omenica CONCITA DE GREGORIO eENRICO FRANCESCHINI...

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DOMENICA 8 APRILE 2007 D omenica La di Repubblica BONO S piegare la fede è stato sempre difficile. Come si può spiega- re un amore, una logica racchiusa nel cuore dell’universo quando il mondo è messo così male? E la poesia contrap- posta alla verità delle Scritture? Il libero arbitrio ci ha forse crocefisso? E che dire dei personaggi equivoci che abitano nel tomo chiamato Bibbia e che sostengono di sentire la vo- ce di Dio? Ci vuole un interesse molto forte, ma Dio ce l’ha? Spiegare la fede è impossibile… La visione oltre il mondo visibile… l’istinto oltre l’intelletto… Con la fede suoni un accordo, e quello dopo viene dal cielo… Uno degli autori dei Salmi era un musicista, un arpi- sta i cui talenti erano richiesti a palazzo perché erano l’unica medicina in grado di placare i tormenti di Saul re di Israele, un tipo lunatico e in- sicuro. Un pensiero che ancora oggi ispira e spiega perché Marilyn ab- bia cantato per Kennedy o le Spice Girls alla corte del principe Carlo… A dodici anni ero un grande ammiratore di Davide, per me era come un amico… Come può esserlo una pop star. Le parole dei Salmi erano tanto poetiche quanto religiose e Davide era una stella. Era un perso- naggio drammatico perché, prima di esaudire la profezia e diventare re d’Israele, si beccò un bel po’ di bastonate. Costretto all’esilio, finì in una caverna in un’anonima città di confi- ne ad affrontare il suo ego in frantumi e l’abbandono di Dio. È qui che la storia si fa interessante, è qui che Davide ha composto il suo primo salmo, un blues. Ecco, i Salmi sono proprio come il blues. (segue nelle pagine successive) la storia Il club delle mamme solitarie CONCITA DE GREGORIO e ENRICO FRANCESCHINI spettacoli I settantenni ribelli di Hollywood IRENE BIGNARDI e SILVIA BIZIO le tendenze Mobili-merletto per case leggere MASSIMILIANO FUKSAS e AURELIO MAGISTÀ l’incontro Caterina Caselli: torno a cantare DARIO CRESTO-DINA cultura Il male oscuro di Umberto Saba MAURIZIO CROSETTI E FRANCO MARCOALDI il racconto Holmes, lo scienziato del crimine CORRADO AUGIAS MORDECAI RICHLER I l Dio perfido che si diverte a prendersi gioco di Giobbe, se non al- tro per una scommessa con Satana, senza mai menzionare la po- sta in gioco, non compare in scena se non quasi a conclusione della storia. Annunciandosi come la voce in mezzo alla tempe- sta, lo spaccone celestiale ruggisce: «Dov’eri tu quando io getta- vo le fondamenta della terra?» (Gb 38,4). E rincarando la dose, continua: «Puoi tu unire assieme i legami delle Pleiadi, o sciogliere le ca- tene di Orione?» (Gb 38,31). Il Dio che assecondò il supplizio di Giobbe è stato il primo fautore della pulizia etnica. Quando gli ebrei giunsero al di qua del Giordano, dopo aver vagato per quarant’anni nel deserto, Mosè consegnò loro un messaggio di Jahvé per sterminare gli abitanti del paese di Canaan: «Non lascerete niente che respiri in vita» (Dt 20,16). Jahvé è un Dio potente, capriccioso, vendicativo, crudele, geloso, ma anche burlone, il primo di una lunga generazione di umoristi neri ebrei, fino ad arrivare al nostro Franz Kafka. Molto prima di prendersi Giob- be come zimbello, Dio si era fatto una grassa risata celestiale con Abra- mo, un altro modello di uomo retto. «Prendi tuo figlio» ordinò il Signo- re ad Abramo «il tuo unico figlio, colui che ami, Isacco, e va’ nel paese di Moriah e là offrilo in olocausto sopra uno dei monti che io ti dirò» (Gn 22,2). E il vecchio Abramo, il primo di troppi ebrei servili e striscianti, mise il basto all’asino e fece come gli era stato detto. Edificò l’altare e vi accomodò la legna; legò Isacco suo figlio e lo depose sull’altare. «Ecco il fuoco e la legna» disse Isacco «ma dov’è l’agnello per l’olocausto?». (segue nelle pagine successive) FOTO FOTOTECA GILARDI Esce “Apocalissi”, rilettura laica,attuale e appassionata delle Scritture Ne anticipiamo due saggi , quelli di un grande musicista rock e di uno scrittore tagliente e sulfureo DELLA LA SCOPERTA B IBBIA Repubblica Nazionale

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DOMENICA 8 APRILE 2007

DomenicaLa

di Repubblica

BONO

Spiegare la fede è stato sempre difficile. Come si può spiega-re un amore, una logica racchiusa nel cuore dell’universoquando il mondo è messo così male? E la poesia contrap-posta alla verità delle Scritture? Il libero arbitrio ci ha forsecrocefisso? E che dire dei personaggi equivoci che abitanonel tomo chiamato Bibbiae che sostengono di sentire la vo-

ce di Dio? Ci vuole un interesse molto forte, ma Dio ce l’ha?Spiegare la fede è impossibile… La visione oltre il mondo visibile…

l’istinto oltre l’intelletto… Con la fede suoni un accordo, e quello dopoviene dal cielo… Uno degli autori dei Salmi era un musicista, un arpi-sta i cui talenti erano richiesti a palazzo perché erano l’unica medicinain grado di placare i tormenti di Saul re di Israele, un tipo lunatico e in-sicuro. Un pensiero che ancora oggi ispira e spiega perché Marilyn ab-bia cantato per Kennedy o le Spice Girls alla corte del principe Carlo…

A dodici anni ero un grande ammiratore di Davide, per me era comeun amico… Come può esserlo una pop star. Le parole dei Salmi eranotanto poetiche quanto religiose e Davide era una stella. Era un perso-naggio drammatico perché, prima di esaudire la profezia e diventare red’Israele, si beccò un bel po’ di bastonate.

Costretto all’esilio, finì in una caverna in un’anonima città di confi-ne ad affrontare il suo ego in frantumi e l’abbandono di Dio. È qui chela storia si fa interessante, è qui che Davide ha composto il suo primosalmo, un blues. Ecco, i Salmi sono proprio come il blues.

(segue nelle pagine successive)

la storia

Il club delle mamme solitarieCONCITA DE GREGORIO e ENRICO FRANCESCHINI

spettacoli

I settantenni ribelli di HollywoodIRENE BIGNARDI e SILVIA BIZIO

le tendenze

Mobili-merletto per case leggereMASSIMILIANO FUKSAS e AURELIO MAGISTÀ

l’incontro

Caterina Caselli: torno a cantareDARIO CRESTO-DINA

cultura

Il male oscuro di Umberto SabaMAURIZIO CROSETTI E FRANCO MARCOALDI

il racconto

Holmes, lo scienziato del crimineCORRADO AUGIAS

MORDECAI RICHLER

Il Dioperfido che si diverte a prendersi gioco di Giobbe, se non al-tro per una scommessa con Satana, senza mai menzionare la po-sta in gioco, non compare in scena se non quasi a conclusionedella storia. Annunciandosi come la voce in mezzo alla tempe-sta, lo spaccone celestiale ruggisce: «Dov’eri tu quando io getta-vo le fondamenta della terra?» (Gb 38,4). E rincarando la dose,

continua: «Puoi tu unire assieme i legami delle Pleiadi, o sciogliere le ca-tene di Orione?» (Gb 38,31). Il Dio che assecondò il supplizio di Giobbeè stato il primo fautore della pulizia etnica. Quando gli ebrei giunsero aldi qua del Giordano, dopo aver vagato per quarant’anni nel deserto,Mosè consegnò loro un messaggio di Jahvé per sterminare gli abitantidel paese di Canaan: «Non lascerete niente che respiri in vita» (Dt 20,16).

Jahvé è un Dio potente, capriccioso, vendicativo, crudele, geloso, maanche burlone, il primo di una lunga generazione di umoristi neri ebrei,fino ad arrivare al nostro Franz Kafka. Molto prima di prendersi Giob-be come zimbello, Dio si era fatto una grassa risata celestiale con Abra-mo, un altro modello di uomo retto. «Prendi tuo figlio» ordinò il Signo-re ad Abramo «il tuo unico figlio, colui che ami, Isacco, e va’ nel paesedi Moriah e là offrilo in olocausto sopra uno dei monti che io ti dirò» (Gn22,2). E il vecchio Abramo, il primo di troppi ebrei servili e striscianti,mise il basto all’asino e fece come gli era stato detto. Edificò l’altare e viaccomodò la legna; legò Isacco suo figlio e lo depose sull’altare. «Eccoil fuoco e la legna» disse Isacco «ma dov’è l’agnello per l’olocausto?».

(segue nelle pagine successive)

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Esce“Apocalissi”,rilettura laica,attuale

e appassionatadelle Scritture

Ne anticipiamodue saggi,

quelli di un grandemusicista rock

e di uno scrittoretagliente e sulfureo

DELLA

LA

SCOPERTA

BIBBIA

Repubblica Nazionale

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Io rimanevo sveglio a pensare alla fi-glia del prete e i miei occhi siimmergevano nel mondocinematografico proiet-tato dal vetro coloratodella chiesa. Il cinemal’hanno inventato i ve-trai cristiani… La luceproiettata dai colori rac-contava la loro storia. Ne-gli anni Settanta il film si intitolavaI disordinie i disordini arrivavano daivetri colorati, con i sassi lanciati den-tro la chiesa, più per vandalismo cheper protesta, ma il messaggio erasempre lo stesso: dividere il Paesesecondo i confini religiosi. Io te-nevo il piede in due staffe, così lareligione stessa diventò il mio

Golia. Cominciai a percepire la religio-ne come la perversione della fede. Aparte i cinque sassolini per la fionda…cominciai a vedere Dio da tutta altraparte. Nelle ragazze, nel divertimento,nella musica, nella giustizia ma non an-cora nelle Scritture, nonostante lamaestosa traduzione di King James…

Queste storie mi piacevano per le ra-gioni più stupide. Non mi piaceva soloil Nuovo Testamento con il concetto ri-voluzionario che Dio si può rivelare inun bambino nato nella povertà di unacapanna di paglia, ma persino il Vec-chio Testamento. Erano come film d’a-zione, con bulli e pupe, con gli insegui-menti, le vittime, il sangue, il coraggio,pochissimi baci. Davide era davverouna stella, l’Elvis della Bibbia, se cre-

diamo alla cesellatura di Michelangelo(date un’occhiata al viso, ma non riescoancora a trovare il famosissimo prepu-zio dell’ebreo). E diversamente da unarock star di grande fama, nonostante labrama di potere, le donne, la carica vi-tale, Davide era umile perché sapevache il suo dono era molto più potente diquanto mai potesse esserlo lui. Danzòpersino nudo davanti alle sue truppe…L’equivalente biblico della passeggiatareale. Davide non era un personaggiopolitico, ma un artista che adorava esi-birsi.

Comunque sia, smisi di andare inchiesa e m’infilai in un altro tipo di reli-gione. Non ridete, ecco cosa significastare in un gruppo rock. Non è nemme-no una pseudo-religione. Il mondo del-lo spettacolo è sciamanismo: la musicaè adorazione; sia adorazione delle don-ne o del loro creatore, del mondo o delsuo distruttore, sia che venga da quelluogo remoto che chiamiamo anima osemplicemente dal midollo spinale, siache le preghiere siano infiammate dirabbia insulsa o di desiderio di pace…Il fumo va verso l’alto… Verso Dio oqualcosa al posto di Dio… Noi stessi,insomma.

Anni fa ci siamo ritrovati senza piùparole e con quaranta minuti a disposi-zione prima di terminare la sessione instudio, cercavamo ancora un pezzo perchiudere War, il nostro terzo album.Volevamo inserire qualcosa di moltospirituale nel disco per bilanciare laparte politica e poetica, come avrebbe-ro fatto Bob Marley o Marvin Gaye. Ab-biamo pensato ai Salmi… al Salmo 40.C’è stato un po’ di imbarazzo. Eravamoun gruppo rock molto “bianco” e sac-cheggiare le Scritture a quel modo eraun tabù per i gruppi rock bianchi, a me-no che non fossero «al servizio di Sata-na». O peggio ancora, che facesserogothic rock.

Il Salmo 40 è interessante perchésuggerisce un momento in cui la graziasostituirà il karma e l’amore rimpiaz-zerà i severi comandamenti di Mosè(ovvero, li esaudirà). L’idea mi piace.Davide, che ha commesso alcuni fra igesti più egoistici e allo stesso tempopiù altruistici, aveva in mente lo stessopensiero. Che le Scritture fossero uncovo di imbroglioni, assassini, codardi,adulteri e mercenari per me era scioc-cante; ora invece è fonte di grande con-solazione.

40è diventato il pezzo di chiusura deiconcerti degli U2 e in centinaia di occa-sioni, letteralmente centinaia di mi-gliaia di persone con magliette di tutti itipi e di tutte le taglie hanno urlato il ri-tornello preso dal Salmo 6: «Fino aquando dobbiamo cantare questa can-zone?». L’ho trovata una domanda irri-tante, come se ci aggrappassimo all’or-lo di un Dio invisibile che cogliamo disfuggita solo quando agiamo nel nomedell’amore. Fino a quando… la fame?Fino a quando… l’odio? Fino a quandodovremo aspettare che il creato diven-ti adulto e sparisca il caos della sua ado-lescenza precoce e cocciuta? Anche perme era strano trovare conforto nel can-tare questa domanda.

Ma torniamo a Davide. Non è chiaroquanti Salmi abbiano scritto Davide esuo figlio Salomone, se sono stati dav-vero loro due a scriverli. Alcuni studio-si insinuano che i re non bagnavanomai i loro pennini nell’inchiostro e cheesisteva una locanda degli scrittori del-lo Spirito Santo… Chi se ne frega? Nonho mica comprato Leiber e Stoller…Loro erano soltanto gli autori delle suecanzoni… Io ho comprato Elvis.

Traduzione di Clara Nubile©Isbn Edizioni, Gruppo Saggiatore Spa

(segue dalla copertina)

L’uomo che urla a Dio:«Dio mio, Dio mio,perché mi hai abban-donato? Perché seicosì lontano e nonvieni a liberarmi?»

(Sal 22,1). Sento l’eco di questo gridopietoso quando l’empio bluesman Ro-bert Johnson urla «There’s a hellhoundon my trail» o quando Van Morrisoncanta «Sometimes I feel like a mother-less child». Texas Alexander scimmiot-ta i Salmi in Justice Blues: «I cried Lordmy father,Lord eh Kingdom come. Sendme back my woman, then thy will be do-ne». Ironico, a volte blasfemo, il bluesera la musica del peccato, ma proprioattraverso questo contrasto incensavail gospel, suo cugino perfetto.

L’abbandono, lo spaesamento, eccogli argomenti dei miei salmi preferiti. IlSalterio può essere una fonte d’ispira-zione per la musica gospel, ma secon-do me è proprio nella disperazione cheil salmista rivela la vera natura del rap-porto speciale con Dio. Con onestà, fi-no a sfiorare la rabbia. «Fino a quando,Signore? Ti nasconderai per sempre?»(Sal 89,46) oppure: «Ascolta la voce delmio grido» (Sal 5,2).

I salmi e gli inni sono stati la mia pri-ma esperienza di musica ispirata. Mipiacevano le parole, ma le melodie nonmi convincevano, tranne il Salmo 23,«Il Signore è il mio Pastore». Me li ricor-do salmodiati e canticchiati a boccachiusa, non proprio cantati. Però, inqualche strano modo, mi hanno prepa-rato alla sincerità di John Lennon, allalingua barocca di Bob Dylan e LeonardCohen, alla voce piena di Al Green e Ste-vie Wonder.

Quando ascolto questi artisti, entroin contatto con una parte di me, imper-scrutabile… Con la mia anima, imma-gino. Le parole e la musica hanno fattociò che l’argomentazione religiosa, se-ria e rigorosa, non è mai riuscita a fare:iniziarmi a Dio, non alla fede in Dio, mapiuttosto all’esperienza di Dio. Oltrel’arte, la letteratura e la ragione, l’ac-cesso alla mia dimensione spiritualeera una combinazione di musica e pa-role. Ecco perché il Libro dei Salmi èstato sempre una porta aperta per me emi ha condotto alla poesia dell’Eccle-siaste, al Cantico dei Cantici, al Vangelosecondo Giovanni… La mia religionenon poteva essere finzione, ma dovevatrascendere i fatti. Poteva essere misti-ca, ma non mitica e di sicuro non ritua-le…

Mia madre era protestante, mio pa-dre cattolico: in un qualsiasi posto fuo-ri dall’Irlanda sarebbe un particolareinsignificante. A quei tempi i prote-stanti, i «Prods» come li chiamavanocon disprezzo, avevano le canzoni mi-gliori, mentre i cattolici gli strumentimigliori. Il mio amico Gavin Friday di-ceva sempre: «Il cattolicesimo è il glamrock della religione». Con le candele e icolori psichedelici… Il blu, il porpora eil rosso scarlatto dei cardinali, le bom-be fumogene all’incenso e il suono del-le campanelle.

I protestanti erano più bravi con lecampane vere e proprie, beh, se le po-tevano permettere. In Irlanda ricchez-za e protestantesimo stavano bene in-sieme: se eri ricco e protestante, alloraavevi collaborato con il nemico, ovverocon la Gran Bretagna. In casa nostranon andava così. Mio padre prima an-dava a messa in cima alla collina, a Fin-glas, a nord di Dublino, poi scendeva easpettava fuori dalla piccola cappelladella Chiesa d’Irlanda ai piedi della col-lina, dove mia madre portava i suoi duefigli.

BONO

“Ascolta il mio grido”Davide, il bluesman

la copertinaBibbia ritrovata

Il libro dei libri riletto e commentato da ventidue uominidi cultura e di fede. Una rivisitazione laica, irritualee contemporanea che va in questi giorni in libreria col titolo“Apocalissi” per Isbn Edizioni. Abbiamo scelto i branifirmati da un grande musicista rock cresciuto nell’Irlandacristiana e da uno scrittore ebreo controcorrente

Il Libro dei Salmiparla di abbandono

e di spaesamento:è all’originedel gospel

ma anchedel blues,musica

del peccato

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 APRILE 2007

TRIONFIAccanto e a destradue opere di Guido Reni: Davide vittorioso

e Il trionfo di Giobbe

Repubblica Nazionale

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Nella sua lettera, l’apostolo Giacomoincita i lettori ad ammirare «la pazienzadi Giobbe». È davvero ridicolo. Giobbe,bistrattato, è furibondo. Sprezzante. Senon avesse pazienza, non sarebbe unodei personaggi più commoventi e più at-tuali della letteratura. «Sono tranquille letende dei ladroni» protesta «e sono al si-curo quelli che provocano Dio» (Gb12,6). Muore dalla voglia di parlare conl’Onnipotente, di discutere con lui. I let-tori possono giustamente chiedersi cosaavrebbe pensato Giobbe del suo Dio seavesse saputo che la sua sofferenza nonera la punizione per il male commesso,ma al contrario la conseguenza di unasciocca scommessa fra il grande capo di-vino e uno dei suoi scugnizzi. Malgradociò, osa chiedersi: «Chi è l’Onnipotente,perché dobbiamo servirlo? Che ci giovainoltre pregarlo?» (Gb 21,15). E continuaa lamentarsi: «Io grido a te, e tu non mi ri-spondi; ti sto davanti, ma tu mi stai ad os-servare» (Gb 30,20).

