omenica - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2011/10072011.pdf · Dominava tutto...

14
DOMENICA 10 LUGLIO 2011/Numero 334 D omenica La di Repubblica spettacoli Zucchero, la fabbrica della musica GINO CASTALDO cultura L’ultimo manoscritto di Jane Austen NADIA FUSINI le tendenze Quando i cappelli vanno a nozze LAURA ASNAGHI e LAURA LAURENZI l’incontro Jacques Herzog, “Io e de Meuron” CLOE PICCOLI l’attualità Machu Picchu, l’invenzione del secolo STEFANO MALATESTA e PACO IGNACIO TAIBO II ANDREA TARQUINI BERLINO F u il più importante e coraggioso agente segreto della Se- conda guerra mondiale, ma nel dopoguerra visse da esule. Fu lui, infiltrandosi nel Lager di Belzec travestito da guardia ucraina collaborazionista, a scoprire l’Olo- causto e a fornirne le prove: grazie alla sua missione impossibile e al suo Rapporto il mondo seppe, già verso la fine del 1942, che la “Soluzione finale”, il genocidio del popolo ebraico da parte della Germania nazista, era in atto. Con un’audacia incredibile, ri- schiando la vita, si infiltrò a Belzec. Insieme a Sobibor e Treblinka fu il primo campo di sterminio costruito dai nazisti nella Polonia da loro occupata, prima ancora che il più tristemente famoso Au- schwitz-Birkenau diventasse operativo. (segue nelle pagine successive) JAN KARSKI A circa un chilometro dal campo, già potevo udire gri- da d’aiuto, spari, urla… che succede?, chiesi al mio accompagnatore. «Gli ebrei hanno caldo», ghignò lui, «e oggi arriva una nuova consegna» […]. Quando fummo a poche centinaia di metri dal Lager, grida, spari e urla ci re- sero impossibile continuare la conversazione. Percepii un fetore di- sgustoso, sembrava un misto di cadaveri in decomposizione e ster- co equino [...]. All’interno del Lager, c’erano sentinelle ogni quindi- ci metri, pattuglie passeggiavano senza sosta. L’area era coperta d’u- na fitta, pulsante, rumorosa massa umana [...]. Poliziotti tedeschi e guardie si facevano largo tra di loro colpendoli con i calci dei fucili, con l’aria di pastori che conducono un gregge al mercato [...]. (segue nelle pagine successive) Si chiamava Jan Karski Fu il primo a portare al mondo le prove dell’esistenza dei Lager Non lo ascoltarono E solo ora il suo “Rapporto” viene pubblicato in Germania Così l’ ho scoperto Olocausto FOTO AP Repubblica Nazionale

Transcript of omenica - La Repubblica.itdownload.repubblica.it/pdf/domenica/2011/10072011.pdf · Dominava tutto...

DOMENICA 10 LUGLIO 2011/Numero 334

DomenicaLa

di Repubblica

spettacoli

Zucchero, la fabbrica della musicaGINO CASTALDO

cultura

L’ultimo manoscritto di Jane AustenNADIA FUSINI

le tendenze

Quando i cappelli vanno a nozzeLAURA ASNAGHI e LAURA LAURENZI

l’incontro

Jacques Herzog, “Io e de Meuron”CLOE PICCOLI

l’attualità

Machu Picchu, l’invenzione del secoloSTEFANO MALATESTA e PACO IGNACIO TAIBO II

ANDREA TARQUINI

BERLINO

Fu il più importante e coraggioso agente segreto della Se-conda guerra mondiale, ma nel dopoguerra visse daesule. Fu lui, infiltrandosi nel Lager di Belzec travestitoda guardia ucraina collaborazionista, a scoprire l’Olo-

causto e a fornirne le prove: grazie alla sua missione impossibile eal suo Rapporto il mondo seppe, già verso la fine del 1942, che la“Soluzione finale”, il genocidio del popolo ebraico da parte dellaGermania nazista, era in atto. Con un’audacia incredibile, ri-schiando la vita, si infiltrò a Belzec. Insieme a Sobibor e Treblinkafu il primo campo di sterminio costruito dai nazisti nella Poloniada loro occupata, prima ancora che il più tristemente famoso Au-schwitz-Birkenau diventasse operativo.

(segue nelle pagine successive)

JAN KARSKI

Acirca un chilometro dal campo, già potevo udire gri-da d’aiuto, spari, urla… che succede?, chiesi al mioaccompagnatore. «Gli ebrei hanno caldo», ghignòlui, «e oggi arriva una nuova consegna» […]. Quando

fummo a poche centinaia di metri dal Lager, grida, spari e urla ci re-sero impossibile continuare la conversazione. Percepii un fetore di-sgustoso, sembrava un misto di cadaveri in decomposizione e ster-co equino [...]. All’interno del Lager, c’erano sentinelle ogni quindi-ci metri, pattuglie passeggiavano senza sosta. L’area era coperta d’u-na fitta, pulsante, rumorosa massa umana [...]. Poliziotti tedeschi eguardie si facevano largo tra di loro colpendoli con i calci dei fucili,con l’aria di pastori che conducono un gregge al mercato [...].

(segue nelle pagine successive)

Si chiamava Jan KarskiFu il primo a portare al mondole prove dell’esistenza dei LagerNon lo ascoltaronoE solo ora il suo “Rapporto” viene pubblicato in Germania

Così

l’ho scoperto

OlocaustoF

OT

O A

P

Repubblica Nazionale

la copertinaTestimoni

Travestito da guardianel Lager di BelzecFu così che nel 1942il partigiano polaccoJan Karskiriuscì a scoprirela ShoahE a documentarlaper primoMa invano

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 LUGLIO 2011

L’infiltratonell’orrore

ANDREA TARQUINI

(segue dalla copertina)

Ma nessuno volle ascoltare il suo grido d’aiuto. JanKarski era un ufficiale polacco e un cattolico prati-cante. Raccolse le prime voci sullo sterminio nel

Ghetto di Varsavia, e poi trovò le prove nei Lager nazisti e leconsegnò agli Alleati. Il suo terribile racconto di quegli an-ni — che uscì già nel 1944 negli Stati Uniti — è stato appenapubblicato per la prima volta in Germania. Una memoriadiretta, una testimonianza unica, la smentita più cocenteper i negazionisti e per chiunque voglia cancellare il ricor-do della Shoah e riscrivere la Storia sotto il segno dell’oblio.

Mein Bericht an die Welt-Geschichte eines Staates im Un-tergrund, Il mio rapporto al mondo. Storia di uno Stato nel-la clandestinità, s’intitola, nell’edizione tedesca il volumeche Karski scrisse a New York, dettando a braccio alla suasegretaria, Krystyna Sokolowska, i ricordi ancora freschis-simi della sua missione segreta. Sono pagine che ancora og-gi scuotono la coscienza, fanno rabbrividire.

Fu Elie Wiesel, nell’ottobre 1981, a far riemergere Karskidal dimenticatoio. Organizzò con l’Holocaust Memorialuna conferenza sulla liberazione di Auschwitz, e invitòquell’anziano soldato e professore di Georgetown a parla-re. «Alla fine della guerra — Karski scandì, calmo e impla-cabile — mi dissero che né i governi né i politici d’alto ran-go, né gli scienziati né gli scrittori avevano saputo del desti-no degli ebrei. Erano sorpresi. Lo sterminio di sei milionid’innocenti era rimasto un segreto, “un orribile segreto”,come scrisse Walter Laqueur. Allora mi sentii ebreo. Unebreo, come i parenti di mia moglie, qui presenti. Ma sonoun ebreo cristiano, cattolico praticante. Non sono un ere-tico, ma credo profondamente che l’umanità abbia com-messo un secondo peccato capitale: obbedendo a ordini oper assenza di sentimenti, per egoismo o ipocrisia o persi-no per freddo calcolo, questo peccato perseguiterà l’uma-nità fino alla fine del mondo, questo peccato mi persegui-ta, e io voglio che sia così».

Sapeva di cosa stava parlando, il vecchio soldato. Pa-triota convinto, nato come Jan Kozielewski, sognava la car-riera diplomatica ma si era arruolato volontario nell’arti-glieria a cavallo. Quando nazisti e sovietici aggredirono laPolonia, fu catturato dall’Armata Rossa e dopo sei settima-ne consegnato ai tedeschi. Riuscì a fuggire, si unì alla Resi-stenza. Fu subito scoperto come talento temerario, e con-vocato dal governo in esilio prima in Francia, poi a Londra.Il premier, generale Sikorski, accettò la sua richiesta di di-ventare Kurier tajni, “corriere” (ovvero agente) segreto.Sotto il falso nome di “Tenente Witold”, Karski s’infiltrònella Polonia occupata. Per conto del governo in esilio,coordinò e organizzò lo Stato clandestino. La Polonia resaricca e vivace negli anni Venti e Trenta anche dalla nume-rosissima, colta e prospera comunità ebraica, fu sottopo-sta dai nazisti a un’occupazione di una brutalità senza pre-cedenti e non espresse né un Petain né un Quisling: al con-trario che in Francia o in Norvegia, a Varsavia il Terzo Rei-ch non riuscì mai a reclutare marionette per un governocollaborazionista e i polacchi (tra soldati del generale An-ders, piloti nella Royal Air Force, partigiani) schieraronocon gli Alleati più soldati e mezzi di de Gaulle.

Venne la missione più pericolosa: «Witold» prima s’infil-trò nel Ghetto di Varsavia, e qui ascoltò i racconti delle de-portazioni. Poi fu arrestato dalla Gestapo in Slovacchia.Torturato selvaggiamente, riuscì nuovamente a fuggire.Raggiunse di nuovo l’Armia Krajowa, l’esercito partigianonazionale.

