicosa e invisi-bile e venendole sempre più vicino da qualunqueparte lei si voltasse. Flora per esempio non si arri-schiava a lasciar penzolare le braccia oziosamen-te per paura che le nocche entrassero in contattocon qualche parte orribile di quel vecchio maschiogentile ma «pressante» che emanava un cattivoodore.

Lui le raccontava storie della sua vita triste, leraccontava di sua figlia che era proprio come lei,stessa età — dodici anni — stesse ciglia — più scu-re del blu scuro dell’iride, stessi capelli, sul biondoo piuttosto color palomino, e così setosi — se sologli fosse stato concesso di accarezzarli, o l’effleurer

VLADIMIR NABOKOV

Ci lavorò fino alla morte,ordinò che non venissepubblicato. La moglienon lo distrusse, il figliocambiò la volontà del padreEcco in esclusiva per l’Italiaun capitolo del libroche, prima di uscire,è già diventato un caso

la copertina

Nabokove la nuovaLolita

GLI APPUNTII documenti di queste

pagine sono gli appunti

di Nabokov

de L’originale di Lauracontenuti nell’edizione

italiana del libro

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15NOVEMBRE 2009

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Repubblica Nazionale

(segue dalla copertina)

Ma qui non solo il nome dellaprotagonista è vago: tutto lo è.Ovvero tutto è incerto. Cer-

vantinamente incerto. Al capitolo cin-que si scopre, ad esempio, che esiste unromanzo, La mia Laura, il cui io nar-rante è «un uomo di lettere nevroticoche distrugge la donna amata facendo-ne il ritratto» (da un particolare si so-spetta che la Laura del romanzo sia Flo-ra o FLaura). Philip Wild, che lo sta leg-gendo, si riconosce (proprio come unpersonaggio di Cervantes) in uno deipersonaggi: Philidor Sauvage. Il capi-tolo successivo apre un altro scenarioche durerà con alcune interferenze fi-no alla fine: leggiamo gli appunti cheWild sta tenendo su alcuni suoi esperi-menti mentali lo scopo fondamentaledei quali è «imparare a usare il vigoredel corpo per un fine che è la sua stessadistruzione».

La sorpresa è sempre stata alla basedello stile poetico del prosatore Na-bokov! Scopo dell’arte non è stato perlui produrre nel lettore quel reiterato“vibrato” estetico, quel brivido lungo lacolonna vertebrale che è una delle piùgrandi conquiste di homo sapiens? So-lo che in questo caso il puzzle non ècompleto, per cui la via maestra per en-trare nel romanzo è semichiusa. Per-ché pubblicare un libro incompiutodel maestro Nabokov, così allergico aogni improvvisazione e per il quale «so-lo le nullità ambiziose e le mediocritàesuberanti mettono in mostra le lorobrutte copie»? Nell’introduzione, il fi-glio Dmitri, erede testamentario, espo-ne le ragioni della sua scelta. Dopo Co-se trasparenti (1972), Intransigenze(1973) e Look at the Arlequins! (1974),nel 1975, nel quattordicesimo anniver-sario del suo soggiorno svizzero a Mon-treux, Nabokov inizia a scrivere un al-tro romanzo: «Un capolavoro embrio-nale — riporta Dmitri — i cui bozzolicominciavano a trasformarsi in crisali-de qua e là sulle sue onnipresenti sche-de».

La salute di Nabokov, nel 1975, èmalferma. E peggiora inspiegabilmen-te. Consulti, corse all’ospedale. Poi,un’infreddatura, una bronchite e lamorte improvvisa il 2 luglio del 1977.Dmitri testimonia che Nabokov lavoraalla stesura del romanzo in modo feb-brile fino alla fine, indifferente al mon-do esterno come al dolore. Un giorno,sentendo venir meno le forze e l’ispira-zione, ha un colloquio «molto serio»

con la moglie: nel caso fosse morto sen-za portare a termine il romanzo, il ma-noscritto di Laura avrebbe dovuto es-sere bruciato. La moglie disobbediscee chiude in cassaforte il manoscritto.Vera muore nel 1991. Il tempo passa.Fino a quando Dmitri apre la scatolache contiene le schede del padre.

La prima lettura lo entusiasma. Il te-sto, «nonostante la sua incompiutezza,appariva senza precedenti per struttu-ra e stile, scritto in una lingua nuova».Dmitri non pensa assolutamente di da-re alle fiamme Laura. Anch’egli disob-bedisce. Il figlio afferma che dopo averconvissuto anni con l’ombra del padreche di tanto in tanto faceva capolinodurante le sue letture, si è convinto cheegli non si sarebbe opposto alla pubbli-cazione. È una convinzione che va ri-spettata. Ma mi chiedo: se al figlio rie-sce impossibile concepire la morte delpadre tanto da sentirne ancora i sugge-rimenti, perché non prolungarne lapresenza restando fedele alla sua vo-lontà? Certo, restare fedeli alle ultimevolontà di un morto è un atto misterio-so. I morti sono fragili. Parlano in unalingua incomprensibile che solo l’a-more dei vivi riesce a volte a decifrare.

È per il suo affetto smisurato nei con-fronti di Kafka che Max Brod non è fe-dele alle due lettere dell’amico dovel’autore de Il Processoprecisava ciò chealla sua morte doveva essere distrutto.È per la venerazione nei suoi confrontiche l’opera di Danilo Kis, l’ultimo scrit-tore jugoslavo, che si è sempre battutocontro un’idea «etnica», «minoritaria»della letteratura, viene spacciata daisuoi ammiratori serbi come un prodot-to autoctono. È per amore della filolo-gia che i critici francesi frugano in ar-chivi e biblioteche per resuscitare leprime opere di Claude Simon, che egliin vita aveva rifiutato. L’amore è cieco ei morti sono indifesi, soprattutto gli au-tori la cui creazione supera la vita. Mase supera la vita, ciò significa che lacreazione dovrebbe perseguitarli do-po la morte? Il rischio insito nella pub-blicazione di opere non autorizzatedall’autore è quello di ridurre l’opera aun documento della sua biografia. Sitrasformano in qualcosa di molto im-portante per appassionati ed eruditiche hanno setacciato l’intera produ-zione nabokoviana — una produzionedove, tra l’altro, il documento biografi-co diventa nelle mani dell’autore unasorta di cilindro magico — ma non co-sì essenziale per il lettore di romanzi.

MASSIMO RIZZANTE

viziosa che le aveva insegnato dove dare un calcioa un signore intraprendente.

Circa una settimana più tardi Flora fu costrettaa letto da una bronchite. Nel tardo pomeriggio iltermometro salì a 38° e lei si lamentava per un sor-do ronzio alle tempie. Mrs Lind imprecò contro lavecchia domestica che aveva comperato asparagiinvece di aspirina e si precipitò lei stessa in farma-cia. Mr Hubert aveva portato alla sua beniaminaun dono gentile: un gioco degli scacchi in minia-tura («lei conosceva le mosse») con piccoli buchi,che davano l’impressione di fare il solletico, prati-cati nei riquadri per accogliere e trattenere i pezzirossi e bianchi; i pedoni delle dimensioni di unospillo entravano facilmente, ma i pezzi nobili ap-pena più grandi dovevano essere ficcati dentrocon una serie di lievi scatti esasperanti. Forse la far-macia era chiusa e lei aveva dovuto andare a quel-la accanto alla chiesa oppure si era imbattuta inqualche amica per strada e non sarebbe più torna-ta. Dal povero inoffensivo Mr Hubert emanava unquadruplice odore — di tabacco, sudore, rum edenti guasti —, era tutto molto patetico. Il suo gras-so naso poroso con le narici rosse piene di peli sfio-rava la gola nuda di lei mentre la aiutava a siste-mare i cuscini dietro le spalle, e la strada fangosa

era ancora e per sempre una scorciatoia tra lei e lascuola, tra la scuola e la morte, con la bicicletta diDaisy che sbandava nella nebbia indelebile. An-che lei aveva «conosciuto le mosse», e aveva ama-to il trucco en passant come si ama un giocattolonuovo, ma il trucco saltava fuori così di rado, seb-bene egli cercasse di predisporre quelle magicheposizioni dove il fantasma di un pedone può subi-re la cattura sul riquadro che ha appena attraver-sato.

La febbre, comunque, trasforma i giochi di abi-lità nella materia degli incubi. Dopo pochi minutiFlora cominciò a stancarsi di quel gioco, si mise inbocca una torre, quindi la buttò fuori, facendostancamente il pagliaccio. Spinse via la scacchierae Mr Hubert la spostò con cura sulla sedia dove sta-va il servizio da tè. Poi, con improvvisa, paternasollecitudine, disse «Temo che tu abbia freddo, te-soro mio» e tuffando una mano sotto le copertedalla sua ottima prospettiva accanto alla pediera,le tastava gli stinchi. Flora uggiolò e poi lanciò

qualche strillo. Scalciando per liberarsi dal grovi-glio delle lenzuola lo colpì con le gambe all’ingui-ne. Come egli barcollò, la teiera, un piattino con lamarmellata di lamponi e parecchi piccoli pezzi de-gli scacchi si azzuffarono in una sciocca rissa. MrsLind, che era appena rientrata e stava assaggiandol’uva acquistata poco prima, sentì gli urli e il fra-stuono e arrivò correndo a passo di danza. Placòun Mr Hubert assolutamente furioso, profonda-mente offeso, prima di rimproverare la figlia. Luiera una cara persona e la sua vita era un deserto dirovine. Voleva sposar[la], dicendo che era il ritrat-to della giovane attrice che era stata sua moglie, ein effetti, a giudicare dalle foto, lei, Madame Lan-skaya, assomigliava davvero alla madre della po-vera Daisy.

C’è poco da aggiungere riguardo all’occasiona-le ma non privo di attrattive Mr Hubert H. Hubert.Egli si sistemò per un altro anno felice in quella ca-sa accogliente e morì di un colpo apoplettico nel-l’ascensore di un albergo dopo una cena d’affari.Salendo, ci piacerebbe supporre.

