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DOMENICA 6 MARZO 2011/Numero 316 D omenica La di Repubblica le tendenze Serio ma non troppo, torna il doppiopetto SIMONE MARCHETTI e IRENE MARIA SCALISE l’incontro Le buone azioni di Lilian Thuram ANAIS GINORI cultura Le fantasie a matita degli architetti MICHELE SMARGIASSI e AMBRA SOMASCHINI la memoria New York 1911, il marzo delle donne VITTORIO ZUCCONI GINO CASTALDO BOLOGNA E ccolo, il Blasco, il monumento roccioso del rock italia- no, alle prese coi suoi primi 59 anni, acciaccato ma non troppo, anzi radioso, a suo modo, foderato di intra- montabili jeans con cinta borchiata, e lo sguardo az- zurro, sempre limpido, quasi infantile. Arriva nel suo ufficio bolo- gnese caracollando come un cowboy della bassa padana e per pri- ma cosa piazza lì uno dei suoi tipici «yeeh!», quelli che mandano in visibilio il suo popolo. Del resto è l’unico al mondo capace di con- densare tutto quello che c’è da dire in un semplice «yeeh!». «Oh, guarda», dice, «non me l’aspettavo neanche io!». Ma cosa, Vasco, co- sa non si aspettava? «Di essere ancora qui, di riuscire a fare un disco nuovo, anzi ho scritto un sacco di pezzi in più, e magari qualcuno lo regalerei a parte, oltre al disco, ma quando dico queste cose mi pren- dono per matto, mi dicono che devo stare calmo, dormire di più». E ride, si guarda intorno come un monello che ne ha fatta un’al- tra delle sue. A fine mese esce il disco, ma c’è già un video che circo- la in rete, si intitola E già: lui lì da solo nel nulla, senza trucchi, come appena uscito da notte dura, con un’aria svagata e blasfema che sembra dire: «Io sono così, se vi va mi prendete come sono». Ma com’è oggi davvero Vasco? Pare assurdo, ma oltre tutti gli stereoti- pi della leggenda “spericolata” quello che si vede nei suoi occhi e si legge nelle sue parole, è una singolare forma di saggezza: «Beh, un po’ di cose le ho capite, mi sembra anche a me di vedere le cose più chiare. Negli ultimi dieci anni sono maturato in modo incredibile, ho le mie idee, anche sulla politica, che prima vedevo confusamen- te. A dire il vero non è che poi mi piaccia molto, magari era meglio prima che vedevo tutto offuscato. La realtà, a vederla bene è dura, squallida, non sempre giusta, ma io la prendo come una sfida, dico sempre: andiamo a vedere fino in fondo, questo è quello che ci fa es- ser uomini, andare avanti nonostante tutto, anche se intorno la realtà ti fa schifo». (segue nelle pagine successive) spettacoli Così ho scritto il “Discorso del Re” PETER CONRADI FOTO DI G. SIMONI/CHIAROSCURO (BO) Le nuove sfide, i sogni infranti, il compleanno numero 60 meno uno. Bilancio di una vita spericolata Vasco Gli anni di Repubblica Nazionale

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DOMENICA 6MARZO 2011/Numero 316

DomenicaLa

di Repubblica

le tendenze

Serio ma non troppo, torna il doppiopettoSIMONE MARCHETTI e IRENE MARIA SCALISE

l’incontro

Le buone azioni di Lilian ThuramANAIS GINORI

cultura

Le fantasie a matita degli architetti MICHELE SMARGIASSI e AMBRA SOMASCHINI

la memoria

New York 1911, il marzo delle donneVITTORIO ZUCCONI

GINO CASTALDO

BOLOGNA

Eccolo, il Blasco, il monumento roccioso del rock italia-no, alle prese coi suoi primi 59 anni, acciaccato ma nontroppo, anzi radioso, a suo modo, foderato di intra-montabili jeans con cinta borchiata, e lo sguardo az-

zurro, sempre limpido, quasi infantile. Arriva nel suo ufficio bolo-gnese caracollando come un cowboy della bassa padana e per pri-ma cosa piazza lì uno dei suoi tipici «yeeh!», quelli che mandano invisibilio il suo popolo. Del resto è l’unico al mondo capace di con-densare tutto quello che c’è da dire in un semplice «yeeh!». «Oh,guarda», dice, «non me l’aspettavo neanche io!». Ma cosa, Vasco, co-sa non si aspettava? «Di essere ancora qui, di riuscire a fare un disconuovo, anzi ho scritto un sacco di pezzi in più, e magari qualcuno loregalerei a parte, oltre al disco, ma quando dico queste cose mi pren-dono per matto, mi dicono che devo stare calmo, dormire di più».

E ride, si guarda intorno come un monello che ne ha fatta un’al-tra delle sue. A fine mese esce il disco, ma c’è già un video che circo-la in rete, si intitola E già: lui lì da solo nel nulla, senza trucchi, comeappena uscito da notte dura, con un’aria svagata e blasfema chesembra dire: «Io sono così, se vi va mi prendete come sono». Macom’è oggi davvero Vasco? Pare assurdo, ma oltre tutti gli stereoti-pi della leggenda “spericolata” quello che si vede nei suoi occhi e silegge nelle sue parole, è una singolare forma di saggezza: «Beh, unpo’ di cose le ho capite, mi sembra anche a me di vedere le cose piùchiare. Negli ultimi dieci anni sono maturato in modo incredibile,ho le mie idee, anche sulla politica, che prima vedevo confusamen-te. A dire il vero non è che poi mi piaccia molto, magari era meglioprima che vedevo tutto offuscato. La realtà, a vederla bene è dura,squallida, non sempre giusta, ma io la prendo come una sfida, dicosempre: andiamo a vedere fino in fondo, questo è quello che ci fa es-ser uomini, andare avanti nonostante tutto, anche se intorno larealtà ti fa schifo».

(segue nelle pagine successive)

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Così ho scritto il “Discorso del Re”PETER CONRADI

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Le nuove sfide,i sogni infranti,il compleanno numero60 meno uno. Bilanciodi una vita spericolata

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(segue dalla copertina)

Ela sua sfida, ovviamente èfatta di canzoni. Prendedelle piccole casse, le mon-ta sul computer e lanciamusiche che fanno vibrarele pareti, ci canta sopra, mi-

ma con le mani un solo di chitarra. «Hosempre sognato di suonare la chitarraelettrica, anche perché così uno sa cosafare con le mani, all’inizio facevo fatica,non sapevo cosa farci, le mettevoin tasca». Il solitoVasco, sì, ma contante cose nuove.Ha scoperto anchela lettura, ma «anchesu questo vado d’i-stinto, come sempre.Mi son letto i romanzidell’Ottocento, e an-che tutta la Recherche.Dopo le prime quaran-ta pagine scritte solo perdescrivere il risveglio ri-masi allibito ma ero in-cantato, mi ha tirato den-tro e alla fine l’ho letta tut-ta. Poi mi piace molto la fi-losofia, ero curioso, ho fat-to quella cacata di scuola diragioneria, e volevo cono-scere, all’inizio un po’ pergioco. Poi ci ho preso gusto,e ho scoperto che spesso leg-gere direttamente gli scrittidei filosofi non è così difficile.Pensavo ci volesse un cervellosuperiore, e invece basta il mio,che non è un granché».

Ride di se stesso, come fosseanche lui sorpreso dallo stranodestino che ha trasformato la sua vita. Hascelto di vivere buona parte dell’anno aLos Angeles per poter essere come tuttigli altri. «Lì mi prendo una vacanza daVasco Rossi e mi rilassa molto la possibi-lità di girare normalmente, qui purtrop-po non è possibile, non è che mi lamen-to, eh, va bene così. Ho scoperto il su-permercato, da anni non ci andavo più,ma più che altro è la tranquillità di dire:ho voglia di fare un giro senza pensare aniente. Lì lo faccio».

Eppure la qualità maggiore di VascoRossi, con la quale ha cambiato la can-zone italiana, è aver usato per primo illinguaggio reale, quello che si parlavadavvero nelle strade di Bologna.«Quando ho scritto Colpa d’Alfredo,era come se la stessi raccontando aun amico. Quando ero ancora a Zoc-ca, ero uno dei primi che era andatoa studiare, quindi ogni tanto usavoqualche parola un po’ più pulita, initaliano, e c’era subito qualcunoche diceva: “ecco, et mangià un vu-cabulare”. Sono cresciuto così,quindi ho sempre cercato di parla-re non meglio, peggio, per farmicapire da tutti». E oggi, da dove laprende l’ispirazione? «Non lo soneanche io com’è, me lo sonochiesto, ma mi succede, i ragazzili sento, li vedo, li comprendo dapiccole cose. Sono molto dentro le cose,anzi di più perché essendo fuori sono piùosservatore, non ho mai perso questocollegamento, si vede che sono propriouno normale. Poi mi fanno tenerezzacerte cose che vedo perché le ho vissute,vedo le illusioni, i sogni. Ma bisogna sa-pere, imparare qual è la realtà: le illusio-ni non servono a un cazzo». C’entraqualcosa Internet? «C’entra moltissimo.Ho scoperto “feisbùk”, ho capito che au-menta la possibilità di connettersi congli altri. Ho scoperto anche la cattiveria,l’odio. L’anno scorso a Caserta, dopol’ultima canzone dell’ultimo concertodel tour sono inciampato e son caduto.Ovviamente mi hanno ripreso con i te-