Dopo aver perso la scommessa conSatana, Dio compare a Giobbe sotto for-ma di voce in mezzo alla tempesta. Dio[...] rammenta al suo zimbello che il Si-gnore «guarda in faccia tutti gli esseri al-teri; egli è il re su tutte le fiere più super-be» (Gb 41,34). Allora Giobbe si pente,guadagnandosi un bel po’ di cose: il dop-pio delle pecore e dei cammelli e dei buoiche aveva posseduto, come pure tre fi-glie e sette figli nuovi. Ma il Signore, chenon sa perdere, non riporta in vita gli in-nocenti massacrati, non resuscita i figli e

i servi di Giobbe. E la domanda di Giob-be non trova risposta. In questo libro ilcattivo non è Satana, ma il Signore. [...]

Nel Deuteronomio, il quinto libro delPentateuco, gli ebrei nel deserto ricevo-no un annuncio. Il Signore li ama: «Poi-ché tu sei un popolo consacrato al Si-gnore, il tuo Dio; il Signore, il tuo Dio ti hascelto per essere il suo tesoro particolarefra tutti i popoli che sono sulla faccia del-la terra» (Dt 7,6). Dopo tutti questi secolidi punizioni, è lecito mettere in dubbiol’ostentato ardore del Signore per il miopopolo e chiedersi: ma scelto per cosa?Per la cattività a Babilonia? «Là, presso ifiumi di Babilonia, sedevamo e piange-vamo, ricordandoci di Sion» (Sal 137,1).Per l’Inquisizione? Oh, sono stato a Ma-drid nell’immensa Plaza Mayor con iciottoli levigati, le torri di Herrera cosìgraziose, i portici perfetti. Un tempoquella piazza è stata lo scenariodi numerose autos publicos ge-nerales, che all’epoca attiravanoil pubblico almeno quanto le cor-ride. Molte vittime dell’auto-dafé erano conversos, ebreiconvertiti con la forza ma so-spettati di continuare a pro-

fessare la propria fede in segreto. Di soli-to la cerimonia si svolgeva durante i gior-ni di festa per attirare più pubblico pos-sibile. In piazza si ergevano elaborateimpalcature e le finestre con la vista mi-gliore venivano vendute a caro prezzo.Lo spettacolo cominciava all’alba conuna processione per le viuzze strette, ca-peggiata dal cleroe seguita daglieletti di Jahvé,destinati alrogo. Accen-dere il tizzo-ne che davafuoco alla pi-ra era conside-rato un grandeonore. Prima ditutto, tuttavia, siincoraggiavanogli spettatori adaccrescere lasofferenzadei con-d a n n a t id a n d ofuocoalle

loro barbe, un passatempo conosciutocome «la rasatura dei nuovi cristiani».

Per i pogrom? È stato Pavel Krushevana introdurre I protocolli dei savi di Sion inRussia: pubblicandoli prima sullaZnamjadi San Pietroburgo, poi sul quo-tidiano Bessarabets di Kishinev, capo-luogo di provincia della Bessarabia.Quella pubblicazione, assieme all’accu-sa che un ragazzo cristiano era stato lavittima sacrificale di un rituale ebreo,scatenò il famigerato pogrom di Kishi-nev della Pasqua del 1903, durante ilquale furono uccisi quarantanove ebreie centinaia furono i feriti. In quei giornigli innocenti avevano ancora un nome,non un numero tatuato, e venivano se-polti in tombe individuali. Poi giunsel’Olocausto. Jahvé ci aveva scelto comegli eletti, soggiogati al suo amore parti-colare. Poi il dottor Mengele, una divi-nità dei suoi tempi, compì la selezionefra gli eletti. Un rotolo di agonia, i diari diVarsavia di Chaim Kaplan, una sorta diGiobbe dei nostri giorni, furono trafuga-ti dal ghetto nel 1942. Il 10 settembre del1939 Kaplan scrive: «Le strade sono chiu-se dalle trincee e dalle barricate […]Tempo fa il nemico degli ebrei dichiaròche se fosse scoppiata la guerra, gli ebreisarebbero stati eliminati dall’Europa.Ora metà del popolo ebraico si trova sot-to il suo dominio. Perché Dio ha ama-reggiato la nostra vita in maniera cosìcrudele? Abbiamo forse peccato più dialtri popoli?».

Forse il problema è che il Signore, il no-stro Dio, non si è mai fidato di noi. Primadi donare l’eterno riposo al suo fido ser-vo Mosè, senza fargli mai varcare la terrapromessa, l’Indicibile Nome comparenel tabernacolo sotto forma di nuvola:ecco, tu stai per addormentarti con i tuoipadri; e questo popolo si leverà e si pro-stituirà, andando dietro agli dèi stranie-ri del paese, in mezzo ai quali sta per an-dare; e mi abbandonerà e violerà il miopatto che io ho stabilito con lui. In quelgiorno, la mia ira si accenderà contro diloro; io li abbandonerò e nasconderò lo-ro la mia faccia, e saranno divorati. Mol-ti mali e molte calamità cadranno loroaddosso (Dt 31,16-17).

Nonostante ciò, persino durante l’O-locausto ci furono tanti ebrei dalla fedeincrollabile. Fra le storie narrate da YaffaEliach in Non ricordare… non dimenti-care, racconti commoventi o irritanti aseconda dei punti di vista, c’è l’azionedelle SS in una piccola cittadina dell’U-craina. Quando le Einsatzgruppen si tro-varono sul punto di giustiziare gli ebrei diquel paese, si fece avanti un cassidico espiegò al giovane ufficiale al comandoche nei paesi civilizzati (sic) era consue-tudine accogliere l’ultima richiesta deicondannati a morte. L’ufficiale tedescochiese all’ebreo quale fosse il suo ultimodesiderio. «Una breve preghiera», rispo-se il cassidico. «Va bene». Il cassidico sicoprì il capo con la mano e recitò la se-guente preghiera, prima in ebraico, poiin tedesco. «Benedetto sei tu, oh Signorenostro Dio, re dell’universo, che non haifatto di me un pagano». Poi s’incamminòsul bordo della fossa comune, già gremi-ta di cadaveri, e gli spararono un colpo al-la nuca. Secondo il calendario ebraicosono passati più di cinquemila anni daquando Dio ci ha proclamato il popolosanto, scelto per essere speciale. Questopotrebbe bastare. Dopo aver varcato ilnuovo millennio, forse Dio potrebbeconsiderare di favorire altri popoli con ilsuo amore. Ma, prima di passare oltre,non sarebbe male se rispondesse alla do-manda di Giobbe: «Perché mai vivono gliempi, e perché invecchiano ed accresco-no le loro ricchezze?» (Gb 21,7).

Traduzione di Clara Nubile©Isbn Edizioni, Gruppo Saggiatore Spa

(segue dalla copertina)

In risposta un ubbidiente Abramoallungò la mano e prese il coltelloper uccidere suo figlio. A quel pun-to Jahvé, che probabilmente si sta-va sganasciando dalle risate, inviòun angelo a rivelargli: «Non sten-

dere la tua mano contro tuo figlio». Allo-ra Abramo alzò gli occhi e dietro di lui vi-de un montone, impigliato con le cornain un cespuglio. Abramo andò a liberarloe offrì il montone in olocausto al posto disuo figlio (Gn 22, 2-13).

Il libro di Giobbe scritto da un autore opiù autori sconosciuti, probabilmenteprima dell’esilio a Babilonia come so-stengono alcuni storici, approfondisce lalamentazione di Geremia con sublimepoesia: «Perché la via degli empi prospe-ra? Perché vivono tranquilli quelli cheagiscono con perfidia?» (Ger 12,1). La sof-ferenza di Giobbe ci pone una domandache ancora oggi aspetta una risposta sod-disfacente: «Perché mai vivono gli empi,e perché invecchiano ed accrescono leloro ricchezze?» (Gb 21,7). Lo stesso enig-ma assillò il grande filosofo ebreo me-dioevale Mosè Maimonide, nato a Cor-dova nel 1135, e autore de La guida deiperplessi: «Gli uomini pensano che almondo ci sia più male che bene. MoltiProverbi e molti canti esprimono lo stes-so concetto, affermando che solo ecce-zionalmente si trova qualcosa di buono,mentre il male ha numerose manifesta-zioni ed è duraturo».

Questo errore non lo commettonosoltanto i comuni mortali, ma anche isaggi. Lo scienziato Al-razi scrisse un li-bro molto famoso, La metafisica, in cuifra le tante idee sciocche e assurde cheesprime, teorizza anche la superioritàdel male sul bene. «Perché se si parago-nano la felicità e il benessere dell’uomoin tempi di prosperità alle disgrazie chegli capitano, come il tormento, il doloreacuto, i difetti, la paralisi degli arti, le pau-re, le ansie e i dubbi, ne risulta che l’esi-stenza dell’uomo è una punizione e ungrande male».

O ancora, come si domanda Giobbe:«Perché non sono morto nel grembo dimia madre? Perché non spirai appenauscito dal suo ventre?» (Gb 3,11). La pa-rola del Signore ci assicura che finchéGiobbe non è stato maltrattato, era unuomo integro e retto, che temeva Dio efuggiva il male. Era stato benedetto consette figli e tre figlie, con numerosi e fidiservi, con migliaia di pecore, cammelli ebuoi. Poi un giorno Satana, che facevaancora parte della combriccola del Si-gnore, si prese una pausa «dall’andareavanti e indietro sulla terra e dal percor-rerla su e giù» (Gb 1,7). Per divertirsi unpo’, accusò il Signore di vantarsi troppodel suo servo preferito, senza aver mes-so mai alla prova la sua fedeltà. «Ma sten-di la tua mano e tocca tutto ciò che pos-siede e vedrai se non ti maledice in fac-cia» (Gb 1,11). Provocato, Dio accetta lasfida, a condizione che non venga fattodel male allo stesso Giobbe. Così i pove-ri figli di Giobbe vengono uccisi, i servimassacrati, le pecore, i cammelli e i buoivengono ammazzati o rubati. Ma la fededi Giobbe è imperturbabile: «Il Signoreha dato e il Signore ha tolto. Sia benedet-to il nome del Signore» (Gb 1,21). Satana,per assicurarsi la scommessa, convinceil Signore ad aumentare la posta: «Mastendi la tua mano e tocca le sue ossa e lasua carne e vedrai se non ti maledice infaccia» (Gb 2,5). Con il permesso del Si-gnore, Satana «colpì Giobbe di un’ulce-ra maligna dalla pianta dei piedi allasommità del capo» (Gb 2,7) e propriomentre Giobbe se ne sta seduto in mez-zo alle ceneri, arriva sua moglie e gli dice:«Rimani ancora fermo nella tua inte-grità? Maledici Dio e muori!» (Gb 2,9). [...]

MORDECAI RICHLER

“Ma tu non rispondi”Giobbe, l’ira paziente

La scommessa di Diosulla sottomissionedel suo fedelepropone la domanda:perché il male vince?

I TESTI

I due brani di queste pagine sono tratti da Apocalissi,

ventidue modi di leggere i libri della Bibbia (Isbn Edizioni,256 pagine, 15 euro). Il volume raccoglie ventidue saggidi artisti, leader spirituali e scrittori che analizzano alcunilibri della Bibbia partendo dalle proprie esperienzepersonali. Abbiamo scelto, tra i contributi di autori comeNick Cave, David Grossman e il Dalai Lama, quelli di Bono,leader degli U2 e rockstar impegnata in campagnemondiali per i Paesi del Terzo mondo, e di MordecaiRichler, scrittore canadese morto due anni fa e autoredi libri come La versione di Barney e Quest’anno

a Gerusalemme. Apocalissi sarà in libreria il 13 aprile

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 8 APRILE 2007

LE IMMAGINI

In queste pagine, scene ispirate alla Bibbia: da sinistra,la cacciata dal paradiso e la nascita della morte; l’Arcadi Noè; il sogno del faraone; il ritrovamento di Mosè;la storia di Giuseppe; Mosè che riceve le tavole della leggeTranne la prima e la penultima sono tratte da La Bibbia

e le arti, il primo quaderno monografico edito da FrancoMaria Ricci che ha per oggetto l’iconografia nelle SacreScritture. È un’antologia di capolavori di artistida Michelangelo, a Dürer, a Rembrandt e molti altriche si sono confrontati con i grandi temi biblici. La Bibbia

e le arti sarà pubblicato a maggio. In copertina il battesimodi Gesù tratto dall’Epistolario di Lixheim del XII Secolo

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la storiaBlog di una volta

A partire dal 1935, per cinquantacinque anni, un gruppodi spose britanniche in crisi ha dato vita a un giornaleper corrispondenza a più mani, in cui ciascunascriveva prima di spedirlo all’interlocutrice successivaUna studiosa ha ritrovato e pubblicato questatestimonianza unica sulla condizione femminile

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 APRILE 2007

Il club delle mamme solitarieENRICO FRANCESCHINI

LONDRA

Cominciò tutto con una lettera, nellarubrica della posta di NurseryWorld, popolare rivista per mammenell’Inghilterra del 1935. «C’è qual-

che madre che può aiutarmi?», iniziava ladisperata missiva. «Faccio una vitamolto solitaria. Non ho vicini di casacon cui chiacchierare. Non possopermettermi l’acquisto di una ra-dio. Adoro leggere, ma non esisteuna biblioteca dalle mie parti ela mia scorta di libri si assotti-glia. Cucire non mi piace, seb-bene io debba farlo anche trop-po! Dopo che i bambini vanno aletto mi sento così giù, così de-pressa. Nonostante la compa-gnia di un cane e un gatto, mi tor-mento, covo risentimento, rimu-gino sulle crudeli ferite, sia fisicheche psicologiche, da me subite. Qual-che lettrice è in grado di suggerirmi un’oc-cupazione che mi distragga, e che non costiniente? Problema di non facile soluzione, lo am-metto».

E invece la soluzione saltò fuori. Il grido di do-lore della mamma in crisi, che si firmava soltan-to con il dotto pseudonimo di “Ubique” (dovun-que, in latino), suscitò una valanga di risposte daogni parte del Paese: altre madri di famiglia co-me lei, solidali perché la loro vita di mogli e mam-me, probabilmente, non era molto migliore del-la sua. Una delle risposte pervenute a Nur-sery World conteneva il seguente sug-gerimento, timidamente esposto da“Sympatizher” (Simpatizzante:quasi tutte usavano pseudono-mi): «Mi dispiace così tanto perUbique e per i suoi problemi.Mi domando se le farebbe pia-cere corrispondere con le let-trici. A me piacerebbe scam-biare lettere con lei, e pensoche questo la tirerebbe un po’su. Forse mi dirà come giudicaquesta idea».

Attraverso la rivista, “Ubique”fece sapere che l’idea le pareva otti-ma e la corrispondenza ebbe inizio.Dopo un paio di mesi aveva coinvolto unaventina di mamme e il numero delle aderenti aquesto piccolo club di solidarietà femminile con-tinuava a crescere di settimana in settimana.«Ogni francobollo costa solo due pence, ma mol-tiplicato per tutte voi diventa una discreta som-ma da spendere a regolari intervalli», notò a quel

punto “Ubique”, proponendo come alternativadi fondare un «giornale per corrispondenza».Avrebbe funzionato così: ogni mese ogni mam-ma le avrebbe inviato un articolo, insomma unalettera, su un determinato argomento di interes-se comune; una volta che li avesse ricevuti tutti,lei li avrebbe incollati a fogli di carta, legati insie-me con un nastrino e messi sotto una specie di co-

pertina con un bel disegno; così comple-tato, avrebbe spedito il “giornale” per

posta alla prima donna di una listaconcordata insieme in preceden-

za, che avrebbe avuto un deter-minato periodo di tempo perleggerlo e per scrivere sul retrodei fogli i suoi eventuali com-menti a ciascun articolo. Ter-minata la lettura, la prima don-na avrebbe inviato il giornalealla seconda della lista, che do-

po averlo letto e commentato loavrebbe inviato alla terza, e co-

sì via, finché il giornale nonfosse tornato al punto di

partenza, cioè nelle manidi “Ubique”. Tutte avrebbe-

ro in questo modo letto e com-mentato tutto quello che ciascu-na aveva scritto. L’iniziativa ven-ne accolta con entusiasmo: poi-ché nei mesi precedenti aveva-no deciso di chiamare il lorogruppo “Cooperative Corre-spondence Club” (Club coope-rativo per corrispondenza), an-che il giornale si chiamò con lo

stesso nome.Questa storia sarebbe giàcuriosa così, ma ciò che la

rende straordinaria è che quelgiornalino per corrispondenzascritto e letto da mamme è statopubblicato e distribuito, se pos-siamo usare termini da editoria,per ben cinquantacinque anni:ha cessato di esistere nel 1990,per la semplice ragione che or-mai avevano cessato di esistere

anche la maggioranza delle don-ne che lo scrivevano e leggevano.

Le socie del “Club delle mamme percorrispondenza” erano diventate

nonne e poi, una a una, avevano co-minciato a morire, come si suol dire, di vec-

chiaia. La loro testimonianza su quello che erastato forse il primo “collettivo femminista” o per-lomeno femminile della storia, o altrimenti unaseduta di autocoscienza fra donne lunga oltremezzo secolo, sarebbe andata certamente per-duta, se qualche anno fa una giovane ricercatricedella University of Sussex, Jenna Bailey, in cercadi un argomento per la sua tesi di dottorato, nonavesse sentito parlare della collezione di unostravagante giornale, fatto da donne e per soledonne, conservato negli archivi dell’università.Non appena ebbe posato gli occhi su quelle pagi-nette ingiallite dal tempo, ne riconobbe il valore,sia come documentazione della vita di un cam-pione di madri attraverso buona parte del Vente-simo secolo, sia come raccolta di storie persona-li scritte in modo spesso arguto e commovente.Dopo tre anni di ricerche, la sua tesi era pronta, edora è diventata un libro, Can any mother help me?(C’è qualche madre che può aiutarmi?, il grido di

dolore iniziale lanciato da “Ubique”), appenauscito in Gran Bretagna.

Il club di queste indomite mammine inglesi erasopravvissuto non soltanto alla Seconda guerramondiale, ma pure all’avvento del telefono, dellatelevisione, della modernità, insomma di tuttociò che poteva far sembrare ridicolo o patetico unsimile passatempo. Le donne che partecipavanoalla fattura e lettura collettiva del giornaleerano alcune decine, fra venti e trentain taluni periodi, quasi cinquanta inaltri: il numero era ovviamente re-so variabile dagli avvenimenti edal destino, traslochi, disgrazie,promozioni, malattie, gioie,tragedie. Una volta all’anno, le“redattrici” s’incontravano, arotazione, nella città di una odell’altra. Col tempo, di fatto,quelle che formavano il nucleopiù attivo della rivista diventa-

rono intime amiche, ammet-tendo che la loro esisten-

za non sarebbe stata lastessa senza il “club”.

Oggi soltanto quattro so-no ancora vive: tre ultra ottuage-narie e una centenaria. A ottan-totto anni, Joan Melling è la piùgiovane del quartetto. Quandoera una giovane madre avevauna laurea inutilizzata di Cam-bridge, cinque bambini e unmarito freddo e distante tutto

preso dalle sue cose: perciò scel-se lo pseudonimo di “Accidia”.

Nelle sue lettere descrivevala propria vita come una

«valle di lacrime». Mezzosecolo dopo soffre di occa-

sionale depressione, lei preferi-sce definirla malinconia, manon si lamenta: «Il mondo allo-ra, per noi donne, era fatto così.Io ho avuto tanti figli per trova-re la compagnia che mancavanel mio matrimonio. Dopotut-to, se non avessi voluto restareincinta, sapevo come fare». Eccoun estratto da un suo contributoal giornale, fine anni Trenta: «Ilmattino presto è una corsa per allac-ciare pantaloni, infilare scarpe, spaz-zolare capelli, mettere tutto in ordine e apuntino, gridare risposte a innumerevoli doman-de, mamma dov’è questo, mamma dov’è questo,mamma mio fratello mi ha fatto questo, mammamia sorella mi ha fatto quello, mamma lei sta trop-po in bagno, mamma farò tardi per la scuola. For-tunato papà, che si veste placidamente, inconsa-pevole della confusione e indisturbato dalla no-stra brigata».