Traduzione Anna Raffetto©2009 Dmitri Nabokov All rights reserved

©2009 Adelphi edizioni Spa Milano

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 15NOVEMBRE 2009

des lèvres, così, ecco, grazie. Lapovera Daisy era stata schiac-ciata da un camion in retromar-cia su una strada di campagna— una scorciatoia lungo il per-corso da scuola a casa — che attraversava un can-tiere edile fangoso — terribile tragedia — sua ma-dre era morta di crepacuore. Mr Hubert sedette sulletto di Flora e annuì con la testa calva prendendoatto di tutte le offese della vita, e si asciugò gli occhicon un fazzoletto viola che virò all’arancio — unpiccolo trucco da salotto — quando egli se lo ficcòdi nuovo nel taschino, e continuò ad annuire men-tre cercava di far combaciare la sua spessa suolacon un disegno del tappeto. Adesso assomigliavaa un illusionista di non grande successo pagato perraccontare fiabe a un bambino assonnato quandoè ora di dormire, ma sedeva un po’ troppo accosto.Flora indossava una camicia da notte dalle mani-che corte copiata da quella della giovane Montglasde Sancerre, una compagna di scuola dolcissima e

IL LIBRO

Esce il 18 novembre per Adelphi

L’originale di Laura (a cura del figlio

Dmitri, 18 euro), l’ultimo libro

di Nabokov pubblicato postumo

e contro la volontà dell’autore di Lolita

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Il romanzo-crisalideche doveva essere bruciato

Repubblica Nazionale

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15NOVEMBRE 2009

Resistenze civili

BIELLA

C i hanno messo un secolo a conqui-starsela la loro acqua, e ora non lamollano neanche morti. Non la mol-lano ai comuni e nemmeno alle spa

comunali che la legge in discussione in parlamen-to obbligherebbe — caso unico in Europa — a di-ventare ancora più private, con inevitabile accor-pamento dei servizi nelle mani di poche aziende. Èil «no» di chi ha scelto un’altra strada, quella del pri-vato no-profit, dell’autogestione sparagnina senzaaiuti statali, ma fieramente indipendente, nella pie-nezza dello spirito di servizio pubblico.

Sono cento piccole alleanze di paese che hannotenuto duro, costruendo un arcipelago che ha il suonucleo forte a est di Biella, sulle montagne ai piedidel Rosa dove Fra Dolcino consumò la sua ultimaresistenza e dove — sempre attorno ai torrenti —nacque un secolo fa il più grande distretto italianodel tessile: l’Associazione dei consorzi delle “acquelibere”, una realtà-modello che governa centoven-ti sorgenti, cento chilometri di tubi, e serve cinque-mila abitanti con tariffe tra le più basse d’Europa(mezzo euro al metro cubo) a fronte di una qualitàeccellente.

Gli hobbit della rete partigiana subalpina li troviannidati nel labirinto morenico tra Biella e la Valse-sia; le loro valli (e le loro acque) sono segnate da san-tuari — San Rocco, San Bernardo, Brughiera, No-varelia — nidi d’aquila da cui domini mezzo Nord.Nell’aria fina ecco l’Adamello, l’Appennino, la pira-mide innevata del Monviso, la cupola di Superga equella di San Gaudenzio a Novara oltre le risaie delVercellese. Vista pazzesca, in questi giorni di solededicati a San Martino: luccicano i fiumi alpini co-me carta stagnola, in discesa verso il Po che taglia lapianura sotto il Monferrato.

«Ora ti faccio vedere come trattiamo l’acqua», faPiero Tempia, sessantasette anni, piccolo bruno dirazza alpina, e scende a saltelli in un bosco da Exca-libur disseminato di ricci di castagne, tana sicura ditartufi. La sacra ampolla è in fondo a una valletta,chiusa a chiave, sigillata come in un tempio. Sei ru-binetti, uno per ciascuna delle fonti intorno. Unavasca di decantazione in acciaio, una di raccolta,una pompa che spinge in cima al monte. Ci saliamoa piedi, la vista è immensa. Tempia sale quassù duevolte alla settimana col suo mazzo di chiavi a con-trollare. È il portinaio delle acque, pare San Pietro.Sotto i piedi, mimetizzata, una riserva da 150mila li-tri, sensori di livello, depurazione a raggi Uva, ilpunto zero di distribuzione capillare su è giù per lecolline.

In principio fu Mezzana Montaldo, su un cocuz-zolo dove l’acqua non arrivava. Fu un’alleanza dioperai detta “Comunione” — istituita con atto no-tarile — che nel 1907 ebbe una fonte in regalo dal“comendatur” Garlanda in Comune di Triverio, emise i soldi per un acquedotto destinato ai “robi-netti” della pubblica via. Un secolo dopo, il consor-zio di Montaldo, frazione (introvabile sulla carta)del Comune di Mezzana Mortigliengo, è all’avan-guardia. È stato il primo nel Biellese ad abolire il clo-ro, e ora governa con sapiente dosaggio quattordi-ci piccole sorgenti, quindici chilometri di tubi del-l’ultimo tipo, impianti di depurazione a ultraviolet-ti e un sistema di pronto intervento da fare invidia.Il segreto: utenti e gestori sono la stessa cosa. Se c’è

un guasto, la segnalazione è fulminea, e la ripara-zione altrettanto. Su prestazione gratuita e volon-taria.

Bisogna arrendersi: qui pubblico e libero non so-no affatto la stessa cosa. «C’è molto più pubblico inun consorzio privato di quanto si creda», osserva altelefono Simone Ubertino Rosso, ventiquattrennedi Montaldo, che studia scienze politiche in Cina.Era segretario del consorzio già a diciotto anni e og-gi, da ottomila chilometri di distanza, segue ancoracon passione i destini della sua acqua “ribelle”. Se-gno che i vecchi di quassù hanno qualcuno cui pas-sare la mano.

Nella vicina Valle Cervo, che ha ceduto alle spa,vivono male lo scippo delle fonti. «Quelli di Biellasalgono quassù a spiegarci cos’è l’acqua, ci diconoche ci sarà la grande sete futura… ma qui piscia dap-pertutto… gli unici a morir di sete sono gli ubriaco-ni in bolletta…», ride la battagliera Chiara Fiorinache ha una locanda sulla strada a Quittengo. Diceun avventore, spalmando toma all’aglio sul pane:«La fregatura si chiama Ato, autorità territoriale ot-timale. Sta tutta nella lettera O. Con quella te la met-tono in quel posto», e giù un sorso di Barbera.

Difatti, brontola la gente, non c’è niente di otti-male nella gestione delle grandi spa. «Hanno il peg-gio del pubblico e il peggio del privato. Debiti e altetariffe». «In un anno il Cortar (società pubblica biel-lese) ha fatto un milione di debiti», ghigna il sinda-co di Mezzana, Alfio Serafia del Pdl. Per ripianare, siè giocato sulle bollette, ed è chiaro che «così i bilan-ci si fanno in quattro e quattr’otto». Carletto Bellinidi Trivero: «Loro sprecano e si beccano i contributi.Noi risparmiamo e ci becchiamo calci nei denti».

Nel Biellese non ci sono castelli, il feudalesimonon ha mai attecchito e per mille anni la cosa pub-blica è stata governata dal concilio dei “fuochi”, unprimogenito a famiglia, e per dirimere le liti tribalic’era l’Ammano, un difensore civico ante-litteram.In un mondo così, destra e sinistra sono concettiastratti. Ciò che conta è «il problema». In Valle Cer-vo, per esempio, il problema è che, da quando igrandi hanno mangiato i piccoli, l’acqua costa piùdi prima. «A noi — obiettano — ci tocca pagare la de-purazione delle acque più sporche della città diBiella». L’eterna storia del lupo che si mangia l’a-gnello.

«Non voglio che le cose cambino», dice Giancar-la, di Montaldo, a dire che qui la resistenza si fa ri-chiamandosi all’antico. «Non si può sbattere un be-ne universale in un mondo dove o sfrutti o sei sfrut-tato», ti dicono, «perché l’acqua alla fine si vendica».Da quando sono arrivate le spa, quasi nessuno pu-lisce i canali di scolo, le radici degli alberi si infilano“a coda di topo” nelle tubazioni e l’acqua s’intorbi-da. Le grandi piogge fanno sfracelli: l’ultima ha sco-

l’attualità

INIZIO NOVECENTOSopra, due uomini

davanti a una fontana

di Montaldo, nel Biellese

A destra, la foto

di gruppo dei fondatori

del Consorzio acqua

potabile Mezzana

Montaldo

PAOLO RUMIZ

Il paese dell’acqua ribelle

Nel Biellese, trentadueconsorzi unitisi cento annifa si battono perché il tesoropurissimo delle loro sorgentinon venga privatizzatocome la legge in discussionein Parlamento prevederebbe

Repubblica Nazionale

conviene.E gli altri? Quelli che non conoscono le acque li-

bere, che fanno? Nemmeno loro bevono l’acqua delsindaco che sa di piscina. Quelli corrono nei mer-catoni a comprare acqua prigioniera, poi tornanogobbi con dieci chili di confezione sotto plastica perciascuna mano, a tenere alto l’italianissimo recordmondiale di consumo di minerale, 172 litri-annopro capite. E lì il cerchio della nostra anomalia, quel-la dell’unico stato europeo che obbliga a privatiz-zare, si chiude alla perfezione. Come un teorema.

Funzionava — bene o male — l’acqua pubblica,prima che la legge Ronchi negli anni Novanta laspingesse verso il pentolone delle spa. Da quel mo-mento le Asl e le burocrazie si sono accanite sui pic-coli comuni, finché la loro vita è diventata impossi-bile. Per questo, per evitare grane, molte acque li-bere son passate di mano. E molti consorzi, massa-crati di divieti, per paura hanno calato le brache eceduto gratis i loro impianti-modello. Risultato:colpo mortale al territorio, alle autonomie, alla de-mocrazia di base.

In parallelo, col nuovo regime spa, s’è visto uncrollo di investimenti sulle reti (scesi di due terzi inquindici anni), e un parallelo aumento di tariffe. Iltutto, spesso, con perdite di bilancio, ovviamenteripianate del remissivo utente italiano o dallo Sta-to-Pantalone. Da domani potrebbe essere peggio:il controllo delle acque montanare passerebbe aMilano, Bologna. O magari a Parigi, o in Australia,come è capitato alle acque inglesi, finite a un’unicaazienda straniera. L’alleanza del Biellese orientaleè fatta da quelli che non hanno ceduto: trentadueconsorzi uniti per fare massa critica e resistere allepressioni.

