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H u ha sei anni, fa la prima elementare in una bel- la scuola pubblica in un bel quartiere del cen- tro, è nato a Roma. I suoi genitori, che nel loro ristorante stanno in cucina e non servono ai ta- voli, non parlano italiano. Hu tifa Totti, va a scuola in maglia giallorossa e quando si arrab- bia dice «vamorìammazzato». Al primo incontro organizzato fra genitori e insegnanti, a scuola, è arrivato anche lui. Interprete. Tutto il tempo a bi- sbigliare nell’orecchio alla mamma. Il direttore didattico si è intenerito, lo ha avvicinato: lo fai sempre? Sempre. Ora che la mamma aspetta un bambino l’accompagna anche dalla ginecologa. Data dell’ultima mestruazione, signora? lui tra- duce. Magari con un giro di parole, magari quel vocabolo esatto in cinese non lo sa. Forse sì, invece: lo sa. I piccoli mae- stri non hanno l’età dell’anagrafe, hanno quella che serve per vivere. La lingua, prima di tutto. Tutto quel che è nuovo arriva pri- ma ai bambini e passa da loro. È da loro che i genitori impa- rano, quando hanno il tempo di ascoltarli, i nomi dei capi dei Gormiti, i più recenti eroi dei loro nuovi giochi: non perdere Sommo luminescente, mi raccomando, se lo scambi deve essere almeno con Mistica falena. (segue nelle pagine successive) I l telefono di casa si è ringiovanito di colpo. Un auten- tico lifting tecnologico ha cancellato miracolosamen- te quell’aspetto vecchio, pesante e tristanzuolo, da og- getto fatto solo per parlare e ascoltare. Roba ormai an- tidiluviana al confronto delle performance stellari di cui è capace il più economico dei telefonini. E allora, proprio come un genitore che teme di essere superato dai fi- gli, l’apparecchio domestico si è rifatto. A immagine e somi- glianza del cellulare. La telefonia fissa di ultima generazione offre, infatti, prestazioni giovanilissime in audio e in video. Sms, mms, videochiamate, oltre a una memoria prodigiosa e a un’infinità di altre funzioni. Si tratta di una evoluzione tecnologica, certo, ma non solo di questo. Gli oggetti non si limitano mai ad essere dei sem- plici oggetti. Le cose sono anche delle rappresentazioni. La loro forma, la loro funzione riflettono sempre il carattere del- la società che le ha prodotte, i suoi sogni, i suoi desideri, le sue paure. Tutto materializzato in un semplice apparecchio te- lefonico. In questo senso la metamorfosi giovanilista del vec- chio impianto domestico non è solo una innovazione, ma un segno dei tempi. È un chiaro esempio di quell’inversione del- la trasmissione della cultura che rappresenta la grande no- vità della condizione postmoderna. (segue nelle pagine successive) cultura L’antica illusione di misurare l’infinito DANIELE DEL GIUDICE la lettura L’ultima guerra dei morti viventi MAX BROOKS il fatto Il fotografo degli orrori khmer FEDERICO RAMPINI l’incontro Jane Fonda: i due errori che non rifarei ALBERTO FLORES D’ARCAIS DOMENICA 28 OTTOBRE 2007 D omenica La di Repubblica ILLUSTRAZIONE DI ALTAN CONCITA DE GREGORIO MARINO NIOLA Le tecnologie, certo, ma anche la lingua, il look, gli stili di vita Questa generazione è la prima che inverte il senso della cultura: non più dai vecchi ai giovani ma dai giovani ai vecchi maestri Figli l’immagine Peggy Guggenheim, il libro degli ospiti EMANUELA AUDISIO la memoria Lee Miller, la donna dalle troppe vite NATALIA ASPESI Repubblica Nazionale

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Hu hasei anni, fa la prima elementare in una bel-la scuola pubblica in un bel quartiere del cen-tro, è nato a Roma. I suoi genitori, che nel lororistorante stanno in cucina e non servono ai ta-voli, non parlano italiano. Hu tifa Totti, va ascuola in maglia giallorossa e quando si arrab-

bia dice «vamorìammazzato». Al primo incontro organizzato fra genitori e insegnanti, a

scuola, è arrivato anche lui. Interprete. Tutto il tempo a bi-sbigliare nell’orecchio alla mamma. Il direttore didattico si èintenerito, lo ha avvicinato: lo fai sempre? Sempre. Ora chela mamma aspetta un bambino l’accompagna anche dallaginecologa. Data dell’ultima mestruazione, signora? lui tra-duce. Magari con un giro di parole, magari quel vocaboloesatto in cinese non lo sa. Forse sì, invece: lo sa. I piccoli mae-stri non hanno l’età dell’anagrafe, hanno quella che serve pervivere.

La lingua, prima di tutto. Tutto quel che è nuovo arriva pri-ma ai bambini e passa da loro. È da loro che i genitori impa-rano, quando hanno il tempo di ascoltarli, i nomi dei capi deiGormiti, i più recenti eroi dei loro nuovi giochi: non perdereSommo luminescente, mi raccomando, se lo scambi deveessere almeno con Mistica falena.

(segue nelle pagine successive)

Il telefono di casa si è ringiovanito di colpo. Un auten-tico lifting tecnologico ha cancellato miracolosamen-te quell’aspetto vecchio, pesante e tristanzuolo, da og-getto fatto solo per parlare e ascoltare. Roba ormai an-tidiluviana al confronto delle performance stellari dicui è capace il più economico dei telefonini. E allora,

proprio come un genitore che teme di essere superato dai fi-gli, l’apparecchio domestico si è rifatto. A immagine e somi-glianza del cellulare. La telefonia fissa di ultima generazioneoffre, infatti, prestazioni giovanilissime in audio e in video.Sms, mms, videochiamate, oltre a una memoria prodigiosae a un’infinità di altre funzioni.

Si tratta di una evoluzione tecnologica, certo, ma non solodi questo. Gli oggetti non si limitano mai ad essere dei sem-plici oggetti. Le cose sono anche delle rappresentazioni. Laloro forma, la loro funzione riflettono sempre il carattere del-la società che le ha prodotte, i suoi sogni, i suoi desideri, le suepaure. Tutto materializzato in un semplice apparecchio te-lefonico. In questo senso la metamorfosi giovanilista del vec-chio impianto domestico non è solo una innovazione, ma unsegno dei tempi. È un chiaro esempio di quell’inversione del-la trasmissione della cultura che rappresenta la grande no-vità della condizione postmoderna.

(segue nelle pagine successive)

cultura

L’antica illusione di misurare l’infinitoDANIELE DEL GIUDICE

la lettura

L’ultima guerra dei morti viventiMAX BROOKS

il fatto

Il fotografo degli orrori khmerFEDERICO RAMPINI

l’incontro

Jane Fonda: i due errori che non rifareiALBERTO FLORES D’ARCAIS

DOMENICA 28OTTOBRE 2007

DomenicaLa

di Repubblica

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CONCITA DE GREGORIO MARINO NIOLA

Le tecnologie, certo,ma anche la lingua,il look, gli stili di vitaQuesta generazioneè la prima che inverteil senso della cultura:non più dai vecchiai giovani madai giovani ai vecchi

maestriFigli

l’immagine

Peggy Guggenheim, il libro degli ospitiEMANUELA AUDISIO

la memoria

Lee Miller, la donna dalle troppe viteNATALIA ASPESI

Repubblica Nazionale

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32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28OTTOBRE 2007

(segue dalla copertina)

Si assiste a scene da film diNanni Moretti fuori da scuo-la: madri analiste informati-che e padri bancari che scio-rinano nomi inventati —Nobilmantis, Devilfenix —

come dicessero astuccio e righello, poisi guardano complici. Quanti più nomisai tanto più sei genitore attento: è unaprova, difatti esibita con orgoglio.

Se è nuovo il paese dove vivi sono i fi-gli che ti insegnano a parlare. È stato co-sì per gli italiani d’America, è così oggiper i cinesi e i peruviani d’Italia. Bastastare un’ora a una festa di compleannodi classe. Roger, come si dice moltissi-me grazie per questo bell’invito in ita-liano? Si dice solo grazie, mamma. E delresto siamo stati noi a insegnare ai no-stri nonni che non si diceva più «la bol-letta della Teti» perché era Sip, non Te-ti, il telefono. Siamo noi che diciamo«non ho più una lira» e ascoltiamo i ra-gazzi dire «sono senza un euro».

Paura di quittareSono stati i figli a sgomentarci con i

loro clicca, quitta. Quitta? Sì papà quit-ta, esci, chiudi il programma. L’ingleselo imparano così, come noi lo abbiamoimparato dai dischi dei Beatles e deiRolling Stones. I dischi, quei dischi tral’altro non esistono più: il vinile è dacollezione quando va bene, quando vamale da scatolone in cantina.

Le tecnologie, perciò. Il telefonosenza fili poi Internet poi il satellite poil’Ipod, le centraline in casa e sei teleco-mandi, ci sarebbe anche quello unicoche li raduna tutti ma se si rompe si re-sta al buio di telegiornali e di Simpson,meglio un passo indietro, meglio nonrischiare. I padri telefonano ai ragazzi

in gita scolastica: scusa se ti disturboma come si fa ad uscire da “my me-mory” che vorrei vedere il dibattito sulPrimo e qui si è impallato tutto? Non siè impallato, ovviamente, ci sono tre ta-sti da premere in sequenza e comun-que non si chiama «il Primo» da un se-colo, si dice RaiUno.

Settanta in chatC’è traccia di questo scambio di co-

noscenze già in Nel nome del figlio,scritto ormai più di dieci anni fa a quat-tro mani da Massimo Ammanniti, ce-lebre psicopatologo dell’età evolutiva,insieme con suo figlio Niccolò, oggipremio Strega e grandissimo espertodi videogiochi. Esperto, in una certa fa-se, ai limiti della dipendenza. Di video-games si può anche impazzire, comeormai persino la pubblicità avverte,ma poi è da certi videogiochi — quellipiù evoluti, più “colti” — che i ragazziimparano la storia antica, la geografia,i miti greci e le strategie di guerra giap-ponesi. Il sapere dei padri e il saperedei figli: la lentezza dell’apprendimen-to faticoso, quello delle biblioteche,dei tomi dell’esperienza, e la velocitàdella conoscenza istantanea, quellaeffimera ma immediatamente gratifi-cante del mouse.

Anna Simoni è una signora di set-tant’anni, ha imparato a chattare l’an-no scorso quando la figlia e il generosono stati due mesi in Brasile per adot-tare un bambino. «Mi ha insegnatomio figlio minore, non è difficile e laprima volta è stato uno spavento. Urla-vo e mio figlio mi diceva: mamma nondevi parlare, devi scrivere. Tanto an-che se urli non ti sente. Io però ho que-sto vizio, lo faccio anche al telefono:tanto più è lontana la persona con cuiparlo tanto più alzo la voce. Ai mieitempi per parlare con uno lontano sidoveva urlare, altro modo non c’era».

Ai miei tempi, ai nostri tempi. Ai nostritempi centomila canzoni stanno in unoggetto grande come un francobollo ela strada per arrivare più in fretta inmacchina te la dice il navigatore ma bi-sogna saperli usare, è ovvio: se no si ac-cende l’autoradio e le indicazioni sichiedono ai passanti.

È la prima generazione, la nostra,dove gli insegnanti hanno sedici anni egli allievi cinquanta. Nei corsi della cir-coscrizione (o si dirà municipio, ades-so? o di nuovo quartiere?) organizzatiper imparare a usare la Rete, nei work-shop avanzati delle aziende per ag-giornare i dipendenti. Ragazzini, i do-centi: studenti che arrotondano. Il Di-partimento sociale di uno dei più im-portati istituti bancari d’Europa, “LaCaixa”, organizza corsi di informaticaper anziani: 421 “ciberaule” in 564 cen-tri attrezzati distribuiti in tutta la Spa-gna. Trecentomila utenti, al momento:tutti sopra i sessanta. La pubblicità delcorso passa continuamente in tv. Unacoppia di anziani coniugi va in viaggioa Roma, a Parigi, a Venezia. Lui scattauna foto a lei che tiene la testa inclina-ta. Lei scatta la foto a lui con un bracciosollevato. Poi tornano a casa e si met-tono al computer. Con “Photoshop”montano le due immagini, le scontor-nano, le incollano: nell’inquadraturafinale marito e moglie si abbraccianofelici.

Amore in photoshop«Dare agli anziani la possibilità di

maneggiare la nuove tecnologie non èsolo un modo per rendere più ricca laloro vecchiaia, è un investimento», di-ce Xavier Molinas, trentenne, coordi-natore di uno dei gruppi di volontariche lavorano al progetto. «Un investi-mento in senso stretto, economico: sele persone avanti con gli anni impara-no ad usare una macchina fotografica

digitale e scoprono quanto è più sem-plice per esempio non dover montareil rullino, non doverlo portare allo svi-luppo e stampa, ecco che la comprano,quella nuova macchina, e poi compra-no un computer dove scaricare le fotoe un programma per gestirle. Un inve-stimento sociale: dare un nuovo inte-resse muove energie altrimenti desti-nate a spegnersi, si traduce in maggio-re capacità di interazione con il mon-do esterno e dunque con maggiore au-tonomia, in minori costi per chi fa assi-stenza. Un anziano che sa usareInternet, è dimostrato, costa agli ad-detti all’assistenza sociale fino al qua-ranta per cento di meno». Un bel gestoe un risparmio. Un’opera buona e in-sieme redditizia: non sarà un caso se lebanche ci investono.

Scoperta del sitofonoFrancesco Cossiga, presidente eme-

rito della Repubblica, ha l’Iphone eparla via Sitofono. L’interesse per lenuove tecnologie non l’ha avuto in do-no dai figli ma dai servizi segreti, suagrande passione e per molti anni mate-ria di lavoro. «Un giorno non moltotempo fa chiesi a uno dei massimiesperti di telecomunicazioni, l’inven-tore della carta prepagata, se sapesseindicarmi un sistema di comunicazio-ne via computer non commerciale. Simeravigliò che non lo conoscessi vistoche lo realizza un’azienda sarda. Hoscoperto che il presidente della societàera stato un mio studente. Ho tutto si-stemato sul computer, adesso: il sitofo-no inoltra le chiamate al mio centrali-no».

Fantastico, un bel gioco davvero eperò arriva anche il momento in cui delsapere tiranno dei figli — della moder-nità vera o presunta — si diventa schia-vi. «Usare il procedimento di scritturaT9 sul telefonino mentre si invia una

la copertinaPiccoli maestri

Una volta erano gli adulti a trasmettere ai più giovanisaperi, memoria, competenze. Oggi accade semprepiù spesso il contrario: la cultura non è più soltantodiscendente, dai genitori ai figli, ma in buona parteascendente, dai figli ai genitori. Ecco un viaggiofra i tic, i vantaggi e gli svantaggi di questa nuova stagione

Di videogame si puòanche impazzireMa è dai videogamepiù “colti”che i ragazziimparano la storia,i miti, la geografiaDa una partela lentezzadell’apprendimentofaticoso, quellodelle bibliotechee dell’esperienzaDall’altra la velocitàdella conoscenzaistantanea, quellaeffimera ma efficacedel mouse

Figli dei propri figliCONCITA DE GREGORIO

Repubblica Nazionale

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mail dal palmare e contemporanea-mente si è collegati all’Ipod può sem-brare il massimo della connessionetecnologica ed è invece la nuova formadi schiavitù», dice Paolo Landi, diret-tore della pubblicità Benetton e do-cente di marketing allo Iuav di Vene-zia. «Mi fa pensare alle tv libere deglianni Settanta. Si chiamavano libereperché facevano immaginare che sa-remmo stati tali, con più canali e piùpossibilità di scelta. Diventavamoschiavi, invece, di consumi di terza ca-tegoria: aste di tappeti e scioglipan-cia». Dopo il successo del suo libro sul-la tv, Ricordati che è lei che guarda te,Landi ha mandato ora in stampa il vo-lume Impigliati nella Rete, Bompiani,veemente e documentato pamphletcontro la retorica del web. «Il gap digi-tale tra padri e figli ha connotazioniclassiste: da un lato i figli che possie-dono l’abilità tecnologica ma spessosolo quella. Dall’altro i padri menocompetenti in mouse e tastiere ma ingrado di discernere i contenuti. Il diva-rio tecnologico separa sempre più chiconosce cento parole da chi ne cono-sce mille: tra chi sa e chi consuma. Unaricerca su Google ci dice che i ragazziche passano quattro ore al giorno da-vanti allo schermo digitano sempre lestesse parole. Navigare in Rete è faci-lissimo ma se cerchi Divina commediaescono migliaia di pagine tra cui deci-ne di ristoranti in Toscana. Devi sape-re chi sia Gianfranco Contini per chie-dere “Commedia-Contini”. Il websembra dire tutto ma non dice comecercare, selezionare, filtrare».

Velocità e lentezzaLa differenza fra conoscenza e con-

sumo. In un certo senso quel che sepa-ra le generazioni: di qua la lentezza, lafatica, la responsabilità di scegliere e dilà la velocità, l’eterno presente, il ma-

rasma del tutto insieme sempre. Landiè stato infamato, sul web, per aver det-to che «You Tube è una boiata pazze-sca». Blogger scatenati. Eppure — saràconsolatorio e nostalgico, sarà premo-nitore e rivoluzionario — lo si starebbead ascoltare per ore. «Un video anchebreve costa lavoro creativo: deve “me-ritare” in qualche modo di essere visto.Bisogna guardarsi dalla mitologia deinumeri: un milione di video su You Tu-be non vuol dire niente, il tuo video làdentro non è niente. Tu che ce l’haimesso non per questo sei qualcuno.Bisogna insegnare ai ragazzi che milio-ni di persone, milioni di contatti, mi-lioni di video da soli non significanonulla: sono solo enfasi numerica. Ciòche qualifica un oggetto è il suo conte-nuto, non la sua frequenza. Conta cosac’è dentro e dunque lì si torna: contasaper scegliere e imparare alla fine ausare il computer per quello che serve,come un microonde e un fax. Per co-noscere il mondo bisogna viaggiare,stare seduti davanti a un mondo chesembra offrirsi a noi è un inganno de-gno delle peggiori dittature».