Il destino degli ebrei era ormai nel suo cuore, e col suogruppo organizzò l’impossibile. Riuscirono a corrompereun trawniki, una guardia delle forze ucraine collaborazio-niste che prestavano servizio nei Lager. Quello gli procuròun’uniforme ucraina, e lo aiutò a infiltrarsi nel Lager di Bel-zec. Karski fece violenza su se stesso per celare ogni emo-zione e non cadere in preda all’orrore, registrò nella me-moria tutto quel che vide: la fame e le violenze, le malattiee le torture, donne, vecchi e bambini ammassati sui vago-ni merci e spruzzati di calce. Il genocidio.

Ma l’avventura non era finita. Jan Karski raggiunse ro-cambolescamente Londra, fece rapporto al legittimo go-verno polacco in esilio. Prima il ministro degli Esteri bri-tannico, Anthony Eden, poi a Washington Roosevelt in per-sona, vollero riceverlo e ascoltarlo, e studiare i suoi micro-film trafugati nel Ghetto. Che il mondo si muova, che fermila barbarie, supplicò invano Karski. Non fu ascoltato: gli al-leati abbandonarono subito l’idea di bombardare i campiper fermare lo sterminio.

Karski visse una vita nel rimorso, schiacciato dall’idea dinon aver fatto abbastanza. Nel dopoguerra, il regime comu-nista lo considerò un traditore al servizio degli americani. Fi-no a quando la giunta Jaruzelski autorizzò l’indimenticabi-le Shoah, il film che Claude Lantzmann girò grazie anche airicordi di Karski. Nominato “Giusto tra i popoli” in Israele,come il tedesco Oskar Schindler, decorato poi da Walesa pre-sidente dopo la rivoluzione democratica del 1989, l’agentespeciale Jan Karski morì nel 2000, portandosi nell’animo,primo testimone, il peso della grande colpa dell’umanità.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

(segue dalla copertina)

Alla mia sinistra notai il binario,che correva lungo il Lager. Unaspecie di rampa conduceva albinario, e sui binari era fermoun vecchio treno merci con al-meno una trentina di vagoni

sporchi e polverosi [...].«Mi segua, la porterò a un buon posto d’os-

servazione», disse il mio accompagnatoreucraino. Passammo accanto a un vecchioebreo, che sedeva nudo in terra. Non capii sequalcuno gli avesse strappato via i vestiti, o seegli stesso se li fosse tolti in un attacco di follia.Se ne stava là seduto, immobile, silenzioso, ilvolto senza espressione, avrebbe potuto esseremorto, o pietrificato, se non fosse stato per queisuoi occhi vivaci fino all’innaturale, e che ciguardavano senza sosta. Non lontano da lui, unbambino giaceva a terra. Era solo, camminavamani e piedi, mi guardò con gli occhi di un coni-glio impaurito. Né del vecchio né del bambinosi curava nessuno [...].

Le baracche potevano avere spazio per nonpiù di duemila o tremila persone, e ogni “conse-gna” era composta di oltre cinquemila persone.Ciò significava che ogni volta due o tremila uo-mini, donne e bambini si dividevano il pocospazio all’aperto, lasciati indifesi sotto il mal-tempo. Caos, fame, l’orrore era indescrivibile.Dominava tutto un fetore bestiale di sudore,sporco, marciume, paglia umida ed escremen-ti. Dovemmo aprirci un varco attraverso quellamassa umana, era una tortura. Camminavamosu corpi umani, su membra umane [...] dovevotrattenere un tremendo senso di nausea[...].

Mi voltai, due poliziotti tedeschi arrivarono alcancello con un massiccio, alto ufficiale delleSS. Egli urlò un ordine, e i poliziotti tra mille sfor-zi aprirono il cancello [...]. «Silenzio! Silenzio!»,gridava l’SS, «tutti gli ebrei adesso saliranno suquesto treno, e verranno portati in un luogo do-ve il lavoro li aspetta. Silenzio, conservate la cal-

ma, non spingete. Chi cercherà di opporsi o causeràpanico verrà ucciso sul posto». All’improvviso, ri-dendo di cuore ad alta voce, estrasse la pistola d’or-dinanza dalla fondina e sparò tre volte a caso sullafolla. Un unico lamento di gente ferita fu la sola ri-sposta. Lui ghignò, ripose la pistola nella fondina eriprese a urlare: «Alle Juden Raus, Raus!». Per un at-timo la folla tacque. I più vicini all’ufficiale delle SScercarono presi dal panico di schivare le pallottole,di spingere indietro. Ma era impossibile. La folla siaccalcava sospinta da salve d’arma da fuoco versoil treno. Gli spari venivano dalle loro spalle, senzasosta, spinsero la folla in un brutale correre nel pa-nico verso la rampa. «Ordine, ordine!», gridava l’SS.Su quei vagoni merci c’era posto per una quaranti-na di persone, i tedeschi ne ammassarono cento-venti-centotrenta su ogni vagone, spingendo osparando con i fucili d’ordinanza [...].

Il pavimento dei vagoni era cosparso di polverebianca, i nazisti innaffiarono d’acqua i vagoni già

JAN KARSKI

LE IMMAGINIIn alto, un’esecuzione di massa nel

lager di Belzec nel 1942

Qui sopra, Jan Karski (a sinistra)

e suo fratello giovani ufficiali;

Karski a New York detta

il suo Rapporto alla segretaria

Tra i documenti da sinistra:

la lettera con cui il governo

polacco decora Karski;

il passaporto diplomatico;

la lettera di missione di Karski

e il testo della sua prima

testimonianza letta alla BbcLe immagini sono tratte

da Mein Bericht an die Welt(edizioni Verlag Antje Kunstmann)

In copertina, guardie naziste

nel campo di concentramento

di Belzec

“ Li caricano sui treni,sparano a caso, ridonoPoi ricominciano...”

Repubblica Nazionale

Arrestato e torturatodalla Gestaponel ’44 riuscì a fuggirenegli Stati Unitidove scrisse e pubblicò“Il mio rapportoal mondo”Supplicò Roosvelt:“Vi prego,fermate la barbarie”

“Le cose che ho vistoresteranno per sempredentro di me. Vorrei poterlecancellare dalla memoriaMa ancora di più vorreiche ciò che ho vistonon fosse mai accadutoQuesto peccato perseguiteràl’umanità fino alla finedei suoi giorni”

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 10 LUGLIO 2011

pieni. Era calce viva. Il loro atroce calcolo aveva undoppio scopo: la carne umana bagnata, venendo incontatto con la calce, brucia, molti dei poveretti neivagoni finivano letteralmente bruciati, la calce glidivorava la carne fino alle ossa, in tal modo gli ebreidovevano «morire tra sofferenze atroci», comeHimmler aveva promesso nel 1942 a Varsavia «se-condo la volontà del Führer» [...].

Durò tre ore, finché il treno non fu pieno e partì.Nel Lager rimasero poche dozzine di cadaveri o dimoribondi feriti a terra, i poliziotti sparavano qua elà colpi di grazia [...]. Il treno si allontanava tra le gri-da dei prigionieri che provenivano dai vagoni, qua-rantasei vagoni, li contai tutti. Il treno avrebbe viag-giato per circa centotrenta chilometri, si sarebbepoi fermato in un posto abbandonato in apertacampagna. Sarebbe rimasto là fermo, finché lamorte non si fosse diffusa in ogni angolo del suo in-terno. Durava da tre a quattro giorni [...].

Quando poi calce, soffocamento e ferite avreb-

bero avuto la meglio sulle ultime urla di dolore, sa-rebbe venuto un gruppo di giovani deportati. Gio-vani ebrei, ancora in forze. A loro toccava eseguirel’ordine di pulire il treno da cima a fondo, svuotarlodei cadaveri, bruciare le montagne di cadaveri e get-tare i poveri resti in fosse comuni. Durava da uno adue giorni. Intanto arrivavano nel Lager le prossimevittime, e tutta la procedura ricominciava [...].

Queste immagini che vidi nel Lager resteranno

per sempre dentro di me. Non farei nulla più volen-tieri che cancellarle dalla mia memoria. Il ricordo ri-sveglia la nausea a ogni istante. Ma più ancora chedalla memoria, vorrei liberarmi dal pensiero chequanto io vidi è accaduto.

(Traduzione di Andrea TarquiniPer gentile concessione della casa editrice

Verlag Antje Kunsmann, Monaco)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

“ Li caricano sui treni,sparano a caso, ridono

LIBRO E TEATRO

È uscito in Germania Mein Berichtan die Welt-Geschichte eines Staatesim Untergrund per la casa editrice

Verlag Antje Kunstmann di Monaco

Anticipiamo il capitolo L’ultima tappaSulla figura di Karski, il Festival

di Avignone ha aperto con Jan Karski(Mon nom est un fiction), una pièce

tratta dalla biografia del partigiano

polacco adattata da Arthur Nauzyciel

Repliche fino al 16 luglio

Repubblica Nazionale

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 LUGLIO 2011

l’attualitàLuoghi comuni

La conquista del Machu PicchuSTEFANO MALATESTA

Il fascino di Machu Picchu, o almeno ciò che irresistibilmenteattrae i turisti, che quest’anno, in occasione del centenario del-la “scoperta” saranno almeno un milione, pronti a inerpicarsisu per le Ande aspettando che accada qualcosa di magico, unpo’ come i malati quando arrivano a Lourdes, non sta nelle ma-gnifiche vedute, nell’aria salubre anche se fin troppo rarefatta,

nella spettacolare natura andina, che qui spalanca tutte le sue asprebellezze. Sta in quell’atmosfera di mistero, di spaesamento, di lonta-nanza da tutto e soprattutto di alieno che questi territori diffondonointorno a loro. Come se fossero consapevoli della loro totale diversità.

