omenica VIKTOR EROFEEV ePETER SCHNEIDER DOMENICA 22...

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il fatto L’impossibile ritorno della Guerra fredda VIKTOR EROFEEV e PETER SCHNEIDER il reportage Dharavi, il ventre del miracolo indiano FRANCESCA CAFERRI e PANKAJ MISHRA la memoria Il duello secolare tra la Cina e la Chiesa FEDERICO RAMPINI i luoghi La Foce, un giardino come sfida PAOLO PEJRONE spettacoli Gaber e il suo doppio, i taccuini segreti D. CRESTO-DINA, G. GABER, S. LUPORINI e F. MERLO le tendenze Mimetizzarsi per diventare visibili NATALIA ASPESI ATTILIO BOLZONI A scoprire quel blocco per appunti — che i tedeschi avevano catalogato dal numero 263617 al numero 263705 — è stato Ma- rio J. Cereghino, il ricercatore che da anni collabora con gli sto- rici Nicola Tranfaglia e Giuseppe Casarrubea. Nel dossier «Duce-Dokumente» ci sono le stampe fotografi- che degli ottantotto fogli a quadretti del manoscritto originale e poi altre ventotto pagine, una copia battuta a macchina da un te- desco. Una trascrizione imprecisa nella numerazione, come del resto nell’autografo di Mussolini. Semplici distrazioni, verosi- milmente, che abbiamo rispettato nella pubblicazione. Fra i «Duce-Dokumente» c’è anche una lettera di quattro pa- gine datata Ponza 2 agosto 1943. È firmata da Mussolini e ha un’intestazione: «La giornata del 25 luglio». È dedicata agli avve- nimenti della notte del Gran Consiglio e alle ore decisive del Du- ce nella giornata seguente. La colazione con la moglie Rachele, alle otto come ogni mattina a Palazzo Venezia, l’incontro nel po- meriggio a Villa Savoia con Vittorio Emanuele III. E poi un capi- tano dei Reali carabinieri che lo invita a salire su un’ambulanza «perché Sua Maestà mi ha ordinato di proteggere la vostra per- sona». Il Duce fa sapere che andrebbe volentieri alla Rocca delle Caminate, ma si accorge che la strada che stanno percorrendo «non è la Flaminia ma l’Appia». Un piccolo viaggio verso Gaeta, l’incrociatore pronto a salpare, l’isola di Ponza in lontananza, l’i- nizio della fine di Benito Mussolini. nelle pagine della Cultura brani dei diari di Mussolini e un commento di NICOLA CARACCIOLO DOMENICA 22 LUGLIO 2007 D omenica La di Repubblica I tormenti del Duce in un blocco per appunti. Tristezze e paure che affiorano in ogni ricordo, in ogni pensiero. Quei suoi giorni drammatici sono raccolti in ottantotto fogli a quadretti. È in pena quello che chiamavano fino a qualche anno prima «l’uomo della Provvidenza». Per la moglie Ra- chele, per i figli, per se stesso. È angustiato, abbattuto. «Il sangue, la voce infallibile del sangue mi dice che il mio astro è tra- montato per sempre», scrive. E rincorre con la memoria certi pomeriggi a Villa Torlonia, i suoi incontri con Hitler in Veneto, l’ultimo bombardamento di Roma, gli anni «solari» dell’Italia. Ogni sofferenza è accompagnata da un numero. Dall’1 al 75. È il diario della sua caduta. Una cronaca dal 25 luglio del 1943 al- la solitudine sulle isole del Tirreno. Prima a Ponza fino al 7 ago- sto, poi alla Maddalena fino al 27. Sono i Pensieri pontini e sar- di di Benito Mussolini. Quel suo manoscritto — che probabilmente è andato per- duto — era stato però fotografato pagina dopo pagina dai te- deschi e custodito in un sotterraneo del Ministero degli Esteri a Berlino. Le riproduzioni sono state ritrovate dagli inglesi nel maggio del ‘45, portate in Gran Bretagna e conservate ancora oggi — con altri 650 fascicoli sul Duce — ai National Archives di Kew Gardens nel Surrey, a sud di Londra. Carte classificate con la sigla GFM (German Foreign Ministry) e tutte inserite nell’«Italian Collection». i diari I National Archives inglesi restituiscono l’originale di un documento dato per perso: i “Pensieri pontini e sardi” scritti dal Duce dopo il 25 luglio FOTO A3 Mussolini della caduta Repubblica Nazionale

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il fatto

L’impossibile ritorno della Guerra freddaVIKTOR EROFEEV e PETER SCHNEIDER

il reportage

Dharavi, il ventre del miracolo indianoFRANCESCA CAFERRI e PANKAJ MISHRA

la memoria

Il duello secolare tra la Cina e la ChiesaFEDERICO RAMPINI

i luoghi

La Foce, un giardino come sfidaPAOLO PEJRONE

spettacoli

Gaber e il suo doppio, i taccuini segretiD. CRESTO-DINA, G. GABER, S. LUPORINI e F. MERLO

le tendenze

Mimetizzarsi per diventare visibiliNATALIA ASPESI

ATTILIO BOLZONIA scoprire quel blocco per appunti — che i tedeschi avevano

catalogato dal numero 263617 al numero 263705 — è stato Ma-rio J. Cereghino, il ricercatore che da anni collabora con gli sto-rici Nicola Tranfaglia e Giuseppe Casarrubea.

Nel dossier «Duce-Dokumente» ci sono le stampe fotografi-che degli ottantotto fogli a quadretti del manoscritto originale epoi altre ventotto pagine, una copia battuta a macchina da un te-desco. Una trascrizione imprecisa nella numerazione, come delresto nell’autografo di Mussolini. Semplici distrazioni, verosi-milmente, che abbiamo rispettato nella pubblicazione.

Fra i «Duce-Dokumente» c’è anche una lettera di quattro pa-gine datata Ponza 2 agosto 1943. È firmata da Mussolini e haun’intestazione: «La giornata del 25 luglio». È dedicata agli avve-nimenti della notte del Gran Consiglio e alle ore decisive del Du-ce nella giornata seguente. La colazione con la moglie Rachele,alle otto come ogni mattina a Palazzo Venezia, l’incontro nel po-meriggio a Villa Savoia con Vittorio Emanuele III. E poi un capi-tano dei Reali carabinieri che lo invita a salire su un’ambulanza«perché Sua Maestà mi ha ordinato di proteggere la vostra per-sona». Il Duce fa sapere che andrebbe volentieri alla Rocca delleCaminate, ma si accorge che la strada che stanno percorrendo«non è la Flaminia ma l’Appia». Un piccolo viaggio verso Gaeta,l’incrociatore pronto a salpare, l’isola di Ponza in lontananza, l’i-nizio della fine di Benito Mussolini.

nelle pagine della Cultura brani dei diari di Mussolinie un commento di NICOLA CARACCIOLO

DOMENICA 22 LUGLIO 2007

DomenicaLa

di Repubblica

Itormenti del Duce in un blocco per appunti. Tristezze epaure che affiorano in ogni ricordo, in ogni pensiero. Queisuoi giorni drammatici sono raccolti in ottantotto fogli aquadretti. È in pena quello che chiamavano fino a qualcheanno prima «l’uomo della Provvidenza». Per la moglie Ra-chele, per i figli, per se stesso. È angustiato, abbattuto. «Il

sangue, la voce infallibile del sangue mi dice che il mio astro è tra-montato per sempre», scrive. E rincorre con la memoria certipomeriggi a Villa Torlonia, i suoi incontri con Hitler in Veneto,l’ultimo bombardamento di Roma, gli anni «solari» dell’Italia.Ogni sofferenza è accompagnata da un numero. Dall’1 al 75. Èil diario della sua caduta. Una cronaca dal 25 luglio del 1943 al-la solitudine sulle isole del Tirreno. Prima a Ponza fino al 7 ago-sto, poi alla Maddalena fino al 27. Sono i Pensieri pontini e sar-di di Benito Mussolini.

Quel suo manoscritto — che probabilmente è andato per-duto — era stato però fotografato pagina dopo pagina dai te-deschi e custodito in un sotterraneo del Ministero degli Esteria Berlino. Le riproduzioni sono state ritrovate dagli inglesi nelmaggio del ‘45, portate in Gran Bretagna e conservate ancoraoggi — con altri 650 fascicoli sul Duce — ai National Archivesdi Kew Gardens nel Surrey, a sud di Londra. Carte classificatecon la sigla GFM (German Foreign Ministry) e tutte inseritenell’«Italian Collection».

i diari

I National Archives inglesi restituisconol’originale di un documento datoper perso: i “Pensieri pontini e sardi”scritti dal Duce dopo il 25 luglio

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A3

Mussolinidella caduta

Repubblica Nazionale

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28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 LUGLIO 2007

il fattoRisiko 2007

Gli Stati Uniti rilanciano lo scudo spaziale e progettano basinegli ex Stati sovietici. La Russia si ritira dal trattato europeosulle armi convenzionali. Il grande disarmo si è fermatoDue testimoni degli anni del Muro, entrambi fuori dal coro, ricordanoquando il mondo era diviso e riflettono su quanto lo sia ancora

a sud e a nord l’impero si sbriciola. Nonpuò riconquistare militarmente le zonedi influenza perdute, ma ha un’altra ar-ma a disposizione, scarsamente utiliz-zata ai tempi della Guerra fredda: im-mense riserve di petrolio e di gas da cuidipendono non solo gli ex Stati-satellite,ma anche gli Stati che formano il nucleodella vecchia Europa. Perché farsi pren-dere per il naso dall’Occidente? Gli Usaintendono installare negli ex “Stati fra-telli” dell’Unione Sovietica, come la Po-lonia e la Repubblica Ceca, uno scudospaziale contro i missili intercontinen-tali. Putin sospende il Trat-tato sulle armi convenzio-nali in Europa (Cfe), che im-pone limiti ai blindati, al-l’artiglieria e agli aerei. Lapotenza egemone dell’Oc-cidente si mostra sorpresa,commentatori allarmistiventilano già un ritorno aitempi della Guerra fredda.

Chi parla in questi termi-ni non sa che cosa è stata laGuerra fredda. Arrivai a Be-lino Ovest da ragazzo, nel1962, un anno dopo la co-struzione del Muro, e da al-lora sono rimasto. Il Muro,eretto letteralmente nellospazio di una notte, è stato asuo tempo definito, nonsenza motivo, il più odioso epeggior confine del mondo.Non solo dilaniò di colpocentinaia di migliaia di famiglie, non so-lo divise una città in due, segnò anche lademarcazione tra due sistemi politicimondiali, tra la democrazia liberale e ladittatura comunista. L’Occidente si è alungo cullato nell’illusione che questadivisione riguardasse solo la sovrastrut-tura politica e non le convinzioni degliindividui e la loro cultura quotidiana.Ma si trattava di un pio desiderio. Al-l’ombra del Muro si costruirono col pas-

Come è noto, la gigantescasperimentazione umanadel comunismo condotta inRussia, dopo circa set-tant’anni di durata si è in-terrotta. Lo sfidante ha per-

so la gara contro il sistema capitalisticoche si era prefisso di sconfiggere. Tutta-via il titolo di vincitore assegnato all’Oc-cidente non mi ha mai convinto del tut-to. Senza dubbio dalla caduta del murodi Berlino in poi il capitalismo ha vissu-to uno sviluppo mai conosciuto. Gli Sta-ti-satellite dell’ex Urss sono passati afrotte nel campo occidentale. Ma fortu-natamente non si è trattato di una vitto-ria per ko come proclamano esaltati ineocon americani. Il comunismo ha get-tato la spugna all’undicesimo o dodice-simo round, fiaccato dai suoi stessi cit-tadini. Molti lo hanno dimenticato: èstato un processo unico nella storia. Unapotenza imperiale (sovietica) maggioredell’antico impero romano, estesa qua-si quanto l’ex impero britannico, è usci-ta di scena senza colpo ferire. Gli Usa el’Occidente vincitori? Diciamo piutto-sto che sono sopravvissuti a questo sor-prendente duello tra sistemi senza spar-gimento di sangue.

Non meraviglia davvero che nel frat-tempo abbia fatto il suo ingresso sul pal-coscenico della storia un nuovo uomoforte, un karateka. La sfida ideologicaposta all’Occidente dal comunismo noninteressa Putin, che non farà rivivereuna battaglia già da tempo decisa. Siguarda intorno in ciò che resta della suasfera di potere, pur sempre un enormeimpero, e valuta le sue opzioni strategi-che. A occidente si vede circondato da exStati-satellite che ormai non prestanopiù orecchio agli ordini di Mosca. Anche

PETER SCHNEIDER

La nuova vecchia Guerra fredda

LA FOTO

Berlino, 1982Una coppiain costume giocaa pallone su un pratomentre a pochedecine di metrii carri armatifanno esercitazioniÈ una fotoche ha fatto storia di Gianni BerengoGardin (Contrasto)

sare degli anni diverse strutture di pen-siero e sensibilità in puntuale reciprocacontraddizione.