Ruoli ribaltatiPer il momento in quasi assoluta so-

litudine Landi invita i padri-allievi adaffrancarsi dai figli-maestri e a ripren-dere invece il faticoso ruolo che la sto-ria (familiare, biologica, sociale) asse-gna loro: insegnare, educare e a volte,quando necessario, diffidare dalla fa-cilità. È una tesi molto impopolare ecertamente minoritaria ma vale la pe-na di rifletterci un momento. Non perquesto i figli, in specie quando sonomolto piccoli, smetteranno di esseremaestri. Di ascolto e di pazienza, discansione dei tempi della vita. Di ge-rarchie, di priorità. Di parole e di gesti.Come si dice «ora devo andare» in ita-liano, amore mio? Si dice resta.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 28OTTOBRE 2007

MARINO NIOLA

Generazioni in testacoda

(segue dalla copertina)

Se una volta erano gli adulti a trasmettere ai più gio-vani saperi, esperienze, conoscenze, competenze,oggi avviene sempre più spesso il contrario. La cul-

tura non è più esclusivamente discendente, dai genito-ri ai figli, ma è ormai in buona parte ascendente, dai fi-gli ai genitori.

Gli stili di vita, i modelli di comportamento, il look,l’abbigliamento, ma anche le etiche, i valori, i desiderihanno oggi un carattere giovanilista. E soprattutto cel’ha la tecnologia, che di questo capovolgimento è altempo stesso il motore e il simbolo. Non sono più i ra-gazzi ad imparare dai grandi, a imitarli per diventare co-me loro, per prenderne il posto. Sono gli adulti a imita-re i giovani, per diventare come loro, per prenderne ilposto. Forever young, per dirla con Bob Dylan.

Il risultato di tutto questo è che gli adulti sembranoavere sempre meno da trasmettere e da insegnare ai lo-ro figli, finendo in molti casi per annullare ogni distan-za tra loro. Un mimetismo generalizzato che fa simili legenerazioni, avvicinandole fino al cortocircuito. Bastipensare a come è ringiovanito il nostro modo di vestire.Indossiamo abitualmente tessuti elastici che una voltaerano cose da bambini. O da sportivi, come scarpe daginnastica, tute, bandane. Anche il piumino è risalito inquesti anni da una generazione all’altra. Da emblemadei paninari, che a metà degli anni Ottanta furono i pri-mi a usare in città un look da discesa libera, ha finito perspopolare. Adesso signore e signori che si rispettinohanno il loro bravo monclerino.

Un altro esempio è l’sms. Partito come rituale di so-cializzazione adolescenziale, è diventato il modo piùcomune per comunicare, senza distinzioni di età. Lostesso dicasi per l’Ipod di cui i nostri figli ci hanno sve-lato il mistero e fatto conoscere le straordinarie poten-zialità.

Una vera iniziazione alla rovescia, dunque, che pas-sa soprattutto attraverso le nuove tecnologie. È lastraordinaria naturalezza con la quale vivono la dimen-sione hi-tech, ad aver trasformato i più giovani, nei no-stri iniziatori e maestri. E ad aver fatto diventare i padri«figli dei propri figli», come diceva il poeta GuillaumeApollinaire.

La facilità e la velocità con cui i più piccoli si sono im-

padroniti della tecnologia, in maniera quasi istintiva, liha proiettati, per la prima volta nella storia, più avantidei loro genitori, spiazzando l’idea progressiva di un sa-pere cumulativo, da conquistare con sforzo attraversotappe intermedie, frutto di una lunga maturazione for-mativa. Mentre un ragazzino che digita un sms ha unavelocità, uno slancio vitale quasi irriflesso, istintuale,che sembra appartenere alla natura più che alla cultu-ra. Oggi l’essenziale delle conoscenze i ragazzi lo acqui-siscono alla velocità della luce, con la simultaneità, sen-za prima e senza poi, che è tipica dei flussi informatici.E se una volta la scuola con le sue discipline e la famigliacon le sue regole servivano ad ammaestrare e control-lare questa energia vitale, oggi la tecnologia la assecon-da, perché in realtà hanno entrambe lo stesso bioritmo.

L’effetto è che le ultimissime generazioni si autoe-ducano, si autoistruiscono, resettano continuamenteil loro immaginario aggiornando in tempo reale queicodici necessari a essere sempre in rete. Una rete che èal tempo stesso connessione informatica e umana,competenza e appartenenza, comunicazione e emo-zione, identità e scambio affettivo. In questo i ragazziappaiono molto meno spaesati di quegli adulti che in-seguono affannosamente i giovani, nello sforzo pateti-co di catturare la loro attenzione, di intercettare i lorovalori, finendo invece per esserne catturati.

Ragazzini che sembrano già grandi e cinquantenniadolescenti tutti insieme in un eterno presente cheemerge dalle ceneri dell’idea progressiva del tempo edella storia. In questa immediatezza da zapping, dove imodelli culturali rimbalzano da una generazione all’al-tra, l’età ha smesso di essere quel timer che, fino a pochidecenni fa, scandiva inesorabilmente la vita delle per-sone, dall’infanzia alla giovinezza, dalla maturità allanonnità. Quando a dodici anni si era troppo giovani perfare quel che facevano gli adulti e a quarant’anni troppovecchi. Quando ogni età aveva la sua identità, il suo ruo-lo. Immobili, fissi, proprio com’era il posto di lavoro.

Oggi lo scenario è totalmente cambiato. Mobilità eflessibilità, che sono le due forme profonde del nostropresente — dall’economia alle relazioni personali, daisentimenti alle forme dell’immaginario — diventanomentalità collettiva. Un nuovo senso comune che im-pone giovinezza, leggerezza e novità, alle persone comealle cose. Ai genitori come ai telefoni.

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VIGNETTELe vignette di Altan riprodotte in queste pagine

e nella copertina, dedicate al complesso rapporto

tra genitori e figli, sono state pubblicate su Repubblica

tra il 2000 e il 2006

Repubblica Nazionale

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PHNOM PENH

Èuna galleria di fotoritratti unica al mondo. Uno al-la volta, migliaia di volti allineati scrutano l’obietti-vo, impauriti, angosciati, o soltanto attoniti e diso-rientati. Tra loro ci sono anche ragazzi e bambine.

Pochi istanti dopo quello scatto sarebbero finiti nelle cameredi tortura per confessare crimini mai commessi. Poi li aspetta-va una morte certa: per i supplizi, o la fame, o le malattie. Sonole istantanee dei prigionieri di Tuol Sleng, il gulag cambogianodove i khmer rossi dal 1975 al 1979 sterminarono diciassette-mila prigionieri. Il genocidio fu progettato dal leader dei khmerrossi, Saloth Sar detto Pol Pot o anche Grande Zio o Primo Fra-tello, grazie alla protezione attiva del regime comunista cinesee alla cinica indifferenza degli americani. Sotto gli ordini di PolPot lavorò un piccolo esercito di aguzzini e carnefici, militantifanatici oppure a loro volta disciplinati dal terrore. Uno di loro,Nhem En, è la persona che guardano tutti quei volti immorta-lati in bianco e nero. Per regolamento del carcere nessuno do-veva sfuggire al suo apparecchio fotografico. Altre dittature re-sponsabili di genocidi hanno tentato di cancellare le prove del-l’orrore. I khmer rossi no. Nella maniacale meticolosità con cuivenivano raccolti e catalogati quei ritratti dei condannati si in-dovina una cupa e indomabile certezza, l’orgoglio di una stra-ge perpetrata in nome di un ideale, per costruire la società per-fetta.

Ci furono guardiani dei lager nazisti appassionati cultori diMozart e Beethoven, altri che amavano teneramente gli ani-mali. Il giovanissimo Nhem En aveva il culto della fotografia. Ilmestiere lo apprese nella Cina di Mao dove i khmer rossi lo ave-vano mandato a studiare a sedici anni. L’apprendistato rivelòuna vocazione. Il talento c’era: malgrado i mezzi tecnici rudi-mentali quei ritratti sono professionali, accurati, gelidamenteoggettivi. La mano dell’artista s’indovina dietro lo stile omoge-neo, la luce è sempre perfetta. I visi obbediscono a una fissitàrituale, quasi che la posa venisse accettata come parte di unacerimonia. Solo gli occhi tradiscono lo smarrimento di quel-l’attimo: a Tuol Sleng si entrava ignorando il perché. Il genoci-dio di Pol Pot era stato programmato in tempi così rapidi chemolti non ebbero sentore della fine che li aspettava.

L’unico a sapere, in quel momento di attesa prima dell’orro-re, era Nhem En. Il fotografo-ragazzino era al corrente di tutto.Di notte sentiva le urla strazianti dei torturati. Era certo che nes-suno dei suoi ospiti sarebbe uscito vivo da quel carcere. Nondisse mai nulla per non guastare la qualità dell’immagine. I vol-ti non dovevano essere sfigurati da pianti o urli. Lo ha raccon-tato lui stesso. A quarantasette anni Nhem Em è uno dei testi-moni che sfilano per le udienze preliminari davanti al tribuna-le internazionale che dovrà (forse) giudicare i pochi leader su-perstiti dei khmer rossi per i crimini contro l’umanità com-

messi trent’anni fa. «Me li consegnavano con gli occhi ancorabendati — ha detto Nhem Em ai giudici — ed ero io a scoprirgliil viso. Non c’erano altri nella stanza, vedevano solo me. Moltimi assalivano con le domande: cosa ho fatto di male? perchésono qui? di cosa sono accusato? Io ignoravo le domande.Guarda dritto di fronte a te, dicevo. Non inclinare la faccia. Do-vevo dargli tutte le istruzioni perché la foto riuscisse bene. Su-bito dopo sarebbero passati nella camera degli interrogatori. Ilmio dovere di fotografo era riuscire a scattare alla perfezionequelle foto».

Il suo capo era esigente: Kaing Geuk Eav, detto “Duch”, diri-geva il centro di tortura di Tuol Sleng con un’efficienza impla-cabile. «Se avessi perso una sola di quelle foto — ricorda NhemEn — sarei stato ucciso». L’ottantenne Duch è agli arresti in at-tesa del processo, che dovrebbe iniziare nel 2008, e la testimo-nianza di Nhem En è entrata nell’istruttoria. Il tribunale inter-nazionale, che ancora dovrà superare molti ostacoli e boicot-taggi occulti, è l’ultima chance per rendere alla Cambogia al-meno la giustizia della memoria. Questo popolo martoriatocontinua a vedersi negata anche la verità storica. Alcuni deisuoi persecutori sono morti dopo una vecchiaia serena; altrisono vivi, potenti e rispettati. Grandi atrocità e piccole vigliac-cherie sono rimaste sepolte finora sotto una coltre di omertà,con il beneplacito delle superpotenze cinese e americana.

Né Phnom Penh, né Pechino, né Washington hanno vera-mente voglia di riaprire una pagina del passato così ripugnan-te. È il 17 aprile 1975, mentre in Cina si consumano gli ultimibagliori della Rivoluzione culturale, quando le milizie dei kh-mer rossi dopo anni di guerriglia espugnano Phnom Penh eprendono il potere in Cambogia. Hanno l’appoggio decisivo diMao Zedong. A raccogliere consensi tra la popolazione li haaiutati la decisione degli Stati Uniti di estendere il conflitto delVietnam bombardando a tappeto anche la Cambogia: 540mi-la tonnellate di esplosivi, un’offensiva illegale, una guerra maidichiarata, voluta dall’allora segretario di Stato Henry Kissin-ger e avallata dal presidente Richard Nixon.

Il leader dei khmer rossi Pol Pot è stato educato in una scuo-la di missionari francesi, poi ha studiato a Parigi: là lo hanno re-clutato e indottrinato i comunisti francesi. È di intelligenza me-diocre e ha scarsa preparazione culturale, due qualità “prezio-se” in una fase in cui il Pcf diffida degli intellettuali. Rientrato inCambogia Pol Pot scopiazza slogan e fobìe della Rivoluzioneculturale cinese, ripetendone le gesta in una versione perfino

FEDERICO RAMPINI

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28OTTOBRE 2007

il fattoGenocidi

Il cambogiano Nhem En aveva poco più di sedici anni quando,un trentennio fa, il capo del gulag dei khmer rossi di Tuol Slenggli ordinò di scattare ritratti di tutti i prigionieri appena arrestatiMigliaia di innocenti che subito dopo sarebbero stati torturatiImmagini che oggi servono come capo d’accusa controgli aguzzini nel processo internazionale che si sta preparando

Fototessere dell’orrore

Info Tel. 0422 513150 - 0422 513185 - www.laviadellaseta.info

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20 Ottobre 2007 | 4 Maggio 2008

GENGIS KHANE IL TESORO DEI MONGOLI

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più agghiacciante. Esalta le masse contadine e condanna gliabitanti delle città come borghesi depravati. Isola la Cambogiada ogni contatto con l’estero, chiude le scuole, gli ospedali eperfino le fabbriche, abolisce le banche e la moneta, confiscaogni proprietà privata. Vuole cancellare dalla mente dei cam-bogiani ogni traccia della civiltà, creare un “uomo nuovo”.

Quel 17 aprile 1975, quando le milizie khmer entrano a Ph-nom Penh, ordinano lo sgombero immediato della capitale. Al-l’inizio non rivelano le loro vere intenzioni. Ai cittadini annun-ciano che occorre spostarli solo di alcuni chilometri per pro-teggerli dai bombardamenti americani. Scatta in realtà una de-portazione di massa, di dimensioni senza precedenti nella sto-ria contemporanea. Le città vengono svuotate, la loro popola-zione costretta a lavorare in comuni agricole. Si instaura unregime di lavori forzati. I turni di lavoro sono di dodici ore, le ra-zioni alimentari da campo di concentramento. Sono arrestati,torturati e sterminati gli intellettuali, i professionisti, chiunquesia sospettato di avere avuto contatti con l’estero, le minoranzeetniche vietnamite e islamiche, i monaci buddisti. Perfino l’i-stituto della famiglia è considerato contrario all’etica dell’“uo-mo nuovo”: i nuclei familiari vengono smembrati e sparpaglia-ti, chi tenta di comunicare con un parente può essere condan-nato. Si riempiono così i killing fields, i famigerati campi dellamorte. Un liceo trasformato in centro di tortura è il gulag S-21:vi muoiono in duecentomila, gettati nelle fosse comuni. Il bi-lancio delle vittime non è mai stato appurato con precisione. Lestime variano da 1,7 milioni di morti secondo lo Yale Cambo-dian Genocide Project, a 3,3 milioni secondo i vietnamiti. An-che le stime più prudenti superano comunque un quinto dellapopolazione: in proporzione alla piccola nazione cambogiana(sette milioni di abitanti prima dell’arrivo dei khmer rossi), è ungenocidio superiore a tutte le vittime di Hitler e Stalin.

Il terrore di Pol Pot è durato “solo” tre anni otto mesi e ventigiorni ma alcune zone del paese sono ancora un museo degliorrori a cielo aperto, dove i sopravvissuti coabitano con gliaguzzini, la gente dei villaggi traumatizzata ha perso il sonnoperché teme le “incursioni degli spiriti” dalle terre dove giac-ciono sepolte montagne di ossa umane. Anche quelli chescamparono ai killing fields spesso subirono ferite incurabilinel corpo e nell’animo, le devastazioni psicologiche patite neicampi di rieducazione. Non c’è famiglia in Cambogia che nonabbia perso qualcuno sotto le armi dei khmer rossi. Con unquarto di secolo di ritardo, nel gennaio 2001 il Parlamento di

Phnom Penh ha varato una legge per stabilire il principio di untribunale straordinario. Le Nazioni Unite ci hanno messo poialtri due anni e mezzo per adottare una risoluzione che defi-nisse le regole del tribunale: la composizione mista (cambo-giani e stranieri), le pene previste, la durata di tre anni, i finan-ziamenti da ripartire fra più paesi. Intanto Pol Pot è morto, so-lo una decina di ex leader dei khmer rossi ancora in vita sonopassibili di incriminazione. «Nella Cambogia di oggi — ha det-to Thomas Hammarberg che vi ha lavorato a lungo come rap-presentante dell’Onu — il più grosso problema dei diritti uma-

ni è l’impunità. Ci sono dei serial killer, degli sterminatori dimassa che girano in tutta libertà, alcuni perfino trattati comedei Vip».

Il premier Hun Sen, al potere da vent’anni, è un campione diambiguità. Nel 1998 prese pubblicamente le distanze dall’ideadel tribunale, bollandola come «il ritorno della guerra civile».Secondo lui la ricetta giusta è, letteralmente, «scavare un bucoe seppellirci il passato». Che a lui convenga è comprensibile. Exkhmer rosso, Hun Sen è andato al potere stringendo un pattocon i due più stretti collaboratori di Pol Pot, l’ex premier KhieuSampan e Noun Chea. Quest’ultimo, ideologo dei khmer ros-si, a ottantadue anni è stato arrestato il mese scorso e attende ilprocesso insieme a Duch. Khieu Sampan potrebbe raggiun-gerli entro breve tempo. Ma intanto il governo di Phnom Penhlamenta la mancanza di fondi per portare avanti il processo. Èfondato il sospetto che le autorità tentino nuove manovre di-latorie. La resa dei conti dà fastidio a molti.