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L’altro Vasco

È più saggio perché le cose “bisogna prenderle così”Si diverte ancora anche se “cento volte al giorno vorreimollare”. Ogni tanto si nasconde in America per “prendermiuna vacanza da me stesso”. Dice che sono tempi duri,“ma più schifo fa, più vado avanti”. La più grande rockstaritaliana racconta i suoi primi 59 anni appena compiuti

la copertina

GINO CASTALDO

lefonini e l’hanno messo su Youtu-be. Sono andato a vedere i commenti eho letto insulti così pesanti da rimaneresenza parole. Un odio pazzesco. All’ini-zio mi ha sconvolto, pensavo che dopogli anni Novanta mi volessero un po’ tut-ti bene. Poi ho pensato che anche io a vol-te dico delle cose tremende, che è nor-male, però è stato importante, mi ha fat-to rendere conto della realtà, che c’è an-che l’odio, e come si odia un cantantenon si odia nessuno, e io di passioni neho scatenate, anzi non io, perché io sonosolo in rappresentanza di Vasco Rossi, èovvio. L’ultimo aveva scritto: “Spero cheti venga un ictus vecchio drogato di mer-

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“Vogliouna vitanormale”INEDITOA sinistra dall’alto, uno scritto sulla guerradel ’93 ai tempi de Gli spari sopra ;il testo abbozzato di una canzone ineditadel 2011; la scaletta del concertodi Acireale e Reggio Calabria del ’93 (© Archivio Il Blasco)

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riuscivo più a divertirmi come una volta,e non trovavo motivazioni nuove. Dicia-mo che il calo d’energia l’ho sentito. Lamia vita artistica ha tanti momenti bel-lissimi ma non è sempre così, a volte lecose non mi vengono bene, ci metto me-si a finire una canzone, ma la sfida è bel-la». Eppure ad ascoltare Vita spericolataverrebbe da pensare che è una canzoneperfetta, di quelle che arrivano così, d’in-canto, senza fatica. «Per niente: ci homesso un anno a scrivere la prima frase.Perché mi piaceva talmente tanto la mu-sica di Tullio Ferro che volevo scrivere untesto all’altezza, e ogni volta che provavomi sembrava orrendo. Poi un giorno è ar-rivata la prima frase: “voglio una vita...” e

lì mi sono sbloccato, avevo ben chiaro lavita che volevo: maleducata, piena diguai...». Ma dopo questa vita maleduca-ta un bilancio di questi 59 anni se la sen-te di farlo? «Sono trent’anni di onoratacarriera, anzi di più, ho iniziato nel 1978,e se me l’avessero detto... Io pensavo chenon sarei durato più di cinque anni, poiquando arrivò Vita spericolata per meera già il massimo, più di così, cosa vuoiche faccia? Dopo è stata dura, non riu-scivo a scrivere niente. Poi un giorno misono messo a giocare con le parole e dibotto me ne sono venute quattro o cin-que… fino al Blasco, quella l’ho scritta inpiscina senza neanche la chitarra, scher-zavo, cantavo a squarciagola: ecco, lacombriccola del Blasco». A sentire que-sti racconti, la sua sembra una vita in findei conti guarita dalle canzoni. Sono sta-te la sua via di salvezza? «Cazzo! Io tutti igiorni, un centinaio di volte al giornoavrei il senso di buttarmi via, di mollare,però ogni volta trovo la voglia di reagire,e poi se vengono fuori cose belle, benvenga, ma c’è un costo, il mio cervello è

sempre in precario equilibrio,ci sono le crisi di panico, le de-pressioni, diciamo che la vitanormale è dura. Poi si cresce,appunto, e per fortuna. Avent’anni una ragazza mi re-galò il libro di Osho. Lessi leprime righe: quando sei ner-voso pensa a come respiraviquando non eri nervoso.L’ho preso e l’ho buttatovia. Poi mi è capitato di leg-gerlo in un altro momentoe l’ho apprezzato molto».

Non pensa che ci sia sta-to una sorta di tradimentodi certi ideali? «È scattatoun interruttore, anche iopensavo nei Settanta cheil mondo sarebbe anda-to in modo completa-mente diverso, che sa-rebbe migliorato, e unaribaltata così non mel’aspettavo, è incredi-bile, quasi ridicolo, lecose sono andate malee le cose hanno anchedei nomi e cognomi, liconosciamo bene.Ma andiamo comun-que avanti. Ho sem-pre avuto queste rea-

zioni, quando sono con le spalle almuro, disperato, reagisco, combatto, miviene istintivo, appena penso “mi arren-do”, viene subito fuori il contrario, nonm’arrendo per un cazzo, più schifo mi fapiù vado avanti, anche l’album nuovo ènato così, da bastian contrario».

Dovesse dire qual è il valore più im-portante della sua vita fino a questo mo-mento, quale sarebbe? «La condivisioneè la parola fondamentale. L’ho capita be-ne ultimamente giocando con queste at-trezzature, cose di rete, io poi se non con-divido una cosa con qualcuno è come senon l’avessi vissuta, forse è questo chepiace nelle mie canzoni. Quelli che miseguono si sentono confortati quandoparlo di certe cose che han già dentro, melo dicono spesso, vanno a lavorare lamattina, mettono su la canzone, si sen-tono caricati da questa voglia di non ar-rendersi. Soffriamo, paghiamo, ma si vaavanti e in fondo siamo tutti un po’ ugua-li. Tutta la mia storia è fatta di cose noncalcolate. E poi io vengo dai Settanta, ilnostro mito era la spontaneità, a tutti icosti. Meglio sbagliare ma con sponta-neità, senza finzioni, contro l’ipocrisia, icompromessi, una parola che ci facevavenire vergogna, poi in certe cose li fai, lidevi fare, ma su altre no, sarebbero tra-dimenti. Come dico nella nuova canzo-ne: sarebbe come vendere l’anima aldiavolo, ma noi l’anima al diavolo non lavendiamo, casomai gliela regaliamo».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

da”, allora a questo gli ho risposto: “Spe-ro che mi venga un ictus anche io, vec-chio non posso dire di essere giovane,drogato devo dire che ho fatto le mieesperienze e non me ne vergogno, potreidiscutere solo sul di merda, ma anche diquesto in fondo...”. Insomma bisognaprenderle così».

Allora è proprio vero che Vasco è di-ventato saggio, ma riesce ancora a di-

vertirsi? «Non mi sono fatto man-care niente, diciamo così, ma

anche questo col tempocambia. C’è stato un

periodo in cui ero incrisi di brutto,

perché non

CARRIERAVasco bambino; ai tempi

di Punto Radio; (© ArchivioIl Blasco); un concerto nell’83(© A. Pizzarotti, Chiaroscuro, Bo);nel ’93 e nel 2004 (© R. Villani, Chiaroscuro)

CORREZIONIIn questa pagina, spartiti e testicorretti a mano da Vascodi Vivere e Gli spari soprae una cartolina autografa del 1996(© Archivio Il Blasco)

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la memoriaDiritti civili

Era il 25 marzo 1911, un incendio divampò nella camiceria“Triangle Shirtwaist”, a New York. Dei centoquarantaseimorti, centoventinove erano ragazze: siciliane, russe, ucraineLe fiamme divennero simbolo dello sfruttamento femminilee cambiarono la coscienza americana. Ma soltanto oggi gli ultimicorpi delle sarte sono stati identificati: tre erano italiane

Fu la più grande carneficinaprima dell’11 settembre 2001Le autorità inasprirono le penesul lavoro a cottimo e vennerointrodotte le famose scale esterne

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L’ultimo rogo delle donne

Fu lo spaventoso crogiolo del-l’immigrazione, la fonderiaumana nella quale si fuseroper sempre i corpi, le identitàe le nazionalità dai quali sa-rebbe nata la New York che

conosciamo. Erano soprattutto donne,italiane e ucraine, russe e palestinesi, ru-mene e irlandesi, le cucitrici che furonoconsumate insieme un secolo fa esattonel rogo della camiceria “TriangleShirtwaist” del Village, negli appena di-ciotto minuti trascorsi fra il primo gridodi «Al fuoco! Al fuoco!» e lo spegnimento.Alla fine furono centoquarantasei mor-ti, tutti fra i sedici e i ventitré anni, picco-le schiave incatenate alle macchine percucire e ai tavoli per il taglio della tela aiquali furono trovate fuse insieme. NewYork avrebbe dovuto attendere no-vant’anni, fino all’11 settembre 2001,per subire una carneficina più orribile.

Fu il rogo che cambiò e sigillò il desti-no di una grande città e di chi ci avrebbevissuto e lavorato dentro, secondo un ca-novaccio terribile e ripetuto tante voltenella storia americana periodicamenteilluminata da immensi incendi, nellaChicago dei mattatoi industriali, nellaSan Francisco degli avventurieri, nellaAtlanta sconfitta dalla Guerra civile, nel-la New York selvaggia del primo Nove-cento, come se il parto doloroso di que-sta grande nazione avesse bisogno di unfalò, per ripartire. Ma di storia, di destinida Roma di Nerone, di crogioli che scuo-tessero anche le autorità giudiziarie e po-litiche dal loro comodo, e spesso corrot-to, laissez faire, alle centoventinove ca-miciaie e ai loro diciassette colleghi ma-schi nell’East Village poco importava.