In occasione delle mie visite nella Ddrnel corso degli anni appurai che io e imiei interlocutori coetanei, per lo piùdissidenti, di Berlino Est reagivamoistintivamente agli stessi avvenimenti ealle stesse notizie in maniera diversissi-ma. Un esempio: Helmut Schmidt, allo-ra cancelliere federale, consigliò al suocollega della Ddr, Erich Honecker, di ac-quisire la serie televisiva americana Olo-causto trasmessa in Occidente. La pro-

posta mi trovava perfetta-mente d’accordo. Il mioamico di Berlino Est Tho-mas Brasch, tutt’altro chesimpatizzante di Erich Ho-necker, a questa notizia pic-chiò il pugno sul tavolo conuna forza tale da procurarsiun livido: «Ma ti pare che unex ufficiale della Wehrma-cht dia consigli a un com-battente della resistenza an-tifascista che è stato in pri-gione dieci anni per le sueidee!».

Di ogni avvenimento, diogni notizia, a sinistra e a de-stra del Muro esistevanodue versioni opposte: quelladei media dell’Ovest e quel-la dei media dell’Est. Natu-ralmente chi fruiva dei me-dia in maniera critica, te-

nendo alla propria opinione, non crede-va né all’una né all’altra versione e se neconfezionava una da sé. Tuttavia ne su-biva l’influenza. Le stesse parole, con-cetti chiave come “libertà”, “uguaglian-za”, “pace” non avevano lo stesso signi-ficato a sinistra e a destra del Muro. Undissidente che parlasse di “libertà” nellaDdr non intendeva affatto “libere elezio-ni”, ma piuttosto libertà di viaggiare, li-bertà di movimento. Il concetto di “pa-ce” degenerò nella Ddr a sinonimo diubbidienza allo Stato. Chi — come Tho-

mas Brasch — protestava contro l’inva-sione sovietica a Praga, si sentì chiederedurante gli interrogatori se non volessela “pace”.

Il contrasto con il sistema alternativoaveva però anche un che di illuminante.In mezzo a tutte le bugie che soprattuttoi media comunisti governati dallo Statoavevano la sfacciataggine di diffondere,c’era di tanto in tanto un granello di ve-rità, assente nelle cronache occidentali.Il fruitore critico dei media non avevamai l’illusione di ricevere un’informa-zione completa e poteva tenere le di-stanze dalle notizie veicolate dalle due otre agenzie che oggi operano in tutto ilmondo. Anche se non avrebbe scom-messo un centesimo sul futuro del siste-ma comunista, esisteva almeno una tesialternativa. Il capitalismo aveva concor-renza. Probabilmente chi ha guadagna-to di più da questa concorrenza e più haperso dopo il crollo del suo maldestroconcorrente è stato proprio il capitali-smo.

Di nuova Guerra fredda non si può na-turalmente parlare. Putin non ha da of-frire alternative al capitalismo occiden-tale, lotta per preservare e ristabilire ilpotere perduto. In realtà nel caso delnuovo dissidio con la Russia non si trat-ta della lotta tra due sistemi, ma di uncontrasto tra due diversi stadi del capi-talismo. La Russia pre-democratica,sempre più autoritaria, è consapevoledella propria forza e non intende farsidettar legge dal moderno capitalismodegli Stati industriali occidentali. Pur-troppo la vittoria e la sconfitta non han-no insegnato niente ai due antagonisti. Aparte gruppi marginali come Greenpea-ce e i no global, non c’è traccia di unanuova etica critica del capitalismo. I piùvocianti paladini di quest’etica sonoproprio i partiti comunisti dell’Occiden-te, moralmente del tutto inattendibili,che non si sono mai confrontati con ilfallimento mondiale del comunismo econ il loro passato stalinista: Die Linke inGermania, Rifondazione comunista inItalia e il Partito comunista francese.

Traduzione di Emilia Benghi

Stati Uniti

la spesa militaresostenuta

dagli Usa nel 2006

528,7mld $

le testate nuclearidispiegate

dagli Usa dal 1945

5045

le armi nuclearistrategiche Usa

nel 2007

4.663

i bombardieri Usaattualmente

a disposizione

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L’AUTORE

Peter Schneiderè uno dei più notiscrittori tedeschicontemporaneiNasce a Lubecca in piena guerramondiale e dal 1962,come raccontanell’articoloqui accanto,vive a BerlinoHa pubblicatouna ventina di libri,tra i quali il romanzoautobiograficoNemico

della Costituzione

(Feltrinelli)

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 22 LUGLIO 2007

aggressivo, capace di anticipare l’avversario(la Russia non ha mai più avuto leader comelui): escogitava sempre nuove forme di lottacontro l’Occidente, fondendo il cinismo eun’abile propaganda alla conoscenza delledebolezze della natura umana. Aveva orga-nizzato in tutta Europa un’incessante cam-pagna pacifista che dipingeva gli americanicome gli istigatori di un nuovo conflitto, fa-cendo sì che una parte considerevole dell’in-tellighenzia europea credesse ai suoi slogan.

“Cortina di ferro” è un termine teatrale. Lasaracinesca di sicurezza che si abbassa in tea-tro in caso d’incendio, sbarrando il palcosce-nico. Tutto il mondo si è trovatocoinvolto in una messinscenateatrale e ha avuto inizio un ac-cattivante reality show fatto dicorse agli armamenti, guerrelocali, conflitti psicologici. L’av-veduta America ha costruito incontrapposizione a Stalin il mi-to ideologico del mondo liberoe, grazie al piano Marshall, hasommerso l’Europa di dollariamericani. Sono dell’avvisoche, se l’economia statale so-cialista avesse potuto compete-re col liberalismo di mercato, al-la fine ad aggiudicarsi la vittorianella Guerra fredda sarebbestata l’Unione Sovietica. Ciònonostante, almeno fino alla ri-voluzione d’Ungheria del 1956,soffocata, com’è noto, dai carriarmati sovietici, la fulgida immagine dell’U-nione Sovietica, come della nazione che ave-va sconfitto Hitler, rappresentò un’autenticaminaccia per il mondo capitalista. A crederenell’esistenza dei Gulag erano solo dei fanati-ci anticomunisti che attaccavano le forze del-la sinistra europea.

Sono convinto che il comunismo reale sisia concluso in Russia con la morte di Stalin.Col Disgelo sono cominciate la corruzione, leconcessioni alla società dei consumi. Ricor-do come durante la mia adolescenza, tra-scorsa sotto il segno di Krusciov, l’apparizio-ne delle scarpe italiane fosse un fenomenoparagonabile solo al volo di Gagarin nel co-

smo. Di più: il cosmo era diventato accessibi-le all’uomo sovietico, mentre le scarpe italia-ne no. Stavamo per perdere la Guerra freddaperché collettivamente sognavamo i jeansamericani, la Coca Cola, il rock’n’roll, Hol-lywood, le canzoni dei Beatles. La leadershipsovietica si era ammorbidita, si stavano liqui-dando i Gulag, si era indebolita la censura let-teraria, veniva consentita la pubblicazione diversi con un sottotesto erotico. Da avanguar-dia del progresso sociale, da regno del prole-tariato ci stavamo trasformando in tristi imi-tatori. L’America faceva furore presso quellidella mia generazione e nulla è più pericolo-

so di un nemico ideologico chediventi attraente.

La nostra ultima fede nel co-munismo era legata a Gagarin ea Cuba, dopo rimanevano sol-tanto la grigia quotidianità e lelunghe code per la vodka e il sa-lame. Era una lenta agonia. Perla gioia degli americani, il go-verno sovietico commettevaun errore dopo l’altro. Aveva li-tigato con la Cina, spaventato ilmondo intero nei giorni dellacrisi caraibica, minacciandoun conflitto nucleare, avevaeretto il Muro di Berlino, am-mettendo di fatto la sua incon-sistenza politica e la sua debo-lezza economica. Breznev sistava trasformando rapida-mente in una macchietta poli-

tica. Lo sbeffeggiavamo pubblicamente, rac-contavamo barzellette su di lui. A governarcierano dei vecchi, amanti dell’adulazione,delle onorificenze, delle bande militari e delgioco del domino nelle lussuose dacie neidintorni di Mosca.

La Guerra fredda era il momento magicodell’Occidente. Al cospetto dell’impero so-vietico era pronto a esibire le conquiste delprogresso tecnico, che spianavano la via aicomputer. L’Occidente era dinamico, ag-gressivo, ingegnoso, ironico, baldanzoso.L’Occidente aveva fatto di Berlino Ovestun’allettante vetrina dell’edonismo. Dall’e-sempio dell’Unione Sovietica aveva persinotratto qualche lezione, cercando di attenua-re l’ingiustizia sociale. Durante la Guerrafredda aveva commesso a sua volta degli im-

perdonabili errori e tuttavia, paradossal-mente, l’aggressione americana al Vietnamera stata per l’Europa e per gli americani stes-si un avvenimento assai più doloroso che peri sovietici, indifferenti alle disgrazie altrui. Ri-cordo come noi studenti dell’Università sta-tale di Mosca ci burlavamo degli esili studen-ti vietnamiti, impegnati a cucinare pesce ma-leodorante: non c’era in noi nessun senti-mento di solidarietà.

«Il marasma cresce»: ecco qual è la formu-la più calzante per quegli anni sovietici. AlCremlino venivano accolti bizzarri reucciafricani, che si proclamavano comunisti echiedevano soldi per la rivoluzione, mentreal corso di addestramento militare s’impara-vano le sette ragioni per cui l’America non po-teva ritenersi una grande nazione (una con-sisteva nel fatto che laggiù era emigrata la fec-cia di tutti Paesi europei), c’era poi stata la Pri-mavera di Praga, la sua repressione e i decen-ni di stagnazione che si erano conclusi conl’assurda guerra (assurda sul piano politico)dell’Afghanistan.

Tuttavia l’Unione Sovietica ha perduto laGuerra fredda non tanto perché a vincerla siastata l’America ma, prima di tutto, perché ledonne sovietiche hanno cominciato a desi-derare di vestirsi bene e di dipingersi le labbracon rossetti francesi. La società degli anniSettanta si decomponeva irreparabilmenteal suo interno.

Quando all’inizio degli anni Novanta l’Oc-cidente si proclamò vincitore della Guerrafredda, non sospettava affatto che la perditadel suo nemico gli sarebbe costata tanto ca-ra. Come esito della vittoria perse la sua bal-danza, s’invischiò nel conflitto col mondoislamico, si burocratizzò in un mondo uni-polare e nei corridoi dell’Unione Europea aBruxelles. L’America, almeno inconscia-mente, prova nostalgia per la Guerra fredda.È probabile che la Russia di Putin, che si ar-ricchisce a dismisura grazie al petrolio e in-tende ridiventare una superpotenza con lesue rivendicazioni di sovranità nazionale,non del tutto comprensibili al mondo circo-stante, possa spingerla ad allenarsi di nuovonella vecchia arena sportiva per ritornare informa. Ma la Russia non ha più nessuna ideo-logia, né alleati. Il mio solitario paese è rosodal suo complesso dell’impero, ma questanon è ancora una premessa per un serio con-flitto. La guerra fredda non ci sarà.

Traduzione di Nadia Cicognini

«Siamo stati noi i primi a ini-ziare la Guerra fredda, «non faceva che ripetermi,non senza un certo orgo-glio, mio padre, VladimirIvanovic Erofeev, che dalla

metà degli anni Quaranta era stato assisten-te di Molotov al Cremlino nonché interpreteufficiale di Stalin durante le trattative coifrancesi. Dai suoi ricordi capivo come i pianinapoleonici di Stalin per assoggettare l’Euro-pa, fomentando insurrezioni comuniste,fossero maturati ben prima della fine dellaSeconda guerra mondiale. Di ciò, secondo leparole di mio padre, Stalin aveva parlatoapertamente al Cremlino durante i suoi col-loqui con esponenti del Partito comunistafrancese.

Mio padre era una piccola, ma essenzialepedina dell’ingranaggio della politica esterasovietica, che mirava a diffondere la rivolu-zione nel mondo. Non ho motivo di non cre-dergli. Da questo punto di vista il discorso diChurchill a Fulton del marzo del 1946, nelquale l’ex premier britannico affermava perla prima volta che una cortina di ferro era sce-sa sull’Europa — discorso che per molti sto-rici segna l’inizio della Guerra fredda — nonsarebbe stato che una tardiva, impotente rea-zione alle brillanti conquiste staliniane. Mez-za Europa ormai apparteneva a Stalin. Gli al-leati anglo-americani avevano confidato inlarga misura nel generalissimo trionfante,che di fatto aveva abbindolato gli amici-av-versari, proseguendo i suoi attacchi ideologi-ci, fondamento della Guerra fredda. Solo cer-ti popoli, dalla Polonia alla Bulgaria, avevanogià di che lamentarsi del comunismo sovieti-co, mentre tutti gli altri (e tra costoro moltifrancesi e italiani) continuavano a credere in-genuamente nell’utopia comunista.

