omenica LEONARDO COEN e DEMETRIO VOLCIC DOMENICA...

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l’immagine Fotografare il dolore dell’Uomo GUSTAVO ZAGREBELSKY il racconto Fra Dolcino, eroe per i nuovi ribelli PAOLO RUMIZ il reportage Il museo-bunker della Guerra fredda LEONARDO COEN e DEMETRIO VOLCIC cultura Erbario Besler: torna il Secolo dei fiori LUCA VILLORESI la lettura Parise, la morte e gli scritti inediti GOFFREDO PARISE spettacoli Casa Paolo Poli, un caveau di ricordi RODOLFO DI GIAMMARCO EMANUELA AUDISIO L a visione fideistica della scienza e del progresso ci ha abi- tuati a pensare che ogni problema abbia una soluzione. Ciò è vero quando si tratta di cambiare il frigorifero, lo è meno quando si entra in un ospedale per un malanno, non lo è per nulla quando i problemi da risolvere sono quelli globali della crisi climatica ed energetica. Però, il fatto che questi ultimi non siano immediati, induce a considerarli alla stregua del frigorifero: qualcuno certamente troverà una soluzione, e chi mette sull’avviso che forse non è così scontato è bollato di catastrofismo. In realtà da decenni circolano nella comunità scientifica analisi ri- gorose e credibili che avvertono come i cambiamenti climatici, l’e- saurimento del petrolio e di altre risorse naturali, l’aumento della po- polazione e delle disparità sociali, siano altrettante bombe innescate pronte a esplodere in rapida sequenza, amplificando i danni. Ma in genere si rimuove tutto rifugiandosi nel classico effetto Cassandra, di- menticando che la sfortunata aveva comunque ragione. È questa la sorte toccata pure ad un eccellente esercizio scientifico voluto da un grande manager italiano, Aurelio Peccei, animatore del Club di Roma, che nel 1972 pubblicò il rapporto I limiti dello sviluppo in collaborazione con il Mit di Boston. (segue nelle pagine successive) LUCA MERCALLI Apocalisse DOMENICA 6 MAGGIO 2007 D omenica La di Repubblica FOTO CORBIS Clima, petrolio, guerra C’è chi prevede un ritorno al medioevo e ci si prepara Siamo andati a vedere come INVERNESS C i siamo. Non c’è più petrolio, non abbastanza. La rete elettrica è collassata, troppa siccità. Il forno non va, il fri- go nemmeno, figurarsi la lavatrice. Accendi la candela, taglia la legna, e non buttare via l’acqua nella tinozza. Pu- re se è sporca, servirà. La pipì da una parte, serve ad irrigare. Il resto da un’altra, serve a concimare. Forza, correre, sbrigarsi. Ci siamo: nel fu- turo marcio, nel domani tragico, nel tempo impazzito. Siccità e ura- gani, caldo e tsunami. Ad Utopia, siamo in anticipo, è già emergenza globo. Questo è un paesaggio che ispira tragedie: a Inverness, nelle Hi- ghlands, nord della Scozia, vento, brume e fili d’erba, Shakespeare ambientò Macbeth, nel castello di Cawdor. Forse capre e pecore so- no indigeste e fanno dormire male. Sempre qui, per i turisti, c’è il mo- stro di Loch Ness, che ogni tanto riaffiora dal grigio dell’acqua. Mac- beth aveva visioni e le streghe sempre tra i piedi, anche quelli di Uto- pia non scherzano. Il mondo è a pezzi, è da pazzi non vederlo. Ma in- vece di frignare per il paradiso perduto, meglio attrezzarsi all’inferno ricorrente. Non piangete, organizzatevi, lo diceva anche John Reed. Utopia non è un sogno, ma un esperimento a termine, un reality sen- za tv. Ha data d’inizio e di scadenza: marzo 2007-settembre 2008. Di- ciotto mesi per sopravvivere allo sconvolgimento del mondo. (segue nelle pagine successive) Repubblica Nazionale

Transcript of omenica LEONARDO COEN e DEMETRIO VOLCIC DOMENICA...

l’immagine

Fotografare il dolore dell’UomoGUSTAVO ZAGREBELSKY

il racconto

Fra Dolcino, eroe per i nuovi ribelliPAOLO RUMIZ

il reportage

Il museo-bunker della Guerra freddaLEONARDO COEN e DEMETRIO VOLCIC

cultura

Erbario Besler: torna il Secolo dei fioriLUCA VILLORESI

la lettura

Parise, la morte e gli scritti ineditiGOFFREDO PARISE

spettacoli

Casa Paolo Poli, un caveau di ricordiRODOLFO DI GIAMMARCO

EMANUELA AUDISIO

La visionefideistica della scienza e del progresso ci ha abi-tuati a pensare che ogni problema abbia una soluzione.Ciò è vero quando si tratta di cambiare il frigorifero, lo èmeno quando si entra in un ospedale per un malanno,

non lo è per nulla quando i problemi da risolvere sono quelli globalidella crisi climatica ed energetica. Però, il fatto che questi ultimi nonsiano immediati, induce a considerarli alla stregua del frigorifero:qualcuno certamente troverà una soluzione, e chi mette sull’avvisoche forse non è così scontato è bollato di catastrofismo.

In realtà da decenni circolano nella comunità scientifica analisi ri-gorose e credibili che avvertono come i cambiamenti climatici, l’e-saurimento del petrolio e di altre risorse naturali, l’aumento della po-polazione e delle disparità sociali, siano altrettante bombe innescatepronte a esplodere in rapida sequenza, amplificando i danni. Ma ingenere si rimuove tutto rifugiandosi nel classico effetto Cassandra, di-menticando che la sfortunata aveva comunque ragione.

È questa la sorte toccata pure ad un eccellente esercizio scientificovoluto da un grande manager italiano, Aurelio Peccei, animatore delClub di Roma, che nel 1972 pubblicò il rapporto I limiti dello sviluppoin collaborazione con il Mit di Boston.

(segue nelle pagine successive)

LUCA MERCALLI

Apocalisse

DOMENICA 6 MAGGIO 2007

DomenicaLa

di Repubblica

FO

TO

CO

RB

IS

Clima, petrolio, guerraC’è chi prevede un ritornoal medioevo e ci si prepara

Siamo andati a vedere come

INVERNESS

Ci siamo. Non c’è più petrolio, non abbastanza. La reteelettrica è collassata, troppa siccità. Il forno non va, il fri-go nemmeno, figurarsi la lavatrice. Accendi la candela,taglia la legna, e non buttare via l’acqua nella tinozza. Pu-

re se è sporca, servirà. La pipì da una parte, serve ad irrigare. Il resto daun’altra, serve a concimare. Forza, correre, sbrigarsi. Ci siamo: nel fu-turo marcio, nel domani tragico, nel tempo impazzito. Siccità e ura-gani, caldo e tsunami. Ad Utopia, siamo in anticipo, è già emergenzaglobo. Questo è un paesaggio che ispira tragedie: a Inverness, nelle Hi-ghlands, nord della Scozia, vento, brume e fili d’erba, Shakespeareambientò Macbeth, nel castello di Cawdor. Forse capre e pecore so-no indigeste e fanno dormire male. Sempre qui, per i turisti, c’è il mo-stro di Loch Ness, che ogni tanto riaffiora dal grigio dell’acqua. Mac-beth aveva visioni e le streghe sempre tra i piedi, anche quelli di Uto-pia non scherzano. Il mondo è a pezzi, è da pazzi non vederlo. Ma in-vece di frignare per il paradiso perduto, meglio attrezzarsi all’infernoricorrente. Non piangete, organizzatevi, lo diceva anche John Reed.Utopia non è un sogno, ma un esperimento a termine, un reality sen-za tv. Ha data d’inizio e di scadenza: marzo 2007-settembre 2008. Di-ciotto mesi per sopravvivere allo sconvolgimento del mondo.

(segue nelle pagine successive)

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 6MAGGIO 2007

IL NOTTURNOPipistrello, firmata

da Gae Aulenti

per Martinelli luce,

cita il chirottero

solo nella forma

del diffusore

Regolabile in altezza

con movimento

telescopico

ISPIRAZIONE MARESi chiama Medusa,

ma ricorda anche

i rami di corallo

Bracci in vetro

e struttura

portante in nickel,

lo scenografico

lampadario

è ottimo

contrappunto

a sorpresa

per bilanciare

il minimalismo

tipico degli anni

Novanta

Di La Murrina

W I MULTIPLIGanci in vetrodi Muranopossonoesserecompostia piacereper formareil corpodi LegamiDi Lamp

EQUILIBRIO BAROCCORaffinata rielaborazione del classico

lampadario muranese, si distingueper l’equilibrio fra storici barocchismi

e moderne severità, alla lungatroppo punitive. Di Franco Raggi

per Barovier&Toso

IN VETRINAÈ in vetrosoffiatoe molatoa manoYuba Yuba,e ha supportoin nickelspazzolatoDi Murano Due

VEDI E SENTIScomponibilein formediverse, Zoudsconsentemoltiorientamentidi luceHa un diffusoreacusticoe un vanoper eventualicomponentielettronicheDi Mizar

LE TAPPE

LA CANDELA

La candela è una delle fonti

di luce artificiale

più antiche. Ora di cera,

in passato era anche

di sego. Oggi ha funzione

decorativa

e “di atmosfera”

LA LAMPADINA

La lampadina

a incandescenza

risale al 1854. Ha luce calda

e resta la fonte più diffusa

nelle nostre case,

malgrado la bassa

efficienza energetica

IL NEON

Molto diffuso nei Sessanta

e Settanta, il neon,

la lampada a scarica,

è in rapido

declino anche

a causa

della sua luce fredda

LA FLUORESCENTE

Grande efficienza

e lunga vita, quindi

risparmio energetico

Eppure, a causa

del prezzo, la lampada

a fluorescenza

fatica a diffondersi

IL LED

Evoluzione della specie

Il led, costituito

da un diodo,

consuma pochissimo,

è longevo e adatto

per tutti gli usi

Il futuro è suo

‘‘Johann Wolfgang GoetheQuanto tumulto

è la luce!Da FAUST

Atto 1, 4671 (Ariel)

In principio la terra era informe e de-serta e le tenebre ricoprivano l’abis-so. Dio disse: «Sia la luce!». E la luce

fu. Dio vide che la luce era cosa buona eseparò la luce dalle tenebre e chiamò laluce giorno e le tenebre notte. E fu serae fu mattina.

Così la Genesi, il primo dei libri del-l’Antico Testamento, pone la luce all’i-nizio del mondo, ne fa il principio cherende visibile il creato, lo fa esisteredandogli forma e colore. E l’arcobale-no, spettro colorato della luce, diventail segno del patto tra Dio e gli uominiche mette fine al diluvio universale. Inquesto modo la narrazione biblica se-gna per sempre l’immaginario dell’Oc-cidente che farà della luce il simbolosupremo della vita. E dell’illuminazio-ne l’emblema stesso della conoscenza,sia del bene sia del male. Tant’è cheperfino il diavolo è un “portatore di lu-ce”, come dice letteralmente il nomeLucifero. Nel Vangelo di Giovanni èscritto a chiare lettere che Dio non è al-

tro che luce. Se questa è la sostanza del pote-

re divino, come mostra ilbagliore accecante che

avvolge il Paradiso di Dan-te, il figlio di Dio è la luce che ri-

nasce tra gli uomini e per gli uo-mini. Non a caso il nostro calendario

colloca la nascita di Cristo alsolstizio d’inverno quando il

giorno ricomincia ad avere lameglio sulla notte e la lucesulle tenebre.

La stessa cosa accade in al-tre mitologie e religioni che

attribuiscono al divino una naturaluminosa e, soprattutto, un pote-

re illuminante. Un esempio per tut-ti è Apollo, antico dio del sole e al tem-po stesso della conoscenza e della chia-roveggenza. Lo scintillante driver del

carro solare dava luce alle cose e ri-schiarava la mente degli uomini. Ec-co perché i Greci lo chiamavano an-che Liceo, che significa letteralmen-

te lucente, un nome derivante dalla ra-dice indoeuropea luk che indica l’attodel vedere. Guarda caso la stessa radi-ce della parola luce, nonché di terminicome l’inglese look e dell’italiano elu-cubrazione. Non per nulla le nostrescuole, i moderni templi della cono-scenza, si chiamano ancora licei.

Anche le società primitive attribui-scono alla luce una natura sacra, alpunto da fare del lume la materia primadel nume. Il grande antropologo ingle-se Radcliffe-Brown racconta che gliabitanti delle isole Andamane, nell’O-ceano Indiano, facevano improvvisa-mente silenzio all’alba e al tramonto,soggiogati dalla quotidiana battagliacosmica fra la luce e la tenebra. Quasiche gli andamanesi avvertissero chesolo l’immensità del silenzio può reg-gere il fulgore incandescente della lu-ce. Non diversamente uno dei piùgrandi poeti del Novecento, Thomas S.Eliot, parla del silenzio come del cuoredella luce.

Questo arcaico nucleo simbolico re-sta presente anche nella modernità piùlaica, in quel Settecento che prende ilnome di secolo dei lumi. È proprio l’il-luminismo di Voltaire e di Rousseauche, congedando il sacro dall’orizzon-te della conoscenza, finisce per sacra-lizzare la luce della ragione. Da alloral’illuminato non è più il profeta chespalanca le cortine del futuro ma loscienziato che squarcia le tenebre del-l’ignoranza e della superstizione. E letappe del progresso si misurano in ki-lowatt, soprattutto da quando l’inven-zione dell’elettricità illuminando case,fabbriche e città rende i luoghi e gli uo-mini più sicuri, padroni di sé e del pro-prio destino. La stessa democrazia mo-derna è indissociabile dall’ideale dellachiarezza, di un potere strappato allasua minacciosa oscurità. E dispositiviper catturare la luce come il cinema e lafotografia, danno un volto ai suoi sognicome ai suoi incubi.

Oggi assistiamo all’apoteosi post-moderna della visibilità totale, di unavita sempre in chiaro, che ci spinge adotare cose e persone di dispositivi lu-minosi. Elettrodomestici, auto, com-puter, cellulari, i-pod, scarpe da ginna-stica, a ciascuno il suo display. E cele-briamo il rito della notte bianca perscacciare i demoni dell’oscurità ricor-rendo alla magia della luce.

Così la conoscenzalacerò le tenebre

Dalla Bibbia all’Illuminismo

MARINO NIOLA

Repubblica Nazionale

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6MAGGIO 2007

la copertinaApocalisse

Si chiama Utopia Experiment, è uno dei duecento in corsoin Gran Bretagna: un gruppo di volontari studia, imparae trasmette l’arte di sopravvivere in un mondo riportatoal medioevo da cambio climatico e crisi del petrolioSiamo andati a vedere perché è nato e come funziona

Nel 2012 basterà un forte uragano aNew York e un terremoto a Tokyo perdistruggere Borsa e sistema assicurati-vo, il dollaro perderà metà del suo valo-re, sarà un crollo come quello del ‘29, isoldi non varranno più niente, moltagente morirà, altra perderà la casa, i su-permercati avranno scorte solo per tregiorni. Verrà schierato l’esercito, ci sa-ranno saccheggi, inizierà una migra-zione verso la campagna. A quel puntobisognerà essere capaci di riadattarsiall’ambiente, ma come se nessuno èpiù capace di fare nulla?».

Detta così pare la sceneggiatura di filmgià visti. Anche se ad Utopia non c’è tv.«Oggi le galline hanno fatto quattro uo-va» annuncia Agric. È l’uomo dei semi,l’agronomo. Ma prima di travestirsi daHarry Potter di campagna si occupava dicomputer. Gira con una scatola di bu-stine, è gallese, vive nel Berkshire,dove ha un orto che gli dà soddi-

sfazioni, grazie ai consigli del padre.Campa scommettendo sulla Borsa. AgricHagron, cinquantatré anni, intende col-tivare trenta diversi tipi di patate. Ha giàpiantato cipolle, cavolfiori, piselli, caro-te, lattughe. «Ora proverò con more e ci-liegie selvatiche. Fa troppo freddo per lenoccioline di arachidi e temo anche per igirasoli. Niente vigna, ma la birra sono

riuscito a farla o alme-no è qualcosa chepuò assomigliare. Aluglio saremo auto-sufficienti. Servireb-

be anche una mucca,ma non abbiamo abba-

stanza terra. Il problemadell’orto è che non so re-

golarmi con la quantità». Il pane l’ha fatto lui, nel

forno a legna. Mollicoso,nero, un po’ crudo, ma

buono. Oggi tocca a un altro.

In cucina c’è un tavolo collettivo, ognu-no mangia quando gli pare. Si va avanti auova e mostarda. La dispensa è piena dipasta, marmellata, salse. Siamo ancoranell’anno in cui si può ricorrere ai pro-dotti esterni, i supermercati non sonoancora stati attaccati dalla folla inferoci-ta. A Utopia nessuno sembra avere fret-ta. Ci si siede attorno al tavolo o fuori dal-la baracca e si discute del prezzo del pe-trolio al barile, dell’economia america-na, della rivoluzione cubana che ha su-bito prima l’embargo statunitense e poiil cessato rifornimento sovietico. In unaspecie di circolo di Bloomsbury rurale,non c’è Virginia Woolf e nemmeno Lyt-ton Strachey, il servizio da tè è rimedia-to, si beve nelle tazze senza risciacquar-le, con Agric che ricorda di bagnare i fa-gioli nell’acqua e vi sgrida se buttate viaanche solo un pezzo di carta. «Può sem-pre servire». I secchi sono quattro, per laraccolta differenziata. Le tinozze due, in

una ci si lava, nell’altra il bucato, ma l’ac-qua è la stessa.

Lo stesso Dylan è preoccupato, am-mette che le cose vanno un po’ a rilento.Le tende che in Mongolia chiamanogher, uno scheletro di tronchi di betullaricoperto da feltro e pelli, qui sono in tes-suto sintetico. I mongoli le montano intre ore, a Utopia ci hanno messo tre gior-ni, e ogni tanto qualcuno urla che biso-gna correre a sistemarle perché il ventorischia di farle crollare. È volata via anchela latrina, travolta da una folata,nessuno aveva pen-sato a inchiodare leassi o a rafforzarlecon dei mattoni.Dentro la tendapuzza di sudore,aria stantia, unavecchia stufa in ce-ramica, due mate-rassi. Agric fuma e

EMANUELA AUDISIO

Le tappedella crisi

globale

(segue dalla copertina)

Nulla di religioso, di new-age, non una setta, mauna comunità laica, senzaprecedenti penali, chelegge Huxley e Orwell es’industria a non morire

di caldo, di fame, di sete. Ce ne sono cir-ca duecento in Gran Bretagna. Questa èla sola che si autodistruggerà alla fine delsuo mandato. È possibile per l’uomomoderno fare a meno dell’eccesso diprogresso? È così difficile provare ad es-sere autosufficienti in un diverso equili-brio con la natura?

La zona si chiama Black Isle, isola ne-ra, perché la terra è grassa e scura e per-ché qui non nevica. Il posto, Culbokie, èpieno di fattorie. Molti animali, pochiuomini, un vento inquieto e nomi guttu-rali che danno al whisky il sapore di legnie sogni antichi. Molte comunità vengo-no qui per riflettere sui guasti della civiltàe per rimettere in moto qualcosa, se quelqualcosa c’è ancora. La Findhorn Foun-dation è da queste parti, è una residenzalussuosa per anime in pena. Utopia nonha scritte, né cartelli, è un rudere in cam-pagna, accanto al fiume. Un ettaro di ter-ra a disposizione, un paio di tende mon-tate secondo lo stile mongolo, quattrogalline, quattro maiali, un orto rudimen-tale, un ruscello, due pannelli solari. Eun’officina centrale, anzi una baracca,con cucina. Un accampamento da rifu-giati, da boy-scout disgraziati, non bioarchitettura da rivista specializzata.