A Bessie la russa, a Peppina e Concet-ta le italiane, a Fannie l’ucraina, vittimeidentificate a fatica e alcune soltanto orae finalmente sepolte con un nome nel ci-mitero immenso dei “Sempreverdi” fraBrooklyn e Queens, da un ricercatore os-sessionato da quell’incendio, importa-va soltanto guadagnare quello che il ca-po reparto decideva di pagarle alla fine diogni giorno. Non c’erano salari fissi nécontratti sindacali. Un dollaro, due algiorno, mai di più, per restare entro i co-sti previsti dai due proprietari dellaazienda: diciotto dollari ogni dodici ca-micie, un dollaro e mezzo a camicia.

Poche di loro, in quel palazzo di diecipiani a pochi passi da Washington Squa-re, nel cuore del Village, chiamato AschBuilding, parlavano inglese e capironoche cosa significasse l’urlo che risuonòalle quattro e quarantacinque di un po-meriggio di primavera 1911, il 25 marzo:

«Fire! Fire!». Non che la comprensioneimmediata dell’allarme avrebbe potutofare molta differenza per le donne e gliuomini che tagliavano, cucivano, lava-vano, stiravano e stendevano le camicie.Lo sweathshop, la fabbrica del sudore,occupava tre piani, tra l’ottavo e il deci-mo, e l’ottavo era bloccato. Tutte le por-te erano chiuse dall’esterno e le lavoran-ti controllate una per una alla fine del tur-no, perché non rubassero utensili, forbi-ci, aghi, filo o pezze di prezioso cotone.

Il secchio d’acqua che un impiegatodella contabilità, William Bernstein,tentò di rovesciare sul focolaio acceso,attingendo all’unico rubinetto funzio-

Concetta Prestifilippo, Josephine Cam-marata, Dora Evans and Fannie Rosen eun atto di pietà è stato scritto. Ma il veromemoriale al rogo delle cucitrici non è inquel cimitero. È nella carne viva dellacittà, che la strage cambiò per sempre eche anche il più “casual” dei turisti puòvedere, senza neppure saperlo. Il pro-cesso contro i due soci proprietari, che leautorità cittadine perseguirono con tut-ta la furia e la severità di chi sapeva di ave-re la coda di paglia politicamente in-fiammabile quanto quelle camicie, ri-scrisse e impose la normativa antincen-dio nella città cresciuta senza regole. Co-struì e rese obbligatorie ovunque quellescale esterne che oggi si vedono pende-

nante nello stanzone, non avrebbe po-tuto nulla contro un incendio che trovò,forse per una cicca accesa, nei mucchi discampoli accatastati sul pavimento, nel-le camicie stese ai fili e già asciutte, nel le-gno del pavimento e dei tavoli, il combu-stibile ideale. I racconti dei pochi super-stiti, come Bernstein che testimoniò alprocesso contro i due soci proprietaridella “Camiceria Triangolo” condanna-ti per omicidio, sono pagine tratte dal-l’immaginario infernale da catechismo.

Sono scene di donne già in fiammeche correvano cercando di sfuggire alfuoco che stava bruciando le gonne e icapelli, tuffi silenziosi e senza grida di al-tre che si lanciavano dalle finestre sce-gliendo il suicidio, fotogrammi di ragaz-zine «semplicemente impietrite», disseBernstein, incapaci di muoversi e di rea-gire. Immobili nell’attesa certa e rasse-gnata di diventare torce viventi o di ca-dere asfissiate dal fumo. I vigili del fuocoche, incredibilmente, riusciranno a spe-gnere un incendio all’ottavo piano in ap-pena diciotto minuti, troveranno sartinefuse con la macchina per cucire alla qua-le morirono abbracciate, come se nonavessero voluto separarsi da quell’uten-sile che aveva dato loro un mezzo per vi-vere nella città dove erano approdate.

Molte di loro non sarebbero stateidentificate per decenni, le ultime per unsecolo, come Elizabeth Adler, rumena diventiquattro anni, come MaximilianFlorin, russo di ventitré anni, come la“morta numero 85”, una caduta ignotasepolta per novantanove anni con que-sta lapide, e sarà colei dalle quale partirà,quasi per caso, il cammino di uno stori-co appassionato di genealogia, MichaelHirsch, ossessionato dall’incendio checambiò New York. La “vittima numero85” sarebbe risultata essere la sorella diuna giovane di diciassette anni sepoltain un altro cimitero, sotto una lapide chericorda misteriosamente «la sorella uc-cisa», senza altre indicazioni. Da quellatomba, Hirsch sarebbe risalito a unapronipote ottuagenaria, pensionata inArizona. Da lei, dai suoi confusi ricordipersonali di prozie perdute all’inizio delNovecento, avrebbe scalato l’albero del-la loro storia e trovato un nome, nell’e-lenco delle impiegate della “CamiceriaTriangolo”, una scomparsa dopo il 25marzo 1911. E da lì sarebbe risalito allatomba del cimitero di Brooklyn, final-mente dando un nome a quei resti: Ma-ria Giuseppina Lauletti. Siciliana divent’anni.

Con lei, l’appello dei morti è statocompletato. Sotto il monumento che ri-corda quel giorno, sono stati scritti i no-mi degli ultimi sei ignoti, Max Florin,

VITTORIO ZUCCONI

LE IMMAGINIQui sopra e nella pagina accanto, l’incendio scoppiato alla “Triangle Shirtwaist” il 25 marzo 1911 in due foto d’epoca

Uno storico, Michael Hirsch,ha ricostruito le identità mancantiinseguendo la sua ossessione,la “vittima numero 85”: MariaGiuseppina Lauletti, vent’anni

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re dagli edifici più bassi e che ogni filmpoliziesco o di horror usa per gli incubidegli spettatori. Cominciò la bonifica deitenement, quei termitai in affitto, comedice il nome, dove le onde umane deinuovi immigrati si accatastavano unasull’altra facendo di New York all’iniziodel secolo scorso la città più densamen-te popolata del mondo. I regolamentiper la bonifica dei tenement esistevanogià da dieci anni, ma né il Comune, né lapolizia, né la magistratura si erano maidati la pena di farli rispettare, nel nomedella crescita rapinosa e della generositàsottobanco dei signori dei termitai. Equelle ottantacinque ore di lavoro allasettimana che le ragazzine dell’ottavopiano dovevano subire apparvero, final-mente, intollerabili.

Gli scioperi degli altri schiavi dellemacchine per cucire a Philadelphia, aBaltimora, nel Village e nel Garment Di-strict di Manhattan, che ancora esistema langue nella concorrenza impossibi-le dei nuovi schiavi che tagliano camicee abiti in Estremo Oriente, incontraronol’appoggio di un pubblico che, fino aquel falò, preferiva schierarsi con chi of-friva loro, a qualunque prezzo, un lavo-ro. Per anni, e invano, altri operai e ope-rai dell’industria tessile avevano orga-nizzato scioperi. E in un’altra fabbricadel sudore a New York, pochi anni pri-ma, si sarebbe visto lo spettacolo inaudi-to e terrorizzante del primo sciopero in-detto e organizzato interamente da don-ne. I ritocchi salariali e miglioramentiavevano appena sfiorato le ragazze del-la “Camiceria Triangolo”, reclutate fra lepiù giovani, le più timide, le più docili im-migrate dalla Sicilia, dai ghetti d’Ucrainae di Russia. Lo Asch Building è ancora lìdov’era nel pomeriggio del 25 marzo1911, ribattezzato Brown Building e og-gi parte della New York University allaquale fu donato. È un edificio poco inte-ressante, nella banalità dello stile neo ri-nascimentale che disseminò di palazzisimili le città americane, e alle finestredell’ottavo piano, oggi sede di rispetta-bili studenti e insegnanti di scienze, c’èqualche condizionatore d’aria. È un luo-go un po’ freddino, poco trafficato, stra-namente silenzioso nonostante la pros-simità con Washington Square, il cuoredel Village. Non entra in nessuna foto ovideoclip ricordo del viaggio a New York.Si incrociano giovani, studenti, soprat-tutto studentesse, belle, serie, sorriden-ti, decise, occupate a vivere quel sognoche altre ragazze cucirono anche per lo-ro, con la propria vita.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

I DOCUMENTIIl racconto del rogo alla camicerianewyorchese che causò la mortedelle centoquarantasei operaieriportato nelle prime paginedei giornali cittadini dell’epocaNella pagina accanto, una vignetta

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Una metropoli dentro il ventre di una muccaPalazzi dentro il collo di una giraffa. Sbuffi di colore,scarabocchi, stanze nate dall’immaginazione

di un bambino. Raccolti ora in un volume, progetti urbani e di internisi rivelano per ciò che spesso sono: non future costruzioni ma pensierimanuali che talvolta sconfinano nel mondo irreale dell’arte

CULTURA*

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6MARZO 2011

Quella casa fantasticaabitata solo sulla carta

Qui nessuno abiterà mai, senon sogni ed emozioni. Lamatita dell’architetto, dicola matita vera che lascia lasua traccia grassa su un fo-glio vero, non è il primo

passo verso la cazzuola del muratore, equel foglio non è la simulazione di unlotto edificabile. Che l’edificio futuronasca così, da qualche tratto veloce suun taccuino, dallo schizzo impressioni-sta che corre dietro l’intuizione istanta-nea, è un pregiudizio romantico a cuineppure gli architetti romantici hannomai creduto. L’edificio nasce dalla con-vergenza di discipline diverse, moltedelle quali non visuali: nasce dallo stu-dio delle funzioni, dal calcolo degli spa-zi, dalla scienza dei materiali, dalla con-sultazione delle normative, dai com-promessi con il committente.