Di acqua sotto i ponti del Tamigi, da allora, neè passata tanta, il mondo è cambiato, sono cam-biati le donne e i rapporti di coppia ma qualche“fortunato” papà così, forse, esiste ancora, e pro-babilmente più di uno. Le cose non sono ancoracambiate abbastanza, riflette “Accidia”, le rela-zioni d’oggi tra i due sessi non hanno trovato lachiave della felicità. «Guardo le coppie più giova-ni, quelle dell’età dei miei figli o dei miei nipoti, ein parte mi rivedo», dice Joan Melling. «Gli uomi-ni continuano a fare meno delle donne per la fa-miglia e per la casa, le donne oggi lavorano, han-

no una propria autonomia, e questo è certamen-te positivo, ma sono sempre stanche morte per-ché devono cercare di fare troppe cose tutte inuna volta, la moglie, la mamma, la lavoratrice. Unsacco di matrimoni sono una farsa, e non mi me-raviglia che sempre più coppie divorzino, nellaclasse della mia nipotina soltanto tre bambine sutrenta hanno i genitori che stanno ancora insie-

me».Delle quattro sopravvissute delclub, Rose Hacker è invece la più

anziana: ha da poco compiutocent’anni. Come la maggior par-te delle mamme-redattrici del-la rivista, anche lei era di classemedia e istruzione universita-ria, ma in più, rispetto alle al-tre, aveva una coscienza poli-tica e femminista decisamen-te insolita per la sua era. Rose,

che come pseudonimo sul gior-nalino scelse “Elettra”, veniva

da una famiglia ebraica di fede so-cialista: «Avevo letto Bertrand Rus-

sell, non intendevo diventare schiavadi mio marito, volevo un matrimonio li-

bero e paritario». E lo ebbe: facevano perfino,ogni tanto, vacanze separate. Quando lei partìper un tour della Russia con un’amica, sua madrela ammonì: «Non troverai tuo marito, al ritorno».Ma lo trovò, sempre lì, al suo posto. «Ero eccezio-nalmente privilegiata per i miei tempi», ammet-te. E dei nostri tempi, cosa pensa? «La pillola hacambiato molte cose per le donne, ha reso il ses-so più semplice», dice senza complessi questanonnina centenaria, «ma non ha reso più sempli-

ce l’amore, che continua a rimanere unmistero, una faccenda terribilmente

complessa. Uomini e donne d’oggimi appaiono tanto confusi, e non

necessariamente più felici. Cer-to, c’erano molti più poveri inOccidente quando io ero gio-vane, c’era gente veramenteaffamata. Ma oggi tutti hannosempre più cose e poi non san-no che farsene. Abbiamo per-so l’idealismo e non l’abbiamo

sostituito con niente. Voleva-mo una vita migliore ma adesso

che l’abbiamo non ci pare tantomigliore. Le donne d’oggi hanno fi-

gli e carriera, ma non la chiamerei li-bertà, la chiamerei schiavitù. Mio figlio e

sua moglie hanno una famiglia meravigliosa malavorano entrambi così duramente che la sera so-no esausti. Insomma, non so cosa consigliare al-le mamme odierne, e neppure ai papà. Non houna soluzione». E francamente, cara “Elettra”,non ce l’abbiamo neanche noi.

LA LETTERA

Qui sopra, la testata della rubrica delle lettere della rivista per mammeNursery World. La rubrica si chiamava “Bevendo il tè”. Fu lì che nel luglio 1935

venne pubblicato l’appello di “Ubique”: “C’è qualche madre che può aiutarmi?”

“Il mondo allora, per noidonne, era fatto così: io hoavuto tanti figli per trovare

la compagnia che mancavanel mio matrimonio”

“Guardo le coppiepiù giovani,quelle dell’età dei miei figlio dei miei nipoti,e in parte mi rivedo”

Repubblica Nazionale

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Dunque cosa ci abbiamo guadagnato? Facciamo un elenco proprio come quello della spesa. Libertà, po-tere, felicità, denaro, consapevolezza, spensieratezza, tempo? In cosa si sono tradotti i settant’anni checi separano dalle mammine dello Yorkshire che per vincere oceani di esistenziale solitudine domestica

hanno avuto la così inglese iniziativa di scriversi in bella calligrafia, spedirsi le missive per posta, aspettare set-timane, leggere e annotare commenti, rilegare le lettere ricevute, ricamarci in copertina un fiorellino e farci ungiornale, il grazioso straziante giornale delle mamme anni Trenta? Invece di bere un altro bicchiere, per dire. In-vece di stringere amicizia col fattore della tenuta limitrofa, invece di comporre versi, conservare marmellate odi avviarsi verso il fiume coi sassi in tasca — forse, alcune, insieme a questo — hanno curato i loro mali con l’at-tesa di una voce virtuale: posta in arrivo, direbbe oggi il computer. Nelle foto si vedono donne circondate da sei,sette figli. Donne colte, alcune laureate a Cambridge e di seguito recluse al servizio della famiglia, donne che usa-no pseudonimi come “Ubique”, “A priori” e chiamano la depressione “malinconia”. Donne magre nonostantele gravidanze plurime, eleganti. Middle class, con qualche eccezione che fa ricchezza e conferma la regola.

Non troppo diverse perciò dalle donne che oggi comprano e leggono i giornali, scrivono, chiedono consigli.Anche no: scrivono anche solo per scrivere, per raccontare qualcosa di sé, per parlare con qualcuno che evi-dentemente non hanno intorno e difatti chiedono «per favore non pubblichi questa lettera, è personale».

Dunque, tornando alla domanda d’inizio. Sarebbe facile dire: in settant’anni non è cambiato poi molto, faci-le e sbagliatissimo. Le donne oggi possono in teoria e in qualche caso in pratica (più spesso all’estero, comun-que) guidare Paesi e multinazionali, essere madri e anche manager, lasciare i figli a casa per andare a discutereuna tesi a un congresso. Anni fa un giornale pubblicò una pagina dell’agenda di Madeleine Albright, c’era scrit-to «Incontrare Arafat. Telefonare idraulico. Informare il presidente. Comprare yogurt». Le donne accumulanosaperi e doveri. Fanno insieme. Scrive “Accidia”, una delle mamme inglesi, di suo marito: «Sono sempre stata lasua seconda moglie. La prima era il lavoro». I ministri non chiamano l’idraulico, è davvero difficile. Una loro se-gretaria lo fa, una moglie. Le ministre lo fanno da sole.

Tempo no, dunque. Nemmeno nei casi più fortunati le donne hanno guadagnato tempo. Lo hanno perso tut-to, al contrario. Libertà, di conseguenza, insomma. Denaro sì, ma poco. Non è più necessario trovare marito perfarsi mantenere ma, ammesso che si riesca ad accedere ad un contratto di lavoro, si guadagna meno, tutte, mol-tissimo meno di un collega uomo parigrado. Spesso non vale la pena. Costa di più la tata fissa e dunque lavora-re fuori casa non conviene. Il potere — salvo notevoli eccezioni — non è una merce cara all’universo femmini-le, perciò guadagnarci in potere inteso in senso tecnico (esercizio del dominio sugli altri) non è mai percepitacome una vincita: è più quel che si perde.

Restano la felicità e la spensieratezza. Pesco dai temi che ricorrono nella corrispondenza coi lettori. Quasisette donne su dieci soffrono, spesso in segreto, di disturbi alimentari — anoressia e bulimia — che come èormai a tutti noto sono forme di autoesclusione da un mondo percepito ostile, di autolesionismo, disturbidell’anima. Nove su dieci si sfiniscono in diete e palestre all’inseguimento di una taglia che non hanno. La chi-rurgia estetica — altra offesa inferta all’arma bianca sul proprio corpo — è talmente diffusa che ha prodottomicromondi di cloni. In certi quartieri fuori dalle scuole le madri sembrano uscite da Mars Attacks!: stessi zi-gomi stesse labbra stesso taglio degli occhi (i chirurghi di quartiere avranno i loro protocolli, d’altra parte). Ilriferimento estetico sono le ragazze-immagine di Lele Mora, nessuno dice esattamente che mestiere faccia-no ma non importa: fanno immagine, appunto. Gli psichiatri spiegano che i maschi si accaniscono contro glialtri (violenza di gruppo, bullismo) le femmine contro se stesse perché questa è la fisiologia dei loro corpi: gliuomini escono da sé, nelle donne si entra. Quando si accaniscono lo fanno anche sui figli, le cronache parla-no con una frequenza che non si può più archiviare come statistica della follia. I disturbi legati alla maternitàe alla non maternità. La crescita di consapevolezza (ecco, mancava all’appello) e la certezza di non poter maicorrispondere a quel che gli altri si aspettano da te e tu da te stessa. Un’idea di futuro che non è più quella d’u-na volta: si può solo sperare di non peggiorare.

Cresce intanto attorno a noi la generazione-Moccia: ragazzine di liceo che traducono Catullo per dovere e leg-gono per scelta storie dove lei ama lui ma lui non ama lei, poi alla fine lui l’ama “a suo modo” e comunque solose lei è così brava e paziente da saperlo capire. Brave, portate pazienza che è meglio. Poi quando avrete in casala bielorussa di ventisette anni laureata in inglese che viene a stirarvi le camicie conversate con lei anziché bereun drink all’happy hour delle sette. Parlateci, magari è una poetessa.

La posta del cuore anni Duemilanuovo volto dell’infelicità domestica

CONCITA DE GREGORIO

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 8 APRILE 2007

L’ILLUSTRAZIONEQuesta immagine è trattada Good Times with Beverly,un libro per ragazzidegli anni Trenta

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 APRILE 2007

Ma infondo chi era Sherlock Holmes? Un abile in-vestigatore, certo. Un attento osservatore dellarealtà, si trattasse di oggetti, luoghi o fisiono-mie; uno scrupoloso catalogatore di esperien-ze, anche questo è sicuro. Ma si tratta di conno-tati che non mettono ancora insieme una ri-

sposta sufficiente. Una volta che abbiamo osservato il suo com-portamento dobbiamo infatti chiederci da dove derivasse il suomodus operandi, quale fosse insomma la sua formazione, la suacultura, anzi la sua “scienza”. Ci aiuta a rispondere un libro che staper uscire che s’intitola proprio La scienza di Sherlock Holmes

(Bollati Boringhieri), saggio di assai affabile divulgazione chemantiene esattamente quello che annuncia nel titolo raccontan-do alcuni dei casi più famosi del grande Sherlock mescolati a pal-pitanti casi di cronaca, entrambi filtrati (cronaca e invenzione ro-manzesca) attraverso la storia della medicina, le tecniche investi-gative nonché quella curiosa commistione medico-poliziescache si chiama “medicina legale”.

L’autrice, E. J. Wagner, è una storica del crimine, animatrice re-golare di appuntamenti dedicati all’affascinante tema delle pas-sioni più sanguinarie. La Wagner è partita da una constatazioneche molti lettori di Conan Doyle hanno probabilmente fatto tra sée sé leggendo le avventure del nostro. Chi gli ha dato, da dove hapreso, tutte quelle informazioni? Le avventure sono palesemen-te romanzesche ma le parole che pronuncia, le regole secondo lequali agisce, le deduzioni intellettuali, gli esperimenti che com-pie danno l’impressione di poggiare su un solido fondo di realtà.Infatti così è: Sherlock Holmes ricorre per la soluzione dei casi incui s’imbatte alle più aggiornate nozioni di scienza medica e in-vestigativa di cui ai suoi tempi si disponesse.

Se l’aiutante di Sherlock, il suo indispensabile interlocutore, èil medico dottor Watson, non bisogna dimenticare che anche l’in-ventore (il padre) di entrambi, lo scrittore sir Arthur Conan Doy-le, era a sua volta un medico. Uno studio in rosso, il primo roman-zo con protagonista Holmes, esce nel 1887; siamo in piena epocavittoriana, anni per molti aspetti decisivi anche per le prime ap-plicazioni della scienza all’investigazione criminale. Se, all’iniziodel Settecento, il grande clinico italiano Giovan Battista Morga-gni aveva cominciato a studiare l’anatomia di un cadavere in re-lazione alle cause che avevano provocato la morte, è nell’epoca di“Victoria Regina” che si cominciano a sezionare i corpi per tro-varvi gli eventuali segni di un gesto criminale. L’autopsia, oggipratica corrente, era stata considerata a lungo un atto proibito.Un misto di superstiziosa religiosità e reverenza verso i trapassa-ti aveva collocato la dissezione umana tra gli atti sacrileghi, quan-

CORRADO AUGIAS

Ora del decessoLo studio di come larvee insetti colonizzassero

corpi morti fu iniziatodall’italiano Francesco

Redi nel 1668. Due secolidopo il francese Pierre

Megnin, aiutòla polizia a risalirealla data di mortedi un uomo grazie

allo studio delle larvepresenti nel cadavere

Poi pubblicòle sue conclusioni

do non tra i rituali della magia nera; per molti secoli inoltre si eracreduto che il corpo umano contenesse un osso detto “luz” chenel giorno dell’ultimo giudizio avrebbe permesso al morto di ri-sorgere.

Resistenze fortissime dunque. Infatti si dovette arrivare a metàOttocento perché il giovane patologo Alfred Staine Taylor potes-se cominciare a insegnare medicina forense; corsi che ebberogrande influenza sul dottor Conan Doyle e, per conseguenza, suHolmes. In un suo manuale Taylor scriveva: «Il primo dovere diun giurista medico è coltivare la facoltà di un’osservazione pun-tigliosa […]. Un uomo di medicina, quando vede un cadavere, do-vrebbe notarne ogni aspetto». Si riconosce facilmente in questeparole la scrupolosità di Holmes, la spiegazione del perché il no-stro investigatore trascorresse tanto tempo negli obitori, luoghicerto non ameni e, allora, addirittura orribili. Scrive la Wagner:«Le camere mortuarie puzzavano di decomposizione, materia fe-cale e vomito». Eppure, anche se in condizioni così penose, l’ideache la scienza costituisse una parte essenziale del sistema legalecominciava a essere accettata: «Era la prima grande pietra sullaquale avrebbe poggiato la scienza di Sherlock Holmes».

Questo atteggiamento di tipo scientista, di netta ascendenzapositivistica, si vede molto bene anche nell’altro grande roman-zo di Conan Doyle Il mastino dei Baskerville (forse il migliore dalui scritto) dove Holmes lotta e risolve il caso con l’intento dichia-rato di far trionfare la verità e la scienza sulla fantasia e la paura su-perstiziose. Nel 1901 lo scrittore era venuto a conoscere una lu-gubre leggenda del Devon (territorio sinistro di brughiere e palu-di) che parlava di un grande cane nero che, nel racconto, viene so-spettato di aver portato la morte ai Baskerville. La descrizione èterrificante: «Accanto al corpo di Hugo, con le zanne ancora affon-date nella gola sbranata, c’era un essere orrendo, un’enorme be-stia nera, simile a un mastino ma assai più grande di un qualsiasimastino mai visto al mondo». La freddezza e il raziocinio di Hol-mes arriveranno a scoprire chi sia in realtà, e per quali motivi, a in-dirizzare la ferocia dell’inconsapevole belva.

In Uno studio in rossoHolmes afferma: «Da una goccia d’acqua,un logico può far derivare la possibilità dell’Oceano Atlantico odelle cascate del Niagara senza aver mai visto o sentito parlare del-l’uno né delle altre». Non c’è solo l’orrido cane nero nei racconti,al contrario molti elementi naturali, compresi insetti e animali va-ri, svolazzano, si manifestano, sgusciano, strisciano nelle paginedi Conan Doyle. Animali bizzarri, nota la Wagner, che non sono lìsolo per spaventarci essendo al contrario i perni sui quali Holmesinnesta la sua indagine scientifica. Sherlock Holmes, detta suopadre Conan Doyle, esigeva acuta osservazione e metodo scru-poloso; era esattamente l’atteggiamento degli appassionati na-turalisti dilettanti dell’epoca: «La collezione, lo studio, la classifi-

AutopsiaNel 1794 lo scozzeseJohn Bell vinse la sua

battaglia affinchél’autopsia venisse

riconosciutaMa per decenni, anche

in seguito, precettireligiosi e superstizioni

ostacolaronola dissezione dei cadaveri

a scopo scientificoLa svolta in Gran

Bretagna, in un casodi omicidio del 1882

Sherlock Holmese il delitto imperfetto

il raccontoMisteri risolti

Agente infiltratoEugène François Vidocq,attore, spia, disertore,sfuggito per un soffioalle galere francesie alla ghigliottina, all’iniziodel 1800 offrì i suoi servigialla polizia come infiltratonella malavitae negli ambientiantinapoleoniciLa sua artedel travestimentolo rese una leggendaInfluenzò Dumas

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 8 APRILE 2007

nale si poneva in quegli anni era se e in che modo gli individui fos-sero portati a delinquere: ereditarietà o ambiente? Questionecomplessa, non interamente risolta nemmeno oggi, date anchele sue notevoli implicazioni sociali e addirittura politiche. Holmes(Conan Doyle) era certamente al corrente degli sviluppi della fre-nologia, vale a dire la scienza che localizza in certe parti del cer-vello o in una determinata morfologia alcune caratteristiche psi-chiche. Holmes si fa portavoce di questa scienza quando dice(L’avventura del carbonchio azzurro): «È una questione di misu-re di capacità: un uomo con un cervello così grande deve averciqualcosa dentro». Era tale la fiducia nella corrispondenza fra trat-ti somatici e qualità psichiche (basta pensare al nostro Lombro-so: L’uomo delinquente, 1876) che le giovani coppie si sottopone-vano spesso a “letture” delle fisionomie per stabilire la reciprocacompatibilità. Quanto a Holmes, il chirurgo Mortimer, che gli sot-topone il caso del mastino dei Baskerville, dopo averlo a lungo os-servato dice: «Mi interessate parecchio, Mr. Holmes. Non mi sa-rei aspettato un cranio così dolicocefalo e uno sviluppo sopraor-bitale tanto marcato. Avete nulla in contrario se passo il dito lun-go la vostra fessura parietale?».

Scienza fragile quella frenologica, tanto più quando dilatava isuoi tentativi di analisi fino a far diventare ereditarie certe qualità.Del suo nemico mortale Moriarty, ad esempio, Holmes (L’ultimaavventura) dice: «L’uomo ha tendenze ereditarie del genere piùdiabolico. Nel sangue gli scorre una vena di criminalità».

Notevole il fatto che tra i veleni il nostro Holmes ponesse, giu-stamente, la nicotina. Ne L’avventura del piede del diavolo, dice:«Penso, Watson, che riprenderò la mia pessima abitudine di av-velenarmi con il tabacco, che voi avete così spesso e tanto giusta-mente deprecato». Ma, come accade per tanti veleni, anche la ni-cotina era considerata un medicamento. Per esempio in caso dispasmi intestinali si introduceva nel retto del paziente fumo di ta-bacco tramite un piccolo mantice con il cannello foderato dicuoio per evitare abrasioni. In mancanza dell’attrezzatura adat-ta qualche medico suggeriva di «inserire nel retto semplicemen-te un buon sigaro».

Le vicende della medicina, rispecchiate con tanta fedeltà nelleavventure di Holmes, possono far sorridere, in realtà descrivonoil faticoso affrancamento dell’arte medica dalla magia e dalle su-perstizioni. Sherlock Holmes è da questo punto di vista un cam-pione di lucida e sana fiducia nella scienza. Ne L’avventura delvampiro del Sussex, escludendo l’ipotesi stregonesca che a pro-vocare certe ferite sul corpo di un bambino sia un misterioso vam-piro, afferma: «Dobbiamo davvero prestare attenzione a cose si-mili? Qui dobbiamo tenere i piedi per terra e con i piedi per terradobbiamo appunto ragionare». Un ottimo epitaffio, valido, comesi vede, oggi non meno di ieri.