Il ritardo del tribunale chiama in causa anche responsabilitàestere. La Cina è invisibile in questa vicenda, come se non la ri-guardasse. Pechino non ha voglia di veder rivangare le atrocitàcommesse dal suo ex vassallo Pol Pot. È un capitolo ignobiledella politica estera di Mao a cui seguirono altre pagine buie:dopo che i khmer rossi vennero sconfitti e cacciati dall’inter-vento dei vietnamiti, Deng Xiaoping lanciò un’aggressione“punitiva” dell’esercito cinese contro il Vietnam. Seguirono glianni dei boat-people, il periodo dei feroci regolamenti dei con-ti all’interno di ogni paese e fra regimi comunisti, che oltre aimilioni di morti costrinsero molti a cercare scampo in una di-sperata fuga via mare. Gli Stati Uniti hanno i loro scheletri nel-l’armadio: in base alla regola che «il nemico del mio nemico èmio amico», appena ritiratisi dal Vietnam cominciarono a so-stenere clandestinamente i khmer rossi, perché erano una spi-na nel fianco dell’odiato regime di Hanoi.

Nell’attesa del processo maledetto che forse non si farà mai,almeno le fotografie di Nhem En hanno un merito: danno unvolto e un nome a tante vittime dimenticate. Ricordano gli ul-timi sguardi impauriti degli innocenti che andarono al massa-cro. Ma non è di questo che Nhem En va orgoglioso. Felice-mente riciclato come vicesindaco del suo villaggio, grazie allecomplicità della nomenklatura ex comunista, il fotografo deicondannati ha parole di riguardo verso il suo capo di allora, ilterribile Duch: «Mi stimava e mi apprezzava, perché sono pre-ciso e organizzato. Per quelle foto mi regalò un Rolex».

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 28OTTOBRE 2007

SEGNALETICHELe immagini che illustrano queste pagine

sono alcune tra le migliaia di foto

segnaletiche scattate da Nhem En

nel carcere-gulag di Tuol Sleng

in Cambogia tra il 1975 e il 1979

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l’immagineSouvenir

Da Picasso a Montale, da Chagall a Rothko, tuttilasciarono un autografo e un disegno sulla risma di foglibianchi rilegati a mano che la Guggenheim, ricchissimae geniale mecenate del Novecento, teneva nella sua casaveneziana. Presto queste curiosità saranno in mostraa Vercelli assieme a cinquanta capolavori

La celebre padrona di casa non si limitavaad acquistare le opere degli artisti:si occupava di loro, si faceva frequentare

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28OTTOBRE 2007

Cortesie degli ospiti. Due ri-ghe appena, un disegno, uncavallo di Marino Marini,una gondola di Rothko,uno schizzo a matita di Gia-cometti. Et voilà, anche

Cocteau. Prove d’artista, anzi d’avan-guardia. E le firme (vere) di Yves Tanguy,Cocteau, Fernand Léger, De Chirico,Chagall, Picasso, Ernst, Dalí, Magritte,Tanguy, Miró, Leonor Fini, Man Ray,Carrington, Delvaux. Tutta gente chepassava per un saluto, vitto e ospitalità,metti una sera a cena, appunto, e magarianche la luna di miele per Giacometti e lamoglie Annette. C’era da tenere compa-gnia ai piccoli, a Baby, Cappuccino,Emily, Foglia, Hong Kong, madame But-terfly, Sable, Tory, White Angel, ai cani diPeggy. Per questo serviva il libro degliospiti, rilegato a mano, a testimoniare ar-rivi e partenze, l’arte che s’inzuppava divita e di amicizia. Commenti, ricordi,poesie, brani. Francobolli di creatività. Èil fotografo Roloff Beny, che abitava a Ro-ma, a firmare per primo il libro degli ospi-ti il 4 maggio1949. Poi attori, scrittori,musicisti, da Marlon Brando a Ian Fle-ming, da Eugenio Montale a Patricia Hi-ghsmith, dal futuro lord Snowdon a IgorStravinsky. L’aristocrazia europea, per-ché quella locale era restia. Tutti daPeggy, ricca e collezionista, forte e decisa,che nel dicembre del ‘48 aveva acquista-to per sessantamila dollari Palazzo Ve-nier dei Leoni, un edifico incompiutolungo il Canal Grande, tra la basilica diSanta Maria delle Salute e l’Accademia.Ci avevano abitato due inquiline famose:la marchesa Luisa Casati, “femme fata-le”, musa di Gabriele D’Annunzio, notaper tenere in casa due scimmie dal colla-re tempestato di diamanti, e poi DianaCastelrosse, eccentrica viscontessa.

Peggy ristrutturò gli interni, ridisegnòil giardino, dove fece installare un tronodi granito su cui si faceva fotografare coni suoi animali. Da allora per i venezianidiventò la «dogaressa con i cani». Nellacamera da letto, dipinta di turchese,espose la collezione di orecchini, ai latidella testiera di letto in argento commis-sionata ad Alexander Calder anche loStudio per scimpanzè di Francis Bacon.Ci voleva altro per spaventare Peggy. Suopadre Benjamin lavorava nella ditta cheinstallava gli ascensori sulla torre Eiffel eintanto approfittava di Parigi per tradirela moglie Florette e per perdere il denaroche gli era toccato, circa otto milioni didollari. Morì nel naufragio del Titanic nel1912, dopo aver dato il proprio giubbot-to di salvataggio e il posto in scialuppa al-l’amante che viaggiava con lui, e che nel-l’elenco dei passeggeri figurava come si-gnora Guggenheim. Lui andò incontro aldestino vestito da gentiluomo, in abitoda sera.

Peggy era nata nel 1898 da due delle fa-miglie ebree più ricche di New York, i pro-prietari di miniere Guggenheim, emigra-ti dalla Svizzera, che controllavano l’85per cento della produzione mondiale diargento, rame e piombo, e i banchieri Se-ligman. Rimasta orfana a quattordici an-ni, soffrì molto per la morte del padre cheadorava e che continuò a cercare negli al-tri uomini. Quando scoppia la guerra nel1914 è in Inghilterra, ospite di un cugino,spaventato dalla carestia in arrivo, ma leirisponde con un appetito sfrontato estravagante e anzi gli chiede dell’altracarne per finire la mostarda. Nel ‘19 entrafinalmente in possesso dell’eredità. Aventidue anni cerca di ingentilire il pro-prio naso a melanzana con una plastica,ma l’operazione non riesce e da allora ilnaso si trasforma in una specie di baro-metro: «Quando sta per arrivare il cattivotempo si gonfia», scrive in una delle treautobiografie, Confessioni di una donnache ha amato l’arte e gli artisti. Sugli arti-sti nessuno dubitava. Questo il ricordodella sua prima esperienza sessuale al-l’hotel Plaza-Athénée: «Acconsentii cosìrapidamente che la mia mancanza di re-sistenza lo sorprese».

Durante i sei mesi in cui lavora a New

York nella libreria del cugino, che ispira aErnest Hemingway un personaggio inFiesta, Peggy conosce Laurence Vail, unintellettuale franco-americano, re deibohémiens. Si trasferisce a Parigi, lui lechiede la mano in cima alla torre Eiffel, sisposano nel ‘22 e fanno il viaggio di noz-ze da Capri a Saint Moritz. Lei ammette:«Dovunque accadevano strane cose».Diventa amica della pittrice RomaineBrooks e della scrittrice Natalie Barney,incontra la scrittrice Djuna Barnes, di cuisarà protettrice per il periodo di compo-sizione del libro Bosco di Notte,che ha co-me tema l’incesto. La coppia frequentagli ambienti artistici, nascono due figli,Sindbad e Pegeen, ma anche molti litigi.Si lasciano nell’estate del ‘28, quandoPeggy, dopo aver ballato sui tavoli di unlocale a Saint Tropez, si mette con lo scrit-tore John Holms, che però muore nel ‘34durante un intervento.

Due anni dopo Peggy apre la sua primagalleria d’arte a Londra e conosce SamuelBeckett a una cena dai Joyce a Parigi. Lui

le chiede di distendersi sul divano, fannol’amore per due giorni, poi le dice: «Gra-zie. È stato bello finché è durato». A Lon-dra espone le opere di Jean Cocteau, Kan-dinsky, René Magritte, Piet Mondrian, edegli scultori Constantin Brancusi edHenry Moore. Poi arrivano Yves Tanguye Max Ernst, si innamora del primo, spo-sa il secondo. Peggy non si limita ad ac-quistare le opere degli artisti: si occupa diloro, li frequenta, si fa frequentare. Alloscoppio della Seconda guerra mondialetorna a Parigi, approfitta del crollo deiprezzi delle opere d’arte e compra unquadro al giorno. Tra questi GiacomoBalla, Giorgio De Chirico, Salvador Dalì,Francis Picabia e due sculture di AlbertoGiacometti. Dopo l’invasione nazistadella Francia si rifugia a New York con lasua collezione e aiuta vari intellettuali co-me André Breton a scappare negli StatiUniti.

Nel ‘42 apre la propria galleria-museo“Art of this Century” e si dedica alla sua ul-tima scoperta, Jackson Pollock: «Era un ti-

po difficile, ma aveva anche un lato ange-lico, era come un animale in gabbia». È leia sostenere quel pittore, orfano di padre,che lavora in uno stato di continua ecci-tazione, con accanto la bottiglia d’alcol,mentre ascolta musica jazz, Strawinskij eJohn Cage. È lei la prima a commissionar-gli un grande dipinto per la sua casa diNew York, la prima a farlo esporre e a pas-sargli uno stipendio mensile. Peggy capi-sce in anticipo la genialità di Pollock: il suolinguaggio esistenziale, fatto di energia fi-sica e mentale, di azione pittorica. Tra igiovani che valorizza anche il padre di Ro-bert De Niro. Nel ‘47 Peggy torna in Euro-pa e si stabilisce a Venezia, alla Biennaledel ‘48 espone la sua collezione. È un suc-cesso: gli italiani reduci dal fascismo nonhanno mai visto tanta arte astratta e sur-realista. Organizza anche una mostra disculture nel giardino e sulla terrazza. Trale opere esposte anche L’angelo della cittàdi Marini che raffigura un uomo nudo,con il pene eretto, a cavallo. Qualche tem-po dopo l’artista prepara un pene separa-

Scarabocchi d’autoresul libro degli ospitidi Peggy la Musa

TALE FIGLIADisegno inedito in bianco e nero

di Pegeen, figlia di Peggy,

tratto dal secondo libro degli ospiti

di Peggy Guggenheim, 1954,

matita su carta (collezione privata)

GONDOLE E ACQUERELLISopra, Victor Brauner, disegno tratto

dal secondo libro degli ospiti di Peggy

Guggenheim, 1954, acquerello su carta

(collezione privata); accanto, Mark

Rothko, disegno tratto dal primo libro

degli ospiti di Peggy Guggenheim,

1950, inchiostro su carta

(collezione privata)

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EMANUELA AUDISIO

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 28OTTOBRE 2007

to «in modo che potesse essere avvi-tato o svitato a piacimento». Per evi-tare scandali davanti a visitatoripiù tradizionalisti.

Nonna Peggy continuava adessere imbarazzante e impe-gnativa. Anche dopo la morte,nel ‘67, della figlia Pegeen, fra-gile e depressa, artista anchelei, per abuso di farmaci. Co-me ricorda Karole Vail, la ni-pote che la raggiungeva perle vacanze a Palazzo Ve-nier: «Nella camera da let-

to dove dormivo era appesaL’Aurora di Paul Delvaux,

quelle donne nude ritratteper metà come tronchi d’al-

bero mi facevano così paura,ma non quanto i quadri surreali-

sti di Max Ernst». Karol era un’ado-lescente, abitava a Parigi col padre Sind-bad, andava al liceo dalle suore. Ma lanonna a settant’anni insiste con le do-mande imbarazzanti: «Hai un fidanzati-no? Ci sei già andata a letto?». La porta ingiro per i canali in gondola, la fa scendereda sola davanti alle chiese e poi, tornata acasa, pretende una dettagliata relazionesulle opere d’arte.

Peggy non si perde niente: va a NewYork a vedere l’edificio rotondo che FrankLloyd Wright ha progettato nel ‘58 per ilmuseo Guggenheim. Lo liquida così: «Ungrande garage che si attorciglia come unserpente maligno». Anche se nel ‘76 ac-cetta che la propria collezione si unisca aquella dello zio Solomon. Nel ‘79, pochimesi prima di morire, riceve a Venezia loscrittore Gore Vidal con Paul Newman esua moglie Joan Woodward. Si entusia-sma quando Newman accetta di baciareuna delle sue domestiche. Se ne va a ot-tantuno anni, due giorni prima di Natale,quando Venezia è invasa dall’acqua alta.Ma resta lì a godersi la vista, le sue cenerisi trovano nell’angolo del giardino di Pa-lazzo Venier dove Peggy aveva seppellitoi suoi due amati cagnolini. Eccentrica sì,ma sveglia. Sconsigliava Venezia per la lu-na di miele. «È troppo bella e nel cuorenon resta più posto per altro».

LA MOSTRAApre il 10 novembre a Vercelli,

nella nuova struttura espositiva Arca

nella vecchia chiesa di San Marco,

la mostra Peggy Guggenheime l’immaginario surreale:

più di cinquanta capolavori

delle collezioni veneziane

e newyorkesi dei musei Guggenheim

riuniti per la prima volta in questo

allestimento curato da Luca

Massimo Barbero e promosso

dalla Regione Piemonte

In mostra, tra le altre, opere

di Chagall, de Chirico, Picasso, Miró,

Dalí, Max Ernst, Magritte,

Alberto Giacometti, Ives Tanguy,

Duchamp. La mostra sarà aperta

fino al 2 marzo 2008

Per informazioni

P.B.S. tel. 02 542754

www.ticket.it/guggenheim

INEDITIA sinistra, Fabrizio Clerici,

disegno inedito tratto

dal primo libro degli ospiti

di Peggy Guggenheim,

16 agosto 1950,

inchiostro su carta

(collezione privata);

accanto, Leonor Fini,

disegno tratto dal primo

libro degli ospiti di Peggy

Guggenheim, 1949,

inchiostro su carta

(collezione privata)

PROFILISotto, Jean Cocteau,

disegno dal terzo

libro degli ospiti

di Peggy

Guggenheim,

1956, inchiostro

su carta (collezione

privata)

TRA I PETALIPeggy Guggenheim

a Palazzo Venier dei Leoni

con l'opera Arco di petali(1941) di Alexander

Calder; più in basso,

Scarpa azzurra rovesciatacon due tacchi sottouna volta nera (1925)

di Jean Arp, (collezione

Peggy Guggenheim,

Venezia)

ETEREIA sinistra, Marc Chagall,

disegno tratto dal primo

libro degli ospiti di Peggy

Guggenheim, 1950,

inchiostro su carta

(collezione privata)

A destra, Joan Miró,

disegno tratto

dal secondo libro

degli ospiti di Peggy

Guggenheim, 1952,

inchiostro su carta

(collezione privata)

MATITEA sinistra, Alberto Giacometti, disegno

tratto dal primo libro degli ospiti

di Peggy Guggenheim, 1949,

matita su carta (collezione privata)

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la memoriaPrimedonne

Modella-simbolo degli anni Venti, poi musa ispiratricedei grandi surrealisti da Cocteau a Magritte, raffinatafotografa di moda e coraggiosa fotoreporter di guerra,per finire alcolizzata e dimenticata nelle campagne del SussexOra, a cent’anni dalla nascita e a trenta dalla morte,il Victoria & Albert Museum le dedica una grande mostra

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28OTTOBRE 2007

LONDRA

Suo padre Theodore Miller lafotografò ossessivamenteda piccina ma anche in pie-na giovinezza, docile e com-

pletamente nuda; il massimo illustra-tore di moda degli anni Venti, GeorgesLepape, disegnò il suo viso perfettosotto una calottina viola per una co-pertina di Vogue America del 1927;Edward Steichen, il fotografo più im-portante del gruppo editoriale CondéNast, ne ritrasse più volte il profilo ar-dito che ricordava quello di MarleneDietrich nell’Angelo Azzurro; GeorgeHoyningen-Huené, celebre fotografodi Vogue Francia, ne rivelò la grazia an-drogina riprendendola con le scarpeda tennis e una tuta da marinaio porta-ta come un abito da gran sera; nellostesso anno, il 1930, il suo amante da-da-surrealista Man Ray dedicò studi difotografia solarizzata al suo lungo col-lo delicato, che dopo uno dei tanti litigilui rappresentò sgozzato da una ra-soiata adorna di goccioline di inchio-stro rosso; nel 1931 Jean Cocteau, spal-mandola di gesso, la trasformò in unastatua greca senza braccia, dipingen-dole gli occhi sopra le palpebre chiuse,nel suo primo farraginoso film d’arte Lesang d’un poète; negli stessi anni Picas-so la ritrasse sei volte, picassianamen-te, chiamandola l’Arlésienne. Lei stessasi fotografò continuamente, come perun servizio di Vogue del 1933, cerchiet-to tra i bei capelli biondi, abito di vellu-to bordato di arricciature, accucciatain una poltrona, aristocratica e langui-da, come qualche anno dopo Horst fo-tografò Chanel. Ha fatto storia la foto-grafia che scattò il fotoreporter di guer-ra David E. Sherman nell’aprile del1945, lei nuda nella vasca da bagno delmodesto appartamento di Hitler al 16di Prinzregentenplatz a Monaco, glistivali militari ben appaiati sul pavi-mento, la foto del Führer appoggiata albordo della vasca.