Ma gli architetti disegnano tantissi-mo, incessantemente. Quella del pro-gettista rinomato che rilascia intervistescarabocchiando con un pennarellosul brogliaccio è quasi una macchietta,però è anche un’immagine vera, abi-tuale negli studi professionali, anche inquest’epoca di disegno elettronica-mente assistito. Perché lo fanno? Si po-trebbe rispondere, beffardamente:perché alle biennali d’architettura nonpuoi esporre gli edifici veri, e le foto so-no un po’ banali. Dunque non sarebbe-ro, i disegni, materiale da lavoro ma dapublic relations, visualizzazioni da esi-bire come marchio di stile che distingueuno studio da un altro, una scuola daun’altra, un’impostazione da un’altra.Un modo per tranquillizzare i commit-tenti e magari anche se stessi sul fattoche l’architettura è ancora una cosa vi-va, non standardizzata, che nasce dauna mente umana e non dai softwarepreimpostati dei Cad, i tavoli da dise-gno elettronici.

E allora come guardarli, i disegni del-l’architetto? Se non sono né opere néprogetti di opere, che cosa sono allora?C’è un pregiudizio secolare che pesasulla reputazione degli artisti del co-struito. Che soffrano di un complesso diinferiorità artistica. Imbarazzati dalruolo di costruttori che la società dele-ga loro. Pronti a far di tutto per dimo-strare di essere creatori. Un architettovisionario quant’altri mai, EtienneLouis Boullée, si ribellò a Vitruvio:«L’architettura sarebbe l’arte del co-struire? Certamente no!». Va detto chel’era degli archistar offre paglia al fuocodi questo luogo comune: tutti ansiosi dilasciare il proprio segno sulla mappadelle nostre città, la propria firma evi-dente e inconfondibile sullo skyline deinostri luoghi di vita, o magari solo sul-l’arredamento del nostro salotto. TomWolfe li ha demoliti a colpi di sarcasmo,per questo, nel suo Maledetti architetti.Il disegno sarebbe dunque la prova che

l’architetto sa creare la sua “cosa men-tale” prima di costruirla. Come se, te-nuto dall’ideologia modernista ad es-sere un semplice funzionario della fun-zione che si trasforma scientificamentein forma, rivendicasse con orgoglio ilgrido del Correggio: «Ed io anche sonpittore!». Se il disegno non ha poi alcu-na relazione col costruito, se non haneppure somiglianza con qualcosa dicostruibile, tanto meglio. Il grandissi-mo Giovanni Battista Piranesi si definìed è sempre stato tranquillamente defi-nito “architetto” benché in tutta la suavita abbia costruito un solo modestissi-mo tempietto sull’Aventino: bastò aguadagnargli la qualifica una mole im-pressionante di disegni, compresequelle fantastiche e impossibili Carceriche un capomastro non riuscirebbemai a edificare materialmente. Anche il

futurista Antonio Sant’Elia è sicura-mente più popolare per quei disegni ac-querellati di una smagliante “Città nuo-va” che per le cose che tirò su davvero.

Ma questo è un giudizio troppo seve-ro. Sfogliando gli sketchbook d’autoreraccolti a centinaia da Will Jones, l’im-pressione di un rifugio narcisistico la-scia il posto all’ipotesi che il disegnod’architettura serva soprattutto all’ar-chitetto. I loro veri taccuini, gli architet-ti spesso li buttano. O li bruciano, perfi-no. Per i suoi schizzi Norman Fostersceglie carte di poco pregio proprio pernon essere tentato di conservarli. Vuoldire che la loro funzione l’hanno già as-solta nel momento stesso in cui vengo-no tracciati, i disegni dell’architetto.Non sono progetti, sono processi. Sonoil suo “pensiero manuale”. Arrivano do-ve le parole non sono più sufficienti, per

scavalcare il gap tra la cultura tecnicadel professionista, comune a tutta lasua categoria, e la ricerca di un linguag-gio espressivo personale. «Disegnare èscoprire», scrive John Berger che allateoria del disegno ha dedicato un librolieve e profondo, «e ogni segno è la pie-tra di un guado, finché non si è attraver-sato il proprio soggetto come fosse unfiume». Sull’altra sponda comincerà ilprogetto vero e proprio. Sulla prima in-vece restano come relitti di un bivacco,disordinate e in fondo mute alla com-prensione, accessibili solo alla contem-plazione, le tracce di una sfida tutta in-tellettuale, che per il critico d’arte JamesElkins è la stessa per tutti gli artisti, ed èla sfida a quello «spazio ipnotizzante diforme potenziali che chiamiamo sem-plicemente “foglio di carta bianco”».

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MICHELE SMARGIASSI

LA STANZACOLORATATratto distintivodello stileecletticodi AlessandroMendini(a sinistra)è l’usodel colore:gli schizzi,di un museocome di unappendiabiti,impieganoforme arditecombinatein modosorprendenteA destra,uno schizzodi C. ErrolBarron:da oltreventicinque anninei suoi disegni(paesaggi,edifici, persone,oggetti) annotaosservazioni,idee e fattidella vitaquotidiana

IL CENTRO COMMERCIALEGrande attenzione ai particolarinegli schizzi dello studio Hawkins/Brown per il progetto del centrocommerciale Sevenstone a Sheffieldqui sopra

LA CITTÀNella pagina accanto, lo schizzodi Narinder Sagoo immaginauna città nel ventre di una muccaQui sotto, un disegno degli architettidello studio 3deluxe

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 6MARZO 2011

Matita, biro, pennarello e stilograficanegli sketchbooks gli attrezzi del mestiere

AMBRA SOMASCHINI

Di solito usano tecniche digitali sofisticate come ilCad, il computer-aided design. Ma nessuna archi-star ha mai abbandonato lo sketchbook: il qua-

derno, il taccuino, il blocchetto. Su quei fogli si imprimel’immaginazione, si attacca come una colla la primaemozione e non si stacca più. Will Jones li ha voluti rac-cogliere negli anni, frammenti, pezzi di carta, sovrappo-sizioni e ha messo insieme un mosaico di disegni d’au-tore: Architects’ Sketchbooks(in libreria dal 10 marzo perIppocampo, 352 pagine, 29,90 euro, nella fotografia afianco).

Gli editori all’inizio preferivano le immagini create alcomputer: «Gli schizzi non fanno vendere». E Jones cita-va Matisse: «Disegnare non è un esercizio che richiedaparticolare abilità; piuttosto un mezzo per esprimeresentimenti e stati d’animo». Jones ha insistito e ha co-struito un mosaico di segni, una montagna di materialecolorato e naïf, linee sovrapposte, scarabocchi, ghirigo-ri, città costruite nel ventre di una mucca, palazzi realiz-zati dentro il collo di una giraffa, interni di appartamen-ti buttati giù come i quadrati e i cerchi dei bambini. Sen-za contorni, senza cornici, perfino senza prospettiva. Se-

gni schizzati con matite, penne biro, pennini a china,pennarelli, stilografiche a inchiostro e a cartucce oppu-re con colori lievi come acquerelli. Diari di bordo, vecchicalendari inutilizzati, pezzi di pagine, vocabolari visivi e,davanti a tutti quei francobolli destinati a diventare au-ditorium, grattacieli, centri commerciali, alberghi e mu-sei, gli editori hanno ceduto: delle grandi opere hannocontemplato i disegni iniziali. Hanno messo insieme ilcastello di carta dell’architettura contemporanea: glisketch di ottantacinque grandi architetti — da NormanFoster a Shigeru Ban ad Alessandro Mendini, passandoper i giovani talenti come Kristofer Kelly, Ben Addy eLuke Pearson — che spiegano come nasce la loro creati-vità, qual è il loro modo di comunicare. Abbozzare, rifa-re, costruire, spina dorsale dei progetti in divenire, ope-re d’arte in corso, istanti di ispirazione, evoluzioni versoil traguardo finale. Suggeriscono nello studio austriacoDmaa: «La libertà di immaginare è la pietra angolare diogni creazione». E Sean Godsell: «È qui che comincial’architettura, e uno schizzo cattura quel momento persempre».

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6MARZO 2011

Cento milionid’incasso e quattro premiOscar: mentre il film

di Tom Hooper sta ottenendo un successoplanetario, l’autore del libro da cui è trattoracconta i retroscena. Un logopedista

eccentrico, i suoi diari e migliaiadi documenti. Ecco la vera storia

dell’uomo che salvò Giorgio VI

SPETTACOLI

L’amiciziatra Giorgio VI,l’insicuro sovranod’Inghilterra, e LionelLogue, logopedistaaustraliano autodi-datta che lo aiutò a cu-

rare una balbuzie che stava gettandoun’ombra sulla sua intera esistenza, èuna delle relazioni più memorabili chesiano state portate sul grande schermoda molti anni a questa parte. Con incas-si al botteghino superiori ai cento milio-ni di dollari — e in costante aumento —Il discorso del redomenica scorsa alla ce-rimonia degli Oscar è stato premiatocon quattro Academy Award, tra i qualiquello di miglior film e miglior regista,assegnato a Tom Hooper.

Logue, così com’è impersonato nelfilm da Geoffrey Rush, è un personaggioanticonformista, con scarso rispetto perl’autorità. Sconvolge il monarca, inter-pretato in modo indimenticabile da Co-lin Firth (al suo terzo Oscar per la suaperformance in questa pellicola), chia-mandolo «Bertie», e insistendo per esse-re chiamato da lui semplicemente «Lio-nel». In una delle scene più divertenti delfilm, il logopedista arriva a incoraggiareil re a lasciarsi andare al turpiloquio, neltentativo di togliergli le sue inibizioni.Quanto è accurata, però, la ricostruzio-ne di questo personaggio, figlio di un lo-candiere, trasformato da oscuro perso-naggio storico in quello che nella pelli-cola appare come il salvatore della coro-na dei Windsor?