Impronte digitaliGià nel 1686 l’italianoMarcello Malpighi avevanotato l’unicitàdelle impronte digitali A metà dell’Ottocentol’inglese Henry Faulds,il funzionario britannicoin India William Herschele il francese LouisAdolphe Bertilloncontribuironoa far adottare l’analisidelle impronte nella scienza forense

Il detective creato da Arthur Conan Doylesi è sempre mosso a proprio agio con tecnicheinvestigative allora rivoluzionarie. Ora un libroricostruisce caso per caso (reale e narrativo)l’emergere della criminologia dalle tenebre

IL LIBRO

Si intitola La scienza di Sherlock Holmesil libro scritto da E.J. Wagner (Bollati Boringhieri,240 pagine, 22 euro). È un viaggio attraversola medicina, la legge, la tossicologia, l’anatomiae l’emergere della scienza forense nel XIX e XXSecolo costruito in parallelo tra le avventuredel detective creato da Conan Doyle e i casigiudiziari che lo hanno influenzato. In libreriadal 10 maggio. Le immagini della paginasono tratte dai libri d’epoca di Sherlock Holmes

cazione degli insetti e delle piante (ma anche di un’umile gocciad’acqua), il ragionamento sistematico basato sulle informazionicosì ottenute racchiudeva grandi implicazioni per l’evoluzionedella scienza forense», scrive la Wagner.

Un’applicazione, macabra ma convincente, è data per esem-pio dallo studio delle larve e degli insetti che scaturiscono dai tes-suti organici in putrefazione. È facile immaginare la loro impor-tanza per stabilire la data e le circostanze di una morte violenta:«L’idea che alcuni insetti si riproducessero nella carne marcia eche mutassero completamente forma con la maturazione eracompletamente nuova. Se si fosse riusciti a determinare con esat-tezza il modo in cui ciascuna specie colonizzava i morti, ciò pote-va dimostrarsi un valido aiuto nello stabilire il tempo trascorso dalmomento di un omicidio». Anche in questo caso uno dei primistudiosi del fenomeno era stato (seconda metà del Diciassettesi-mo secolo) un medico — e poeta — italiano: Francesco Redi, are-tino. Ai tempi di Conan Doyle l’importanza degli insetti e dellepiante nell’investigazione criminale veniva lungamente discus-sa, lo scrittore aveva passato mesi tra Berlino e Vienna nel 1890 edera assolutamente consapevole delle ricerche in corso.

Un importante capitolo nella “scienza” di Holmes è ovvia-mente quello che riguarda l’uso e gli effetti dei veleni: «Il secoloDiciannovesimo fu epoca di scoperte pionieristiche nell’identifi-cazione delle sostanze tossiche». Già nel momento del suo primoincontro con Watson, Holmes dice mostrando le mani ricopertedi pezzetti di pasta adesiva: «Devo fare molta attenzione, mi tra-stullo spesso con il veleno». Il fatto che le “avvelenatrici” fosserotalvolta donne seducenti e che la fatale pozione fosse stata som-ministrata per ragioni passionali aumentava il fascino dell’argo-mento sicché folle di vittoriani assistevano a celebri processi peravvelenamento come se andassero a teatro. Si trattava in generedi processi di non facile soluzione poiché, nota la Wagner, «all’e-poca le sostanze letali erano ovunque. Il mercurio veniva usatonella manifattura dei cappelli; piccole dosi di arsenico e sostanzeanaloghe erano assunte come tonici; le donne usavano l’arseni-co per rendere più candida la loro carnagione e la belladonna perallargare le pupille…». L’arsenico, veleno prediletto, era anchechiamato, con macabro umorismo, “polvere dell’eredità”.

Notevoli le conoscenze di Sherlock anche per i veleni animali.Ne L’avventura della fascia maculata intuisce subito che una cer-ta morte è stata provocata da un serpente velenoso: «Richiamaialla memoria il fatto che il dottore aveva ricevuto dall’India unascorta di quelle creature. Una forma di veleno che non potesse es-sere rilevata da alcun test chimico era esattamente quella che sa-rebbe venuta in mente a un uomo brillante e spietato formatosiin Oriente».

Una delle domande fondamentali che l’investigazione crimi-

BalisticaFu ancora Vidocqnel 1822 uno dei primia confrontare il proiettileche aveva uccisouna donna con le pistoledel marito e dell’amantedella vittima (che risultòcolpevole). Tredici annidopo Henry Goddardrese celebre la tecnicaIl caso che risolsedimostrò la colpevolezzadel maggiordomo,come da tradizione

Scena del crimineNel 1893 il vienneseHans Gross elaborò

il Manuale per i giudiciistruttori in cui scriveva tra

l’altro: «Mai mutaredi posizione, sollevare,toccare alcun oggetto

prima che sia statodescritto in un rapporto

scritto». Era la primateorizzazione

dell’importanzadella scena del crimine

nelle indagini poliziesche

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GIUSEPPE VIDETTI

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 APRILE 2007

gion di stato e i borghesi combinavano matrimoni,non è più quella magnificamente raccontata da IrfanOrga in Portrait of a Turkish family, grandioso affre-sco familiare tra le due guerre che per intensità ricor-da La storiadi Elsa Morante. «Che parapiglia si scate-nava in casa quando mia nonna annunciava che ilgiorno dopo sarebbe andata all’hamam! L’annuncioveniva dato sempre con ventiquattr’ore di anticipo,perché i preparativi erano laboriosi: bisognava com-prare il cibo adatto, preparare piatti speciali, riserva-re stanze private. Nello spogliatoio, calzavamo letakunyas, poi solennemente ci avviavamo nella saladelle abluzioni, dove ci saremmo lavati e dove avrem-mo divorato tutte le vivande. Nessuno stava al bagnomeno di otto ore: le ragazze in fiore facevano a gara permostrare alle signore i loro corpi bianchi e rosa cosic-ché queste ultime potessero decantare ai figli scapolile meraviglie di quei corpi nudi. L’hamam era ancheil luogo dove gelosie e rivalità scatenavano risse furio-se tra le donne innamorate dello stesso uomo».

L’Aga Hamam (in Turnaçibasi Sokak), aperto nel1562 per finanziare la costruzione del farodi Fenerbahçe, è uno dei pochi aperti ven-tiquattro ore. Un pestamal steso all’in-gresso a mo’ di tenda indica che quella èl’ora riservata alle donne (di solito il matti-no). Dopo mezzanotte diventa il punto diritrovo di chi ha abusato dei piaceri diBeyoglu, il quartiere più peccaminosodella città, in un bar, una taverna, un bor-dello (in Turchia le case sono aperte, la piùgrande di Istanbul è a due passi, in Banka-lar Caddesi). Ci si purifica e si cerca dismaltire la sbornia di raki. Gli oblò dellacupola incominciano a filtrare la luce del-l’alba, quando una creatura senza sesso esenza età fa il suo ingresso nel calidarium.I massaggiatori hanno da tempo riposto lekeze che hanno strofinato dozzine dischiene, glutei e cosce, gli uomini riposa-no sui marmi caldi delle nicchie cullatidallo scroscio incessante delle acque. Il ra-gazzo dall’incarnato da odalisca si acco-vaccia sotto la cupola, pettina senza sostai lunghi capelli neri e con gli occhi chiusicanta Seni kimler aldi, un’aria straziantedi malamore che negli anni Ottanta fece lafortuna di Sezen Aksu, la diva del pop à-la-turca. Come svegliati dal canto di una si-rena, tutti gli uomini del bagno si unisco-no al canto, «Seni kimler aldi / Kimleröpüyor seni / Dudaginda dilinde / Ellerin

izi var» («Chi ti ha rapito? / Chi ti bacia adesso? / Sulletue labbra, sulla tua lingua / Ci sono tracce di altri»),pochi istanti prima che il muezzin esorti tutti al rac-coglimento con la preghiera del mattino. La Costan-tinopoli di De Amicis è tutta lì dentro, intatta, esoticae lontanissima dall’Europa. Lo stupore del turista, og-gi, è pari a quello dello scrittore che centotrenta annifa, in un caffè di Pera, scoprì l’enorme potere di sedu-zione che avevano sul maschio turco i köçek, giovaniefebi (soprattutto cristiani) reclutati in tutto l’imperoottomano e educati alla danza e al travestitismo. Do-po un lungo periodo di apprendistato erano prontiper gli spettacoli e i piaceri della corte (nella metà delDiciassettesimo secolo esistevano almeno dodici le-gioni di köçek — chiamate kol — ognuna delle qualicontava almeno duecentocinquanta ballerini).

Oggi molti hamam del centro, per evitare la chiusu-ra, si sono adeguati alle esigenze del pubblico. Alcunistorici impianti nella zona di Beyoglu o Sultanahmet(Cukurcuma Süreyya, in Cukurcuma Caddesi; ParkHamam, in Divanyolu Caddesi) sono diventati puntod’incontro della comunità gay di una megalopoli chesupera ormai i diciotto milioni di abitanti. Orhan Yil-mazkaya ha fatto un inventario degli hamam di Istan-bul ancora aperti: i risultati della ricerca sono statipubblicati nel libro fotografico Turkish baths — A gui-de to the historic Turkish baths of Istanbul (Edizioni Ci-tlembik, 146 pagine, 20 euro). Si scopre che i bagni tur-chi in città sono ancora moltissimi (almeno cinquan-ta di un certo prestigio), alcuni trasformati in alcoveper incontri sessuali fra uomini, ma la maggior parteancora frequentata da un popolo che non rinuncia al-le tradizioni. Ce ne sono di magnifici, costruiti tra lametà del Sedicesimo e la fine del Diciottesimo secolo,che conservano intatti i segni dell’antico splendore:l’Örücüler Hamam (in Örücüler Kapisi Sokak), con lemeravigliose piastrelle blu di Iznik: il Süleymaniye Ha-mam (in Mimar Sinan Caddesi) con le immense volteluminose; il Galatasaray Hamam (in TurnaçibasiSokak), con i caratteristici marmi rossi; il Cinili Ha-mam (in Cavusdere Caddesi, a Üsküdar, nella parteasiatica), con la sontuosa fontana.

Emre, originario di Trabzon, ora vive a Amburgo. AlCagaloglu, il più barocco degli hamam di Istanbul, èvenuto con i quattro figli, tutti biondi come la madre,tedesca. Hanno lasciato la signora al bagno delle don-ne e ora guardano rapiti la cupola e le cupolette dellenicchie sorrette da una selva di colonne in marmo. Iltramonto inonda d’oro il bagno, l’effetto è magico, iguardiani lo sanno, non accenderanno le lampadinefinché la notte non spegnerà l’ultima luce che filtradagli oblò. I ragazzi, tra i sette e i diciassette anni, ven-gono presi in cura dai massaggiatori, che affondanole dita in quei corpi fragili e pallidi, snodano le artico-lazioni, sciolgono i muscoli, scrocchiano le dita. Em-re li tiene d’occhio seduto accanto alla sua vasca. «Dio,quanto mi manca tutto questo», mormora, e si vuotail bacile d’acqua sul capo per lavare via le lacrime. Nongli va che i ragazzi lo vedano piangere.

prendevano in giro: “Cos’è quel cosino piccolo chehai? Portaci papà la prossima volta”. Poi dopo la cir-concisione il privilegio finì, e cominciai ad andare nelbagno degli uomini con mio padre». A quell’epoca ibagni turchi non erano ancora stati rimodernati coninfissi di plastica e alluminio anodizzato, alcuni con-servavano gli antichi bacili in argento del periodo ot-tomano. Le calzature erano ingombranti zoccoli in le-gno che tenevano i piedi ben distanti dalle pietre trop-po calde e dal rischio delle verruche (gli antiquari delGran Bazar o di Cukurcuma ne vendono esemplari in-crostati in avorio e madreperla a prezzi esorbitanti).

La funzione sociale dell’hamam, luogo di pettego-lezzi e di intrighi dove i sultani complottavano la ra-

La ricompensaL’hamam ricompensa le donneturche di tutti gli svaghi concessialle europee: teatri, balli, viaggiLì le turche siedono fumando,

spettegolando, ridendo...

Bernhard Steinsulla Neue Freie Presse, 1897

‘‘ Il segretoIl bagno moresco o bagno turco,

(...) è uno spazio privilegiato,una specie di segreto che ogni

bambino marocchino custodisce(...) nella propria memoria

Da L’Hammam di Tahar Ben Jelloun, 2002

‘‘

mi caldi, un tè con gli amici a parlar di soldi, di donnee del tempo che farà domani, il dì di festa dei musul-mani.

«Chi come me è stato iniziato al rito dell’hamamnon riuscirà mai a rinunciarvi finché vivrà», dice Cu-neyt, 65 anni, avvocato, divoratore di libri sulla storiaottomana. Disteso sulla pietra calda del Büyük Ha-mam è uno come tanti; l’acqua, il calore, il vapore can-cellano anche le differenze di classe. «Quando erava-mo bambini andavamo nella sezione femminile, in-sieme alle donne di casa. Ricordo ancora la circassadagli enormi seni bianchi che prendeva in grembomia madre come una bambina per massaggiarle lebraccia più energicamente. Le ragazze da marito mi

ISTANBUL

«Non abbiate timore, qui ci tenia-mo all’igiene, gli asciugamanivengono accuratamente lavatie stirati ogni dieci clienti», dice

Murat ossequioso, mentre accompagna due turistiperplessi nella zona più calda del bagno turco. Pocopiù in là, un ragazzo scheletrico, pallidissimo, con ilpestamal umido avvolto intorno alla vita, fa passaredentro una pressa azionata a mano le tovagliette ab-bandonate a terra dagli ultimi avventori, come se quelprocesso oltre a eliminare l’acqua riuscisse anche aschiacciare eventuali germi e parassiti. Stesi su po-tenti caloriferi, quei teli bianchi striati di rosso, comese ne vedono in certi quadri di Ingres, saranno asciut-ti in pochi minuti, per essere utilizzati, rigidi come pe-sci essiccati al sole, dai successivi clienti. E mentre i tu-risti, sempre più disorientati, si accomodano sui sedi-li di marmo, accanto alle antiche vaschedove l’acqua, calda e fredda, gorgoglia dairubinetti in ottone, Murat decanta i van-taggi di quel benefico trattamento: «Insa-ponate bene la pelle, risciacquatela piùvolte, quando si sarà ammorbidita usere-mo il guanto di crine per asportare le par-ticelle morte». Dopo il peeling, sarà la vol-ta del massaggio, ruvido, energico, sullepietre caldissime di un’ara ottagonale co-struita al centro del bagno, sotto la cupolatraforata da piccoli oblò dai quali filtra unaluce pallida, bluastra, che conferisce aquelle mura imbiancate a calce vivaun’aura solenne, mistica. E agli avventoriun colorito diafano.

Alla scarsa igiene della biancheria si puòovviare portandosi asciugamani e ciabat-te dall’albergo, se davvero si ha voglia diprovare una volta nella vita l’ebbrezza diun autentico hamam. A Istanbul ce ne so-no anche di turistici (il Cemberlitas, co-struito dall’architetto Sinan nel 1584, inVezirhan Caddesi; il Cagaloglu, del 1741,in Yerebatan Caddesi, entrambi nei pres-si del Gran Bazar), addomesticati percompiacere gli occidentali, con gli asciu-gamani sterilizzati, vistosamente cel-lophanati, e i massaggiatori pingui e baf-futi che si divertono a stupire la clientelacon i loro coreografici rotolamenti, insa-ponature, strigliature, battiture, pizzicamenti.

«Le case dei bagni si riconoscono di fuori: sono edi-fici senza finestre, dalla forma di piccole moschee,sormontati da una cupola e da alti camini conici, chefumano perpetuamente. Ma prima d’entrare, biso-gna pensarci due volte, e domandarsi quid valeanthumeri, perché «non tutti possono resistere all’asprogoverno che si fa d’un uomo fra quelle mura salutari»,scriveva Edmondo De Amicis nel suo Costantinopoli,affascinante diario di viaggio alla porta d’Oriente (pri-ma edizione, con illustrazioni di Cesare Biseo, anno1877). «Entro timidamente e mi trovo in una gran sa-la che mi lascia un momento incerto, se sia un teatroo un ospedale. Mi par d’essere in un tempio sottoma-rino. Vedo vagamente, a traverso un velo bianco di va-pori, delle altri pareti marmoree, delle colonne, degliarchi, la volta d’una cupola finestrata, da cui scendo-no dei raggi di luce rossa, azzurra e verde, dei fantasmibianchi che vanno e vengono rasenti le pareti, e nelmezzo della sala, uomini seminudi distesi sul pavi-mento come cadaveri, sui quali altri uomini seminu-di stanno chinati nell’atteggiamento di medici chefacciano un’autopsia».

Il piccolo Umut, non più di otto anni, ha accompa-gnato il nonno al Büyük Hamam (in Potinciler Sokak),edificato da Sinan nel 1533 insieme alla moschea diKasimpasa. È il più spazioso e lindo tra quelli ancorafrequentati da soli turchi. Umut inizia amorevolmen-te a insaponare il vecchio, che articola frasi incom-prensibili. Un canto, forse una preghiera, o semplice-mente ordini impartiti al ragazzino, che strofina, grat-ta, massaggia, sciacqua. Terminate le abluzioni, ilvecchio si distende sul marmo, si accarezza la barbaispida e intona una canzone. La voce flebile, amplifi-cata dalla cupola immensa, risuona melodiosa nel-l’hamam. Quando dimentica le parole, Umut è lìpronto a completare la strofa, a suggerire una parola,la giusta intonazione. Il nonno ha una brutta ernia chegli pende dall’addome come una vescica di strutto:Umut la lava delicatamente, la asciuga, la ricopre colpestamal. Oggi il nonno ha bisogno di lui, è il suo bam-bino. Umut non ha tempo per la playstation, non neha neanche una, il suo gioco è la cura del vecchio.

Kasimpasa è un quartiere povero sulla riva destraCorno d’oro. Le case diroccate ospitano colonie dioperai arrivati dall’est. Senza il conforto delle famiglielasciate a Sivas o Dyarbakir, vivono da scapoli in stan-zoni con cinque, dieci letti e servizi igienici ridotti aiminimi termini. Il bagno pubblico per loro è una ne-cessità, non un ozio. Il giovedì dopo il lavoro arrivanoa frotte, indugiano pochi minuti nello spogliatoio adue piani, ripongono gli abiti nelle cabine o negli ar-madietti, il tempo di una sigaretta e una gazzosa, poiscompaiono dietro la porticina di legno che li catapul-ta in quell’umido delubro dove lo sciacquio concilia ilrelax. Si appartano nelle nicchie due a due, per aiutar-si nella rasatura delle ascelle; poi da soli si radono il pu-be, nettano il marmo dai ciuffi di pelo e si preparanoper il massaggio. Infine un sonno ristoratore sui mar-

ACQUA CORRENTE. Tre immagini di lavabi marmorei nei bagni turchi di Istanbul

Nel ventre caldo dell’hamam

Le cupole sembrano quelle di piccole moscheeLe sale, le nicchie ombrose, i marmi e i grandi caminidel bagno turco che fumano senza sosta avvolgono Istanbuldi vapori magici a cui nessuno da secoli riesce a sottrarsiFu così perfino per De Amicis che in “Costantinopoli”racconta quella mistica esperienza lontana dall’Europa

i luoghiRiti del corpo

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 8 APRILE 2007

RISERVATO ALLE DONNE. Due donne turche si rilassano sui marmi di uno degli hamam di Istanbul

ARCHITETTURE E PITTURA. A sinistra, la sala della cupola dell’hamam Cagaloglu. Accanto: Bagno turco opera di Domenico Morelli del 1876

RISERVATO AGLI UOMINI. L’interno dell’ hamam Cagaloglu, uno dei più antichi di Istanbul. Fu costruito nel 1741

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Cinquant’anni fa moriva l’autoredel “Canzoniere”. La sua esistenza fu tormentata,raccontò Italo Svevo, da una “speciale nevrosi”

I suoi versi, scrisse Eugenio Colorni, toccano “il fondo segretoe inconfessabile dell’essere umano”. Lo ricordiamo mostrando alcunisuoi manoscritti inediti, fatti “assai più di cose che di parole”

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 APRILE 2007

Epoi dicono che i poeti si oc-cupano di cose astratte e fu-mose; che spesso e volentie-ri sono inutilmente senti-mentali; che gira e rigira tor-nano sempre ai loro proble-

mi ombelicali. Insomma, che non ci aiu-tano ad aggredire la scabra e duraprosaicità del mondo quotidiano.