«Ma alura, quand’è che vai a pulire le vaschette»,brontola un signore di Vallemosso, vedendo passa-re il presidente del suo consorzio. «Vede?», dice Gio-vanni Pizzato, «mi stanno alle costole. Questa è lanostra forza. È il segno che mi avvertono appenaqualcosa non va. Sette anni fa l’acqua era calata dicolpo, così siamo corsi su e abbiamo cambiato cin-quecento metri di tubo in due giorni. Potevamo fa-re un rattoppo, invece no. Noi non lasciamo buchi,nemmeno nel bilancio».

Poco a monte di Mortigliengo è venuto giù unpezzo di strada provinciale, mangiata dall’acquaper via delle cunette che nessuno pulisce. Il crolloha messo a nudo il tubo del metano, ma la Provin-cia non ha un euro per intervenire, così la ferita si al-larga. Ecco come l’incuria uccide i territori. «L’Italia— dice Piero Tempia — è il Paese delle inaugura-zioni. Si tagliano i nastri, vengono le tv, poi tutto fi-nisce lì. Manutenzione zero». Succede con le stra-de: figurarsi con l’acqua, che non si vede.

Quassùtutti glischemi

saltano. Nonè pubblico

contro privato,ma oculatezza

contro sperpero,piccolo contro

grande,responsabilità

contro burocrazia,olio di gomitocontro finanzaÈ la resistenza

a un centro lontanoe indifferente,

spalleggiato in periferiada Asl che consentonoalle grandi spa magaridi mettere in rete acqua

all’arsenico, mabastonano i piccoliacquedotti virtuosi

con sadiche prescrizioni

perchiato le tombe di Campiglia, le ossa dei mortisono arrivate alla scuola e «i bambini nell’interval-lo ci han pure giocato», scherzano ma non troppo ibiellesi.

Quassù tutti gli schemi saltano. Non è pubblicocontro privato, ma oculatezza contro sperpero, pic-colo contro grande, responsabilità contro burocra-zia, olio di gomito contro finanza, difesa dei territo-ri contro grande distribuzione. È la resistenza a uncentro lontano e indifferente, spalleggiato in perife-ria da Asl che consentono alle grandi spa magari dimettere in rete acqua all’arsenico, ma bastonano ipiccoli acquedotti virtuosi con sadiche prescrizioni.

A Cossato, dove la Strona esce verso le risaie dei«ranàt» (termine derisorio per quelli stanno dab-

basso), quando gli parli di acqua potabile non pen-sano mica a quella comunale. L’acqua vera è soloquella dei montanari. È la buona rete che, come unsistema linfatico parallelo, comincia a scorrere giàin periferia, nella frazione di Ronco in Val Strona. Edifatti è lassù che va la gente a fare scorta.

Vengano a vedere, i parlamentari che voglionospingere le acque plurali d’Italia in un unico pento-lone. La processione dalla Padania inquinata co-mincia ogni sabato, con le taniche, a caccia di sor-genti. Attorno alla fontana di Lora in comune di Tri-vero, che spilla H2O doc, pulita con raggi ultravio-letti, nei weekend si fa a gomitate per riempire lebottiglie. C’è qualche matto che viene fin da Milanocon la station wagon piena di cassette e giura che gli

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 15NOVEMBRE 2009

FONTANEMezzana

Montaldo,

in provincia

di Biella;

a sinistra, alcuni

documenti

del consorzio;

in basso,

un bambino

di Montaldo

davanti

a una fontanella

in una foto

del 1944

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Repubblica Nazionale

Conle ginocchia leggermente piegate,le braccia tese, l’unghia lunga e i ge-melli d’oro, una tazza sulla testa delcliente mentre il fornellino a spiritoscaldava l’acqua, il barbiere sicilianopettinava la vita e, senza saperlo, te-

neva a battesimo la questione meridionale che sul-la lotta quotidiana tra pensieri e capelli è notoria-mente fondata. Con la brillantina lucidava anagen,catagen e telogen, mentre la Storia e il Diritto veni-vano tranciati con i peli della barba perché tutto sipoteva dire dal barbiere, tempio della insensatez-za aggregativa. Poi con la lacca stabilizzava il mon-do: capelli biforcuti e pensieri messi in piega con-tro Roma, contro il Piemonte, contro le banche, masempre con spensierata gratuità. E a volte il bar-biere faceva partire la musica: improvvisazioni al-la chitarra e al mandolino che allentavano il ranco-re sociale perché, prima che prendesse piede la de-mocrazia — ma ha poi preso piede? —, il salone alSud aveva la stessa funzione che al Nord avevano lebettole, quelle dove Renzo va a mettersi nei guai.

Ed erano raschi di gola e vocalizzi da “amatore”,battendo il tempo sul flacone del proraso e del prepin mezzo al chiasso ma anche alle pernacchie, spes-so di stomaco, alle risate e agli scappellotti che i ca-rusi prendevano dal mastru. L’ultimo dei carusiscopava ciocche e cicche ed era come spazzare viale ribellioni più strampalate perché niente aveva ri-gore dinanzi al rigore di una lama affilata. Al primodei carusi l’onore di preparare la saponata. C’era,d’obbligo, la Domenica del Corrieree il sabato u ma-stru officiava il rito della schedina. Ed era un mon-do tutto maschile, greve e caprone. Alzandosi dallasedia girevole, il cliente si toccava con la mano acoppa. Il calendario profumato era “sexy” e non an-cora “porno”, e i baffi erano a camminata di furmi-cula, a cammino di formica, «perché i fimmini vo-gliono sentire la polpa, ma ci piace pure il solletico».Ogni tanto u mastruandava a radere un morto. «Ba-ciamo le mani» scandiva chi entrava; «ragazzo,spazzola!» era il saluto d’uscita, quando al carusotoccava, con lo scappellotto, anche la mancia.

Era un artista romantico il barbiere meridiona-le? «Il suo nome era Dino Rossi; faceva il barbieregiù a North Denver, nel quartiere italiano... sottile,con una voce dolce, mani e piedi molto piccoli. Nonera stato certo un rivale degno di mio padre, degnodi un muratore». Così comincia il racconto di JohnFante, con la mitezza del barbiere, più orecchio chebocca. Eppure, solo il docile barbiere era capace difar correre la lama sul palloncino gonfio senza far-lo scoppiare. E per forza doveva essere mite! Comeavrebbe potuto, se no, maneggiare armi bianche,forbici e rasoi, acidi corrosivi, pettegolezzi e veleni,senza mai impensierire nessuno? E spesso era zop-po, dunque inadatto ai veri lavori del maschio, madoveva essere fidato e mansueto: solo a lui era per-messo di toccare l’inviolabile faccia del siciliano.

«Papà si divertiva — continua John Fante — a ve-dere Dino al nostro tavolo perché Dino non era riu-scito a sposare mammà, mentre papà l’aveva spo-sata». Eppure cavava i denti, raddrizzava ossa, ap-plicava le mignatte ed era il custode della più anti-ca dottrina tricologica, quasi tutta racchiusa inquel bruciante test al quale viene sottoposto l’ap-prendista Nino Manfredi nel film di Dino Risi: Sfu-mi? «Punta e forbice». Macchinetta? «Rifuggo».

Shampoo, oli e balsamo erano mollezze perfemmine; la scriminatura era netta, forte e a sini-stra; non c’erano rimedi per il tignone, segno del

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15NOVEMBRE 2009

pensiero che si era fatto strada. E difatti non c’eranulla di peggio di un grande pensiero sormontatoda un capello fragile. I ricchi ricevevano il barbierea casa con forbici, pettine e rasoio “privati”. Filip-po, che ha il salone in piazza del Nazareno a Romaed è un gentiluomo ovviamente siciliano, partivadue volte al mese per tagliare, a Parigi, i capelli diVittorio De Sica il quale affittava una saletta priva-ta sugli Champs Elysées. E il papà di Leo, che ha ilsalone più spacchiusudi Catania, raccontava di unbarone (niente nomi, per carità!), che pretendevala spuntatura a letto, mentre ancora dormiva.

Odore di brillantina, il maestro e il “caruso”, chiacchiere sull’eternaquestione meridionale, baffi a camminata di furmicula perché “le femmine

vogliono sentire la polpa ma ci piace pure il solletico”. Rituali che finivanocon la frase “ragazzo, spazzola”. In un tempio che si improvvisava salada musica la domenica. Così un libro racconta un mondo finito

Leggendo il bel libro, con l’introduzione di An-drea Camilleri che qui pubblichiamo, Musica daisaloni. Suoni e memoria dei barbieri di Sicilia, edascoltando il disco che lo chiude e conclude comeuno chignon, viene in mente l’ironia di Brancati sulsiciliano «che ha una rara vocazione all’arte». An-che nel libro, che consigliamo nonostante il bar-biere vi diventi una lucciola pasoliniana, c’è la ri-cerca ossessiva dell’arte dimenticando che c’è an-che l’arte di non avere arte: «Gli piacevano — con-tinua Brancati — tutte le specie di suoni, fosseroquelli dell’organo o quelli striduli di un martello dimaniscalco». A quei tempi si faceva musica anchedal sarto, dal calzolaio e dal farmacista, come ap-punto nella Pachino di Brancati: «Sotto il teschio dicartone con la scritta “veleni”, il ragazzo imparavala chitarra mentre il giovanotto arrivato da Parigiinsegnava, con dei no no, sì sì, no, l’ultima canzo-ne all’amico che la ripeteva sul mandolino».

Eppure si può studiare il passato, e magari amar-lo, senza rimpiangerlo. Di sicuro la Sicilia ha datoall’Italia persino più barbieri che insegnanti, conavamposti di eccellenza in ogni angolo del mondo.A Catania si è appena concluso un magnifico con-vegno su capelli e barbe nella storia — la barba con-tro la barbosità accademica — organizzato da unbarbiere, Salvo Ruffino, e da Tino Vittorio, un pro-fessore universitario di Storia che in questo caso èTricostoriografia, storia raccontata a partire daipeli, come già fecero l’abate Thiers con Teologia delcapello (1690), e il vescovo Sinesio di Cirene conElogio della calvizie (Quinto secolo dopo Cristo).