Il vero Lionel Logue, nato ad Adelaidenel 1880, emigrato in Gran Bretagna nel1924, in realtà fu molto più deferente erispettoso del personaggio interpretatoda Rush, come rivelano i suoi diari e lelettere scoperte dal nipote Mark Logue,utilizzate come fonte per un nuovo librodi prossima pubblicazione in Italia.Quando Logue scriveva al re, gli si rivol-geva chiamandolo «Sua Maestà», anchese quest’ultimo gli rispondeva dandoglidel «Mio caro Logue». È evidente, in ognicaso, che i due uomini non erano così in-timi da darsi del tu. Tuttavia, è indiscu-tibile che la loro fosse un’amiciziaprofonda: il dono di un libro da parte diLogue al paziente reale in occasione delsuo compleanno, ogni anno il 14 dicem-bre, era sempre ricambiato da un bi-glietto di ringraziamento. Il re mettevaLogue a conoscenza di alcuni frammen-ti dei suoi sogni («Logue, ho i nervi a fiordi pelle: mi sono svegliato all’una di not-te, dopo aver sognato di trovarmi in Par-lamento con la bocca aperta, senza riu-scire a dire parola») e della sua sensazio-ne di inadeguatezza dopo una visita allabombardata Coventry nel novembre1940 («Che cosa avrei potuto dire a queipoveri esseri umani che hanno perdutoogni cosa?»).

Per fortuna, Logue prendeva ossessi-vamente nota di ogni evento della suavita, a cominciare dalle sue recensionisui quotidiani locali quando all’iniziodel Novecento in Australia muoveva an-cora i primi passi da dilettante nel teatrofilodrammatico. Tra i documenti che halasciato vi è la scheda compilata dopoaver ricevuto per la prima volta il futuro

re nel suo studio in Harley Street, il cuo-re dell’establishment medico britanni-co, il 19 ottobre 1926. Da quanto risulta,il paziente reale risultava avere un bustoben sviluppato, una facoltà di respira-zione ottima, ma non aveva mai utiliz-zato il diaframma o la parte inferiore deipolmoni e aveva «un girovita molto flac-

cido». C’è poi una lettera che la mogliedel re, Elisabetta, meglio nota a noi oggicome regina madre (nel film interpreta-ta da Helena Bonham Carter) scrisse aLogue poco dopo la morte del marito,nel febbraio 1952: «In tutti questi anni leiè stato un valido sostegno per lui: mi di-ceva spesso quanto fosse in debito ver-

so di lei e che se non fosse stato per il suoaiuto l’eccellente risultato raggiuntonon avrebbe potuto essere mai conse-guito». Ancor più ricco di informazioniè il diario di Logue, che riporta parola perparola i colloqui avuti con la famigliareale, le osservazioni fatte senza esserenotato durante i festeggiamenti in tem-

po di guerra per il Natale nelle residenzereali di Windsor e Sandringham, rego-larmente rovinati per il re, che dovevainterrompere il pranzo (beh, c’era pursempre una guerra in corso) per fare undiscorso alla radio all’Impero britanni-co. Alla morte di Logue, nel 1953, l’ar-chivio capitò nelle mani del secondo dei

suoi tre figli, Valentine, illustre neuro-chirurgo che lo mise in una cassetta di si-curezza in banca a Knightsbridge, doverimase per parecchi anni. Alla fine delNovecento, poi, arrivò al fratello più gio-vane di Valentine, Antony, e alla mortedi questi, nel 2001, al figlio di Antony,Mark. «Mio padre collezionava e archi-

PETER CONRADI

3

DiscorsodelRe”

Cosìho scritto“

Il

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 6MARZO 2011

viava di tutto e ci siamo trovati così tan-te cose da controllare che non ho avutooccasione di cimentarmi nella lettura diquesti diari se non nel 2007», dice Mark.

Se i successi di Lionel furono a primavista di scarso interesse per i suoi eredi,rappresentarono invece motivo dienorme fascino per lo scrittore DavidSeidler che per la sceneggiatura ha vin-to il quarto Oscar di questo film. Affettoegli stesso da balbuzie, Seidler — che hasettantatré anni — da piccolo era statoincoraggiato dai suoi genitori ad ascol-tare i discorsi del re trasmessi alla radio:se il monarca era riuscito a sconfiggere ilproprio ostacolo — gli avevano detto —avrebbe potuto riuscirci anche lui.

Dopo aver letto tutto ciò che poteva

sul re e Logue, Seidler decise di scrivereuna commedia su di loro: consapevoledell’esistenza dei diari riuscì a risalire aValentine all’inizio degli anni Ottanta.Valentine rispose che sarebbe stato feli-ce di consegnargli i diari, ma gli chiede-va la cortesia di controllare che la reginamadre desse il suo benestare. Da Cla-rence House, sua residenza ufficiale, laregina rispose: «Non finché sono viva. Ilricordo di quegli eventi è troppo doloro-so da rievocare».

Seidler, devoto monarchico, ha ri-spettato il desiderio della regina madre.Alla sua morte, avvenuta nel marzo2002, ha deciso di portare avanti il pro-prio progetto, anche se a quel punto idiari sembravano scomparsi. Poi, nel-

l’estate 2009, a meno di due mesi daquando Hooper avrebbe dovuto inizia-re a girare, Seidler è venuto a sapere del-l’esistenza di Mark Logue e dei docu-menti nella sua soffitta. Le correzioni alcopione sono state così apportate in tut-ta fretta.

Che cosa si è appurato, dunque, percerto dai diari? Tanto per cominciare es-si ci hanno offerto una delle gag più di-vertenti di Firth: quando fa il suo discor-so, allo scoppio della Seconda guerramondiale, il momento topico del film,inciampa nella lettera “w”, una letterache di norma non creava problemi al re.Quando Logue in seguito chiese al requale fosse stato il problema con quellalettera, il sovrano con un sorriso risposedi «aver balbettato di proposito», perché«altrimenti nessuno avrebbe potutocredere che a fare quel discorso ero ef-fettivamente io».

«La realtà è che Seidler aveva vera-mente poco in mano su mio nonno», hadetto Mark. «In ogni caso, Seidler è riu-scito a fare alcune astute deduzioni ed èandato dritto al cuore della vicenda: l’a-micizia tra due uomini. Se fosse riuscitoad avere accesso ai diari prima, forse ilfilm sarebbe risultato più accurato daun punto di vista storico, ma non neces-sariamente sarebbe stato migliore».

Traduzione di Anna Bissanti Mark Logue e Peter Conradi sono gli

autori di The King’s Speech: How OneMan Saved the British Monarchy

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FIDANZATIIl duca di York, futuroGiorgio VI nel ’23 con lafidanzata ElisabettaNel film sono interpretatida Colin Firth e HelenaBonham Carter

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INCORONAZIONERe Giorgio VI al microfonodi Backingham Palacenel ’37 il giornodell’incoronazioneLa stessa scenainterpretata da Colin Firth

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THE SPEECHUno dei primi discorsialla nazione che Giorgio VItenne in pubblico nel ’37nella foto originalee nell’interpretazionedel film di Tom Hooper

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GLI ESERCIZIIl logopedista Lionel Logue (nel film è Geoffrey Rush)nel suo studio di HarleyStreet .Nell’altra paginain alto, i suoi appunti dopoil primo incontro con il re nel ’26

LA CERIMONIAL’incoronazionedi Giorgio VI:Lionel Loguee la moglie sonosul balconeproprio soprala famiglia reale;a destra dopola morte del rela stampa ricordal’importanzadel lavorodi Logue

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le tendenzeUssari & marinai

Sorpresa: tessuti luminosi, spalle destrutturate, reversampi, maniche più corte, niente fodera. Così la giaccaabbandona le sue rigidità per entrare nella “fase B”della sua storia.E senza formalità accetta matrimoniuna volta impossibili con T-shirt, bermuda e camiciecasual. La rivoluzione è cominciata, in passerella

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stato, per anni, la divisa irrinunciabi-le degli uomini più formali. I maestridell’eleganza ne hanno lungamenteconservato uno, perfettamente stira-to, nell’armadio. E, per mogli e fidan-zate, era il capo-simbolo di un com-

pagno solido. Dell’uomo da sposare. Tanto che, coltempo, è diventato un modo di dire. «Essere un uo-mo in doppiopetto», in ogni parte del mondo, erasinonimo di prestigio e risolutezza. Ma, oggi, le co-se stanno in tutt’altro modo. Ritornato prepoten-temente in passerella, nella primavera del 2011, ildoppiopetto ha subito una sorta di mutazione ge-netica. Si è addolcito. È diventato quasi un ossimo-ro: il doppiopetto morbido. L’emblema della sar-toria più pura ha stravolto i suoi principi fonda-mentali. Le nuove regole, una volta archiviate letradizionali rigidità di ago e filo, prevedono giacchesfoderate, leggere, spesso lunghe quasi come so-

prabiti. Anche gli abbinamenti non sono più quel-li di una volta: va bene il matrimonio con i pantalo-ni corti, con le scarpe informali di corda e perfinocon le magliette girocollo. Nei casi più audaci lagiacca, perfettamente tagliata, si accoppia con irri-verenti pantaloni da pescatore e con calzini dai co-lori fluo.