Quando i soldati di Cortés, molti anni prima della spedizione di Pi-zarro nel Sudamerica, risalendo il Passo di Cuernavaca, si trovaronoimprovvisamente di fronte la Valle del Messico, ebbero come un fre-mito. Quegli immensi palazzi, quei canali che attraversavano la capi-tale dell’impero messicano Tenochtitlan, sembravano usciti dallafantasia di un racconto cavalleresco e avevano l’aspetto del sogno. Chiarrivava per la prima volta nell’Impero inca provava una sensazionediversa, mai provata prima, come di trovarsi improvvisamente in unpaese abitato non da uomini, ma da strani esseri dalle facce enigma-tiche che non parlavano mai e che li lasciavano passare senza degnarlidi uno sguardo, di un’occhiata. Come se non fossero esseri reali mafantasmi.

Questi comportamenti, che gli spagnoli non riuscivano a interpre-tare, trovavano una perfetta corrispondenza in un paesaggio altret-tanto indecifrabile fatto di misteri apparenti che sembravano reali, dipaesi che avevano caratteristiche di un altro mondo ancora più verti-cale, sospeso tra le cime andine.

Così la scoperta delle Americhe riportò nei racconti di viaggio tuttaquell’invenzione fantastica che si era andata perduta. Negli ultimi se-coli la scienza del compasso e del calcolo matematico, della cartogra-fia e della bussola, aveva drasticamente ridimensionato tutte le in-venzioni multicolori portate dai viaggiatori quando rientravano inEuropa. Oramai si trattava non di avallare storie che raccontavano diuomini da un piede solo, unicorni e streghe con ali di pipistrello, macome si potesse circumnavigare l’Africa avendo i venti contrari conuna tecnica veliera chiamata “andare di bolina”. Ora invece c’era uncontinente dove esistevano le più grandi miniere d’oro e d’argento delmondo, e uccelli dalle penne impossibili come quelle del quetzal, ani-

mali con corazze da soldati come il tapiro, bevande come la cioccola-ta e strane canne riempite di un’erba che si accendevano e venivanoaspirate durante i banchetti. E si parlava di amazzoni più pericolosedei guerrieri, di uomini giganteschi fatti d’oro, di città lastricate con lepietre preziose. E di una giungla immensa che attraversava il conti-nente dove si dovevano nascondere animali antidiluviani che veniva-no direttamente dal Pleistocene e che sguazzavano negli affluenti delRio delle Amazzoni, il fiume con la più grande portata del mondo.

Improvvisamente la scoperta delle Americhe, con l’apparizione dipopolazioni mai viste che avevano usi, costumi, aspetti e vestiti cosìspettacolari e differenti da quelli europei, riportarono a galla i rac-contatori di balle geografiche e gli inventori di misteri fasulli. Quale al-tro continente si poteva prestare alla creazione di leggende e di misteritanto affascinanti? E quale altra regione del mondo poteva rivaleggia-re con la giungla amazzonica per nascondere animali antidiluviani?In conseguenza di ciò la storia del Sudamerica, negli ultimi secoli, si èbasata per metà su verità accertate, per l’altra metà su racconti e leg-gende mai verificate, che hanno continuato a perpetuarsi nei secoli fi-no ai tempi nostri. Ricordo che negli anni Cinquanta era nata una cu-riosa editoria, fatta essenzialmente di balle e che raccontava di im-possibili regni extraterrestri che si annidavano — indovinate dove? —nelle Ande, facendo passare gli elmetti delle culture più antiche del-l’America del Sud come caschi di piloti spaziali.

Ancora oggi il milione di turisti che cercherà di raggiungere, possi-bilmente a piedi, le rovine, e che fa gridare allo scandalo storici e ar-cheologi per i danni che il sito è costretto a subire, e che spinge l’Une-sco a riflettere sulla possibilità di dichiarare «a rischio» una delle «me-raviglie del mondo», e quindi a pensare di contingentarne gli ingres-si, è attratto come una calamita proprio da quell’aura di mistero e leg-genda che nei secoli è stata cucita addosso al Machu Picchu. Certo, dalassù si potrà godere di viste e panorami indimenticabili, come sug-geriscono i dépliant. E sicuramente gli splendidi monumenti, im-mensi e perfettamente levigati, faranno la loro parte. Ma né gli uni négli altri da soli bastano a giustificare questa fantasmagorica corsa inaltura, questa straordinaria arrampicata di massa. È soprattutto l’i-gnoto, l’incomprensibile, l’alieno a funzionare da richiamo planeta-rio. È il mito stesso che si veste da tour operator. Il mistero che diven-ta trash. Mentre la leggenda si appresta a trasformarsi nella sua ulti-ma maledizione.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LE IMMAGINILe foto in bianco e nero sono quelle di Hiram Bingham

pubblicate nel 1911 sul National Geographic

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 10 LUGLIO 2011

Il 24 luglio 1911 Hiram Bingham “scoprì” questo sito inca. Santuario, osservatorio, fortezza: gli studiosinon riuscirono mai a mettersi d’accordo.Ci pensarono i tour operator a trasformarlo in unadelle mete più visitate al mondo. Tanto che l’Unesco vuole dichiararlo patrimonio a rischio

Il bambino peruviano, lo sguardo dell’asinoe l’Indiana Jones venuto dal Connecticut

PACO IGNACIO TAIBO II

Non è molto chiaro se fosse un palazzo per l’ozio, un santuario, una cit-tadella militare, un osservatorio astronomico o, nel corso del tempo,tutt’e quattro le cose, ma questo è parte del fascino delle pietre antiche:

il non riuscire a mettersi d’accordo con coloro che le interpretano, fabbricaremistero, regalare dubbi. Non è molto chiaro neppure come si debba scrivere,leggere o pronunciare il nome di quella meravigliosa cittadella di pietra in

mezzo alle Ande, a ottanta chilometri da Cusco, che molticonoscono come Machu Picchu.

Si erge perduta in una selva, in mezzo a una catena mon-tagnosa e si trova sicuramente in un luogo che propizia l’i-solamento. Eppure, le rovine di ciò che verso la metà del se-colo XV fu solo splendore, oggi richiamano su Internet qua-si ventuno milioni di risultati.

Ebbene, se tutto ciò è mistero e dubbio, quel che non sem-bra esserlo per gli organizzatori delle commemorazioni èche si stanno celebrando i cento anni della riscoperta di Ma-chu Picchu da parte dello storico statunitense e allora tren-taseienne Harry Bingham. Ma...

Non ci sono dubbi sul fatto che il 24 luglio 1911 Binghamarrivasse alle rovine di Machu Picchu accompagnato da unaguardia civile e da un contadino e che questa «scoperta» ab-bia aperto la strada, in anni successivi, a una spedizione fi-nanziata dall’Università di Yale e dalla National GeographicSociety, spedizione che produsse scavi, la rimozione dellavegetazione e, soprattutto, un lungo articolo sul NationalGeographic.

Agli occhi del «mondo» le rovine dell’abbandonata citta-della inca erano state scoperte. Ma…

Non ci sono dubbi neppure sul fatto che quando Bingham arrivò, nelle ro-vine abitassero due famiglie di contadini dai cognomi Recharte e Álvarez. Laprima certezza è stabilita: i Recharte e gli Álvarez non solo avevano riscopertoMachu Picchu, ma vi abitavano. Anzi, fu uno dei bambini Recharte a guidareil nordamericano fino alle rovine ricoperte da arbusti e vegetazione.

E non ci sono dubbi di sorta nemmeno sul fatto che diciassette anni prima,un esploratore amateur peruviano (che certamente non aveva accesso allepubblicazioni scientifiche nordamericane) di nome Agustín Lizárraga, aves-

se guidato una spedizione di tre o quattro persone fino alle rovine e che fossetornato a visitarle nel 1902, lasciando incisi nei muri di uno dei templi i nomidei componenti del gruppo: una storia che Bingham ammette nei suoi qua-derni di appunti.

Nonostante tutto ciò, la gloria è solita essere, come quasi tutto, profonda-mente ingiusta e sarebbe stato Bingham a ritrovarsela attribuita. Così comesarebbe stato Bingham a portare via circa cinquemila re-perti archeologici che sarebbero entrati a far parte dei teso-ri dell’Università di Yale — e che sarebbero stati restituiticent’anni più tardi.

Bingham, cui certe voci attribuiscono l’origine extra let-teraria di Indiana Jones, rese pubblica nel 1911 una eccel-lente fotografia nella quale è vestito come si suppone si ve-stano gli esploratori, con salakote giacca dotata di molte ta-sche. Bingham, in piedi accanto al suo asino, guarda orgo-glioso verso la macchina fotografica. È l’immagine di tuttele «riscoperte» e di tutti i «riscopritori», anche se io preferi-sco il placido sguardo dell’asino.

Con il passare degli anni, dopo essersi definito politica-mente un «repubblicano conservatore», Bingham sarebbediventato governatore del Connecticut, prima di dedicarsial mondo degli affari privati e di tornare infine alla carrierapubblica per fare parte di una istituzione spregevole, la Ci-vil Loyalty Review Board, che durante la caccia alle streghedel periodo maccartista indagò sui «sovversivi» all’internodel Dipartimento di Stato, facendo licenziare i funzionarisospettati di dubbie ideologie. Per questi meriti, nel 2007,gli Stati Uniti gli hanno dedicato un francobollo che lo ritrae. Non è retorica ladomanda: che cosa stiamo celebrando?

Traduzione di Guiomar Parada(Paco Ignacio Taibo II, scrittore e storico, è l’ideatore e direttore del festival

culturale Semana negra a Gijón in corso dal 22 luglio e della Feria Alternativadel Libro a Città del Messico. Il suo ultimo romanzo, omaggio a Salgari,

è Ritornano le Tigri della Malesia, MarcoTropea Editore)

i metri di altezza a cui

si trova l’area archeologica

2.500

i visitatori all’anno:

al giorno superano i 1.500

800mila

di euro l’anno: è l’incasso

del sito archeologico

4 milioni

il 24 luglio Hiram Bingham

“scopre” il Machu Picchu

1911

l’Unesco limita a 2.500

il numero di turisti al giorno

2003

nominato dall’Unesco

una “meraviglia del mondo”

2007

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Repubblica Nazionale

Si chiamava Watson, non Woodhouse: è il prototipodell’eroina che la scrittrice britannica avevapensato in un romanzo giovanile rimasto incompiuto

Ma già si vedevano i tratti dei personaggi più maturi: ironia, intelligenza,ribellione. Ora il manoscritto, uno dei più importantirimasti in mano privata, va all’asta da Sotheby’s a Londra

CULTURA*

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 LUGLIO 2011

Non conosco la brama delcollezionista. Sono piut-tosto un’artista nell’attoopposto, quello di per-dere — nell’arte del per-dere sono un fenomeno.