Ma sono state le barbe o i barbieri a fare la storia?Camilleri lascia intendere di cosa è morta la barbe-ria meridionale dove, da ragazzino, andava mal vo-lentieri perché intuiva che proprio lì, nella cutico-la, si annida la libertà di pensiero che nessuno rie-sce a domare e a pettinare. Fu poi il ‘68 che seppel-lì il genere: Mao non si lavava neppure i denti per-ché, diceva, «le tigri non lo fanno».

L’arte di pettinare il pensiero

CULTURA*

FRANCESCO MERLO

SiciliaBarbiereIl

di

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 15NOVEMBRE 2009

Il concertinodi don Nonò

ANDREA CAMILLERI

Don Nonò era il barbiere della nostra famiglia,nel senso che tutti i miei famigliari maschi(nonno, gli zii, mio padre) si facevano servire

nel suo salone che si trovava situato in una delle duestrade che portavano a casa nostra. Era perciò como-do, quando ce n’era bisogno, rincasando, fermarsidieci minuti nel salone per farsi dare una spuntatinaai capelli. I miei amici, una volta giunti attorno ai se-dici anni, mettevano i pantaloni lunghi e ogni matti-na ansiosamente si controllavano allo specchio pervedere se nottetempo era capitato il miracolo dellabarba. E con quanto orgoglio i più precoci potevanofinalmente proclamare ai compagni invidiosi: «Lavarba mi spuntò! Dal varberi andai!»

Io no, io dirazzavo. Ho sempre, nella mia vita, cer-cato di evitare i saloni dei barbieri. Una spiegazionepossibile di questa mia idiosincrasia è forse ricondu-cibile a un fatto che mi capitò un giorno che, potevoavere sei anni, mio padre si fece accompagnare da menel salone di don Nonò. Il salone in verità non meri-tava l’accrescitivo: era una stanza di poco più di quat-tro metri dotata di uno sgabuzzino posteriore. Den-tro ci stavano tre poltrone da barbiere, sei sedie per iclienti in attesa, un portaombrelli, un attaccapanni,due sputacchiere. Quel giorno arrivò trafelato unodegli aiutanti di don Nonò con una tazza da latte inmano ed entrò nello sgabuzzino. Io lo seguii. E vidiche rovesciava il contenuto della tazza dentro a unpentolino di coccio pieno a metà di sale. Mi accorsi al-lora che si trattava di quattro orrendi vermi neri, gon-fi e grossi. «Che sono?», domandai disgustato. «San-guette», mi rispose.

E subito dopo le sanguisughe cominciarono a vo-mitare sangue, tingendo di rosso il bianco del sale.M’impressionai talmente che me ne scappai da soloa casa. Allora le sanguette servivano per cavare il san-gue a chi ne aveva in eccesso. Le tenevano i barbieri,un residuo di quando i barbieri erano anche cerusici.Insomma, a ottantadue anni suonati credo di esserestato da un barbiere non più di una ventina di volte.[...]

Alla domenica, perché i barbieri lavoravano anchela domenica, il loro giorno di riposo era il lunedì, nelsalone di don Nonò c’era il concertino eseguito dalduo Pirrotta-Spitaleri, di grande fama paesana. Pir-rotta, al mandolino, era un ferroviere, Spitaleri, fale-gname, suonava la chitarra. Naturalmente non si esi-bivano solo nel salone, ma venivano ingaggiati in oc-casioni speciali quali matrimoni o particolari ricor-renze. Si prestavano anche a serenate notturne (allo-ra usavano) che gli innamorati facevano eseguire sot-to le finestre delle loro belle. Certe volte le serenatefinivano con la fuga precipitosa del duo, inseguito daqualche padre geloso che non gradiva la gentile at-tenzione verso la figlia. [...]

In occasione del concertino il salone si affollava al-l’inverosimile e il duo era costretto a suonare pratica-mente schiacciato contro il muro. Io me lo godevo dafuori, appoggiato alla porta, sicuro che don Nonò eratroppo impegnato per darmi la caccia. Poi, nel 1942,il fascismo proibì i concertini. La guerra, spiegarono igerarchi, poteva tollerare solo marce militari e innipatriottici. E il salone di don Nonò s’intristì.

© 2009 Nuova Ipsa editore srl

IL LIBRO

Si intitola Musica dai saloni il libro pubblicato

da Nuova Ipsa (168 pagine, 20 euro) a cura

di Gaetano Pennino e Giuseppe Maurizio

Piscopo. Allegato, un cd di musiche raccolte

e rielaborate da Giuseppe Calabrese

e Domenico Pontillo. La prefazione, di cui

pubblichiamo un estratto, è di Andrea Camilleri

SALONENell’altra pagina,

una rivista e una foto

di un vecchio salone

da barbiere di Melo

Minnella

CALENDARIIn questa pagina,

i calendari che i barbieri

regalavano ai clienti,

Tutte le immagini

delle pagine sono tratte

dal libro Musicadai Saloni

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© RIPRODUZIONE RISERVATA

Giorgio MorandiNatura morta, 1940, cm 35x63

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Repubblica Nazionale

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15NOVEMBRE 2009

NEW YORK

I l genio notturno di Tim Burton viene celebrato in unagrande mostra al MoMA (da domenica prossima 22novembre al 26 aprile 2010) che non ha precedenti nel-la storia del museo: oltre settecento opere suddivise tra

schizzi, disegni, elementi di scenogra-fia, pupazzi, ma-

quette, co-s t u m i ,s t o r y -board, in-stallazioni,cimeli deivari set, e, ov-viamente, ifilm di unacarriera or-mai quasitrentennale. Ilp u b b l i c on e w y o r k e s epuò ammirarele mani acumi-nate di EdwardMani di forbice apochi metri dallaNotte Stellata diVan Gogh e JackSkellington nellasala adiacente aquella con Les De-

moiselles d’Avignon di Picasso.Saranno in molti ad arricciare il

naso di fronte a una proposta delgenere, ma la grandezza di NewYork è proprio in questa coraggio-sa capacità di anticipare, aprire lastrada e sovvertire lungo un per-corso di assoluta libertà intellet-tuale. La mostra ha un formida-bile impatto culturale e visivo,ed enfatizza in ogni elementola sensibilità cupa e piena ditenerezze di questo registavisionario che iniziò la car-riera come animatore allaDisney e capì immediata-mente che il proprio mon-

do interiore non poteva essere li-mitato da lavori ideati da altri, in partico-

lare da quelli della potentissima major di Burbank. Il curatore Ron Magliozzi spiega che per Burton disegnare

rappresenta un esercizio imprescindibile «per esercitare unafantasia che non conosce riposo», e i settecento pezzi espostial MoMA consentono di ripercorrere le tappe di un itinerario

segnato da alcuni punti cardine: la difficoltà di trasmettere ipropri sentimenti, il dolore che si prova quando si ferisce neltentativo di abbracciare, l’amore nei confronti dell’emargi-nato, e la capacità di saper celebrare la vita anche nei suoiaspetti più lancinanti e grotteschi. Il tutto con un’ironia e unosguardo originalissimi, che hanno generato epigoni sin daiprimi anni: le deformazioni, le cicatrici, l’intervento di stru-menti meccanici su corpi sempre troppo fragili appaiono og-gi la celebrazione di un’umanità che non si può negare nean-che nel momento della massima angoscia e debolezza. È co-sì per la sposa cadavere e per Edward Mani di forbice, per ilpinguino di Batman e l’umanissimo Ed Wood, dilaniato dal-l’assoluta mancanza di talento e riscattato dalla speranza cie-ca nell’arte e nella vita.

Alcuni dei disegni esposti al MoMA non hanno trovato unseguito sullo schermo, e risultano tra gli elementi più affasci-nanti della mostra: è così per lo straziante Ragazzo con i chio-di negli occhi o la composizione della donna azzurra con unteschio tra i piedi che tiene in braccio un bambino. Il riferi-mento a un’iconografia religiosa è evidente, e Burton arriva asuggerire che la divinità è presente nei luoghi e nelle personepiù impensate. Nel suo mondo Romeo e Giulietta sono duemostri che si abbracciano in riva al mare portando in testa deigrattacieli, e Ronald Reagan è un uomo con due fessure al po-sto degli occhi e la bocca rattrappita di una mummia.

Un disegno immortala Cupido che trapassa con la frecciauna coppia abbracciata: il dardo uccide i due amanti, e anco-ra una volta un gesto d’amore si trasforma in un incubo. MaBurton va ben oltre la rielaborazione del vecchio mito di Erose Thanatos: la morte è solo un momento umano, troppo uma-no, che porta a qualcosa di sorprendente e misterioso, che al-tro non è che vita. L’itinerario consente di ripercorrere anchemolte ossessioni del regista, a cominciare dalla passione perVincent Price, a cui dedicò il suo primo cortometraggio Vin-cent, e che poi chiamò ad interpretare lo scienziato folle e ge-niale di Edward Mani di forbice. Ma lo stesso si può dire sullapresenza costante dei corvi, delle nevicate, dei clown, e del-l’approccio energetico e sempre spiazzante dei titoli di testa,con la macchina da presa che spesso attraversa violente-mente uno spazio o un oggetto.

I cinephiles andranno a nozze per l’ammirazione che Bur-ton dichiara per Roger Corman e Mario Bava, del quale ha ten-tato di girare un remake della Maschera del demonio. E ancordi più per le rielaborazioni di scene di culto del cinema: un di-segno chiamato La bestia al ventesimo piano vede l’EmpireState Building scalato da un mostro che non è King Kong, mauna creatura simile ad una piovra dagli arti metallici, con intesta un elmetto strano, e decisamente infantile. O gli schizzirealizzati nel momento in cui preparava Superman, progettoche venne accantonato per via di una fantasia troppo liberache finì per spaventare gli executive di Hollywood. È la stessafantasia che incanta in questi giorni all’ingresso in una strut-tura come quella del MoMA, nella quale la grandiosità va dipari passo con il minimalismo: le installazioni folli e i disegnidall’apparente mancanza di logica rappresentano l’irruzio-ne di una travolgente forza anarchica e di una libertà che nonè mai ridotta a fantasma.