Molti di quelli che oggi sembrano scoprire ildoppiopetto per la prima volta ignorano la sua lun-ga e prestigiosa storia. Erede della divisa ussara delDiciassettesimo secolo, il doppiopetto è diventatoil capo cult dopo la Grande depressione america-na del ’29. La double-breasted suit era adottata daipiù potenti uomini d’affari. Un capo trasversaleche, in quegli anni, poteva comparire indifferente-mente nei guardaroba dei businessman dai patri-moni milionari come in quelli dei più pericolosigangster. La giacca doppiopetto originale aveva seibottoni, ma solo tre per chiudere. Un vezzo che na-sceva dal modello della guardia della marina nava-le che così poteva essere slacciata più velocemen-te. Lo hanno indossato uomini simbolo dell’ele-ganza come Cary Grant e Gianni Agnelli. E oggi,nella versione 2011, torna in auge tra i divi del cali-bro di Jude Law e David Beckam che ne stravolgo-no le regole. E, complice l’arrivo della bella stagio-ne, indossano il doppiopetto senza calze, in coloriluminosi, persino con tessuti stropicciati ad hoc.

Ma veniamo ai dettagli. Le maniche si accorcia-no lasciando scoperto il polsino della camicia. Lespalle si smontano fino quasi a scomparire o si ap-puntiscono fino a diventare sculture. La rivoluzio-ne sta anche nel modo di essere indossato. La sa-crale regola, che prevedeva che il doppiopetto fos-se perfettamente abbottonato anche a quarantagradi, sembra non esistere più. In passerella si ve-dono svolazzare giacche aperte. E, tra i revers, fan-no capolino T-shirt audaci e camicie casual indos-sate senza cravatta. Altro che serie grisaglie e collirigidi, gli uomini che aspettavano il ritorno dellagiacca a quattro, o sei, bottoni dovranno arrender-si all’evidenza: è classica, ma non troppo.

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Il nuovodoppiopetto

IRENE MARIA SCALISE

Mutazione geneticadi un classico

SAILORMANDisinvolto e snob,l’uomoche “spezza”il doppiopettocon il pantalonesportivo arrotolatoalla cavigliaSembra appenasbarcato. Siviglia

OVERSIZETessuto lucido,stropicciato e grigio,doppiopettooversize e pantalonileggeri: Zegnatrasformacosì il completotradizionalemaschile

CONCRETOConcreto,pragmatico,viaggiatore: l’uomodi Hugo Bosssceglieil doppiopettonuova manierasenza piegarsia stravaganze

TRASGRESSIVOStile college: eccoil completo a righinebianche e bludi Tommy HilfigerAbolito qualsiasiformalismo,la giaccadoppiopettosposa il bermuda

INFORMALEOsa il doppiopettoslacciato l’uomodi Bottega VenetaEcco un lookassolutamenteinformale,nonostanteil pantalonedal taglio classico

MODERNONon tradisceil suo antico spiritola griffe Brioniche doposessantacinque annicontinua a vestirel’uomo che restaal passocon i tempi

RIGOROSONero, con seibottoni in metallo:è il rigorosodoppiopettoGiorgio ArmaniSi accoppiacon pantalonislim e mocassinisenza calze È

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 6MARZO 2011

“Dall’ufficio alla serata di galaun passe-partout dell’eleganza”

L’intervista /Elisabetta Canali

SIMONE MARCHETTI

La storiadi Canali è uno dei tanti esempi brillanti del made in Italy, un piccolo impero deditoall’eleganza maschile nato in Brianza nel 1934 e cresciuto per le vie del lusso mondiali. Nel-le ultime stagioni, a sorpresa, l’azienda si è data un nuovo obiettivo. Puntare sullo “stilismo

sartoriale”, ovvero sulla sintesi tra due mondi che sembrano inconciliabili: l’abbigliamento clas-sico e quello più modaiolo. Elisabetta Canali, responsabile della comunicazione, spiega il perché.«C’è una tendenza generale nel formale maschile che sta abbracciando nuove espressioni e nuo-va creatività. È un processo naturale per chi come noi non vuole prescindere dalla qualità, si trat-ta di unire i valori sartoriali di un tempo alle nuove esigenze. Il ritorno del doppiopetto non è un ri-pescaggio, ma fa parte di un ripensamento delle forme classiche».

Quali sono le caratteristiche del nuovo doppiopetto?«Rispetto al modello tradizionale, quello che proponiamo oggi è più asciugato: ha revers e un’a-

pertura meno ampi, i sei bottoni sono rialzati e la sua forma è più aderente. In un certo senso, haperso l’aria istituzionale per abbracciare un look più rilassato. Senza mancare d’eleganza».

I tessuti prima erano pochi, oggi invece sono tantissimi...«È vero. Per la collezione primavera 2011, per esempio, abbiamo usato mischie di lana e seta con

cotone o con lino. Per la stagione fredda, invece, siamo andati oltre: in passerella abbiamo propo-sto velluti in colori tenui. Il mercato ha reagito benissimo: il successo di questi pezzi è stata una ve-ra sorpresa. A nostro parere, si tratta della mutazione del costume maschile: il doppiopetto oggi èvisto come un passe-partout del guardaroba. Un capo da indossare a 360 gradi».

Quali sono i nuovi abbinamenti?«Le occasioni variano dall’ufficio al tempo libero fino alla serate eleganti. D’estate la polo e i pan-

taloni di cotone sono un must. D’inverno, si può osare il dolcevita. In passerella, poi, l’abbiamoproposto con pantaloni un po’ corti sulla caviglia, con tanto di calze colorate. È la nuova eleganzadandy, tendenza in cui i gentlemen inglesi sono maestri. Uno dei nostri look preferiti, però, è il dop-piopetto gessato indossato con una camicia bianca e con jeans scuri a cinque tasche».

E i bottoni? «Per l’estate, si possono osare bottoni colorati chiari o in tinta col tessuto, ma sempre in mate-

riali naturali, come il corno. D’inverno, invece, solo tono su tono oppure ricoperti di seta, come neinostri modelli da sera. Quelli dorati, invece, restano un’esclusiva del blazer blu».

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BON TONEffetto sartoriale,bottoni doratie taglio anni OttantaL’uomo Dsquared2punta su dettaglibon ton e sul lookda American Gigolòreso celebre dal filmcon Richard Gere

IMPECCABILEFascinosocome MarcelloMastroianni(a cui la colleziones’ispira) ed eleganzaimpeccabileper l’uomoin doppiopettodi Canali

CHICNei toni del biancoe del beige,la collezione uomodi Ferragamoper la primaveraAtmosfere da Suddella FranciaDoppiopettochic, ma fluido

GIOVANEGiovane, smilza,dal tessutobrillante, la giaccaa due bottoniha la manicache lasciascoperto il polsinodella camiciaVersace

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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6MARZO 2011

Il non-formaggio piùbuono del mondo. Il piùfacile, digeribile, leggia-dro, perfino sensuale, seil casaro ci mette il lattegiusto e la cura adeguata.

Eppure, da duemila anni in qua— le fuscelle arrivavano rego-larmente già sulle tavole dei Ro-mani — incapace di guadagnar-si un solo modo di dire virato inpositivo. Chi non si allena di-venta «molle come una ricotta»,chi arriva pallido in spiaggia è«bianco come una ricotta», unastretta di mano poco robusta in-dica «mani di ricotta». Così po-vera e modesta, la ricotta, da tro-vare pochissimo spazio comealimento tout court, quasi lostatus di cibo di risulta non leconsentisse altro ruolo chequello di Cenerentola dei latti-cini. Perché se anche il più umi-le dei formaggi nasce dal latte, laricotta si accontenta del suo sot-toprodotto.

Funziona così: il latte addi-zionato di caglio e scaldato sitrasforma in un composto più omeno compatto, da rompereper farne uscire il siero, primopasso della lavorazione del for-maggio. È proprio la sgrondatu-ra della cagliata, scaldata unaseconda volta, a dare origine al-la ri-cotta. Non una, ma cento ti-pologie diverse, figlie di materieprime, tecniche e sistemi diconservazione anche moltolontani tra loro, a partire dal lat-te d’origine. Mucca, capra, bu-fala e pecora, infatti, regalanosapori nettamente diversi: lat-teo, nel vero senso della parola,la prima, acidulo la seconda, sa-pido la terza, aromatica la quar-ta, mentre la percentuale digrassi presente nel latte — dascremato a intero — incide sucremosità e calorie.

Sfiziosi e originali anche tem-pi e modi della ricottura, se è ve-ro che a Mammola, Reggio Cala-bria, per esempio, il siero va me-scolato con un rametto di fico,mentre in Puglia e Sicilia si ag-giungono erbe e spezie (pepe epeperoncino in primis) per ren-derla forte. A chiudere, un’altramanciata di possibilità: salatu-ra, affumicatura, maturazioneprolungata, stagionatura nelfieno o in foglie. Scelte che alte-rano più o meno felicementegusto e consistenza, conse-gnando la ricotta a un’infinitavarietà di ricette. Così nasconopiatti imprescindibili come itortelli di magro farciti di ricottaed erbette, gli gnocchi con lezucchine, la pizza bianca (intandem con la salsiccia), il ven-taglio variegato delle torte, dol-ci e salate, le creme al cucchiaio.Ricette cui la ricotta regala fi-nezza e suadenza senza cedevo-lezze grassose, a patto di privile-giare le piccole produzioni arti-gianali. Quelle super standar-dizzate, al contrario, pencolanotra acquosità e cedevolezza ruf-fiana, ugualmente afflitte da ungusto vago e impersonale.