Oggi si può affermare che l’indigente Euro-pa occidentale postbellica è sfuggita quasi permiracolo all’esperimento comunista. Stalinera un geniale stratega politico dal carattere

La solitudine della cortina perdutaVIKTOR EROFEEV

Russia

la spesa militaresostenuta

dalla Russia nel 2006

34,7mld $

le testate nuclearirusse dispiegate

dal 1949

5614

le armi nuclearistrategiche russe

nel 2007

3.340

i bombardieri russiattualmente

a disposizione

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L’AUTORE

Viktor Erofeev (Mosca1947) si è affermatoai tempi dell’UnioneSovietica come unodei più apprezzatiscrittori del dissenso,pubblicatoin Occidentee censurato in patriaIl suo romanzoLa bella di Mosca

(Rizzoli) è diventatoun best sellerinternazionale tradottoin 56 lingue. Erofeevvive e lavora a Mosca

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Repubblica Nazionale

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Nel discorso pronunciato a mezzanottedel 15 agosto 1947, nel momento in cuil’India conquistava la libertà dal domi-

nio coloniale, il primo ministro JawaharlalNehru dichiarò che il suo Paese aveva «un ap-puntamento col destino». Non si soffermò adefinire in cosa dovesse consistere quel de-stino, ma il concetto che aveva in mente eraben chiaro. Nehru dissentiva profondamen-te dall’aspirazione del Mahatma Gandhi didotare questo Paese prevalentemente agri-colo di un’economia rurale autosufficiente. Asuo modo di vedere, il dominio britannicoaveva ritardato la modernizzazione dell’In-dia, mantenendola sprofondata nella sua po-vertà rurale. Oramai il paese doveva impe-gnarsi sulla via dell’industrializzazione e del-

l’urbanizzazione, percolmare il divario chelo separava dall’Euro-pa occidentale e dal-l’America. Grazie a unsistema scolastico ba-sato su metodi scienti-fici e razionali, l’in-fluenza della religionee della superstizione sisarebbe attenuata; co-me già nei paesi occi-dentali sviluppati, l’a-gricoltura avrebbecessato di detenere unruolo primario, e le mi-grazioni di massa dallearee rurali ai centri ur-bani avrebbero resodisponibile una nuovaforza lavoro per il set-tore manifatturiero e iservizi.

Al pari di molti altrileader post-colonialidella metà del Ventesi-mo secolo, Nehru cre-deva che la moderniz-

zazione fosse alla portata di tutti. Era soloquestione di tempo: alla fine ognuno avreb-be potuto raggiungerla — nel senso di porta-re una cravatta, lavorare in una fabbrica o inun ufficio, andare a votare, pagare le tasse eguidare un’automobile. A sei decenni dallaconquista dell’indipendenza, sembra che ilprogramma di modernizzazione di Nehruabbia raggiunto un sia pur parziale successo.Grazie a un’economia protezionista e allesue strutture industriali, dal 1991 l’India èriuscita ad accedere all’economia globalesenza subire i gravi traumi che hanno scossola Russia e l’America Latina. Benché le misu-

re di riforma agraria siano state parziali, l’In-dia ha oggi l’autosufficienza alimentare; egrazie agli ingegneri ed esperti in softwareusciti dagli istituti scientifici e tecnici creatida Nehru, è ormai competitiva a livello mon-diale nelle tecnologie informatiche di punta.Con l’aiuto dell’outsourcing praticato damolte aziende europee e americane, l’econo-mia indiana cresce oggi a un ritmo del noveper cento l’anno.

Questo Paese, che nell’immaginario occi-dentale è stato a lungo immobile nella sua po-vertà e arretratezza, percorso da frequentiepisodi di violenza, penalizzato da un’econo-mia socialista inefficiente e da una dinastiapolitica in contrasto con la rivendicata de-mocraticità, appare oggi — per usare i termi-ni della rivista americana Foreign Affairs —come uno strepitoso esempio di successo ca-pitalistico, una sorta di «poster della globaliz-zazione». Spesso citata come «la più grandedemocrazia del mondo», agli occhi di granparte dei media e dell’intellighenzia Usa l’In-dia è diventata non solo una fonte di profittiper le imprese transnazionali, ma anche una

realtà capace di imporsi in senso esistenzialee ideologico.

Ma la rappresentazione di quest’identitànuova e ambiziosa non tiene conto delleesperienze laceranti e spesso tragiche di que-sto Paese nel suo sviluppo verso la modernità:la rivolta anti-indiana del Kashmir, costatanell’ultimo quindicennio più di ottantamilavite umane; la violenza negli Stati del Nord-Est, spesso ignorata ma non per questo menoaspra; o l’esodo di milioni di persone caccia-te dalle loro case in nome dei megaprogetti dicostruzione di dighe. L’agricoltura, che davalavoro al sessanta per cento della popolazio-ne indiana, è in uno stato di stagnazione chein questi ultimi dieci anni ha spinto al suici-dio più di centomila coltivatori. La malnutri-zione colpisce il cinquanta per cento deibambini indiani, e il sistema della scuola pri-maria è limitato alle aree più popolose delPaese. La miseria e l’assenza di prospettivedelle popolazioni rurali alimentano i movi-menti comunisti militanti, che esplodono intutte le zone del Centro e del Nord dell’India.

Le testimonianze più vistose delle crescen-ti disuguaglianze, che saltano agli occhi dichiunque visiti il paese anche solo di sfuggi-ta, sono le immense baraccopoli delle grandicittà quali Mumbai, Delhi e Calcutta, popola-te per lo più dai lavoratori sottopagati del co-siddetto settore “informale”, in rapida cresci-ta, creato nei centri urbani da un’economiaprivatizzata, in particolare nel campo dei ser-vizi. Si tratta generalmente di immigrati dal-le aree rurali, attratti in città dalla prospettivadi una vita migliore, che vivono ormai da an-ni, se non da decenni, in condizioni di estre-mo squallore, aspettando il riscatto dal mon-do moderno.

Spesso si sorvola su queste condizioni didegrado, liquidandole con spiegazioni chefanno riferimento alla storia europea: l’Indiasi troverebbe in una fase di transizione dall’e-conomia agraria verso un tipo di vita urbanoe un modello moderno di produzione e diconsumo, orientato prevalentemente ai ser-vizi, sull’esempio dell’Europa e dell’America;e la transizione sarebbe necessariamente do-lorosa, come lo è stata in Europa.

Questa la tesi delle élite. Di fatto però, cen-tinaia di milioni di indiani tardivamente ap-prodati al mondo moderno si trovano oggi aconfronto con i limiti naturali della crescitaeconomica, evidenziati in particolare daiproblemi dell’effetto serra e delle risorseenergetiche, sempre più costose e in via diesaurimento. Se un milione di indiani — incontemporanea con due miliardi di cinesi —aderiscono al modello del capitalismo con-sumistico occidentale, andiamo incontro adanni ambientali irreversibili per un pianetagià messo a dura prova dalle esigenze dellostile di vita di alcune centinaia di milioni diamericani ed europei.

In seguito a un’ondata di suicidi di massa dicoltivatori, nel luglio 2006, il primo ministroManmohan Singh ha esortato la popolazionerurale a voltare le spalle al modello consumi-stico e «sprecone» dell’Occidente, prenden-do esempio dalla frugalità di Gandhi, defini-ta una «necessità» per l’India. A sentir invo-care l’insegnamento di Gandhi da questotecnocrate di stampo occidentale, uscito daun College di Oxford, si può certo accusarlo diretorica. E sospettare che intenda rinviare al-l’infinito, o magari annullare l’appuntamen-to dell’India col suo destino. Ma probabil-mente Manmohan Singh sa bene che non visono molte vie d’uscita dal vicolo cieco — il ri-schio di una spirale di violenza e distruzionedell’ambiente — in cui i processi di moder-nizzazione e globalizzazione stanno spin-gendo la più grande democrazia del mondo.

Traduzione di Elisabetta Horvat

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 LUGLIO 2007

il reportageEconomia sommersa

Nel ventre del miracolo indiano

Si chiama Dharavi, è lo slum più grande di Mumbaie dell’intera Asia. Nei 220 ettari di vicoli e fogne a cieloaperto vivono un milione di persone. Non hanno nulla,lavorano per salari da fame e producono un Pil di 650milioni di dollari all’anno. Ma adesso il governo ha decisodi smantellare e di mettere in vendita l’area

MUMBAI

Il limbo di Mumbai è una stradalarga, coperta di spazzatura e fo-gli di plastica e attraversata dallesolite mucche: collega la città al-

l’aeroporto internazionale. A prima vi-sta non sembra molto diversa dalle al-tre, ma la gente la percorre poco volen-tieri: «Porta a Dharavi, ma qui preferi-scono dire che finisce all’inferno», dicecon un sorriso l’amica indiana. A RaviMishra questa sto-ria l’hanno rac-contata qualcheanno fa, quandoera da poco arriva-to in città. Curioso,decise di esplorarequel territorioproibito: da alloranon l’ha più lascia-to. Novello Virgi-lio, oggi vive gui-dando la gente allascoperta della ba-raccopoli piùgrande di Mumbaie dell’intera Asia:Dharavi, o «l’infer-no» come lo chia-mano i suoi con-cittadini. «Chi par-la così qui non c’èmai venuto — dicelui — Dharavi nonè pericolosa, è solomolto grande,molto povera emolto affollata. Mala maggior partedella gente che cista lavora duro percostruirsi una vitamigliore».

Mentre Raviparla, fa strada fravicoli sempre piùstretti. Ci vuole unpo’ per mettere afuoco il senso dellesue parole: ancheper chi conoscel’India e le sue sac-che di povertà, ilprimo impatto conDharavi è scioc-cante. Il principaleslum asiatico, il se-condo al mondo, èun formicaio bru-licante dove oc-corre fare atten-zione a ogni passo.Nei 220 ettari deisuoi vicoli vivonofra le 700mila e ilmilione di perso-ne, le fogne sonorivoli puzzolentiche scolano in ununico canale tor-bido. I bambinigiocano fra mon-tagne di spazzatu-ra trasformate incampi di cricket:solo un miracolosembra tenerlilontano, tiro dopotiro, dalle centi-naia di fili elettriciscoperti che vannoa rubare l’elettri-cità dai pali che laportano in città.Ma il segreto diDharavi è altrove.

Ci vuole un po’perché lo sguardoricostruisca i pezzidel puzzle: quan-do gli occhi si abi-tuano alle case dilamiera e i piediprendono confi-denza con il terre-no polveroso si ca-pisce quella dove il giovane Virgilio conil cappello da baseball ci sta guidandonon è solo una baraccopoli, ma ancheuna città industriale. Camminarci perqualche ora è come scoprire decine didiversi distretti produttivi, ciascunoconcentrato nella sua zona. Con un Pilannuo stimato in 650 milioni di dollari— pari al bilancio di una grande agen-zia Onu come la Fao o alla quantitàcomplessiva di aiuti stanziati global-mente per il rilancio dell’Afghanistan

— lo slum è il centro di alcune delle piùimportanti industrie di Mumbai e del-l’intera India. La prima che si incontraè quella della terracotta. Ogni giornofra i vicoli di Dharavi vengono prodottemigliaia di vasi e ciotole che poi pren-dono la strada della città. La famiglia diKishore Bai, da 15 anni a Dharavi, da 12lavoratore in proprio, è una delle 800coinvolte nel business: con l’aiuto dimoglie e genitori, il signor Bai produceducento scodelle al giorno e mantieneotto persone.

Nella strada accanto alla sua un ru-

more assordante denuncia la presenzadi centinaia di macchine da cucire: rea-lizzano ricami e impunture su camicieche presto finiranno nei negozi del cen-tro o all’estero. Seguono la zona deiconciatori, annunciata dall’odore, epoi quella dei cardatori. Per arrivare alcuore dell’industria dello slum ci vuoleancora un po’: si capisce che è vicinaquando i colori perdono di intensità euna sottile patina di polvere comincia aricoprire tutto. È l’effetto di decine dimacchinari da fusione che lavoranotutti insieme per mandare avanti la ve-

ra specializzazione del distretto diDharavi, l’industria del riciclo. Nellabaraccopoli le migliaia di tonnellate dirifiuti che Mumbai produce trovanonuova vita: le scaricano in continuazio-ne, da camion stracolmi, raccolte inenormi balle. Una volta stoccate, ven-gono aperte una per una, divise a se-conda del materiale e poi portate nelleapposite zone di lavorazione. Quelladella plastica sta vicino al rigagnolo chefa da fogna a buona parte dello slum.Fra gli scarichi industriali e quelli uma-ni, l’odore è insopportabile: ammirare

buste, teli e oggetti di plastica caderedentro al macchinario che li fonde e li farinascere in nuove forme è consentitosolo per pochi minuti, poi la puzza si fatroppo forte.