Da domenica prossimail Museum of Modern Artdi New York celebra

con una grande retrospettiva il regista di “Batman” e di “Edward Mani di forbice”. Disegni, acquerellie fotografie dal set raccontano di progetti realizzatie non di un talento visionario. Ecco il mondo notturnodi un autore che mette d’accordo cinefili e box office

EDWARDIl bozzetto

per EdwardMani di forbiceA destra,

la Sally

di NightmarebeforeChristmase, sopra,

un disegno

Untitleddel 1980

e una foto

di Burton

SPETTACOLI

ANTONIO MONDA

MoMAal

Incubi fantasticida eterno ragazzo

Tim Burton©

2009 T

IM B

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TO

N

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 15NOVEMBRE 2009

MOSTRIAcquerelli

e disegni

di Tim Burton

in mostra

al MoMA. Bluegirl with wine,

qui a destra,

è un olio

su tela

“La sua geniale follia ricorda Fellinia lui devo il mio secondo Oscar”

DANTE FERRETTI

Lavorarecon Tim Burton è stata per me una grande esperienza. È un vero artista, con una fantasiastraordinaria e una sua peculiare vena di follia creativa. Mi ricorda Fellini: ogni volta il visionarioTim, proprio come Federico, ricostruisce per intero un mondo, quello dei suoi film. Qualcuno mi

aveva detto, prima che io lo conoscessi: guarda che non è un tipo facile. Invece per me collaborare conBurton è stato subito naturale. Ci siamo trovati in sintonia fin dal primo incontro, che è avvenuto a Lon-dra ed è stato molto breve. Mi aveva chiesto di raggiungerlo per parlare di un film da fare insieme, peròa una condizione: sarei dovuto andare da lui solo se fossi stato pronto a collaborare subito al proget-to, senza altri impegni. Dopo un dialogo veloce, mi disse: benvenuto e buon lavoro.

Prima di fare Sweeney Todd, per il quale avrei vinto il secondo Oscar con France-sca Lo Schiavo (dopo quello avuto per Aviatordi Martin Scorsese), avevo già prepa-rato con Tim Burton un filmone da 180 milioni di dollari, intitolato Ripley, believe itor note dedicato alla storia di un giornalista americano, Ripley appunto, che andavaalla ricerca dei fenomeni più strani, dalla persona alta due metri e mezzo fino all’uni-corno. Avrebbe dovuto essere ambientato negli anni Trenta, con flashback nel 1800 enel 1400 in Cina, e quindi viaggiammo tra Londra, New York e Shanghai, lungo un la-voro di preparazione di cinque mesi. Quando, all’ultimo momento, quel film saltò, ioavevo già disegnato tutto. Allora Tim, terribilmente dispiaciuto, mi offrì di fare una co-sa che sarebbe costata “appena” cinquanta milioni di dollari: Sweeney Todd.

Cominciammo a lavorare a Pinewood, la Cinecittà inglese, e avevamo gli uffici uno difronte all’altro. Lui veniva da me o ero io ad andare a trovarlo, ci si vedeva di continuo; miraccontava la trama, descriveva certe scene, parlavamo molto; io disegnavo e lui ogni vol-ta approvava i miei disegni. C’è sempre stata tra di noi un’intesa molto spontanea. Un gior-no arrivò dicendomi che per il negozio del barbiere previsto dal film aveva pensato di farela vetrata in un certo modo un po’ diverso da quello che io gli avevo proposto, e mi portò unsuo schizzo per mostrarmi cosa intendeva dire. Ma siccome anch’io non ero soddisfatto, lasera prima avevo fatto a mia volta un disegno per modificare il bozzetto di quella vetrata, eora stava lì, proprio sul mio tavolo. Mentre Tim mi parlava lo vide ed esclamò: lo avevi già fat-to ed è uguale al mio! Era entusiasta della scoperta. Perciò scrisse sul foglietto del suo dise-gno: «Dante, I love you».

Per via del low budget si doveva girare molto sul green-screen, cioè con ambienti creati indigitale, che avrei comunque sempre dovuto disegnare. Per gli effetti speciali c’erano dodicio tredici milioni di dollari, mentre avevo a disposizione tre milioni di dollari per le scene da costruire.Gli dissi: perché non spostiamo un po’ di soldi togliendoli alla parte digitale e aggiungendoli al budgetper le costruzioni? Gli attori si sentiranno meglio visto che è tanto più coinvolgente interpretare il pro-prio personaggio in una scena verosimile anziché davanti a un fondale verde. E così è stato.

Si girava in sei teatri di posa, in cinque dei quali abbiamo ricostruito tutto, come nei film di Fellini,mentre un teatro ospitava il green screen. In ogni cosa Tim Burton mi ha lasciato la massima libertà e ilfilm è stato girato solo in undici settimane: un lavoro in corsa e anche faticoso, ma realizzato in pienaarmonia di intenti artistici. Spesso, mentre facevo le scene, lo invitavo in teatro per vederle, ma lui nonveniva mai. Poi seppi che andava a guardarle a ora di pranzo, quando la troupe è in pausa. Gli piacevaosservarle in silenzio, stando completamente solo.

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Repubblica Nazionale

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15NOVEMBRE 2009

le storie

Quando a Firen-ze, il 19 feb-braio del 1826,ferì con la spada alprimo assaltoAlphonse de Lamartine,

che aveva offeso l’Italia in un suo poema(«monumento crollato», «polvere delpassato, che agita sterile vento», «terradove i nepoti non hanno più sangue de’loro avi»), era lontano dall’immaginarnele conseguenze. Il 21 marzo, in una lette-ra al fratello Raffaele, manifestava il suostupore: «Mi sorprende poi moltissimocome abbiate già e così presto saputol’affare avvenutomi col Francese». Ma ilduello con il poeta che considerava il BelPaese alla stregua di una «terra dei mor-ti», ebbe subito un’eco enorme, assur-gendo a simbolo del rinato patriottismo,dello spirito unitario e del Risorgimento.La notizia fece il giro d’Italia e d’Europa.E Gabriele Pepe, letterato e militare mo-lisano in esilio in Toscana, che avevacombattuto in Spagna con le truppe na-poleoniche ed era stato tra i protagonistidella rivoluzione napoletana del 1820-21, si guadagnò, come ricorda lo storicoVittorio Scotti Douglas, «stima e ammi-razione anche da chi non lo conosceva».

Una fama che la sua partecipazioneall’insorgenza costituzionale di Napolidel 1848-49, oltre ai vari mandati d’arre-sto da parte della polizia borbonica,avrebbe consolidato, facendo scrivere aLuigi Settembrini nelle sue Ricordanze:«Il colonnello Gabriele Pepe, sannita,(...), prode, dotto, intemerato, fiore di ga-lantuomo e di patriota».

A lungo è stato dimenticato. Adesso,grazie a Scotti Douglas, alla Provincia diCampobasso e alla Biblioteca PasqualeAlbino, riemergono dall’oblio la figura ele opere di un grande precursore dell’U-nità italiana, per cui si batté già all’epocadi Napoleone e di Murat, tanto che nel1809 auspicava, in un certame poeticocon Cosimo Del Fante, che «Possad’Italia il popolo/ Rigenerarsi inte-ro». La riscoperta di Gabriele Pe-pe avviene intanto con l’uscitadei due volumi Dal Molise allaCatalogna, in italiano e in spa-gnolo, editi da EditricE e curati daScotti Douglas. I libri, che verrannopresentati a fine mese nel corso di unconvegno a Girona, in Spagna, com-prendono alcuni suoi testi custoditi allaBiblioteca Albino di Campobasso. Traquesti risaltano in particolare i Galima-tias, i diari della sua esperienza nellaguerra di Spagna, dal 1808 al 1811, e del-la missione, in veste di aiutante di cam-po del generale Francesco PignatelliStrongoli, presso le potenze coalizzatecontro Bonaparte, allo scopo di negozia-re la pace e l’alleanza di queste conGioacchino Murat.

Sono quaderni, rileva il curatore, chetestimoniano gli interessi multiformi diPepe, che spaziano «dalle reminiscenze

storiche alle considerazioni politico-fi-losofiche, per tornare alla descrizionedella realtà quotidiana, agli scontri, lescaramucce o le vere e proprie battaglie,e di nuovo soffermarsi sull’agricoltura, icostumi, l’alimentazione o l’asprezza —a suo dire — della lingua catalana». Nelsecondo Galimatias, invece, prendecorpo sempre di più il «patriota in sensounitario», ora antifrancese e convintoche in Italia non vi sia ancora una co-scienza nazionale: «Allorché di moltepiccole nazioni se ne vuol formare unasola, lo spirito di famiglia e di patria co-mune fra di esse abbisogna de’ secoli performarsi».

Cresciuto in una famiglia della na-scente borghesia agraria, era nato nel1779 a Civitacampomarano, dove sa-rebbe morto nel 1849. Con un padre in-carcerato per avere professato idee gia-cobine e quindi esule a Marsiglia, cuginodi Vincenzo Cuoco, a vent’anni Gabrie-le si arruolò per difendere la RepubblicaPartenopea dalle bande sanfediste: «Il

delirio della libertà invase anchela mia testa giovanile». Ferito, fat-to prigioniero e condannato a mor-te, si salvò dal patibolo soltanto per laminore età. A sua volta, allora, raggiunsela Francia. Venne a sapere che il papàCarlo Marcello era stato ucciso dalla pe-ste e decise di entrare nella Legione ita-liana del generale Giuseppe Lechi. Annidi guerre, di ritorno agli studi, di disillu-sioni culminate, dopo l’avventura in Ca-talogna, nella consapevolezza che Na-poleone «ha spinto al grado massimo latirannia».

Nel 1820, al momento dello scoppiodei moti costituzionali nel Regno delleDue Sicilie, Pepe è a Siracusa, coman-dante di un reggimento. Racconta Scot-ti Douglas nel saggio presente in Dal Mo-lise alla Catalogna: «Pubblica un’odeper la concessione della Costituzione.Eletto deputato come rappresentantedel Molise, rientra a Napoli e svolgeun’intensa attività parlamentare». Lareazione dei Borboni «lo costringe — do-

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po una breve ma durissima parentesi incarcere — di nuovo all’esilio, prima a

Brünn (Brno) in Moravia conPietro Colletta, poi dal 1823 a

Firenze, dove rimane moltianni, vivendo povera-mente di lezioni private edei suoi scritti sull’Antolo-gia di Pietro Viesseux».