Eppure, mi trovassi nei paraggi, giovedì14 luglio sarei da Sotheby’s, a Londra, avedere battere all’asta il manoscritto diThe Watsons di Jane Austen, sessantot-to pagine vergate a mano in una calli-grafia squisita, minuta, precisa, dallascrittrice inglese tra le mie preferite nel-la top ten. Le prime dodici pagine delmedesimo manoscritto si trovano allaPierpoint Morgan Library di New York,insieme a Lady Susan, un lavoro giova-nile. Due capitoli di Persuasion sonopresso la British Library. Mentre alKing’s College, Cambridge, riposa ilframmento Sanditon. Ricordo ancoral’emozione di quando anni fa un biblio-tecario gentile me lo mostrò. Mi sembròdi avvicinare il mistero della scritturaausteniana: come se la magia dellacreazione avesse a che fare anche conquei segni — quasi geroglifici, per chioggi non ricorre al gesto materiale di in-tingere una penna nell’inchiostro. Dal-le cancellature mi pareva di intuire leesitazioni, i ripensamenti, dalle incer-tezze dello spelling capivo la fretta.

Non sopravvive manoscritto nessunromanzo intero di Jane Austen, ma io miaccontenterei di questo; anzi, tra gli og-getti da collezionare l’oggetto incom-piuto mi pare, a dire il vero, il più interes-sante. Mi potrei mettere a studiare comecompletarlo. A forza di leggerlo e rileg-gerlo, tenendolo così in vita, mi dediche-rei alla sua resurrezione. E sconfiggereiin tal modo un’interpretazione funerea

del collezionismo. Nel gesto del collezio-nista c’è chi ha visto il tratto anale delpossesso, l’avidità, l’egoismo, il gustoperverso del dominio delle cose, la gioiamaligna della loro preclusione agli altri.Lo insegna il maestro dei miei maestri,Mario Praz; il quale insiste sul suo carat-tere mortifero. Potessi acquistare il ma-noscritto, io invece lo investirei del mioerotismo e per me diventerebbe non piùun oggetto d’uso né di scambio, non unamerce, ma una cosa amata. Tanto piùamata, perché orfana e incompiuta.

Jane comincia a scrivere il romanzo aBath nel 1804, in un momento difficile:l’elegante e bella cittadina non le piace,stava meglio a Steventon; ma il padreGeorge Austen ha deciso di lasciare ilsuo ministero e trasferirsi lì dove s’erasposato con Cassandra Leigh, da cuiaveva avuto ben sei figli maschi e duefemmine, Cassandra e Jane, e quando ilpadre decide... A Bath Jane non scrive,mentre nel rettorato di Steventon s’erasempre molto affaccendata con carta epenna, decisa a diventare un “autore”;a fare della sua passione una professio-ne. Mossa ardita e coraggiosa per una

donna, a quei tempi. Ma Jane è ardita, èaudace, intelligente, ironica, libera nellamente e nel cuore, e insieme realista,niente affatto romantica. Ha questi trat-ti l’eroina che affiora dalle pagine di TheWatsons, che proprio qui a Bath comin-cia e poi d’improvviso si interrompe.Perché? Non si sa perché.

Sappiamo dalla sorella Cassandra co-me sarebbe andata a finire la trama, ecioè come sempre finiscono le storie diJane, che sono “comiche”, e cioè a lietofine. Chi salva tutto è sempre una donnache ha senno e sentimento, ragione esensibilità. Ed è capace di persuasionesugli altri e di persuadere se stessa a ca-vare il meglio da una condizione che nonpromette libertà assolute, scelte radica-li; ma apre possibilità di sopravvivenzamorale; permette azioni di difesa delladignità umana, a patto che si accetti l’e-norme fatica della discriminazione, del-la distinzione. Soprattutto la donna è arischio nella società in cui Jane vive e chedescrive. È a rischio la libertà femminile,che non è questione di quante cose pos-sa o non possa fare una donna, ma cheidea debba custodire di sé. È un oggetto

NADIA FUSINI Sappiamo dalla sorella Cassandracome sarebbe andata a finire la trama,e cioè come sempre finiscono le sue storie:chi salva tutto è una donna che ha sennoe sentimento, ragione e sensibilitàEd è capace di persuadere gli altri e se stessaa ottenere il meglio da una condizioneche non promette libertà assolute

La prima versionedi Emma W.

www.edizionidedalo.it

Una nuova collana dedicata alla narrativa scientifica:romanzi e racconti in cui la scienza è protagonista.

Il volto umano della scienza: luci e ombre, de bo lezze e passioni si fondono nel ritratto di un ma tematico e del suo mondo.

Philibert Schogt

I numeri ribelli

Una feroce satira sul classismo, l’amore, i rapporti umani e la venerazione per la scienza.

Manu Joseph

Il gioco di Ayyan

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 10 LUGLIO 2011

punto con pazienza Emma gli spiegache esiste una female economy, un’eco-nomia femminile che non può magica-mente trasformare «a small income intoa large one», un reddito esiguo in unbuon reddito. In una società di classecome quella in cui le eroine di Jane Au-sten vivono, non d’amore si tratta, ma dipatrimoni e matrimoni, che si combi-nano a seconda del reddito.

Spiritosa e vitale come l’altra Emma,protagonista dell’omonimo romanzo,ma non vanitosa come lei, né bugiarda;più energica di Fanny di MansfieldPark; più dinamica di Anne di Persua-sione; la nostra eroina rifiuta il matri-monio per interesse. Non che non necapisca la logica, non che idealizzi l’a-more, ma questa Emma di questo ro-manzo incompiuto non vuole, non leva, e alla fine, secondo quanto Jane con-fidò a Cassandra, avrebbe declinatol’offerta dell’aristocratico lord e cercatol’amore altrove. Nel frattempo, appenapuò, si rifugia nella camera del padremoribondo: «Nella sua stanza, Emmariparava dalle tremende mortificazionidi una società ineguale, e dalla discor-dia famigliare [...]. Nella sua stanza po-teva leggere e pensare».

Nella stanza del padre. Come appun-to faceva Jane, che il padre sempre so-stenne nella passione e nella carrieraletteraria. Poi nel 1805 il padre morì e Ja-ne interruppe il romanzo. Quella appe-na citata è la penultima pagina del ma-noscritto incompiuto. Che abbia pen-sato di averlo ucciso lei, perché così eraprevisto nel romanzo? Chissà. Comun-que a queste pagine non tornò, anche senel nome e nello spirito l’eroina di que-ste pagine ricompare in altre eroine e inaltre pagine a venire.

di scambio? Una merce? O può emanci-parsi, cioè smettere di considerarsi sottopotestà altrui? Del padre, o del marito?

Chi sono i Watson? Una famiglia cometante: un padre vedovo, invalido, e quat-tro figlie femmine di cui una torna a casada straniera, essendo stata allevata dauna zia ricca, la quale però perde il mari-to, si risposa e a questo punto allontanala nipote, che senza dote né arte né par-te si ritrova a pesare su un’economia fa-migliare assai fragile. Ecco perché in ca-sa non si parla d’altro, se non di matri-monio. Tra le sorelle è l’unico argomen-to. È anche la ragione di una sotterraneacompetizione tra di loro. Che Emma —questo il nome della nostra eroina — di-sprezza, perché lei è differente. Intanto,è più colta. È meno provinciale. È stataesposta a una diversa atmosfera.

È sublime il modo in cui da piccolitratti Jane Austen fa risaltare come èproprio nell’esperienza della vita quoti-diana che si forma il carattere. Non c’èscrittore più materialista, più marxistadi lei, che non parla di Napoleone né discioperi né di schiavitù — tutti eventireali dei suoi giorni — ma fa emergere inpiena evidenza l’ingiustizia strutturalee sovrastrutturale del mondo di salotti ecrinoline e carrozze e feste da ballo chedescrive con impareggiabile scherno.In particolare in questo frammento diromanzo. Ecco, ad esempio, uno scam-bio tra Lord Osborne ed Emma, poverama bella e intelligente. I due sono sedu-ti uno accanto all’altro e dovrebberoconversare e lui non sa che dire e poi di-ce qualcosa come: alle donne dona an-dare a cavallo. E lei prosaicamente ri-sponde: non tutte hanno l’inclinazioneo i mezzi per farlo. Ma se ne avessero vo-glia! ribatte lui, che non sa che cosa si-gnifichi «non avere i mezzi». A questo

© RIPRODUZIONE RISERVATA

L’EVENTO

Va all’asta da Sotheby’s a Londra il 14 luglio

il manoscitto originale The Watsons di Jane Austen:

sessantotto pagine scritte e corrette a mano

dall’autrice. Il documento, il più importante

della Austen messo sul mercato in oltre vent’anni,

è stimato 200-300mila sterline

PAGINE SPARSEIn queste pagine,

alcuni fogli

del manoscritto

de I Watsonche andrà all’asta

Il disegno

è di Tullio Pericoli

Repubblica Nazionale

Dal padre contadino ha ereditato faccia e ariadi campagna, ma Adelmo “Sugar” Fornaciari aveva

in mente altro: suonare il blues. A ogni costo. E ora che ha realizzato il suo sogno,ha duettato con i più grandi musicisti del mondo e il suo “Chocabeck Tour”sta per arrivare a Roma, racconta quello che non ha mai raccontato:di quandoda primo in classifica si ritrovò senza soldi, senza una donna e malato di depressione