Il vicolo accanto è occupato dai lavo-ratori del metallo e dell’alluminio: pro-tetti da mascherine che coprono a ma-lapena naso e bocca, gruppi di uominifanno di vecchie lattine viti nuove dizecca. Girando l’angolo il paesaggiocambia completamente: Shabi, panet-tiere, lavora in uno dei 25 forni di Dha-ravi. Quando tira fuori i suoi biscotti al

DONNEDall’alto, donne al lavoroa Dharavi; donne in filaper comprare cherosene;una fabbrica di vasiNell’altra pagina,donne che lavano i vestitiin una stradadello slum

FRANCESCA CAFERRI

I bambini giocanofra montagnedi spazzaturatrasformatein campi da cricket:solo un miracolosembra tenerlilontano dai filiscopertiche rubanol’elettricità

Un Paese che vive di baraccopoliaspettando il riscatto che non arriva

PANKAJ MISHRA

L’AUTORE

Pankaj Mishraè autore di La finedella sofferenza,I romantici e il recenteLa Tentazionedell’Occidente. India,Pakistan e dintorni:come essere moderni,tutti pubblicati in Italiada Guanda. Polloal burro a LudhianaViaggio nell’Indiadelle piccole cittàè pubblicato da Tea

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 22 LUGLIO 2007

sesamo il profumo si diffonde per tuttala strada. «Se i signori degli alberghi incentro sapessero che i migliori dolcidella città arrivano da qui morirebbe-ro», sussurra Ravi. Nella bottega del for-naio la temperatura è altissima: Shabila sopporta senza problemi sei mesil’anno. Poi, prima dell’arrivo del mon-sone, lascia il lavoro e torna al suo vil-laggio in Kerala, migliaia di chilometripiù a sud. Ci resta sei mesi, quindi rien-tra al lavoro: «Lì vivo da ricco», spiega.

Ricco lo è davvero invece Gulam Na-bi: da 15 anni gestisce la fabbrica di sa-pone dello slum, l’u-nico luogo che dav-vero somiglia al giro-ne dantesco evocatodai cittadini di Mum-bai: dentro a enormipentoloni neri il gras-so si squaglia e si fon-de per ore, prima di fi-nire nelle piccole for-me da cui escono i sa-poni. La camicia al-l’ultima moda e lagrande catena d’oroal collo raccontano ilbenessere dell’uo-mo, che non ama ledomande sui suoiguadagni e dice solodi avere dieci dipen-denti. Gulam vive dasempre a Dharavi eanche ora che ha fat-to fortuna non pensaa spostarsi: «Il miobusiness è qui, la miavita è qui. I miei figlicresceranno qui: do-ve altro dovrei anda-re?», chiede. Dal suopunto di vista non ha tutti i torti: la ric-chezza sua e di quelli come lui è legataa filo doppio a Dharavi: solo qui c’è unricambio continuo di manodopera cheaccetta salari bassissimi anche per lamedia indiana, solo qui si può lavoraresenza pagare tasse e affitto, solo qui peravere più elettricità basta allungare unaltro cavo verso i pali della condutturacomunale che porta la luce in città. AliAhmed ascolta tutta la conversazionecon rabbia malcelata: è qui da tre gior-ni e Gulam è il suo padrone. Nella scaladi Dharavi sta negli ultimi gradini,quelli di chi è appena arrivato. Guada-gna l’equivalente di due dollari al gior-no e dorme nella baracca di suo fratel-lo, sbarcato nello slum due anni fa: «Quiè l’inferno — dice — ma per ora non hoscelta, non posso andar via».

Crescent Heights e Buckley Court, lezone della nuova borghesia di Mum-bai, distano qualche decina di chilo-metri ma da Dharavi sembrano distan-ti anni luce anche a quelli che potreb-bero permettersi di vivere in quei quar-tieri. Il richiamo della baraccopoli è co-me quello delle sirene di Ulisse: chi ce-de una volta non torna più indietro.Amil, 19 anni, è studente di scienze inun college privato di Mumbai: di matti-na studia, di sera torna nella sua casa dimuratura blu da dove arrivano il suonodello stereo e le immagini della televi-sione. La famiglia è arrivata a Dharavi

nel ‘54 e oggi suo padre è il leader di unadelle gang che tengono sotto controllolo slum. La sua attività ha regalato allafamiglia il benessere e al figlio l’arro-ganza, insieme alla possibilità di eva-dere per qualche ora dal puzzo di fogna.«Perché dovremmo andar via? — ri-sponde Amil a chi lo interroga — quisiamo rispettati. E abbiamo una bellacasa». Una rarità, nello squallore diDharavi, dove la maggior parte delleabitazioni sono baracche di lamiera avolte a più piani. E un lusso a Mumbai,dove il mercato immobiliare è uno dei

più cari al mondo. Glianalisti stimano chenei prossimi dieci an-ni varrà 102 miliardidi dollari, contro i 14di oggi. Per questo leimprese di costruzio-ne sono alla continuaricerca di spazi nuovidove investire e quel-li di Dharavi, econo-mici e relativamentecentrali, fanno gola amolti.

Da qualche tempo,gli interessi dei co-struttori si sono spo-sati con quelli del go-verno del Maharash-tra, che punta a faredi Mumbai la Shan-gai indiana. Le auto-rità hanno dapprimalanciato un program-ma di riqualificazio-ne che ha offerto agliabitanti degli slumincentivi per trasfe-rirsi in nuove case,poi sono passate alle

maniere forti: è di giugno l’annunciofatto pubblicare dal governo su 16 quo-tidiani internazionali per la vendita, alprezzo di 2,6 miliardi di dollari di 214 et-tari di terreno su cui sorge la bidonville.Lo scopo è quello di livellare il terreno,strategicamene posizionato fra la fer-rovia e la zona degli affari, e di farne unanuova cittadella del business. Per sape-re chi vincerà la gara, occorrerà aspet-tare settembre, ma gli abitanti di Dha-ravi giurano già che faranno opposizio-ne a un progetto che minaccia di la-sciare senza tetto centinaia di migliaiadi persone e bloccheranno chiunque siavvicini alle loro case.

Dalla parte dei ribelli ci sono anchequelli come Sumah Kharatman chedue anni fa ha accettato di lasciare conla famiglia una baracca nella zona vec-chia di Dharavi per trasferirsi in un pa-lazzo poco lontano. Da vent’anni lavo-ra in un laboratorio che prepara fili diseta destinati alla tessitura, guada-gnando 100 rupie (meno di quattro eu-ro) al giorno: sperava di andare a staremeglio ma ora che paga 2000 rupie almese per l’affitto e le spese, del fatto chela nuova casa sia più grande e più puli-ta della vecchia non le importa più mol-to: «Si mangia tutti i miei guadagni. Hosbagliato ad andarci», dice. Ravi laguarda e fa segno che è ora di andare: èdomenica, Dharavi non si concede ri-poso, ma Virgilio sì.

Gulam vive quida sempree anche orache ha fattofortuna non pensaa spostarsi:“Il mio businessè qui, la mia vitaè qui. I miei figlicresceranno qui:dove altrodovrei andare?”

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Il 30 giugno Benedetto XVI ha indirizzato una letteraai cattolici della Repubblica popolare, uno Statocon cui il Vaticano non ha relazioni dal 1951. Si è rimessacosì in movimento una storia di coraggio e di fede iniziatadai gesuiti alla fine del Cinquecentoe precipitataduecento anni dopo in uno scontro che dura ancor oggi

Dopo Francesco Saverio e Matteo Ricciesplose nell’Europa della Controriformauna febbre delle vocazioni per generazioni

di giovani sacerdoti attirati dall’Oriente

la memoriaMissioni

in Cina prevalesse il concentrato di tutti i mali: era ilsolo Paese in cui il comunismo non solo perseguita-va la Chiesa, ma riusciva anche a penetrare al suo in-terno, dividendola in fazioni e contrapponendo gliuni agli altri».

Lo scontro che da mezzo secolo oppone il regimedi Pechino al Vaticano presenta delle singolari analo-gie con il braccio di ferro ai tempi della Controrifor-ma e della dinastia Qing. Il comunismo all’epoca diMao e della Rivoluzione culturale ha aggiunto di suouna virulenta persecuzione ateista contro tutte le re-ligioni. Ma al cuore della crisi che Roma e Pechino og-gi tentano faticosamente di superare, c’è una que-stione di potere quasi immutata da trecento anni.

La penetrazione dei gesuiti in Cina è associata in-dissolubilmente alla figura di Matteo Ricci, il mace-ratese che nel 1583 sbarcò vicino a Canton e nel 1601ottenne udienza al Palazzo imperiale nella Città Proi-bita di Pechino. Ricci non era certo il primo cristianoin Cina (la presenza di nuclei di nestoriani si segnalafin dall’ottavo secolo dopo Cristo) e neanche il primomissionario visto che i francescani si erano affacciatialla corte del Gran Khan nel XIII secolo. Ma l’impattointellettuale di Ricci è senza precedenti. Erudito e ge-niale, primo sinologo della storia, Ricci adatta il mes-saggio dei Vangeli all’etica confuciana e conquista ilrispetto dell’alta burocrazia mandarina grazie allesue conoscenze di matematica e astronomia. Crea unponte tra due civiltà, offre all’Europa intera le chiavidi comprensione della millenaria cultura cinese.

Insieme a Francesco Saverio, Ricci diventa un mi-to per generazioni di giovani sacerdoti attirati dal pro-selitismo in Estremo Oriente. Passando in rassegnauna vasta mole di documenti d’epoca, lettere e diaripersonali, Brockey ricostruisce un’autentica febbredelle vocazioni esplosa in Europa: la Compagnia diGesù deve operare una selezione spietata, i candida-ti sono troppi, solo una minoranza viene presceltaper partire in Asia. A volte le strade dei missionari in-crociano quelle dei mercanti europei, ma spesso i re-ligiosi affrontano il pericolo da soli. Gli italiani nonhanno dietro di sé una potenza coloniale. Anche i por-toghesi, gli spagnoli, i francesi, una volta entrati nel-l’Impero di Mezzo non possono fare affidamento sul-la protezione dei propri Stati. Il martirio non li spa-venta: per alcuni, è la fine che sognano. Contraria-mente agli stereotipi sulla Compagnia di Gesù, noncercano solo di convertire la classe dirigente, i colti ei potenti. In realtà i gesuiti conquistano una base po-polare, nell’anno 1700 hanno duecentomila fedeli,diffusi anche tra i ceti umili e nelle regioni di provin-cia. Una traccia di questa devozione si ritrova in ope-re di artisti anonimi che applicano lo stile cinese aisoggetti cristiani: come una bellissima Madonna conGesù bambino, tutti e due con gli occhi a mandorla,fisionomie e abiti inconfondibilmente locali, in un di-pinto del XVII secolo ritrovato nel centro della Cina,nella provincia dello Shaanxi.

FEDERICO RAMPINI

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 LUGLIO 2007

PECHINO

Resiste in cima a una scalinata nel cuoredi Macao: una superba facciata baroc-ca che sembra appesa alle nuvole. Solol’azzurro del cielo l’avvolge e buca le sue

porte. Sta in piedi per miracolo, la facciata da sola.Dietro di lei la chiesa intera, le pareti, il soffitto, il tet-to sono crollati da tempo, travolti da tifoni e incendi.È quel che resta di São Paulo, la più celebre cattedra-le di tutta l’Asia quando Macao era una colonia delPortogallo e la “base” di penetrazione del proseliti-smo cristiano verso l’Estremo Oriente.

Nel collegio dei gesuiti di Macao studiarono alla fi-ne del Cinquecento i missionari Matteo Ricci e Adamvan Schall prima di andare a evangelizzare la Cina. Ailoro tempi la cattedrale era di legno e di terra, la fac-ciata di pietra venne aggiunta dal gesuita italiano Car-lo Spinola nel 1602. Degli artigiani giapponesi fuggitida Nagasaki per le persecuzioni religiose la decoraro-no di curiose sculture, una loro visione originale delcristianesimo in Asia. La statua della Vergine Maria haai suoi fianchi una peonia che rappresenta la Cina, uncrisantemo per il Giappone.

Quella facciata diroccata, fragile rovina abbando-nata, racconta un pezzo di storia del cattolicesimo inCina: l’impresa di missionari che quattro secoli favennero fin qui sfidando pericoli mortali, seminaro-no i germi di una nuova fede nel popolo cinese, perpoi fuggire travolti da una drammatica crisi politica.All’avventura dei gesuiti lo storico americano LiamBrockey ha dedicato un nuovo saggio, Journey to theEast. The Jesuit Mission to China, 1579-1724. Brockeyha riesumato i ricordi di un’antica processione chesfilò davanti alla cattedrale di São Paulo per festeg-giare la beatificazione di Francesco Saverio, pionieredei missionari in Asia e patrono di Macao. Nel pitto-resco corteo i fedeli cinesi recitavano scene di teatrodi strada, allegorie di storia vissuta. Un attore perso-nificava la Cina dei Ming: vestita sontuosamente, conmonili d’oro e argento e pietre preziose, lacrimavaper aver chiuso le porte in faccia a Francesco Saverio:«Ecco l’Impero di Mezzo con tutte le sue vane ric-chezze, condannato a piangere sui suoi sbagli». Maerrori, incomprensioni e incompatibilità ci furono daambedue le parti, nel primo dialogo tra i vertici dellaChiesa romana e il Figlio del Cielo, come si definiva ilsovrano cinese.