Nella capitale del Grandu-cato entra in contatto con

Giacomo Leopardi, NiccolòTommaseo, Alessandro Manzoni, ilmarchese Gino Capponi, Carlo Troya,gli Imbriani e i Poerio.

Nel 1826 il duello con Lamartine, cheè preceduto da una sua dura risposta al-le accuse all’Italia: «Di si crassa dappo-caggine fora sol capace quel rimatoredell’Ultimo Canto di Child Harold. Ilquale si sforza di supplire all’estro ond’èvacuo, ed a’ concetti degni dell’estro,con baie contro l’Italia; baie che chiame-remmo ingiurie, ove, come dice Diome-de, i colpi de’ fiacchi e degli imbelli po-tessero mai ferire». La rivolta del 1848 lovede nuovamente in prima linea. Tutta-via i Borboni riescono, anche questa vol-ta, a prevalere sui rivoluzionari. Solo lamorte, il 26 luglio del ’49, evita l’ennesi-ma incarcerazione all’anziano «fiore digalantuomo e di patriota».

DOCUMENTII documenti di queste pagine,

disegni militari, un ritratto

e un monumento di Gabriele

Pepe, sono tratti dal libro

di Vittorio Scotti Douglas

Dal Molise alla Catalogna,

edito da EditricE

In alto a sinistra, una stampa

a colori che ritrae il poeta francese

Alphonse de Lamartine

MASSIMO NOVELLI

Si chiamava Gabriele Pepe, molisano, letterato, militare,precursore del Risorgimento,amico di Leopardie Manzoni. Sfidò il poeta Lamartine che aveva osatoparlar male dell’Italia. Inseguì la rivoluzione in Spagna,divenne antifrancese dopo il “tradimento di Bonaparte”

Oggi è dimenticato, un convegno lo riscopre

Idealisti

Vita, duellie avventuredi unpatriotagentiluomo

Repubblica Nazionale

Giacomo Balla se ne inventò unopoligonale, fatto apposta per di-struggere i miti borghesi di bom-betta e cilindro; un po’ difficileda indossare, era comunqueunisex e per l’epoca scandaloso.

Katharine Hepburn lo portava con il pon pon,che poi altro non è che la variazione del cosid-detto “lucignolo”, quella sorta di “codina” chespunta al centro dei baschi. Tazio Nuvolari lopreferiva di pelle, i Windsor invece lanciaronouna nuova moda, mettendoselo schiacciato sul-la fronte. È il berretto, morbido oggetto del desi-derio, accessorio indispensabile, sembra, per lastagione fredda.

Dopo anni di oblio e mistificazioni, il berrettodi lana (ma anche di velluto, di tweed, di pelliccia,di vernice) torna alla ribalta riproposto da stilistie brand internazionali. Se gli archeologici nonmentono, il berretto di lana ha tremilacentoanni ma non li dimostra: qualcosa che gli asso-migliava molto, addirittura lavorato conuno strumento antenato dell’uncinetto, èstato ritrovato nel lontano Jutland: il ber-retto dei Flinstone. A lanciarlo come ico-na è stato il Monello di Charlie Chaplin, èperò solo nel dopoguerra che conosce unperiodo di grande popolarità. Sul catalo-go di Borsalino (cannolé di lana e scozzeseper la nuova collezione) ne sono elencati va-ri tipi e relativi usi: quadrettato per la caccia, rigi-do, blu, di gabardine per gli sport sulla neve o legite in yacht.

Diane Keaton, Jennifer Aniston, ma anche laHermione di Harry Potter hanno sfoggiato neifilm berretti di varie forme e dimensioni. Quellidi oggi sono con o senza visiera, cupolette o mor-bide cloche, si calcano fino agli occhi e non fan-no differenza di sesso: le pari opportunità se nonaltro passano dal copricapo.

E tanto per citare qualche esempio, Cafè Noirci ha messo di tutto: la visiera, il pon pon e purequalche piccolo pois di lana; i berretti di Missonisono leggeri come piume e assomigliano alle cuf-fie da piscina; Fiorucci ha scelto la versione à labasque, con il suddetto lucignolo (a voler essereprecisi il berretto lo portava pure il personaggiodi Pinocchio, tanto che poi lo ha usato per cerca-re di nascondere le orecchie d’asino); Nolita ri-propone un modello degli anni Settanta; MiuMiu ci aggiunge piccole borchie dorate e chio-di d’acciaio; Chanel li ha collocati in vetrinain maglia tricot e in tessuto bouclé; Marrasli borda di pelliccia; anche Louis Vuittonha usato la maglia per i suoi berretti-ba-schi che sarebbero piaciuti a MarleneDietrich; Benetton e Marlboro annet-tono la visiera e fanno molto operai diFull Monty; così come Emporio Ar-mani o Alviero Martini. Insomma iltormentone dell’inverno 2009-2010 è: mettetevelo bene in testa.

E per saperne di più ecco Per-dere la testa, il cappello tra mo-da e follia, colorato e informa-to catalogo, Edizioni di Pas-saggio (72 pagine, 22 euro).

le tendenzeAccessori d’inverno

BORCHIATOLa cupoletta

con i chiodi

d’oro e d’argento

di Miu Miu

CLASSICOIl berretto

di Louis Vuitton

in maglia di lana

MORBIDOFalconieri

propone

una piccola,

morbida

cloche

dello stesso

colore

della sciarpa

SCOZZESEHa i colori, rivisti,

del kilt il berretto

unisex

di Borsalino

© RIPRODUZIONE RISERVATA

ALESSANDRA ROTA

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 15NOVEMBRE 2009

MICRODimensioni tascabili

per il cappellino

di Liu Jo

con bordo perlinato

DA SCICalza

come

un guanto

il berretto

da neve

di OVS

uomo

Metteteveloin testala moda lo vuole

Berretti

RETRÒSono come

i baschi

degli scolari

di una volta

i cappelli

di Baby Angel

By Fiorucci

SPORTIVODa calcare

fino

agli occhi

il cappello

della linea

Marlboro

in due modelli

differenti

In maglia tricot, panno, velluto, pelliccia, tweed,con pon pon, perline e visiera, o semplicementenel più caldo scozzese. Il copricapo tornaprepotente nel guardaroba maschile e femminilee non solo come antifreddo.A proporre i modellicult tutte le grandi griffe made in Italy

MONELLOGenere Monellodi Chaplin per United

Colors of Benetton

TRICOTÈ bianco,

con la visiera,

il pon pon

e i pois

di lana

quello

di Cafè Noir

CALDOIdeale per l’inverno

la cuffia

morbidissima

di Missoni

Repubblica Nazionale

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15NOVEMBRE 2009

i saporiEuropa a tavola

«Èmagia che il baccalà morto stecchito diventimateria che ha creato il proprio paesaggio disalsa bianca e cremosa come un latte fonda-mentale e solido. Due corpi che mangianoassieme il baccalà al pil-pil dalla stessa pen-tola diventano per forza vasi comunicanti».

Davanti a un piatto di baccalà, non c’è descrizione più sensualedi quella usata da Manuel Vasquez Montalban nelle sue Ricetteimmorali. Ben lo sanno i baschi, che pescano merluzzi nel ma-re di Terranova e li trasformano in baccalà da centinaia di anni,per poi ammorbidirli con una salsa intrigante e irresistibile.

Smussare gli angoli è d’obbligo in una terra dove tutto sem-bra tagliato con l’accetta, dai profili severi del territorio alle on-de ruggenti del golfo di Biscaglia, dagli inverni impietosi fino ainomi infarciti di consonanti impronunciabili. Non è un caso sePicasso ha scelto Guernica (la città basca massacrata dai bom-bardamenti franchisti nel 1937) per inchiodare sulla tela l’atro-cità della guerra.

Eppure, la terra basca sa farsi amare al di là dei toni corruschi:dove le sfumature latitano e l’orgoglio d’appartenenza rischia dialzare paratie invincibili, la strada diventa casa comune e il cibosi trasforma in occasione di socialità. Mai sentito parlare di so-cietà gastronomiche, i txokos? Nati a metà Ottocento, sono lo-cali dove cucinare, mangiare, chiacchierare. Nella sola provin-cia di Guipúzcoasono più di trecen-to, di cui cento nelcapoluogo San Se-bastian. Una tradi-zione che diventacelebrazione il 20gennaio, festa diSan Sebastian,quando i cucinieridei txokosesibiscono i loro piatti in piazza della Costituzione perla gioia di concittadini e turisti.

Altra magnifica istituzione golosa, i txikiteos, locali dove gu-stare i pintxos, micro-opere d’arte culinaria da mangiare al ban-cone o in crocchi allegri sul marciapiede. Da due euro in su, si as-saggia tutto il meglio della cucina basca a dimensione di tartina.La qualità è altissima, la varietà incredibile. La piramide gour-mand con base txokos e txikiteos ha il suo vertice nel trionfo distelle Michelin: ben quindici nella sola zona di San Sebastian,con tre locali tristellati, roba da far invidia a Parigi e New York.

Racconta Martin Berasategui, che insieme a Juan Mari Arzake Pedro Subijana ha fatto grande la cucina basca, aprendo lastrada ai nuovi talenti stellati, da Luis Andoni di Mugaritz a Jo-sean Martinez Alija del Guggenheim Museum: «Sono nato inuna terra con un microclima incredibile e un’agricoltura fanta-stica. Dal mare acciughe, calamari, granchi, anguille, tonni,frutti di mare; dalla terra verdure magnifiche. In più, alleviamomaiali, polli e agnelli allo stato semibrado. Da sempre i cuochibaschi uniscono arte e sapore, consistenza e avanguardia, a co-

minciare da chi ha inventato il baccalà pil-pil. Stesse radici,personalità differenti. Ne siamo orgogliosi».

Se vi sale l’acquolina in bocca, sappiate che nei giornidi “Gastronomika” — dal 22 al 25 novembre — i miglioriristoranti della zona proporranno menù dedicati aprezzi speciali. Portatevi un giubbotto antivento.