Sarà. Eppure, proprio un poeta intrap-polato nella propria patologia psichica,sprofondato in se stesso e nelle propriefissazioni fu, al medesimo tempo, capa-ce di sintetizzare in mezza paginetta lanostra vicenda nazionale. E di farlo conpiù originalità di tanti, celebrati libri disociologi e politologi.

«Vi siete mai chiesti perché l’Italia nonha avuta, in tutta la sua storia — da Romaad oggi — una sola vera rivoluzione? La ri-sposta — chiave che apre molte porte —è forse la storia d’Italia in poche righe. Gliitaliani non sono parricidi; sono fratrici-di. Romolo e Remo, Ferruccio e Mara-maldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio eGraziani. Gli italiani sono l’unico popolo(credo) che abbiano alla base della lorostoria (o della loro leggenda), un fratrici-dio. Ed è solo col parricidio (uccisione delvecchio) che si inizia una rivoluzione. Gliitaliani vogliono darsi al padre, ed avereda lui, in cambio, il permesso di uccideregli altri fratelli».

Quel poeta si chiamava Umberto Sabae moriva giusto cinquant’anni fa (il 25agosto 1957), ma i suoi versi e le sue pro-se — come sempre accade con i grandi,con i classici — non hanno perso nulladella loro originaria freschezza, incisi-vità, efficacia.

Marchiato sin dalla nascita (1883) dalbalordo matrimonio combinato tra lamadre ebrea e uno «sciagurato» che perquattromila fiorini si fece circoncidere,salvo poi abbandonare il figlio prima an-cora che questi venisse al mondo, Um-berto Poli, ecco il vero nome del poeta, siporterà appresso per tutta l’esistenza l’i-dea dell’errore primordiale: «Ci deve es-sere stato, all’inizio della mia vita, un er-rore, come quando si chiude male il pri-mo bottone della camicia e poi non è pos-sibile rimediare senza rifare tutto, dallaprima mossa».

Saba proverà a tornare a quella primamossa; ci proverà con la psicoanalisi (neiriguardi di Edoardo Weiss, con cui ini-zierà la terapia nel 1929, dichiarerà sem-pre ammirazione assoluta e incondizio-nata gratitudine) e ci proverà con la poe-sia. Ma il tratto cupo della sua persona-lità, a parte rari periodi di serenità, sarà ilbasso continuo di una vita comunquedolente, tribolata, dagli anni della gio-ventù fino a quelli di una vecchiaia se-gnata dal ricorso all’oppio, da degenzeospedaliere, da marcate ed esibite ten-denze suicide. A quel punto non poteva-no compensarlo neanche icrescenti riconoscimentidel valore della sua poesia,che inizialmente faticò aimporsi in tutta la sua gran-dezza, inducendolo a la-mentazioni costanti e rei-terate, con toni talvoltaqueruli e irritanti.

Saba, d’altronde, nondoveva essere propria-mente affabile, «bonario».Quanto meno fu questa laprima impressione del gio-vane filosofo Eugenio Co-lorni, al momento di cono-scerlo, quando abitava non lontano dal-la sua famosa libreria antiquaria. «Gli oc-chi ti scrutano con fastidio, con sospetto[...] Indovini un uomo tutto occupato disé, smarrito nei suoi tic nervosi, e nellesue idiosincrasie, nei suoi “complessi”».

Eppure Colorni, che peraltro è un uo-mo sano, e soprattutto calato completa-mente nella storia, nei tragici eventi delsuo tempo, ne rimane ipnotizzato e cer-ca in tutti di modi di superare il muro di li-vida diffidenza che l’altro gli frappone(«Se gli domando un libro, mi fa capireche lui è un poeta. Se gli parlo di poesia,mi guarda, come dire: “Al sodo, signore!Io vendo libri”»).

Cos’è dunque che ammalia così tanto

il giovane filosofo? Quell’uomo con lapipa in bocca e il berretto calato sullatesta, tutto preso dai suoi egotisticicrucci, quando scrive versi finisce pertoccare «il fondo segreto e inconfessabi-le dell’essere umano». Quell’uomo «vivein un carcere, sottoposto a quotidianetorture; ma non è disposto a uscirne senon con le proprie forze. La sua fisiono-mia travagliata ha un che di sereno, forte:la calma di una disperazione incrollabi-le».

Colorni milita nell’opposizione clan-destina al fascismo e pagherà con la vitala sua adesione alle formazioni partigia-ne. Nulla, e men che mai un precipizionella nevrastenia, possono distrarlo dauna vita tutta improntata a un’inflessibi-

le lotta per la libertà della nazione.Eppure, malgrado lo senta così di-

verso, capisce che l’uomo che ha difronte, braccato dal mondo e da se stes-so, ha molto da insegnargli. Di più. Si ren-de conto che quell’uomo contribuirà amodificare nel profondo il suo approcciofilosofico alla realtà.

Tant’è che questo ritratto di Saba del1939 (compreso nel libretto Un poeta ealtri racconti, prefazione di Claudio Ma-gris, Il Melangolo), così si conclude: «Daquel giorno mi sento più libero, e mi sem-bra di capire di più. C’è tutta una serie dicose di cui non ho più paura: di parlareper approssimazioni, di dire “gli esseriumani”, anziché “lo Spirito”. Da quelgiorno non ho più orrore né disprezzo

per le scienze naturali, e non sento più ilbisogno di scrivere difficile. La parola“empirico” non è più per me un insulto.E da quel giorno non mi entra più in testache cosa significhi l’Universale».

Ad insegnarglielo è un poeta «capacedi immergersi nell’oscuro grembo delmondo», sperando di riportare in super-ficie le fiere maligne che prosperano inquegli abissi; è l’autore di molti versistraordinari e di altri decisamente nonriusciti («Voi lo sapete, amici, ed io loso./Anche i versi son fatti come bolle/disapone; una sale e un’altra no»); è un uo-mo mosso da un imprescindibile assun-to: la fedeltà a una «poesia onesta», natu-ralmente intonata al proprio mondo in-teriore, «fatta assai più di cose che di pa-role». Una poesia rivolta a tutti.

Come scrisse Sergio Solmi, secondosoltanto a Giacomo Debenedetti nellascoperta di Saba e della sua solitaria gran-dezza, quella poesia «estranea al gustocrepuscolare», a quello vociano e lacer-biano, e ancor più a quello avanguardi-stico o futuristico, o, per contro, al «pecu-liare neoclassicismo rondista», rischiavadi restare prigioniera della sua unicità,della sua congenita inclassificabilità. Edifatti Saba se ne lamentò continuamen-te; magari confondendo critiche ingiustee sommarie con gli apprezzamenti di chi,al contrario, colse per tempo l’assolutaoriginalità del suo canto.

Tra gli altri — come si desume dall’in-troduzione di Nunzia Palmieri all’edizio-ne einaudiana del Canzoniere (1900-1954)— ne paga in qualche modo le con-seguenze Eugenio Montale, che difattiscrive stupito in una lettera ad Italo Sve-vo: «In questi giorni m’è accaduta un’av-ventura straordinaria. Ho pubblicato(sul Quindicinale) sette colonne di lodi aSaba e ho ricevuto dal poeta una letteramolto piquée, in cui afferma che non hoparlato affatto di lui ma di me stesso (!!!).Le mando a parte il giornale perché Ellapossa giudicare».

Non tarda la risposta dell’autore de Lacoscienza di Zeno: «Saba soffre di unaspeciale nevrosi e bisogna scusarlo. For-

I DOCUMENTIMiriam Coen (nella fotoqui sopra) conservanumerose carte autografeinedite di Umberto SabaIn alto a destra, l’appuntosulla “linea dell’arte”indirizzato all’amicoBruno Pincherle. Nella partealta di questa pagina,i dattiloscritti, con correzionia mano, delle poesie Passerie Il canarino e il giovanecomunista (titolo definitivo:A un giovane comunista)Le foto sonodi Alessandro Contaldo

IL RITRATTOUn ritratto fotograficodi Umberto Sabaa quarant’anniconservatotra le cartedi Miriam CoenNella foto grande,il porto di Triesteai primidel Novecento

Il male oscuro che si inventò poesia

FRANCO MARCOALDI

“Ci deve essere stato,all’inizio della miavita, un errore,comequando si chiudemale il primo bottonedella camicia”

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UmbertoLA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 8 APRILE 2007

se non ebbe in passato quello che meri-tava ma ciò avvenne a molti vivi (nevve-ro, Montale?). Da lui ciò sviluppò unaspecie di malattia di cui tutti i suoi amicisi accorgono. Io conosco il Suo articolonel quale sono nominato anch’io e Sabami pare molto ingiusto. Ora talvolta miviene il dubbio di somigliargli troppo».

La fragilità psicologica degli scrittori ènota, quella dei poeti — se possibile — èsuperiore. A questo si aggiunga, nel casodi Saba, una nevrastenia ossessiva che sisposava a un’intelligenza stregonesca.Ciò che gli consentiva di giustificare laprima con le scintille incontenibili dellaseconda. «Perché gli artisti che non han-no avuto successo sono difficilmenteconsolabili? Neanche la constatazione diquello che è e vale l’opinione pubblica,l’evidenza — diventata scandalosa — dicome la si monta e smonta, riesce a met-tere una goccia di balsamo sulla loro pia-ga. Vanità? Non direi; o solo per i casi in-fimi. Direi piuttosto che l’opera d’arte è— anche là dove meno sembra — unapubblica confessione; che, come ogniconfessione, esige l’assoluzione. Succes-so mancato vuol dire assoluzione nega-ta. S’immagina quello che segue».

Se poi qualcuno lo avesse invitato anon esagerare, rammentandogli che or-mai era un riconosciuto maestro, e dun-que la smettesse di fare il bambino, Sabaavrebbe avuto buon gioco a rispondere:«Nel poeta è il bambino che si meravigliadi quello che succede all’uomo. Per lagrande arte occorrono (oltre agli acces-sori) un bambino estremamente piccolo(treenne) ed un adulto, conviventi nellastessa persona: Dante».

Non pago di questo, poiché rimanevaconvinto che nessuno lo avesse davverocompreso fino in fondo, mise a frutto lasua mirabile intelligenza critica per la piùazzardata delle opere, una Storia ecroni-storia del Canzoniere, in cui, dopo avercreato lo pseudonimo di Giuseppe Cari-mandrei, avrebbe fatto finalmente chia-rezza — ecco l’altra parola chiave del ge-niale triestino — su Saba medesimo. L’o-perazione può anche essere giudicata,

per molti versi, imbarazzante. Ma rientraperfettamente nella natura di un uomo,per dirla con Debenedetti, che alla perse-cuzione patita negli anni della stretta to-talitaria aggiunge «una preesistente, ata-vica angoscia di perseguitato, di uomoche automaticamente abbozza il gesto diripararsi dal diluvio, anche quando il cie-lo è sereno». Come che sia, questo libro«irritante e adorabile, infantile e sapien-tissimo», finisce per rivelarsi un preziosoviatico alla sua poesia, che, come ha scrit-to ancora Solmi, costitutiva per lui «la fo-dera, il rovescio esatto della vita».

Generata da «un’accorata intimità»,da un’acre immediatezza, da un’attitu-dine empirica mai doma, da una «scien-za sottile del cuore», quella poesia si rive-lerà tanto più moderna perché in fertilecontatto con la tradizione e tanto piùprofonda perché animata da un deside-rio di semplicità e chiarezza: «La tua gat-tina è diventata magra./Altro male non èil suo che d’amore:/male che alle tue cu-re la consacra./ Non provi un’accoratatenerezza?/Non la senti vibrare come uncuore/sotto alla tua carezza?/Ai miei oc-chi è perfetta/come te questa tua selvag-gia gatta,/ma come te ragazza/e inna-morata, che sempre cercavi,/che senzapace qua e là t’aggiravi,/che tutti diceva-no: “È pazza”./ È come te ragazza».

TORINO

Tra i fogli sparsi su un tavolino, ingialliti e fragili, c’è un piccolo rettangolo di carta. Umberto Saba vi trac-ciò a matita tre linee orizzontali: dal basso, la linea dello stile, quella della testa e quella del cuore, con unadiagonale che le attraversa a salire. Si legge: «Arte (difficile spiegare da dove nasce il ruscelletto; una volta losapevo, oggi non più). Se non supera la prima linea (dello stile) non è arte (può essere qualunque altra cosa,ma non arte): se non tocca la terza, non m’interessa. Se supera anche quella è Dante».

Il poeta del Canzoniere inviò questo biglietto all’amico fraterno Bruno Pincherle, medico triestino, politi-co, membro del Partito d’Azione, il quale a sua volta lo lasciò in eredità insieme a un cospicuo corpo di “cosesabiane” a Miriam Coen, professoressa in pensione, studiosa, soprattutto curiosa. «Bruno Pincherle fu il miopediatra quand’ero bambina, poi diventò per me come un padre e più di un maestro. Alla sua morte, nel 1968,mi lasciò quel mobile del Settecento, vede?» e indica un elegante trumeau addossato a una parete di questacasa sulla collina torinese, appartata e silenziosa, eppure piena di bambini e oggetti. C’è anche una gatta. «Ilmobile conteneva le carte di Saba che in questi anni ho raccolto e curato, e sulle quali ho scritto qualcosa».

La signora Miriam le ha preparate sul tavolino insieme al caffè e agli ovetti di Pasqua. «Ecco, ci sono ma-noscritti di poesie in diverse stesure, ad esempio Libreria antiquaria, oppure Il canarino e ilgiovane comu-nista che nel Canzoniere diventerà A un giovane comunista. E poi le lettere di Saba a Pincherle, prime edi-zioni, raccolte antologiche mai pubblicate e questa pagina dell’Ernesto». Un foglio solo, piccolo, sarà un tre-dici per diciotto, con correzioni e inserimenti a matita. Una nota autografa di Saba dice: «Dal sesto episodiomolto al di là da venire». Il brano sarà invece inserito nella quinta e ultima parte del romanzo, con lievissi-me varianti. Comincia così: «Ernesto ed Ilio scendevano, quella sera, la diletta erta di Scorcola. Volevano re-carsi a prendere, sebbene fosse già tardi, un bagno di mare».

Su Ernestoc’è anche una lettera che in qualche modo l’annuncia, definendolo però impubblicabile per-ché scabroso (si parla di omosessualità). Ma se uscisse, scrive Saba, sarebbe rivoluzionario. Accadrà, peròmolto tempo più tardi. «Non ho deciso il destino di queste carte, forse le darò all’Università di Trieste, forseal fondo manoscritti “Maria Corti” di Pavia», dice la signora. Le pagine con le poesie sembrano lievi animebianche sul punto di frantumarsi. Saba le corresse con l’inchiostro blu, anzi un azzurro oltremare che resi-ste al tempo. Qui si capisce come una singola parola possa cambiare, e cambiando viaggiare verso la suaforma definitiva. Ci sono anche fotografie (una, del poeta a quarant’anni anche se pare assai più vecchio) edediche conservate tra fogli trasparenti, tutte all’amico Bruno. «Ladro, sadico e la sola persona che — a Trie-ste — capisca qualcosa (non tutto)», la data è 20 luglio 1953. Oppure un ironico augurio natalizio, sempreper Pincherle: «A Jehova, Natale 1946». Infine qualche lettera all’amata figlia Linuccia, la «bambina con lapalla in mano» delle Cose leggere e vaganti, l’amata bimba che al poeta ricorda «la marina schiuma» e «le nu-bi, insensibili nubi che si fanno e disfanno in chiaro cielo».

La signora Miriam Coen va un attimo nell’altra stanza, e ne esce recando un calco di gesso: l’impronta fu-nebre del poeta. «Forse un po’ macabra ma curiosa, e non poco interessante, non trova?». La signora,quand’era piccola incontrò Saba un giorno a Trieste: «Ero per strada con la mamma e riconobbi il mio pe-diatra, il dottor Pincherle. Con lui c’era un signore elegante, anziano, indelebile. Io avevo dieci anni, ma infondo è successo ieri».

Versi corretti con l’inchiostro azzurroLe carte mai pubblicate, custodite dalla professoressa Miriam Coen

MAURIZIO CROSETTI

Saba

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la letturaStoria disegnata

Nikolaj Maslov, russo originario di un villaggiodella Siberia occidentale, classe 1954, ha raccontatocon la matita la propria vita. Tavola dopo tavola,emergono il disperato squallore della propagandadi regime, le brutalità del servizio militare, il lavorobestiale, l’alcolismo. Una “graphic novel” senza pietà

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Homo sovieticus, la vita in grigio

LEONARDO COENpeggio che nella mia infanzia. Non c’è comunismo, non c’è democrazia, niente. Solo la lotta per so-pravvivere». Vita vissuta. Non a caso, la cifra stilistica dei fumetti di Maslov è quella del grigio, coloreunico, come il partito che vegliava sui destini dei russi. Non il bianco e nero. No. Esattamente il grigio,in tutte le sfumature possibili: metafora plateale, testimonianza disperata.

Maslov è nato nel 1954, in un villaggio della Siberia occidentale. Nove anni dopo la fine della “Guer-ra patriottica di liberazione”, come Stalin ribattezzò la Seconda guerra mondiale. La sua è la genera-zione di «coloro che ascoltano le memorie di eroismi altrui», senza la consolazione di aver partecipa-to ad una vicenda essenziale della Storia. E la seconda beffa del destino è che, quando scoppia la pe-restrojka, è già troppo vecchio. Buono, semmai, per essere tritato dagli implacabili meccanismi delconsumismo più sfrenato.

Maslov sintetizza l’epocale transizione dal comunismo al capitalismo selvaggio in pochi tocchi dieloquente pessimismo. La spesa dell’abbondanza al supermarket. Comprare ciò che non serve vera-mente, pensando così di conquistare la libertà. La Mosca dei nuovi ricchi accoglie Maslov: a lui toccaspazzare i cortili dei condomini di Mosca, dove è approdato come milioni di altri russi speranzosi e tra-diti. Ha già fatto il muratore, insegnato arte alle scuole tecniche, lavorato in una galleria dove veniva-no esposti solo ritratti di Lenin. E due chiodi fissi. Il poeta Esenin, morto suicida negli anni Trenta; esuo nonno, vittima delle purghe staliniane. Era stato fermato assieme ad altri sei membri del suo

MOSCA

«Che cos’è questo Paese che spinge la gente nelle tombe?», si domanda ad un cer-to punto il protagonista di Siberiae non c’è bisogno di andare a decifrare chissàdove la risposta tra le tavole della bellissima graphic noveldisegnata da NikolajMaslov, la prima — straordinaria — mai creata da un russo. Verrebbe voglia di

rispondergli subito: è il grigiore straziante della tua vita, giorno dopo giorno, anno dopo anno, cosìcome appare in questo struggente romanzo autobiografico a fumetti. Dalla propaganda martellan-te che ti martirizza sui banchi di scuola, alle miserie e prepotenze del servizio militare nell’ArmataRossa (in Mongolia), al ritrovamento di fosse comuni in un gulag di Tomsk, fino alla drammatica espe-rienza in un ospedale psichiatrico, dove il protagonista viene rinchiuso dopo la morte del fratello, chenon ha retto alle sevizie e alla brutalità del servizio militare. I cantieri dove si spezza la schiena, con-solato dagli slogan che dicono balle a cui tutti fingono di credere. In filigrana, l’ordinaria vita dell’ho-mo sovieticus, la quotidiana contrapposizione tra realtà e ufficialità, la dimensione privata e quellacollettiva. Più eloquente di qualsiasi saggio sulla Russia che ora, come candidamente dice Maslov, «è

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IL LIBRO

La casa editrice Alet manda in libreriail 18 aprile Siberia di Nikolaj Maslov(con una prefazione di Emmanuel Carrère,200 pagine, 15 euro). È una graphic novelautobiografica che racconta la vita dell’autore,nato nel 1954, durante gli ultimi vent’annidell’Unione Sovietica. Una descrizione disperata,ma il suo sguardo non è certo meno spietatosulla Russia post-sovietica di oggi

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kolkhoz. Gli avevano detto: avrai salva la vita se denunci gli altri. Sul verbale del processo si legge che ilnonno ripeté sempre una sola frase: «Non sono assolutamente contro la rivoluzione, ma prima ave-vamo il pane, ora non ne abbiamo più». Fu fucilato la sera stessa.