Il senso è questo: nei prossimivent’anni dovremo ridurre comodità econsumi, non ci sarà abbastanza ener-gia, gas, petrolio, per tutto e per tutti.Quindi meglio darsi da fare, imparare afare senza o in un altro modo. «Apocaly-pse now» ha titolato il Times. Utopia hadiviso i mesi per anni: aprile è il 2007,maggio il 2008, giugno il 2009. Così intempo reale si vedono disastri e capacitàdi reazione. Utopia accetta tutti, non bi-sogna pagare, ma più di tre mesi non sipuò stare. Non è una tribù hippy, peaceand love da un’altra parte, qui si lavora,si cucina, si lava. Bisogna saper fare qual-cosa e insegnarla agli altri. Turni e pro-gramma stanno scritti su una lavagnet-ta: portare fuori le galline, procurarsi ac-qua, pulire i piatti, fare il pane, tagliare lalegna, riportare nel recinto le galline.

L’idea del progetto è venuta al profes-sor Dylan Evans, quarantuno anni, pier-cing sul capezzolo sinistro, autore di seilibri (quasi tutti sulla psicoterapia), ri-cercatore sull’evoluzione della robotica,ex insegnante di filosofia al King’s colle-ge di Londra. Non un invasato, non unasceta, sposato, una bimba, ma neppu-re un burlone ottimista. «Continuiamo afare finta di niente, a comprare macchi-ne e gadget elettronici, ma ci sono segnidi una recessione. Nel 2008 il prezzo delpetrolio salirà, non tutti se lo potrannopermettere, l’Arabia Saudita non incre-menterà la produzione. Aumenteràanche il costo dell’elettricità, tan-ti elettrodomestici divente-ranno oggetto di lusso, i tra-sporti rallenteranno. Sia-mo una società debole,chi rifornirà di merci isupermercati se mancala benzina? Nel 2010 per lacrisi molti negozi chiude-ranno, il numero dei disoc-cupati sarà enorme, senzaparlare dei conflitti sociali,della rabbia dei poveri, delterrorismo chesempre si ali-menta inqueste si-tuazioni.

Anno zero, istruzioni per l’uso

2009-2010: PARALISI COMMERCIALELa conseguenza è la diminuzione di beni

di consumo e l’aumento dei conflitti sociali

2007-2008: CRISI ENERGETICAL’altissimo prezzo e la scarsità del petrolio

mettono in difficoltà i trasporti mondiali

2011-2012: COLLASSO FINANZIARIOIl dissesto ambientale genera cataclismi

che stavolta sono fatali: collassano le Borse

YURTAL’esterno della “yurta”. I mongoli

le montano in tre ore, a Utopia in tre giorni

LEGNO E CORDAL’interno di una delle due “yurte”, le tende

mongole: lo scheletro è di legno

SPARTANILa vecchia stufa in ceramica per scaldare

la tenda. Accanto, la latrina del campo

Repubblica Nazionale

pure gli altri. «Niente da fare, il tabaccoqui non cresce, il caffè nemmeno e per iltè ci vogliono sette anni».

Angus, quarant’anni, ha lavoratocome stage manager con Tina Tur-ner e Bon Jovi, ha vissuto un po’ di an-ni in Messico, Guatemala e Germania,forse per via di un passato burrascoso.«Stavo in una comune a Palenque, anda-va tutto bene, fino a quando non siamostati invasi da una setta di hippy. Girava-no nudi, scroccavano il cibo, si drogava-

no troppo. Nessuno che sapes-se piantare un chiodo». Angus

ce l’ha con il consumismo,ha braccia forti, è abituatoad andare in tour con i

gruppi rock, amontare e smontare palchi.«La globalizzazione è bella, mase ti staccano la presa e il serba-toio è vuoto che fai?». Vai apiedi e cammini. «Emagari bestem-

mi, però Dionon c’entra, la

follia è dell’uomo.L’individualismo si è tra-

sformato in egoismo, il batti-panni in aspirapolvere. Ma il primo nonaveva bisogno di corrente».

Bernard Genge, è un uomo pacato,ha quarantacinque anni, lavora per leferrovie inglesi, si occupa di gestione delpersonale, ha appena finito di scrivereun libro Le dieci azioni che cambiano la

tua vita. Non èun estremista. «Credo

che ci può essere una via di mez-zo tra una società sprecona e una au-

tarchica. Lo slogan di avere sempre dipiù ha smesso di funzionare. Le risorsecominciano a scarseggiare. Utopia èuna delle tante comunità nateda un malessere reale.Un giorno ti svegli neltuo letto, prepari lacolazione, leggi il gior-nale. Alluvioni e temperature esagerate.Cerchi di guardare avanti, ma non vedifuturo. È gennaio crepi di caldo, hai sen-sazioni strane, non ti va di uscire, sentiche c’è qualcosa di sbagliato, ti fai unadoccia, guardi l’acqua e ti chiedi: e se nonscorresse più? Io visito molte comunità,

quello che mi interessa ètrovare un modello esportabile,dove il sapere fare non sia arro-ganza, ma bene da dividere, imita-re e replicare nella collettività».

Va bene, ma i maiali chi li uccidee chi li farà a fettine, visto che Uto-pia non è vegetariana? «Chiameremoqualcuno», dice Dylan. L’unico a nonmangiare carne è Dave Allison, cin-

LUCA MERCALLI

“FINIMONDO”In queste pagine e in copertina,

particolari del ciclo

di affreschi di Luca Signorelli

nella Cappella della Madonna

di San Brizio,

Cattedrale di Orvieto

Nelle foto piccole, dettagli

dell’Utopia Experiment,

a poche miglia dalla città

scozzese di Inverness

La nostra utopia quotidiana(segue dalla copertina)

Ancora oggi si vitupera questo studio come nonveritiero. Chi parla, in genere non l’ha nemme-no letto. Oggi è in libreria per gli Oscar Monda-

dori l’edizione aggiornata I nuovi limiti dello svilup-po, quello che considero il manuale di istruzioni delpianeta Terra: ad oltre trent’anni di distanza i conti ri-veduti e corretti portano sempre al collasso della so-cietà se non si cambia rotta in tempo. Jared Diamondha sviluppato il tema su base storica in Collasso (Ei-naudi), mostrando come è piuttosto comune che nelpassato alcune civiltà abbiano ignorato i segni di cam-biamento e si siano estinte. Oggi viviamo in un villag-gio globale e uno scacco coinvolgerebbe tutti.

Sui cambiamenti del clima basta concedere un po’di attenzione ai rapporti dell’Ipcc, che è un’Agenziadelle Nazioni Unite, non un covo di no-global; sullacrisi del petrolio basta guardarsi il film svizzero A cru-de awakening (oilcrashmovie. com) o visitare il sito diAspo, l’associazione per lo studio del picco del petro-lio (peakoil. net) che ha pure una sezione italiana. E senon basta, quale fonte più autorevole dell’Unione Eu-ropea? La sua agenzia ambientale (Eea), con sede aCopenhagen, ha elaborato il progetto Prelude, scena-ri per l’Europa del 2030 (eea. europa. eu/prelude). Per

capire che il collasso non è escluso, ba-stano alcuni titoli: Big Crisis, Great

Escape… Insomma, un problema losi inizia a risolvere considerandolo.

Lo si studia, lo si affronta e ci si pre-para psicologicamente.

Io e mia moglie lo stiamo fa-cendo da anni, con soddisfa-zione economica, profonda

motivazione e perfino divertimento. Abbiamo il tettoricoperto di pannelli solari, abbiamo sostituito unanonimo prato all’inglese con un fiorentissimo orto,abbiamo applicato l’isolamento termico al solaio e in-stallato vetri doppi e stufa a legna, conserviamo l’ac-qua piovana, evitiamo i centri commerciali e riducia-mo i nostri acquisti inutili, facciamo una raccolta dif-ferenziata spinta, intessiamo con il vicinato rapportidi cooperazione invece che di competizione, conser-viamo saperi antichi amalgamandoli con tecnologiemoderne. La nostra Utopia è già realtà, non serve es-sere né eremiti né invasati, basta essere realisti, atten-ti ad un mondo che cambia rapidamente e che doma-ni sarà molto diverso rispetto a quanto vogliono farcicredere gli spot pubblicitari.

Se non vogliamo che il medioevo di Utopia prendabrutalmente il sopravvento, dobbiamo prima di tuttofare un esercizio psicologico per uscire dal circolo vi-zioso tipo “la tecnologia ci salverà”, provare a mette-re in dubbio qualche certezza, e riacquistare il contat-to con il mondo fisico e i suoi limiti. Non viviamo in unvideogioco, ma su un pianeta fatto di aria, acqua, roc-ce, foreste, batteri, petrolio e carbone, il tutto regola-to da leggi fisiche ferree. Vinceranno quelle se non sa-premo dare una svolta all’uso delle risorse. Il tragicodestino di Utopia non si realizzerà solo se noi mette-remo in pratica ogni giorno un pezzetto dei suoi ad-destramenti.

Del resto, tra gli scenari di Prelude, c’è pure “Evol-ved Society”, un mondo dove non esisterà più il mi-naccioso e rombante Suv, ma disporremo tutti di unasobria abitazione a energia rinnovabile e di un com-puter in rete con il quale condividere conoscenza epromuovere la convivialità. Non è un’utopia sognareun mondo migliore.

quantacinque anni, divorziato,di Glasgow, fotografo di matri-moni e di altro, una barca sulfiume e una nuova compagna

in una fattoria vicina. Ha una bellafaccia solcata da rughe e un golf bu-

cato. Zappa e rastrella, suda e fu-ma, pare un bisonte disorien-

tato: «La terra stanca da be-stia». L’aveva già detto conpiù eleganza Pavese.

L’officina è piena di vec-chi attrezzi regalati dallefattorie vicine. Sul giorna-le locale è stato lanciatoun appello: se avete arne-si in disuso, portateli, sa-

ranno ben accolti. Così èarrivata una scatola di

ferro arrugginita cheserve ad affumi-

care la carne.Agricè sor-preso:

«Crede-vo che la gente di qui ci avrebbe presoper una combriccola di pazzi, invece ciguardano con simpatia, ci prestano at-trezzi». Magari è solo umana pietà per ilcampeggio di una banda di incapaci vo-lonterosi. Il progetto va a rilento, peròha successo di gente, ne arriva di ogninazionalità. Chi non lavora non è accet-tato. Però non c’è l’arroganza dei mon-goli che appena ti incontrano ti chiedo-no se sai camminare, cavalcare e sgoz-zare una pecora. E se rispondi sì solo al-le prime due domande ti guardano conaria di commiserazione e disprezzo. AUtopia sono più generosi, forse per que-sto l’esperimento non fila veloce. C’èancora da sistemare la parte idrica, peradesso niente doccia, e da costruire del-le latrine che utilizzino separatamentefeci e urine. Come scrisse Oriana Falla-ci in un reportage durante la guerra delVietnam: «Capii che i vietcong avrebbe-ro vinto quando li vidi fare pipì e defeca-re in due posti diversi».

La terra vuole attenzione, non sgarbi.Però ci fosse l’Apocalisse oggi, questacomunità non sarebbe in grado di man-tenersi e di fornire in fretta una piccolaalternativa. Anche se la piccola libreriain cucina è piena di manuali sulla sussi-stenza, su come migliorare il lavoro do-mestico, allevare le api, scegliere le ver-dure giuste, piantare alberi di frutta, mac’è anche Eric Hobsbawm e il suo Age ofextremes. Anche se Dylan vi farà mette-re la mani a un telaio di lana grezza, perimparare a fare coperte e abiti abba-stanza disgustosi.

Utopia può essere derisa. In fondo inmolte campagne si vive ancora con anti-ca saggezza, cercando di non ricorrere adapporti esterni, si svitano le lampadineper non consumare, si lavano piatti epanni a forza di gomito, si fa la vita dell’a-

sino, senza darsi tante arie di es-sere un esperimento. Utopianon è una risposta, ma unareazione. Scombinata, naif,

impotente. Però come diconoDylan, Agric, Angus, Bernard,Dave: «La gente comincia a chie-dersi se un’altra organizzazione

quotidiana e sociale è possibile. Èpiù consapevole. Capisce che i con-

sumi vanno cambiati, anche se a vol-te non è piacevole. E che è meglio tor-

nare ad avere un po’ di capacità ma-nuale. Le cose rotte si possonoriparare e riutilizzare». È sera. Sesei italiana ti tocca il mestolo incucina. «Magari una pasta fat-

ta a mano, sarebbe possibi-le?». Uto-

pia, me-glio l’a-

scia e itronchi da

tagliare.

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 6MAGGIO 2007

BARACCAL’officina centrale piena di vecchi attrezzi

regalati dai vicini. È anche la cucina

2013-2025: GRANDE FUGA DALLE CITTÀNelle metropoli scarseggia ormai tutto

Inizia il grande esodo verso le campagne

Repubblica Nazionale

il reportageMisteri sovietici

L’ingresso è un’anonima palazzina dell’Ottocento in un vicolodel popolare quartiere Taganka. Da lì si sprofonda a sessantametri sottoterra e si entra nell’immenso bunker voluto da Stalinper ospitare la plancia di comando politico-militare dell’Urssin caso di attacco nucleare. Ora in questi tunnel, per trent’anniprotagonisti segreti della Guerra fredda, sta per nascerne il museo

La città fantasmaMOSCA

Sarà la suggestione da Guerrafredda, perché questobunker ne diventerà un mu-seo dopo esserne stato per ol-

tre trent’anni uno degli occulti protago-nisti. D’altra parte, in questi giorni è tor-nata d’attualità per via dello scudo mis-silistico che Washington vuole installarein Polonia e Re-pubblica Ceca,scelta contestataduramente dalCremlino. Però,quando all’im-provviso la terrasotto i piedi si met-te a tremare, provil’impotenza delsepolto vivo, dichi è costrettoad aspettare,non sapendoesattamentecosa stiasucceden-do. Cioè, ilpericolo allo stato puro.

Il bunker sotterraneo sem-bra percorso da un lungo sus-sulto, come quello di unascossa di terremoto. Pavi-menti, pareti, soffitti, corri-doi, passerelle di legno e dimetallo, tutto vibra. Ses-santa metri sotto terra(quanto uno stabile di ven-tidue piani) l’effetto sono-ro è ancor più inquietante:il rombo, cupo e minaccio-so, si amplifica lungo itunnel, lipercor-re comeuna scu-disciata ,un gorgo-glìo che puòessere tutto eniente. Allorapensi che que-sto sgangheratocemento armato

sgocciolante li-quido color ruggine

stia cedendo, ti dici

Di una seconda Mosca un centinaio di metri sotto la prima, se ne parlava da tempo traesperti e profani, tra chi sapeva qualcosa e altri che inventavano a ruota libera. I russiadorano i misteri, tanto meglio se del sottosuolo, persino in letteratura. Antiche tribù

slave aspettavano la salvezza da un re che si chiamava Mattia o Matjaz: nel momento del mag-gior bisogno avrebbe svegliato la sua armata addormentata nelle grotte per portarla allo sco-

perto a sgominare uno dei soliti nemici storici. Il Cremino non avrebbela sua fama se sotto le pietre rosse non ci fossero le radici, le gallerie. Pie-tro il Grande passava lungo un traforo di qualche chilometro dalla suaresidenza al monastero delle Nuove Vergini per maltrattare il figlio chelo aveva tradito. Una setta cristiana dei “vecchi credenti” perseguitatadai “nuovi” aveva deciso di ritirarsi nel sottosuolo così che ancora oggi,passeggiando per i tunnel, pare si possano incontrare strani esseri min-gherlini che non si lasciano catturare. Ai testimoni oculari di solito siconsiglia di bere meno.

Una ventina di anni fa, destò molta sensazione un articolo apparsosul settimanale popolare Argomenti e Fatti. Per la prima volta il suo di-rettore, Starkov, decise di pubblicare un racconto sulla misteriosa ope-ra del regime. Nel racconto la città antiatomica sembrava un enormemercato coperto dove erano facili quei contatti umani che nella Moscagerarchizzata di superficie mai sarebbero stati possibili: ti passava vici-no la prima ballerina del Bolshoj, sorrideva persino; nella sua portanti-

na sorretta da quattro agenti intravedevi uno dei membri del Politburo, diretto alla solita se-duta del mercoledì mattina attraverso un giardino di plastica; nei bar del viale principale, co-me in un aeroporto internazionale, si svendevano i jeans, la vodka si consumava a volontà esenza alcuna coda, una venditrice gentile offriva persino le banane; salutavi l’accademicoIvanov come fosse un tuo collega di bottega. Tutti affratellati nel destino comune.

che non bisognava fidarsi visto che i la-vori di riammodernamento sono statiappena iniziati. E infatti ogni tanto si ve-dono tracce di cantiere: lì le impalcature,là i macchinari per la calce, i cassoni peri detriti, gli impianti volanti dell’elettri-cità, e poi grosse, infinite tubature.

Un tempo, qua sotto tutto lo spazioutile era destinato ai dispositivi dellaguerra elettronica, alle apparecchiaturesofisticate in grado di individuare ognimovimento sulla superficie terrestre.

Un Grande Fratelloper missili e bombeH. Nei saloni più am-pi, sulle pareti grossitabelloni riproduce-vano il teatro dellepotenziali operazio-ni militari in caso diconflitto. In gergo,Teatr VoennykhDeistvij, il Tvd, focusdella pianificazionee del controllo stra-tegico.

La luce nella galle-ria perde tensione.L’aria si fa polverosa.La tensione dura

qualche attimo. Perché quel rumore hauna causa normale. Lo sferragliare di unconvoglio della metropolitana. Un se-gno di vita. «Lì in fondo passa la Circola-re», conferma infatti Olga Arkharova, in-dicando una nicchia scura, più avanti.Dalle fessure di quella nicchia s’intrave-dono ombre e luci tremolanti come suuno schermo. Il riflesso dei finestrini diun treno. Un’immagine da film dispionaggio. «Sta fre-nando, pri-

ma di entrare nella stazione della Ta-ganka», spiega Olga, «non è un caso chequesto bunker sia stato costruito allostesso livello della metropolitana. Sisfruttarono le stesse tecnologie, gli stes-si materiali, gli stessi operai. Solo che lo-ro non sapevano la destinazione finaledegli scavi. Gli era stato detto che si trat-tava di deviazioni di servizio».

Olga è una piacevole signora sui qua-rant’anni dal piglio deciso. E comunque,assai diffidente. Può dire e non dire, diquesto bunker. Molti tunnel sono off li-mits. Lei indossa un giaccone della fan-teria. Lavora per una società di ex-mili-tari, la Novik-Service. Un anno fa, questaditta si è aggiudicata l’asta che metteva invendita al migliore, e, s’immagina, più fi-dato offerente, un’immensa base sotter-ranea di cui nessuno, compresi gli abi-tanti del posto, aveva mai sospettato l’e-sistenza sino a quel momento. Salvo gliuomini del Kgb, cui era affidata la sicu-rezza del progetto; gli specialisti delle co-municazioni militari che dovevano uti-lizzarlo; i dirigenti dell’Urss che l’aveva-no commissionato; i tecnici che l’aveva-no costruito e poi gestito. E Stalin, che l’a-veva voluto ad ogni costo. Uno dei tantisegreti inaccessibili che le viscere di Mo-sca hanno custodito per decenni e chesoltanto ora cominciano ad essere, inparte, svelati.