Lee Miller era bellissima, gli artisti nerestavano affascinati e naturalmente sene innamoravano, gli obiettivi divorava-no il suo viso chiaro dai grandi occhi az-zurri, la moda si serviva della sua natura-le eleganza, lei usava questa sua lumino-sa impareggiabile grazia per metterla alservizio del suo talento, delle sue ambi-zioni e del suo impegno. Fu una di quel-le donne dalla vita prodigiosa che affol-larono la prima metà del secolo scorso edi cui oggi non se ne rintracciano epigo-ne. Di vite, anzi, lei ne ebbe tante, una do-po l’altra, ogni volta diverse, sorpren-denti, vincenti, ogni volta abbandonan-dole come fardelli ormai inutili, fino a di-menticarle lei stessa e a farne perdere letracce agli altri. La mostra che sino all’8gennaio il Victoria & Albert Museum lededica nel centenario della sua nascita,1907, e nel trentennale della sua morte,1977, riunisce tutte queste vite, accom-pagnata dal libro The Art of Lee Miller diMark Haworth-Booth, poeta e studiosodi fotografia (edizioni V&A, 224 pagine,35 sterline). Scrive l’autore che «Lee Mil-ler fu una donna inventata dal Ventesi-mo Secolo, indipendente, libera, genia-le, coraggiosa e ricca di talento, ma fu so-prattutto una sua stessa straordinaria in-venzione». La sua eccezionale carriera diartista sfida tutti gli stereotipi. E malgra-do sia stata apprezzata e studiata negliultimi decenni, la sua vita continua a ri-manere «un puzzle surrealista» o, comescrisse lei, «pezzi di un puzzle impregna-ti d’acqua, brandelli ubriachi che non siaccordano né nella forma né nel dise-gno». In quel puzzle informe fu attrice,disegnatrice, modella, giornalista, mu-sa, amante, moglie, madre, ma fu so-prattutto fotografa d’arte e fotoreporter.

La Lee Miller più celebre è quella spet-tinata, sporca, spericolata e fulgente del-la Seconda guerra mondiale, a sua voltafotografata in divisa militare, bandolie-ra, maschera a gas ed elmetto (trent’an-ni prima di Oriana Fallaci), cui il figlioAnthony Penrose ha dedicato il libro LeeMiller’s war. Nel 1944, quando riesce afarsi accreditare da British Vogue comecorrispondente di guerra, ha trentasetteanni, vive a Londra con Sir Roland Pen-rose, aristocratico artista inglese, adora-tore maltrattato di Picasso e suo bio-grafo. Lee abbandona la sua magnificacasa zeppa di Picasso, Braque, Miró,Tanguy, De Chirico, Brancusi, Giaco-metti, Magritte, Ernst, si fa fare in SavileRow una divisa su misura e non proto-collare che indosserà ininterrottamenteper un anno, e parte: sarà la sola delle seidonne fotoreporter di guerra a raggiun-gere il fronte, seguendo l’avanzata allea-ta da Omaha Beach sino ai campi di ster-minio. Il mensile che anche in guerrapropone lussi e raffinatezze pubblica adogni numero i suoi articoli e servizi foto-grafici: i corpi straziati dei soldati negliospedali da campo, l’assedio di SaintMalo, la resa degli occupanti tedeschi, lacaccia ai collaborazionisti, Parigi liberacon la gioia, la fame, le rovine e la primasfilata di moda di Paquin, la visita all’a-mico Picasso che non ha mai lasciato la

capitale, lui elegante, lei conciatissima eridente, desiderosa solo di un bagno. Poil’avanzata alleata in Alsazia sotto la neve,il procedere tra morti e rovine, l’incontrocon i russi, Buchenwald, dove fotografanon solo montagne di cadaveri, ma an-che i corpi dei suicidi, i sorveglianti Ss an-negati o impiccati, la giovane bella figliadel borgomastro di Leipzig che si è avve-lenata e pare dormire riversa su un diva-no di pelle.

Le molte vite di Lee Miller comincia-no quando a diciotto anni lascia Pou-ghkeepsie, New York, per una vacanzain Francia: nasconde un drammaticosegreto, lo stupro a sette anni da parte diun amico di famiglia, che l’ha contagia-ta di gonorrea. È stata cacciata da più diuna scuola, si è tagliata le lunghe trecce,accorciata le gonne, quello è l’anno incui Anita Loos, un’altra ragazza impa-ziente di vivere, ha pubblicato Gli uomi-ni preferiscono le bionde. Elisabeth, lafutura Lee, è la classica “flapper”, il mo-dello è quello della diva Louise Brooks. Èil 1925 e Parigi è invasa dal fervore dellaMostra internazionale delle arti decora-tive, e lei si iscrive a una scuola speri-mentale di scenografia in cui scopre lasua vocazione per l’immagine. Al ritor-no a New York, come capita nei film bril-lanti ancora muti, un passante la salvada un’auto che sta per travolgerla. Quel

signore è William Condé Nast, fondato-re di Vogue e nel marzo del 1927 il visoventenne di Lee è sulla copertina di quelmitico mensile di moda come simbolodella nuova ardente femminilità.

I grandi fotografi di moda se la con-tendono, ma fare la modella non le ba-sta, è la fotografia che le interessa. Comemaestro pretende un artista, vuole chesia Man Ray, americano trapiantato daqualche anno in Francia, e va a cercarloa Parigi. Lo incontra al famoso locale LeBateau Ivre e anni dopo racconterà:«Sembrava un toro, con un torso straor-dinario, sopracciglia e capelli nero in-tenso. Gli dissi sfacciatamente che ero lasua nuova allieva. Rispose che lui nonprendeva allievi e che comunque stavaandando in vacanza. Gli dissi, lo so e iovengo con lei. Vivemmo insieme per treanni». Lei ha venticinque anni, diventauna delle tante giovani muse dei surrea-listi, i grandi fotografi di moda conti-nuano a volerla (anche Man Ray la ri-prende con un berretto di Patou) e lei in-tanto impara, si appassiona, diventauna fotografa instancabile. Fotografa lamoda, fotografa celebrità come Salva-dor Dalì con la compagna Gala, comeCharlie Chaplin, come lo stesso ManRay, sceglie soggetti sempre più surrea-listi, che il suo obiettivo rende minac-ciosi, crudeli: i cavalli di una giostra, to-

polini in fila su un’asta, scale, sederi nu-di di donna, persino i macabri resti diuna doppia masterectomia sui piatti diuna tavola apparecchiata.

Nel 1934 c’è un primo matrimonio, aventisette anni, con un ricco egizianocosmopolita e tollerante, e va a viverecon lui al Cairo, sempre fotografandocon la sua visione surreale rocce e sab-bie, lumache e rovine, e soprattuttocreando la serie Ritratto dello spazio,una strana angosciosa rappresentazio-ne del vuoto che secondo gli espertiispirò poi a Magritte il dipinto Le baiser.Nell’estate del ‘37, tornata per qualchegiorno a Parigi, riallacciati i rapporti coisurrealisti, ad una festa in costume in-contra Penrose, coi capelli tinti di verde,una mano tinta di blu e i pantaloni neicolori dell’arcobaleno. Quella nottestessa inizia la loro relazione, un gran-dissimo amore. Al gentilissimo maritoegiziano, che abbandonerà definitiva-mente nel giugno del ’39, ha scritto: «Vo-glio l’utopica combinazione di sicurez-za e libertà, e ho il bisogno emotivo disentirmi completamente presa dal la-voro o dall’uomo che amo».

Alla fine della guerra quale vita aspet-ta questa donna che si avvicina ai qua-rant’anni e ha avuto tanto, attraversan-do le avanguardie culturali degli anniTrenta e gli orrori bellici degli anni Qua-ranta? Nel 1947 resta incinta, sposa Pen-rose e vanno a vivere nella campagna delSussex, dove riceveranno gli amici, tor-nando spesso in Francia. Visiting Picas-so, la raccolta di una montagna di lette-re di Penrose all’artista e delle pochissi-me dell’artista a lui, curata da ElizabethCowling, è illustrata dalle foto ossessivedi Lee a Picasso: nel suo studio a Vallau-ris, con la sua nuova compagna Jacque-line, davanti alle sue opere, nella casa diMougins, mentre srotola un suo arazzo,assieme a Georges Braque, con il picco-lo Anthony, il figlio che Lee non sapràamare abbastanza. Per una donna cheha avuto tanto, forse invecchiare e adat-tarsi a una quotidianità non esaltante èimpossibile. Lee è sempre stata una for-te, allegra bevitrice, ma ormai è alcoliz-

zata e depressa: si dedica al giardino, di-venta una gran cuoca, progetta ban-chetti surrealisti: ma la sua vita è stata al-tra, meravigliosa, struggente e perduta.Così indimenticabile da volerla dimen-ticare, nascondere, cancellare.

Anche gli altri l’avevano dimenticata.Solo alla fine della sua vita, il passato ri-cominciò ad emergere attraverso le ri-cerche che studiosi o curatori di mostrefacevano di altri artisti surrealisti, comeappunto Man Ray, e cominciarono acercarla, come testimone e non comeprotagonista. Ma alle lettere non ri-spondeva, e del resto era certa che delsuo amatissimo lavoro non fosse rima-sto nulla, «perduto a New York, distrut-to dagli occupanti tedeschi a Parigi,bombardato e incendiato a Londra du-rante il Blitz, e pure la Condè Nast habuttato via sia le mie foto di moda chequelle di guerra… Io stessa non ho an-cora avuto la forza di guardarmi intorno,e cercare, e pensare al passato». Co-munque non lo fece mai: lo fece dopo lasua morte il figlio Anthony, con cui si erariconciliata negli ultimi mesi di vita, eche solo allora, frugando nel disordine enell’abbandono della sua casa nel Sus-sex, scoprì che la vecchia, difficile e ma-lata signora che lo aveva messo al mon-do senza riuscire ad essergli madre, erastata una mitica bellezza, una star co-smopolita, una musa dei surrealisti, unacelebre modella, una grande fotografa,una coraggiosa fotoreporter di guerra,una donna molto amata, desiderata,ammirata. Tante, troppe vite in cui nonc’era stato posto per lui, l’unico figlio na-to quando tutte le esperienze erano sta-te vissute al massimo e non ne era rima-sta nessuna.

PROVOCAZIONEUna delle foto più famose che ritraggono Lee Miller mentre fa il bagno nella vasca di Adolf Hitler

La foto è di David E. Scherman, Monaco, 1945

Lee Miller, una vita non bastaNATALIA ASPESI

LA MOSTRALe foto di queste pagine sono tratte da The Art of Lee Millerdi Mark Haworth-Booth (V&A Publications),

il catalogo della mostra in corso fino al 6 gennaio 2008

al Victoria & Albert Museum di Londra. La mostra ripercorre

attraverso le immagini del Lee Miller Archive la carriera

di fotografa e la vita di questa donna straordinaria

che seppe trasformarsi da modella e musa di artisti

in artista essa stessa

A Parigi si presentòa Man Ray e gli dissesfacciatamente: sonola tua nuova allieva

Celebre la foto di lei,aprile ’45 a Monaco,

nuda nella vascadella casa di Hitler

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 28OTTOBRE 2007

PORTFOLIODall’alto a sinistra in senso orario, autoritratto con fermacapelli (1933) • Ritratto di donna sconosciuta (1930) •

Testa fluttuante (Mary Taylor) (1933) • La figlia suicida del borgomastro di Lipsia (1945) • Donne con maschere

da saldatore, Downshire Hill, Londra (1941) • Eileen Agar al Royal Pavilion, Brighton (1937)

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Comesempre bisogna partire delle pa-role che usiamo e dalla loro origineantica. In latino, metiri, misurare,percorrere, e misura sono molto vici-ni al greco metische significa pruden-za, saggezza, e sapienza. Come dire

che comprendere ed essere consapevoli equivale aconoscere la misura delle cose, la loro dimensione.

Misurare ha la stessa radice di mensis, mese, e inparticolare mese lunare. Come dire che la misuraprimaria, originaria è quella del tempo che tra-scorre. Non siamo dunque lontani da quel che scri-veva Giorgio de Santillana, geniale mitologo e altempo stesso scienziato che lavorò per anni al Mitdi Boston. De Santillana, nel suo libro fondamen-tale, Il Mulino di Amleto, parlava di un «Carro di En-mesarra» identificato dagli specialisti di astrono-mia babilonese con la costellazione omonima. En-mesarra è un nome eloquente: En. ME. SARRA è«Signore di tutti i me», ossia Signore delle «norme emisure»; è detto anche «Signore dell’Ordine delMondo», «Signore dell’Universo e Colui che ha pe-so nel mondo infero», nonché «il sovrano del mon-do infero». Lo stesso accade in Grecia, nella versio-ne degli orfici e, da Esiodo e da altri, nelle versionisimili di Plutarco e Proclo: Kronos, divinità depu-tata al tempo, elargisce al figlio Zeus con paternabenevolenza «tutte le misure dell’intera creazio-ne». E così nel mondo semitico: in arabo misura sidice qadr, e qaddara, misurare, significa anche de-terminare e decretare, ed è tra i verbi che esprimo-no la facoltà divina del dare a ciascuno quel che glispetta secondo l’esatto computo, in questo tempoe nel tempo dell’aldilà. Questa lingua istituisce unaparentela stretta tra misura, decreto e destino, tramiqdàr, cioè estensione nel tempo e nello spazio,qadar, cioè sorte, e al-Qadìr, l’Onnipotente. Peròmisura si dice anche qiyàs, che esprime appunto ilrapporto tra una grandezza e una grandezza dellastessa specie, e il primo che misurò il rapporto trale cose e le loro grandezze fu Satana. Il tempo è for-se la più percepita tra le cose misurabili, quella dicui siamo maggiormente consapevoli nella vita diogni giorno. Da sempre, fin dal principio, la misu-ra è stata percepita come misura del tempo; e pertributargli tutta la nostra stima l’abbiamo insigni-ta del divino e anche del diabolico.

Platone aveva già diviso l’arte della Misura in dueparti, situando nella prima le arti «che misurano ilnumero, la lunghezza, l’altezza, la larghezza e la ve-locità in rapporto ai loro contrari», e nella seconda«le arti che misurano il rapporto al giusto mezzo, alconveniente, all’opportuno, al doveroso e insom-ma a quelle determinazioni che stanno nel mezzotra due estremi». Cioè aveva distinto tra numeri ecomportamenti, e in fondo è quello che facciamonoi quasi senza rendercene conto, da una parte di-ciamo misura come quantità e quantitativo, rileva-mento, valutazione, stima ed eventualmente giu-

Il Touring Club Italiano pubblica “Misure, dall’abaco al satellite”,un libro che documenta la nascita e lo sviluppo degli strumenticon cui l’umanità, epoca dopo epoca, si è industriata a calcolare

il tempo e lo spazio con sempre maggior accuratezza e precisione. Uno sforzoche ha spostato via via i confini della conoscenza fino a mettere in crisi l’idea stessa di limite,come qui racconta uno scrittore che nei suoi romanzi ha spesso affrontato questa sfida

CULTURA*

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28OTTOBRE 2007

L’ASTROLABIONoto fin dal VI

secolo, permetteva

di calcolare

la latitudine misurando

l’altezza angolare del Sole

i udizio, e dall’altra intendiamo una regola della con-dotta prudente, una disciplina e un ordine, un con-dursi “con misura”, appunto. E lo stesso pensò Ari-stotele, misura è da una parte il rapporto tra unagrandezza e l’unità e dall’altra è il criterio o il cano-ne del vero, cioè il bene, la medietà come quintes-senza della virtù etica.

Più che sul termine misura, che suona già comeun risultato acquisito, conviene attestarsi sul “mi-surare”, e in verità il misurare è un verbo sempre incammino. Quante misure abbiamo immaginato edefinito e per lo più abbandonato come scarpeconsunte o al contrario mantenute come una fede,come la linea di fede della bussola: acro, biolca, ca-rato, cubito, cucchiaio, decade, giornata, iarda, iu-gero, libbra, lustro, marco, moggio, oncia, orgìa,pertica, piede e pollice, quinario, stadio, talento,versta… Gli scienziati delle misure, i metrologid’oggi preferiscono usare la parola “accuratezza”accanto a “precisione”. Inseguire continuamentela maggiore accuratezza e la maggiore precisione ècome un destino delle epoche. E nelle maggiori ac-curatezza e precisione il misurare incontra, certo,errore e incertezza. Una volta domandai a CarloRubbia, Nobel per la Fisica nel 1984, chi fosse unapersona davvero competente; mi rispose: «Coluiche ha già compiuto tutti gli errori possibili nel pro-prio campo».