Sette anni fa Maslov varcò la soglia della libreria-casa editrice Pangloss di Emmanuel Durand, chea Mosca tutti chiamano Manu. In una cartella teneva tre tavole di disegni. Maslov passò quasi un’o-ra facendo finta di sfogliare i libri, poi, preso coraggio, porse il suo book a Manu chiedendogli di dareun’occhiata: «È la mia vita», disse, «a fumetti». Manu lo scrutò con uno sguardo alla Maigret. In Rus-sia, rifletté, nessuno fa fumetti. Salvo qualche ragazzino alla moda che scimmiotta i manga. Ma queltipo non era certo un ragazzino. Piuttosto assomigliava a un campagnolo siberiano. Manu osservò ifumetti. Gli piacquero: «Bon, sono belli. Coraggio, continui. Voglio scoprire come andrà a finire».

«Lo vede da sé», rispose Maslov. «Mi guardi: sono finito a fare il guardiano notturno in un magazzi-no. Mia moglie è medico, guadagna una miseria come tutti i medici russi. Ho due figlie grandi che stu-diano. Siamo senza il becco di un quattrino. Se davvero le interessa che io continui, non mi basta unapacca sulla spalla. Perché non mi paga il salario che piglio come guardiano?». Manu gli chiese: «Quan-to le danno?». «Duecento dollari al mese», rispose Maslov. Manu accettò la sfida. Per tre anni, Maslovricevette i duecento dollari mensili. In cambio, dovette firmare un contratto. Rimase stupito di «ve-derlo contrassegnato dalla sola firma dell’editore, e non da una costellazione di timbri e sigle come

tutti i documenti russi e sovietici» (Emmanuel Carrère: breve ma bellissima la sua prefazione).Maslov oggi vive a Parigi. Il suo sogno, confessato all’inizio di Siberia. I critici l’hanno acclamato.

Poeticamente, come l’austero Figaro: nei fumetti di Maslov non vi è nulla di più «che un filo d’erbachiamato a sottomettersi ai capricci del vento». E a quelli, dannosi ma liberatori, della vodka da quat-tro soldi che fa capolino ogni tre o quattro pagine. Un topico della letteratura russa. Vengono in men-te opere come Tra Mosca e Petushki di Venedikt Erofeev. O Un problema di lupi mannari nella Rus-siacentrale, racconto che dà il titolo all’omonima raccolta di Viktor Pelevin. Certi scorci di sordide pe-riferie industriali li ritrovi nella prime venti pagine di Dolore e ragione di Josif Brodskij: Leningrado, dauna radio arriva la voce di Ella Fitzgerald; i corpi istupiditi dall’alcol che Maslov disegna paiono ca-daveri, posati su una frontiera nemmeno tanto invisibile tra una non-vita e una non-morte.

La fortuna di Nikolaj, si fa per dire, è stata quella di nascere in Siberia, la sconfinata Siberia occiden-tale. La taiga è il karma spirituale di Maslov. La Natura è il suo rifugio, ci confida nelle prime pagine.«Sarà stato verso la quinta classe»: l’adolescente Nikolaj scopre la sua passione per il disegno. Imparada solo. Incomincia a vedere cose che non gli era riuscito mai di vedere prima: «L’immensità dei cam-pi, l’austera bellezza della foresta, la fantasia delle forme». Subito dopo, sequenza muta. Cinque “im-pressioni” siberiane: paesaggi, case. La punta grassa della matita di Maslov fa economia di parole.

Non di silenzi.

TAVOLE DI NIKOLAJ MASLOV

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Sei attori diversi, sei modi di maturarenella vita e sul grande schermo,insieme e contro il proprio pubblico

«SONO alla soglia dei settanta, ma il trauma l’ho affrontato quandoho compiuto cinquant’anni: quando ti piombano addosso la perdi-ta dell’innocenza e il senso della mortalità. Sono fortunato, e la vita-lità fisica e sessuale sono i motivi per cui mi sento così vivo. Non hoperso la libido, ma sono meno tollerante della danza che comporta.È più facile per me stare solo: c’è stato un lungo periodo in cui sen-tivo che mi mancava l’aria se non finivo sempre a letto con qualcu-no; ora apprezzo la mia solitudine come un lusso.

Essere chiamato nonno mi disturba un po’, ma sono fiero di esse-re durato tanto. L’età limita un attore perché il pubblico è orientatoalla gioventù e i ruoli per gli attori della mia età sono scarsi e in ge-nere imperniati sul tema della morte, del pensionamento o, peggio,della disillusione. A me finora è andata bene: ho notato che quelloche mancava nel cinema era la sessualità dopo la mezza età, e hoprovato a riempire quel vuoto. Invece di diventare più conservato-re, invecchiando cerco di provocare».

Jack Nicholson

Sono un nonno provocatore

«LA vecchiaia non mi spaventa perché ho imparato a godermi unpo’ più la vita in modo semplice. Sono nel terzo atto della mia esi-stenza, ho sentito di esserci entrata quando ho compiuto ses-sant’anni — sperando di vivere fino ai novanta — e mi sento menoconfusa che nei primi due atti. Il cinema è cambiato drasticamen-te da quando ho cominciato la mia carriera di attrice. Allora Hol-lywood era dominata dai grandi moguls: Harry Coen, Jack Warner.Oggi la maggior parte degli studi sono sussidiari di corporazionimultinazionali. Io ho smesso di recitare quando ho incontrato TedTurner, perché ogni volta che andavo sul set ero spaventata da mo-rire: Barbarella era stata pura agonia. All’epoca non c’erano tantebuone parti per le donne. C’è voluto il movimento femminista euna grossa dose di maturità per renderci possibili ruoli più inte-ressanti: ho lavorato sei anni per mettere in piedi Coming Ho-me; così come ho lavorato per realizzare Non si uccidono cosi’anche i cavalli?nel ‘68, fase di svolta per tutti, non solo per me».

(s. b.)

Jane Fonda

È il terzo atto della mia vita

Si chiamano Jack Nicholson, Jane Fonda, Warren Beatty, Robert Redford,Vanessa Redgrave, Dustin Hoffman. Hanno dato i loro volti a Easy Rider,Non si uccidono così anche i cavalli, Bonny & Clyde, Butch Cassidy, Blow

Up, Il laureato: i film-culto di una generazione inquieta, piena di voglia di novità, di libertàe di rivolta. In questo 2007 tagliano tutti insieme il traguardo dei settant’anni

Èuna coincidenza di date dinascita, di possibili rievoca-zioni, di incroci generazio-nali quasi diabolica, e di Zeit-geist. Potremmo metterla al-la voce Come eravamo, o

cantarla secondo la melodia di Wherehave all the young men gone, come re-cita una delle canzoni-simbolo dellenostre giovinezze, o anche di Foreveryoung, «per sempre giovane», l’augu-rio cantato da Joan Baez a una interagenerazione. Ed è anche uno shock.Perché non ci si pensa spesso, non inquesto modo: anche i ragazzi compio-no settant’anni.

Sembra ieri che erano, che eravamocosì. Diversi, certo, noi seduti in platea,un po’ più giovani o un po’ più vecchi,ma vicini, molto vicini — per curiosità,fascia generazionale, turbamenti poli-tici, tentazioni libertarie, voglia di irre-golarità — alle immagini di Jane Fonda,di Jack Nicholson, di Robert Redford, diDustin Hoffman, di Warren Beatty, e,dall’altra parte dell’Atlantico, ma vici-na per mille ragioni — età, cultura, ci-nema — di Vanessa Redgrave. Tuttaquella tumultuosa e meravigliosa ban-da di attori, attrici, volti, simboli di gio-vinezza che per la citata, diabolica

coincidenza di date raggiungono, inquesto anno di grazia 2007, la ragguar-devole età dei settant’anni. E che con illoro compleanno (Fonda il 21 dicem-bre, Nicholson il 22 aprile, Hoffman l’8agosto, Redford il 18 dello stesso mese,Beatty li ha compiuti il 30 marzo e Red-grave il 30 gennaio) ci costringono a fa-re i conti con la memoria, con la nostraprima volta con loro, con la nostra e laloro immagine di oggi e di allora, quan-do hanno fatto irruzione nella nostrafantasia e nel nostro universo senti-mentale e politico, modelli e punti di ri-ferimento di un momento della storia edel costume carico di fermenti e di vitacome poche volte si ripeterà. E ci co-stringono anche a fare i conti con il pre-sente (loro), che qualche volta ci lasciaperlomeno stupiti quando non basiti:Barbarella, Hanoi Jane, la pasionariache diventa “cristiana” dopo aver at-traversato la proficua fase aerobica(che per la verità continua ad essereproficua)? Warren Beatty, il seduttoresciupafemmine del gruppo, diventatotardivamente il tranquillo padre di fa-miglia domato dalla elegante e spirito-sa Annette Bening?

Ciascuno ha la sua piccola autobio-grafia dello schermo. Io, personalmen-te, mi sono invaghita del delizioso pic-coletto Dustin Hoffman sin dalla suaprima apparizione con le pinne e gli oc-chiali nel Laureato, ed ero abbastanzaindignata (gelosa? o consapevole delrischio rappresentato dalla concor-renza delle belle signore “adulte”?) percome lo prendeva e lo usava la meravi-gliosa Ann Bancroft. Era la vigilia del

‘68, e, dal film di Nichols e dalla facciaimbambolata ad arte di Dustin, si capi-va già tutto, o molto: la rabbia, la noia,la voglia di cose diverse, i giochi picco-lo-borghesi da evitare. Nell’arco diquegli anni Jack Nicholson è stato pri-ma, accanto al più giovane Peter Fon-da (che di anni adesso ne ha sessantot-to) e al più grande Denis Hopper (che dianni ne ha settantuno e di filosofie neha cambiate molte, in direzione con-servatrice) l’avvocato ribelle di Easy Ri-der, poi il musicista drop out RobertEroica Duprea di Cinque pezzi facili,poi ancora il macho Jonathan, freddo epredatore, di Conoscenza carnale. E misono innamorata di Robert Eroica Du-prea (il personaggio si chiama così per-ché nella sua famiglia tutti hanno unnome musicale) per il suo rifiuto totalee per come, in una scena esemplare,sconvolge la routine delle ordinazionidi patatine al ristorante.

Ma, pur così diverso, biondo, classi-co, come si faceva a resistere a Redforde al suo invito alla libertà della giovi-nezza in Butch Cassidy? Anche se inquel film di belli gli rubava la scena unattore già grandicello come Paul New-man, che allora, essendo del ‘25, avevala bellezza di quarantaquattro annicontro i gloriosi trentadue del Sundan-ce Kid: il quale Sundance Kid poi cre-scerà per diventare, di Sundance, nonpiù il Kid ma il grande patrono, il pro-motore culturale, l’uomo d’affari, ilfondatore del festival più trendy delglobo.

E la ragazze? L’aristocratica VanessaRedgrave era incantevole, elegante, re-

Il cinema ribelle e i suoi vecchi eroiIRENE BIGNARDI

SILVIA BIZIO

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«PREFERISCO non pensare agli anni che passano, sto fisicamentebene, faccio sport, vivo all’aperto il più possibile. Non mi piace af-fatto l’ossessione che ha l’America con gli anni. Non penso che in-vecchiare sia tanto male. Anzi, è una buona cosa perché ti permettedi dividere con il pubblico chi sei, dove sei stato e cosa offri.

Nel 1967 mi scritturarono per A piedi nudi nel parco, cui seguì But-ch Cassidy, e diventai famoso. E, come ogni cosa, il successo è statoun’arma a doppio taglio. Cominciai a venir scritturato perché dice-vano che ero bello. Strano, perché quando ero sconosciuto nessu-no mi diceva che ero bello. All’inizio ne sono rimasto lusingato e am-maliato. Poi capii che il mio look era diventato un impedimento al-le cose che volevo fare, non mi si prendeva più sul serio. E io ero en-trato nel cinema per fare sul serio. Ho sempre combattuto con que-sta dicotomia: prestanza fisica e serietà. A Hollywood, almeno aimiei tempi, ero un ossimoro».

(s. b.)

Robert Redford

Il problema di essere bello

«UNA delle cose più belle di aver raggiunto la mia età è che ti sveglial mattino e non sei più incatenato a un maniaco, e il maniaco, se seiun uomo, è la tua libido. Ce l’hai ancora, ma non ti condiziona piùcome una volta, non te la trascini appresso come un peso. Per esem-pio cammino sulla spiaggia e noto le conchiglie, e preferisco le con-chiglie alle donne che mi girano intorno in costume da bagno. Hoquasi settant’anni e penso che mi va benissimo continuare ad in-vecchiare per altri trenta.

Ogni tanto ripenso al fatto che faccio l’attore da mezzo secolo, emi sembra incredibile... All’epoca non avevamo la consapevolezzache stavamo vivendo l’epoca d’oro del cinema. Girare il Laureato,ad esempio, è stata una sfida quotidiana. Il regista Mike Nichols fucoraggioso scegliendo me per un ruolo adatto a Robert Redford.Avevo trent’anni, dovevo recitare un giovane di ventuno, non ave-vo mai avuto un ruolo di protagonista. E il pubblico pensava, “Ca-spita, è un bel film, peccato che l’attore sia sbagliato”».

(s. b.)

Dustin Hoffman

Anni d’oro e non lo sapevo

mota, nel ruolo dell’ex moglie che Mor-gan matto da legare cerca di riconqui-stare, e ancor di più quando si mettevaal collo quel misterioso e inutile foula-rino che la rendeva così strana e al tem-po stesso così chic e ancora più nudaquando si spogliava in Blow up. Era na-ta una stella, avevano già decretato icritici di teatro e il pubblico britannico.Con quei due film arrivò alla ribalta in-ternazionale un’icona (come si dicechissà perché oggi) che è rimasta fede-le a se stessa nel profondo delle suescelte: il tempo, la grande Vanessa, halasciato elegantemente che facesse ilsuo corso e i suoi danni, mentre le sueidee, tendenzialmente scomode, sonorimaste le stesse o persino si sono radi-calizzate, ignorando le critiche (comequelle di sua sorella Lynn) che la dipin-gevano con «il complesso di Giovannad’Arco e la vocazione per il martirio».

Al contrario di Jane Fonda, che aglianni si è opposta con tutte le forze delsuo conto in banca e della sua inventi-va, e che continua ad offrire la splendi-da immagine un po’ ritoccata di donnachic e racée, figlia dell’aristocrazia delcinema e dell’America bene: educata aVassar, ex splendida debuttante del ci-nema, passata tra le mani di un grandePigmalione come Roger Vadim, diven-tata la Barbarella del sogno erotico diuna generazione, poi, a sorpresa, tran-sustanziata nel simbolo della ribellio-ne sessantottesca e nella vera attrice diNon si uccidono così anche i cavalli e diUna squillo per l’ispettore Klute (la pro-stituta tormentata e intelligente che, inun’epoca in cui tutti cercavano l’orga-

smo, se lo negava, per orgoglio, quan-do era con i suoi clienti), poi approda-ta brevemente al ruolo di musa di Jean-Luc Godard, che, molto prima che suc-cedesse a John Malkovich, la rese pro-tagonista di un film “personalizzato”,Letter to Jane…

È il ‘68, signori, e poi il ‘69, e l’ex Bar-barella sostiene l’occupazione di Alca-traz, le Black Panthers, il femminismo,e manifesta contro la guerra in Viet-nam. Poi, brevemente e precipitosa-mente, passano gli anni Settanta. Neldecennio successivo Hanoi Jane è di-ventata un’altra: nel 1981 gira, comedesiderava fare da tempo, un film che,nei voti, l’avrebbe avvicinata al semprelontano genitore. Nel 1982 dà allestampe il suo primo video di esercizi,ispirato al suo libro di aerobica, vendediciassette milioni di copie, seguito daaltri ventitré video ginnici, altri cinquelibri e tredici programmi radio — la ba-se per una fortuna —, sposa Turner, staquattordici anni lontana dagli scher-mi, ci ritorna prepotentemente. Nel2001 annuncia di aver ritrovato la fede,di essere una cristiana…

Un percorso tutto Fonda. Il suo com-pagno di corse “a piedi nudi nel parco”,Robert Redford, ha scelto intanto lastrada del rigore, della privacy, del la-voro costante e paziente, e, sempre re-stando una superstar (ma anche com-parendo sempre meno sullo schermo),ha messo insieme negli anni una paci-fica macchina da pacifica guerra che ir-radia in tutto il mondo, dai luoghi dellasua mitica giovinezza cinematografi-ca, e cioè dalle montagne dello Utah

che ora si chiamano Sundance, i suoifilm e la sua cultura, apparentementemolto simile a quella alternativa e gio-vanilistica dei bei tempi, in realtà sot-terraneamente e abilmente legata allamacchina hollywoodiana.

L’altro splendido settantenne War-ren Beatty, il Clyde di Bonnie and Cly-de, il produttore intraprendente, il ri-voluzionario di Reds, a cinquantacin-que anni, dopo una vita di seduzioninella realtà e sullo schermo, con all’at-tivo una lista di flirt lunga come un ro-sario, ha scoperto le gioie della fami-glia, e vive quietamente da tre lustri ac-canto a sua moglie e a una tribù di quat-tro bambini.

E Jack Nicholson? Sempre troppoironico e intelligente per prendere sulserio il suo ruolo di ribelle cinemato-grafico — per non dire quello di sedu-cente seduttore, per non dire quello dicattivo che, con Shining, l’ha portatoalla assoluta stardom e che lui ha con-tinuato a portare avanti fino a The De-parted, per non dire quello di pietra mi-liare della nuova Hollywood di allora edella Hollywood di sempre — Jack Ni-cholson continua a circondarsi di unanuvola di privacy e di humour, nonmolto diverso dal Jack degli anni d’oro,e si ostina ad esprimere un rassicuran-te pensiero liberal con qualche guizzodi politicamente scorretto che sembrail logico distillato della contestazionedi cui è stato una voce e un portavoceall’epoca.

Ma, tra questi splendidi settantenni,il personaggio forse più sorprendente èDustin Hoffman, l’attore bruttino, pic-

colino e col gran naso (così, saggia-mente, si descrive anche lui, che so-gnava di essere bello come quel torso-lo di Tab Hunter), l’antidivo che si è in-filato nelle pieghe di Hollywood nelmomento magico in cui Hollywood siapriva all’avventura democratica, an-che nel campo della bellezza, del nuo-vo mondo giovanile. Ha avuto solo duemogli, con l’ultima è sposato da venti-sette anni, conta sei figli e due nipoti,vota democratico, sostiene Nader, enessun tabloid spettegola sulla sua vi-ta. Sa di essere, ed è, un grande attore.Ma anche un caso speciale: il prodottodi una alchimia unica, di quella gene-razione anticonvenzionale, magica,fortunata, irripetibile che ha creato,sullo schermo, la nuova Hollywood, di-ventata ormai un glorioso passato.