SPETTACOLI

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 LUGLIO 2011

Sarà la sua origine contadina,sarà quella pazza vocazioneper la musica italiana corret-ta in salsa soul, ma di sicuroAdelmo Zucchero Fornacia-ri è uno che sprigiona la mi-

glior simpatia di provincia, sana e bona-ria come un frizzantino di campagna.Che poi questo l’abbia portato a duetta-re con Eric Clapton e i Queen, con MilesDavis e Pavarotti è una delle più belle emisteriose favole del mondo della can-zone del nostro paese. «Sembra assurdo— confessa tornando indietro nel tempoa quando la favola incominciò — ma ilprimo incontro è stato il più grande, ov-vero Miles Davis. Aveva ascoltato Dunemosse e, incredibile, fu lui a dire che vo-

leva suonare in un mio pezzo. Andai aNew York, ero terrorizzato perché avevauna fama terribile, e infatti in studio all’i-nizio fu difficile. Era tutto vestito di pellenera, neanche salutava. Entrò e mi disse:“Play!” Io attaccai alle tastiere e lui,“What fuck are you doing!”, perché ave-vo attaccato con un accordo di Si mino-re, e lui diceva che era Si bemolle mino-re. Io timidamente dissi, ma no, l’hoscritta io, lo saprò che accordo è... La ve-rità è che aveva sentito il nastro a una ve-locità diversa. E l’intonazione era un’al-tra. Però alla fine andò bene, e lui dopo fudolcissimo, mi mise le dita alla gola e dis-se: mi piace la tua voce».

Poi c’è stato Clapton, il gentiluomo,che lo volle in tour con lui, Sting e tuttigli altri. «Ma quello che mi ha sorpresodi più sul piano umano è Bono. Dopo

che ha scritto un testo per me, e soprat-tutto dopo aver ascoltato come l’hocantato, mi ha riempito di messaggid’amore». Fu da quel momento che lafavola divenne qualcosa di più: unostrano connubio tra provincia e mon-do, artigianato e show business, sa-pienza da cantautore e blues. Tra Reg-gio Emilia e il West stava nascendo lafabbrica di musica che avrebbe espor-tato il suo prodotto in tutto il pianeta.

Ma dopo gli eventi, gli incontri, le av-venture in ogni parte del mondo, comeun normale lavoratore ogni giorno Zuc-chero torna alla dimensione più di rou-tine. Perché anche incidere dischi epreparare tour, dice, in fondo può di-ventare un lavoro come un altro, la stes-sa storia che si ripete. «Ai miei managerlo dico sempre: sono un asino, I’m a

donkey, ho bisogno sempre della caro-tina, mi serve una sfida per andareavanti. Ogni volta che si annuncia untour mi vengono le crisi di panico, nonci dormo la notte, faccio rifare le datepiù volte perché mi sembra impossibi-le rimettere insieme tutto il baraccone.Poi piano piano mi convinco, cercosempre delle novità, posti nel mondodove non sono mai stato, oppure rad-doppio date in posti come la Royal Al-bert Hall. Ovviamente quando il tourparte mi diverto come un matto».

Ma la sfida non può essere solo di nu-meri, anche se questo suo ChocabeckToursta avendo un successo clamorosoe ancora deve culminare con la data clouall’Olimpico di Roma il 23 luglio. «Que-sta cosa l’ho sentita con l’ultimo disco.Prima, devo confessarlo, mi ero un po’

perso, o meglio, diciamo che mi ero trop-po fatto condizionare dalle pressioniesterne, soprattutto all’estero. Mi dice-vano devi fare il duetto con questo fran-cese per andare forte sulle radio in Fran-cia, devi fare così e colà, non erano im-posizioni è ovvio, ma ho fatto dischi incui c’erano troppe strizzatine d’occhioal mercato. E non va bene, a un certopunto mi sono detto: io voglio invec-chiare bene, musicalmente parlando,tanto a questo punto cosa mi può succe-dere, vendere un po’ di meno? E chi se nefrega, tanto il mercato dei dischi ormai sista dissolvendo, e allora basta compro-messi, voglio fare solo quello che sento.E infatti è successo col disco Chocabeck.Un sacco di gente che non sentivo da an-ni si è rifatta viva e mi ha detto: ecco, que-sto sei veramente tu. E la gente, il pubbli-

GINO CASTALDO

Zuccherofabbrica

La

di

Confessioni di un uomo “soul”

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 10 LUGLIO 2011

co, questo lo sente. Ora sono circondatoda affetto, come mai prima».

Insomma, uno Zucchero senza ama-rezze? «Insomma, mica tanto. Per arri-vare alla serenità di oggi ho fatto una fa-tica tremenda. Nel 1987 proprio quandodopo un sacco di gavetta il mio discoBlue’s è arrivato primo in classifica, hovissuto il periodo più brutto della mia vi-ta, una depressione durata tre anni, e for-se anche di più». A sentirlo pare incredi-bile, proprio Zucchero, con la sua musi-ca così vitale, ritmata, tutta energia econtagio. «La causa fu innanzitutto la se-parazione dalla mia prima moglie. Leinon era indipendente come Francesca,la mia compagna attuale. È una ragazzache ho amato tantissimo, ma molto pro-vinciale, è di Forte dei Marmi e non eramai uscita da lì. Eravamo ragazzi, ci sia-

mo sposati che io avevo ventitré anni e leiventuno, siamo stati insieme sedici an-ni, ma lei non ha mai fatto pace col miolavoro, sotto sotto sperava inconscia-mente che io non avessi successo. All’e-poca facevo le balere, mi arrangiavo,non riuscivo ad avere un contratto, leipensava: lasciamolo sfogare. Quandoscrivevo una canzone gliela portavo e leidiceva: è una cagata, io soffrivo comeuna bestia, ma ero innamorato. Mi sonoindebitato per lei per 450 milioni di allo-ra, e non avevo ancora una lira, dovevoancora avere le royalty di Blue’s, ero nel-la merda, ma lei non si è mai abituata.

«Va beh, comunque non ha funziona-to, non ce l’ho più fatta, lei l’ho lasciatanella villa per cui mi ero indebitato e mene sono andato. È stato il momento piùbrutto della mia vita, sono stato sei mesi

in una specie di baracca senza cucina ecesso, per i bisogni andavo alla pensionedi fronte, e il paradosso è che ero primoin classifica. Il sabato prendevo le bimbema non sapevo dove portarle perché lagente mi fermava per strada, loro eranogelose, mi tiravano via, ero il fenomenodell’anno. Era un disastro, non prende-vo una baby-sitter perché a quei tempiera inconcepibile, almeno nella menta-lità dei Fornaciari. Provai anche a torna-re dai miei, a Reggio Emilia, ma mio pa-dre non aveva capito che facevo un’altravita, alle sette cominciava urlare “sa fè atlet?” cosa fai a letto? Voleva che lo andas-si a aiutare nei campi».

E com’è uscito da questo periodo ter-ribile? «C’è voluto tempo, mi sono do-vuto curare, ho preso psicofarmaci, etante cose bellissime che mi capitavano

non me le sono godute. Nel 1992 michiamò Brian May che mi invitò a Wem-bley a cantare con loro, i Queen, per iltributo a Freddie Mercury, ma stavo an-cora male. Ricordo che nei camerinistavo in mezzo a gente come Bowie,Daltrey, George Michael, ero lì spauri-to, e mi venne un attacco di panico, su-dori freddi, volevo scappare, sembravache mi dovessero portare alla fucilazio-ne. Poi andai sul palco. Qualcuno dove-va portare la chitarra acustica perchédovevo cominciare io e poi si sarebberoaggiunti i Queen, ma nessuno mi porta-va la chitarra, ero davanti a ottantamilapersone, volevo morire, poi Brian May,che è un grande, mi fece un segno e partìlui con la chitarra elettrica. Alla fineandò benissimo, ma io ero ancora inuno stato pietoso. Anche perché non

ero abituato a stare solo con me stesso.Sono sempre stato uno sradicato, fin-ché una volta trovandomi nelle campa-gne vicino a Pontremoli, ero in moto, hovisto una valle verde con un rudere e unfiume. Sono sceso giù e mi sono sdraia-to per terra. Per la prima volta in vita miami sono sentito a casa. Ho compratotutto e lì ho costruito la mia fattoria. Dalì è cominciata la mia vera rinascita. Oraè un posto straordinario, viviamo inte-ramente dei prodotti della terra, faccia-mo il vino, i formaggi, poi ho trovatoFrancesca, è nato l’altro mio figlio Blue.Ora posso dire davvero di vivere comevoglio. Ho cinquantacinque anni, ma latesta è quella di un ragazzino, le sfide so-no ancora tutte lì, a portata di mano». Eogni giorno la fabbrica riapre.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

ARTIGIANOI fogli di queste pagine

sono appunti di Zucchero

Dall’alto in senso orario,

note sul check; la scaletta

del Chocabeck Tour;uno stage plan

per Che tempo che faospite Zucchero;

lo spartito di Misererecon un appunto

per Luciano Pavarotti;

note e variazioni su brani

come Too Late e Broken;

appunti su Chocabeck;

il testo italiano di Muoioper te per Sting

e le note di fonetica

GUEST STARA sinistra, Zucchero con Bono; in alto, il primo incontro “fatale”

tra il cantante italiano e Miles Davis; nell’altra pagina Zucchero

durante il Chocabeck World Tour

Repubblica Nazionale

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 LUGLIO 2011

le tendenzeConciate per le teste

Da sempre simbolo di distinzione, grazie soprattuttoai matrimoni reali oggi torna alla ribalta. Ma se le divedel passato lo indossavano per suscitare misteroe seduzione, ora si punta sull’eccentricità e sull’ironiaAnche a rischio di esagerare un po’

sempre allusivi: Greta Garbo ma anche Marlene Dietrich fuo-ri e dentro il set; in chiave più contemporanea l’Ingrid Berg-man di Casablanca; l’Audrey Hepburn di Colazione da Tif-fany; la Charlotte Rampling in berretto militare nel Portiere dinotte e, perchè no, Julia Roberts in Pretty woman.