A cominciare dall’ubicazione di que-sto bunker. Il Punto di Comando Protet-to della Taganka era uno dei ful-cri difensivi dell’U-nione So-

LEONARDO COEN

Un tempo qui sottotutto lo spazio utile

era destinatoai dispositivielettronici

pergovernare missilie bombe all’idrogeno

SOTTOSUOLOLe immagini di Stalin

e Lenin sono tratte

da un poster del ’52

(Fototeca storica

Gilardi). A centro

pagina, alcune foto

attuali scattate

nel bunker della Taganka

e la mappa dei tunnel

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6MAGGIO 2007

DEMETRIO VOLCIC

La bizzarra leggendadell’Arca sepoltasalva-nomenklatura

Repubblica Nazionale

nella debba comportarsi in caso di in-cendio. Sposti l’occhio e ti ritrovi davan-ti un altro poster. Stavolta, non c’è biso-gno di farselo tradurre: il disegno ripro-duce un fungo atomico, sullo sfondo. Inprimo piano, un soldato si ripara dietroil terrapieno della ferrovia. Altri stannoin un’autoblinda. Uno sta dentro un in-volucro sferico di materiale anti-ra-dioattivo. Rassicurante il manifesto delPatto di Varsavia: non siamo soli, i popo-li fratelli del comunismo sono con noi.

«Gloria gloria glo-ria», si legge in unaltro slogan checampeggia sopral’immagine di unsoldato che ideal-mente marcia nelcuore della StellaRossa.

Prima di scende-re nel bunker è ob-bligatorio munirsidi un lasciapassare.Un gadget. L’inte-stazione è del “Mi-nistero della Difesadell’Urss”. Simula ilpass che veniva ri-

lasciato ai visitatori eccellenti. Un altromilitare controlla il simil-pass. La proce-dura d’entrata viene rigorosamentereplicata. Non si passa se nonc’è il tuo nome nella li-sta delle personeattese per l’orae il giorno fis-sati. Oggi,come allo-ra. La sor-veglianzaè affidataanche ad i s c r e t ev i d e o c a -mere. Una s c e n s o r e(poco moderno)porta giù cinque vi-sitatori per volta. Un“filtro” in più. Vieneconsegnata la mappa delbunker: di traverso, latimbratura in rosso dellasecretazione. Le uscite so-no sei: cinque vietate. Èconsentito un percorso diseicento metri. Il resto ri-

mane misterioso. Magari non tanto perquestioni di riservatezza militare, quan-to per ragioni di sicurezza civile.

Nella sala principale sono esposti al-cuni macchinari. Colpisce la banalità e lavetustà di alcuni pezzi: un registratore anastro; un televisore marca Electron;oscillografi; apparecchiature radiome-triche. Verrà fatto l’inventario e ogni pez-zo sarà illustrato da cartelli bilingui (rus-so, inglese). Olga ricorda che a quei tem-pi ci voleva un salone solo per i calcola-tori e i primi computer, la cui poten-za non è in alcun modo paragona-bile con i pc che si vendono neimegastore di cui Mosca è ormaifornitissima, mentre erano og-getti inaccessibili sotto l’Urss.

Si risale. Fuori, nessun pas-sante ha idea da dove sei sbuca-to. La casa ottocentesca, rac-conta Olga, era un involucroperfetto: solo facciate e pareti.Dietro, gli uffici della burocraziaspionistica. E una piscina cheserviva a rendere ancora più in-nocua l’intera posta-zione. A due

passi, un palazzo molto alto, paradossal-mente tanto quanto è profondo ilbunker. Qualcuno, dagli ultimi piani,avrebbe potuto scoprire che qualcosa,nella casa del vicolo Quinto Kotelniche-skij 11, non quadrava. Olga non lo dice,forse nemmeno lei lo sa, forse lassù cihanno mandato ad abitare «la gente cheportava le spallette». I segreti abitanti delbunker. A turno in cielo. E poi nello

sprofondo.

nel ventre di Mosca

Il direttore della rivista fu molto parco nel suo racconto, non descriveva né l’atmosfera néi marmi, e nemmeno la pietra azzurra del finto cielo, ma intanto dava la grande notizia. Lacittà esisteva. Sorprendeva la dimensione del bunker, capace di contenere centoventimilapersone. La rivelazione suggeriva indirettamente una prima ipotesi politica che produssescandalo: la città nascosta sarebbe stata utile solo nel caso di un attacco sovietico contro l’A-merica; sarebbe stato impossibile infatti convogliare verso i punti di raccolta oltre centomi-la persone nei venti minuti dall’allarme all’arrivo dei missili; solo i dirigenti del Cremlino sa-rebbero riusciti a scendere nel loro piccolo bunker sotto la Piazza Rossa, prendere la metro-politana privata ed approdare alla città segreta.

Non si poteva ovviamente raccontare in anticipo il segreto a migliaia di persone. Per quan-to l’omertà regnasse sovrana, prima o poi, con la perestrojka che amava la chiacchiera, qual-cuno avrebbe spifferato la vicenda per vanità e per darsi delle arie. Era dunque probabile unmeccanismo di questo tipo: i possessori di una certa tessera sarebbero stati invitati a presen-tarsi, nel momento dell’allarme, in un certo luogo per ricevere nuove istruzioni.

Il racconto di Argomenti e Fatti suggeriva una serie di domande. Che tipo di comporta-mento sarebbe prevalso in una clausura così lunga? Sarebbe sorta una società militarizzata,dominata dalla paura e dal sospetto reciproci, sotto costante controllo delle telecamere? Op-pure una specie di Titanic, con la rilassatezza progressiva dei costumi? Il vertice, nel quartodi secolo necessario alla decontaminazione, avrebbe subito due o tre ricambi: sarebbe emer-so un leader riformatore o un nuovo dittatore? E non si poteva escludere lo scenario-beffa,sognato dai soliti dissidenti disfattisti: il clima si è normalizzato, l’aria radioattiva scomparee dopo venticinque anni si può uscire; sulla porta i reduci si imbattono in una tribù extra-con-tinentale che, risparmiata dalla peste nucleare, arriva fino alla Moscova attirata dai resti del-la civiltà scomparsa; i barbari vincono contro i duri e puri e forse se li mangiano. E così falli-rebbe l’idea di poter ricostruire dopo il disastro una società perfetta, l’ultima utopia.

Chiesi al direttore del settimanale che aveva pubblicato il racconto se era impazzito. Disse

di no. Gli domandai l’indirizzo della città segre-ta. Rispondeva come si fa con i bambini, men-tre elencavo i rioni di Mosca: acqua, fuoche-rello e ancora acqua, acqua. Arrivai alla con-clusione che doveva trovarsi in un ampio spa-zio dietro l’Università di Mosca, delimitatodall’Accademia del Kgb e da un blocco di ca-se popolari di qualche pretesa dove abitava-no i funzionari della stessa organizzazione.Mi figuravo una città-fantasma con abita-zioni di lusso, cinema, ristoranti, sale da gio-co, strade, stalle, cimitero, enormi depositidi viveri per un quarto di secolo. Gli abitan-ti avrebbero dovuto pensare alla continuazionedella specie, non potevano sopravvivere solo i vecchi, unasorta di senato del genere umano. Non si poteva che procedere con i cri-teri biblici. In questa arca di Noè sovietica si sarebbero piazzati bene gli intellettuali egli scienziati. Gli scrittori dovevano restare in allenamento per cantare la nuova aurora. Né sipoteva rinunciare ad alcuni stranieri, altrimenti come si creava il nuovo impero? Persinoqualche ebreo. Per alleviare la solitudine ci voleva una rappresentanza di ragazze allegre, me-glio se confidenti dei capi.

Se ne parlava tanto venti anni fa, e gli altri argomenti delle lunghe ore del far niente, comeil triangolo delle Bermude o gli extraterrestri, furono abbandonati a favore della Città di sot-to. Ora sembra chiaro, e un po’ mi dispiace, come per le altre illusioni, che la mia città dei mi-steri non fu altro che un normale bunker antinucleare, al servizio degli allievi della scuola su-periore del Kgb.

vietica. Il quartier generale delle teleco-municazioni militari in caso di attacconucleare. Uno dei rifugi estremi per or-ganizzare il contrattacco, il «colpo di ri-torsione» tanto mitizzato dai vertici mi-litari di Mosca, quando i test atomici era-no divenuti una sorta di gara tra Usa eUrss: l’inizio della paranoia atomica, lanascita della Cortina di Ferro, le bombeH che potevano distruggere tutto quelloche si trovava in superficie. Dunque, ser-vivano nascondigli per sfuggire al fal-lout, per resistere alla devastazione. Enello stesso tempo, dovevano essere po-sti che il nemico non doveva individua-re. Luoghi invisibili. Come questobunker. Concepito in modo tale che lostesso personale ogni giorno doveva ar-rivare seguendo percorsi diversi, dissi-mulati. Anche utilizzando la linea dellametropolitana.

Uno degli ingressi, l’unico reso pub-blico, è situato al Quinto KotelnicheskijPereulok 11, un vicolo del popolare e sto-rico quartiere Taganka. Sud-est delCremlino, oltre la Moscova. In apparen-za un indirizzo qualunque. Il numero èsegnato sulla facciata di una palazzinadell’Ottocento, sopravvissuta a incendi,a Napoleone, ai bombardamenti tede-schi, soprattutto ai devastanti piani re-golatori sovietici. L’ingresso, però, nondà sul vicolo, è sistemato in fondo al lato

destro antincendio della casa, unaparete senza finestre che confinacon un cancello senza insegne. So-lo un campanello, anonimo. Euna grossa stella rossa, al centrodella palizzata metallica.

Ma quando Stalin, nel 1950,ordinò di costruire il gigantescoZkp Taganksij, sotterraneo si-glato GO42 che ospitava il co-mando strategico delle comu-nicazioni militari, non c’eranessuna stella. Anzi, non c’e-ra proprio niente che servis-se ad identificare il luogodella vasta struttura top se-cret. Lo sconosciuto pro-gettista aveva realizzatouna sorta di cittadellablindata, in grado di sop-portare l’onda d’urtoprodotta dai più potentiordigni atomici dell’e-poca: settemila metriquadrati di superficiaerate e protette da

speciali pannelli di cemento armato; tre-cento locali, passaggi, gallerie, tunnel, iprincipali, con un diametro di nove me-tri; ci dovevano lavorare duemilacin-quecento persone che avevano, in casodi attacco nucleare, un’autonomia dinovanta giorni. Un’opera immane, to-talmente clandestina.

«Noi vogliamo togliere il velo a questosegreto. Vogliamo ricostruire gli am-bienti originali, recuperare ciò che è pos-sibile dai magazzini militari — assicuraOlga — e trasfor-mare questa ex ba-se in un laboratoriostorico, dove poterraccontare e de-scrivere ciò succe-deva durante glianni della Guerrafredda. Con docu-mentari, materialid’epoca, persinouna certa atmosfe-ra: lì sopra, peresempio, riaprire-mo la mensa degliufficiali, funzio-nerà come posto diristorazione. Per-ché la visita qua sotto porterà via moltotempo. Pensiamo che la nostra iniziati-va avrà successo: le nuove generazioninon sanno nemmeno che cosa voleva di-re vivere con l’incubo di un conflitto ato-mico, di un’apocalisse».

E in effetti, anche se l’allestimento delbunker per il momento è provvisorio,l’angoscia di quegli anni riaffiora. Un po’ci pensano gli astuti nuovi proprietari:appena varcato l’ingresso, eccoci sottouna rete mimetica. Impensabile ci fosseprima: gli aerei spia americani l’avreb-bero subito fotografata dall’alto. Accan-to alla porticina che conduce al posto dicontrollo interno, subito i primi cartelli.La pianta del rifugio. Le istruzioni in ca-so di evacuazione. Di protezione dallearmi “nbc” (nucleari, batteriologiche echimiche). Un soldato, con tanto di kala-shnikov, fa la guardia. La parete di fron-te è zeppa di manifesti propagandistici.Come usare un mitra. Come montare esmontare fucili, pistole. Come affronta-re il nemico. Poi ci sono Lenin e Stalin cheinvitano, «in nome del comunismo», a«imparare a sparar bene», rivolgendosiai giovani del Komsomol. A fianco, unmanifesto illustra come la buona senti-

Ora una societàdi ex militari vuole

raccogliere quaggiùdocumenti

e testimonianzedi quegli anni

di incubo atomico

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 6MAGGIO 2007

Repubblica Nazionale

il raccontoUomini contro

Fu catturato il giovedì santo del 1307 e bruciato sul rogo il primo giugno. Sette secolidopo, la leggenda dell’eretico montanaro che predicava l’uguaglianza, la povertàe la rivolta contro le angherie dei signori feudali è vivissima nelle valli piemontesiDemonizzato dai preti, invocato da giacobini, socialisti e partigiani, l’eroe medievalerivive tra i No-Tav e i contestatori d’oggi e il suo nome è una bandieracontro chi ha ricoperto le Alpi di cemento e trasformato le vallate in banlieues

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6MAGGIO 2007

BIELLA

C’è uno spettro sulle montagne del Piemonte. Sono passati settesecoli, e continua a farsi vedere. Appare sulle sponde del lagoMaggiore e nelle valli protestanti dei valdesi; lascia tracce delsuo passaggio nel Biellese, che vide la sua rivolta di ieri, ma an-

che in Valsusa, che consuma la sua rivolta di oggi contro l’alta velocità ferrovia-ria. Fuochi ghibellini riaccendono il rogo che lo ridusse in cenere il primo giugno1307: puoi vederli, talvolta, sui colli sotto il Monte Rosa che conobbero il suo mes-saggio libertario e poi la sconfitta. «Dolcino vive», sta scritto da Ivrea alla Valse-sia. Non è solo memoria, è avvertimento. Ai burocrati, ai poteri centrali, agli er-mellini vaticani, ai signori degli ipermercati e del turismo di massa, ai padronidelle dighe e dei tunnel ferroviari. A tutti coloro che hanno cementificato le Alpi,svuotato fiumi e pascoli, trasformato le vallatein dimenticate banlieues. Attenti a Dolcino il ri-belle, arso vivo dai latifondisti e dai vescovi cor-rotti della Padania. Potrebbe ancora tornare.

Quare, profonda Valsesia. Il vento porta odo-re di neve, nubi si arrampicano dal fondovalle,aprono squarci verso il Monte Rosa. Un vec-chietto al bar: «I preti dicevano che fosse un de-monio, ma per noi fu un grande. Dolcino s’è bat-tuto per la nostra autonomia. Ce ne fossero an-cora come lui!». Il pastore valdese Tavo Burat,appassionato animatore del centro studi dolci-niani, evoca immagini da Armageddon: «Glistrapparono le carni con tenaglie roventi, am-putarono il naso e il membro virile, poi accese-ro un fuoco sul Sesia e sparsero le ceneri». Rac-conta della sua donna, la pulcherrimaMarghe-rita da Trento — bruciata pure lei — e dei suoiseguaci che predicavano povertà, affranca-mento della donna, diserzione fiscale, autogo-verno, rifiuto delle “angherie”, i contratti-cape-stro imposti dai proprietari terrieri. «Per questoil messaggio inquieta ancora oggi».

Trivero, paese tessile sotto il monte Rubello,dove il giovedì santo del 1307 avvenne la cattu-ra di Dolcino e lo sterminio dei suoi. Qui le cele-brazioni sono già iniziate, con mostre, piècesteatrali, dibattiti, inaugurazioni di cippi, aper-tura di sentieri, piccoli falò sulle creste dei mon-ti. Una mobilitazione dal basso, che ha coinvol-to una ventina di frazioni. I paesi si chiamanonella nebbia con il tocco sfasato dei loro cam-panili, sincronizzati ciascuno per conto suo colGrande Orologiaio dell’universo. È a Triveroche la leggenda del grande sconfitto si sente conpiù forza. È qui sopra che nel 1907 gli operai glieressero un obelisco, che poi i fascisti fecero sal-tare in aria col silenzio-assenso della Curia.

«I volean pa maoudire, ni jurar, ni mentir, nimasar» — i dolciniani erano bella gente, non vo-levano maledire, spergiurare, mentire o am-mazzare — garantisce in lingua piemonteseJean-Louis Sappé, capo del gruppo teatrale diAngrogna giunto apposta a Trivero dalle mon-tagne valdesi. Il suo gruppo porta di villaggio in villaggio la storia del gran ribelle,narrata in scena da tre giullari. Spiega che i dolciniani «vivevano come colombedi pace in mezzo ai monti», ma poi i nemici li hanno sterminati: «Dona, velh,meinà», donne, vecchi e bambini. «Dolcino», dice Sappé a fine spettacolo, «è sta-to sconfitto come Jan Hus e Thomas Münzer, ma il rogo non può cancellare la lo-ro memoria e neppure la forza delle loro idee. Attraverso il nostro spettacolo, Dol-cino parla ancora».

Sono settecento anni che la sua ombra eretica viaggia per le Alpi, infiamma eimbarazza, diventa bandiera di resistenza e pretesto di repressione. Demone pergli uni, santo per gli altri, dal Medioevo a oggi Dolcino è termometro delle ten-sioni fra centro e periferie ed è anche il segno di un destino montanaro antiteti-co a quello delle genti svizzere che nello stesso annus terribilis, il 1307, segnaro-no con Guglielmo Tell la loro vittoria sulle truppe imperiali. Il suo mito riemergesempre, nei tempi di lotta: con la caccia alle streghe del Seicento; con la Rivolu-zione francese che ridà fiato al suo messaggio di libertà, eguaglianza e fraternità;con le lotte operaie, poi con l’antifascismo e la Resistenza. Fino alle trincee del-l’oggi contro l’insensata monocultura del Globale.

«Cari valligiani ribelli, è con uno slancio del cuore che abbiamo deciso di scri-

vervi. Da secoli ci aggiriamo, stanchi e obliqui, sopra i fatti del mondo…». Vedia-mo «montagne sventrate dall’arroganza del denaro, vallate affogate nel cemen-to… genti rassegnate e chine». È una lettera firmata da Dolcino e Margherita, di-ventata manifesto per i ribelli anti-Tav della Valsusa. Chi l’abbia scritta non si sa,ma nessuno si pone la domanda. È bastato quel nome a farla circolare e a com-muovere la gente. «Quel formicaio di uomini soli che ancora chiamate società ciha tolto ogni gusto per le parole», ma «la passione ci è tornata» vedendo «queglistessi cantieri partigiani ripercorsi da donne, uomini e bambini ostili a un trenocarico di sventure e difeso da mercenari in uniforme».

In un anno e mezzo appena, l’occupazione militare della Valsusa sotto il go-verno Berlusconi è già diventata mitologia tra i montanari, definiti «zotici»,«retrogradi», «egoisti» e «nullafacenti» dai ministri romani. Dolcino e Mar-gherita son tornati, come ne L’ultima valle di Carlo Sgorlon, penetrando nonsi sa come «nel nostro tempo di macchine e motori», quasi senza accorgersiche la loro epoca era finita. Anche l’associazione nata dalla protesta ferrovia-

ria ha preso un nome dolciniano: Credenza,che non vuol dire il posto del cibo, ma luogodella fiducia reciproca e dell’assemblea. «Pri-ma tra noi valligiani c’era solo la sottomissio-ne e il silenzio», racconta Nicoletta Dosio diBussoleno, «oggi ci si parla e si progetta. Ci sonvoluti i manganelli a fare il miracolo. Da seco-li la sconfitta era così interiorizzata che i mon-tanari pensavano fosse inutile combattere».

Ma chi fu davvero Dolcino? «Molti lo straca-pirono», racconta il biellese Alfredo Bider, ap-passionato cultore della zona, «ma di certo fuun ribelle anticentralista e come tale divenneun eroe». Sicuramente non fu un “frate”, comesembra alludere Dante nella Commedia, masolo un “fratello”. Un “compagno” nel sensoetimologico del termine, quello di “co-pain”,cioè colui col quale si divide il pane, il testimo-ne della comunione dei beni predicata dal cri-stianesimo originario. Soprattutto, il valsesia-no Dolcino stava tutto nella tradizione dellesue montagne. Per questo la sua leggenda vivecosì a lungo, e conta forse più della sua storia.