Il tormentato rapporto tra la Cina e il Cristianesimoè tornato d’attualità il 30 giugno scorso quando papaBenedetto XVI ha indirizzato per la prima volta unalettera ai cattolici della Repubblica popolare: uno Sta-to con cui il Vaticano non ha più relazioni dal 1951.Agostino Giovagnoli, docente di storia all’Universitàcattolica di Milano, ricorda che «per molti decenniagli occhi del cattolicesimo mondiale è sembrato che

LE IMMAGINI

Le fotografie d’epoca che illustrano

queste pagine, custodite presso

gli archivi del Pontificio Istituto

Missioni Estere (Pime) di Milano,

sono tratte dal libro Cina perdutanelle fotografie di Leone Nani,Skira 2003 (224 pagine, euro 49)

Leone Nani, missionario lombardo,

partì per la Cina nel 1904, a soli 23

anni, e vi rimase per un decennio,

spostandosi in regioni interne

difficilmente raggiungibili

e realizzando moltissime foto

che sviluppava e stampava da solo

Nella foto grande a destra,

padre Nani mentre battezza

un gruppo di bambini

A sinistra, in senso orario a partire

da qui accanto: un autoritratto

di padre Nani; lavori di cucito

presso l’orfanotrofio femminile

di Hanzhong; la cattedrale dedicata

ai santi Pietro e Paolo a Guluba;

padre Nani durante l’esame

di catechismo a Chekiading

Repubblica Nazionale

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Con un editto del 1706 l’imperatore Kangxirespinse le richieste di papa Clemente XI

e impose ai missionari l’obbligo del “piao”,una licenza speciale concessa dal Figlio del Cielo

A conferma del loro successo, ben presto i gesuitisono sopraffatti dal lavoro. Ci sono troppi fedeli ri-spetto al numero limitato dei missionari e formarnedi nuovi richiede tempi lunghi. Si arrangiano con so-luzioni originali, come l’uso della “confessione conl’interprete”. Inoltre nel 1700 il gesuita José Monteiroinventa per i suoi confratelli il primo manualetto diconversazione rapida in mandarino. S’intitola Vera etunica praxis breviter ediscendi, ac expeditissime lo-quendi sinicum idioma, suapte natura adeo difficile(L’autentico e unico metodo breve, per imparare ra-pidamente a parlare la lingua cinese, per sua naturaassai difficile). Contiene le frasi essenziali per cate-chizzare i cinesi, e anche qualche espressione utileper i bisogni più materiali della vita quotidiana: «Que-sta carne non è cotta abbastanza. Il riso è scotto. Leverdure non sanno di niente. Questo tè fa schifo».

I gesuiti applicano la lezione del loro pioniere peraprirsi un varco nella mentalità cinese. Ricci ha stabi-lito che il confucianesimo non va trattato da avversa-rio, È un’etica che può conciliarsi coi principi cristia-ni, così come un europeo può apprezzare Aristotelesenza essere sospettato di eresia. Dunque i cinesiconvertiti vadano pure nei templi di Confucio: non èun idolo pagano, solo un maestro di vita. La stessa tol-leranza viene applicata alla venerazione degli ante-nati, un culto che ha radici millenarie. Da questopragmatismo nasce il cattolicesimo di “rito cinese”.Diventa la pietra dello scandalo quando nell’Imperoceleste nella seconda metà del XVII secolo affluisco-no altre ondate di missionari. Domenicani e france-scani attaccano la tolleranza dei gesuiti, denuncianole liturgie locali come idolatria. Scoppia la Questionedei Riti, che papa Clemente XI risolve nel 1704 dandotorto alla Compagnia di Gesù.

La querelle dei riti ha avuto grande notorietà, manon è lì che si consuma definitivamente il divorzio trala Chiesa e la Cina. Lo scontro più importante è su unaltro punto. La svolta decisiva avviene quando il Pa-pa, per informare l’Imperatore della sua decisione suiriti, invia a Pechino un’ambasciata guidata da un gio-vane prelato piemontese, Carlo Tommaso Maillardde Tournon. De Tournon è ricevuto dall’ImperatoreKangxi nel dicembre 1705 e pone una condizione perstabilire relazioni dirette fra la Santa Sede e la dinastiaQing: il pontefice designerà un superiore di tutti i mis-sionari cattolici in Cina. Per l’Imperatore la richiestaè inaccettabile. Egli non ammette che possa esisteresotto il suo regno una “gerarchia parallela”, un’arma-ta di sacerdoti che obbediscono a un sovrano stra-niero.

Con un editto imperiale del dicembre 1706 Kangxistabilisce la regola opposta: i missionari cattolici peresercitare in Cina devono ottenere una licenza spe-ciale, il piao. L’imposizione del piao, scrive Brockey,«è un esercizio del controllo imperiale sui missiona-ri», non diverso dal principio di autorità a cui devonosottostare i monaci buddisti e taoisti. Diventa uno

strumento per dividere i sacerdoti tra buoni e cattivi.La situazione precipita. Mentre de Tournon viene ri-cacciato a Macao, ai missionari presenti sul territoriocinese s’impone un’alternativa drammatica. Devo-no scegliere tra il Papa e l’Imperatore, ma anche fracontinuare l’apostolato in Cina o rinunciarvi. Lascia-re il Paese vuol dire abbandonare i propri fedeli. Fareatto di sottomissione a Pechino significa sfidare lacondanna papale.

È un dilemma che anticipa quello che vivranno ipreti cinesi nel 1957, quando Mao Zedong decideràdi istituire la “Chiesa patriottica”, l’unica autorizza-ta dal Partito comunista, i cui vescovi e sacerdoti de-vono essere nominati dal governo e fare giuramentodi fedeltà al regime. Come accadrà nella Repubblicapopolare, anche tra i sacerdoti europei del Settecen-to la reazione non è compatta. Quarantuno domeni-cani partono in esilio, espulsi dai confini dell’impe-ro dalla dinastia Qing. Una cinquantina di gesuiti se-guaci dei “riti cinesi” ricevono il piaoe decidono di ri-manere, sperando di guadagnare tempo e di ottene-re un ripensamento del Papa. Un manipolo di reli-giosi scelgono una terza via, rifiutano il piao edentrano nella clandestinità, continuando a pratica-re di nascosto in alcune regioni rurali della Cina me-ridionale (proprio come i preti cinesi della “Chiesasommersa” ai nostri tempi).

La crisi precipita con la morte di Kangxi e l’avventoal trono di suo figlio Yongzheng nel 1723. Il nuovo Im-peratore promulga un editto in cui condanna il cat-tolicesimo come «setta perversa e dottrina sinistra».La repressione si scatena sui fedeli, chiese e seminarivengono sequestrati e convertiti ad altri usi: diventa-no scuole, ospedali, granai. Nella provincia delFujian, con un crudele scherzo alla memoria di Ricci,le parrocchie cattoliche vengono trasformate in tem-pli per il culto degli antenati. «Nell’ottobre 1724», scri-ve Brockey, «sedici anni dopo che i gesuiti hanno sfi-dato Clemente XI accettando il piao, vengono arre-stati in massa dalle autorità imperiali, deportati aCanton, da lì imbarcati per l’esilio a Macao».Yongzheng fa sapere a Ignatius Koegler, un sacerdo-te tedesco che dirige il laboratorio astronomico allacorte imperiale, che i gesuiti devono considerarsi for-tunati per essere stati cacciati da vivi. Nello stesso an-no, in un giro di vite per riaffermare il suo controllo sututti i culti, l’Imperatore ha «ordinato la distruzionein massa di molti templi buddisti e lo sterminio di ol-tre un migliaio di lama».

I missionari cattolici torneranno nel secolo suc-cessivo in una Cina indebolita e decadente, piegatadalla superiorità militare delle nuove potenze occi-dentali. Poi le porte si chiuderanno di nuovo con la ri-voluzione comunista. Adesso la lettera di BenedettoXVI cerca una soluzione all’impasse: per la prima vol-ta il Papa non disconosce la Chiesa patriottica, pro-pone di fonderla con quella clandestina. Pechino de-ve ancora rispondere.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 22 LUGLIO 2007

La Chiesa e la Cina

un duello di secoli

ORI Collezioni dai Musei dell’Ucraina

DEI CAVALIERIDELLE STEPPE

Trento,Castello del Buonconsiglio,1 giugno - 4 novembre 2007

ORARI

10.00 - 18.00, chiuso il lunedì

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SilvanaEditoriale

Provincia autonoma di Trento

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 LUGLIO 2007

i luoghiPaesaggi storici

Un grande architetto del verde ci guida alla scopertadelle terrazze, delle piante e dei fiori della proprietàche Iris e Antonio Origo, “pionieri” nella Val d’Orciadegli anni Venti del secolo scorso, fecero costruiree poi ampliare: un piccolo capolavoro di semplicitàe armonia affacciato sull’orizzonte intatto dell’Amiata

Per cominciarefurono restaurati

i fabbricati,disegnati

quattrocento anniprima

nalfabetismo e l’indigenza e, insieme aloro, tutti i tristi ed inevitabili corollari.Le crete dilavate, sterili ed inerti domi-navano il paesaggio rendendo più spi-nosa, difficile e definitiva quell’anticasfida tra il posto ed i suoi abitanti.

Antonio e Iris, uniti e temerari, desi-derosi di sottrarsi ad una facile e disin-volta esistenza, anche se intelligente ecolta, si gettarono, con tutto l’entusia-smo dei loro anni, in una nuova, affa-scinante aspra e difficile sfida: la boni-fica della Foce stessa. Cecil Pinsent, ilLutyens d’Italia, il grande architetto del

rinnovamento storico, il raffinato edintelligente scenografo di una commit-tenza anch’essa intelligente e colta, findall’inizio fu accanto a loro, aiutandolia costruire i giardini e a ricostruire e arestaurare i fabbricati della Foce, cheda Baldassarre Peruzzi erano stati piùdi quattrocento anni prima delineati edefiniti con grandissima eleganza e in-superabile sapienza.

Nei fabbricati di un tempo, un’anticalocanda appartenuta all’ospedale del-la Madonna della Scala di Siena, furonosistemati i nuovi alloggiamenti e con

essi venne previsto un piccolo e rigoro-so giardino a terrazze. Fu costruito atappe strette e con metodo e, come in-segna il buon senso e l’armonia, un po-co alla volta, con i sani e scanditi tempidell’agricoltura. Con un equilibrio pre-ciso, in sottile ed affettuosa sintoniacon l’evoluzione della grandissima epoverissima proprietà terriera che locircondava.

Gli Origo, corrette ed educate figure,non anteponevano le loro “esigenze” dicoltivato benessere a quelle delle per-sone della Foce (e che dalla Foce trae-vano la quotidiana sopravvivenza):quel benessere che, secondo Antonioed Iris, cresceva e si espandeva passan-do prima per le strade, poi per l’acquapotabile, e con loro, la scuola e le infra-strutture mediche.

* * *Quello della Foce è un giardino all’i-

taliana, piantato di piante all’italiana,vissuto, cresciuto ed arredato, però, al-l’inglese, con quel semplice ed elegan-te understatement che solo l’Inghilter-ra puritana del “dopo Cromwell” puòavere. Minuta semplicità e puntigliosaeleganza si fondono in un paesaggioampio, aperto sull’assolata e larghissi-ma valle dominata dall’Amiata. Pae-saggio forte, romantico, luminoso, espesso “turneriano”: gli orizzonti an-che essi vasti, larghi e forti dominano,contrastano e definiscono.

Semplice, razionale e schematica èla divisione a stanze dei “primi” giar-dini: erano il frutto moderno e maturodi un modo nuovo, speciale ed affasci-nante di fare giardino “all’antica”.Gertrud Jekyll, Edwin Lutyens, HaroldNicolson e Vita Sackville-West nellaloro felice colta e ricca Inghilterra po-st-edoardiana ne suggerirono, a loromodo, i termini e ne misero in praticai semplici e sottintesi messaggi. Congiuste e “moderne” proposte speri-mentavano, provavano ed avevanosuccesso sia nei loro (rispettivi) giardi-ni sia in quelli del loro affascinante epreparato “set” sociale ed intellettua-le. Fondamentale per loro era l’uso dipiante facili e semplici (come, appun-to, la “nostra” campanula pyramida-lis), che felici e soddisfatte, si poteva-no appropriare di parte dei giardinicon successo e facilità, derivandoneun’aria naturale, rigogliosa e felice.

L’uso di piante robuste, semplici eadatte al luogo (e alle sue temperaturee agli strapazzi di una vita rustica), erapreciso e nello stesso tempo fantasio-so. E di conseguenza per nulla noioso o

L’ultima volta che incon-trai Iris Origo fu a Lerici,una estate di trent’annifa. Antonio era ancoravivo, non stava bene:Iris lo assisteva. Fu un

incontro facile e discorsivo: l’occasio-ne per passeggiare in un’ora fresca del-la sera, in giardino, parlando di piantee del giardino stesso. Quel giardino cheera stato a suo tempo molto coltivato,molto amato e che stava, con dignità,subendo i danni di un elegante, quietoe leggero disinteresse.

Come si sa, l’economia d’acqua, la vi-cinanza del mare, il vento, il sale ren-dono spesso difficile la vita di un giar-dino sulla costa... Del giardino di Lericiricordo una gradevole sensazione diordine e pulizia: la dignità del posto erapreservata e mantenuta, e la siccità nonera vista come un ripiego o peggio co-me una sconfitta. Il bello è spesso figliodi sottili armonie e di tanto coraggioche agli Origo non mancavano proprio.Nei loro più svariati aspetti erano di usoquotidiano.