«Si può sempre capire dal cappello di una donna se vive ono di ricordi», sentenziò Oscar Wilde. La tendenza, oggi, èquella di usare il cappello non soltanto per le occasioni spe-ciali — un matrimonio, una cerimonia, un ricevimento enplein air— ma in modo sportivo, non come segnale di privile-gio e di status, ma per proteggersi dal sole, per fare cose nor-mali in giorni normali. Un cappello può essere indossato conironia. Forse bisognerebbe osare di più, dimostrare più co-raggio e autostima.

Ma occhio alle insidie. Coprirsi la testa con eleganza e condisinvoltura richiede personalità, presenza di spirito, sciol-tezza e grazia. Se sei piccola sembri un fungo; se sei quasi per-fetta puoi sbagliare lo stesso, come è appena successo a Caro-lina di Monaco, che si è presentata alle nozze civili del fratellocon in testa un quasi ombrellone disseminato di rametti di mi-mosa. Ma il giorno dopo, al rito religioso, con un cappello piùclassico e misurato era impeccabile. Se poi viri verso la ca-rampana, il cappello ti dà il colpo di grazia, come successe aCamilla Parker Bowles il giorno del suo matrimonio con Car-lo d’Inghilterra. Più che un copricapo, si era messa in testa unistrice, anche se firmato dal più geniale stilista di settore delmondo: il mitico Philip Treacy, anche detto “il cappellaio mat-to”, uno che crea per le future regine come per Lady Gaga. Unautentico visionario. Erano ben trentasei le dame che al RoyalWedding di William e Kate sfoggiavano un suo cappello, il ve-ro top dell’alto di gamma. Sempre originale, eccentrico e ar-dito, Treacy ogni tanto calca troppo la mano, come ben sa laprincipessina Beatrice di York, dileggiata per la bizzarria delsuo increscioso cappellino-fiocco esibito sotto le volte di We-stminster. Mica stupida la ragazza: ha sfruttato critiche e no-torietà e ha venduto all’asta il suo copricapo all’incredibile ci-fra di 93 mila euro, devoluti all’Unicef.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da cowboy, tipo paglietta, floreale, alla Zorro,da diva o divina a falde larghe, o l’intramonta-bile panama. Ma anche da fantino, da gondo-liere, da marinaretto, da Indiana Jones, da to-rero o con le tese piccole alla Peter Doherty,l’ex di Kate Moss. Torna il cappello, dettaglio

chic a patto che non si commettano errori. Se un tempo unavera signora non sarebbe mai uscita a testa scoperta, oggi ilcappello, in chiave sdrammatizzata, è un accessorio di nuo-vo alla ribalta. Come ieri, tuttavia, rimane un simbolo di di-stinzione. Un cappello ben fatto può essere un’opera d’arte.È così che cominciò la sua spettacolare carriera Coco Chanel,come modista di cappellini, cui subito strappò ogni alonevezzoso per farne accessori moderni.

Anche in questo settore, oggi, l’eccellenza è made in Italy.Nelle Marche, in provincia di Ascoli Piceno, spicca per qua-lità il distretto dei cappelli più famoso d’Europa: una sessan-tina di aziende specializzate che arrivano a esportare fino alnovanta per cento della loro produzione.

Cappello, quello classico, a tese larghe, vuol dire anche mi-stero, seduzione. Adombra, e adombrando esalta. Le grandidive del passato devono molto ai loro cappelli, mai casuali,

HatsTalking

LAURA LAURENZI

Le rivelazioni del cappello

ELISABETTA II EUGENIA DI YORK BEATRICE DI YORK MIRIAM CLEGG SALLY BERCOW SOFIA DI SPAGNA CAMILLA PARKER BOWL LETIZIA DI SPAGNA

NOZZE WILLIAM E KATE

INDIANOI colori vivaci del carré “Fleurs

d’indiennes” danno un tocco moderno

al classico Hermès in popeline di cotone

MARINONegli estivissimi colori blu e lilla

il cappello di paglia Carpisa

Si abbina alla borsa in tinta

FLOREALECappello in tessuto tecnico bianco

con stampa floreale. La proposta

per l’estate di Paul&Shark

GLAMOURIn bianco o in colore jeans il basco

da uomo per l’estate in cotone

firmato da Giorgio Armani

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 10 LUGLIO 2011

“Elegante e facile da indossarecosì nasce un evergreen”

Ilaria Barnabeidi Borsalino

LAURA ASNAGHI

CHARLOTTE CASIRAGHI BRIDGETTE RADEBE SOPHIE DI WESSEX MATILDE DEL BELGIO ANNE ROGGE MARY DI DANIMARCA NAOMI CAMPBELL CLOTILDE COURAU

NOZZE ALBERTO E CHARLENE

ZIG ZAGA tesa larga tonda in tessuto raschel

multicolore, è bordato da nastri

in maglia a contrasto. Di Missoni

SPIRITO LIBEROÈ la stravagante novità per l’estate

che meglio incarna lo spirito libero

di Borsalino. Da uomo e da donna

CLASSICOA tesa larga, in blu o in nero,

il cappello della collezione uomo

Cavalli è un vero classico

INOSSIDABILEA tesa piccola il modello

in paglia nero proposto da Oviesse

per questa estate

MILLERIGHEFantasie a righe o motivi grafici

per i cappelli da uomo

per l’estate proposti da Etro

VIVA MEXICOPer l’estate 2011 Prada sceglie

un grande sombrero in canapa

bicolore nero e papaya

Borsalino è in testa alle classifiche dei cappelli icona. Ilaria Barna-bei, è la portavoce della maison piemontese.Qual è il segreto di questo successo?

«Le donne, ma anche gli uomini, vogliono essere affascinanti. E i no-stri cappelli, eleganti ma allo stesso tempo facili da portare, sono la giu-sta risposta a queste esigenze. Piacciono perché sono degli evergreen.Tra i modelli più gettonati c’è il Borsalino classico. Il colore prediletto èil nero ma, per l’estate, dominano i colori naturali».

Quali sono i modelli più alla moda?«I capi più trendy sono il “Trilby” dalla tesa piccolissima, perfetto per

chi ama uno stile decontracté, con una allure giovane e informale. Mol-to amato è anche il modello arrotolabile, che sta in tasca, e poi, all’oc-correnza, riacquista la sua forma originaria. C’è anche “Icaro”: pesa so-lo 64 grammi».

Cosa li rende così belli?«Tutto sta nelle mani abili dei nostri operai, capaci di rendere il cap-

pello un manufatto prezioso, una vera opera d’arte. Il Borsalino è pro-dotto ancora oggi come un tempo, con lo stesso procedimento, le stes-se attrezzature (forme in legno, presse in ghisa, vaporizzatori a molla, ri-piani in ciliegio ricurvo) e la stessa abilità artigianale. Dalla “soffiatura”all’“imballaggio” sono necessarie sette settimane di lavorazione perogni cappello e sono più di cinquanta i passaggi produttivi in cui la mae-stria della mano dell’operaio è sempre protagonista indiscussa».

Quali sono le donne famose di oggi che li indossano?«Di recente Anna Wintour, direttrice di Vogue America,ha fatto incetta

di cappelli nella nostra boutique di Parigi, Madonna è tra le nostre fan eDiane Kruger indossava un Borsalino all’ultima edizione del festival diCannes. In Italia Bianca Brandolini d’Adda, Simona Ventura, MichelleHunziker. Jessica Biel, insieme al suo allora fidanzato Justin Timberlakeha fatto shopping nella nostra boutique di Roma. E ancora: Keira Knigh-tley, Kristen Dunst, Naomi Campbell, Tatiana di Santo Domingo con il fi-danzato Andrea Casiraghi sfoggiano spesso i nostri panama».

Quali ricerche si fanno per creare cappelli-culto?«È una ricerca continua sui materiali, sia quelli che appartengono al-

la tradizione Borsalino, sia quelli nuovi, che consentono di migliorare ilcomfort tattile-termico e di impermeabilità. Ma il nostro marchio nonsi ferma qui, e cerca di leggere in anticipo le tendenze future attraversoindagini sociologiche. Oggi la gente ha una coscienza ecologica e in os-sequio a questo abbiamo creato cappelli, con tinture vegetali, dall’ariavissuta».

Nei 150 anni di storia di Borsalino, quali i cappelli più significativi? «Il “Beaver”, classico feltro consegnato al mito dall’eleganza cinema-

tografica dei grandi divi tipo Humphrey Bogart. “Panama Montecristi”e il “Borsalino” degli anni Settanta, reso celebre da Alain Delon e JeanPaul Belmondo».

OPTICALÈ interamente in paglia,

a righe bianche e nere

il cappello firmato Paul Smith

IL DISEGNOL’illustrazione è tratta

dal libro Masterof fashion illustrationdi David Downtown

edito da Laurence King

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Repubblica Nazionale

i saporiAl cucchiaio

Pasta e fagioli, minestroni e persino brodi vegetali: piatti naticaldi per affrontare le insidie dell’inverno. Ma bastaaggiungervi pochi ingredienti per rinfrescarli e un pizzicodi fantasia per trasformarli in invenzioni d’autoreEcco come ricette antiche tornano nei menù delle vacanze

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 LUGLIO 2011

LICIA GRANELLO

La rivincita delle zuppe. Che scegliamoquando il freddo è così freddo da nonammettere cibi intermedi — pastasciut-te, risotti — obbligandoci a soluzioniestreme: la scodella tenuta fra le mani,fumante, sana (quasi sempre), ipercalo-

rica (spesso), capace di restituire al corpo il tepore e ilnutrimento prosciugati dal Generale Inverno. Poi, alprimo accenno di primavera, le scordiamo, confi-nandole nel limbo degli alimenti superspecializzati inbasse temperature.