A proposito di compleanni, e di set-tantenni, compie settant’anni ancheAnthony Hopkins, grande attore, star,e adesso anche regista debuttante conun bizzarro film presentato a Sundan-ce, Slipstream. Li compie il 31 dicem-bre prossimo, e gli facciamo i nostri au-guri. Ma, almeno nel nostro immagi-nario, non è mai stato giovane. È arri-vato, ormai più che adulto, già attorecompiuto, a un cinema già invecchia-to. Fa paura e non sa sorridere. Insom-ma, è un’altra storia…

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SCENE CELEBRIQui sopra, due celebri sceneda Il Laureato con Dustin Hoffmane Easy Rider con Jack Nicholson

MOSTRI SACRINel montaggio fotografico,dietro il crinaledella collina di Hollywoodspuntano i volti(da sinistra a destra)di Jack Nicholson,Jane Fonda, Warren Beatty,Robert Redford,Vanessa Redgravee Dustin Hoffman

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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 APRILE 2007

Tutto merito del fico. Senza il frutto più spudorato perdolcezza ed estetica, oggi il fegato si chiamerebbe inun altro modo. E soprattutto non conosceremmo lameraviglia del paté. In latino, infatti, il fegato si chia-mava iecur. Furono i Romani a cambiargli il nome,trasformando in sostantivo l’usanza di ingozzare le

oche coi fichi, fino a farlo diventare ficatum (ingrediente princi-pe nelle ricette di Apicio), da cui il fégato, con cambio di accento.

Da allora a oggi, i cambiamenti sono stati lentissimi, se è veroche ci sono voluti più di duemila anni per vietare la prassi barba-ra dell’ingozzamento. È storia di ieri: a fine febbraio, il Parla-mento ha trasformato la condanna del Comitato scientifico ve-terinario dell’Unione Europea in legge che vieta agli allevatori diindurre la steatosi epatica — nome scientifico del fegato ingras-sato da iperalimentazione — con metodi forzati. Merito dellascoperta (tardiva) della naturale propensione di certi animali amangiare molto e rapidamente. Come per i maiali “da ghianda”,si cambia la fase finale dell’alimentazione, abbondando in fichisecchi e mais e approfittando della proverbiale ingordigia delleoche.

Certo, non esiste solo il paté con base foie gras, ingrediente-culto celebrato in mille ricette: dalla scaloppa spadellata, alla cot-tura in torchon, fino a bloc e terrine. Ma il fegato — anche magro,come nello storico antipasto toscano con i fegatini di pollo —vanta consistenza e sapore di particolare morbidezza, perfettiper esaltare la sensuale golosità del paté. Di qui a diventare la pri-ma scelta dei cuochi in materia di antipasti e stuzzichini, il passoè brevissimo: davvero difficile resistere a una fettina di pane croc-cante spalmata di morbido paté.

Non tutti i gusti prevedono il fegato. E infatti il patè sa diversi-ficarsi in un ventaglio quasi infinito di preparazioni. Dove la ma-teria prima non riesce ad essere da sola abbastanza grassa, arri-va in soccorso il burro. Non potremmo gustare altrimentiquello di tonno o di prosciutto. Il burro rappresenta la lineadi confine anche rispetto all’alter ego gastronomico delpaté, la mousse, che fa della consistenza aerea il suo fio-re all’occhiello. Il paté, invece, è pasticium, nel sensodell’assemblaggio, ma anche della pastosità. La suatextura duetta con il coltello a lama larga che lo ap-piattisce sul crostino in un equilibrio seducente: ilpane non deve rompersi, il paté non deve arren-dersi troppo facilmente.

Anche l’impatto nutritivo cambia se-condo gli ingredienti: quello di prosciut-to è tendenzialmente più grasso di quel-lo di fegato, con un impatto calorico cheva dalle 340 alle 360 calorie per etto. A cuisi deve aggiungere l’apporto del pane. Ec’è perfino chi è pronto a spalmare di bur-ro il crostino prima del paté: l’apoteosi del-la trasgressione.

C’è gloria anche per i paté senza carne: la ri-cetta al tonno è tra le più amate dai ragazzini —con una versione light che prevede la conserva al naturale inve-ce che sott’olio e un caprino fresco al posto del burro, amatissi-ma dai dannati della dieta — mentre quella di salmone celebra ipranzi importanti. Poi ci sono i vegetariani. Ed è a loro che i pro-tagonisti della cucina mediterranea dedicano soavi paté di ver-dure, con l’extravergine a legare l’impasto (o, in alcuni casi, lapanna di soia): dai capperi ai carciofi, dai pomodori ai peperoni,su su fino alla gloriosa tapenade francese, che ha come base cap-peri (tapeno, in provenzale), olive e acciughe.

Guai, comunque, a trascurare il pane: che sia rustico, pan brio-che o da toast, può esaltare il paté o mortificarlo. Se poi siete tra icultori del foie gras, un bicchiere di muffato (dal sauternes in giù)completerà un antipasto da sogno.

LICIA GRANELLO

i saporiColazione di Pasqua

Foie grasIl re dei paté, ricco di una

storia plurimillenaria, ha come

ingrediente base il fegato grasso d’oca

o d’anatra Dopo averlo marinato in frigo per

un giorno intero (girandolo di tanto in tanto)

coperto di cognac, si fa insaporire per mezz’ora

a fuoco dolce con un fondo di burro, scalogno,

alloro e grani di pepe. Cotto, tagliato in tre parti e

ripulito delle nervature, si copre con carta da

forno, bloccandolo con un peso. Due ore di

riposo, poi l’aggiunta del fondo di cottura

filtrato e della gelatina. Per accompagnarlo,

qualche grano di fleur de sel, fettine di

mela, pane rustico tostato e un

bicchiere di “muffato”, a partire

dal prezioso sauternes

MarbréL’effetto marmorizzato (dal francese marbre,marmo) è un piccolo virtuosismo checaratterizza alcune terrine di carne (vitello,coniglio). Alternando striscioline sottili con altre di verdure diverse e aromi tritati,le fette acquistano un aspetto variegato

PatéTermine francese per il romano pasticium

La ricetta originale prevede la preparazionein crosta, con un involucro di pasta (briséo sfoglia). All’interno, carne, pesceo legumi passati al setaccio, aromatizzaticon spezie e liquori, mantecati con burro

TerrinaSi distingue dal paté per l’uso della gelatinacome legante e per la macinatura più rusticadegli ingredienti, con miscellanee anchefantasiose. Ai lati grasso o pancetta,raffreddatura con un peso sopraper eliminare bolle d’aria. Si serve fredda

MousseA cambiare è il legante: panna montatao chiara d’uovo a neve (versione light)da incorporare al posto del burro. Ne derivauna consistenza più morbida, spugnosa,aerea. Grande il ventaglio degli ingredientibase: dal tonno al cioccolato

PatéTrasgressione da spalmare

Il principe del gusto è sempre il francesissimo foie gras,tanto ricco di grassi e calorie da diventare l’incubo dei dietologi,ma la famiglia dei composti, dei marbré e delle terrine è cosìvariegata che neppure i vegetariani rinunciano allo sfizioGuai, però, a trascurare il pane che l’accompagna

LE TIPOLOGIE

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Ma stiamo attentia non fare pasticciALBERTO CAPATTI

Èinevitabile che una parola che designa il pasticcio, cioè il miscuglio ela confusione, sia stata pasticciata perdendo dal francese all’italianoqualche accento, oppure uscendo dalla bocca storpiata con quella “e”

finale, aperta, sonora, che i milanesi amano tanto. Del resto sia in Piemon-te che in Lombardia paté era anche il rigattiere e indicava una bottega in cuisi andava a frugare, o rugare, raccattando per pochi soldi pezzi di guarda-roba unti e bisunti o capi lisi da rappezzare.

A tavola paté è il pasticcio: di carne, di pesce o di verdure; e designa tantealtre cose. Per influsso della cucina francese, da cui il termine deriva, è ve-nuto a indicare una gamma di preparazioni che con la pasta, l’involucro dipasta, in Italia hanno poco a che vedere. La più nota di esse è il foie gras, fe-gato grasso, servito crudo o semicotto, impropriamente identificato nellesalumerie con quelle fette o panetti di spuma grigia orlati da una fettucciadi pallida gelatina. La più ignobile delle sue versioni sono quelle paste in-dustriali da spalmare, più simili a cibo per cani che a creme da tartina.

A essere pedanti, il pasticcio non è tale senza un involucro di pasta, cheera ed è il contenitore di una farcia e serviva in passato per la conservazio-ne, il trasporto e, ovviamente, la presentazione. Questo ultimo valore,tutt’uno con l’effetto in tavola, ha prevalso sugli altri diventando, più del mi-scuglio degli ingredienti e dei sapori, la ragione per iscriverlo nel menù e ser-virlo. Da qui la sua rinomanza di piatto difficile e cerimoniale, richieden-

do l’abilità del pasticcere oltre a quella del cuoco, l’arte del forno oltre aquella richiesta tagliando, cuocendo, condendo carni, che perdono la

loro identità per acquisire una consistenza morbida, compatta e pro-fumata di odori o spezie.

Tramandato dalla cucina di corte a quella signorile e infine bor-ghese, il pasticcio ha visto variare sia il suo ingrediente principale

(la lepre, l’anguilla, il fegato di vitello) che le spezie, conservandonel servizio freddo una parentela stretta con le gelatine. Se og-

gi se ne sente meno l’esigenza in un pranzo ad inviti, e vascomparendo nei ristoranti, è per un duplice motivo ine-

rente alla storia recente della cucina e alla funzione ceri-moniale del menù. La nouvelle cuisine ha educato i ga-

stronomi a dimenticare i piatti di portata, richiedendocreazioni ad personam, costruite su misura, tutte

alambiccate ma trasparenti, condannando salmoniin crosta e sfogliate di verdure. Nulla parrebbe me-

no appetibile, secondo il neochef, di un cofanetto,di una scatola dai contenuti misteriosi; nessun og-getto è più arcaico dal punto di vista del gusto di unpudding. Seconda ragione, di servizio: la varietà

degli ingredienti, principio del pasticcio, deve risul-tare palese e fiorire nel piatto agli occhi di tutti, sacrifi-

cando la pasta, spogliandosi di quelle linee rigide, conven-zionali a forma di cassa, di torta o di cono tronco, che costitui-

scono un vero e proprio paludamento.Eppure la sorpresa è proprio la ragion d’essere del paté, che gioca gra-

zie all’involucro, all’impasto, al profumo, su un valore aggiunto. Artusichiama pasticcio a sorpresa una torta di pasta frolla (senza sorpresa) allacrema, ma la presenza di allodole o lamprede, dei fegati di volatili piccolis-simi, piccoli o grossi, può compensare la temuta delusione con la scopertadi un ingrediente raro, squisito, di accostamenti sino al primo morso ine-spressi. Se un segreto deve esserci, è quello che una degustazione lenta, me-ticolosa, attenta non solo alle carni o ai pesci, ma anche ai grassi, agli spiri-ti e agli odori, può scoprire. Dopo di che, il rituale del gusto e della parolaconfluisce nel piacere della tavola, nella memoria, individuale o storica.

Un accorgimento, quando richiedete a voi stessi o agli altri il servizio diun paté: siate esigenti e indagate, anche se dovesse essere di carciofi e spi-naci o di funghi. L’inganno è in agguato, e lo sanno bene quei vegetarianiche si sono deliziati di pseudo-pasticci di fegato o di lepre con burro e tar-tufi o fagioli neri al posto delle carni.

L’autore insegna Storia della cucina e della gastronomiaall’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 8 APRILE 2007

LE PREPARAZIONI

TonnoPartendo dal prodotto conservato

(con quello sott’olio riesce più gustoso),lo si sgocciola, frullandolo con ingredientia scelta: acciughe, capperi, limone, tuorlo

sodo, ricotta, parmigiano. Fatelo compattarein frigo e servitelo con pane tostato

itinerariLo chefMarc Lanteriè cresciutotra Italia e FranciaNel menùde “Le AnticheContrade Lovera

Palace” di Cuneo,si alternano ricettecome il torchondi foie gras con carciofie misticanza e il pescesanpietro con zucchinee tapenade al limone

Nella Lomellina,l’allevamento di oche è storia contadinafin dal MedioevoGioacchino Palestrovi si dedica da quarant’anni,lavorando le carni perfarne golosità che si sono

guadagnate anche la certificazione kosher.Imperdibili terrine e paté

DOVE DORMIRESAN MICHELE (con cucina)Corso Garibaldi 20Tel.0384-98614Camera doppia da 70 euro

DOVE MANGIARETRATTORIA GUALLINAVia Molino Faenza 19Località GuallinaTel. 0384-91962Chiuso martedì, menù da 25 euro

DOVE COMPRARELA CORTE DELL’OCA DI G. PALESTROVia Francesco Sforza 27Tel. 0384-98397

Mortara (Pv)Terra madredel tartufo nero, vantauna millenaria tradizionegastronomicaIl tuber melanosporumviene trasformatoin sontuosi patéda artigiani sapientiEccellente e originale la

terrina di trota fario, varietà ittica che abbondanei fiumi dell’Umbria

DOVE DORMIRECLITUNNO (con cucina)Piazza Sardini 6Tel. 074-3223340Camera doppia da 80 euro

DOVE MANGIAREIL TEMPIO DEL GUSTOVia Arco di Druso 11Tel. 074-347121Chiuso giovedìmenù da 25 euro

DOVE COMPRARELA MADIA REGALEPonte Sargano, Cerreto di Spoleto Tel. 074-391703

Spoleto (Pg)È il luogo dove il capperoregna sovranoAd accompagnarloin salse e insalate,pomodori, acciughe,origano e vino passitoGianni Busetta trasformaqueste materie primebenedette dal sole e dal

mare in conserve deliziose, prima fra tutte ilpaté di capperi

DOVE DORMIRERESIDENZA DEGLI ULIVI Contrada BuccuramTel. 0923-912114Dammuso con camera doppia da 80 euro

DOVE MANGIARETRATTORIA FAVAROTTAContrada KammaTel. 0923-915347Chiuso mercoledìmenù da 25 euro

DOVE COMPRARELA NICCHIA SUL MAREVia Borgo Italia 31 Tel. 0923-912657

Pantelleria (Tp)

FegatiniIl più goloso antipasto del Centro Italia,

servito con prosciutto crudo locale tagliatoa coltello e crostini bagnati nel brodo

I fegatini di pollo sono cotti in extraverginecon cipolla, sedano, carota, acciuga,

capperi, sale. Si aggiunge brandy a piacere

OliveTante ricette per esaltare le qualità verdie nere. Si va da quella semplicissima —

snocciolate e frullate — all’aggiunta di aglio,foglie di menta, pomodori secchi. Per evitare

la troppa pastosità, si monta con olio a filoBuonissimo il nostrano paté di taggiasche

MaisonIl fiore all’occhiello dei bistrot francesi:ogni chef vanta una personale cuvée,

assemblaggio di carni — maiale, anatra,vitello, pollo — profumato con cognac

o madera, speziato con alloro, pepe, senapee servito con pain de campagne

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Fioridi plexiglass. Trine di poliuretano. Corolle di “polime-ri intelligenti”. Intorno a un cuore tecnologico il designanima un corpo fragile e gentile. La casa si conferma l’a-vamposto delle emozioni, il guscio affettivo in cui esiliar-si dalle inquietudini. E si propone in chiave neoromanti-ca. Un neoromanticismo che non rinuncia all’hi-tech e ai

nuovi materiali. Anzi, ne trae motivo di ispirazione, e ne fa un van-taggio competitivo: sviluppa forme altrimenti impossibili o meno ef-

ficaci con materiali più tradizio-nali, suggerisce trasparenze, in-venta nuovi moduli.

E così, tra le tendenze più inte-ressanti che riguardano l’organiz-zazione di uno spazio domesticoe affettivo c’è quella che potrem-mo chiamare “trine e merletti”.Tra le novità del Salone del Mobi-le in programma a Milano (dal 18al 23 aprile) e quelle già sul merca-to, troviamo scelte formali chepropongono oggetti traforati, fi-nemente lavorati, oppure deco-rati con moduli e motivi ossessi-vamente ripetuti fino a riprodurreun “merlettato”.

Ma vediamo qualche esempio:la sedia Caprice di Marcello Ziliani per Casprini, che fa del nome unmanifesto programmatico del proprio iperdecorativismo, e ha trafo-ri che ricordano quelli del tavolo T-table, antesignano del fenomeno(già visto l’anno scorso e riproposto quest’anno) prodotto da Kartelle non a caso progettato da Patricia Urquiola. La Urquiola, la cui cifraprincipale (ma non unica) è proprio un ironico gioco di barocchismi,circonvoluzioni, si trova difatti nel ruolo di involontaria vestale diquesto iperdecorativismo.

Trafori e arabeschi sono talvolta sintetizzati in spigolose aperturegeometriche, come nel pouff Osorom di Moroso firmato da Kostan-tin Grcic, nello sgabello Ribbon di Cappellini o nella libreria Macramédi Sawaya e Moroni (in cui si legge anche una citazione di Keith Ha-ring); altre volte si articolano in linee più morbide, come nello spec-chio Rokokò di Glas Italia, il cui nome è di nuovo esplicito richiamo aforme involute e ricercate, o riproducono proprio la fitta trama di unmerletto, per esempio in Veryrounddi Zanotta, ma altre volte ancoraimitano la natura.

Il ritorno ad alcune forme naturali, ai suoi elementi di base, quasiper un suggestivo idillio, costituisce infatti un trend nel trend. E, in-crociato con trine e trafori, ha come esito motivi floreali che diventa-no essi stessi merletti. I diffusori in metacrilato della lampada Ana-stachadi Terzani firmata da Bruno Rainaldi, per esempio, sono fogliee fiori di un tessuto barocco, e il divisorio Fiore di Zanotta è come unbianco rampicante in cui di nuovo si decifrano foglie, rami e corolle.Anche la sedia Miss Lacy di Driade, ideata da Philippe Starck, propo-ne una struttura in acciaio inox traforata in sinuose ramificazioni ve-getali, ed è il caso forse di sottolineare che il nome Lacy significa ap-punto merlettato, mentre La Murrina, con Mariposa di Marco Piva,una lampada che potremmo definire “a trine tridimensionali”, sug-gerisce il fai-da-te: i cavi di acciaio sostengono singoli elementi di ve-tro, componibili per quantità e colori secondo il proprio gusto, cheresta poi l’unica vera guida cui, con giudizio, affidarsi.

le tendenzeCase floreali

Poltrone in “pizzo” di plexiglass, librerie in acciaiomacramè, oggetti dai trafori luminosi: i designersuggeriscono di ingentilire così gli spazi domesticiE presentano al Salone del mobile, in programma a Rhodal 18 aprile, una collezione neo-décor che promettedi sconfiggere ciò che resta dell’austero minimalismo

LUCE BAROCCAAnastacha, di Terzani,

utilizza la tecnicadell’incisione a lasercon motivo floreale

sulla basee sulle lastre del diffusore

Disponibilein diverse versioni,misure e colori,

da terrao da tavolo

DOTI FEMMINILIScocca avvolgente,decorazione florealee profili arrotondati;doti femminiliche si fondonocon le doti maschilidell’acciaio inox,forte e resistenteMiss Lacy è di PhilippeStarck per Driade

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 APRILE 2007

ESAGONI MORBIDIForma esagonalecon spigoli arrotondati,decorata da traforie da due grandi aperturetriangolari collocatedove la scocca si curvaÈ Caprice, di Casprini

Post- arabeschiper abitarecon leggerezza

AURELIO MAGISTÀ

MerlettiArredi

nuovi&

ALTEZZA VARIABILERibbon (nastro)è uno sgabello

in lamiera piegatae verniciata

Alto o basso,in sei colori

Un’anteprimadi Cappellini

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ECHI CHARLESTONQuattro livellicircolari, differentiper la lunghezzadei tubi di gomma,che formanouna cascata di frangeilluminate dal corpocentrale in acrilicoCharlie è di AltLuciAlternative

ALI DI FARFALLAMariposa è compostada sottilissime “ali”in vetro soffiatovincolate a caviin acciaio. I singolivetri possono essereassemblati in quantitàe colori diversiDi Marco Pivaper La Murrina

LAVORI AD ACQUARokokò fa partedi una serie di specchiin cristallo extralight,sagomato e traforatoa getto d’acquaDi Glas Italia

DAVVERO TONDADuecentoquarantacerchi, disposti finoa formare una sedutapriva di gambe,appoggi, giunzioniUn’avvolgente sedutasu cui dondolarsichiamata Veryround,di Zanotta

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 8 APRILE 2007

PARETE MOBILEUn paravento in acciaiotagliato al laser e verniciatodi bianco, per celare senzanascondere alla vistaA due o a tre pannelli,è Fiore, di Zanotta

Nelle oscillazioni del gusto (titolo celebre di un saggio dell’amatoGillo Dorfles che è stato tradotto in tutto il mondo) sembra quasiche il pendolo si stia assestando, dopo aver rallentato la sua corsa,

sul ritorno della frammentazione. Per estensione si potrebbe arrivare, inalcuni casi, all’aspetto decorativo rintracciabile in molto dell’attuale de-sign. La prova-decorazione non ha portato mai fortuna alle sorti sia del-l’architettura che del disegno industriale. Da alcuni anni estimatori delconcetto di decorazione hanno introdotto una lettura esteticamente ap-prezzabile dei suoi limiti e della sua funzione nel nostro modo di vederela realtà. In altri termini l’interpretazione nobile della decorazione si fon-da sul tentativo di comunicare. Dopo anni di crudo e impassibile mini-malismo un tentativo di uscita dal cul de sac infine formale in cui lo “Ze-ro Design” ci aveva condotto è stata la ritrovata salute del “grafismo”.