Succede quando, per coprirel’impoverimento del latte ditroppi allevamenti, si aggiungedella panna (come in certi yo-gurt), costruendo una tipologiadi ricotta pompata e truffaldina.Per questo, prima dell’utilizzocome ingrediente, è importantel’assaggio in purezza. Una voltapassato l’esame, montate untuorlo con poco zucchero, in-corporate la ricotta, rifinite conun cucchiaino di miele di cor-bezzolo, spalmate su una fettadi pane rustico e addentate sen-za remore. Obbligatorio leccar-si baffi (se presenti) e dita.

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LICIA GRANELLO

itinerari

i saporiDolci e salati

DOVE DORMIRE

LA CASA DELL’APELocalità Piantà 21Tel. 0121-932397Doppia 60 eurocon colazione

DOVE MANGIARE

L’ALPINAVia Maestra 27Tel. 0121-957747Chiuso martedìmenù 20 euro

DOVE COMPRARE

LATTERIA SOCIALEALTA VAL PELLICEStrada Maestra 9Tel. 0121-957766

Torre Pellice(Torino)

DOVE DORMIRE

HOTEL TORREBARBARACorso Caulino 6Tel. 081-8028015Doppia 75 eurocon colazione

DOVE MANGIARE

LA TORRE DELSARACINOVia Torretta 9Tel. 081-8028555Chiuso domenica serae lunedìmenù da 60 euro

DOVE COMPRARE

CASEIFICIODE GENNAROVia Bosco 956,PacognanoTel. 081-8028936

Vico Equense(Napoli)

DOVE DORMIRE

VILLA ROSA ANTICOStrada Statale 16Tel. 0836-801563Doppia 70 eurocon colazione

DOVE MANGIARE

MASSERIAGATTAMORAVia Campo Sportivo33 Località Uggianola ChiesaTel. 0836-817936Chiuso lunedì,menù 25 euro

DOVE COMPRARE

MASSERIAAUTIGNEStrada Provinciale 87Tel. 0836-801239

Otranto(Lecce)

Affumicata, stagionata, di mucca, di pecora, di capra: ne esistonocento tipologie diverse. Ma più che come alimento in sé è presentein un’infinita varietà di ricette a cui regala la sua delicatezza francescanaA patto però di scegliere le produzioni artigianali

Il formaggiosenzaformaggio

RicottaRepubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 6MARZO 2011

Premiato caseificio “Grotta di Polifemo”MARINO NIOLA

Dai Ciclopi a Iside, con la partecipazione straordinaria disan Francesco. È decisamente mitica l’origine della ricot-ta. Una leccornia così alla portata di tutti che perfino un

energumeno come Polifemo riusciva a produrne di buonissima.Tanto da indurre in tentazione Ulisse e i compagni che fanno unadeviazione apposta per assaggiarla. Con le conseguenze ben no-te. In realtà è proprio il nono libro dell’Odissea a fare dell’antrodel figlio di Nettuno il primo caseificio della storia, con tanto diaffinamento in grotta. Descrivendo i vasi traboccanti di siero e icestini di vimini colmi dello squisito latticino. Proprio comequelli raffigurati su uno sfondo azzurro cielo a Pompei nel mae-stoso tempio di Iside, la generosa dea della nutrizione. La gran-de madre del latte.

E se il ruspante Polifemo fa della ricotta un mito, il normalizza-tore Catone la trasforma in un dop. Il celebre Marco Porzio sten-de di fatto il primo disciplinare lattiero caseario dell’Occidente.Seguito a ruota dall’immancabile Columella che in fatto di agroa-limentare è il più classico dei classici.

Se nel Mediterraneo antico la ricotta è di casa, durante il lungoautunno del medioevo sembra scomparire. Almeno così raccon-tano altri miti, questa volta cristiani. Come quello che attribuiscea san Francesco il merito di averla reintrodotta insegnando ai pa-stori laziali a produrre quello che è ancora oggi il fiore all’occhiel-lo della gastronomia della regione. Vera o falsa la leggenda è benpensata. Perché trasforma il poverello di Assisi in un testimonial

d’eccezione per il più poverello fra i derivati del latte. Simbolo dipovertà, mai disgiunta però dal candore della grazia, l’umile lat-ticino diventa vangelo nelle mani di Pasolini che in quel piccolocapolavoro che è La ricotta ne fa la parabola dell’egoismo dei ric-chi. Facendo cortocircuitare nella figura del protagonista Stracci— condannato al ruolo di comparsa a Cinecittà come nella vitareale — la passione di Cristo e quella del povero cristo.

Sempre associata alla leggerezza e alla bontà, al sapore e all’a-more. L’arte trasforma le proprietà organolettiche della ricotta inqualità del carattere, facendone l’emblema di una bellezza senzatrucchi, di una genuinità d’animo e di aspetto. Come nella fiabadei tre cedri di Giambattista Basile in cui il principe, che non hamai conosciuto l’amore, si mette in cammino per trovare unadonna candida come la ricotta e rossa come una fragola.

Non a caso la gastronomia questo gioco di colori lo ha sempreprediletto. Mescolando il bianco della ricotta al rubino delle ci-liege, allo smeraldo del cedro candito, al profondo rosso del po-modoro, al total black del cacao, all’opale dell’uvetta di Smirne,al biondo oro del grano e dell’arancio.

Così nascono capolavori come cassata alla siciliana e cannel-loni alla sorrentina, torta ricotta e pere amalfitana e tortelli alle er-bette emiliani. Fino alla pastiera napoletana che sa di primavera.La ricotta insomma è l’irrinunciabile sfondo bianco su cui sven-tola il tricolore da mangiare.

Tortelli di magroParmigiano, erbette e uovasupportano la ricotta nella farcituradelle paste fresche di tradizionevegetariana, così comenei cannelloni e sulla pizza

CassataRicotta setacciata e mischiata con zucchero, cannella, cioccolato, canditi e scorza di limone nel ripieno del dolcedella Pasqua in Sicilia

PastieraCelebra la primavera napoletana,il dolce di pasta frolla farcitocon una crema di ricottae grano cotto, profumatacon acqua di fiori d’arancio

CannoliImbottitura delicata e golosaper i dolci dal guscio croccante:freschissima ricotta di pecoramescolata con zucchero,cannella, cioccolato

Fiori di zuccaGratinati al forno o pastellatie fritti, la ricotta è la basedella farcitura, di volta in voltacon pezzetti di acciughe,salsiccia, speck, formaggio

Mescolare a freddoImpanare in uovo e pangrattatoFriggere in extravergineServire a scelta con qualche cristallodi sale o con una ciotolina di miele

Ingredienti per 4 persone

300 gr ricotta scolatae lasciata riposare un giorno in frigo1 cucchiaino di curcuma1 cucchiaino di semi di finocchio

LA R

ICETT

A Frittelle profumateSolo ricotta di giornatadi piccoli produttori localiper la famiglia Iaccarino, titolaredel “Don Alfonso”, appena inseritodal New York Times

tra i “dieci locali al mondo per cui merita scenderedalla nave da crociera”

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RomanaRicotta codificata da Marco Porzio CatoneOttenuta da siero di latteinterodi pecora, nell’elencodelle Dop dal maggio 2005

AffumicataDue versioni: fresca e vellutata (come quelladi Mammola, Calabria),asciutta e salata. Entrambearomatizzate coi legni

ForteÈ di matrice pugliese,la ricotta di latti misti,fermentata settimanenella terracotta finoa diventare compatta

Seirass del fènDal latino seracium, fattocol siero: la ricotta della ValPellice, è addizionatacon poco latte, pressata,salata, stagionata nel fieno

InfornataPellicola bruno-rossastra e sapore di frutta seccaper la ricotta lavoratacol siero di latti misti e asciugata in forno

‘‘Andrea CamilleriSi calò a sciaurarei cannoli: erano

freschissimi. Allurasi versò tanticchia

di passitonel bicchiere affirò

un cannoloe principiò a sbafarselo

da Il campo del vasaio

Repubblica Nazionale

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l’incontroCampioni

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Mi è spesso capitatodi arrivare alla finedella partita senzasapere esattamenteil risultatoNon ha importanzail punteggio,l’importante è daresempre il massimo

con fatica e resistenza. «L’altro giornoaiutavo mio figlio a fare i compiti. Nelsuo libro c’era scritto: Cristoforo Co-lombo scopre l’America nel 1492. Anco-ra oggi si cerca di tacere che quello eraun continente abitato da un altro popo-lo».

Alla prima stretta di mano fa subitouna richiesta. «Parliamo in italiano?Preferisco, ho paura di dimenticarlo».L’accento è lieve, il ricordo dei dieci an-ni passati nel nostro Paese ancora fre-sco. Per il ragazzo nato nelle Antille ecresciuto nella banlieue di Parigi, il no-stro Paese è stata una seconda patria.«Viva l’Italia, lo dico sempre. Ripensospesso alla prima volta che sono arriva-to a Parma, nel 1995. Ho scoperto unapiccola città ferma nel tempo. Sono an-dato in bicicletta fino in piazza Duomo,mi sembrava di essere finito in un mu-seo a cielo aperto». Thuram si abituapresto ai piacere della provincia, vieneadottato dalla città. «Dopo le partite erol’ultimo ad andare via, mi fermavo aparlare con i tifosi. A Parma ho vissuto ilmio miglior periodo calcistico, avevoventiquattro anni, ero nel pieno dellamia carriera». Andarsene non è stato fa-cile. «All’inizio non volevo neanche ri-manere in Italia per non tradire la squa-dra». Ma il Parma ha ricevuto dalla Juveuna proposta che non si può rifiutare.