* * *Tra qualche settimana i vecchi muri

della Foce saranno coperti dai fiori bel-lissimi e bizzarri dello “stocco di SanPietro” la campanula pyramidalis: nonconosco luogo, in Italia, dove stia piùfelice. Tanto si compiace del posto daseminarsi da sola, di anno in anno, nel-le fessure dei muri, sui bordi dei vialet-ti, un po’ dappertutto. Proveniente, pa-re, in origine, dalla Dalmazia, alla Foceha trovato il posto adatto per crescere,fiorire ed invadere. Invasione pacifica,gradevole, piena di divertita ironia, disuccesso e di reciproco amore.

Come fu reciproco amore quello cheintercorse tra gli Origo e le povere terredi Val d’Orcia. Antonio e Iris nel lonta-no 1924 belli, giovani, volenterosi e so-prattutto pieni di temerarie speranze,approdarono, per vivere e per lavorare,nel basso Senese tra le crete poverissi-me della Foce e Castelluccio. Erano ter-re lontane dall’amata Firenze, lambitedalla interminabile e polverosa viaCassia, vantavano una storia antica esoprattutto una dignitosa ed inequivo-cabile povertà. La Foce mancava di tut-to, dall’acqua alle strade, dalla luce allascuola: vi regnavano indisturbati l’a-

PAOLO PEJRONE

La Foce, un giardino come sfida

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 22 LUGLIO 2007

I tronchi dei glicinie gli antichi rosai

suggerisconoun passato

lontano e glorioso,ne sono la memoria

retorico. Dopo anni di privazioni e diumiliazioni, le erbacee perenni aveva-no finalmente avuto uno “status”. Ar-busti ed erbacee non erano più e sol-tanto delle modeste comparse di ungiardino fatto, spesso e soltanto, digrandi alberi o di vasti prati. Le piante,quelle piante, non erano per Gertrud,per Vita e per Iris un colore o una mas-sa: erano foglie, tessiture, profumi eportamenti (e soprattutto ricordi e me-morie).

L’autunno e l’inverno assumevanopari dignità e pari importanza, a scapi-to dei trionfi e delle glorie primaverilied estive. Il vuoto autunnale-invernalenon dava più gioie magre e minimali:l’esigenza d’esser di “buon” aspetto edin “ordine” per tutto l’anno si contrap-poneva alle sovrabbondanze primave-rili ed estive, giudicate a questo puntoun po’ pacchiane e demodées.

I giardini della Foce ebbero un ulti-mo e rinnovato impulso alla fine deglianni Trenta, poco prima della Secondaguerra mondiale, con l’addizione di ungiardino nuovo dal forte disegno a sie-pi. Quasi fosse un alto parterre, a formadi ventaglio, e dominato da vigorosi escenografici scaloni di travertino. Eraun giardino meno “povero”, decisa-mente più sfarzoso di quelli finiti pre-cedentemente (ed a quel punto già allavoro e “funzionanti”): è un giardinoche abbandona gli schemi rigorosi esemplici, quasi primitivi, di cinque-centesco e fiorentino sapore, per unapostconciliare, quasi barocca proposta“romana”. La Val d’Orcia non era forseal confine con gli Stati pontifici? E Ro-ma, con le sue barocche armonie e lesue grandiose scenografie, era in fondopiù vicina di Firenze.

Il nuovo “pezzo” è parte coerente diuna nuova evoluzione stilistica delgiardino della Foce, cresciuto in dueepoche vicine, ma volutamente diffe-renti. Una piccola terrazza, a lato deigiardini, fa da anticamera ad un gra-devolissimo sentiero nella macchia.La vista, la grandissima e luminosa vi-sta sulla Val d’Orcia è, come già detto,appassionante, antica ed intatta:Montalcino sulla destra di chi guarda,a causa della distanza, è ridotto ad unpiccolo e modesto borgo. Lo strettosentiero porta al piccolo cimiterochiuso da un alto muro e da svettanticipressi: rinchiudono e proteggonotutta la grande famiglia della Foce, inun corale ed ultimo viaggio.

La Foce non c’è dubbio, è un postoromantico e pieno di bellezza: datempo però non è più soltanto un luo-

go, anche se affascinante ed attraen-te, gli Origo, con il loro amore intensoe sincero, lo fecero diventare qualco-sa di più. Guerra in Val d’Orcia fu ilprimo libro scritto da Iris. Uscì nel1947, fu una testimonianza vivace edacuta dell’orrore di un passato recen-te, portando direttamente ed indiret-tamente alla conoscenza del mondointero la sua amatissima Foce, la suavita, i suoi felici e meno felici trascor-si. Fu seguito, dopo dieci anni, dal co-nosciuto e speciale best-seller Il Mer-

cante di Prato che portò Iris Origo nel-

le biblioteche di tutto il mondo, comeeccellente, profonda e seria scrittricedi storia.

* * *I vasi di limoni hanno una loro lunga

storia in Toscana: dal grande Cosimo inpoi, tra le frequenti siepi di bosso c’era,d’abitudine scandito da ritmi agricolied architettonici, il posto per variati especiali agrumi in vaso. Alla Foce fuprevista proprio per questo una ca-piente e bellissima limonaia, disegnatasempre negli anni Trenta con armoni-

ca cadenza dal Pinsent. Come dallostesso Pinsent furono delineate nelpaesaggio delle crete, delle utili (e bel-lissime) strade. Il Lorenzetti ne fece damaestro ispiratore: i cipressi con i loroscuri e rigorosi punti esclamativi servi-rono da punteggiatura. Limiti e percor-si vennero da loro marcati e sottolinea-ti. Ancora ora se ne può sentire la poe-tica e la storica valenza.

A suo tempo Iris lavorò in modocontinuo e sapiente nei suoi giardini:i tronchi dei glicini diventati vigoro-sissimi ed enormi ne suggeriscono unpassato lontano e glorioso, così comei vecchi rosai banziani, o come il gran-de roseto, che è stato da poco, come didovere, felicemente rinnovato. Moltepiante ora sono ancora testimoni fe-lici di memorie lontane, e quasi tutte,a suo tempo, arrivarono dall’Inghil-terra: era l’unica strada da battere inuna Italia dai vivai autarchici, poverie retrò.

* * *Le figlie Benedetta e Donata man-

tengono con amore, dedizione e suc-cesso i giardini della Foce e quelli diChiarentana, sia quelli storici chequelli “nuovi”. Nuovo è quello di Do-nata, che circonda appunto Chiaren-tana: una grande fattoria quasi fortifi-cata, dominata da un verde e fitto bo-sco, nella quale, al centro della cortequadrata, è incastonato un tiglio om-broso e fresco. Chiarentana a sua vol-ta domina la svettante Radicofani e laluminosa (ed amatissima) Val d’Or-cia. La Foce e Chiarentana sono di-ventate, nel loro evolversi, posti di tu-rismo intelligente: il bello, la quiete,l’olio buono e, per un certo periododell’anno, della buonissima musica,hanno, per fortuna, i loro amici, i loroestimatori ed i loro ammiratori. Datanti anni “Incontri in terra di Siena”porta della gran qualità musicale tra lecrete bruciate dal sole. Fare musica al-le ultime luci del giorno in mezza esta-te, nei silenzi assoluti degli antichi bo-schi della Foce è un vero grande e raroprivilegio. Qui, come in altre parti d’I-talia, la natura a fine luglio, esausta estanca, va in riposo: regna su tutto unaatmosfera speciale, leggera, aperta edospitale. Quella stessa, forse, che rapìAntonio e Iris quasi un secolo fa, am-maliandoli, trascinandoli, facendo-seli suoi per sempre.

LE IMMAGINILe immagini che illustrano questa pagina sono tratte

dal volume La Foce. Un giardino in Val d’Orcia di Benedetta Origo,

Morna Livingston, Laurie Olin e John Dixon Hunt, Editrice Le Balze 2004

(302 pagine, 70 euro). Il grande acquerello di Laurie Olin

è una sezione trasversale delle terrazze e del viale dei cipressi

Le fotografie raffigurano vari fiori, siepi e piante dei giardini

de La Foce e alcune vedute del luogo. In particolare, nel basso

della pagina, in senso orario da sinistra, la strada per San Bernardino,

fatta costruire da Antonio Origo dopo il 1935; la casa, con le finestre

di tre camere da letto; le siepi sagomate nel giardino dei limoni

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Tutto ciò che accade, deve accade-re, perché se non dovesse accaderenon sarebbe accaduto.

2.Gli animali sono superiori agli uo-mini in fatto di gratitudine forse perchéhanno l’istinto e non la ragione.

3. Pare che i dittatori non abbiano scelta —non possono perché devono cadere — Però la lo-ro è una caduta che non suscita l’ilarità anchequando non sono più temuti, continuano ad es-sere odiati o amati.

4. Quella che chiamiamo «vita» non è che unquasi impercettibile «punto» fra due eternità,quella di prima e quella di dopo. — Confortantepensiero.

5. Due libri mi hanno particolarmente inte-ressato in questi ultimi tempi. La Vita di Gesù diS. Ricciotti e Giacomo Leopardi di Saponaro. An-che Leopardi è stato un po’ crocefisso.

6. Secondo Delcroix la vita avrebbe dei ciclisettennali, con avvenimenti determinanti…1922 Marcia su Roma — 1929 Conciliazione fraStato e Chiesa — 1936 Fondazione dell’Impero— 1943 Caduta — 1950 Già morto finalmente!

7. I pensieri pontini sono finiti perché stanot-te all’una sono stato svegliato con queste parole«Pericolo imminente». Bisogna partire. Mi sonovestito in fretta e furia, ho raccolto panni e cartee ho raggiunto l’incrociatore che attendeva, so-no salito e ho ritrovato l’ammiraglio Maugeri, ilquale mi ha detto che la nuova meta era l’isola diSanta Maddalena in Sardegna.

Oggi il mio pensiero vola a Bruno. È il secondoanniversario della sua morte. Nel-

Il 25 luglio 1943 Mussolini perde la sua libertà: per un mese è confinato a Ponzae alla Maddalena, prima del Gran Sasso e del blitz nazista. In totale isolamentoscrive i “Pensieri pontini e sardi”, in forma di appunti numerati, finora noti

soltanto in una traduzione in tedesco. Ora “Repubblica” ha ritrovato nei National Archivesdi Londra la versione originale e completa di quell’intenso diario di un uomo sconfitto

BENITO MUSSOLINI

Mussolinile circostanze in cui mi trovo, sento ancora piùprofonda la ferita. Caro Bruno! Ecco che la tuaimmagine mi è davanti, mentre scrivo questeparole nella nuova casa di esilio...

Il viaggio è durato dodici ore con un mare tem-pestoso. La villa dove mi hanno condotto appar-teneva a un suddito inglese... è circondata da unparco di pini...

Un anno fa circa, visitai la Maddalena, fra l’en-tusiasmo del popolo. Oggi, arrivo clandestino.Chi sa, se oggi — qualcuno — si è ricordato di miofiglio e di quanto fece nella sua breve meravi-gliosa vita! Venti anni di lavoro sono stati can-cellati in poche ore... Il Fascismo era un’iniziati-va che aveva interessato il mondo e indicatonuove vie. Non è possibile che tutto sia crolla-to… Tutto fu un’illusione?

8. Al termine di questa prima giornata d’esilioalla Maddalena una profonda melanconia mi af-ferra. Sento che il mio Bruno è — ora — vera-mente morto!

9. Di me e di queste mie vicende fra pochi an-ni sarà illanguidito il ricordo e dopo poco, can-cellato.

10. Dal 25 luglio a mezzogiorno, non ho più vi-sto giornali. È curioso che non senta questamancanza, io lettore infaticabile di decine digiornali al giorno.

11. Scherzi del destino: dal massimo del pote-re alla totale impotenza; dalle moltitudini accla-manti, alla solitudine assoluta.

12. Sin dall’ottobre del ‘42 io ho avuto crescen-te il presentimento della crisi che mi avrebbe tra-volto. La mia malattia vi ha avuto gran parte.

13. In questi ultimitempi, la richiesta dimie fotografie eramolto diminuita e dialtrettanto — se nonpiù — era aumentatala mia riluttanza a fir-marle.

14. Il film Sant’Ele-

na, piccola isola fuseguito da tutti noi...con un’attenzioneaccorata. Così finìun grandissimo uo-mo; perché un uo-mo di gran lungaminore non potreb-be avere una sorte

L’ultimo

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 LUGLIO 2007

“Il mio astroè tramontatoper sempre”

1.

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simile o quasi?15. Dopo quindici giorni non so ancora che

cosa «sono» o piuttosto che cosa sono diventato.16. Secondo l’ammiraglio Maugeri di Gela

non ci sono a La Maddalena che venti giorni al-l’anno senza vento. Oggi 10 agosto 1943 è uno diquesti. Mare che sembra una tavola. Alberi im-mobili.