Sul Rubello, il luogo della mattanza, poco ècambiato. Stesse ventose scarpate tibetane,stesso dio di ghiaccio che sovrasta le risaie ver-cellesi come l’Ararat la Mesopotamia. Tuttoindica una montagna speciale, indomita e ala-cre: gobbi ponti medievali sospesi su forre ter-rificanti, cimiteri di venerabili corporazioni —muratori e cappellai, banchieri e tessitori —detentrici di segreti, chiese ornate di simbolimassonici (stelle, svastiche e compassi) mes-se a capolinea di percorsi esoterici serpeg-gianti tra acque sorgive e massi ciclopici di gra-nito. E poi una ghirlanda di santuari, spessoenormi, sproporzionati per quegli spazi pureimmensi: chiese come il Sacro Monte di Varal-lo formicolante di statue o l’eremo di Oropa, ilpiù grande delle Alpi, dove abita una nera Ma-donna e prima, al tempo dei Celti, abitò laGrande Signora della Notte.

Forse dietro a quell’enormità sacrale stal’urgenza di tenere a bada l’anima inquieta di

queste montagne che furono rifugio di elvezi, alemanni ed ebrei e videro le pri-me ribellioni anticlericali, le prime industrie tessili e le prime rivolte operaied’Italia. L’ombra di Dolcino ne è l’incarnazione mitica. Un mito nato subitodopo la strage del Rubello, quando la vecchia leggenda celtica dei morti checavalcano ogni anno le creste dei monti si attualizzò e divenne processionedei gàser, i Càtari sterminati dai papisti fra Alpi e Pirenei. Diventò — come spie-ga Carlo Ginzburg — rappresentazione dell’epopea dei “poveri cristi”.

Già nel Seicento la Chiesa dovette correre ai ripari e inventarsi il falso stori-co delle “leghe valsesiane”, coalizioni spontanee di montanari contro l’ereti-co, definito brigante e nemico della povera gente. La grotta di Dolcino sul Ru-bello venne battezzata “Tana del Diavolo” e la Valsesia costellata di lapidi ce-lebranti la sconfitta del demonio. Non bastò: la memoria dei vinti era ancoralunga. Quando all’inizio dell’Ottocento il Piemonte ricominciò a puzzare dizolfo per l’ingresso in campo di forze mazziniane, egualitariste e anticlerica-li, un deputato progressista al parlamento subalpino, Angelo Broferio, si ri-solse a rompere la visione demoniaca di Dolcino scrivendone come di uno che«alle nequizie del clero» aveva opposto «la santità del Vangelo».

La Curia rispose facendo costruire sul Rubello un bel santuario dedicato a

Il ritorno di Dolcino ribelle per sempre

Il monte Rubello, dovefu bloccato e sconfitto,

è meta di pellegrinaggioe bastione di proteste

Lì i fascisti distrussero,col silenzioso assenso

della curia, un obeliscodedicato alla sua memoria

PAOLO RUMIZ

IL DIPINTOSan Tommaso d’Aquino confonde gli eretici,

particolare da un affresco di Andrea di Bonaiuto, Firenze, 1365 circa

La figura in basso a destra, che strappa

il libro della dottrina della Chiesa, sarebbe identificabile in Dolcino

mercoledì 9 maggio

ore 20

Giuliano Ferrara vs Paolo Flores d’Arcais

La “volontà di Dio” è compatibile con la democrazia?

sabato 12 maggio (non c’è solo il “Family day”)

ore 11 Gesù di Nazareth Corrado Augias, padre Raniero Cantalamessa, PaoloFlores d’Arcais, Paula Fredriksen, Eugenio Scalfari

ore 15,30 EutanasiaBarbara Duden, Ignazio Marino, Eduard Verhagen,

Paolo Flores d’Arcais

ore 21,30 Fedi e IlluminismiPiergiorgio Odifreddi, Josep Ramoneda, FernandoSavater, Giovanni Franzoni, Paolo Flores d’Arcais

MicroMega collabora al Festival di filosofia, Auditorium di Roma

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 6MAGGIO 2007

San Bernardo. «Ma il cielo non fu d’accordo», ghigna il valdese Burat, «e sca-ricò sulla messa inaugurale una tempesta così feroce che preti e chierichettidovettero scappare a valle con ostensori e tabernacoli. I montanari urlaronoal ritorno dei “Gàzzari” e a Cassato in Valsesia «la gente buttò la statua di Cri-sto nel fiume, dandogli poi fuoco e guadagnandosi l’epiteto sempiterno diBrusacrist». Intanto, con l’industrializzazione e la nascita di una classe ope-raia, s’era scoperto un “altro” Cristo, quello che camminava con i poveri.

È a questo punto che leggenda e socialismo si saldano. La montagna rilan-cia Dolcino per farne l’apostolo del movimento operaio. Nel suo nome si scio-pera, si riuniscono i capi delle Leghe operaie, si stampano i primi fogli sovver-sivi e poi i giornali di area laico-progressista. Nel 1877, durante uno sciopero,i leader del sindacato tengono assemblea sul Rubello. Anche padroni comeEmanuele Sella e la massoneria illuminata sentono il fascino del profeta del-l’uguaglianza. Nel 1881 il Club alpino di Biella organizza una gita sul montedel massacro e persino il periodico conservatore L’eco dell’industria si chiedese sia giustificato «l’orrore che i più sentono verso Dolcino», battutosi contro«i deplorevoli abusi della Curia romana». Anche Antonio Labriola lo riabilita.E quando nel 1898 il generale Bava Beccaris a Milano fa sparare sui mendicantie poi sulla folla, alcuni capi della protesta operaia, per non essere arrestati,vanno a rifugiarsi proprio sul Rubello, dove il primo maggio del 1900 innalza-no una gigantesca bandiera rossa, visibile fino in pianura.

Nel 1907 — per i sei secoli dalla strage — gli operai decidono di dedicare aDolcino un obelisco sulla cima del monte Massaro, di fronte al Rubello. Il gior-nale della Curia esce listato a lutto, chiede che si recitino novene per il falli-mento dell’iniziativa, ma l’11 agosto all’inaugurazione arrivano in diecimila,inclusi i rappresentanti delle logge massoniche con i loro simboli.

Con i massacri al fronte, la disfatta di Caporetto e la Rivoluzione russa, i so-cialisti organizzano marce della pace, di nuovo in nome di Dolcino. Ma ormailo scontro di classe sta diventando duro e l’erma in pietra ne diventa il simbo-lo. Basta che la sorveglianza si allenti e l’obelisco viene preso a picconate. Ar-riva il terrore fascista, Mussolini firma l’armistizio tra Stato e Chiesa dopomezzo secolo di guerra fredda. Subito il monumento viene fatto saltare in ariadurante un’esercitazione. Le Brigate nere fanno togliere le lapidi dedicate alribelle e ammazzano a bastonate sindacalisti dolciniani.

Fatalmente sono gli antifascisti a rioccupare quei luoghi durante la Resi-stenza. Nel libro Il Monte Rosa scese a Milano il capo partigiano Cino Mosca-telli racconta che in Valsesia le brigate hanno addirittura ispirato la loro stra-tegia alla leggenda degli agguati dolciniani contro l’armata vescovile. Poi sul-la leggenda scende il cloroformio democristiano, l’epopea viene cancellatadai libri di storia, finché negli anni Sessanta Dario Fo rilancia il montanaro ri-voluzionario in Mistero Buffo, memorabile giullarata contro i poteri forti d’I-talia. Ma dalla sinistra ufficiale non arriva nessuna riabilitazione. Per vedereun omaggio a Dolcino bisogna aspettare che si muovano i valdesi nel 1974,quando Tavo Burat fa mettere una lapide sui ruderi del monumento abbattu-to e migliaia di montanari affluiscono alla cerimonia. Umberto Eco suggella ilrevival inserendo ne Il nome della rosa la storia di due frati dolciniani scam-pati al massacro.

Non bruciano più i roghi, ma l’ombra del ribelle fa paura ancora oggi. Quan-do nel 1980 una lapide a Dolcino viene ritrovata in uno scantinato del museodi Vercelli, la Sovrintendenza non dà il nulla osta per il ricollocamento. E quan-do nel 2000 la lastra di marmo viene finalmente reinaugurata in corso Libertà,il deputato Roberto Rosso, figlio delle risaie in forza tra i berluscones, prote-sta e chiede che l’omaggio a Dolcino vada tolto di mezzo, scatenando un co-dazzo di polemiche con manifesti anarchici, omaggi floreali del Partito radi-cale, insulti al sindaco, risse nella sinistra. La lapide rimarrà al suo po-sto, a segnare come un termometro di preci-sione la temperatura politica in Padania.

«Dietro la memoria di Dolcino c’è larabbia della montagna per le sue scon-fitte», dice Chiara Fiorina che gestisceun piccolo bar in località Balma sopraBiella. «È dura, è sempre più dura vi-vere quassù. Abbiamo contro tutto,l’Inps, gli uffici sanitari, il Tesoro…».Se rimane, Chiara, è solo per l’affasci-nante energia del luogo, l’amore per unaterra estrema che ha dato i natali a pacifi-sti e combattenti, grandi missionari e durighibellini, predicatori rivoluzionari e preticapaci di decriptare i silenzi dell’Alpe. Trovi ditutto sui monti di Dolcino: soldati come Pie-tro Micca capaci di farsi saltare in aria per la pa-tria, o come Antonio Gastaldi, passato ai bri-ganti borbonici in nome della giustizia e della li-bertà. Grandi uomini d’ordine, ma anche genialifalsari come Samuele Farinet che batté moneta so-lo per togliere i montanari dalla miseria.

IL PERSONAGGIO

Dolcino, nato probabilmente a Prato Sesia (Novara),

aderì al movimento degli Apostolici, egualitario

e pauperista, giudicato ereticale dalla Chiesa

Quando il suo fondatore, Gherardo Segarelli,

fu messo al rogo, Dolcino ne assunse la guida

Il movimento si arroccò in Valsesia dove

si trasformò in vera e propria rivolta antifeudale

Un esercito messo in campo dai vescovi ne ebbe

ragione con un terribile bagno di sangue nel 1307

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Repubblica Nazionale

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6MAGGIO 2007

JOSEF KOUDELKAPraga agosto

1968: dopo

l’invasione,

un giovane

cecoslovacco

sfida i carristi

sovietici

© Josef Koudelka/

Magnum/Contrasto

l’immagineTestimonianze

Libertà e giustizia, povertà e sviluppo, ambiente e salute,guerre e migrazioni: la Utet dedica ai Diritti Umaniun’imponente impresa editoriale, diretta da MarcelloFlores. Un Dizionario, un Atlante, documenti e letturema anche un libro con gli scatti dei grandi fotografiche hanno denunciato i crimini commessi contro l’Uomo

Tutti i regimi politici hanno sempre curato l’educa-zione politica dei propri soggetti o gruppi dirigenti.Si pensi, per la trattatistica monarchica, alla Cirope-dia di Senofonte; per quella repubblicana classica,al De officiis ciceroniano; per il despota rinascimen-tale, al Principe di Machiavelli; per il signor cortese,

al Cortegiano di Baldesar Castiglione; per la monarchia contro-riformista del Seicento, alla Politica estratta dalle proprie paro-le della Sacra Scrittura di Bossuet. Montesquieu dedica un librointero dello Spirito delle leggi, il quarto, all’educazione secondole diverse forme di governo, compresa la de-mocrazia.

Le élite politiche, poi, da sempre hanno leloro scuole e i loro maestri separati, a iniziaredai sofisti greci: scuole speciali, anche oggi ingrande voga ed espansione per la formazionedi oligarchie, spesso familiari, della cultura,della tecnica, del danaro. La democrazia è ilregime dove il governo è aperto a tutti e anchela democrazia ha avuto la sua pedagogia. Ri-cordiamo i Catechismi costituzionali e i po-polari Manuali dei diritti e dei doveri dei cit-tadini dell’epoca giacobina. Dopo quei tenta-tivi, che oggi appaiono di un razionalismosemplicistico disarmante, un’autentica pedagogia democrati-ca, tuttavia, è mancata. Le scuole di educazione popolare pro-mosse nell’Ottocento dal movimento socialista e cattolico, aparte la loro limitata diffusione, erano strumenti di emancipa-zione delle classi subalterne; dunque altra cosa, anche se con-correvano ad allargare le basi della vita politica. Né l’educazio-ne civica, a parte la sua emarginazione de facto dall’insegna-mento della nostra scuola, ha mai preteso di essere molto di piùche un’informazione sulle istituzioni e, dove ha tentato di an-dare oltre, in appoggio della democrazia, è stata più un’apolo-getica e una propaganda che non una pedagogia.

Hanno dilagato invece politologi e costituzionalisti, ma non

bastano. Il loro compito è studiare e spiegare regole fredde maciò che qui importa, e manca, è il fattore spirituale che loro nor-malmente sfugge. Nel momento della massima diffusione dellademocrazia, si potrebbe dire della sua vittoria su ogni altro tipodi sistema di governo, sembra dunque essere venuta meno l’e-sigenza di insegnarne lo spirito. Che spiegazione dare?

È pur vero che, negli anni successivi alla Seconda guerra mon-diale, la scienza politica americana si è occupata di qualcosa co-me l’educazione alla cittadinanza, ma non pare aver lasciatotraccia, almeno da noi. Doveva essere strumento di affermazio-ne e consolidamento della democrazia nei Paesi che si eranomessi nelle mani di dittature totalitarie col consenso della mag-

gioranza della popolazione, abituata a tene-re atteggiamenti di passiva e acritica sotto-missione (in Germania) o di scettica sfiducia(in Italia), nei confronti dello Stato.

In generale, nella migliore delle ipotesi, èprevalso un topos dell’ideologia democrati-ca: che sia necessario e sufficiente diffonderei diritti di partecipazione democratica, i dirit-ti politici e, innanzitutto, il diritto di voto, af-finché lo spirito democratico si radichi, si ali-menti e si diffonda da sé. In altre parole lavirtù democratica, che nella sua essenza con-siste in amore per la cosa pubblica e disponi-bilità a dedicarvi le proprie energie e a mette-

re in comune una parte delle proprie risorse, si svilupperebbe dasola, causa ed effetto della democrazia stessa: tanto più la de-mocrazia cresce, tanto più lo spirito democratico si sviluppa equesto sviluppo fa ulteriormente crescere la democrazia.

Questa sua meravigliosa caratteristica circolare farebbe dellademocrazia una forma di governo diversa da tutte le altre, per-ché, essa sola, sarebbe perfettamente autosufficiente, rispetto aciò che Montesquieu denominava il suo principio o ressort, lasua molla spirituale. Questa fede era alimentata dall’idea che es-seri umani per lungo tempo esclusi dalla partecipazione alla vi-ta politica, costretti a una visione dell’esistenza esclusivamenteripiegata su se stessa e limitata ai concreti e impellenti bisogni

L’arte di fotografareGUSTAVO ZAGREBELSKY

“Nessunosi dà cura

di insegnarelo spirito

della democrazia”

MARC GARANGERAlgeria 1960: donna costretta

a farsi fotografare a volto scoperto

per i documenti d’identificazione

© Marc Garanger/Corbis

IGOR KOSTINChernobyl, Ucraina 1986:

un “liquidatore” nel villaggio

evacuato di Tatsenki

© Corbis

JACOB RIISNew York 1890 circa: tre bambini di strada

cercano il caldo in un angolo di Mulberry Street

© Jacob A. Riis/Getty Images

LEWIS HINEGeorgia, Usa 1910: due bambini al lavoro

su un telaio elettrico in una fabbrica tessile

© Lewis W. Hine /George Eastman House/Getty Images

W. EUGENE SMITHGiappone 1971: Tomoko Uemura,

vittima dell’avvelenamento da mercurio

di Minamata, davanti agli inquirenti

© W. Eugene Smith/Magnum/Contrasto

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 6MAGGIO 2007

personali o familiari della vita quotidiana, come erano coloroche formavano le masse operaie e contadine, avrebbero trattomotivo di innalzamento civile dal coinvolgimento in procedure(come quella elettorale: da cui la richiesta del suffragio univer-sale) e, oggi diremmo, in contesti comunicativi, idonei a pro-muovere il senso di responsabilità verso gli altri e capaci di farloro altamente apprezzare l’importanza della dimensione poli-tica dell’esistenza. In breve: la credenza era che la democraziaavrebbe per propria intrinseca virtù trasformato i sudditi in cit-tadini e così si sarebbe essa stessa immunizzata dai pericoli diinvoluzioni antidemocratiche. L’espressione corrente: “la de-mocrazia in pericolo si difende con più democrazia” è una del-le convinzioni che derivano da quella pre-messa e da quella fede.

Tuttavia, la diffusione crescente dell’indif-ferenza politica nelle nostre democrazie ma-ture ha indotto a una nuova riflessione. Si èparlato di “democrazia per assuefazione” el’assuefazione può portare alla noia e perfinoalla nausea e al rigetto, tanto più in quantocompaia qualcuno — e qualcuno comparesempre a riempire un vuoto di iniziativa poli-tica — che promette di più, più facilmente erapidamente di quanto non possa ottenersitramite le complesse e faticose regole dellademocrazia. Un’opinione pubblica consa-pevole svolge una funzione essenziale in democrazia. A diffe-renza di tutte le altre forme di governo, le quali non solo posso-no ma devono farne a meno, in democrazia, essa è una conditiosine qua non.

La domanda è se si possa insegnare non la democrazia ma l’a-desione alla democrazia: se si possa insegnare non che cosa è lademocrazia ma ad essere democratici, cioè ad assumere nellapropria condotta la democrazia come ideale, come virtù da ono-rare e tradurre in pratica. In breve, si tratta di sapere se gli idea-li, le virtù, e in particolare la virtù politica, si possano insegnareoppure no.

Inoltre, qualsiasi altro sistema di governo, ma non la demo-

crazia, può far uso di propaganda. In ogni propaganda è impli-cita una pressione, una violenza alla libertà delle altrui convin-zioni. La democrazia è dialogo paritario e il dialogo paritario sifa deponendo ogni strumento di pressione: innanzitutto dipressione materiale, quella che viene dalla violenza, dalle armie dalla corruzione del denaro, ma anche di pressione morale, co-me quella che può essere esercitata nel rapporto asimmetrico diautorità-soggezione che si trova talora, quando degenera in au-toritarismo, tra padre e figli, maestro e allievo; un rapporto chemanca di rispetto e contraddice la libertà senza la quale non c’èdemocrazia.

Ogni società ha un modo di governarsi e ogni modo di gover-narsi ha un suo ethos che deve informare lospirito degli individui che governano, senza ilquale è destinato a corrompersi e a scompa-rire. Il problema dell’insegnamento della de-mocrazia è qui, nell’identificazione e nellaspecificazione dell’ethos che le corrisponde eche deve essere diffuso tra tutti, conforme-mente all’ideale democratico di una comu-nità di individui politicamente attivi.