Nel nostro tempo, misuriamo ormai lo spazio conil Gps, Global Positioning System, e la fisica delleparticelle, già dall’ultimo quarto del secolo scorso,misura il tempo in nanosecondi, lavora cioè conunità di tempo pari a un miliardesimo di secondo; eanche in picosecondi, che sono millesimi di un na-nosecondo. Il misurare sembra davvero un cammi-no illimitato, e con il passare del tempo è un cam-mino sempre più rapido. Negli anni Ottanta, noncosì lontani dopotutto, per la navigazione maritti-ma e aeronautica si usava ancora il Loran, acronimodi Long Range Navigation, era in servizio nella Se-conda guerra mondiale e poi anche in quella delVietnam, e il suo tempo di accuratezza e precisioneera solo in microsecondi. Il Loran, elaborato dagliStati Uniti durante la Seconda guerra mondiale co-me sistema di navigazione aerea per il Nord Atlan-tico e il Pacifico ad uso dell’Army Air Corps, basatosu trasmissioni a media frequenza facilmente pro-pagabili sugli oceani, era stato convertito alla finedegli anni Cinquanta sulla bassa frequenza per per-mettere anche la propagazione terrestre. Il sistemasi basava sulla trasmissione di impulsi precisamen-te spaziati nel tempo, grazie ai quali il navigatore po-teva derivare informazioni relative alla posizione ealla velocità. Un elemento minimo della catena Lo-ran includeva tre stazioni posizionate ad alcunecentinaia di chilometri l’una dall’altra, e conoscen-do la posizione delle stazioni trasmittenti e la spa-ziatura degli impulsi era possibile convertire la dif-

d’uomo

IL BAROMETROIl barometro

di mercurio

inventato

da Robert

Fitzroy

fu presentato

per la prima

volta nel 1860

M saI TOKEN

I “pezzi” in argilla

del Medio Oriente

(1500-800 a.C.)

erano unità di misura

per far di conto

LA SFERALa sfera

armillare,

inventata

dai Greci,

rappresenta

l’universo

Sopra,

un metro

L’illusionedi ingabbiarel’infinitoDANIELE DEL GIUDICE

Repubblica Nazionale

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Society for Testing Materials nel 1955. È un appun-to che vale la pena di riprendere. Si intitola La mi-sura di tutte le cose: «Nel Settecento, Lazzaro Spal-lanzani misurava i tempi delle sue celebri espe-rienze sugli infusori esprimendoli in credi, si servi-va cioè come unità di misura del tempo necessarioper recitare un Credo. Oggi misuriamo il tempo inbase alle frequenze di emissione dell’atomo di ce-sio, e un errore di un secondo ci pare intollerabile.È una via obbligata: le fondazioni della nostra so-cietà tecnologica devono essere consolidate da mi-sure e definizioni precise; in questi scantinati, fre-quentati solo dagli addetti ai lavori, c’è chi misurala resistenza alla flessione degli spaghetti crudi e laresistenza alla trazione degli spaghetti cotti, eprescrive i rispettivi valori massimo e mini-mo. […] A meno di un improbabile ritornonel Settecento, il mostruoso reticolo del-le specificazioni è destinato a crescere[…]».

Per concludere infine, e ancora aproposito di Spallanzani, bisognaricordare quello che Carlo EmilioGadda disse della cultura italia-na: «La prima colpa che le faccioè di essere refrattaria alla storianaturale, di ignorare le eregeologiche, il darwinismo, iclassificatori del Settecentoe Ottocento, Malpighi eSpallanzani […]». Unacultura quella italiana, se-condo Gadda, fatta «ditoc-toc di impulsi, dibatticuore, della retori-ca delle buone inten-zioni. Manca un sot-tofondo logico e ri-flessivo. Non ap-poggiata all’e-sperienza, maal cuore».

ferenza di tempo in latitudine e longitudine. Ma tor-nando all’oggi le pur ottime prestazioni del Loransono superate e certo non di poco dal sistema Gpscon la sua copertura di ventiquattro satelliti e la suacapacità di funzionare in modo differenziale di uncentimetro. Al Cern di Ginevra, si è passati dall’ac-celeratore di particelle del “piccolo” PS Sincrotoneper protoni con un’energia fino a 26 GeV (1 GeV è cir-ca 1/1000 della energia cinetica di una zanzara) al-l’SpS, il Super sincrotrone per protoni e antiprotoniche aveva una potenza di 450 GeV, e ancora più conil LHC, il grande collisore per adroni, che verrà co-struito all’interno del tunnel che ospita il LEP, conun accelerazione fino a 700 GeV.

Sembra che il misurare sia illimitato e che nonabbiano più alcun senso le antiche teorie comequelle di Democrito, di Leucippo o di Lucrezio sulminimum, sull’infinitesimo, sul limite che non dàulteriore divisibilità. Ma sarà vero che il nostrocammino del misurare non ha un termine finale,che è un indefinito sviluppo? Sarà vero che i suoipassi successivi sono inesorabili? Il matematicoPaolo Zellini nel libro Breve storia dell’infinito(Adelphi 1980) scrive un capitolo specifico sul li-mite, ripercorre la storia dell’idea di limite. C’è dachiedersi, allora, se la consapevolezza dell’assen-za di un limite può renderci più felici. O se invece lanostra grandezza o almeno la nostra quiete siaquella di eludere la conoscenza della misura, ac-quisirla sì, ma poi gettarla via, come nel poemaolandese di Brandaen ricordato da Jacob Grimmnella Deutsche Mythologie (1953). Brandaen in-contra per mare un uomo alto un pollice, che gal-leggia su una foglia e tiene nella mano destra unaciotola e nella sinistra uno stilo; l’uomo è occupa-to a immergere lo stilo nel mare e poi a farlo sgoc-ciolare dentro la ciotola. Quando la ciotola è piena,la svuota e ricomincia da capo. Dice che gli è statoimposto il compito di misurare il mare fino al Gior-no del Giudizio.

La sofferenza e insieme l’inanità della misura so-no illustrate dal chimico Primo Levi in un appuntoche prese in seguito alla lettura di una “specifica-tion”, un metodo di controllo tecnico-com-merciale emesso dalla American

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IL LIBROMisure. Dall’Abaco al satellite: tuttii modi in cui l’uomo misura se stesso,il pianeta e l’universo di Andrew

Robinson sarà in libreria dal 7 novembre

per le edizioni Touring Club Italiano

(244 pagine, 25 euro). Il libro uscirà

per i tipi di Thames & Hudson anche

in Gran Bretagna. Le foto di queste

pagine sono state concesse

dal Touring Club Italiano

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 28OTTOBRE 2007

LA CLESSIDRALe prime clessidre a sabbia

compaiono nel XIV secolo

dipinte dal Lorenzetti

Sopra: un antico quadrante

LA BUSSOLAÈ il primo strumento

che indica il Nord magnetico

La sua invenzione

si attribuisce

ai cinesi

L’OROLOGIOUn orologio decimale francese

con numeri romani. A destra,

un compasso per misurare

le palle di cannone

Repubblica Nazionale

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la letturaHalloween

Max Brooks, figlio del regista Mel, ha sviluppato una genialitàdiversa da quella del padre ma altrettanto maniacale:è il più grande esperto mondiale di zombi.Prima ha scrittoun manuale per combatterli, ora un romanzo in cui l’umanitàè colpita dal solito virus misterioso che sforna cadaveriancora in vita. Sembra un horror, forse è una metafora

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28OTTOBRE 2007

Il primo caso che vidi fu in un villag-gio remoto che ufficialmente nonaveva nome. Gli abitanti lo chiama-vano “Nuovo Dachang”, più che al-tro per una forma di nostalgia. La lo-ro patria precedente, “Vecchio Da-

chang”, era esistita sino all’epoca dei TreRegni, con fattorie e case e persino alberiche si diceva fossero secolari. Quando laDiga delle Tre Gole fu terminata, e le acquedel bacino di riserva cominciarono a sali-re, Dachang era già stato in gran partesmontato, mattone per mattone, e poi ri-costruito su un terreno più elevato. [...]

L’ospedale era tranquillo. [...] Ero stan-co, mi facevano male i piedi e la schiena.Stavo uscendo a fumare una sigaretta eguardare l’alba quando sentii fare il mionome. La centralinista di quella notte eranuova e non capiva bene il dialetto. C’erastato un incidente, o una malattia. Eraun’emergenza, questo era chiaro, e se perfavore potevamo mandare subito aiuto.

Che potevo dire? I dottori più giovani, iragazzini che pensano che la medicina siasolo un modo per gonfiare il conto in ban-ca, non sarebbero certo andati ad aiutarequalche nongminsolo per il piacere di por-tare aiuto. Immagino di essere, in fondo alcuore, ancora un vecchio rivoluzionario.«Il nostro dovere è di essere responsabili

nei confronti del popolo». Quelle parole si-gnificano ancora qualcosa per me... e cer-cai di ricordarmelo mentre la mia Deerrimbalzava e sbatteva sulle strade sterrateche il governo si era impegnato, ma mai ac-cinto, ad asfaltare. [...]

Ce n’erano sette, tutti su dei lettini, tuttia malapena coscienti. Gli abitanti del pae-se li avevano spostati nella nuova sala riu-nioni comunale. Il pavimento e le paretierano di nudo cemento. L’aria era fredda eumida. Ci credo che sono malati, pensai.Chiesi agli abitanti del paese chi si era pre-so cura di loro. Risposero che nessuno l’a-veva fatto, perché non era «sicuro». Notaiche la porta era stata chiusa a chiave da fuo-ri. Gli abitanti del paese erano chiaramen-te terrorizzati. Stavano rannicchiati e bi-sbigliavano; alcuni si erano messi in di-sparte e pregavano. Il loro atteggiamentomi riempì di rabbia, non contro di loro, cer-

chi di capire, non contro quegli individui,ma contro ciò che rivelavano del nostropaese. Dopo secoli d’oppressione stranie-ra, sfruttamento e umiliazione, stavamo fi-nalmente rivendicando il nostro giustoruolo di Impero del Mezzo dell’umanità.Eravamo la superpotenza più ricca e dina-mica del mondo, padroni di tutto, dallospazio cosmico al cyberspazio. Era l’alba diquello che il mondo stava finalmente rico-noscendo come il “Secolo cinese”, eppuremolti di noi vivevano ancora come questicontadini ignoranti, refrattari e supersti-ziosi come i popoli primitivi della culturaYangshao.

Ero ancora perso in quella mia pompo-sa critica culturale quando mi inginocchiai

per visitare la prima paziente. Aveva la feb-bre alta, a quaranta, ed era scossa da tre-mori violenti. Appena cosciente, piagnu-colò un po’ quando cercai di muoverlebraccia e gambe. Aveva una ferita sull’a-vambraccio destro, il segno di un morso.Quando la esaminai più da vicino, mi resiconto che non era stato causato da un ani-male. Il raggio del morso e i segni dei dentierano sicuramente stati causati da un pic-colo, o forse giovane, essere umano. Anchese ipotizzai che fosse quella la causa del-l’infezione, la ferita in sé era sorprendente-mente pulita. Chiesi, di nuovo, chi si erapreso cura di quelle persone. Di nuovo, mirisposero nessuno. Sapevo che non pote-va essere vero. La bocca umana è zeppa di

batteri, anche più di quella del cane piùsporco. Se nessuno aveva pulito la ferita diquesta donna, perché il taglio non brulica-va di infezioni?

Esaminai gli altri sei pazienti. Mostrava-no tutti sintomi simili, avevano tutti feritesimili in diverse parti del corpo. Chiesi a unuomo, il più lucido del gruppo, chi o cosaavesse causato queste ferite. Mi disse cheera successo quando avevano cercato di«domarlo».

«Domare chi?», chiesi.Trovai il “paziente zero” dietro la porta

chiusa a chiave di una casa abbandonatadall’altra parte del paese. Aveva dodici an-ni. Polsi e piedi erano legati con della cor-da da imballaggio di plastica. Nonostanteavesse sfregato la pelle contro i lacci, nonc’era sangue. Non c’era sangue neanchenelle altre ferite, nemmeno su quelle piùprofonde che aveva su gambe e braccia, né

intorno al grande buco che aveva al postodell’alluce destro. Il ragazzino si dimenavacome un animale; un bavaglio attutiva isuoi grugniti.

Gli abitanti del villaggio cercarono ditrattenermi. Mi avvisarono di non toccar-lo, perché era «maledetto». Li ignorai e pre-si guanti e mascherina. La sua pelle erafredda e grigia come il cemento sul qualegiaceva. Non riuscii a trovare il battito car-diaco né le pulsazioni al polso. Aveva occhispiritati, spalancati e affossati nelle orbite.Rimasero fissi su di me come quelli di unabestia predatrice. Durante tutta la visita fuinspiegabilmente ostile, allungava versodi me le mani legate e provava a mordermiattraverso il bavaglio. I suoi movimenti

erano così violenti che dovetti chiedere adue tra gli abitanti del paese più robusti chemi aiutassero a tenerlo fermo. All’inizionon si mossero, rannicchiati davanti allaporta come due coniglietti. Spiegai chenon c’era alcun rischio d’infezione se usa-vano guanti e mascherina.

Quando scossero la testa, trasformai larichiesta in un ordine, anche se non avevoalcuna autorità legale per farlo. Ma bastò. Idue buoi s’inginocchiarono accanto a me.Uno teneva i piedi del ragazzo, mentre l’al-tro gli stringeva le mani. Cercai di preleva-re un campione di sangue e invece tiraifuori solo una sostanza marrone e viscosa.Mentre stavo togliendo l’ago, il ragazzo ri-cominciò a lottare con violenza.

Uno dei miei“inservienti”,quello respon-sabile delle

MAX BROOKS

CULTUn’immagine

tratta dal film

di George A.

Romero,

La notte dei mortiviventi (1968)

L’ultima guerra dei morti viventi

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 28OTTOBRE 2007

braccia, smise di tenerle ferme e pensò chepoteva essere più sicuro se si limitava aschiacciarle con le ginocchia contro il pa-vimento. Ma il ragazzo scattò di nuovo e iosentii il suo braccio sinistro che si spezza-va. Le estremità frastagliate di radio e ulnasbucarono fuori dalla carne grigia. Il ragaz-zo non strillò, non parve neppure accor-gersene, ma quello spettacolo fu sufficien-te a far balzare indietro i due assistenti, chescapparono via dalla stanza. Io anche arre-trai istintivamente di qualche passo.M’imbarazza ammetterlo.

Sono stato dottore per gran parte dellamia vita da adulto. Ero stato addestratoe... si potrebbe addirittura dire “allevato”dall’Esercito popolare di liberazione. Hocurato più ferite di guerra di quante avreivoluto, ho sfiorato la morte in più diun’occasione, ed ero terrorizzato, vera-mente terrorizzato, da questo gracile es-serino.

Il ragazzo cominciò a torcersi verso dime, il braccio si squarciò fino a staccarsi.Carne e muscolo si separarono finchénon rimase che il moncherino. Il bracciodestro ora libero, ancora legato alla manosinistra troncata, trascinava il corpo lun-go il pavimento.

Mi precipitai fuori, chiudendo a chiavela porta dietro di me. Cercai di ricompor-mi, di controllare la paura e la vergogna.Mi tremava ancora la voce quando chiesicome si era infettato. Nessuno rispose.Cominciai a sentire dei colpi contro laporta, i pugni del ragazzo che battevanodeboli contro il legno sottile. Riuscii a ma-lapena a non sobbalzare per quel rumore.Pregai che nessuno si accorgesse di quan-to ero diventato pallido. Urlai, per pauraquanto per frustrazione, che dovevo sa-pere cosa era successo a quelbambino.

Una giovane si fece avanti,forse sua madre. Era eviden-te che piangeva da giorni;aveva gli occhi asciutti e

profondamente arrossati. Ammise cheera successo quando il ragazzo e suo pa-dre stavano «pescando sotto la luna»,espressione che significava tuffarsi alla ri-cerca di tesori tra le rovine sommerse del-la Grande riserva, alle Tre Gole. [...] E infi-ne lei mi spiegò che il ragazzo era tornatopiangendo e con i segni di un morso sulpiede. Non sapeva cosa fosse successo,l’acqua era troppo scura e fangosa. Suopadre non fece più ritorno. Presi il cellula-re e composi il numero del dottor Gu WenKuei, un vecchio compagno dei giornidell’esercito, che ora lavorava all’Istitutomalattie infettive dell’università diChongqing

[...] Gli raccontai tutto: i morsi, la feb-

bre, il ragazzo, il braccio... il suo volto al-l’improvviso si irrigidì. Il sorriso scom-parve. Mi chiese di mostrargli gli infetti.Tornai alla sala riunioni e sventolai la te-lecamera del telefono su ogni paziente.Lui mi chiese di avvicinarla ad alcune fe-rite. Lo feci, e quando riportai lo schermoverso di me vidi che lui aveva interrotto il

contatto video. «Resta dove

sei», mi disse,ora ridotto soloa una voce di-staccata e lon-tana. «Prendi inomi di tuttiquelli che sono

stati in con-tatto con

gli in-

fetti. Rinchiudi quelli già contaminati. Sequalcuno è entrato in coma, isolalo inun’altra stanza e blocca l’uscita». La suavoce era piatta, robotica, come se avessegià provato quel discorso o lo stesse leg-gendo. Mi chiese: «Sei armato?». «Perchédovrei?», chiesi io. Mi disse che mi avreb-be richiamato lui, e il suo tono era quellodel pragmatismo assoluto. Disse che do-veva fare qualche telefonata e che avrei ri-cevuto «rinforzi» in poche ore.

Non ne passò neppure una che già era-no lì, cinquanta uomini in grandi elicotte-ri militari Z-8A, con addosso la tuta di pro-tezione contro le sostanze tossiche. Dis-sero di essere del ministero della Sanità.Non so chi credessero di prendere in giro.

Con quell’andatura spavalda e prepoten-te, con quell’arroganza intimidatoria,persino gli zotici di quel paesino sperdu-to potevano riconoscere i Guoanbu.