17. Talete (?) ringraziava gli dei di averlo fattonascere: uomo e non bestia, maschio e non fem-mina, greco e non barbaro.

18. Quando una piramide politica specialecrolla, le conseguenze si fanno sentire sino allabase. Sorge un piccolo problema anche per ibambini che portavano le racchette del tennis.

19. Il mio piantone si chiama Felice Nunzio edè della provincia di Roma. I piantoni di Ponza sichiamavano Tirella (Frosinone). Tizzoni (Rieti).Minuzie della storia...

20. Quelle che si chiamano dittature nel mondomoderno sono dittature a tipo indiretto collettivoe pare che la loro durata non possa superare il ven-tennio. Assistiamo però ad un’eccezione: la ditta-tura del bolscevismo sul proletariato.

21. Stanotte le sentinelle hanno fatto fuococontro «rumori sospetti».

22. Un uomo che deve essere stato più di ognialtro sorpreso dagli avvenimenti deve esserel’Ambasciatore del Giappone, che ricevetti alleore 13 del 25 luglio.

23. Le zanzare: l’altoparlante della notte. Cene sono troppe qui!

25. Villa Torlonia. Scoppiata la guerra nel giu-gno del 1940 il primo rifugio di V.T. fu ricavato daalcune grotte... Ma dopo i bombardamenti diTorino e Milano, Genova nell’ottobre del 1942,si disse che occorreva fare un rifugio alla «pro-va», cioè capace di resistere anche alle bombe dimassimo peso... Preventivo 240.000 lire. Duratadei lavori tre mesi…

I lavori divennero più complessi e più lunga laloro durata. È curioso che mano a mano che i la-vori si avviavano al compimento... la mia anti-patia per il rifugio aumentava e non soltanto perla spesa ormai raddoppiata ma per qualcosa dioscuro che sentivo in me. Sentivo, cioè, che unavolta finito, quel rifugio sarebbe stato completa-mente inutile.

26. È la prima volta dal ‘40, che il Bollettino Ita-liano parla dell’attività del nemico — sul fronteterrestre — senza accennare minimamente allanostra. Si può interpretare ciò come una prepa-

razione a comunicare che ormai in Sicilia siamoall’ultima ora.

27. Un partito sciolto, cioè proibito, diventa permolti italiani interessante. Ci provano gusto ad es-sere fascisti quando con ciò si è «sovversivi».

28. Ricevuta una seconda lettera da Racheleche non sa più nulla di Vittorio. Il tenente Faiolache lo conosce sin da ragaz-zo, dice che non gli può esse-re accaduto nulla di ingrato.

29. Nel Partito, accanto allescorie, c’era il fin fine dei com-battenti di tutte le guerre.

30. Stamani le novità sonorappresentate dalla parten-za del Colonnello Merli, delTenente Di Lorenzo e di altri30 Allievi Carabinieri.

31. È curioso che in questiultimi tempi mi ero stancatodi lavorare nella grande saladi P.V. (Palazzo Venezia).Avevo già deciso di trasferir-mi al Ministero della Mari-na... Progetti procrastinatidalla mia infermità.

32. I primi giorni dellanuova esistenza — nel mio caso di prigionia —sono veramente interminabili. Poi si riempionodi piccole cose e incominciano a trascorrere.

33. Oggi 13 agosto, una strana inquietudine miha afferrato e mi tiene... alle 17 mi viene conse-gnato il bollettino che annuncia... il secondobombardamento di Roma. Il mito della città «pa-

pale» e perciò risparmiata, è crollato. Così purel’altra leggenda che Roma veniva bombardataperché sede del Fascismo.

34. Com’è possibile che un capitano aviatorecome Vittorio non riesca a dare notizie di sé, do-po ventun giorni dal «cambio della guardia».

35. Gli argomenti di conversazione tra me imiei vari interlocutori siesauriscono e tra poco vigeràla regola della «trappa». Si-lentium.

36. Non mi sono mai inte-ressato ai giochi delle paroleincrociate, alle sciarade, aigiochi enigmistici: oggi inmancanza di libri, avrei mo-do di ammazzare il tempo,come si dice, prima che iltempo ammazzi me.

37. L’Ispettore di P. S. Poli-to... è venuto stamani, 14agosto, qui per un’ispezionee gli ho chiesto di venire a ve-dermi. Ecco quanto ha dettol’Ispettore: «Ho accompa-gnato Donna Rachele allaRocca... Alla Rocca erano già

Romano e Anna. Di Vittorio non so nulla...Quanto alla promessa di Badoglio, per voi, non èstato possibile realizzarla, poiché telegrammiconcordi del Prefetto, del Questore, del Coman-dante di Zona facevano prevedere gravi disordi-ni se foste andato alla Rocca...». «Voi dovete sa-pere che il capovolgimento della situazione è to-

tale. Non solo non si vedono più distintivi in Ita-lia, ma tutti i fascisti si sono più che dispersi “va-porizzati”. Le manifestazioni di odio contro divoi non si contano. Io stesso ho visto un vostrobusto in un cesso pubblico di Ancona...».

«Si sono fatti molti arresti, ma i capi del Fasci-smo sono quasi tutti liberi, non escluso il moltoodiato Starace. Il Conte Ciano fu visto il 26 inuniforme di ufficiale… Grandi, Bottai e gli altrisono scomparsi dalla circolazione». «Tutta la vo-stra costruzione è crollata: vi basti dire che capodegli operai è oggi Bruno Buozzi». «Conquistatatutta la Sicilia gli inglesi effettueranno uno sbar-co nel mezzogiorno d’Italia… la superiorità ae-rea degli anglo-sassoni è schiacciante...».

Il Generale Polito mi ha consigliato di staretranquillo… e ha aggiunto che calmate le pas-sioni sarebbe stato possibile un più equo giudi-zio, poiché «nessuno può negare che voi vi pro-ponevate di rendere grande e prospero il paese».E ancora «Nessuno vi informava? Che hanno fat-to quelli che vi circondavano?».

Il colloquio è durato circa un’ora e mezza. Pursfumato del «colore» che i funzionari di P.S.amano dare ai loro rapporti, a due conclusioniposso arrivare:

1) che il mio sistema è crollato2) che la mia caduta è definitivaIl sangue, la voce infallibile del sangue mi dice

che il mio astro è tramontato per sempre38. Calma di ferragosto: il mare non ha un bri-

vido, l’aria un soffio. Tutto sembra fermo sotto ilsole. Anche il mio destino.

39. Nel pomeriggio è venuto a visitarmi il te-nente colonnello medico dott. Mendini... mi haordinato diverse medicine... Gli ho domandato:Vale ancora la pena? Egli mi ha risposto: Comemedico e come uomo, dico di sì.

40. Quando un uomo crolla con il suo sistema,la caduta è definitiva, specie se l’uomo ha oltresessant’anni.

41. Dio mi è testimone degli sforzi disperati eangosciosi — dico disperati e angosciosi — dame fatti per salvare la pace nel fatale agosto del1939. Gli sforzi fallirono. Ciò si deve in parti qua-si eguali agli inglesi e ai tedeschi. Agli inglesi perla garanzia data alla Polonia, ai tedeschi cheavendo pronta una macchina militare potente,non resistettero alla tentazione di metterla inmovimento.

(continua nelle pagine seguenti)

“Scherzi del destino:dal massimo

del potere alla totaleimpotenza,

dalle moltitudiniacclamanti

alla solitudineassoluta”

Gli 88 fogli dei PensieriNel settembre 1943 i Tedeschi

liberano Mussolini al Gran Sasso

e requisiscono tutte le sue carte

che finiscono nel dossier “Duce

Dokumente” alla cancelleria

del Reich. Nel maggio 1945

gli inglesi trovano questi fascicoli

in mezzo ad altre migliaia di carte

Per un anno li fotografano, pagina

dopo pagina. Negli scaffali nazisti

c'è anche un “blocco per appunti”

sul quale Benito Mussolini aveva

scritto con una matita nera

fra il 7 e il 27 agosto 1943 i “Pensieri

pontini e sardi”. Il ricercatore Mario

J. Cereghino ha recuperato questo

materiale finora inedito (in piccola

parte riprodotto in queste pagine)

ai National Archives di Kew

Gardens, nei pressi di Londra

Le riflessioni del Duce sono

contenute in 88 fogli a quadretti

che sono diventati altrettante

stampe fotografiche ingiallite dal

tempo. I brani pubblicati in queste

pagine sono tratti da quei fogli

LA CADUTAIl Gran Consiglio che il 25 luglio 1943

votò contro Mussolini. A destra, uno

strillone annuncia la caduta del Duce

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 22 LUGLIO 2007

“La giornata del 25 luglio”: lettera di Mussolini scritta a Ponza

“Ormai sono uno qualunque”

Terminata la seduta del Gran Consiglio alle2,30 circa, rientrai nel mio ufficio, dove fuiraggiunto da Scorza, Buffarini, Tringali, Big-

gini, Galbiati. Fu discusso se tutto ciò che si era vo-tato era legale, ma io non mi interessai gran che al-la questione. Scorza, che aveva pronunciato du-rante la seduta, quale ultimo oratore, un discorsosenza colore e forse senza convinzione, chiese diaccompagnarmi a casa. Il che avvenne…

Congedato lo Scorza a Villa T., trovai mia mo-glie — inquieta — che mi attendeva. Colla sensi-bilità delle donne — coll’intuito delle donne, es-sa aveva l’impressione che qualcosa di grosso sipreparava. Povera Rachele! Quante poche gioiele ho dato e quanti dolori! Non mai durante tren-ta anni una settimana di pace. Essa meritava, for-se, un altro migliore destino, che non fosse quel-lo di essere legata alla mia turbinosa esistenza! Ciscambiammo poche parole e mi addormentaicon uno di quei sonni brevi nel tempo e malgra-do ciò, eterni, che hanno sempre preannunziatogli eventi decisivi della mia vita.

Alle sette ero in piedi. Alle otto a Palazzo Vene-zia. Regolarmente, come sempre, da 21 anni,aveva inizio la mia giornata di lavoro. — l’ultima.Nel corriere non vi era nulla di molto importan-te, salvo una domanda di grazia per due partigia-ni dalmati condannati a morte. Telegrafai al Go-vernatore Giunta, favorevolmente. Sono lieto —ora — che il mio ultimo atto di governo abbia sal-vato due vite, anzi due giovani vite...

Rientrai a Villa T… Consumai la solita colazio-ne e trascorsi un’ora a conversare con Rachele,nel saloncino cosiddetto della musica. Mia mo-glie più che impressionata, era ormai allarmatadavanti a qualche cosa che stava per succedere.

Alle 16 mi vestii in borghese e accompagnatoda De Cesare mi recai a Villa Savoia dove S.M. miattendeva sulla soglia della Palazzina. Il collo-quio durò mezz’ora. Al momento del congedosulla soglia, il Re mi strinse la mano con moltacordialità. La mia macchina mi attendeva dal la-to destro della palazzina, ma mentre mi dirigevoda quella parte, un capitano dei Carabinieri si...(parola incomprensibile, ndr) dicendomi: «S.M.mi ha ordinato di proteggere la vostra persona» epoiché io accennavo ancora di salire nella miamacchina, egli mi fece salire su un’auto-ambu-lanza già pronta da tempo. Evidentemente! Salìcon me anche De Cesare. Guardati a vista da dueagenti in borghese muniti di moschetti mitra-gliatori, fecero un lungo accidentato percorso —con sbalzi notevoli — che misero qualche voltain pericolo la stabilità del veicolo.

Dopo una breve sosta in una caserma deiRR.CC., che non ricordo, giungemmo alla Caser-ma Allievi Carabinieri. Io fui condotto nell’ufficiodel Colonnello. Guardie con baionetta furono

messe nel corridoio. Da parte degli ufficiali trat-tamento cordialissimo. Alle ore 1 del 26, il gene-rale Ferone, che avevo conosciuto in Albania, miportò un biglietto del maresciallo Badoglio chequi trascrivo: «All’Eccellenza il Cav. etc... Il sotto-scritto Capo del Governo tiene a far sapere a V.E.che quanto è stato eseguito nei vostri riguardi èunicamente dovuto al vostro personale interes-se, essendo giunte da più parti precise segnala-zioni di un serio complotto verso la vostra perso-na. Spiacente di questo, tiene a farvi sapere che èpronto a dare ordini per il vostro sicuro accom-pagnamento, con i dovuti riguardi, nella localitàche vorrete indicare». Seguiva la firma autografa.

Dettai una risposta alla missiva del Marescial-lo e dissi che sarei andato volentieri alla Roccadelle C… Così trascorse il lunedì. Spesso conver-sarono come il colonnello Chirico, il maggioreBonitatibus, il colonnello Tabellini (non dimen-ticherò la amabilità della di lui moglie che mimandò tè e gelati di frutta) il Generale Delfini, ilmedico Ten. Col. Santillo casertano e quindi in-guaribilmente afflitto per la soppressione dellaprovincia di Caserta. Fu un errore!