Trenta gradi più in su, le zuppe tornano ad allettar-ci. Per motivi opposti e speculari a quelli invernali: ilcaldo. Fa così caldo che tutti i cibi sembrano trasuda-re calore, comunque inadeguati a rinfrescare corpo emente. Beviamo bibite ghiacciate (pessima idea, i re-ni inorridiscono), tracciamo la mappa dei chioschi diangurie dove affondare i denti nelle megafette rosse esugose, ci teniamo alla larga da fornelli, pentole d’ac-qua bollente, padelle sfrigolanti, anche a costo ditrangugiare insalate insipide — su tutte, quella di ri-so, che se non preparata come-dio-comanda è dav-vero una punizione — carpioni mediocri, polpettinepurchessia.

Le zuppe fredde rappresentano la soluzione piùsemplice e complicata dell’estate. Facili, perché nel-la maggioranza dei casi è sufficiente mutuare le ricet-te invernali, pur con qualche accorgimento — evitarei dadini di pancetta nella pasta e fagioli, sostituire ibrodi di carne con quelli vegetali, etc... Complesse co-me il cubo di Rubik se ci si vuole cimentare nelle vel-lutate multistrato della nuova cucina d’autore.

Al di là delle preparazioni più o meno creative, uningrediente, una consistenza, un accento, riescono atrasformare una zuppa tristanzuola nella regina del-le cene estive. Il gazpacho andaluso fa scuola. Ingre-dienti poveri, apparentemente banali: pane, pepero-ni, cipolla, pomodori, olio. A renderne così goloso ilsapore è la commistione con cetrioli, paprika e aceto,ovvero le note piccanti e acide, che sul palato si tra-ducono in stuzzicante e fresco.

Il nostro corpo li riconosce come benefici. Gli in-gredienti piccanti e acidi, infatti, hanno attitudini di-sinfettanti, dallo zenzero del sushi al peperoncino cheabita i piatti dei Paesi caldi (cioccolato compreso), sufino al limone (o aceto) delle marinature e alle erbearomatiche fresche. Il tutto, in una commistione alle-gramente libertina tra dolce e salato. Nelle zuppe esti-ve, infatti, la frutta viene sdoganata dal ghetto del finepasto, mentre il sale battezza bibite e beveroni.

Altri elementi fondanti delle zuppe fredde, lo yo-gurt e l’anguria. Il primo restituisce forza alla flora bat-terica intestinale, messa a dura prova dagli shock ter-mici subiti dal corpo (aria condizionata) e dagli ali-menti (tempi di trasporto della spesa, permanenza infrigo). La seconda contiene una quantità di potassio— anti crampi — da far invidia a un intero casco di ba-nane. In più disseta e vanta un carico calorico del tut-to trascurabile.

Provate a ricamare la superficie di un passato freddodi zucchine con lo yogurt o a usare la polpa frullata del-l’anguria e foglie di menta a mo’ di zuppetta antipasto.La cena diventerà più sfiziosa e gli amici vi scambie-ranno per un allievo del Gambero Rosso Channel.

EstateZupped’

© RIPRODUZIONE RISERVATA

A qualcunopiace fredda

Pappa al pomodoroPomodori maturi

a pezzi, rosolati in olio

profumato d’aglio,

cotti nel brodo vegetale,

con pane raffermo

tostato e sbriciolato

A freddo si aggiungono

olio e basilico

Piselli & mentaPiselli cotti con lo scalogno

rinvenuto in olio

e brodo vegetale

Dopo la frullatura

con foglie di menta,

va colato e raffreddato

Si serve con chips

di parmigiano

Pasta & fagioliFagioli bolliti

e insaporiti in soffritto

di cipolla, sedano,

aglio, carota e pomodori

Pasta aggiunta

a metà cottura,

olio e pepe alla fine

Perfetta il giorno dopo

Melone & prosciuttoDadi di melone frullati,

dopo marinatura

con porto, zucchero

a velo e menta tritata

Riposo in frigo,

rifinitura

con fette di crudo

asciugate in forno

AcquasalaFette di pugliese

raffermo tostate

e strofinate con aglio,

intrise di polpa

di pomodori,

cipollotti, origano,

sale e olio

Due ore di riposo,

poi acciughe e basilico

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 10 LUGLIO 2011

itinerari

DOVE DORMIRECASA DEI MERCANTI

Piazza sant’Oronzo 44

Tel. 0832-279819

Camera doppia da 100 euro,

colazione inclusa

DOVE MANGIAREALLE DUE CORTI

Corte dei Giugni

Tel. 0832-242223

Chiuso domenica,

menù da 25 euro

DOVE COMPRAREMERCATO DELLA FRUTTA

Via De Mura 19

Lecce

DOVE DORMIREHOTEL LE PIANO

Alemdar Mh. Prof. Gürkan Caddesi 6

Tel. 0090-212-5289393

Camera doppia da 110 euro,

colazione inclusa

DOVE MANGIAREIMBAT

Sirkeci Hudavendigar

Tel. 0090-212-5207161

Sempre aperto,

menù da 25 euro

DOVE COMPRAREMERCATO DELLE SPEZIE

Misir Carsisi

Istanbul

DOVE DORMIREHOTEL VINCCI LA RABIDA

Calle Castelar 24

Tel. 0034-954-501280

Camera doppia da 90 euro,

colazione inclusa

DOVE MANGIAREGASTROMIUM

Ramón Carande 12

Tel. 0034-954-625555

Chiuso domenica sera e lunedì,

menù da 50 euro

DOVE COMPRAREMERCADO DE TRIANA

Plaza del Altozano

Siviglia

Quanto erano moderni i contadiniche già avevano scoperto il crudo

MASSIMO MONTANARI

SalmorejoArriva da Córdoba

la zuppa di pomodoro,

aglio, pane, olio,

aceto, sale, peperoni,

spicchi di uovo

sodo e tocchetti

di jamón serrano,

con cubetti di ghiaccio

VichyssoiseIn memoria della natia

Vichy, Louis Diät inventa

una zuppa di porri

e patate al profumo

di maggiorana,

setacciata, messa

in frigo e frullata

con panna

OkrosckaDi carne o vegetariana

è la zuppa simbolo

dell’estate russa

Dentro patate,

barbabietole e carote

cotte, più cetrioli e porri

crudi. Per condire, uova

sode, senape e aneto

GhanaianViene dal Sudafrica

la zuppa fredda di pollo

e noccioline, spadellati,

tritati col peperoncino

e sbolliti solo

per pochi minuti

nel latte. Rifinitura

con cetriolo

TzatzikiLa versione turca

della salsa greca

è una zuppa a base

di yogurt compatto,

cetriolo (usato senza

metterlo sotto sale),

aglio, olio, aceto,

origano o aneto, sale

le calorie per 100 grammi

di pappa al pomodoro

95

le ore di ammollo

dei fagioli borlotti secchi

8

Louis Diät crea la Crème

Vichyssoise Glacée

1917

Fredda, cruda, vegetale. Le qualità di una zuppa estiva sonoindubbiamente moderne. Sono moderne perché il man-giar freddo non suscitava grande entusiasmo nelle culture

gastronomiche del passato. Secondo la dietetica antica e me-dievale, la digestione è un processo di cottura, che scioglie i cibinello stomaco consentendo all’organismo di assimilarli. Ora,cottura vuol dire calore, dunque in linea di principio il freddoostacola la digestione.

Fu in base a teorie come questa che l’abitudine di bere un sor-betto a metà pasto, fattasi strada in Italia nel Sedicesimo secolo,trovò una forte e lunga opposizione da parte dei medici. Non ditutti, però: e il dibattito che allora si accese, e che durò qualchesecolo, rese più accettabile la scelta del “bere freddo”, da cui di-scende la consuetudine recente di “mangiare freddo” (magarivivande liquide al cucchiaio) nel tempo estivo.

Le zuppe estive sono moderne anche perché tendenzialmen-te crude e perché, fino a epoca recentissima, il crudo non ha go-duto di alcuna stima nel pensiero dietetico e nelle pratiche quo-tidiane. La cultura gastronomica antica, di cui è ancora eviden-te l’impronta nella tradizione contadina, ha sempre privilegiatoil cotto sia per motivi pratici (maggiore sicurezza igienica del ci-bo) sia per motivi simbolici (la cottura essendo, nelle società tra-dizionali, segno di civilizzazione e di perfezionamento della na-tura). Carni e pesci crudi, oggi di moda sulla nostra tavola, nonsono neppure presi in considerazione nei ricettari del Medioe-

vo e del Rinascimento. Per le verdure, certo, il discorso è diverso:ma anche in questo caso l’abitudine a cuocere, lessare, friggereè stata storicamente prevalente rispetto all’uso crudo dei pro-dotti, e perfino l’innocente insalata la si è sempre ben condita disale, aceto e olio, buoni non solo ad arricchirne il gusto ma a mi-gliorarne la dubbia digeribilità e a correggerne la potenziale pe-ricolosità. I pomodori — tanto per dirne una — per secoli furo-no consumati solo fritti, o bolliti in salsa; la gustosa insalata di po-modori crudi con magari un tocco di basilico fa parte di una cul-tura che appartiene all’oggi.

Infine, la stessa connotazione vegetale delle zuppe estive siconfigura come portato della modernità, almeno per il valoredecisamente positivo che l’idea delle verdure ha assunto nellanostra cultura. Per secoli, le verdure sono state oggetto di spre-gio da parte dell’alta gastronomia, confinate in un universo po-polare e contadino che i signori amavano tenere a distanza, pre-ferendo immergersi nei grandi arrosti piuttosto che nei “contor-ni” di cetrioli o carote, o (dopo la scoperta dell’America) di po-modori e peperoni.