Entrarono nella sala riunioni. I pazien-ti vennero trasportati fuori in barella,braccia e gambe in catene, le bocche im-bavagliate. Poi toccò al ragazzo. Uscì in unsacco di plastica per cadaveri. Sua madrepiangeva mentre lei e il resto del paese ve-nivano radunati per le “visite”. Presero iloro nomi, effettuarono prelievi del san-gue. Uno dopo l’altro furono spogliati efotografati. L’ultima a venire denudata fuuna vecchia avvizzita. Aveva un corpomagro e storto, un viso con migliaia di ru-ghe e piedi minuscoli che dovevano aver-le fasciato quando era bambina. Agitava ilpugno ossuto contro i “dottori”. «Questaè la vostra punizione», urlò. «Questa è la

vendetta per Fengdu!».Si riferiva alla Città dei Fantasmi, i cui

templi e santuari erano dedicati al mon-do sotterraneo. Come Vecchio Dachang,era stata uno sfortunato ostacolo per ilnuovo Grande balzo in avanti della Cina.Era stata evacuata, poi demolita, poi qua-si del tutto sommersa. Io non sono maistato superstizioso e non mi sono mai fat-to abbindolare dall’oppio dei popoli. So-no un dottore, uno scienziato. Credo soloin ciò che posso vedere e toccare. Per meFengdu è sempre stata solo una stupida,volgare trappola per turisti. Ovviamentele parole di quell’antico rudere grinzosonon ebbero nessun effetto su me, ma ilsuo tono, la sua rabbia... aveva visto ab-

bastanza calamità negli anni che avevapassato sulla Terra: i signori della guerra,i giapponesi, il folle incubo della Rivolu-zione culturale... sapeva che stava arri-vando un’altra tempesta, anche se la suaistruzione non le permetteva di ricono-scerla.

Il mio collega, il dottor Kuei, l’aveva ri-conosciuta fin troppo bene. Aveva persi-no rischiato la pelle per avvisarmi, perdarmi almeno il tempo di chiamare e ma-gari allertare qualcun altro prima che ar-rivasse il “ministero della Salute”. E miaveva avvisato con una frase... un’espres-sione che non usava da tanto,dai tempi delle “insignifi-canti” dispute di confi-ne con l’Unione Sovie-tica. Dal lontano 1969.Eravamo in un bunker

sotterraneo dal nostro lato dell’Ussuri, ameno di un chilometro lungo il fiume daChen Bao. I russi si preparavano a rim-possessarsi dell’isola, e la loro potente ar-tiglieria martellava le nostre forze.

Io e Gu stavamo cercando di togliere iframmenti di proiettile dalla pancia diquesto soldato non molto più giovane dinoi. Il tratto finale dell’intestino del ra-gazzo era tutto squarciato, i nostri camicierano coperti di sangue ed escrementi.Ogni sette secondi un colpo di cannone siabbatteva lì vicino e noi ci dovevamo pie-gare sul corpo del giovane per proteggerela ferita dagli schizzi di terreno, e ogni vol-ta gli eravamo abbastanza vicini da sen-tirlo piagnucolare e chiamare sua madre.C’erano anche altre voci, provenivano dalbuio profondo oltre l’entrata del nostrobunker, voci disperate, rabbiose, che nonavrebbero dovuto essere dal nostro latodel fiume. Avevamo due soldati della fan-teria appostati all’entrata del bunker.

Uno di loro urlò: «Spetsnaz!», e aprì ilfuoco contro il buio. Sentimmo anche al-tri spari, senza capire se fossero dei no-stri fucili o dei loro. Arrivò un altro colpodi cannone, e noi ci piegammo sopra ilragazzo morente. Il viso di Gu era solo apochi centimetri dal mio. Il sudore gli siriversava dalla fronte. Persino alla lucefioca di una sola lanterna a cherosenepotevo vedere che stava tremando ed erapallido. Guardò il paziente, poi il vanodella porta, poi me, e all’improvviso dis-se: «Non ti preoccupare, andrà tutto be-ne».[...]

Adesso eravamo anziani, e qualcosa dipeggio stava per succedere. Usò quell’e-spressione subito dopo avermi chiestose ero armato. «No», dissi io, «perché do-vrei?». Ci fu un breve silenzio, sono sicu-ro che altre orecchie fossero in ascolto.«Non ti preoccupare», disse lui, «andràtutto bene».

Traduzione di Nello Giugliano(Studio Oblique)

© 2006 Max Brooks - © 2007 Cooper srl

IL LIBROUn’epidemia che trasforma gli uomini in zombi

Incomincia in Cina e si diffonde in tutto il mondo

Un romanzo a più voci che racconta la fine di tutto

ciò che l’uomo è abituato a dare per scontato

Ma non è solo questo il libro di Max Brooks

World War Z. La guerra mondiale degli zombi (Cooper,

320 pagine, 16 euro). È un atto di denuncia contro

l’indifferenza dell’umanità di fronte a guerre, ingiustizie,

sofferenze e contro la mancanza di un piano

di convivenza planetaria comune anche di fronte

alle tragedie. In libreria il 2 novembre

“ Sono stato dottore per gran parte della mia vita da adultoEro stato addestrato e... si potrebbe addirittura dire allevato

dall’Esercito popolare di liberazione. Ho curato più ferite al frontedi quante avrei voluto ed ero terrorizzato da questo gracile esserino”

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Dal 1991 a oggi il festival di Cannes ha chiesto ogni anno a un granderegista di tenere una lectio magistralis sulla sua arte,i suoi trucchi, i suoi metodi. Da Rosi a Pollack ,

da Wenders a Moretti, questi maestri hanno preso la parola davantia un pubblico affascinato e selezionato. Ora quei seminari vengonoraccolti in un volume. Ne anticipiamo alcuni brani

SPETTACOLI

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28OTTOBRE 2007

Una buona sceneggiatura si scrive a più mani.Ho lavorato con Jean-Claude Carrière, BuckHenry o, in Cecoslovacchia, con Ivan Passer.

Mi piace questo ambiente di collaborazione, questaemulazione delle idee. In base alla mia esperienza,una buona e felice collaborazione su una sceneggia-tura val bene la metà della messa in scena. Si recitatutto il film in anticipo, prima delle riprese. Mi piacemoltissimo lavorare con sceneggiatori capaci di reci-tare tutte le scene mentre scrivono, di dire tutti i dia-loghi. Recitiamo fra di noi, e il mio orecchio può giu-dicare se suona vero o falso. Una riga di dialogo puòsembrarvi assolutamente vera sulla carta, ma quan-do l’ascoltate suona falsa. È vero anche il contrario:talvolta, ciò che è scritto sembra falso, ma il parlato lorivela come vero. Il passaggio all’orale è la prima ve-rità di un film. La sola sceneggiatura che sia stata in-teramente scritta per me, addirittura prima che mene interessassi, in cui non ho dovuto toccare neancheuna riga, è Larry Flint — Oltre lo scandalo, nel 1996.Era la prima volta che mi succedeva: un vero e propriolavoro su commissione, scritto da Scott Alexander eLarry Karaszewski. Ma non fu sgradevole, perché hosubito adorato quella sceneggiatura, un’ottima sce-neggiatura. Dalla prima all’ultima pagina, ho esami-nato ogni riga, ogni scena, ogni parola per rendermiconto se ero in grado di portarla sullo schermo oppu-re no. Riesco molto facilmente a visualizzare tutte lesequenze, tutti i tipi di scena. È così che mi rendo con-to molto presto se corrisponde al mio senso dellarealtà. Preferisco sempre adattare una sceneggiatu-ra alla mia realtà personale.

MILOS FORMAN

La scrittura

In un film, che classicamente si dividein tre tappe, scrittura, riprese, mon-taggio, preferisco quello che c’è prima

della scrittura, quello stato in cui si cercal’inizio di un film, in cui si viaggia per tro-vare un paesaggio nel quale si sa che si po-trà fare il film... Ancora non c’è niente, ci so-no solo elementi frammentari, piccole sto-rie che si sono viste, o un paesaggio di cui cisi ricorda, o un attore con il quale si ha vogliadi lavorare. E poi tutto il resto, quello che vie-ne dopo, soprattutto la scrittura, mi fa vera-mente paura e non mi piace affatto. Non mipiacciono neanche le riprese, sono troppo an-goscianti. Al contrario, il montaggio è magni-fico. Ma fra il montaggio finale e questa libertàdel punto di partenza in cui ancora non c’èniente, io non sono a mio agio.

WIM WENDERS

Il soggetto

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 28OTTOBRE 2007

Billy Wilder diceva che, alla fine, unregista impiega il 98 per cento delsuo tempo a cercare i soldi per fare i

suoi film e il due per cento a lavorare. Nonaveva affatto torto: è più o meno così, pur-troppo. Continuo a constatarlo sulla miapelle, anche dopo tredici film. Potrei direche, per le otto settimane di riprese di La vi-ta e nient’altro, c’è stato prima un anno diricerche di coproduttori, di capitali; un an-no speso a cercare di convincere le perso-ne che il film che avete dentro è interes-sante. E a questo punto, tutte le ipotesi so-no possibili. Alcuni non vi rispondono,succedeva soprattutto all’inizio, ed è deltutto normale. Quando ho realizzato L’o-rologiaio di Saint-Paul o Che la festa co-minciho subito tutte le umiliazioni che unautore può subire.

Per esempio, un tipo che prende la sce-neggiatura e che, dopo aver sfogliato tuttele pagine, dice in vostra presenza: «Caspi-ta! Com’è grossa!» E il colloquio finisce qui.Da un produttore, oltre certamente all’a-spetto finanziario, mi attendo una sorta didialogo. Visto che non avviene spesso, so-no diventato il mio coproduttore. Ma an-che in questi casi ho bisogno di un dialogocon un produttore esterno, che somigliaun po’ a quello con gli attori. Un produtto-re è anche qualcuno che mi protegge e che,nel corso di questo percorso disseminatod’insidie e di umiliazioni, le sopporta al po-sto mio. O almeno con me. Perché ci si tro-va quantomeno in uno stato di fragilitàspesso terribile.

BERTRAND TAVERNIER

La produzione

Sul set ci sono gli attori, che sonocertamente importanti, ma il per-sonaggio chiave, il partner fonda-

mentale del regista è il direttore dellafotografia, l’uomo con il quale parla du-rante tutte le riprese. È con lui che biso-gna lavorare, preparare le scene, com-porre la luce… Sempre con quel dub-bio che solo il regista può risolvere: checosa chiedere al direttore della fotogra-fia? Ha di fronte una specie di alternati-va: gli dà delle indicazioni molto preci-se o, al contrario, lo lascia relativamen-te libero nei suoi movimenti e nei suoipropositi? Perché il direttore della foto-grafia è un compagno, un amico, ma èanche un nemico. Su un set, bisognastare attenti a tutte le persone che ci so-no intorno: i collaboratori danno al re-gista la sua forza, ma gliela tolgono an-che. Bisogna saper difendere le proprieidee, perché tutti le cambiano e le tra-sformano durante le riprese. Bisognaassolutamente mantenere una visionepersonale, altrimenti il film, alla finedei conti, non assomiglierà più al regi-sta. Se posso darvi un consiglio, eccolo:quando sarete registi, mantenete le vo-stre idee originarie!

OLIVER STONE

La fotografia

Il regista deve ottenere tutto quello cheè possibile da un attore professionista,e ancora di più da un attore non pro-

fessionista. Se sceglie un non professioni-sta, significa che è convinto che potrà ot-tenere da lui qualcosa in più. Ma bisognausare con lui maniere diverse, che posso-no essere dolci o violente. Si può arrivarefino alla collera, agli urli, talvolta a unoschiaffo. Ma questo succede anche con iprofessionisti! E con le attrici! Non poteteimmaginare il numero di registi che han-no preso a schiaffi le loro attrici! Ma que-sta forma di crudeltà è, direi, una crudeltàdel tutto “curativa”. Ho lavorato con unbuon numero di attori famosi, Gian MariaVolonté in cinque film, Rod Steiger in duefilm, Sofia Loren, Omar Sharif, Alain Cunyin tre film, Philippe Noiret, anche lui in trefilm, Vittorio Gassman o Max von Sydow.E credo di averli sempre aiutati perché liho sempre amati. Se non amo l’attore chescelgo non è possibile per me realizzareun film. Ho lavorato anche con giovani at-tori, Rupert Everett, Ornella Muti, o JamesBelushi nel mio ultimo film, DimenticarePalermo, nel 1990. È un formidabile atto-re americano, con una personalità moltoforte: seguiva esattamente quello che glidomandavo, ma nello stesso tempo sape-va servire il suo personaggio “sentendo-lo”, “provandolo” dandogli emozioniproprie. È spesso questo il problema sulquale l’attore e il regista entrano in con-flitto: quando il primo vuole dare al perso-naggio le proprie emozioni.

FRANCESCO ROSI

L’attore

Per me, il montaggio è sempre sta-ta la chiave del film. Quando si ta-glia, si dà un ritmo. Funziona o

non funziona; si ride o no; si ha paurao no. Il centro del bersaglio infatti èminuscolo e o lo si raggiunge, o non losi raggiunge: è il montaggio che per-mette di aggiustare il tiro. Tanto piùnel caso dei generi di “film a ritmo”,come la commedia, il thriller, la su-spense, secondo me i più difficili e i piùaccattivanti perché hanno a che vede-re con un certo stato di urgenza. Inquesto caso, al montaggio, cercate pertutto il tempo l’equilibrio tra mistero econfusione. È un controllo perma-nente delle informazioni che si daran-no e del tempo che si impiega a darle.È tutta una questione di tempismo.Passo molto tempo al montaggio e an-cora di più nel caso di un film comico.Fortunatamente, non faccio molticiac e non uso molti angoli di ripresaperché voglio avere tutte le possibilitàaperte. Le mie riprese consistono so-prattutto nel mettere gli attori a loroagio e nel non impedirmi niente almontaggio. Cerco di non complicar-mi la vita.

SYDNEY POLLACK

Il montaggio

Il cinema di montaggio non è maistato quello che mi interessava.Non era affatto quello che cerca-

vo… Avevo bisogno che le inquadratu-re durassero a lungo. Ogni volta che ve-devo un film di montaggio, forse erauna peculiarità del mio sguardo, avevobisogno che le inquadrature durasserodue secondi di più. È per questo che iprimi film di Antonioni mi hannoprofondamente segnato. L’azione ter-mina e nonostante ciò c’è qualche se-condo, qualche breve secondo in più,che qualsiasi montatore al mondoavrebbe tagliato, ma che Antonioni, neL’avventura per esempio, lasciava. Perme era la cosa più interessante. È perquesto che, quando ho incontrato An-tonioni per la prima volta, gli ho dettoche avevo appena comprato il mio bi-glietto per andare a rivedere L’avven-turaper la tredicesima volta. È vero cheall’epoca si diceva: «Andiamo a farciuna dose di Antonioni…» Non era il so-lo, c’era anche Orson Welles, con i suoimagnifici piani sequenza. C’era Mur-nau, in L’ultima risata, che iniziavacon un piano sequenza straordinario.Quindi, fin dall’inizio, ho optato per unrespiro diverso da quello che esiste neifilm di montaggio, e nella maggior par-te dei film cosiddetti “normali”. Cosache presupponeva un uso molto diver-so del tempo. Non è un caso se il cine-ma che voglio fare si può chiamare un“cinema del tempo”.

THEO ANGHELOPULOS

L’inquadratura

Da sempre il mio “lavoro” di spet-tatore ha influenzato il mio la-voro di regista, le mie esperien-

ze e le mie emozioni di spettatore han-no influenzato le mie scelte di regista.Ho visto molti film, e molti brutti film.Credo che vedere brutti film sia utile,permette di sviluppare il proprio sensocritico e di cercare di evitare nel pro-prio lavoro quello che non piace nel la-voro degli altri. All’inizio soprattutto,quando un regista gira i suoi primi film,è molto importante che sappia quelloche non vuole assolutamente dai suoicollaboratori: sceneggiatori, attori, di-rettore della fotografia, scenografo, re-sponsabile dei costumi, montatore,compositore, che, spesso per abitudi-ne, propongono soluzioni standard,idee di routine, molto “professionali”,senza tener conto della personalità delregista con il quale lavorano. È impor-tante per un debuttante sapere quelloche vuole fare e, ancora più importan-te, sapere quello che non vuole fareperché l’ha visto duecento volte in filmche non gli sono piaciuti e che sonoben lontani dal suo modo di sentire lecose e di raccontarle.

NANNI MORETTI

Il pubblico

IL LIBROSi intitola Lezioni di cinemae sarà in libreria dal 30 ottobre

Raccoglie le lezioni che dal 1991 a oggi

i grandi registi hanno tenuto in sedici

edizioni del Festival di Cannes. Il libro

(traduzione di Rosa Pavone, 207 pagine,

20 euro) è pubblicato da Il Castoro

In queste pagine anticipiamo alcuni

estratti (© 2007 Festival di Cannes

Editrice Il Castoro)

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La tisanieraI comandamenti della perfetta

tisana prevedono l’uso

di tisaniere acconce: bellissime,

colorate, articolate

come misteriose scatole cinesi

A infusione avvenuta,

il coperchietto si trasforma

in piattino dove appoggiare

la ciotolina bucherellata

a incastro con dentro le erbe

i sapori Digestive, stimolanti, drenanti, calmanti, ma soprattutto odoroseNate da cocktail di specie o monodedicate, offrono ristoronelle serate più fredde e promettono benefici a grandi e picciniAntiche come i saperi officinali, le pozioni magiche dell’autunnonon sono più soltanto un must stagionale ma un passaportosicuro per il benessere.Bere sano è di moda

cantissimo wasabi. I più avvertiti ne giustificavano presenza e consumocome passaporto alla salubrità di un cibo — il pesce crudo — con cui la con-fidenza era pochissima. Oggi la tisana di zenzero e miele — antinausea eantisettica dell’apparato digerente — è diventata un must dei dopocena.