Si è passati da superfici glabre e terrificanti in quanto espres-sione di materiali rimasti allo stato vergine, all’intervento sulle su-perfici di ogni genere di materiale per trasformare la materia inleggeri fogli traforati con ogni possibile variante e con l’uso es-senziale del computer collegato con il laser. Programmi infor-matici hanno rapidamente messo a disposizione del designer imezzi necessari per intervenire e svuotare ogni genere di super-ficie o materiale. Da dimensioni strutturali, come in molte operedi Herzog & de Meuron, fino a progetti di design che assottiglia-no la massa fino a renderla traslucida.

Le ragioni di tutto questo sono state la semplificazione e a vol-te la brutalità con cui si costruiva lo spazio domestico, i risto-ranti, i bar, i luoghi di incontro, divenuti simili a cliniche per undimagrimento immediato o a frettolosi aeroporti. Non credoche sia soltanto un atto formale quello di recuperare la legge-rezza e intervenire con sapienza sui materiali. Credo che sia in-vece la volontà di far partecipi di emozioni i fruitori nel più grannumero possibile.

Non c’è materiale o materia che non abbia trovato il suo aman-te-designer. Il vetro, con l’abilità conosciuta delle vetrerie di Mu-rano, ha tra gli altri Marco Piva come sacerdote: la lampada Ma-riposa, ovviamente in vetro, sospesa e simile a oggetti orientali be-nauguranti, spinti dal vento e che rumorosamente tengono lon-tani i demoni. Marzia Mosconi, con un sistema raffinatissimo,trafila e nasconde una lampada con filamenti che oscillano libe-ramente, si allungano e si rastremano nella parte più bassa.

Negli ultimi dieci anni abbiamo visto l’architettura allegge-rire il suo perimetro con trattamenti della pelle che filtravanodifferenti geometrie negli interni. Il pizzo o il traforo lavoranocon la luce. Usano la sorgente luminosa come elemento ne-cessario per filtrare e proiettare ombre sulle superfici interne.Le ombre, in una danza leggera e mai uguale a se stessa, dise-gnano i piani con impreviste alterazioni. Il ricordo degli anniSessanta e in parte Settanta e, in particolare, di molto designscandinavo è leggibile in gran parte delle opere contempora-nee. Di Verner Panton, della sua creatività dirompente e che av-volgeva ogni centimetro quadrato di un interno, si rileggono lelampade, le stampe su tessuti straordinari, o le sedute che neldisegno non ammettevano mai che la matita si staccasse dal fo-glio. Una continuità al limite del cerchio di Moebius trasfor-mava superfici in emozionanti oggetti.

Alex Taylor con la Butterflydi Zanotta produce un origami sulquale viene posata una semplice lastra di vetro con gli angolismussati. L’origami è di ritorno. I giapponesi hanno insegnatoche da un unico foglio possono uscire, soltanto con la pressio-ne delle dita e con la piegatura, oggetti e figurazioni insolite. Eanche questo è oggi attualità. Ma anche i riferimenti al mondodell’arte sono evidenti. In particolare Elias Olufsen è stato chia-ramente saccheggiato da architetti e designer. Il pensiero va al“nido” costruito con filamenti metallici dall’artista scandinavo.L’Osorom di Konstantin Grcic è un volume di rotazione costi-tuito con una sola membrana e traforato in una geometria sem-plice, e fa pensare appunto al lavoro di Olufsen.

Cose più o meno interessanti, come il Ricciolodi Emporium, oaltre decisamente più intriganti, come la seduta Patty di Sawaya& Moroni, assumono oltre alla grande capacità di intervenire sullegno anche quella di celebrare l’ibrido. Sawaya & Moroni, in ge-nerale, hanno sviluppato un pensiero in cui l’ibrido diviene dia-lettico rispetto alle paurose espressioni del tardo razionalismo.

Fra le opere più interessanti c’è lo specchio di Nanda Vigo dalnome evocativo di Rokokò, in cui si prendono tutti i rischi, dallasimmetria all’ornamento, per catapultare il tutto su superfici ru-vide: atto di fiducia e quasi di tenerezza nella creazione. Nella col-lezione di Glas Italia compaiono superfici decorate con fiori, filtritraslucidi di un mondo che è sul punto di accettarsi. Il rifiuto del-la punizione è argomento dell’attuale design. Piacere per Bou-roullec o Patrick Jouin. Il rifiuto di superfici dure e che non ri-mandano suoni rappresenta la presa di ogni rischio e l’accetta-zione di esistenze alla ricerca di emozioni.

Tutto questo non appartiene soltanto al mondo del design. Ar-mani o Lanvin, Dior o Chanel propongono trasparenze o merlet-ti che in molti casi sono ispirazione incosciente della voglia dioblio della prima vita e anche della second life.

La rivincita al lasersullo Zero Design

MASSIMILIANO FUKSAS

LASER IN TAVOLAParticolari effetti visivi e tattiliper T-table di Kartell: sul pianosi alternano pienie vuoti ricavati con il laserIn polimetilmetacrilatocon solo tre gambeDi Patricia Urquiola

RICAMO ARABOLa forma della libreriaè spiegata dal nome:

Macramé, tipicoricamo

tessuto al tomboloÈ un termine arabo

che si diffonde in Italiagrazie ai marinai

di ritorno dall’OrienteDi Emporium

VECCHIO & NUOVOÈ un connubiodi materiali diversi:legno scolpito a manocon finitura patinata anticaper la cornice; decoroin acrilico traforatoper il passepartoutÈ Frame it,di Sawaya&Moroni

SEDUTA CIRCOLAREUna seduta circolare,

tra vuoti e pieni. La scoccaè in materiale plastico. Osorom

è disegnata da Konstantin Grcicper Moroso

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l’incontroRitorni di fiamma

MILANO

Per poco più di tre minuti emezzo il mondo — il suomondo, il mondo della suaassistente Nicoletta, il mon-

do del giovane barista filippino che haportato su i caffè dalla galleria del Corso—, si svuota come una scatola piena dicose che viene rovesciata. Le guardiamorotolare sul pavimento per qualche fra-zione di secondo e fermarsi. Noi stiamolì, a riconoscerle in silenzio. Ognuno lesue. Si fermano il traffico di Milano, loscalpiccio frenetico dei suoi passi, ilronron dei suoi computer. La stanza èimmobile, eppure l’aria vibra mentre lavoce di diamante di Caterina Caselli, lavoce attraversata da una vena di sanguemaschile e appena sporcata dal ricordolontano di ottanta sigarette al giornocanta dentro le casse dell’amplificatoreInsieme a te non ci sto più. È il miracolodella musica, di una bella canzone cheha accompagnato molti addii, la fine ditanti amori, lo svanire di molte storie.Quelle parole di Paolo Conte che ci ri-cordano ciò che dovremmo e non riu-sciamo quasi mai a essere nel momentoin cui qualcosa di importante finisce: equando andrò, devi sorridermi se puoi,non sarà facile, ma, sai, si muore un po’per poter vivere. È un’emozione da ac-cogliere come in preghiera.

Era successo che le avevo domandatose le capitava mai di avere voglia di tor-nare a cantare. «Ho una vecchia Morgannera del ‘67. La comprai con i miei primirisparmi, posso chiamarli così? Sono af-fezionata a quella macchina inglese, èciò che resta del sogno di una ragazzinache voleva vivere a Londra, immersanella cultura anglosassone. Erano glianni Sessanta, sentivamo la vita batterenelle nostre mani. Eravamo forti, pienidi energia. Forse avremmo potuto faredi più. Ora ho tre volte vent’anni e sonodiventata tre volte nonna. Canto soltan-to quando guido e regolarmente sbagliostrada, le canzoni mi portano via». Ci so-no luoghi che sentiamo nostri più di al-tri, nei quali riusciamo a domare le no-stre paure e le nostre inquietudini, aprendere decisioni, a fare i conti anchesoltanto sulle cose che abbiamo fatto ilgiorno prima, su ciò che faremo sempli-

della storica etichetta discografica Cgdla conquistò con il fascino della parola.Sugar è il nome della sua casa di produ-zione, adesso il presidente è il figlio Fi-lippo che ha trentacinque anni, lei è ilmotore artistico, è la mano che sceglie ilbrillante nel pozzo e lo sa distinguere trai cocci di vetro. Qui le pareti sono pienedi dischi di platino, d’oro e d’argento,come in un ristorante dove si celebranod’abitudine gli anniversari di nozze. INegramaro, Elisa, Boccelli. Scopro cheBoccelli solo con Romanza ha vendutodiciotto milioni di dischi in tutto il mon-do, con gli altri album è arrivato a cin-quantasei milioni, uno sproposito mairaggiunto da nessuno prima di lui.

«Quando ho cominciato erano conme Demetrio Stratos, Pierangelo Berto-li, Mauro Pagani. Erano gli anni delleprime radio private, mi aiutarono mol-to Guido Carota e Alberto Pugnetti chestavano a Radio Popolare, l’art directorera Monti. Ricordo che facevamo collet-tivi di ore. Ho commesso un sacco di er-rori, ho accumulato lezioni. Mi piaceva-no i giovani, per esempio, ma quandoscoprivo un ragazzo promettente e gli

cemente domani. Sono luoghi che ras-sicurano, dove smettiamo di tradircicon le nostre finzioni. Per Caterina Ca-selli questo posto è l’auto. «Nei lunghiviaggi ho provato anche a scrivere can-zoni, ma restavo all’idea, alla folgora-zione, non mi riusciva di andare sino al-la fine. Non ne ho mai scritta una. Sem-pre in auto, mentre tornavo da Cosenzaa Milano, ho deciso di smettere di can-tare. Mi ero sposata che avevo appenaventiquattro anni, avevo avuto un figlio.Avrei fatto la moglie e la madre, ho but-tato sul sedile posteriore della macchi-na il calendario al quale ero inchiodata.Stasera qui, domani sera là. Ho detto ba-sta. Nel ‘90 sono tornata a Sanremo, pergioco».

Poi, all’improvviso, si era alzata conentusiasmo dalla poltrona del suo stu-dio, era andata alla scrivania, aveva pre-so una custodia rossa e tirato fuori un cd.La faccia della manager che gestisce unfatturato di cinquanta milioni di eurol’anno era tornata a essere quella del ca-sco d’oro d’Italia, la ragazza di provinciache ci guardava dalle copertine dei 45 gi-ri di vinile e ci metteva allegria con quelsorriso grande così. «Ho inciso una nuo-va versione di Insieme a te non ci sto più.La vuole sentire?». L’ha fatto per Arrive-derci amore ciao, il film di Michele Soa-vi tratto dal romanzo di Massimo Car-lotto. Mentre infilava il cd nel lettore hadetto: «Abbiamo cambiato alcuni ac-cordi, quando l’ho fatta ascoltare a Pao-lo Conte ero terrorizzata da come avreb-be reagito. Se ne è accorto, ma l’ha pre-sa abbastanza bene». Adesso nell’ariac’è soltanto musica, lei è in piedi di fron-te alla finestra che si affaccia su questomondo stupido. Guarda il cielo e, per unraro prodigio ventoso, non ci sono nu-vole. «Sarebbe una bugia se le dicessiche non mi mancano il palcoscenico, ilpubblico, la sala d’incisione, l’esaltazio-ne che si prova cantando. Oggi il lavoroche faccio ha quasi anestetizzato i rim-pianti. Non del tutto, però. Mi piace tut-tavia pensare che il talento sia un beneda condividere con gli altri, un po’ comel’arte e la bellezza».

La canzone finisce. Caterina torna allasua poltrona. È alta, i capelli ricci le rica-dono sulle spalle e segnano le linee di unvolto volitivo, determinato, rigoroso. In-dossa pantaloni neri, scarpe hoogangialle e una t-shirt bianca sotto un ma-glione beige di cachemire. Al polso sini-stro ha un piccolo orologio, il cinturino dipelle è verde oliva. Il suo unico gioiello.Caterina Caselli è il suo nome vero, ri-schiò di essere battezzata Imelde, maqualcuno in famiglia si oppose e la pic-cola Caterina diventò brava, bella e per-malosa. Voleva anche diventare unacantante e a scuola la prendevano in gi-ro. «Alle medie il professore di lettere vo-leva appiopparmi a tutti i costi un nomed’arte e diceva ai miei compagni: “Chia-miamola Catierra Calsente, la nostra Ca-terina che un giorno andrà a Sanremo”».

Oggi è più spesso la signora Sugar.Piero Sugar è suo marito, l’ex padrone

affiancavo un produttore con pocaesperienza non succedeva nulla. Face-vamo il disco e non lo vendevamo. Se in-vece trovavi il produttore bravo che riu-sciva a modellare le qualità del cantan-te, spiccavi il volo. A volte due personeunite da una forte empatia hanno laspinta che equivale a quella di dieci uo-mini. Oggi uno mi porta i suoi lavori, iolo accompagno in sala di registrazione elo ascolto, alla chitarra o al pianoforte.Lo guardo, lo vorrei quasi toccare, gui-dargli le dita sulle corde, sui tasti. Voglioarrivare alla semplicità, di solito un tra-guardo che è come un gran premio del-la montagna. Il segreto di una buonacanzone sta nel sapere esprimere il me-glio della poetica trovando un’armoniacon la metrica e la durata del brano. Lamaggior parte dei giovani cantautori,invece, la prima volta vogliono mettercidentro tutto, e spesso ci mettono trop-po. Bisogna asciugare, pulire, purifica-re. In questo momento sto seguendo unragazzo di diciannove anni che mi piacemoltissimo. Le confido solo che si chia-ma Enrico e abita a Livorno. Ne sentire-te parlare».

Caterina Caselli è nata a Magreta, unafrazione di Formigine, tra Modena eCarpi, terra di piccoli imprenditori tes-sili facoltosi e di operai-contadini pove-ri con l’ottimismo di quelli che vedonosempre il bicchiere mezzo pieno. Dallafamiglia ha ereditato la tenacia, la poli-tica e la vanità. «Mio padre era socialistalombardiano, mia madre fedelissimadella Dc, lo zio Cesare era comunista, lozio Giorgio fascista. Come immagina, incasa ho imparato la tolleranza, l’horinforzata grazie a mio suocero che eraungherese e che parlava sempre benedegli italiani, di come lo avevano accol-to, scaldato e sfamato. Diceva: “Mostraa tuo figlio la curiosità di conoscere glialtri, la ricchezza che c’è nella diversità,nello straniero”. Arrivata a Milano sonodiventata amica di Bettino Craxi che erastato compagno di Piero al liceo Ber-chet. Siamo andati a trovarlo anche aHammamet, è un affetto che non rinne-go. È stato un innovatore della politica euno statista di valore internazionale. Ilprocesso di riabilitazione che ora si èmesso in moto non potrà lenire l’ama-rezza della moglie e dei figli. Bettino midiceva: “Di me non m’importa nulla, manon posso perdonare il male fatto a An-na, Stefania e Bobo”. Io sono semprestata una donna di sinistra, vorrei dire diesserlo ancora, ma… non dico nulla.Mia madre, giovane sposa, si è trovatasola, papà è stato nove anni in Libia. Era-no poveri, lei si è inventata un lavoro, hafatto la magliaia, il suo lusso era potersicomprare un rossetto e un paio di calze.Lei mi ha insegnato la vanità intellettua-le e la tenacia».

«Quando in Cgd decidemmo di lan-ciare Paolo Conte, dopo avergli fattouna corte durata due anni, ci accorgem-mo che come autore non era popolare.Lui poi non ci aiutava, diceva di no a ogniproposta, non voleva mai allontanarsi

da Asti, i suoi dischi non vendevano maipiù di diecimila copie. Ma io non volevoarrendermi. Allora ci venne l’idea di farparlare di lui personaggi famosi, coin-volgemmo Roberto Benigni, Lucio Dal-la, Gianni Brera e Mario Soldati che, loricordo ancora, gridava: “Amo PaoloConte perché è come Mozart. La suamusica non contiene volgarità”. Paolo èun genio, selettivo, coerente, difficile estupendo, un uomo bellissimo. Ricordoche scrisse Azzurro in venti minuti. Neldisco fatto con gli Avion Travel siamopartiti da sessanta canzoni e siamo sce-si a undici, per Elisir eravamo tutti in sa-la d’incisione, c’erano Gianna Nannini,Peppe Servillo, Paolo e io, lui non volevacantare, ma c’è un pezzo di quel branoche ha bisogno della sua voce, soltantodella sua, Servillo aveva qualche diffi-coltà, alla fine è venuta fuori la magia delgruppo, del gioco. Paolo s’è buttato, ciha fatto un regalo. Un grande poeta, unmaestro».

Dice di credere in Dio. Qualche gior-no fa ha ritrovato un rosario e si è sco-perta a pregare. Non le capitava dai tem-pi in cui era bambina. «Io spero sempredi cavarmela, mi angoscia il dolore del-le persone che mi sono care. Confidonella solidarietà della povertà e nella so-lidarietà della vecchiaia, mi piacerebbevedere nascere delle comunità intellet-tuali contro la solitudine degli anziani. Ecredo nelle capacità terapeutiche dellamusica, dopo che un amico pediatraoncologo mi ha raccontato che un bim-bo molto malato ritrova il sorriso soloquando nella stanza gli mette a tutto vo-lume Vamos a la playa dei Righeira».

Prima di lasciarla le chiedo di dirmiquali sono le canzoni che ha amato dipiù. Ci pensa a lungo: «Wordsdi Pat Boo-ne, Georgia on my mind di Ray Charles,Emozioni di Battisti, I can’t get no sati-sfaction dei Rolling Stones, Like a rollingstone di Bob Dylan, Dio è morto di Guc-cini, Voce ‘e notte scritta da Nicolardi eDe Curtis nel 1903 e rifatta da Peppino diCapri, Io che non vivo di Pino Donaggioe The house of the rising sun degli Ani-mals. Oltre, naturalmente, a questa». Miallunga il cd nella sua busta rossa, sopraha scritto a biro, con fatica: Abbia curadel mio passato. «Un giorno canterò dinuovo, farò un disco mio. Forse solo perregalarlo a qualcuno, forse per regalarea me stessa, dopo il pane, anche le rose».

La maggior partedei giovanicantautoriquasi semprevogliono metter tuttonella prima canzoneE ci mettono troppo:bisogna asciugare,pulire, purificare

È stata “Casco d’oro”, la ragazzinadi provincia che portava la nuovaenergia dei Sessanta nelle case italianeAdesso è la manager di successodi una grande etichetta musicale

In mezzo, annidi nostalgiaper il palcoscenicoe per l’abbracciodel suo pubblico. Ma ora,per un film, ha rifatto“Insieme a te non ci stopiù” e questo ha riacceso

la voglia: “Canterò di nuovo, faròun disco per regalare a me stessa,dopo il pane, anche le rose”

DARIO CRESTO-DINA

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 8 APRILE 2007

Caterina Caselli

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Repubblica Nazionale