Pensando e ripensando, per promuoverel’adesione alla democrazia, non se ne trovaaltro fondamento che questo: il rispetto di sé.La democrazia è l’unica forma di reggimentopolitico che rispetta la mia dignità, mi rico-

nosce capace di discutere e decidere sulla vita pubblica. Tutti glialtri regimi non mi prestano questo riconoscimento, mi consi-derano indegno di autonomia fuori dalla cerchia delle mie rela-zioni puramente private e familiari. La democrazia è, tra tutti,l’unico regime che si basa sulla mia dignità in questa sfera piùampia. Ma non basta il rispetto di sé, occorre anche il rispetto,negli altri, della dignità che riconosciamo in noi. Il motto dellademocrazia dovrebbe essere: “Rispetta il prossimo tuo come testesso”. Infatti, il rispetto solo di se stessi e il disprezzo degli al-tri porterebbero non alla democrazia ma alla lotta per l’affer-mazione della propria autocrazia, onde evitare la necessità e lalimitazione del coordinamento reciproco.

il dolore degli altri

“La democraziaè, tra tutti,l’unico

regime basatosulla miadignità”

DAVID SEYMOURNapoli, 1948: bambini

all’Albergo dei poveri,

al quale erano affidati

piccoli ladri,

mendicanti e prostitute

© David Seymour

/Magnum/Contrasto

LUCIANO D’ALESSANDROSalerno, 1965-68:

nel manicomio

Materdomini

di Nocera Superiore

© Luciano D’Alessandro

PETER MAGUBANEJohannesburg 1957:

i servizi igienici

della miniera City Deep Mine

© Peter Magubane

L’OPERA

L’editore Utet pubblica un’imponente opera dedicata al tema dei diritti umani

L’impresa, affidata alla direzione di Marcello Flores, si articola in cinque moduli:

un Dizionario in due volumi, di 1.500 pagine complessive (dal quale è tratta la voce

Educazione alla democrazia di Gustavo Zagrebelsky che pubblichiamo in queste

pagine); un Atlante, pure in due volumi; un libro di documenti e letture; un modulo

multimediale costituito da due dvd e un cd-rom; infine un’antologia completa

della fotografia impegnata intitolata I Custodi dei Fratelli e realizzata da Contrasto,

a cura di Alessandra Mauro (320 pagine, 45 euro, in libreria dal 24 maggio), dalla quale

sono tratte tutte le foto pubblicate in queste pagine. L’opera si può acquistare

nelle Agenzie Utet . Sabato 12 maggio a partire dalle 17,30 alla Fiera del libro di Torino

si terrà una tavola rotonda sui diritti umani. Per informazioni: www.dirittiumani.utet.it

SEBASTIÃO SALGADOMali 1984-85:

donne e bambini

lasciano la regione

del lago Faguibin

colpita da siccità

© S. Salgado/

Amazonas/

Contrasto

BOB ADELMANAtlanta, Georgia

Usa 1968: ultimo

saluto alla salma

di Martin Luther

King nel campus

dello Spelman

College

© Bob Adelman

PHILIP JONES GRIFFITHSVietnam 1967: una donna

ustionata ed etichettata

come “civile vietnamita”

© Philip Jones Griffiths

RAGHU RAIBhopal, India 1984: sopravvissuti

al disastro della Union Carbide

sostano davanti alla fabbrica

© Raghu Rai/Magnum/Contrasto

Repubblica Nazionale

Nel 1613 lo speziale di Norimberga terminò il compito affidatogli:catalogare ogni pianta dell’immenso giardino dell’arcivescovodi Eichstätt. Fu stampata un’opera mai vista prima: un trattato

di botanica, una nuova scienza in linea con il pensiero moderno di Galileo e NewtonAboca Museum e Priuli & Verlucca hanno riprodotto fedelmente quel capolavoro

ErbarioBesler

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6MAGGIO 2007

Certo, è stato il secolo del barocco, delle rivoluzioni scien-tifiche, delle esplorazioni, delle nuove rotte commercia-li. Ma il Seicento, a ben ricordare, è stato anche il secolodei fiori e di una rivoluzione cromatica che riassume, inun tripudio di petali, tanti altri grandi mutamenti epoca-li. Perché l’ondata di colore che rimette improvvisamen-

te in discussione le antiche certezze dei giardini europei (il bosso e il tas-so, la rosa e il giglio), va ben al di là dei semplici aspetti ornamentali, perrimescolare tutta la società e la cultura del tempo: letteratura, pittura,filosofia, scienza. Senza tralasciare l’economia che, proprio nel corsodel Seicento, vedrà le piante trasformarsi in una merce pregiata, im-portata dai nuovi mondi con gli onori riservarti a oro, argento e spezie,per assurgere, in qualche caso, a valutazioni davvero impensabili, co-me in Olanda, dove un singolo bulbo di tulipano arriverà a toccare il va-lore di una casa.

L’arcivescovo Johann Konrad von Gemmingen era un uomo del suotempo. E, al pari di altri ricchi e potenti dell’epoca, aveva concepito ilgiardino del castello di Willibaldsburg come un’esibizione di meravi-glie, dove sfoggiare alberi e arbusti venuti da tutto il mondo allora co-nosciuto. Quando, nel 1606, commissiona a Basilius Besler, speziale diNorimberga, la catalogazione delle piante presenti a Willibaldsburg,forse vuole solo far conoscere al mondo la gloria del suo nome. Co-munque sia, il lavoro di Besler va oltre le intenzioni e diventa una delleopere prime di una nuova scienza, figlia del Seicento: la botanica, deli-neata, tra l’altro, dalla pubblicazione, nel 1601, della Rariorum historiaplantarumdi Carolus Clusius. Fino a quel momento la conoscenza del-le piante è stata considerata una semplice appendice (minore) dellamedicina. Le specie classificate sono poche centinaia. E la conoscenzadella fisiologia vegetale si limita alle pratiche orticole. Solo a Willibald-sburg, però, stando alle tavole di Besler, sono già raccolte 1084 speciediverse. Sorge l’esigenza di ordinare quel patrimonio. Lo speziale le rag-gruppa sulla base delle stagioni di fioritura; ma già pochi anni dopo, nel1623, Caspar Bauhin ipotizza quella nomenclatura binomica che, ri-presa da Linneo, costituirà la base della classificazione moderna.

L’Hortus Eystettensis, frutto di sette anni di lavoro, segna una svoltaanche nel campo delle illustrazioni. Per tutto il Medioevo ogni erbarioaveva tratto origine dalla copiatura (anche maldestra) dei manoscrittiprecedenti, limitando il suo interesse alle piante officinali. L’invenzio-ne della stampa era arrivata proprio mentre il crescente interesse sulmondo dei vegetali creava, con una nuova domanda di conoscenze, lanecessità di rappresentazioni sempre più accurate. Gli erbari a stampaapparsi alla metà del Cinquecento, con le prime immagini delle piantedel Nuovo mondo, già preconizzano una diffusione delle informazio-ni che va al di là della ristretta cerchia delle corti: si pensi all’opera di Pie-

ARTE NATURALELe illustrazioni di queste pagine sono tratte

dall’Hortus Eysettensis di Basilius Besler

LUCA VILLORESI

E il Secolo dei fioricolorò il vecchio mondo

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 6MAGGIO 2007

tro Andrea Mattioli, un best seller italiano, riprodotto nell’arco di duesecoli in almeno una sessantina di edizioni. È nel Seicento, tuttavia, conil superamento della tecnica della xilografia (l’incisione su legno, daitratti ancora essenziali e grossolani) e la progressiva diffusione delle in-cisioni su rame che l’illustrazione botanica raggiunge, con un radicalesalto di qualità, una maggiore cura del dettaglio.

I costi di un libro — i disegni sono colorati a mano — risultano anco-ra molto alti. Ma i mecenati, intenzionati a celebrare il loro nome, o an-che i semplici commercianti che decidono di compilare un catalogodella loro offerta non mancano. L’opera di Besler appare nel 1613. L’an-no prima è stato pubblicato il Florilegium, finanziato dall’imperatoreRodolfo II. Nel 1614 appare l’Hortus Floridus. E il fiorire delle aiuole in-calza quello dei libri. La maggior parte delle nuove piante (anche quel-le che in seguito assumeranno una valenza alimentare, come la patata,a lungo considerata velenosa) sono importate per soddisfare la curio-sità e la nuova moda del collezionismo. Nell’opera di Besler già ritro-viamo così, rappresentate come rarità, molte specie oggi completa-mente integrate nella flora europea. Ecco il nasturzio... Ecco il pomo-doro, ritenuto una semplice ornamentale… il peperoncino… l’aloe…il tabacco, che Colombo aveva conosciuto nel suo primo viaggio, ve-dendo gli indigeni che «bevevano fumo». E poi, in questa mescolanzadi piante europee, indiane, americane, mediorientali, ecco i grandiprotagonisti del secolo dei fiori: i tulipani, punto focale di una nuovamoda estetica (a volte un’intera aiuola viene allestita per ammirare lafioritura di un singolo fiore), ma anche commerciale.

I primi tulipani arrivano in Europa (probabilmente a Vienna) dallaTurchia, attorno alla metà del Cinquecento, In Olanda fanno la lorocomparsa nel porto di Anversa nel 1562. Il mercante fiammingo che liriceve — casualmente, in mezzo a una partita di varie mercanzie — seli mangia, con olio e aceto. Non sono granché. I superstiti vengono pian-tati nell’orto, accanto ai cavoli. Nascono fiori dai colori mai visti. E, nelgiro di cinquant’anni, il tulipano, spodestata la rosa, diventa il nuovo redei giardini. Nel 1600 i nuovi ibridi, creati dall’uomo o dal caso, sono al-meno un centinaio (nell’Hortus Eystettensisne sono rappresentati unacinquantina); nel 1630 arrivano a un migliaio. Mentre i prezzi conti-nuano a salire. In un paese dove il guadagno medio di un artigiano nonsupera i trecento fiorini all’anno, la quotazione di un singolo bulbo deltulipano più famoso dell’epoca, il Semper Augustus, viaggia tra i cin-quemila e i diecimila fiorini. Nel 1633 c’è un’ulteriore novità. Fino ad al-lora per acquistare i tulipani si usava il denaro. Adesso i tulipani diven-tano denaro: tre bulbi, in cambio di una casa. L’apice della febbre arri-va tra la fine del ‘36 e l’inizio del ‘37: una varietà di bulbi, venduta in au-tunno a 60 fiorini la libbra, il 12 gennaio arriva a quota 120; il 23 dellostesso mese è a 385; il primo febbraio sfiora i mille e quattrocento. Quel-

lo stesso giorno, però, una partita messa in vendita a mille e cinque-cento fiorini rimane invenduta: è l’innesco di una reazione a catena chein pochi giorni travolge l’economia olandese.

La caduta dell’Impero romano aveva rappresentato, per tutto l’Oc-cidente, non solo un serio regresso delle nozioni botaniche (nel Me-dioevo si conoscono meno piante di quante non fossero state identifi-cate in precedenza), ma anche un sostanziale diverso approccio cultu-rale al mondo vegetale. Le piante, che i pagani credevano abitate da unospirito, vengono deprivate dal cristianesimo della loro anima. E perquasi mille anni erbe, alberi, arbusti — tranne poche eccezioni, colti-vate a scopo alimentare o nel chiuso dei conventi — vengono guardaticon il sospetto dovuto a una natura infida e selvaggia. Galileo e Newton,Colombo e Magellano, sfondando le prospettive di una visuale ristret-ta nelle quattro mura dell’hortus conclusus, capovolgono però, anchein termini psicologici, il rapporto tra uomo e natura. E le piante recla-mano una nuova dignità. Un’identità scientifica, non più basata sulleformule degli speziali e degli stregoni, ma sugli studi delle università edei primi orti botanici, sorti a metà del Cinquecento a Padova e Pisa ediffusisi nel Seicento in tutta l’Europa, da Parigi a Leida. E un’identitàartistica, celebrata dagli artisti fiamminghi, dai pittori di corte chiama-ti a ritrarre le rarità delle collezioni principesche, dai Lorrain, dai Pous-sin e dai primi idealisti del paesaggio.

Dall’agricoltura alla filosofia, dalla letteratura all’abbigliamen-to... Nel ricapitolare il nuovo ruolo assunto dalle piante tra il Cinquee il Seicento ci si potrebbe, alla fine, quasi scordare di quanto avvie-ne nell’arte dei giardini: ripensati anche in termini filosofici (uno deiprimi trattati in materia porta la firma di Bacone); e rimescolati daun fermento che riprende e supera le soluzioni innovative del Rina-scimento, realizzando una serie incredibile di capolavori. A voltescomparsi, come l’Hortus Palatinus di Heidelberg, ideato da Fede-rico V: l’“ottava meraviglia del mondo”, travolta dalla Guerra deitrent’anni. Altre volte giunti fino ai nostri giorni, come i giardini diVersailles, dove Luigi XIV celebra il dominio (se non la tirannia) del-l’uomo sulla natura. Quello che in questi anni percorre l’Europa, perdi più, non è tanto il dettato di una scuola, quanto un movimentoche, di paese in paese, si traduce in soluzioni anche molto diversetra loro — ispirate ora al primato dell’architettura, ora a un paesag-gio idealizzato — ma sempre innovative. Basti scorrere, per restarein Italia, l’elenco dei giardini nati nel giro di pochi decenni: Boboli aFirenze, Villa d’Este a Tivoli, Villa Borghese e Villa Doria Pamphili aRoma, Villa Aldobrandini a Frascati, Villa Garzoni a Collodi, il Parcodei mostri di Bomarzo, Villa Lante a Bagnaia… Le piante alla riscos-sa, dalla Francia all’Olanda, in un gran fiorire che annuncia i fruttidel secolo dei Lumi.

Aboca Museum e Priuli & Verlucca pubblicano edistribuiscono in edizione limitata il facsimileautentico dell’Hortus Eystettensis, l’erbario più

bello e famoso del mondo conservato nella bibliotecadi Eichstätt, in Baviera.È l’opera del farmacista e botanico Basilius Besler chedescrisse caratteristiche e proprietà delle 1084 pianteallora presenti nel grande orto dell’arcivescovoJohann Konrad von Gemmingen. Delle prime

trecento copie dell’opera, stampate nel 1613 dalastre di rame incise dagli orafi del tempo, solo

pochissime furono date ai pittoriperché le colorassero una a una

manualmente. La copiabavarese è una di queste.Nel secolo successivovennero stampate altreseicento copie cheperò rimasero inbianco e nero.Gli esemplaria colori, unaventina, sono

conservati nei piùprestigiosi musei del

mondo, dalla Biblioteca Vaticana alMuseo delle Scienze di Parigi alla British Library di

Londra. I soli due esemplari in mano a privati hannoattualmente raggiunto una quotazione sul mercatodi oltre un milione di euro. Il valore artistico, oltre chestorico-scientifico, di questi erbari è testimoniatoanche dal fatto che per la prima volta nella storiadell’arte i pittori posero la loro firma in calce aidisegni di fiori e piante che diventavano leprotagoniste dell’opera.Ora Aboca Museum Edizioni che ha come scopoprimario la diffusione del sapere botanico-medicoper mezzo di facsimile e anastatiche di tavole asoggetto botanico ed erbari antichi, ha riprodottoquesto esemplare di Eichstätt e l’editore Priuli &

Verlucca ne cura la distribuzione.Ecco le caratteristiche dell’opera,

ciascuna conforme all’originaledel Diciassettesimo secolo: trevolumi, stesse misure (in folio“imperiale” 43,5x52 centimetri)e numero di pagine, la carta (da170 grammi) è appositamentefabbricata con texture evergellatura da 32 millimetri. Ogni

volume pesa 9,50 chili. La stampa èanaloga all’originale nel colore

dell’inchiostro e la legatura è eseguitaa mano. Ognuna delle 1500 copie

realizzate ha la dichiarazione di autenticità.I tre volumi contengono complessivamente 367tavole con 1084 disegni, tutti a colori, di altrettantepiante a grandezza naturale, con cinque frontespizi,uno per stagione più il ritratto del Besler; la tecnica distampa è quella della calcografia su rame.All’edizione facsimile è affiancato il Commentariumche è parte integrante dell’opera, ma può essereacquistato anche separatamente in casa editrice o inlibreria (costa 150 euro se comprato a parte).Comprende, oltre a tutte le immagini dell’Hortus,saggi scientifici, botanici, artistici, librari e biograficiin italiano, inglese e tedesco. Il prezzo dell’operacompleta (compreso il Commentarium) è 9.600 euro.L’Hortus Eystettensis sarà esposto al pubblico allaFiera del libro di Torino dal 10 al 14 maggio.Per informazioni: Priuli & Verlucca (tel. 0125 712266),www.priulieverlucca.com

Tecnologia e artigianiil facsimile perfetto

Repubblica Nazionale

la letturaInediti ritrovati

Lo scrittore vicentino diciottenne inventò questa storiaIn seguito disse che quello restava il suo lavoro migliorePer lungo tempo si pensò che il manoscrittofosse andato perduto. Ora Fandango lo pubblicaÈ il racconto di un uomo che dalla tomba ricorda e parlaNe anticipiamo un brano, illustrato da Giosetta Fioroni

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6MAGGIO 2007

Può essere il vento del tredicesimo anno di età, vale adire forse quattordici anni fa, l’anno che è rimasto afare la villeggiatura in un piccolo paese di montagna,è rimasto là, e non è più venuto a casa.Piero il pittore era un ragazzo di diciassette anni chefumava come un turco e che organizzava un muc-

chio di gite sotto il sole e sotto la pioggia.Il macellaio del paese mi portava a casa sua a mangiare la zup-

pa di pollo e voleva che diventassi suo genero attraverso non sisa quale delle figlie.

Con una bicicletta portava carne dappertutto.Poi c’erano il fratello e la sorella, i padroni dell’albergo, poi le

montagne, una davanti, a picco sul paese, una di dietro, con unbuco sulla cima e due ai lati. In mezzo si nascondeva il paese inun groviglio di verde e vicino il torrente luccicava fino al cielo.Ebbene, il tredicesimo anno di età, passato e trapassato, è ri-masto là, accovacciato su un ramo di corniolo marcio, fradiciod’acqua e di neve, è ancora là, con il grande strapiombo striatodall’acqua, davanti. Accanto gli si potrebbero attaccare i calzo-ni di velluto a righe, tristemente vuoti, il coltello con il manico dicorno, la piccola carta topografica con le gite confusamentetracciate.

Piero, Giovanni, la Maria, la Luciana, i figli del giudice, il fo-nografo, quelli di Milano che comperavano centinaia di uova,la fiaschetta e le cartoline — saluti freschissimi — dove sono? Iragazzi grandi ballavano spesso dai figli del giudice ed io volevoimparare, ma non imparavo mai.

Gli altri ballavano, io e Beppino, uno deifigli del giudice, in soffitta a tirarsi addos-so torsi di pannocchie mentre al di là del-le quattro montagne saliva un cielo verdeopaco.

Perché quelle nubi laggiù sono così se-gnate?

«È la grandine», Beppino annusava l’a-ria; sotto il fonografo continuava ma oralassù si udiva appena.

Appiattati sulle tavole piene di polveredella soffitta accanto a una di quelle pic-cole finestre colla grata, tutti e due aspet-tavamo, annusando, la pioggia. Le raffi-che di vento curvavano i rami di cornioloed il paese, al di sotto, era immerso nel si-lenzio.

Il grande castagno ondeggiava, ed i pic-coli peschi sibilavano alle raffiche più for-ti.

«Io vorrei giocare un po’ a scacchi».La grandine giunge all’improvviso come uno schiaffo poten-

te da sinistra a destra, contro tutti gli alberi, solo il corniolo nonsi muove di un millimetro e diventa tutto lucido in un momen-to.

Immediatamente le quattro montagne scompaiono ma daun sonoro rumore si può intendere come esse abbiano accoltol’urto.

L’immensa mole di palline ghiacce rimbalza sui lastroni apicco e rotola giù a torrenti, verso la valle.

«Andiamo a fare questa partita di scacchi», dice ancora Bep-pino.

L’indomani il muschio fradicio d’acqua era cresciuto di undito ed i lastroni di roccia erano neri e lucenti.

L’odore della grandine non abbandonò il paese che dopo unasettimana.

E per un’intera settimana Piero, Giovanni, la Maria, la Lucia-na ed i figli maggiori del giudice, con addosso pesanti maglioni,giocarono a poker.

Intanto il vento continua, api e mosconi se ne sono andati, edil lampadario di ferro qua sopra cigola da ore.