LICIA GRANELLOCucina basca

Dal baccalàai superchef

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Una terra aspra, dove tutto sembra tagliato con l’accetta. Ma benedettada un microclima che favorisce l’agricoltura, da un allevamento semibrado,da un mare pescoso e da una generazione di cuochi in perfetto equilibriotra tradizione e sperimentazione. Il risultato è un numero di stelle Michelinda far invidia a Parigi e New York. Ora, dal 22 al 25 novembre, la rassegna“Gastronomika” offre l’occasione giusta per sperimentarle a prezzi speciali

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 15NOVEMBRE 2009

itinerariMartinBerasateguiè l’alfieredella cucinabasca modernaTra i piatti

del suo ristorantedi Lasarte — tre stelleMichelin — le laminedi baccalà leggermenteaffumicatocon formaggioIdiazábal, mandorle,caffè e vaniglia

Un trionfo di stelle Michelin

(quindici nel raggio di dieci

chilometri), nella città

adagiata sulla baia

a forma di conchiglia

(la Concha) e protetta

dai monti Urgull e Igueldo

Nel centro storico, decine

di locali dove gustare

i pintxos

DOVE DORMIREPENSIÓN ALDAMAR

Calle Aldamar 2

Tel. 0034-943-430143

Camera doppia da 65 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELA CUCHARA DE SAN TELMO

Calle 31 de Agosto 28

Tel. 0034-943-420840

Chiuso martedì, menù da 20 euro

DOVE COMPRAREMERCADO DE LA BRETXA

Edificio Arkoak Bretxa

Tel. 0034-943-430076

San SebastianRidisegnata grazie

agli straordinari interventi

urbanistici degli architetti

Norman Foster

e Frank Gehry, la “capitale

del baccalà” vanta

una parata di locali

gourmand, equamente

divisi fra tradizione

e modernità

DOVE DORMIREMIRÓ HOTEL

Alameda Mazarredo 77

Tel. 0034- 946611880

Camera doppia da 110 euro colazione inclusa

DOVE MANGIAREGUGGENHEIM MUSEUM

Avenida Abandoibarra 2

Tel. 0034-944239333

Chiuso lunedì e martedì, menù da 40 euro

DOVE COMPRAREMERCADO DE LA RIBERA

Calle Ribera

Tel. 0034-944157086

BilbaoFondata da Pompeo

(da cui il nome) la Iruñabasca, capoluogo

della comunità autonoma

della Navarra,

contribuisce ai fasti

della gastronomia

con le carni d’agnello

e le torte di txantxigorri(ciccioli di maiale)

DOVE DORMIREAC CIUDAD DE PAMPLONA

Iturrama 21

Tel. 0034-948266011

Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREBAR LETYANA

Travesia Bayona 2

Tel. 0034-948255045

Chiuso martedì e domenica menù da 15 euro

DOVE COMPRAREMERCADO DE SANTO DOMINGO

Calle Mercado

Tel. 0034-948221852

Pamplona

Radici profondee foglie al vento

JUAN MARI ARZAK

Prima di tutto devo ricordare, adesso che sembra tuttofacile e che dovunque vai si sente parlare di cucina, eno-logia e gastronomia, come il movimento rinnovatore

della metà degli anni Settanta detto “Nuova Cucina Basca”(di cui sono fiero di aver fatto parte) abbia rappresentato unasvolta e al tempo stesso l’impulso costruttivo di un nuovo or-dine culinario per il nostro Paese, segnando indubbiamenteun “prima” e un “dopo”.

Un’avventura resa possibile da un gruppo di giovani cuo-chi ardimentosi, ma anche di giornalisti e scrittori, ai qualisaremo sempre grati, pronti a scommettere (tanto sulle na-scenti riviste gastronomiche che sulle pubblicazioni genera-liste) su quei principi innovatori che sapevano però rispetta-re cultura culinaria e ricettario tradizionale. A loro bisognaaggiungere i clienti, oggi sempre più numerosi, che, avidi dinuove esperienze, sono stati i nostri complici in quelle tra-sgressioni, allora quasi scandalose, oggi radicate e moltipli-cate in tutto il mondo. Non posso nemmeno dimenticare lacomprensione, la solidarietà e l’affetto con cui in quegli an-ni siamo stati accolti ai fornelli dai grandi maestri della trion-fante Nouvelle Cuisine: Bocuse, Troisgros, Senderens, Gué-rard, Chapel… felici di trasmetterci generosamente le loroesperienze e i loro insegnamenti.

Tutto questo assemblaggio di energie ci ha permesso dimantenerci fedeli alle ricette-madri della nostra tradizione— merluzzo in salsa verde, baccalà a la vizcaina, ganciotti dipesce al pil-pil, calamari con il loro nero — ma anche di pren-dere il vento per reinventare e scoprire nuove, magnifichecombinazioni dei nostri prodotti migliori. Per questo, dopola rivolta culinaria di trent’anni fa, oggi dobbiamo assumer-ci il compito di continuare a incoraggiare i giovani cuochi,che hanno sofferto terribilmente, negli ultimi tempi, le con-seguenze della crisi. In questo senso, predichiamo con l’e-sempio. Mia figlia Elena lavora con grande responsabilità eimpegno al mio fianco, partecipando a una cosa che ritengofondamentale nell’epoca in cui viviamo: il lavoro di squadra.Una squadra che sperimenta, assaggia e prova tutto, e che of-fre al commensale solo una minima percentuale, il meglio,di tutta la propria ricerca. Proprio per questo è una cucinad’autore con una personalità molto concreta, di sperimen-tazione e di evoluzione. Tenendo sempre conto delle radicibasche. Radici profonde, sì, ma anche foglie al vento.

Un’altra ambizione è quella di essere una cucina d’avan-guardia. Non siamo cloni di altre tendenze culinarie di gridoe per questo non rinunciamo a niente, tanto meno a una po-sizione leader — con tutti i rischi che comporta e insieme adaltri magnifici cuochi — per mantenere la cucina basca, epertanto anche quella spagnola, in vetta al rinnovamentopermanente nel mondo.

(L’autore, chef patron dell’omonimo ristorante tristellato,è considerato il padre della cucina basca d’autore)

Traduzione di Luis E. Moriones

Bacalao pil pilAglio in fettine

e peperoncino a rondelle

per aromatizzare l’olio

in cui cuociono,

a fuoco dolcissimo,

i filetti di baccalà

Alla fine, si monta l’olio

di cottura

per regalare

una consistenza cremosa

alla salsa

Pintxos Il corrispettivo basco

di tapas e cicchetti

veneziani comprende

un’infinità

di golosissime

tartine con carne,

pesce, uova, verdure –

alta gastronomia

in miniatura – da gustare

con un bicchiere

di sidro

o di vino Txakoli

Txangurro La carne del grande

granchio dell’Atlantico,

cotta con cipolla e carota,

poi fiammeggiata,

viene ben lavorata

per farne una farcitura

con cui riempire

il carapace

Rifinitura

con pan grattato

e gratinatura nel forno

Pimientos rellenosArrivano dalla campagna

di Guernica i profumati

peperoni utilizzati

in moltissime ricette

di carne e pesce

nella cucina basca

La preparazione

del ripieno è possibile

con vari tipi

di carne o verdure

ai frutti di mare

Potage de alubiasLa saporita zuppa

di fagioli rossi,

in arrivo dalla campagna

della città basca

di Tolosa e protetti

da un presidio

Slow Food, parte

dal classico soffritto

di cipolla e carote

Dentro, tocchetti

di pancetta e salsiccia

Sopa cana Fritto, coagulato, cotto,

infornato, il latte

è protagonista di molti dolci

baschi, a partire

dalla storica zuppa

di pane e latte,

resa robusta

dalla particolarità

dell’utilizzo di miele,

cannella e grasso

di cappone

Gulas fritasI neonati delle anguille

– gli stessi che in Toscana

vengono chiamati cieche –

si cuociono con olio,

aglio e peperone dolce

nello stesso padellino

di terracotta

in cui vengono presentate

per essere mangiate

in tavola

ancora roventi

MarmitakoÈ la zuppa storica cotta

nella marmitta a bordo

dei pescherecci: insieme

al tonno bianco, peperoni

verdi, cipolla,

vino bianco, pomodori

e patate vecchie (farinose)

Il gusto

è decisamente piccante,

la consistenza

del pesce sugosa

Lacòn con grelosLa spalla salata intera

del maiale si cuoce

un’ora in acqua

Una notte di riposo

prima di continuare

la cottura

per altre due ore

A seguire,

le salsicce speziate

Nella stessa acqua,

si fanno bollire patate

e cime di rapa

KokotxasLe polpose guance

di merluzzo, boccone

sfizioso della tradizione

marinara, godono

di due preparazioni

tradizionali: impanate

e fritte o insaporite

e portate a cottura

in fumetto

di pesce e rifinite

con prezzemolo tritato

L’appuntamentoComincia domenica prossima

(fino a mercoledì 25) la prima edizione

di “Gastronomika”, evoluzione de “Lo mejor

de la gastronomia”, spostato da quest’anno

ad Alicante e organizzato dai migliori

cuochi baschi. Nei saloni del Kursaal,

si avvicenderanno laboratori con i migliori

chef del mondo e degustazioni guidate

Ospite d’onore, Jiro Ono, ottantenne guru

della cucina giapponese, che racconterà

filosofia e segreti del sushi

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Repubblica Nazionale

l’incontroPremi Oscar “Ero un ragazzino povero, mia madre

mi insegnò a leggere e scriveree ad abbellire la verità per renderlatollerabile”. Adesso è un regista

di culto che ripercorrela sua carriera, dai primifilm trasgressivi,al prossimo sul poetaMarcos Ana tenutoin galera ventidueanni dal Franchismo

“La Spagna non deve dimenticarela sua storia. La memoria riconciliataè un nostro patrimonio”

‘‘

La passione carnaleè stataed è ancorala cosa che mi rendepiù felice nella vita:più felicee più disperatoÈ fondamentalea qualsiasi età

ROMA

«Ormai il mondolo ha scoperto emi devo rasse-gnare. Ho

mentito. Fino allo scorso 24 settembredicevo a tutti di avere cinquantacinqueanni, anche agli amici più cari, perfinoa Penelope Cruz. Poi, il giornalista di unquotidiano catalano è andato all’ana-grafe di Calzada de Calatrava e sono fi-nito sui telegiornali. “Almodóvar hasessant’anni”, strillavano i titoli. Eragrottesco. È vero, mi abbasso l’età, maannunciare la bugia al telegiornale èstata un’esagerazione. Volevo intra-prendere qualche tipo di azione, mamio fratello Augustin ha scoperto chel’accesso a questi dati è libero. Ho deci-so, comunque, che dal prossimo mesetorno a dichiararne cinquantacinque».