Siamo dannati della dieta. Che c’è di meglio di una bevanda dimagranteper tentare di arginare le calorie di una supercena, azzerando i sensi di col-pa? La padrona di casa, con aria complice e discreta, la chiama “infuso dre-nante”: come se il risotto mantecato, il fritto di calamari e un trittico di mar-ron glacés fossero una questione di acqua trattenuta. In realtà, nella ricet-ta dell’erborista, al benemerito finocchio selvatico sono stati aggiunti fu-cus, che grazie allo iodio di cui è ricco favorisce il metabolismo dei grassi, el’altrettanto benedetta liquirizia, dagli effetti lassativi.

I protagonisti della nuova cucina hanno recepito benissimo il messag-gio. Le tisane di fine pasto — sempre più odorose, ricercate, complesse —vengono declinate a mo’ di gelatine e spume all’interno del menù. Il talen-tuoso Massimiliano Alajmo, Tre Stelle Michelin a un passo da Padova, van-ta tra i suoi piatti più riusciti e amati il rombo ai vapori di verbena con purèaspro di patate. Giovanni Grasso de La Credenza (San Maurizio Canavese)serve dei finti ravioli di mele verdi con infuso di cannella, il bergamasco Lu-ca Brasi una ricottina di capra con frutta passita e infuso di rosmarino, Gen-naro Esposito le candele con pesto di gamberi e infuso d’alghe.

Se volete saperne di più, a Igea Marina, Rimini, la signora delle erbe Re-nata Spinardi organizza corsi gastronomici sulle infusioni d’erbe per neo-fiti e chef. I ribelli della tisana virtuosa, invece, troveranno soddisfazione alMarco Fadiga Bistrot, Bologna, dove il dessert-culto è la crema leggera alrum con cialda croccante alla frutta secca e infuso di sigaro Winston Chur-chill. In fondo, anche il tabacco è una pianta a suo modo officinale.

Profumi in tazza

«Tremate tremate, le streghe son tornate!». Da sloganfemminista degli anni Settanta a gioco di travesti-mento nella notte di Halloween, (l’appuntamento èper mercoledì prossimo), la figura della strega passaindissolubilmente dalle pozioni magiche, oggi tra-mutate in fumanti tisane.

Trent’anni fa non si andava molto oltre la buona, vecchia camomilla,toccasana per grandi e piccini caro ai seguaci di Carosello («Nervi calmi,sonni belli con Espresso Bonomelli!»). Chiederne una tazza al ristoranteera come dare la patente di indigeribilità alla cena e insinuare più di undubbio sull’abilità del cuoco: ci si vergognava un poco, adducendo distur-bi pregressi o insonnie indomabili.

Lontane dalle pubbliche cucine, per scelta ribelle o intuito femminile, lepasionarie di allora cominciarono a recuperare la tradizione degli infusi be-nefici mutuati dalla tradizione contadina: ben prima dei tè verdi e degli in-trugli miracolanti che oggi affollano gli scaffali, calde scodelle di finocchio& liquirizia accompagnavano chiacchiere leggere e discussioni accanite.

L’arrivo della cucina d’Oriente sulle nostre tavole e la veicolazione delleinformazioni gastronomiche da una parte all’altra del mondo hanno sdo-ganato le tisane dal purgatorio delle bevande tristanzuole, promuovendo-le a veri e propri compendi del buon mangiare. Con il risultato di renderepopolari erbe, radici e frutti confinati nei saperi dei botanici o affondati nel-la memoria popolare.

Alzi la mano chi conosceva lo zenzero dieci anni fa: nessuno o quasi, aldi là dei primi appassionati di sushi e sashimi. E comunque, sempre con-siderandolo un dettaglio esotico (e non sempre piacevole, colpa della ma-rinatura agrodolce che dilata un sapore per noi inconsueto), insieme al pic-

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28OTTOBRE 2007

LICIA GRANELLO

TisaneLe erbe buone delle streghe

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 28OTTOBRE 2007

Sono andato nel bosco dei castagni gi-ganti, così grandi che nemmeno diecipersone riuscirebbero ad abbracciarli,

avranno cinquecento anni. Mi piace pensar-li come testimoni silenziosi ma molto pre-senti di un lungo arco di storia. Ho raccoltoqualche chilo dei loro frutti, sono tornato acasa e li ho cucinati sul fuoco. Ho preparatouna crema delicata di zucca di Hokkaido cheho profumato con della noce moscata e con-dita con della menta che raccolgo sponta-nea. Ho accompagnato con i formaggi d’al-peggio che stagiono nella mia cantina e cheporto a tavola nelle occasioni importanti.

È stata una vera festa e come in ogni festaeccedo nella quantità. Io ero felice, il mio sto-maco un po’ meno: si prospettava una notta-ta movimentata dagrassi sogni. Un caroparente valtellinese miha regalato una buonamanciata di erba Iva,una pianta spontaneache cresce sopra i due-mila metri, dal gustoamaro ma straordina-ria per la digestione. Lamenta mi ha aiutato atrovare piacere, dopodieci minuti dall’averbevuto il mio decotto imiei sensi di colpa sonoscomparsi e ho dormito benissimo.

A casa ho una piccola collezione d’erbe es-siccate: in parte le raccolgo, come il tiglio checresce sul fiume vicino alla mia casa o la ca-momilla, quando la trovo. Le altre le acquistobiologiche. Sia la cultura del biologico chequella delle tisane è una prerogativa pretta-mente europea: se ne trovano quindi moltis-sime e di qualità straordinaria. Per appren-dere i loro effetti benefici, consulto Krut undUkrut (“Erbe e malerbe”), un libro scritto dalparroco Kunzle, erborista vissuto in Svizzeraalla fine del Diciottesimo secolo, purtropponon ancora tradotto in italiano. Su questo te-ma, e sulla tradizione antroposofica, ci sonocomunque molti testi scritti da Rudolf Stei-ner e dai suoi confratelli.

Mi piace anche scoprire erbe poco comu-ni come il levistico, che riesce ottimo nel miorisotto di verdure, la lavanda che sposo a unraviolo al vapore farcito di cavolo nero, il ti-mo limone per una crema catalana abbinataad una torta di mele caramellata. Altrimenti,

in grande quantità, aneto, dragoncello,cerfoglio, erba cedrina, erba cipollina, men-ta, timo e rosmarino. Quest’ultimo lo uniscoquasi sempre alla scorza di limone grattugia-ta, secondo un binomio che mi caratterizza.Tranne la menta e il timo, le erbe che utilizzoper le tisane non le utilizzo in cucina e vice-versa. La differenza fondamentale deve esse-re comunque che in cucina vanno utilizzatedelle erbe fresche, per le tisane quelle essic-cate. La cucina moderna va associata alla fre-schezza, la tisana al tepore.

Considero gli infusi un toccasana. Nell’ar-co della giornata ne bevo almeno tre: a cola-zione, dopo pranzo e al pomeriggio nellapausa del lavoro. L’attività dei reni si riducedopo le diciassette: da quell’ora come regola

non ne bevo più.Le infusioni le prepa-

ro, sia nella casa di Mila-no che al ristorante conacqua di sorgente dimontagna. Nella casaticinese basta quella delrubinetto. L’acqua scel-ta deve essere la più de-licata possibile, cosìogni gusto potrà espri-mersi al meglio. Portol’acqua a novanta gradie vi lascio le erbe tre mi-nuti, il tempo giusto per

distinguere profumi e caratteristiche, man-tenendo un gusto rotondo e delicato. Dopo icinque minuti, la tisana diventa curativa edeve essere bevuta per uno scopo preciso.Nel primo caso non va zuccherata e non vaaggiunto limone, altrimenti poi tutto si asso-miglia, nel secondo il suo effetto può essererafforzato dal miele. In ogni caso non va maibevuta bollente, sarebbe uno shock per l’or-ganismo.

Se le bevo per piacere, scelgo istintiva-mente tra le mie preferite: tiglio, erba cedri-na, melissa e verbena. Le tisane curative, in-vece, seguono abbinamenti precisi: l’euca-lipto per il raffreddore, i semi di finocchio perla digestione, la menta per la lucidità, la ca-momilla per rilassare. Del resto, ognuno dinoi, se impara a osservarsi, diventa un ottimomedico di se stesso, e le tisane lo aiutano, a ta-vola e nella vita di tutti i giorni.

L’autore, svizzero, è chef-patron del ristorantemilanese “Joia”, unico locale vegetariano

in Italia a fregiarsi della stella Michelin

PETER LEEMAN

LE TIPOLOGIE

DigestivaBella, buona e rara, la genziana

ha una radice che, seccata,

è uno stimolatore gastrico

Sue abituali compagne

di tisana: liquirizia, verbena

e carciofo. La salvia ha azione

carminativa, lo zenzero

funge da anti-nausea

AntitosseIl trittico rosa canina-malva-

eucalipto ha poteri antivirali,

espettoranti e antibatterici

esaltati in tisane e decotti

da consumare caldi. Timo,

propoli e pino mugo sono

antibiotici naturali, il basilico

vince raffreddore e sinusite

DrenanteLe tisane anti-gonfiore sono

tra le più gettonate. Erba

regina il finocchio, dalle

qualità detossinanti e anti-

fermentative. In fitoterapia

si usa la varietà selvatica,

spesso unita a asparago,

lavanda, rosmarino e ortica

RilassanteNon solo camomilla

per le tisane anti-agitazione

Valeriana, melissa e passiflora

sono sedative e antinervine

Il biancospino, coadiuvante

contro spasmi nervosi,

tachicardia e stanchezza,

si usa per bagni rilassanti

LE PREPARAZIONI

itinerariLa trentinaEleonoraCunacciaè un’appassionataricercatricedi erbe e frutti

spontanei, che raccoglietra i boschi e i pratid’alta quota. A valle,nell’officina botanica,il fratello chef Giovannirealizza infusioni, elisircreme e composte

Costruita intorno

al cinquecentesco santuario

di San Vigilio, si affaccia

a mezza costa

in Val Rendena. Intorno,

il parco dell’Adamello-

Brenta con i suoi pascoli

d’erbe selvatiche. A pochi chilometri Pinzolo

e Madonna di Campiglio

DOVE DORMIRELOCANDA MEZZOSOLDO

Località Mortaso

Tel. 0465-801067

Mezza pensione da 55 euro

DOVE MANGIAREMILDAS

Via Rosmini 7, località Vadaione Sud

Tel. 465-502104

Chiuso a pranzo e lunedì, menù da 32 euro

DOVE COMPRAREPRIMITIVIZIA

Frazione Borzago 93

Tel. 0465-801373

Spiazzo (Tn)Appoggiata sulle colline

davanti al mare a sud

di Ragusa, l’antica Sicla

oltre all’area balneare, vanta

una riserva naturale

Il clima straordinario

e la terra fertile ne fanno

luogo ideale per coltivare erbe anche insolite,

come la dolcissima stevia

DOVE DORMIRELA MAGNOLIA B&B

Via Pacini 26

Tel. 0932-833514

Camera doppia da 50 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREPOMODORO

Corso Garibaldi 46

Tel. 0932-931444

Chiuso martedì, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREGLI AROMI

Via Berlino 1, Cava D’Aliga

Tel. 0932-851734

Grazie al clima temperato

e all’aria fine, la cittadina

situata ai piedi

dell’Appennino parmense

prospera grazie alle cure

salutari e all’ambiente

rilassante. Il giardino

botanico raccoglie quasi cinquecento varietà

di piante aromatiche e officinali

DOVE DORMIREAGRITURISMO ANTICA TORRE (con cucina)

Via Case Bussandri 197

Tel. 0524-575425

Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREGIOVANNI

Via Centro 79, Alseno

Tel. 0523-948304

Chiuso lunedì e martedì, menù da 40 euro

DOVE COMPRAREGIARDINO GAVINELL (con cucina e camere)

Località Gaviana 138

Tel. 0524-578348

Salsomaggiore (Pr) Scicli (Rg)

DecottoIl modo migliore per estrarre

le sostanze officinali da parti

dure delle piante – radici,

gambi legnosi, semi interi –

è portarle a bollore con acqua

oligominerale. La cottura

con coperchio assicura

la conservazione dei principi

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SciroppoLa base di acqua e zucchero

in soluzione concentrata

(rapporto 1/1,75) o di alcol

viene addizionata con erbe

e portata a ebollizione fino

a ottenere consistenza densa

Lo zucchero può essere

sostituito in parte con il miele

MacerazioneIl processo di estrazione lenta

in liquidi vari – acqua, olio, vino

– può durare da alcune ore

a giorni interi. Quelle in alcol

si chiamano tinture. Si filtra

e si conserva l’estratto al buio

Tra le ricette: oli aromatizzati

e curativi, aperitivi, amari

InfusoSi versa l’acqua bollente

sulle erbe in un recipiente

non ferroso (ceramica o cotto)

e coperto, lasciando riposare

dieci minuti. Poi, filtrare

in un colino o in una garza,

premendo col cucchiaino

Si può addolcire con miele

Cercando i segreti

del bosco

Repubblica Nazionale

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le tendenze Nei primi decenni del Novecento erano il simbolo dell’eleganzae del lusso femminile, oggi tornano ad ornare abiti, scarpee accessori con la stessa levità di un tempo e un pizzicodi trasgressione in più. Che siano nere o colorate, di struzzoo sintetiche non ha importanza, ciò che conta - secondogli stilisti - è che donino al guardaroba un po’ di allegria

Dettagli di moda

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28OTTOBRE 2007

Nei primi anni del “secolo breve” erano la regola, il simbolo dell’eleganza e dello chic. Le donne sma-niavano per averle su abiti e accessori, gli uomini le guardavano con desiderio, annusando il sim-bolo della femminilità più leggiadra. Molto tempo dopo Gianfranco Ferré disse: «Vivacizzano i so-gni, esprimono l’armonia del dettaglio, un ideale di bellezza che vive nel particolare». Ed ecco a voile piume che, con i primi freddi, tornano ad ornare abiti, accessori e cappotti. Mai come quest’an-no, romantiche ma audaci. Quasi un omaggio alle donne che, stanche della routine, sperano prima

o poi di spiccare il volo. Il significato delle piume nel subconscio, infatti, corrisponde al desiderio d’evasione. Nona caso le piume si affermarono all’inizio del Novecento, periodo caratterizzato da una rivolta femminile: quellanei confronti del corsetto. Il massimo del loro splendore arrivò negli anni ruggenti raccontati da Francis Scott Fitz-

gerald. Era il momento dell’esplosione della couture parigina con Paquin, Doucet, Lanvin, Patou,Chanel e delle grandi muse come Isadora Duncan, Mata Hari e Sarah Bernhardt. Ma anche dell’in-fluenza orientale di caftani, tuniche, veli e turbanti. A Londra, in occasione di un’asta per sarti, le piu-me furono vendute a peso. Ben diciotto chili, con grande scandalo degli ornitologi. Nelle feste scor-revano fiumi di champagne e le mise delle dame erano un intreccio di ricami e decori. Piumaggi distruzzo ballavano a ritmo di musica nelle scene del Moulin Rouge.

Non solo libertà però. Le piume sono anche simbolo di potere e di ricchezza, di regalità e di sacro.Chissà quante di queste recondite simbologie erano note ad attrici come Marlene Dietrich, GingerRogers e Jean Harlow. Donne che, in fatto di piume, osarono l’inimmaginabile: boa, manicotti e ad-dirittura pellicce completamente piumate. Fatto sta che contribuirono a creare il mito. A quel puntola moda se ne impadronì senza remore. Sono passati sessant’anni da quando, nel 1947, Christian Diorfondò la sua casa di moda. Furono proprio le sue prime creazioni, pensate per una donna diva più ditutte le altre, che influenzarono la femme fatale degli anni Quaranta. Le creature di Dior indossava-

no cappelli ornati da piume che ombreggiavano il viso. Quegli stessi decori che ora tornano d’attualità per manodel suo erede John Galliano.

Le piume non furono amate solo dai grandi couturier. Anzi. Soavi e leggiadre apparivano nelle stampe di Tou-louse Lautrec e nelle pagine più appassionate di Gabriele D’Annunzio. Hanno trionfato nelle divise dei bersaglie-ri con il classico cappello nero a tese larghe, ornato da pennacchi di gallo cedrone, e nella feluca abbellita da piu-me verdi di struzzo.

E poi, a fase alterne, sono riapparse come protagoniste del fashion. Negli anni Ottanta hanno avuto un periododi gloria, se pur in una versione più “acida”, e oggi tornano impudicamente come nei mitici Venti. Non c’è stilistache non abbia scelto di riportarle in passerella, spesso non solo come ornamento, ma quale materia prima pergonne, giacche e cappotti. Magari applicate sulle borse e nei gioielli, incastonate nelle chiusure delle scarpe. Peraugurare a tutte le donne un inverno leggero e poter fingere, grazie a un abito o a un dettaglio, di volare lontano.