Quando si andava al torrente vi si buttava il cane Bebo, ed es-so si lasciava andare fino al fondo come un pupazzo dalle orec-chie lunghe; quello era il punto più profondo eppure si poteva-no vedere benissimo le pietre rotonde e lucenti; poi c’eranopunti in cui si poteva attraversare ed arrivare quasi proprio aipiedi del monte.

Le pietre erano dure e sdrucciolevoli e l’acqua gelata tantoche si usciva con i piedi rattrappiti; tutti si stendevano sull’er-ba a raccontare storielle, solo io e Beppino ci si inerpicava peril monte fino ad un piccolo spiazzo erboso. Beppino tirava fuo-ri gli scacchi ed io una volta che non c’era lui ho tirato fuori ditasca una pesca marcia schiacciata e mi sono messo a man-giarla spargendo il sugo sui calzoni di velluto, poi ho tenuto lanoce in bocca e ho continuato a succhiare fino all’ora di cena.

Poiché dietro a quello spiazzo erboso c’era una grotta, il fat-to di essere solo e di sentirmi dietro la schiena quel buco oscu-ro dal quale usciva aria umida e odorosa, mi impressionava.

Vedevo gli altri sotto sdraiati accanto al torrente e sentivoappena le loro voci; mi sembrava che al di là del piccolo spiaz-zo erboso vi fosse uno strapiombo e che io non avrei potutoscendere giù né essi quand’anche avessi gridato avrebberopotuto sentirmi, poiché queste montagne portano la vocedove vogliono o addirittura la soffocano. Per un attimo l’o-scurità di quella grotta mi avvinse di una strana paura cheatrofizzò tutti i sensi acuendo invece l’udito che sopra ognialtra cosa coglieva il ticchettio delle gocce che stillavano nel-l’interno della grotta.

Ma alzai il capo e vidi l’immensa parete sovrastante pienadi sole.

Quando sputai l’osso di pesco guardai dietro di me verso ilmonte che si stava oscurando e non riuscii a vedere lo spiaz-zo erboso e la grotta. Era il tramonto, Piero tremava sdraiatosu una panchina sotto le acacie della piana e le campane ditutta la valle avrebbero fra poco cominciato a suonare. In unaltro luogo, in collina, da una sedia sdraio guardavo il sole an-

dare dietro il campo di grano appena mietuto e i gambi sec-chi alti un palmo si confondevano col colore della terra, e lapiccola inserviente gobba arrivava dalla sorgente con duesecchi d’acqua.

Eppure Piero stava tremando, Giovanni apriva la finestradella camera che dava sulla piana e vi si appoggiava e a casaloro i figli del giudice spalmavano marmellata sui crostini dipane da mettere nel caffelatte.

La sera era piena di grilli, sera di luglio, che innalzavano colloro frinire gli odori della terra calda.

L’intera compagnia faceva piccole passeggiate attorno ilpaese, tutti a braccetto occupavano la strada, e si fermavanoquasi ad ogni passo dividendosi e riunendosi ancora; qual-che ragazza canterellava e la Luciana guardava Piero con gliocchi azzurri sorridenti come per dire che se lui l’avesse ba-ciata quello sarebbe stato un ricordo. L’anno prossimoavrebbe avuto diciott’anni e forse non l’avrebbe più guarda-to a quel modo.

Anche la Lina mi guardava a quel modo alcuni anni dopo,in un altro paese di montagna, alla sera vicino al laghetto; leiguardava pensando che ero bello. Lina, ricorda ricorda, cheero bello e tu eri una ragazzina con la treccia e mi prendevi lamano quando io l’avvicinavo ai tuoi seni Lina, Lina ricorda,Lina ricorda.

Eppure la vita era lì.Io ora sono qui, invece.Quanta roba è attaccata al corniolo, accanto al mio tredi-

cesimo anno.Chissà quanti anni sono appesi qua e là, in montagna in

collina, un mucchio di mesi di luglio,con gli oggetti adoperati, abbandonatiaccanto ad un albero, ad una siepe, aduna fontana, e le vacche passano accan-to, li pestano o li coprono di grossi resti.Poi i resti se ne vanno con la pioggia e laneve e il sole e lì restano ancora ancora,un pezzetto di vetro di un termos rotto,il rocchetto trasformato in carro arma-to, una voce.

[...] Forse qualche amico verrà a tro-varmi? Giuseppe? Può darsi, ancheGiorgio, magari tutti i miei amici ver-ranno, io li saluto anche se non ci sono,do la mano e sorrido un po’ a tutti per-ché essi mi fanno sempre piacere, anchese non li vedo e non so quando vengono,o quando vanno.

Anche Antonio verrà, mancherà soloFranco che verrebbe di certo se non fosse sepolto lassù al suopaese, coperto di neve per tre quarti dell’anno e di erba mi-nuta per l’altro quarto. Lassù non si usa la lapide e la fotogra-fia e così c’è soltanto il nome scolpito su una robusta croce inlegno. Si può trovare subito il suo posto poiché ci saranno intutto quindici o venti croci. Lui è già là da un pezzo, la crocesi sarà scrostata dalla vernice; ben pochi, se non quelli del suopaese, andranno ad arrampicarsi fin là, poiché manca unsentiero, come manca un recinto. Cosicché d’estate ci va sol-tanto chi conosce la strada e che ha gambe robuste e per tut-to l’inverno non arriva anima viva.

Per chi deve essere sepolto in inverno c’è un altro piccolocimitero accanto alla chiesa che è stato costruito da poco permaggiore comodità. Ma gli abitanti di quel paese sonoprofondamente attaccati al cimitero alto e non vogliono sa-perne di quello accanto alla chiesa.

Io sono andato anche durante l’inverno fino alla tomba diFranco o per lo meno in un luogo vicino, lì ho piantato gli sci,ho mangiato, ho lasciato il mazzetto di fiori di sua sorella euna bottiglia vuota, in mezzo alla neve.

Franco mi accompagnava dappertutto, io e lui eravamo

sempre in giro per i monti d’estate e d’inverno. Giuseppe,Antonio, Giorgio, è finita. Dove andate ora?

Nella valle ci sono ancora i pastori che mungono latte di ca-pra e potremmo farcene dare una scodella. I pastori dentrola capanna mangiano silenziosamente grandi ciotole di lat-te e riso e qualcuno è già sdraiato nelle larghe cucce di fogliecostruite accanto al fuoco, una sopra l’altra; in un altro latodella capanna sono appese delle ampie pentole di ramespesso, sacchi di farina e una grande quantità di formaggi fre-schi. Le pecore e le capre entrano nella capanna, annusanoe nessuno dei quattro pastori seduti si muove o fa qualcosaper cacciarle via. Aspettano tutti in silenzio che il latte si raf-freddi e che noi ce ne andiamo.

Guardano con occhi infantili e curiosi tutto quello che fac-ciamo e quando io mi avvicino al formaggio ancora liquidonei recipienti nel loro sguardo noto il sospetto.

Giuseppe dà loro delle sigarette, ed essi le prendono sen-za dire una parola, le accendono subito alla fiamma e le fu-mano in silenzio sempre seduti sulle panche senza abban-donarci con lo sguardo, un vecchio che mescola il latte sulfuoco fa cenno di no quando Giuseppe fa per dare anche a luila sua sigaretta.

Quando ce ne andiamo chiudono la porta e la spranganoparlando sottovoce dal di dentro, poi quando ci siamo allon-tanati di un bel pezzo riaprono pian piano e restano sull’u-scio a guardarci.

Un ragazzo getta dei sassi verso di noi ridendo e gridandoforte ed il cane correndo in direzione dei sassi lanciati dal suopadrone cerca di raccoglierli annusando e ringhiando.

Ora i pastori sono rientrati e dalle loro cucce spiano attra-verso gli spiragli della capanna, pieni di sospetto, finché nonavremo varcata la valle e saremo spariti dietro le rocce.

Eppure la vita era lì. Io orasono qui, invece. Quanta

roba è attaccataal corniolo, accanto al miotredicesimo anno.Chissà

quanti anni sono appesi quae là, in montagna in collina

“Io, morto che non muore”Le pagine segrete di PariseGOFFREDO PARISE

I movimenti

remotiRepubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 6MAGGIO 2007

Giuseppe ed Antonio sono impressionati dalbuio che sta infiltrandosi nelle gole e che ha già in-vaso tutte le valli sottostanti; ogni galleria od anfratto diroccia che sono costretti ad attraversare si fermano, bisbi-gliano fra loro e accendono una candela che reggono conti-nuamente in mano, ed io cammino ad una breve distanza daloro, mi fermo a guardare le due fiammelle che si accendonoe si spengono o rasentano tremolanti e caute un sentiero sco-perto. Non vedo dei miei amici che le loro ombre nere che sidistinguono sulla pietra e odo le frasi sussurrate e i sassi cheFranco fa rotolare ridendo in fondo alla valle.

La valle cupa e la strada che non finisce mai fa stare tutti insilenzio e c’è chi pensa a casa sua, chi alla pista di pattinag-gio, chi ai ladri nascosti nelle gallerie, chi all’acqua non po-tabile e chi a nulla. Improvvisamente quando nessuno cipensava più la strada si apre e la capanna è a due passi, tutti

co-minciano a par-lare, ad accendere candele,ad aprire porte, a tirar fuori coperte e sten-dersi per terra, in breve tempo regna il silenzio ed iocon le mani sotto la testa tendo l’orecchio ad ascoltare deicolpi battuti non so dove, ad una porta o ad una finestra.

La nebbia è così densa che non ci si vede ad un passo, en-tra dalle finestre che in mancanza di vetri si devono lasciareaperte e riempie la stanza di fumo freddo.

Gli altri vanno a raccogliere quello che si può trovare dipiante e di foglie per dormirci sopra, io e Franco andiamo

fuori a camminare per liberarci del freddo. Troviamo per ter-ra dei bossoli di fucile, delle pallottole coperte di una patinaverdastra, molte ossa marce sepolte dai sassi. Franco ne rac-coglie quante può e mi accompagna in una piccola grotta do-ve ce ne sono molte altre; la chiude una porta di ferro com-pletamente arrugginita e che si apre e si chiude con molta dif-ficoltà. Franco è uscito e temo che mi chiuda dentro, tuttavianon faccio un passo per andar fuori, quel mucchio di ossanon è molto diverso da un mucchio di pietre della stessagrandezza ma nel fondo oscuro della grotta dove sono collo-cate sembrano nascondere una chiarezza insolita netta-mente distinta da quella delle semplici pietre.

Una lepre corre velocissima, in mezzo ai sassi ed alle siepibasse, inseguita da un cane, che persala di vista si ferma quae là ad annusare e ridiscende verso valle abbaiando senza se-guire la strada attraverso i prati scoscesi.

‘‘Nella bocca aperta ristagnaancora l’ultima parola

del mondo,così è la bocca qui dentrounirsi a quelli che vanno,

la carne si è staccata tutta finoalla fine gocciolando

nel fondo del cofano, non le forzesgorgate come un brivido

dentro un altro corpo,non le gocce calde

dell’essenza umanaIl liquido della stupidaconformazione molle,

palpitante,retrattile che era il mio corpo

si sparge nel fondo del cofano,a disseccarsi

il liquido che contiene,dissolto e confuso, il prodotto

di incomprensibilimovimenti remoti, di apparizioni

remote, di suoni remotinon resta che unirsi a quelli che

vanno, a quelli che come me vanno

e l’andare non comincia e nonfinisce

a nessuno si dice addio, nessuno-dire-addio, movimenti remoti

della boccai sentimenti

sono ancora movimenti remoti,scivolati anch’essi nel fondo

del cofano assieme a quella partedi carne che ci determinava

in attimi remotie il cielo, le foglie, una pietra,che cosa che cosa vuol dire?soltanto l’andare con quelli

che vannonessuno vede, nessuno tocca,

nessuno ode

IL LIBRO

I movimenti remoti è stato scritto nel 1948,

quando Parise aveva da poco compiuto

diciott’anni e viveva in una condizione

di totale isolamento. Il manoscritto (di cui

riportiamo in queste pagine due brani e una

poesia) era stato dato per perso per oltre

cinquant’anni, anche dallo stesso autore

che ne aveva un ricordo

impreciso. Ricomparso

misteriosamente

da qualche mese e custodito

nell’Archivio Parise di Ponte

Piave, viene ora pubblicato

da Fandango Libri con un saggio

introduttivo di Emanuele Trevi

(104 pagine, 15 euro, in libreria

il 18 maggio). Il volume sarà

presentato alla Fiera del libro

di Torino sabato 12 maggio

alle 16 con interventi di Andrea

Cortellessa, Silvio Perrella

ed Emanuele Trevi

Sempre in questi giorni

ha aperto a Mantova

una mostra di Giosetta Fioroni

(che ha concesso

i suoi disegni dedicati a Parise per queste

pagine) dal titolo I movimenti remoti: sono

16 cartelle intelate che si ispirano all’opera

dello scrittore vicentino che fu anche suo

compagno nella vita. La mostra è allestita

da Maurizio Corraini, via Ippolito Nievo 7/a

fino al 7 giugno (www.corraini.com)

L’ARTE DI GIOSETTA FIORONIIl disegno grande

è un ritratto a colori

di Goffredo Parise

In questa pagina

dall’alto, una foto

dello scrittore a Vicenza

nel 1949; un disegno

ispirato ai Movimentiremoti; un altro ritratto

dello scrittore

e un disegno del 1985

di Giosetta Fioroni,

Parise e l’amato Petote

‘‘

Repubblica Nazionale

Disegni, statue di santi, bozzetti e ritratti raccolti in quasi ottant’annied esibiti nella sua casa-rifugio. La casa colma di stravaganzedell’artista che non rinnega

nulla del suo lavoro “en travesti”.Perché lui capocomicocresciuto tra le donne non ha mai accettatocompromessi nella vita e tantomeno sul palco

ROMA

La statua lignea policroma di santa Cecilia a grandez-za naturale, sfolgorante come la santa Rita da Casciache lui stesso ha impersonato e sublimato in annieroici della carriera en travesti, l’ha acquistata da un

antiquario romano di zona, nei dintorni della sua via del GovernoVecchio, e ora è lì che domina al centro d’un salotto frugale. Lapoesia d’infanzia che un compagno di classe gli scrisse con bellacalligrafia rotonda ai tempi della prima media, con complimentie trasporto inoppugnabili, è affissa in una parete di cimeli checompongono una tappezzeria d’ex voto in cucina. Nel lindo ca-veau mangereccio foderato di disegni, caricature, bozzetti, docu-menti ortografici e reliquie cartacee varie, spiccano anche due ri-tratti-acquerello che lui compose per fissare i contorni della so-rella Lucia bambina. E su un altro lato di questo muro da can-tastorie ecco un’intera collezione di acquerelli di An-na Anni che illustrano episodi e cicli di ammazza-menti di sovrani ad opera di anarchici. Con a fianco,per rimanere in tono con la cambusa d’un single im-maginifico, un olio con cesto di fichi di Tirinnanzi(allievo di Rosai), e una bambolina sotto vetrocreata con la stagnola dei panettoni, un souve-nir plasmato a mano da Isa Miranda quandonon stava più bene. E sempre all’insegna deldivismo promosso a icona, più in là ti ritrovidavanti Lillian Gish illustrata da Garretto.

Passando per il corridoio-vestibolo che è tutto untazebao frammentario e folto di quadri, si va nellastanza degli ospiti, e il catalogo d’affezione, al di làd’un gioioso poeta grafico come Lele Luzzati arte-fice di tavole zodiacali, e d’una bidimensionaletesta di cavallo riprodotta su seta (e regalata) dal-lo stesso De Chirico, spazia molto di più nell’og-gettistica: feticci, totem, tutta una serie di fantoccifemminili di anomalo biscuit (made in Norimber-ga) e inconsueta tornitura (bambole di GabriellaSaladino riproducenti bambini appena nati),creature disposte a schiera, a cumulo, a gruppipluri-gemellari. E via ancora dicendo, elen-cando, accostando, esibendo, omaggiando,testimoniando. Ma il vero museo delle raritàe la vera galleria delle trouvaille non classifi-cabili è il corredo infinito di commenti, di di-squisizioni a margine, di pedigree di cui è ca-pace — e istintivamente orgoglioso — il pa-drone di casa, il Virgilio che accompagnanei gironi immobiliari, mobiliari e so-prammobiliari della propria commediaumana, l’ineffabile Paolo Poli. Il Poli che siautodefinisce “ballerina di fila”, che haimpeccabilmente settantotto anni, che èuno degli artisti capocomici più seri, tra-volgenti e avveduti del nostro Paese, e che vi può seppellire col suopatrimonio di parole.

Chissà quante angherie affettuose avrà subito da piccola, aitempi dei ritratti, la sorella attrice Lucia... «Ah sì, cresceva come unBambi, e io la convinsi a portare scarpe basse, calzettoni bianchie capelli corti da uomo, ma poi un bel giorno a scuola finì per pian-gere e non volle più seguire i miei consigli, a costo di mancare dibuon gusto. Noi avevamo genitori nati nell’Ottocento, laici, anti-clericali, e mamma per citare una nostra dote parlava di “bernoc-colo”, avendo in mente, io penso, Cesare Lombroso. Mi ricordo diquando la portai a vedere il film dove la Magnani era Anita Gari-baldi, e lei, mamma, fu poi contenta che la Magnani, quando morì,venne sepolta nella tomba di Rossellini, perché per lei il binomiofunzionava come Coppi-Bartali, anche se io le rispondevo cheCoppi e Bartali non trombavano».

La figura paterna gli è rimasta un po’ meno impressa nella me-moria. «Beh, lui è morto che io avevo sedici anni. Era un carabi-niere semplice ma intelligente, scriveva poesie, suonava il violi-no, forse aveva qualcosa d’effeminato». Una gioventù, quella diPoli, tutta segnata da tutele e attenzioni di donne. «Mettiamocipure l’asilo dalle monache che mi sbaciucchiavano, poi la mae-stra montessoriana, le compagne ragazze vestite italianamente inbianco, rosso e verde con me in divisa da Balilla, il mito della prin-cipessa Maria Josè del Piemonte, il grand’uso di talco da portaci-pria per la mia prima recitina scolastica quando feci il Conte d’Al-bafiorita ne La locandiera».

Non c’è traccia, sulle pareti e sui mobili di casa, di un album per-sonale, di una galleria di immagini di gioventù, di un portfolio dipersonaggi da lui interpretati. Ma alcune foto (solo evocate, rac-contate) sono alla base del suo primo fortunato ingresso nel mon-do dello spettacolo. «Alla Rai di Firenze, dove lavoravo dando vo-ce a fiabe dei Grimm, mi fece alcuni scatti Zeffirelli, e io, sollecita-to da un amico, trovai poi il modo di sottoporre il materiale a Ci-necittà, dove mi presero. Non avevo il telefono, e nel 1953 mi man-darono un telegramma per chiedermi di recitare in francese ne Ledue orfanelle sostituendo Mario Girotti alias futuro Terence Hillche s’era ammalato». Di lui, di Poli, Zeffirelli ha scritto nelle suememorie «ci faceva molto ridere». Quando gli chiediamo comemai non scriva lui stesso un’autobiografia che sarebbe enciclo-pedica, raffinata, beffarda e al curaro, lui taglia corto citando Gu-stave Flaubert: «Le moi est aisable». Aggiungendo che non si so-gnerebbe mai di trattare ad esempio il tema dell’amore. «Scher-

RODOLFO DI GIAMMARCO

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6MAGGIO 2007

siderate luoghi d’arte unici. Basti dire del Crocifisso rosa salmonedi Guido Reni a San Lorenzo in Lucina. In fondo Ronconi fu ge-niale quando concepì l’Orlando Furioso a stazioni, come una pro-cessione di preti. E io non mi dimentico mai d’aver fatto Gesù inun Venerdì Santo su una collina vicino Firenze, negli anni Cin-quanta: coi boccoli d’una parrucca bionda, molto poco virile, conaccanto Marisa Fabbri che era San Giovanni».