Un piovoso pomeriggio romano. Pe-dro Almodóvar Caballero, Caballerocome la madre, sorseggia una tisana eufficializza: ho sessant’anni. Ma è l’a-nagrafe che sbaglia. Il tempo che passaè sempre stata una delle ossessioni delregista manchego, personale e cinema-tografica. Nei decenni si è autofotogra-fato, con cadenza quasi mensile. Lo faancora oggi. «Certifico il passaggio deltempo sul mio volto, i segni, le espres-sioni. Mi sembra che le immagini fisseabbiano un’intensità maggiore, rispet-to a quelle in movimento. Fermano imomenti domestici, intimi e familiari,sanno raccontare quelli importanti inuna sorta di autobiografia senza paro-le». L’anniversario negato ha generato,comunque, buoni propositi: «Mi sonofatto un regalo, ho deciso che la mia vi-ta nei prossimi anni sarà migliore, so-prattutto dal punto di vista personale».

Almodovar è reduce da una lunga,

dolorosa emicrania che l’ha costretto avivere al buio per mesi. «L’immagina-zione, quando sei al buio, può rivelarsisalvifica o dannata: se pensi che nonmigliorerai, puoi arrivare al suicidio. Iol’ho messa al servizio di una storia. Nonè stata vera salvezza, ancora soffro diquesti attacchi, ma almeno è diventatacinema e questa mia passione mi ha da-to la forza di rimettermi al lavoro». Dalbuio è nato il film Gli abbracci spezzatinel quale un regista cieco per dimenti-care la morte dell’amata si regala unanuova identità. «Non è un melodram-ma, piuttosto un dramma molto duro.L’ho partorito in un momento di gran-de sofferenza e la tristezza traspare nel-la storia, pervade i personaggi. Speciequello di Penelope Cruz, disegnata co-me la femmina fatale tipica dei noir, mache invece si rivela vittima predestina-ta. Da subito. Avrei voluto salvarla, manon potevo tradire quel che mi chiede-va la storia. Suona paranormale, lo ca-pisco, ma è così».

Il regista del film è costretto a fare iconti con il suo passato e a rimettere in-sieme le mille foto strappate, i mille ab-bracci spezzati. «Sì, il mio cinema è pie-no di fotografie». È una passione condi-visa con la musa Penelope, che ha rac-colto gli scatti che ha fatto al regista inun libro rilegato solo in due copie: unaper sé, una per una Pedro. «Vedermicon i suoi occhi mi fa sentire bene, lei miconsidera migliore di quello che sono,come uomo e come regista. Ci siamoconosciuti che aveva quattordici anni,fece il provino per Kika, non la presi. Lachiamai sei anni dopo per Tutto su miamadre. Oggi siamo al quarto film insie-me, è la mia attrice perfetta. Il nostro èun rapporto d’amore, senza sesso. Io ladesidero, lei ha fede in me. Non esisteroutine». La sua attrice ha vinto l’Oscargrazie a un altro regista, Woody Allen.Almodovar sottolinea: «Non la vedo be-ne nei ruoli della commedia sofisticata,lei è viscerale, popolana. La svolta nellasua carriera è arrivata con il ruolo del-l’emarginata in Italia nel film Non timuovere di Sergio Castellitto. Poi c’èstato il mio Volver. Solo allora gli ameri-cani hanno iniziato a pensare a lei comea una grande attrice».

La locandina di Gli abbracci spezzatimoltiplica l’immagine di PenelopeCruz alla maniera di Andy Warhol. Al-modovar ha conosciuto l’uomo dellaFactory nel breve periodo in cui si eratrasferito a Madrid. «Tutte le sere mipresentavano a lui dicendo che ero ilWarhol del cinema. Non pareva im-pressionato. Non ero abbastanza fa-moso per essere l’oggetto di un suo ri-tratto», aveva dichiarato allora. Oggi Al-modovar spiega: «Ero un ragazzino po-

vero cresciuto a la Mancha, dove le don-ne vestivano solo di nero e dove mia ma-dre mi insegnò a leggere e scrivere e adabbellire la verità per renderla tollera-bile. Arrivato nella capitale della Spa-gna fui travolto dai colori del pop. Equello diventò il mio primo cinema.Oggi è tempo, invece, di mezzi toni: ilmarrone che sfuma in arancio, il grigioche si fa azzurro».

Il momento grigio della vita Almodo-var lo ha lasciato alle spalle. La barba èincolta, la folta chioma s’è imbiancata,ma lo sguardo e il sorriso hanno ritrova-to nuova vitalità: «Il regista di Gli ab-bracci spezzati è infelice, ma il film cheha girato è pieno di allegria», dice lan-guido. Già, il film nel film, Cicas y male-tas, citazione manifesta di Donne sul-l’orlo di una crisi di nervi. Il personaggiodella donna assessore che spaccia cocatra i politici, che Almodovar ha scrittoper l’attrice Carmen Machi, un mono-logo nel quale spiega perché il sesso è unbene sociale di cui tutti dovrebbero di-sporre: «L’ho trasformato in un cortomolto porco che si vedrà nel dvd».

Del film almodovariano per antono-masia, appunto Donne sull’orlo di una

crisi di nervi, Broadway sta allestendo lasua versione musical. «Ho il diritto di vi-sionare il copione pezzo a pezzo. Inten-do lasciare libertà artistica al regista, mameglio che sappia che posso interveni-re quando voglio. Sono curioso di ve-derlo recitato in inglese, felice di con-statare che l’argomento che racconta èancora attuale». La barriera linguisticaè stata uno dei motivi che hanno tenu-to lontano il regista dagli Stati Uniti,malgrado i due Oscar vinti per Tutto sumia madre, miglior film straniero, e perla sceneggiatura di Parla con lei. «È sta-to Billy Wilder a darmi questo consiglio:resta a Madrid».

Tra i progetti sul tavolo di lavoro, ora,c’è anche quello tratto dal libro del poe-ta antifranchista Marcos Ana: Dimmicom’è un albero. «Una storia incredibi-le, un uomo incredibile». Ana è statonelle prigioni del regime spagnolo perventidue anni. Ha iniziato a scriverepoesie che affidava alla memoria deglialtri detenuti. Il film racconterà del mo-mento in cui l’uomo, che a quaranta-quattro anni non ha mai fatto l’amore,esce di prigione e incontra una prosti-tuta pagata in anticipo dagli amici. Allafine di quella notte, di ricordi e raccon-ti, la donna non vorrà soldi: «Una nottecosì non si può pagare». Dice Almodo-var: «Da quando i socialisti sono al po-tere in Spagna la destra cerca di divide-re il popolo, Marcos Ana è un simboloper tutti di riconciliazione. Non ha maiportato rancore a chi lo ha tradito, agliaguzzini che lo torturarono fin quasi al-la morte. Non ha nemmeno voluto sve-larne i nomi perché figli e nipoti non sene dovessero vergognare. È un santo».

Per Pedro Almodovar oggi è impor-tante che la Spagna non dimentichi lasua storia. «La memoria, riconciliata, èun patrimonio del mio Paese. Già inCarne tremula avevo scelto di aprire ilfilm con Penelope che partoriva su unautobus la notte in cui il regime dichia-ra la legge marziale. Ho scelto di far sen-tire la voce di quel ministro che è, incre-dibilmente, un politico attivo ancoraoggi». È un significativo cambio di posi-zione rispetto al cinema degli inizi, del-la Movida, in cui raccontava una Spa-gna senza i segni di Franco. «Allora, can-cellare il franchismo era una scelta po-litica deliberata. Il Paese assaporava leprime libertà dopo il regime e nei mieifilm volevo negare che Franco fosse esi-stito. Ero un giovane cineasta interessa-to alla verità della strada, inseguivo lamia libertà individuale dentro una ri-trovata libertà collettiva».

Di quei tempi restano pellicole comePepi, Luci, Bom e le altre ragazze delmucchio. E foto che lo ritraggono in cal-ze a rete, tacchi e impermeabile mentre

duetta sul palco con il cantante FannyMcNamara nei cabaret madrileni. «Co-sa provo quando vedo lo foto di allora, ivestiti, il trucco? Un’identificazione as-soluta. Mi rallegro molto di aver vissutoquell’epoca in quel modo, mi piace l’i-dea di aver dato scandalo agli occhi deibenpensanti e tornando indietro rifareitutto». Almodovar ha dichiarato che lasua fede è la passione. Ancora oggi, asessant’anni («per carità, cinquanta-cinque»), a dominarlo è la legge del de-siderio. «La passione carnale è stata edè ancora la cosa che mi rende più felicenella vita. Più felice e più disperato. Èfondamentale a qualsiasi età».

L’ultima passione di cui parla volen-tieri Almodovar è quella per l’Italia ci-nematografica. «Non avrei potuto fareGli abbracci spezzatisenza l’omaggio alfilm Viaggio in Italia di Roberto Rossel-lini. Amo il vostro cinema e le vostre at-trici. Lavorerei, ancora oggi, con SophiaLoren, Silvana Pampanini, ClaudiaCardinale, Catherine Spaak. Ricordocon affetto Francesca Neri, in Carne tre-mula era di una bellezza stupefacente.Mi piace molto Margherita Buy». L’uni-ca esperienza negativa di collaborazio-ne artistica con il nostro Paese è stataquella con Ennio Morricone. Almodó-var la racconta, reticente: «Ho grandestima di Ennio come autore, ma la no-stra collaborazione in Légami fu un di-sastro. I suoi temi erano troppo con-venzionali per le mie pellicole, ne usai lametà. Anni dopo, mentre ero in bagno,sentii una musica familiare, corsi in sa-lotto, la tv trasmetteva il film Frantic diRoman Polanski. Il tema, firmato daMorricone, a mio giudizio era incredi-bilmente simile a quello che poi avevacomposto per Légami. Lì per lì divennifuribondo, oggi davvero non serbo ran-core. L’ho raccontato perché lei me l’hachiesto, non vorrei che Ennio pensassea una vendetta a freddo».

ARIANNA FINOS

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DE

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Pedro Almodóvar

‘48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15NOVEMBRE 2009

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