Questi contorni infine l’hanno avuta vinta, ed è per questo cheil rito della zuppa estiva, del gazpacho e delle panzanelle, in qual-che modo costituisce un risarcimento alla tanto disprezzata cul-tura popolare, che improvvisamente scopre di essere diventatail paradigma della modernità.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Repubblica Nazionale

l’incontroVisionari

‘‘

Io e Pierreci conosciamofin da bambiniLui ha studiatoingegneria, io chimicae biologia. Cercavamouna stradaper interveniresul mondo

ti. «Ogni edificio accoglie diversi grup-pi di lavoro dedicati a progetti specifi-ci», continua a spiegare in una sala riu-nioni con una grande vetrata affaccia-ta sul Reno e sulla città. Elegante ma so-brio, quest’architetto che ha fondato lostudio con il suo socio Pierre de Meu-ron, parla di progetti e ambizioni, d’ar-te e architettura, di spazi pubblici e luo-ghi privati, degli esordi e di come vedeil mondo. Vietato parlare di stile, inuti-le dirlo: il segno di riconoscimento del-lo studio Herzog & de Meuron è che i lo-ro progetti sono sempre sorprendenti,ogni volta diversi per materiali, dimen-sioni, forme, concetti.

«Non bisogna avere preferenze», ri-flette l’architetto, che ha all’attivo edi-fici conosciuti in tutto il mondo comela Tate Modern di Londra, lo stadioOlimpico di Pechino, l’Epicentro Pra-da a Tokyo e progetti in consegna comela gigantesca e visionaria filarmonicadi Amburgo, non ancora terminata male cui immagini hanno già fatto il girodel web. E poi il Barranca Museum ofModern and Contemporary Art a Gua-dalajara, in Messico, l’imponentecomplesso Culturale Luz a San Paolo,in Brasile, il masterplan per l’Expo2015 di Milano.

«Pietra, plastica, vetro, tutti i mate-riali possono essere fantastici, dipendeper cosa li usi. Il discorso vale anche perle dimensioni: puoi costruire in scalamassima come la Tate Modern, oppu-re minima. Stiamo parlando di stru-menti. Poi la costruzione è la costruzio-ne. È un’altra cosa, in cui rientranomoltissimi aspetti, ma soprattutto l’e-sperienza. La costruzione è come unprofumo: te la ricordi se è associata aun’esperienza», continua. «Alla Tate,ad esempio, abbiamo cercato di creareuno spazio dove la gente ami stare. Inquel caso l’aspetto che la gente ama dipiù è il vuoto, il respiro, la dimensione.È come se fosse una cattedrale. Lo spa-zio è enorme e monumentale, ma nonintimidisce, anzi, accoglie». Vista cosìl’architettura non è solo una questionedi spazi e funzioni, ma un ambito d’e-mozione evocativo, carico d’esperien-za, di storia e di poesia.

Il sole sta ormai calando. Fuori c’è untale silenzio che si sentono i gabbiani, esembra incredibile che il quartier gene-rale di questo studio che dirige progettie cantieri in tutto il mondo sia in un con-testo così sereno da sembrare fuori daltempo, come uno dei paesaggi o dellearchitetture delle fotografie di ThomasRuff che sono appese alle pareti, dovec’è anche un’altra immagine in scalamassima. È una fotografia di Gurskydello stadio Olimpico di Pechino, quel-

lo con la copertura battezzata “nido dirondine”, studiata con l’artista cineseAi Wei Wei, ora agli arresti.

L’arte è nel Dna dell’architettura diHerzog & de Meuron. Anzi, prima an-cora è la passione dei due fondatori del-lo studio. «Pierre e io ci conosciamo finda bambini. Siamo cresciuti dall’altraparte del fiume. Più o meno lì di fronte.Abbiamo caratteri e personalità diver-se, abbiamo anche idee diverse sull’ar-chitettura. Non era affatto scontato cheavremmo fatto gli architetti», ricorda.«Pierre all’inizio ha studiato ingegne-ria, io chimica e biologia. Volevamo tro-vare una strada per intervenire sulmondo. L’architettura poteva essere lavia. Abbiamo fondato lo studio nel1978, siamo diventati indipendentimolto presto». L’architetto parla anchedi uno dei lavori che ha in Corso Italia,la riqualificazione dell’area di PortaVolta, a Milano. «È una specie di omag-gio ad Aldo Rossi: una struttura molto

semplice ma altrettanto speciale, unasorta di edificio arcaico, un archetipo,che la gente amerà». Poi il discorso tor-na inevitabilmente sull’arte: «Abbiamoaperto lo studio in un mondo senzacomputer, un posto in cui c’era ancorauna forte impronta modernista, un mo-dernismo decadente, si stava staglian-do all’orizzonte il postmoderno. Noi,come giovani, volevamo sfuggire tutte edue queste trappole. Volevamo farequalcosa di diverso, avevamo moltiamici artisti e, francamente, eravamopiù interessati all’arte che all’architet-tura. Fra i nostri amici c’erano JohnArmleder e Rémy Zaugg. Quest’ultimoaveva scritto un libro incredibile sullapercezione della scultura. Parlava, fral’altro, di Donald Judd, il Minimalismoci affascinava. E poi l’arte ci interessavaper la sua posizione critica nei con-fronti della società, era un fattore anta-gonista, quello che in quel momentomancava all’architettura per essere unreale fattore di trasformazione». «Ab-biamo sempre collaborato con gli arti-sti», aggiunge ancora Herzog, «nell’ot-tica di uno scambio impostato non tan-to sulle opere, ma sul metodo, sul pun-to di vista. Allora, ad esempio, non esi-steva il Minimalismo in architettura,abbiamo cercato di utilizzare alcunistrumenti dell’arte e del Minimalismocome concetti per entrare nel mondoin modo diverso. Oggi tutto è cambia-to, per alcuni aspetti è meglio, per altriforse no. Comunque non c’è niente daconquistare, non ci sono porte da sfon-dare perché le porte sono già aperte, e ilpragmatismo è imperante, forse a sca-pito dell’idealismo».

Si ferma a riflettere, guardando fuoridalla vetrata prima di continuare. «Cisono altri tipi di difficoltà. Quella prin-cipale è cercare di restare idealisti e ra-dicali, in un mondo che sembra total-mente aperto. Prendiamo il masterplanper l’Expo di Milano: è il tentativo di fa-re un progetto radicale, diverso da ciòche è stato fatto fino ad ora. È diverso,deve essere diverso. Vorrei riuscire aportarlo fino in fondo così com’è, e cioècome un parco botanico planetario,una cosa che non esiste ancora, inno-vativa, sperimentale». Parla di un ma-sterplan che se realizzato sarebbe unluogo unico e denso di possibilità di svi-luppo, una visione e un progetto per ilfuturo. «Ho immaginato un Expo dovel’agricoltura, legata al tema dell’ali-mentazione, venga davvero messa inopera, e non sia solo rappresentata daprodotti, mostre, esposizioni. Nonavrebbe senso, oggi, lavorare a un pro-getto come quelli fatti fino ad ora, fattoancora di padiglioni classici e architet-

ture monumentali». Ma anche la ricerca sui materiali ca-

ratterizza i lavori dello studio. La pietra,ad esempio, è il materiale per le latitu-dini calde del Messico e per un museoimmerso nel verde della collina. Il vetroinvece, tagliato a esagoni come un al-veare, è il materiale per l’Epicentro Pra-da a Tokyo, «fra i nostri edifici più riu-sciti», commenta Herzog, «perché ri-sponde alla domanda: come mettereinsieme le cose per renderle uniche?Nel processo conta molto il commit-tente, in questo caso Miuccia Prada concui abbiamo condiviso il progetto».

Unicità è un’altra delle parole chiavedell’intero lavoro dell’architetto. Uni-cità come quella dello studio personaledi Herzog. È il luogo in cui pensa: unapiccola sala bianca ad angolo dove filtrala luce del sole che affaccia su una ter-razza con un pergolato. L’atmosfera èrarefatta. Ci sono pochi mobili e ogget-ti: un grande tavolo in legno chiaro di-segnato dall’architetto, e sugli scaffalipiccole fotografie di Thomas Ruff. Sitrova all’interno di una delle ex caseborghesi a due piani dello studio, qui lachiamano “villa”, le hanno dato solouna mano di bianco (e d’argento in al-cuni punti). Tutto qui racconta storia,radici, appartenenza, pensiero. E visio-ni. Proprio come l’architettura di Jac-ques Herzog e Pierre de Meuron.

‘‘

CLOE PICCOLI

BASILEA

Centro di Basilea, quattrodel pomeriggio. Dietro aun cancello di rame scor-revole si entra nello stu-

dio di una delle firme più importantidell’architettura contemporanea:quella di Herzog & de Meuron. L’in-gresso è una ex casa borghese di quelletipiche e storiche della città svizzera,con tetto spiovente, che dall’esterno sa-rebbe del tutto insospettabile comestudio se non fosse per il colore: bor-deaux. Da qui si sviluppa un’infilata dicase, ognuna diversa dall’altra e ognu-na con una funzione diversa. Sono col-legate fra loro e con altri edifici più alti epiù recenti da una costellazione di ve-rande, corridoi, cortili, e pergolati chene fanno uno studio assolutamentenon convenzionale: una rete in cui la-vorano duecentotrenta giovani archi-tetti provenienti da tutto il mondo chea quest’ora fanno il break pomeridianoconcentrandosi in cortile, di fianco al-la grande cucina con living.

«La scelta di sviluppare lo studio inmolti edifici separati corrisponde a unastrategia culturale», spiega JacquesHerzog mentre attraversa open spacecon lunghi tavoli allineati su cui pro-gettano al computer decine di architet-

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Il suo nome è legato a quellodel suo amico di sempre, de MeuronInsieme hanno realizzato operecome la Tate di Londra e lo Stadio

Olimpico di Pechino,e potrebbero essereloro a portare a terminel’Expo di Milano“Per un architettosono importantii materiali, le dimensioni,

i luoghi. Ma ogni costruzioneè come un profumo: te la ricordisolo se associata a un’esperienza”

FO

TO

AN

SA

Jacques Herzog

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10 LUGLIO 2011

Repubblica Nazionale