Lo guardo e non finisco di stupirmi: Poli parla di sacro e profa-no con la stessa leggerezza degli anni Settanta/Ottanta, con lostesso agile physique du rôle, con lo stesso sorriso sapiente e irri-dente, con lo stesso disegnare i concetti nell’aria con le mani, conla stessa cera di “Ariele fantasista”, “Dorian Gray in frac”, “vedet-te dell’intelligenza” o “omo di garbo”. Ma l’età per uno come lui èdavvero un optional? E la cosa ha a che fare con le sue scelte di vi-ta? «Oddio, non ho mai fatto i conti con malattie importanti. L’u-nico guaio l’ho avuto a gennaio scorso quando, abbastanza ubria-co, sono scivolato a terra danneggiandomi l’osso di un polso, coningessatura durata quaranta giorni. Altrimenti King Kong è il mioideale. Non nel senso d’una mia proiezione maschile. Una fidan-zata la ebbi, anche se per poco, negli anni Cinquanta, una fioren-tina che ora è sposata con figli. Lei era l’uomo, io la bambina. Ledissi: «Figliola, non aspettare me». Io credo d’essere adorabile co-me terzo sesso. Sì, un tempo si prendevano in giro i finocchi ma indefinitiva si reclamizzava l’argomento. E anche uomini insospet-tabili erano dell’altra parrocchia. Per me non c’è stato mai un ter-ritorio esclusivo. Ho ceduto anche al camionista più efferato. For-se ho la stoffa dell’enfant terrible, e non mi scandalizzo se oggiSgarbi, come è accaduto al Teatro Carcano di Milano, mi parlascherzosamente di “froci e culattoni” imbarazzando i lì presentiFazio e Serra. Diciamo che molti vedono in me la maschera e l’at-trice, per dirla con Mishima».

Alieno a un culto dannunziano delle scritture, delle foto, dellelocandine e dei carteggi, capace di mettere assieme solo fram-menti d’arte curiosa, lesto a ricostruire piuttosto a voce il propriopassato prossimo e remoto, e incline alla battuta socialmente di-struttiva, Paolo Poli non ha un archivio di reperti che lo rappre-sentino in tutto e per tutto, ma può far balenare con la sua orato-ria al fulmicotone una storia d’Italia dei pubblici alla deriva («Aparte i giovani sempre graditi, c’è stato l’avvento delle spettatricistrappone, poi dei gruppi con casalinghe leader, poi dei dipen-denti in branco, poi delle vecchie con calze elastiche...»), dell’Ita-lia delle figure che contano («Vero Dio e vero uomo è Franca Vale-

Nel caveau dei ricordi più sacri

ziamo? Sarebbe come mettere lo sperma di seminaristi in unaboccettina. Non lo ritengo utile. Tanto più in quest’epoca delleprovette».

Gira e rigira, fa spesso un cenno alla categoria dei preti. «Uno deipochi rammarichi è di non aver portato in scena Il Vicario di Ho-chhuth. Per la parte di Pio XII mi sarei fatto un naso finto. Inten-diamoci, ho adorato Giovanni XXIII, uno che andava a ReginaCoeli per vedere come mangiavano in prigione. Credo che contimolto la mia abitudine d’andare nelle chiese, da me sempre con-

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 6MAGGIO 2007

ri, maestra insuperabile: con lei si potrebbe attraversare e ripas-sare un’ampia parabola del teatro, e anche del cinema»), dell’Ita-lia degli amici più o meno ideali («Come Gozzano, direi che le ro-se che non colsi mi sono piaciute di più»), o una storia d’Italia del-le memorie ispirate alla letteratura («Vince il finale dell’Educazio-ne sentimentale di Flaubert: i due protagonisti si chiedono in etàmatura quale sia stato il momento più bello della loro giovinezza,e ripensano a quando avevano messo i soldi da parte per andareal postribolo per poi scapparne via, ossia: sognare, prevedere e

non consumare»), ma anche una storia d’Italia attraverso le espe-rienze tutte sue, nel bene e nel male («Ero morbido, e mi beccavole confidenze di tutti, andavo a comprare i preservativi per gli al-tri, facevo il postino. Sono resistente, e mentre mi muoiono un po’alla volta gli amici sento il vuoto attorno, ma meglio la solitudineche il chiacchiericcio inutile. Sono un intellettuale scarso, e pur-troppo per questo non piacevo a Pasolini, che con quelli come mesi annoiava, e preferiva quelli senza studi, i figli della natura. Sonouno che ha bisogno di lavorare, e feci una brutta riduzione della

Rosmunda dell’Alfieri, apprezzando che Sanguineti reagisse conun «Che vergogna!». Sono uno che non si vergogna, e a mia sorel-la Lucia, quando ha coabitato con me, e io attendevo la visita d’unuomo con cui trombare, dicevo “Vai al cinema o chiuditi in un ar-madio, che sta arrivando un mostro»). Comunque, malgrado leapparenze, Poli non vuole provocare a tutti i costi. Sarebbe trop-po banale. E infatti sfoggia quel suo impeccabile sorriso a trenta-due denti e conclude, quasi in un soffio: «Che poi fingiamo d’i-gnorarlo, ma il vero sesso non è mai tra le gambe. È nel cervello».

IL CARAVANSERRAGLIOAl centro, la statua lignea di Santa Cecilia

che troneggia nel salotto di casa Poli. Da sinistra

a destra, in senso orario: l’acquerello che ritrae la sorella

Lucia da bambina; due quadri della collezione dell’artista;

il bozzetto di un film di Marcel Escoffier; uno dei simboli

zodiacali di Emanuele Luzzati; la poesia dedicata all’attore

da un suo compagno di classe in prima media;

la bambola di stagnola creata da Isa Miranda; il segno

dei gemelli firmato Luzzati; e, infine, la foto della sorella

Lucia incinta. Nella pagina accanto Paolo Poli

ne Il Ponte di San Luis Rey

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i saporiNatura in cucina

Nato per restituire “pulizia e dignità” al cibo, il biologico convinceoggi soprattutto chi desidera tornare al “sano-gusto-di-una-volta”Ma il mondo delle coltivazioni senza pesticidi, delle carni e dei formaggiprivi di additivi chimici è più complesso, come racconta qui una pionieradi questo modo antico e nuovo di produrre e consumare.Per scoprirlo bastavisitare una delle tante bio-aziende italiane, a partire da domenica prossima

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6MAGGIO 2007

BIO«N

on è com’è cucinato il pollo che lo rende buono,ma la vita che ha fatto». A sostenerlo Alain Ducas-se, uno dei guru dell’alta ristorazione mondiale.Perché le tecniche di preparazione possono mol-to, in termini di correttezza di cottura e sfiziositàdi preparazione. Ma se il pollo fa schifo all’origi-

ne, non c’è magia che ce lo restituisca buono e sano come dovrebbe esse-re. Il biologico è nato per restituire dignità ai polli. E non solo a loro.

«Buono, pulito e giusto», recita il manifesto della nuova eco-gastrono-mia stilato da Slow Food. Gli scettici del bio storcono il naso: mele un po’ammaccate, pomodori tristanzuoli, bistecchine risicate, pani da periodobellico. Senza dimenticare il prezzo, quasi sempre superiore ai prodotticonvenzionali. Sarà anche sano e politically correct, ma il gioco vale la can-dela?

Certo che sì. Anche perché il tempo delle mele tristi è finito: le campa-gne (oltre un milione di ettari di coltivazioni bio) cominciano a produrreper come vengono trattate (bene), gli allevamenti prosperano, le farine re-galano pani fragranti e squisiti. Insomma, il biologico (cinquantamilaaziende in Italia) ha smesso di essere buono solo nello stomaco, per di-ventare goloso anche sul palato.

Le differenze di gusto in alcuni casi sono addirittura eclatanti. Là dove isapori primari svettano perché natura ce li porta per mano, il bicchiere dilatte crudo, come mucca l’ha fatto, è da leccarsi i baffi, l’uovo sbattutomonta in un attimo, le fragole non pompate profumano di bosco. E poi lacoscia vigorosa di un pollo che ha corso sull’aia, la mortadella che non dàbruciori di stomaco, la scaloppina che non si restringe...

Bisognerebbe imparare ad assaggiare a occhi chiusi, per non farsi in-gannare dallo sguardo, naso in allerta e bocca pronta a scannerizzare i sa-pori. Chi ha passato i quaranta, ultima frontiera di infanzia a pane e mar-mellata, grazie al biologico potrebbe ritrovare odori e gusti sopiti da tem-po. Non a caso, i bio-clienti più fedeli — gli “heavy users” delle indagini dimercato, inseguiti da negozi specializzati e grande distribuzione — ve-leggiano intorno a quell’età, hanno istruzione medio-alta e sono convin-ti che mangiare bene incida sulla salute propria e dell’ambiente.

Eppure, malgrado il bio sia più bello che mai e quasi il cinquanta percento dei consumatori prediliga frutta e verdura biologiche, i consumi so-no inferiori alle aspettative. Così nei supermercati i prodotti bio invece diaumentare diminuiscono, con la sola eccezione della Coop, che vanta 325referenze (e in alcune sedi il bancone dedicato ai prodotti da forno intera-mente certificato bio), confortata da ottanta milioni di euro di fatturato.Nel manifesto pubblicitario, sotto la foto di un solido paio di mani conta-dine sporche di terra, si legge: «Gli unici additivi usati nelle nostre coltiva-zioni biologiche».

Il legame tra terra e cucina è coltivato come un bene prezioso nel mon-do dei bravi chef. Così, da Ducasse in giù, il biologico, certificato o tale gra-zie all’orto o alla cascina di famiglia, è molto popolare, dalle misticanze al-le carni. In pasticceria, lavorare farine senza additivi significa risparmiar-si allergie cutanee, gli agrumi non trattati sono indispensabili per prepa-rare le mitiche scorzette affondate nel cioccolato e per aromatizzare le cre-me. In gelateria poi la frutta biologica è garanzia di sorbetti leggeri, sani, aprova di bambino… Per meglio orientarsi nel bio-mondo, è appena statapubblicata la Guida alla spesa biologica di Nicoletta Pennati e RitaImwinkelried, gonfia di indirizzi certificati e meritevoli per il rapportoqualità-prezzo.

Dal leggere al fare: domenica prossima visita guidata alle bio-aziendeinserite nel programma di “PrimaveraBio” (www. icea. info). Un bel mo-do per scoprire i come e i perché dei controlli sull’agricoltura libera dallachimica, tra un bio-assaggio e una passeggiata lungo campi e filari rispet-tosi dei cicli di Madre Terra. Guai ai portatori di patatine aromatizzate.

LatteL’alimentazione (almeno sessanta

per cento di bio-foraggio fresco,

a partire dal trifoglio rosso),

arricchisce le qualità nutrizionali,

con un livello notevolmente più alto

di acidi grassi polinsaturi. Molte

aziende hanno allestito distributori

di “crudo”, non pastorizzato

MieleGli alveari vengono posti in aree

incontaminate, con grande

attenzione nelle operazioni

di smielatura e invasettamento

È escluso l’uso di antibiotici,

sostanze chimiche di sintesi,

zucchero, trattamenti. Le api

sono curate con essenze naturali

ConfettureRealizzate con frutta biologica,

lavorata in maniera naturale. Unici

conservanti consentiti, zucchero

(di canna) e limone. Altri

dolcificanti: succo concentrato

di frutta, fruttosio (zucchero

della frutta), succo d’agave

e di acero biologici

PaneSi usano diverse farine biologiche –

grano tenero, semola, kamut, farro,

avena, segale – molto spesso

integrali, macinate a pietra,

impastate con acqua leggera,

lievito naturale (lievito madre, pasta

acida), sale marino

Cottura ideale: nel forno a legna

CarniGli animali – possibilmente razze

autoctone – dispongono

di un’adeguata area di pascolo,

sono nutriti con alimenti biologici,

ogm-free. Le terapie sono,

a meno di eccezioni, di tipo

naturale. Il movimento fisico stimola

le difese immunologiche

La mia avventura con la biodinamica è nata da un dispiacere infantile, quan-do nelle campagne della nostra azienda notavo con dolore, verso maggio,che il possente corale delle rane nelle risaie si arrestava. Lo sapevo: erano sta-

ti messi i diserbi! La soluzione mi venne offerta quando scoprii, in un ospedale sviz-zero dove ero andata a curarmi, che le rane avrebbero potuto continuare a canta-re coltivando con il metodo biodinamico, che offriva vantaggi superiori sia per lasalute della terra sia per quella del consumatore. Così iniziò la grande avventura.Non fu semplice trasformare i terreni sabbiosi del Ticino. «Sulla parte bassa del-l’alveo non puoi che farci piantagioni di pioppi oppure abbandonarli per la cac-cia», mi diceva l’agronomo che gestiva l’azienda: «Anche nella parte più alta la ter-ra è così povera che senza additivi chimici si può combinare ben poco quando lìhai un ph di quattro...». Parole astruse. Che cosa diavolo era questo ph? Mi misi aconsultare libri e chiamai, per impostare questa nuova tecnica, un consulente te-desco.

Tra l’ironia del vicinato (che però la sera veniva a perlustrare l’evolversi delle col-ture) e la perplessità dei lavoranti, l’esperimento andò avanti. Era il 1974 e certeespressioni come “ecologia”, “biologico” e “biodiversità” si stavano diffondendoed entrando nel linguaggio comune. Così il riso Rosa Marchetti delle Cascine Or-sine venne conosciuto e ricercato e i nostri formaggi incontrarono il favore del pub-

Come Madre Terra comanda

mangiare

LICIA GRANELLO

GIULIA MARIA CRESPI

L’avventura cominciòcon il triste silenziodelle mie ranocchie

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Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 6MAGGIO 2007

itinerariMarco Columbroè appassionatosostenitoredel biologicoe proprietariodel bio-podere“Vesuna”, a sud

di Siena. Dal 21 al 24giugno, sarà testimonialdi “Sapor Bio”, primarassegna internazionaledi enogastronomiabiologica,nella sua Viareggio

Gaiole in Chianti (Si)La cooperativa

Placido Rizzotto,

nata dal progetto

“Libera:

associazioni, nomi

e numeri contro

le mafie”, cura

i terreni confiscati

Farine, legumi,

ortaggi, vigne: le produzioni seguono i precetti

della bioagricoltura e sono distribuite dalla Coop

DOVE DORMIREAGRITURISMO PORTELLO DELLA GINESTRA

Località Ginestra

Tel. 329-0565527

Camera doppia da 60 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARETAVERNA DEL PAVONE

Vicolo Pensato 18

Tel. 091-6406209

Chiuso lunedì, menù da 25 euro

DOVE COMPRARELIBERA TERRA (pasta, legumi, frutta)

Via Canepa 53, San Giuseppe Jato

Tel. 091-8577655

Monreale (Pa)Iacopo Fo cucina

e ha fondato

un piccolo paradiso

alternativo, dove

tutto è all’insegna

del biologico-

ecologico-naturale,

dalla cucina

ai materiali edilizi,

in linea con la vocazione bio della regione. Intorno,

quattrocento ettari di verde

DOVE DORMIREBIOAGRITURISMO LA GINESTRA

Località Santa Cristina

Tel. 075-920088

Camera doppia da 60 euro

DOVE MANGIARELIBERA UNIVERSITÀ DI ALCATRAZ (con camere)

Località Santa Cristina

Tel. 075-9229914

Sempre aperto, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREAZIENDA AGROBIOLOGICA GUINZANO

Località Santa Cristina 53

Tel. 075-920037

Gubbio (Pg)

VinoLa definizione corretta è vino

da viticoltura biologica

(la bio-vinificazione non ha ancora

una sua normativa). Contro

i parassiti della vigna, è consentito

l’uso di solfato di rame, silicato

di sodio e il microrganismo

trichoderma harzanium

OrtofruttaUn lungo elenco di divieti – niente

concimi, antiparassitari, additivi

volumizzanti (acido gibberellico),

trattamenti post-raccolta

(antimuffa e antigermogliativi)

– per garantire frutta e verdura

con più vitamine, più minerali

e più antiossidanti

PesceIl pesce pescato in mare

non può essere certificato

biologico. Si interviene

sull’acquacoltura, a partire

da avanotti selezionati da aree

marine incontaminate, nutriti

con bio-mangimi. Primo test,

al carcere della Gorgona

UovaLe galline ovaiole, come le loro

colleghe da carne, vengono

allevate secondo il metodo

estensivo, all’aperto – quattro

metri quadrati a testa – e nutrite

con mangimi biologici. Sono

contraddistinte dal numero

zero stampigliato sul guscio

OlioGli ulivi non subiscono trattamenti

chimici, antiparassitari e concimi

sono di derivazione naturale

Tutta la filiera – olivicoltori,

frantoiani, imbottigliatori –

è a regime biologico. Esiste

anche il bio-olio di semi (girasole,

lino, arachidi, noci o altro)

blico. Mio figlio Aldo, ormai adulto, prese in mano l’azienda. Dopo trentatréanni di lavoro le rese di cereali non sono molto distanti dalle coltivazioni con-venzionali, anche se il prezzo di produzione risulta più alto a causa della ma-nodopera più numerosa.

Ora si sta iniziando a comprendere che tutto è collegato. Questo è quantosuccede nell’agricoltura tradizionale: falde acquifere inquinate da diserbi chedi riflesso portano a costi sociali elevatissimi, terra vivente di microrganismi,batteri e funghi sterilizzata dai sali chimici e conseguente impoverimento ir-reversibile dell’humus, colture irrorate dai pesticidi tossici che annientano gliinsetti nocivi ma anche i loro predatori, le irrorazioni anticrittogamiche cheobbligano il contadino a portare la maschera per difendersi dall’insorgere dimalattie degenerative.

Oggi è più comodo coltivare la terra comprando al consorzio un sacchettodi sali minerali, è più comodo spruzzare gli anticrittogamici piuttosto che tro-vare nuove soluzioni per proteggere la frutta dagli insetti, anche se poi c’è il ri-schio di un cancro al polmone. All’orizzonte si affaccia il nuovo pericolo dellesementi geneticamente modificate, «così il nostro mais e la nostra soia avran-no rese più sicure», dimenticando che l’ingegneria genetica, ancora ai primipassi, potrebbe causare rischi quali la dispersione nell’aria del polline e il tra-

sferimento dei transgeni dalle colture geneticamente modificate alle erbespontanee.

La terra è diventata quasi materia morta. Mi chiedo quale salute portano al-l’uomo i prodotti che germogliano, crescono e maturano in questo ambientesterile? E quali sapori, quali profumi sprigionano i frutti e le verdure? Quale for-za di vita? Ora però c’è una priorità. È sorta la consapevolezza del cambiamentoclimatico. Un grande interesse si concentra sull’anidride carbonica conside-rata responsabile dell’effetto serra. L’agricoltura è l’attività che maggiormen-te contribuisce alla trasformazione della superficie terrestre e quindi è inte-ressata in modo determinante a questo processo poiché l’humus costituisceuna condizione “non-fossile” del carbonio: negli ultimi cinquant’anni, unquinto dei suoli agricoli è andato perso a causa di pratiche sbagliate. Su Re-pubblica del 28 aprile leggo: «In campo agricolo il novanta per cento della ri-duzione di emissioni di carbonio potrebbe derivare da un migliore utilizzo deisuoli». Un professore austriaco ha calcolato che se in tutto il mondo si prati-casse l’agricoltura biologica entro trent’anni il carbonio presente in eccessonell’atmosfera potrebbe essere fissato.