Così le donnesognano di volareIRENE MARIA SCALISE

MOULIN ROUGESembra arrivare

dal Moulin Rougela borsa di Fendi

con catena preziosae chiusura pregiata

VEZZI DA STARPiccola e vezzosa

la borsina di Ferragamoin piume di struzzo

con manico di lucertolaPer portare con sé poche

cose, magarisolo il cellulare

QUALITÀ NASCOSTEBorsa di raso con inserti

in pelle e piume violaper Marni. Per le piùsportive nasconde

una tracolla,perfetta da abbinare

a un paio di jeans

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 28OTTOBRE 2007

Èilpiù famoso dramma del teatro No giapponese. Un pescatore trova per caso un vestito di piume (Hagoromo), si in-namora della proprietaria, e la sposa: ma, dopo qualche anno, la moglie trova l’abito in un armadio, lo indossa e vo-la via (Se-Ami Motokijo, 1400 c.). Anche nel carme antico-islandese di Völundr, tre principesse, avvolte da piume dicigno che le fanno volare, si posano in riva al mare, dove sposano tre fratelli, deponendo le piume: passano così ot-to anni, al nono le donne volano via. L’abito di piume, il lievissimo chimono di Banana Yoshimoto, ora (Feltrinelli2005) rovescia, con una scrittura di cristallo e molta amarezza, questo sogno femminile di diserzione: abbandona-

ta dall’uomo sposato che ha amato a Tokyo per otto anni, Hotaru torna nel villaggio dell’infanzia a ripescare la sua integrità. Tra i maschi, la piuma non è leggerezza e fuga, ma sintomo di potere: “Tacchi rossi e piume” sono i segni degli uomini di cor-

te (Vieux habits vieux galons, abiti e galloni del tempo che fu, canzone di Jean Pierre de Béranger). A Versailles il segretario Ro-se aveva «il privilegio della piuma» — cioè della penna d’oca: poteva contraffare la scrittura delre Sole (Saint-Simon, anno 1701 delle Memorie). E tra gli indiani pellerossa, solo il capo siouxCavallo Pazzo, biondo come un viso pallido, trascurava le decorazioni di piume, insegna del co-mando (Mary Sandoz, biografa nel 1942 di Crazy Horse). Tutto il maledettismo della scapiglia-tura è riassunto da Emilio Praga nell’assenza di piume: «Noi siamo figli di padri ammalati / Aqui-le al tempo di mutar di piume», (Penombre, 1864). Semmai l’oscillazione del simbolo è tra pre-dominio sociale e potere dell’intelligenza.

Il pifferaio magico che con la sua musichetta “allegra” libera la città dai topi, e ne trascina poicon sé anche tutti i bimbi, è «un buffo omino con scarpe a punta e cappello con la piuma»(Grimm, Saghe germaniche, 1818). L’incantatore è un tipo strampalato; nel 1236 della sua ap-parizione ha un abito multicolore (Pied Piper); nell’Ottocento dei Grimm è diventato un origi-nale per via delle scomode scarpe appuntite, inadatte al lavoro, e del cappello piumato: spie ari-

stocratiche. Nella storia, è stato un reclutatore che conduceva i giovani di Hamelin (Bassa Sassonia) a colonizzare la Germa-nia orientale; all’epoca di Grimm, il pifferaio già si colora di una superiorità artistica. Corneille invece nel 1644 (Il bugiardo, III,3) ancora pensa che le ragazze preferiscano un militare a un intellettuale: «il a jugé soudain/ qu’une plume au chapeau vousplaît mieux qu’à la main» (ha subito pensato che una piuma sul cappello vi piaccia più di una plume-penna d’oca — in mano).

La più leggera delle piume mentali è in Mallarmé: il poeta del disagio e della cancellazione del mondo reale nel suo poema-disegno Un colpo di dadi (1897) rappresenta un naufragio; sola resta a volteggiare sulla tempesta (e su un’intera pagina delpoema) la piuma del cappello nero di Amleto, il principe del dubbio. Più che mai la piuma rappresenta l’estrema rarefazionedel pensiero, che lancia — come un colpo di dado — il suo sogno di una costellazione.

La piuma è un peso nel Libro dei mortidell’Antico Egitto: nel solenne giudizio del defunto, il cuore, sede della coscien-za, è posto su un piatto della bilancia; sull’altro, una piuma di struzzo (XVIII dinastia). Leggere di cuore, certe dame del-l’Occidente usano le piume della civetteria, orientando le frecce di Eros: nella prima aria dell’opera buffa La Tancia, trat-ta da Jacopo Melani dalla commedia del Buonarroti il Giovane (1612) Isabella canta: «Han le piume acuti strali».

SENZA FIATOPer chi vuole lasciaresenza fiato c’èil cappotto in marabùdi Bottega VenetaCapo di un’eleganzaindimenticabileche riporta al primoventennio del Novecento

PENSANDO ALLE HAWAIIMerita l’Oscarper la piuma più colorataquesto abito di KenzoSembra appena uscitodal guardarobadi una fanciullahawaiana. Adattoper una serata di follie

INSIEME VINCENTEÈ abile nel combinaregli stili la donnache sceglie le piumein versione Prada. Giaccasevera da uomo, bordatadi piume nere al puntovita e gonna in pellicciaarancio: insieme originale

DENTRO LA FIABASembra uscitada una fiaba, magariquella di Biancaneve,la dama che indossail soprabito-mantellapiumato di ChanelL’effetto è opticaldegno dell’haute couture

SU LA TESTASembra di rivederela testa di Mistinguette,eroina delle FoliesBergère, nel cappellopiumato di Jean PaulGaultier. Il lussodel decoro è concessosolo nel pennacchio

UNA CLIP GIOIELLOMisura pochi

centimetri la borsa

di Braccialini

per la sera,

ma l’effetto

è assicurato. È arricchita

da una chiusura

gioiello in argento

e da una catena

intrecciata con fili

dello stesso rosa

cipria delle piume

ANNI QUARANTAMeravigliose piume blu elettrico

maculate in nero come il raso

che dà alle scarpe da sera, firmate

Mambrini, un tocco di antico

glamour. Effetto anni Quaranta

CON LE ALI AI PIEDIAnche la ballerina diventa chic se,

come viene proposto in questo

modello Tod’s in suede nero,

è arricchita con cuciture a contrasto

e con una piuma piccola ma d’effetto

IL PORTAFORTUNAPer un inverno

all’insegna

del total look

anche il portachiavi

si arricchisce

di una vezzosa

piuma. Lo propone

Carpisa che lo abbina

a un fiocco di raso

e a ciondoli portafortuna

ANTICHE SCENELa piccolissima spilla

da caccia firmata

Gucci sarebbe

perfettamente inserita

in un quadro inglese

dell’Ottocento

Oggi è pensata

per chi non vuole

stupire con i soliti

eccessi ma preferisce

l’eleganza fatta

di dettagli ineccepibili

Il pensiero leggerotra realtà e poesiaDARIA GALATERIA

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50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28OTTOBRE 2007

l’incontroNon solo cinema

VIENNA

«Il passato? Ho com-messo due gravi errori:uno nella vita pubbli-ca, l’altro in quella pri-

vata». Jane Fonda si ferma un attimo, siaccarezza i capelli, scuote la testa. Sia-mo nella suite 510, quinto piano del-l’Hilton di Vienna, la città dove l’attri-ce americana è stata invitata come stare protagonista assoluta della Viennale,il festival di cinema; ed è qui che rac-conta — in un’intervista esclusiva perRepubblica — la sua vita: quella di ieri,star di Hollywood e militante politica,quella di oggi, «di una donna che com-pie settanta anni tra meno di due me-si», ma che si sente ancora «nel pienodella vita». E che non si tira indietro nelparlare della sua carriera, della sua fa-miglia, dei suoi ideali, dei suoi amori edei suoi progetti nella terza età.

«Perché non partiamo proprio dal-l’oggi? Più che terza età io preferiscochiamarlo il terzo atto, in fondo sonoun’attrice. Quando inizia il terzo attouna delle cose di cui ti rendi conto è cheil tempo diventa limitato; la cosa peg-giore è fare finta di niente, illudersi cheil terzo atto non sia iniziato, negare chedi fronte a noi, in tempi sempre più rav-vicinati, ci sia la morte. Hallo morte, ionon ho paura di te! Questo mi dicoadesso, ogni giorno, in ogni momentoimportante della mia vita. Pensi alMessico, nella cultura di quel paese,nelle sue tradizioni, e non solo religio-se, la morte è sempre presente, è un ap-puntamento quasi vitale. Se sai cosafare, se hai voglia di fare, entrare nelterzo atto è bello. Quando si pensa allamorte ci si domanda quali siano i rim-

chief” risponde senza esitazione: «As-solutamente sì». L’impegno politico loha nel sangue, glielo ha trasmesso il pa-dre, il grande attore Henri Fonda, im-pegnato con i democratici sin dai tem-pi di Franklin Delano Roosevelt. «Sonosicura che verrà scelta Hillary, ma secosì non fosse andrò a votare lo stessoe voterò per il candidato democratico,chiunque esso sia. Ho sempre votatodemocratico, come ha sempre votatodemocratico mio padre, e continueròa farlo».

E l’Iraq, cosa pensa della guerra inIraq “Hanoi Jane”? «Sono contraria,ovviamente, è una guerra che non sidoveva fare e che sta andando in mododisastroso. I paragoni con il Vietnam?Ci sono tante differenze, ci sono anchetante somiglianze. Pensi al draft, allaleva. Allora era obbligatoria, e anche seper i “figli di papà” era più facile evita-re di andare a combattere, quasi tuttele famiglie americane ne furono coin-

pianti, che cosa uno avrebbe o nonavrebbe dovuto fare nella propria vita.Ecco, io non voglio avere rimpianti, hoancora il tempo per fare tante cose. Evoglio farle».

Icona pacifista negli anni Settanta(quelli della guerra in Vietnam), attriceimpegnata, femminista militante. Co-sa è diventata oggi Jane Fonda, credeancora negli ideali di un tempo? L’at-trice sorride, poi scandisce con calmale parole: «Prima mi ha chiesto dei mieierrori passati, ora glieli dico. Ce ne so-no due che vorrei non avere mai fatto.Il primo fa parte della mia vita pubbli-ca, la vita di Jane Fonda attrice, attivi-sta, femminista. Quando andai ad Ha-noi, in piena guerra del Vietnam, mi fe-ci fotografare accanto alla carcassa diun bombardiere americano abbattu-to. Già, “Hanoi Jane”, la “nemica d’A-merica”, la traditrice. Credo che fossegiusto andare ad Hanoi, del resto nonfui la sola in quegli anni, però quella fo-to non la dovevo proprio fare. Fu un er-rore, un errore grave, diedi l’impres-sione di essere contro i nostri soldati,contro quelli che morivano laggiù inVietnam». E il secondo, riguarda la suavita privata? «Sì, il secondo errore gra-ve che ho commesso riguarda mia fi-glia, la mia prima figlia. Potevo, dove-vo essere una madre migliore per lei,invece ero troppo presa dalla mia car-riera, dal mio impegno politico. Per leinon sono stata una buona madre;adesso ci siamo riavvicinate, viviamoad Atlanta, nella stessa città, lei ha duefigli, cerco di essere almeno una buonanonna. Non è mai troppo tardi per cer-care di riparare ai propri errori; però“Hanoi Jane” e la “cattiva madre” sonodue crucci che mi porterò dentro finoalla morte».

Si è parlato molto di una Jane Fondache ha trovato un nuovo equilibrio nel-la religione. Una conseguenza dell’ini-zio del terzo atto? «Io credo che quan-do le donne invecchiano diventinoinevitabilmente più spirituali, non ne-cessariamente religiose. Ci si doman-da: perché sono qui, c’è qualcuno,qualcosa più grande di noi? Sono do-mande metafisiche; la religione, le re-ligioni danno alcune risposte. In cosacredo? Sento che c’è un essere divino,qualcosa di superiore. Non importa selo chiamiamo Dio, Allah, Budda, sonosicura che non ama le guerre, che nonama i fondamentalismi. In diversi mo-menti della storia i fondamentalisti diogni tipo, di ogni religione, si sono resiresponsabili di cose atroci. Anche Ge-sù, se tornasse adesso sulla Terra, nonapproverebbe molte delle cose chevengono fatte in suo nome».

Terzo atto e spiritualità non le han-no fatto perdere però la passione poli-tica di un tempo, quella non sembraaverla abbandonata. Se le si chiededelle prossime elezioni per la CasaBianca quasi urla «Hillary!», se le si do-manda se l’America è pronta per avereuna donna come “commander in

volte. Oggi abbiamo un esercito pro-fessionale, ma in qualche modo il draftè rimasto: è quello che io chiamo la “le-va della povertà”, perché solo i più po-veri, spesso immigrati, ragazzi e ragaz-ze che non hanno alcun futuro davan-ti, si arruolano. In Vietnam non c’era laCnn, ma le tv e i giornali di allora rac-contavano più liberamente la realtà diquella guerra. Oggi, più che i media uf-ficiali, quello che avviene in Iraq ce loraccontano i blog, i documentari. InVietnam non c’erano donne soldato,questa è un’altra grande differenza,ma per chi tornava a casa, allora comeoggi, i problemi sono gli stessi. Bush?Vuole sapere cosa penso del presiden-te americano? Mi piacerebbe incon-trare George W. Bush in Texas, magariin uno di quei grandi barbecue che sifanno in quello stato. Vorrei parlarecon lui, lo inviterei a venire con me inAfrica per mostrargli le donne e i bam-bini che muoiono, fargli vedere i risul-tati della sua politica in giro per il mon-do. Bush è un cristiano, anche lui deveavere una sua umanità».

Quando si parla di politica o di guer-ra Jane Fonda risponde con il viso se-rio, soppesando le parole. Cambia at-teggiamento se le domande riguarda-no il cinema, la sua carriera, il suotrionfale ritorno sugli schermi dopoquindici anni di assenza (in passatoaveva anche promesso che non avreb-be recitato mai più) prima con Monsterin Law e quest’anno con Georgia Rule.Racconta di Klute, uno dei film cheama di più, il turning point, la svoltadella sua carriera di attrice: da bambo-la nelle mani di Roger Vadim ad attricee donna impegnata. «Alan Pakula eraun regista talentuoso. Girando quelfilm, dove interpreto la parte di unacall-girl, una prostituta d’alto bordo,mi sono sentita veramente rinascere».

È a Parigi però che nasce la Jane Fon-da «attrice, attivista, femminista», co-me le piace definirsi. «Sì, ero in Francianel 1968, avevo quasi trent’anni ed eroincinta. Lì ho conosciuto Simone Si-gnoret: è lei che mi ha insegnato adamare i film impegnati, è lei che mi haspiegato la storia del Vietnam, gli erro-ri dei francesi che gli americani anda-vano ripetendo. A Parigi ho conosciu-to Sartre e Simone de Beauvoir, decinedi registi, attori ed intellettuali checontestavano il mio paese, tanto chemi trovai spesso sulla difensiva: noncapivo perché ci fosse tanto astio versol’America. Quando sono tornata negliStati Uniti ero una persona diversa,cambiata. Quando Alan mi chiamò pergirare Klute non mi sentivo all’altezza;ho passato ore, giorni a frequentare leprostitute di Manhattan, ma ero con-vinta di non farcela». Per il personaggiodi Bree Daniel, la call-girl, Jane Fondavince il suo primo Oscar: «Klute è statol’inizio di una nuova carriera, poi sonovenuti altri film che amo molto, comeComing Home, uno dei film più belliche parlano del Vietnam, e non lo dico

io». Per Coming Home, ottiene il suo se-condo Oscar, un terzo lo sfiora con Ju-lia. Poi nel 1981 quello che sarebbe sta-to per quindici anni il suo ultimo film,The Golden Pond. «Il film girato conmio padre. Non potrò dimenticarlomai. Fu difficile, fu emozionante, fucommovente. Per quel film mio padrevinse il suo unico Oscar; la statuetta laritirai io, lui era ormai troppo malato,sarebbe morto pochi mesi dopo». Sicommuove ancora parlando del pa-dre, e di quel film in cui Henry e Jane re-citavano in qualche modo anche lapropria vita privata.

«Se oggi a Hollywood c’è una miaerede? Ci sono tante brave attrici. Ma èil mondo del cinema e anche il modo digirare i film che è cambiato. Oggi un re-gista non sta più nella famosa sedia,dietro la macchina da presa, mentrereciti praticamente non lo vedi mai. Epoi a Hollywood sono cambiate le cele-brities, i paparazzi vanno in giro a foto-grafare ragazzine che magari non han-no mai girato un film. La cosa peggiorecredo che siano i costi. I film sono trop-po cari, escono il venerdì e se il sabatonon hanno avuto successo la domeni-ca già li tolgono dalla circolazione.Non si dà tempo a un film di essere ca-pito, accettato. Gli italiani? Mi piaccio-no i grandi, Fellini, Antonioni, tra gli at-tori Mastroianni. Lei non me lo chiedema glielo dico io: dell’Italia mi piace damatti il cibo. Quando sono in Americaspiego sempre ai miei amici che la cu-cina italiana negli States non ha nulla ache vedere con quella che si può gusta-re in Italia». Il futuro? «Fra meno di duemesi compio settanta anni. Sto scri-vendo le mie memorie, dopo tre matri-moni ho una vita ricca e felice con ilmio compagno, amo ancora il sesso esono pronta per nuovi progetti. La vec-chiaia è bella».

In cosa credo? Sentoche c’è un esseredivino. Non importase lo chiamiamo Dio,Allah o Budda,sono sicurache non amale guerrené i fondamentalismi

Settant’anni tra due mesi, una vitadi battaglie e di successi arrivataal punto che lei, teatralmente,battezza “terzo atto”. Per spiegareche non vuol dire tirarsi indietro

ma fare, fare, farecon più consapevolezzanella carriera,nella famiglia,nell’amoreMa è anche il puntodove ci si guardaindietro e dove l’attrice-

attivista-femminista si confessae racconta i due errori di gioventùche volentieri cancellerebbe

ALBERTO FLORES D’ARCAIS

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