«A Torino ho scoperto un’altra filoso-fia sportiva. Dentro allo spogliatoio,nessuno diceva “oggi dobbiamo vince-re”. Era ovvio, un dovere scritto nelle re-gole. C’era un gran rispetto del lavoro ditutti, nessuno poteva permettersi di fa-re la primadonna. L’avvocato Agnelliveniva ogni tanto a salutarci e allora sifermavano gli allenamenti. Un segno distima che oggi forse non esiste più». Nel2006 la partenza da Torino viene un at-timo dopo lo scandalo di Calciopoli.Thuram non ha mai voluto commenta-re le accuse ai dirigenti della Juve. «Perme le regole vanno rispettate in campoe fuori. La giustizia è l’unica che puòpronunciarsi».

È allora che si conclude la stagioned’oro nei Bleus. Campione del mondonel 1998, campione d’Europa nel 2000,fino all’amara finale mondiale del 2006contro l’Italia. Il famoso coup de bouledi Zinedine Zidane. «Rispettare e nonprovocare gli avversari dovrebbe esse-re la regola numero uno per un calcia-tore», commenta a proposito di Mate-razzi. «Ma Zidane non doveva reagire inquel modo sul campo, è sbagliato e luilo sa».

Thuram, libero di parlare, fuori daglischemi. Un calciatore comunque di-verso. «Mi è spesso capitato di arrivarealla fine della partita senza sapere esat-

tamente il risultato. Non davo impor-tanza al punteggio e gli altri giocatori miguardavano come se fossi pazzo. Altrevolte, l’allenatore mi chiedeva di mar-care un giocatore di cui non conoscevoil nome. “Come, non lo sai?” diceva stu-pito. Se giochi contro uno o l’altro perme non conta niente, l’importante è da-re sempre il massimo».

Tre anni fa, mentre sta trattando perandare dal Barcellona al Paris Saint-Germain, i medici gli diagnosticano unproblema al cuore. Sembra la malattiagenetica di sua madre e suo fratello,morto mentre giocava a basket. Per for-tuna, invece, non è la stessa patologia.«Ma non valeva la pena correre un ri-schio, anche piccolo, e far vivere nel-l’ansia la mia famiglia a ogni allena-mento o partita». Thuram si congeda atrentasei anni e fa in fretta a passare adaltro. «Non guardo quasi mai le partite.Qualche volta controllo la classifica del-le squadre in cui ho giocato, Monaco,Parma, Juventus. Per il Barcellona è fa-

cile, sono sempre primi». Da qualchesettimana ha anche abbandonato ilconsiglio direttivo della Federazionenazionale, ancora in crisi per la figurac-cia in Sudafrica e la contestazione aRaymond Domenech, il suo allenatore.«Non m’interessa tutto ciò che ruota in-torno al calcio. A me piace giocare, nelsenso di divertirsi, provare a dare il mas-simo superando i propri limiti». I suoi fi-gli, Khéphren e Marcus, vorrebbero fa-re i calciatori come lui. «Giocano da at-taccanti come tutti i bambini. Anche ame piaceva fare l’attaccante ma nonavevo i piedi e mi hanno messo in dife-sa. Alla fine è stato meglio così».

L’impegno sociale come una secon-da pelle. Da piccolo sognava di farsi pre-te, ha preso altre strade ma con la stessavoglia di cambiare il mondo. «Quandoero alla Juve, Fabio Capello mi ripeteva:“Smettila con le tue storie politiche”.Non gli rispondevo, ma ho sempre pen-sato che abbandonare le cause in cuicredo significherebbe rinunciare a mestesso». È stato l’unico sportivo a ri-spondere a Sarkozy che definiva racail-le, feccia, i ragazzi delle banlieue. «Conquello che guadagna — commentò l’al-lora ministro dell’Interno — Thuramnon può farsi portavoce delle periferie».«Dopo ci siamo incontrati. Mi ha detto,testuale, che i problemi della banlieuesono causati dai neri e dagli arabi. Io gliho fatto notare invece che è un proble-ma di delinquenza che bisogna affron-tare senza alcuna generalizzazione sulcolore della pelle». Diventato presiden-te, Sarkozy gli ha offerto un posto da mi-nistro della Diversità. Ha ottenuto ungarbato rifiuto. «Fare politica non signi-fica avere il potere o stare dentro a unpartito». Sulla nuova sfida all’Eliseo,l’anno prossimo, non si sbilancia. «Disicuro Sarkozy non è cambiato. Conti-nua nella sua logica di dividere il Paeseper imperare. Ha fatto così con il dibat-tito sull’identità nazionale o con leespulsioni dei rom. Il presidente è sem-pre alla ricerca di un capro espiatorio,semplicemente perché non è in gradodi affrontare e risolvere i problemi di in-giustizia sociale».

È nel 1981, arrivando dalle Antille in-sieme alla mamma Marianna e agli altridue fratelli, che il piccolo Lilian scopreil razzismo. Nelle città satellite doveabita, a Bois-Colombes poi ad Avon, vi-cino Parigi, i compagni di scuola lo chia-mano Noiraude, il nome di una muccadei cartoni animati che fa sempre laparte della stupida. Una volta, in unapartita contro il Milan, sente i tifosi can-tare «Ibrahim Ba mangia banane sottocasa di Weah». Nel dopopartita, il di-fensore del Parma critica l’insulto razzi-

sta. La domenica successiva i tifosi ri-spondono con uno striscione «Thuramrispettaci!». «Il mondo all’incontrario.Invece di riflettere su quello che avevodetto, si erano sentiti loro offesi». Nes-suna sorpresa, dunque, per Mario Balo-telli e la canzone «non esistono negriitaliani». «Sono a favore delle sanzionicontro le curve che diffondono questotipo di cori o insulti. Ma non dimenti-chiamoci che i pregiudizi non si trova-no solo negli stadi, vengono veicolatidalla scuola, dalla famiglia, dalla reli-gione. Ci sono anche pregiudizi positi-vi altrettanto assurdi. Per esempio,molte persone sono convinte che unnero sia più forte fisicamente».

La prima cosa, ripete, è riconoscere ladiscriminazione in quanto tale. «Mipreoccupa la pericolosa banalizzazio-ne del razzismo di questi ultimi anni».Thuram cita il caso del profumiereJean-Paul Guerlain che in televisionedice in assoluta tranquillità che «i negri»non hanno mai lavorato in vita loro.«Certo — aggiunge lui — nella mia iso-la, la Guadalupa, per quattrocento annigli schiavi hanno fatto la fortuna del-l’Europa». Oppure il ministro BriceHortefeux: «Un arabo va bene, se ce nesono troppi iniziano i problemi». Piùche le singole frasi, lo colpisce il conte-sto. «Ogni volta, ci sono sempre menoproteste. Lentamente ci si abitua». Lacrisi, anzi, ha riacceso l’intolleranza. «Eallora sono i più poveri a essere discri-minati, com’è sempre accaduto nellastoria. Qualche anno fa in Francia veni-vano ridicolizzati gli italiani immigrati,chiamati ritals, anche se avevano lostesso colore di pelle». Le linee di gesso,a volte, sono dentro di noi.

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ANAIS GINORI

PARIGI

«Ho semprepensato chela vita non sifermasse do-

ve finiscono le linee di gesso sul cam-po». Nel terzo tempo, Lilian Thuram in-segue trofei immateriali, sogni che sichiamano giustizia, rispetto, tolleran-za. Uno dei difensori più pagati al mon-do, recordman dei Bleus, centoquaran-tadue partite giocate in nazionale, il ne-ro della Francia black-blanc-beur chenon piaceva a Jean-Marie Le Pen, ora la-vora a tempo pieno negli uffici della suafondazione contro il razzismo, viaggiacome ambasciatore dell’Unicef ad Hai-ti, ha finito di scrivere Mes Etoiles Noiresinsieme allo storico Bernard Fillaire.«Mi è venuta voglia di fare questo libro— racconta — dopo aver scoperto in unsondaggio che l’ottanta per cento deifrancesi ha sentito parlare dei neri solostudiando il periodo dello schiavismo».

Le stelle da seguire invece sono qua-rantacinque uomini e donne che han-no cambiato la storia. Malcom X, Nel-son Mandela, Billie Holiday, Aimé Cé-saire fino a Barack Obama, ma anche ilmeno famoso Joseph Anténor Firmin,antropologo che alla fine dell’Ottocen-to cercò invano di opporsi alla teoriadella supremazia della cosiddetta razzabianca. «Nessuno nasce razzista, è unatteggiamento culturale. I tifosi checantano cori contro Balotelli non sonostupidi, hanno semplicemente eredita-to un inconscio collettivo che si tra-manda di generazione in generazione».Il traguardo si raggiunge a piccoli passi,

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Ha detto addio al calcio tre anni faper un problema di cuoreAdesso può fare a tempo pieno quelloche sognava da ragazzino: cambiare

il mondo. AmbasciatoreUnicef, scrittoreimpegnato, il difensoredella Juventus e dei Bleuscresciuto nelle banlieue,ora difende i dirittidei più deboli:

“Ho sempre pensato che la vitanon si ferma dove finisconole linee di gesso sul campo”

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46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6MARZO 2011

Lilian Thuram

Repubblica Nazionale