Anche altri aspetti sollecitano il diffondersi dell’agricoltura biologica e bio-dinamica. Il paesaggio, per esempio. Lo sviluppo del paesaggio è un obiettivo

primario del metodo biodinamico, nel quale vengono prese in seria conside-razione le relazioni reciproche tra colture, alberi, insetti, cioè la biodiversità. Èproprio il paesaggio uno degli obiettivi principali su cui deve puntare il nostroturismo per l’unicità della nostra arte e la grande varietà del nostro territorio.Cosa sarebbe l’Italia se non ci fossero i vigneti, le colline digradanti di olivi, ilprofumo di zagara negli aranceti del sud, i viali di cipressi, le pianure allagatedelle risaie che riflettono i filari di pioppi? Il turismo, inoltre, genera occupa-zione e indotto. Potrebbe essere una delle più floride industrie italiane, se pia-nificato e tutelato. Spero che nel mondo politico maturi questa consapevo-lezza. Un altro punto da ricordare è l’assetto idrogeologico del terreno. Il tagliodegli alberi, la cementificazione dei torrenti, la costruzione di strade, moltedelle quali inutili, distruggono il tessuto del terreno provocando catastrofi na-turali con enormi danni per gli abitanti e le casse dello Stato. Anche qui l’agri-coltura biodinamica potrebbe rappresentare una ragionevole prevenzione.

Concludendo: ma allora noi biologici e biodinamici siamo poi alla lun-ga davvero così antichi o scriteriati? Io non lo credo: perché la biodinami-ca cerca di unire la verità concreta del materiale con quanto di spirituale eincommensurabile vi è in natura. Un anelito verso la grande armonia uni-versale. Tutta poesia?

Proprietaria

con i fratelli

della millenaria

“Abbazia del buon

raccolto”, Emanuela

Stucchi Prinetti

è la battistrada

dei bio-vignaioli-

oleicoltori toscani

Sua l’idea di formare un polo bio-agricolo

che coinvolga le migliori aziende del Chianti

DOVE DORMIRELA FONTE DEL CIECO

Via Ricasoli 18

Tel. 0577-744028

Camera doppia da 95 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREBIOAGRITURISMO POGGIO ASCIUTTO

Via Montagliari 40

Tel. 055-852835

Menù da 35 euro

DOVE COMPRAREBADIA COLTIBUONO (con cucina e camere)

Località Coltibuono

Tel. 0577-749479

Repubblica Nazionale

le tendenzeInterno casa

L’illuminazione dell’abitazione o dell’ufficio non è piùsolo un problema di benessere e di estetica. La crisienergetica e i rischi di black out costringono a ripensareforma e tecnologia delle fonti luminose.Così lampadinae neon si avviano alla pensione e salgono alla ribalta altriprotagonisti: più economici, longevi e perfino fantasiosi

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6MAGGIO 2007

AURELIO MAGISTÀ

PER PRECISAREFlessuosa grazie

al corpo d’acciaio

inguainato

in tessuto

colorato, Ledy

è una lampada

da tavolo ideale

quando

è necessario

orientare

con precisione

il fascio luminoso

Di Yaacov

Kaufman per Luxit

A LETTO CON TOSCAAsciutto rigore formale per Tosca,

interpretazione della tipica abat-jour

firmata Designwork. Sui comodini

del letto matrimoniale può essere

scelta in molti colori diversi

ma coordinati. Di Foscarini

Anno di grande caldo e di forti consumi elettrici, rischio di black out. Con la casasprofondata nel buio scopriamo l’importanza della luce artificiale, che riducia-mo abitualmente alla sua opposizione col buio. L’illuminazione è uno degliaspetti più trascurati quando si arreda l’appartamento. Invece è essenziale peril benessere e la qualità di lavoro e relax. Il problema non è solo dove collochia-mo le fonti luminose, ma anche quali tipi di luce scegliamo. Siccome la que-

stione è sottovalutata, facciamo un po’ di informazione di base con un piccolo ma aggiorna-to “bignamino” della luce. Aggiornato perché si è chiuso da pochi giorni Euroluce, l’appunta-mento di settore che si tiene ogni due anni all’interno del Salone del mobile e in cui vengonorappresentate le tendenze, le novità ma anche i risultati della ricerca tecnologica.

Dove mettere le luci? Le localizzazioni tradizionali sono a sospensione (sul soffitto), alla pa-rete, a terra, sul tavolo o sopra l’area di lavoro (per esempio, sui ripiani della cucina). Nel tem-po si sono aggiunte alternative come i faretti fissati su strutture portanti o tiranti, liberamen-te collocati, ma anche la ricerca tecnologica e la creatività hanno aperto nuove frontiere al po-sizionamento delle fonti luminose: tra le novità più interessanti, c’è la possibilità di incorpo-rare l’impianto in pavimentazioni trasparenti (vetro, plexiglass, resine) o alla base delle pare-ti, mentre il design propone sgabelli o altri mobili che integrano lampadine offrendo una nuo-va varietà di punti luce soffusa e riposante. C’è poi l’opportunità di dipingere le pareti convernici che si illuminano: una tecnologia futuribile non ancora commercializzata. Nell’atte-sa, il consiglio è di non ignorare i vantaggi della luce riflessa da pareti e superfici chiare.

E per i tipi di fonti luminose? Le più diffuse restano le lampa-dine a incandescenza, in genere con filamento, anche se nel ca-so particolare delle alogene il filamento è sostituito da un gas(iodio, xeno...). Inefficienza e consumi elevati sono i loro prin-cipali difetti. C’è poi la grande famiglia delle lampade a scarica,così chiamate perché una scarica elettrica ionizza un plasma digas che emette una radiazione elettromagnetica. La più diffu-sa della famiglia è quella al neon, la cui luce fredda e violenta,dopo la fortuna degli anni Sessanta e Settanta, è in declino.

Parlare di tipi di luce, comunque, non ha senso se non si con-sidera la questione dei consumi energetici, divenuta una prio-rità sociale e politica a causa dei black out che negli ultimi annisi verificano nel periodo estivo. La prima cosa da fare è orien-tarsi verso i nuovi tipi di lampade. Le fluorescenti, per esempio,che rappresentano un caso particolare delle lampade a scari-ca, perché la luce non è emessa direttamente dal gas ionizzatoma da un materiale fluorescente. Queste lampade vengono an-che chiamate “a basso consumo” proprio perché sono moltoefficienti e durano di più. Due qualità che ne compensano ilmaggior costo, tanto più che molti comuni prevedono incen-tivi o addirittura ne regalano un certo numero ai cittadini residenti.

Ma la vera, grande rivoluzione si chiama led. Non è una tecnologia così nuova (risale al 1962),ma sta conoscendo un vero boom per i suoi pregi. Acronimo di Light Emitting Diode, il led è ap-punto costituito da un diodo. I led sono piccoli, consumano pochissimo e hanno vita molto lun-ga. Un tempo potevano essere solo di colore rosso. Rappresentano l’ultima (per ora) evoluzio-ne della specie, articolata in diverse famiglie, tra cui gli oled (organici) e i pholed (fosforescenti).

Certo, resta vero che è inutile cambiare tutte le luci per migliorare l’efficienza energetica sepoi, quando andiamo via dall’ufficio, usciamo di casa, o cambiamo stanza, lasciamo gli inter-ruttori accesi. Il modo migliore per risparmiare energia, infatti, è eliminare i consumi superflui.Tanto più che, immersi nel buio come consigliano scienziati e astronomi della Internationaldark sky association (www. darksky. org), potremmo riscoprire la meraviglia del cielo stellato.

PAROLE E SAPORIMickey.5

è una lampada

da lettura e snack:

sulla pianta

è fissato

un piccolo tavolino

rotondo come

negli ombrelloni

da mare. Da notare

la base a tre piedi

Di Martin

Streitenberger

per Speedy

PIÙ SFUMATUREFerruccio Laviani

ha ideato Toobe,

lampada tubolare

da terra

o da tavolo

che, grazie

alla particolare

tecnologia

per la colorazione,

produce una luce

morbidamente

sfumata. Varie

altezze. Di Kartell

la nuova

LuceRivoluzione-led, che idea brillante

Repubblica Nazionale

50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 6MAGGIO 2007

‘‘

‘‘l’incontroDiva e antidiva

ROMA

La “bella tormentata” è il so-prannome che le hanno af-fibbiato. Vista da vicinoMargherita Buy bella lo è

senz’altro, tormentata assai meno, es-sendosi messa alle spalle da tempo il suocampionario di manie e il suo cliché disupernevrotica, di scontenta-fragile-confusa-ipocondriaca-afasica-proble-matica-insicura. Siamo nel salotto dellasua casa restaurata di fresco nel cuoreincantato del quartiere Coppedé, a po-chi metri in linea d’aria dal mitico Piper,che la Buy, schiva per vocazione, odiacon tutte le sue forze, se non altro perchéla sera non trova mai parcheggio: «Manon lo dovevano chiudere?».

Pantaloni di lino grigio scuro stropic-ciati, felpa di ciniglia in tinta, capelli le-gati con un elastico di spugna, non un fi-lo di trucco, Margherita Buy è il ritrattodel minimalismo, la testimonial idealedell’understatement. Non nasconde ilsuo sollievo: è alle ultime recite di Duepartite, la pièce teatrale scritta e direttada Cristina Comencini che oggi chiude ibattenti al Valle di Roma, in cui Buy reci-ta la doppia parte di madre e di figlia. Re-citare a teatro le costa immensa fatica:«Sul palco sei più sola che sul set, è statoper me un tuffo nel vuoto, avevo pauradi non essere in grado, temevo il panico,malori generalizzati, perdite di memo-ria, e invece è andata benissimo: ogni se-ra il tutto esaurito». Ma non farà altretournée: «Sarei in balia di una vita chenon è la mia, non sei libera di fare nien-te, troppi sacrifici, e poi ci vuole una sa-lute di ferro. Non sono portata. Forse infuturo, quando mia figlia sarà cresciu-ta».

Pochi quadri ma importanti, tinte

spente e severe nell’arredamento, bei li-bri, un grande vaso pieno di lilium bian-chi sul tavolo basso, il caminetto in pie-tra serena riempito di grandi candele epile di ciottoli. La tivù a cristalli liquidicon schermo ultrapiatto resta spessospenta. «La guardo poco. Guardo sol-tanto i film, il telegiornale ma solo all’o-ra di pranzo, e poi molti cartoni animatiassieme a mia figlia che ha sei anni, equelli mi piacciono tantissimo». Inutilechiederle dei reality e di certi program-mi di intrattenimento: «Sono disgusto-si, la gente è disposta a fare qualunquecosa per andare in televisione. Io mi ver-gogno per loro, per come si riducono,per la mancanza di dignità... È mortifi-cante. Io non vado mai o quasi mai intivù, mi dà ansia, anche perché credoche non serva a niente: la gente tiene ac-ceso ma non ascolta. E tu magari sei lì aparlare di un film per cui hai dato il san-gue».

Poca televisione ma molto cinema.«Uno dei film che mi è piaciuto di più ul-timamente è quello di Luchetti, Mio fra-tello è figlio unico: amo quella forma diracconto che ti fa riflettere e insieme la-scia spazio all’ironia».

Quanto l’aiuta nella vita di tutti i gior-ni ma anche nel suo lavoro il senso del-l’umorismo? «Molto. È una caratteristi-ca fondamentale che ho imparato a ri-conoscere subito negli altri. Una grandericchezza. Ma o ci nasci, altrimenti nonlo puoi coltivare... E mi fa tanta paura lagente rigida, che non riesce a ridere,quelli che non si lasciano mai andare».

Fra i registi con cui ha lavorato quelloche forse ha più humour è Nanni Moret-ti: «Mi sono divertita tantissimo quandoabbiamo girato Il caimano. Il suo è unumorismo molto sottile, raffinato, intel-ligente, in una persona di una serietà in-credibile: un vero stacanovista che lavo-ra dando tutto se stesso, con una con-centrazione formidabile che lascia peròspazio enorme all’ironia e al diverti-mento».

Arriva la governante con il vassoio delcaffè. Niente zucchero per Margherita.Le chiedo se è vero che è tanto pigra: «Sì,lo sono. Non ho mai fatto nulla, nem-meno una minima cosa in più rispetto aquello che mi è arrivato da solo. È unamancanza che ho avuto nei miei riguar-di, ma non mi sono mai sentita all’altez-za... Per esempio non ho mai investitoall’estero». Investito? «Ma sì, ho provatoad andare a Parigi, ma lì non ti regalanulla nessuno. Laura Morante peresempio si è molto dedicata, e ha fattodei bellissimi film. Ma più che pigrizia èun fatto caratteriale, mentale: io sono le-gata alle mie cose, ho paura della solitu-dine, del senso di spaesamento. Insom-ma: ci ho provato ma non ce l’ho fatta».

Oggi come agli esordi è un’antidivaper eccellenza: «Lo so, me lo dicono tut-ti, dovrei darmi più arie! Mi piacerebbevivere una giornata da diva, una solaperò! Girare su un macchinone, portarei tacchi molto alti, gli occhiali scuri dastar. Uno spirito dovrebbe entrare in me

Una delle sue attrici preferite è JessicaLange: «Grande, bravissima, con ruolimagnifici e affascinanti. Anche lei peròsi è deturpata completamente con lachirurgia plastica. Oddio: magari mi de-turperò anch’io. Qualcosa prima o poidovrò fare, ma qualcosa di poco invasi-vo. Anche perché io ho molta paura».

Ecco: le paure, le angosce, le fobie,dell’aereo, dei medici, del vuoto, deltempo che passa. I registi hanno trovatoin lei l’interprete ideale del disagio fem-minile contemporaneo, ma la Buy ne-vrotica, come dicevamo, è un cliché su-perato: «Ne sono uscita, fortunatamen-te. Ormai sono passata a un tipo di ruolidiverso. Vado molto forte come mogliecornuta, è la mia specialità». Da Morettia Ozpetek a Faenza è una moglie in crisiconiugale, segnata da abbandoni, tradi-menti, separazioni. Un altro cliché dun-que? «Beh, io ci rido sopra, non è che mici senta tanto a mio agio, anzi mi dà pu-re un po’ fastidio l’idea. Però devo pren-derne atto e farmene una ragione. Mipiacerebbe riscattare questa figura, lamoglie tradita, con un film tutto diverso.Magari dovrò scrivermelo da sola». Saràper scaramanzia, ma ha deciso di nonsposarsi, e con il padre di sua figlia, l’on-cologo Renato De Angelis, preferisceconvivere. «Sposarmi? L’ho già fatto unavolta, con Sergio Rubini, e mi è bastatoper tutta la vita. No, non credo al matri-monio, non ce n’è bisogno, a meno chenon ci si voglia tutelare economicamen-te».

Anni fa disse che non voleva diventa-re ricca. «Oggi ci ho un po’ ripensato.Ricca no, ma vorrei essere tranquilla.Questo è un lavoro talmente altalenan-te, il giorno dopo ti puoi ritrovare sottoun ponte a chiedere la carità. Io sono ter-rorizzata. Non ci so proprio fare con isoldi. Non li so gestire, non li so guada-gnare, non li so considerare una mercedi scambio, mi sento sempre in colpaquando li chiedo».

Che lavoro avrebbe fatto se non fossediventata attrice? «Ci penso sempre, tut-ti i giorni. Non lo so. Certo non sarei maistata in grado di continuare a studiare:ho sempre avuto problemi con la scuo-la, con le istituzioni, con gli esami. Nonso organizzarmi. Ci avrei messo anni eanni per finire l’università. Per indoletendo a essere depressa, e in questo sen-so credo che il lavoro mi abbia salvato.Quando lavoro sto benissimo».

Come l’ha cambiata la maternità? «Dauna parte mi ha dato una felicità im-mensa, dall’altra enormi responsabi-lità. Essere madre non è solo rose e fiori.Devi rappresentare una figura, un ruo-lo, cosa da cui io sfuggo nella mia vitaprivata». È vero che scriverà un libroambientato nella sua villa di famiglia?«Una casa meravigliosa, Villa Belluccio,vicino a Pistoia, una villa che meritereb-be una saga, dai tempi dei miei trisnon-ni. Ci sono passati tutti: guerre, occupa-zioni, le truppe napoleoniche, i tede-schi, gli americani... Sarebbe bello scri-vere un libro, ma io sono molto lenta

e possedermi. Ma solo per un po’: poidovrebbe uscire e andarsene. Non sonocerto lo stereotipo dell’attrice».

Che rapporto ha con la sua bellezza econ il tempo che passa? «L’altro giornomi sono rivista in un filmato in cui ave-vo vent’anni: ero carinissima. E pensareche non mi sono mai sentita bella, maineanche allora. Ho sempre avuto un di-sprezzo profondo per il mio aspetto fisi-co... Ieri sono andata da un dermatolo-go che mi ha detto: ogni minuto invec-chi, ogni secondo che passi seduta qui aparlare con me le tue cellule stanno in-vecchiando, ma con il tuo tipo di faccianon si può fare niente».

Gentile il dermatologo. «Io credo chela chirurgia plastica, quella che c’è oggi,dovrà migliorare. Credo che ciò che ve-diamo in giro sia frutto di una chirurgiaestetica ancora agli inizi, che dovrà di-versificarsi. Non sono ancora così bravi:fanno quello che possono, e quello chefanno non aiuta, anzi, ridicolizza».

nelle decisioni, una lentezza congenita.E poi la verità è che non so scrivere: nonho molta fiducia in me stessa».

Roberto Faenza, con cui ha girato Igiorni dell’abbandono, ha detto che leiera così ansiosa che arrivava sul set coldottore e una volta è persino svenuta.«Ma non è vero niente! Era lui che arri-vava sul set col dottore, certamente conlo psicologo. Un film durissimo, quello,una storia terribile: certo ero un po’preoccupata di non farcela. Ci aiutava-mo come potevamo. È un film che con lasua disperazione mi è rimasto addossoper mesi e mesi, ero come posseduta daquel senso di vuoto». Davvero arduo“ammalarsi” sul set senza lasciarsi con-tagiare.

Quanto è difficile fare ridere al cine-ma? «Molto, moltissimo, ben più diffici-le che fare piangere, come è noto. Ho im-parato quello che so fare da Carlo Ver-done. Quando giravamo Maledetto ilgiorno che ti ho incontrato mi ha inse-gnato certi trucchi, quanto sono impor-tanti i tempi comici, i ritmi giusti... Na-turalmente poi ci vuole anche un copio-ne».

Qual è il suo prossimo impegno? Si-lenzio. «Niente di niente. Il vuoto: sonoterrorizzata. Però in quest’ultimo annoho lavorato talmente tanto che è giusto,strategicamente, starmene ferma perun po’. Anche se sarà durissima. Ho ap-pena finito un film diretto da Silvio Sol-dini. Si intitola Giorni e nuvolee uscirà inautunno. Io sono la moglie di AntonioAlbanese, una coppia benestante, malui perde il lavoro e i ruoli si capovolgo-no. Una storia veramente drammatica».

Margherita Buy invece ha voglia dileggerezza. «Mi piacerebbe tantissimointerpretare un film veramente comicoprima di diventare troppo vecchia, chis-sà se riuscirò mai a farlo». Con quale re-gista? «Un sogno ce l’avrei, ma è vera-mente un sogno: con Woody Allen».

Mia figlia mi ha datouna felicità immensae anche una enormeresponsabilitàPer lei ora devorappresentareuna figura, ricoprireun ruolo, cosa da cuinella mia vitasono sempre fuggita

Le hanno affibbiato il nomignolodi “bella tormentata”, ma lei giuradi essersi messa alle spalle i ruolidi fragile-confusa-nevrotica“Ora - sorride - vado molto forte

come moglie cornuta”Un nuovo cliché che lacostringe in ruoli dolentie drammatici. Eppureha voglia di leggerezza:“Mi piacerebbeinterpretare un filmcomico prima

di diventare troppo vecchia. E il miosogno, ma è davvero un sogno,sarebbe girarlo con Woody Allen”

Margherita Buy

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LAURA LAURENZI

Repubblica Nazionale