Ero ormai convinto che sarei andato alla Roc-ca. Viceversa il martedì sera, verso le ore 10, ven-ni fatto discendere e consegnato al Generale Po-lito, della Polizia Militare, nel quale riconobbi ilCommissario di P.S. Polito, che aveva per 17 an-ni lavorato con me e al quale avevo affidato cla-morose e fortunate operazioni di polizia.

Durante il tragitto si parlò del più e del meno,dopo che avevo constatato la direzione dellamarcia: non la Flaminia, ma l’Appia — meta Gae-ta, molo Ciano Corvetta Persefone — con un Am-miraglio, il Maugeri di Gela, decoratissimo ecompitissimo...

Sosta a Ventotene e impossibilità di soggiorno.Continuazione verso Ponza, dove arrivavo versole 11. Non è la residenza che avevo o avrei scelto.Trattamento cordiale. Nel primo giorno il Co-lonnello Pelaghi e successivamente il Colonnel-lo Meoli e il Tenente Di Lorenzo continuano adoccuparsi con molto tatto della mia “incolu-mità” personale non so da chi più minacciata,ora, che l’obiettivo dei complottatori è stato rag-giunto e la mia persona fisica non ha più alcun va-lore, cioè, è uguale a quella di uno qualunque.

Ponza 2 agosto 1943 P. S. 1) Questo è un rapporto di natura confi-

denziale che affido alla discrezione del Colon-nello Meoli, il quale non è autorizzato a comuni-carlo a chicchessia, salvo decisioni in contrario.

2) Può darsi che alcuni dei giudizi sopra-espo-sti non corrispondano del tutto alla realtà, data lamia ignoranza su quanto è accaduto dal 25 luglioin poi, dovuta al totale isolamento morale, alquale sono stato da quel giorno sottoposto.

Repubblica Nazionale

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In questi taccuini scritti a manoe per punti Mussolini ripercorre

il ventennio in un misto di analisi politiche,rimpianti e rancori, frecciate per amici e gerarchi,timori per i familiari. E di giudizi su se stesso:“Se gli uomini stessero sempre sugli altarifinirebbero per ritenersi superuomini, la cadutanella polvere li riconduce all’umanità”

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 LUGLIO 2007

MussoliniL’ultimo

(segue dalle pagine precedenti)

42. Oggi, 16 agosto, ho ricevuto per la primavolta la «Radio Navi» del 14 agosto con notizieda Berlino, Tangeri, Lisbona, Madrid, Istanbul,Stoccolma.

43. È chiaro che se il 10 luglio gli anglo-sassoniavessero subito sulla rada di Gela una «Dieppe» ingrande stile, oggi non sarei in quest’isola.

44. Come sempre, si vorrà anche nella miavicenda «cercare la donna». Ora le donne nonhanno avuto la minima influenza sulla miapolitica. È forse stato male. Le donne talvoltavedono — attraverso la loro sensibilità — piùlontano degli uomini.

45. Crispi e quel fenomeno complesso chefu allora chiamato «crispismo» caddero sottola disfatta di Adua e Felice Cavallotti diventòpopolarissimo. Anche allora il popolo repen-tinamente cambiò.

46. Si passa dal massimo dell’esaltazione almassimo dell’esecrazione.

47. Un giorno un papa mi chiamò «l’uomo del-la Provvidenza». Era l’epoca felice.

48. Se gli uomini rimanessero sempre (parolaincomprensibile, ndr) sugli altari finirebbero perritenersi superuomini, o essere divini: la cadutanella polvere li riconduce all’umanità...

49. ...La perdita di Augusta e di Siracusa... Daquel giorno ebbe inizio l’atto quinto del dramma.Accuse e contraccuse avvelenarono l’atmosfera.Si parlò di tradimento di ammiragli prima perPantelleria, poi per Augusta...

50. Di tutti i regimi cosiddetti «totalitari» sortidopo il 1918, quello turco sembra il più solido: vi èun solo partito, quello del popolo, di cui è capo ilPresidente della Repubblica.

51. Può darsi che qualche commentatore stra-niero, abbia sottolineato la volubilità in fatto diconvinzioni politiche del popolo italiano.

52. Nuovo pomeriggio — 16 agosto — di graveinquietudine. Ho il sangue in fermento.

53. Penso oggi a tre uomini che pur venuti dalnazionalismo, tanto lume di dottrina, tanto fervo-re di fede, tanta realtà di leggi diedero al Fascismo:Alfredo… Enrico Corradini, Forges Davanzati.

54. Saranno stati rispettati i «sacrari» del Fascio?52.Ci fu «congiura» contro di me? Sì, altrimenti

non si spiegherebbe il biglietto che il Maresciallo

dilezione del destino: quanto avrebbe sofferto inquesti giorni.

57. Una voce mi dice: se tu fossi morto, nonavresti lasciato P.V. e V.T. e la Rocca delle Cammi-nate e i parenti e gli amici e tutto ciò che ti fu caro?La voce non tiene conto che ho lasciato tutto ciò,da vivo. Però è come se fossi morto…

58. Verso le 17 di oggi 17agosto è venuto — da me cer-cato — il parroco de La Mad-dalena... «Lasciate», egli hadetto, «che vi parli sincero:non sempre siete stato gran-de nella fortuna, ora doveteessere grande nella sventu-ra. Il mondo vi giudicheràpiù da quello che sarete d’o-ra in poi, che da quel che era-vate fino a ieri...».

59. Il tenente Faiolo... cidice che il ContrammiraglioBona gli ha detto che... Edenha dichiarato che «la Libianon sarà più restituita all’I-talia»…

60. Un mese fa vidi l’ulti-ma volta a Riccione Roma-

no, Anna, Guido, Adria.61. Fisso nelle linee che seguono l’atteggia-

mento di Dino Grandi... dall’inizio del ‘43 sino alluglio… Sino al febbraio, tale atteggiamento pare-va chiaro. Dopo la crisi ministeriale... cominciò ad

essere ambiguo. In taluni circoli lo si chiamaval’«attendista». In altri, lo si definiva senz’altro «an-glofilo». Accusa, quest’ultima, ingiusta...

...Rividi il Grandi, il quale mi ringraziò in termi-ni enfatici e mi disse testualmente: «Prima di in-contrarti io ero un cronista del Carlino, un mode-sto giornalista. Tu mi hai creato. Io devo tutto a te.Tutto ciò che sono diventato nella vita, è operatua. La mia devozione per te non ha limiti, perché— lasciamelo dire — ti voglio anche bene».

Era sincero? In quel momento lo credetti....Le accuse di «attendismo» ripresero...Giacché manifesto il passato degli uomini che

mi furono vicini, parlo anche di Bottai. Come sol-dato, valoroso; come scrittore velleitario... Più cheun volto la sua è una maschera. Non puro sino infondo al bicchiere...

63. Non ho avuto «amici» nella mia vita e piùvolte mi sono domandato se ciò fosse un bene o unmale. Oggi rispondo che era un «bene». Oggi mol-ta gente è così dispensata dal «compatirmi», cioèdal «patire con me».

64. Chissà se al Museo della Guerra di Milanosono ancora esposti e rispettati i cimeli di Bruno!

65. ...In data 30 (luglio, ndr) Göring mi spedivaquesto telegramma: «Duce... vi saluto in questaguisa in occasione del vostro compleanno... miamoglie ed io vi trasmettiamo i nostri cordiali au-guri per il vostro personale benessere...». Questotelegramma mi ha convinto ancora di più che G. èun amico dell’Italia.

66. Albini: mio errore delusione. Brutto nel vol-to e nell’anima. Sapeva tutto e non mi ha dettonulla!

67. La mia figura giuridica sarebbe questa? Ex-capo del Governo protetto per sottrarlo al furoredel popolo.

68. 18 agosto (1937 o 38?) volo da Roma a Pan-telleria e ritorno.

69. È difficile esagerare la gravità del traumapsichico da cui deve essere stata colpita nellanotte del 25 luglio la Gioventù organizzata nella«GIL»... Questa gioventù che era stata ammiratain quasi tutte le nazioni d’Europa... dove andràdomani? Verso sinistra, verso le idee più estre-me; oppure, delusa e sfiduciata non crederà più

BENITO MUSSOLINIBadoglio mi mandò nella notte del 25-26… e nelquale si parlava di un «serio complotto contro lamia persona».

53.È dal 23 ottobre del 1942 che la fortuna mi havoltato decisamente le spalle. La celebrazione delventennale fu turbata dai bombardamenti e dal-l’offensiva nemica in Libia...

54.I miei incontri nel Vene-to con Hitler sono stati segui-ti nelle due volte da avveni-menti ingrati.

55.17 agosto. Il mare sem-bra un lago alpino. Una enor-me monotonia pesa su tutto...

Stento a credere che in casaFarinacci si siano trovati 80 kgd’oro...

Il Comandante del distac-camento che mi «protegge» èil tenente Faiolo, laziale di Se-gni... Egli conobbe nel 1935 inEritrea Bruno e Vittorio, allo-ra adolescenti, andati volon-tari. Il 24 agosto p.v. si com-piono gli otto anni dal giornoin cui partivano dall’Africa...

Erano gli anni 1935-1936 glianni «solari» nella storia dell’Italia e del Regime.Vale la pena di averli vissuti... anche se oggi, tuttele autorità di Roma sono incapaci di darmi notiziedi mio figlio e di mio nipote.

56. ...La morte improvvisa di Bruno fu una pre-

“Anche nella miavicenda si vorràcercare la donna

Ora le donnenon hanno avuto

la minima influenzasulla mia politica

E forse è stato male”

Il ritrovamento dell’originale dei “Pensieri” chiarisce un dubbio storico

NICOLA CARACCIOLO

Le parole di un “dead man walking”

Il ritrovamento del testo originale, nei “Natio-nal Archives” di Londra, dei Pensieri pontini esardi di Mussolini, scritti di pugno dall’ex dit-

tatore, scioglie un vero e proprio piccolo enigmastorico. Finora questi Pensieri erano consideratidi incerta attendibilità. Del testo si conosceva in-fatti soltanto una versione sulla cui autenticità c’e-ra qualche sospetto. Ma andiamo per ordine: èuna storia complicata.

Dopo la caduta del regime, il 25 luglio del1943, Mussolini, com’è noto, fu arre-stato per ordine del re e trasferito pri-ma a Ponza, poi alla Maddalena. Di lìfu poi portato a Campo Imperatore sulGran Sasso dove venne liberato dalleSs del capitano Skorzeny. Il suo statod’animo era di autentica disperazione.Scrive infatti: «Una profonda malinco-nia mi afferra. Sento che mio figlio Bru-no è ora veramente morto». Bruno, avia-tore caduto in guerra, era il figlio forse piùamato. Aggiunge: «Non so ancora cosasono, cosa sono diventato»; e constata:«Gli argomenti di conversazione tra me ei miei interlocutori si esauriscono e tra po-co vigerà la regola della trappa: Silen-tium». Vede nel paesaggio qualcosa dimortuario: «Calma di ferragosto, il marenon ha un brivido, l’aria un soffio. Tuttosembra fermo sotto il sole. Anche il mio de-stino». Si paragona a Napoleone nella sven-tura. Ponza come Sant’Elena. Annota anco-ra: «Ho lasciato Piazza Venezia, Villa Torlo-nia, la Rocca delle Caminate, i parenti, gliamici e tutto ciò che mi fu caro. E ho lasciatotutto questo da vivo. Però è come se fossi mor-to». E conclude: «Neppure Dio può revocareciò che è stato».

Il primo documentario che ho fatto per laRai su Mussolini e il fascismo, Tutti gli uomi-ni del Duce, uscì con la consulenza storica diRenzo De Felice — per me una guida e un mae-stro — nel lontano 1983. Da allora sull’argo-mento di documentari ne ho fatti tanti. Credodi essere in assoluto il giornalista che ha più fre-quentato il materiale fotografico e cinemato-grafico relativo. Ho a suo tempo riscoperto e ti-rato fuori il filmato sul salvataggio di Mussolini aCampo Imperatore e poi sul suo incontro con Hi-tler pochi giorni dopo la stesura dei Pensieri. IlDuce ha un cappellaccio a larghe tese, un cap-potto scuro sdrucito, è mal rasato, ha una facciamagra e tesa con gli occhi spiritati. È l’immaginedi un vecchio barbone con alle spalle una vitasventurata, non quella di un capo di Stato.

Occuparsi come ho fatto io per tanti anni di un

personaggio così ingombrante determina unaforse mal riposta simpatia umana. Il Mussolini deiPensieri, quest’uomo prematuramente invec-chiato, sconfitto, malato, che ricorda il figlio mor-to, si preoccupa per la moglie Rachele, o per l’altrofiglio Vittorio di cui non ha notizie, è indubbia-mente patetico. Tuttavia c’è qualcosa che stride,come una sordità morale: il Paese è a pezzi, la po-litica del Duce ha causato immense sciagure, im-mensi dolori. Alla tragedia di un popolo martoria-to l’ex Duce non dedica nemmeno una riga.

Ma perché finora l’attendibilità di questo testopareva dubbia? Nell’opera omnia di Mussolini(curata dai fratelli Edoardo e Duilio Susmel) è sta-ta pubblicata — sembra un gioco di parole — latraduzione italiana della traduzione tedesca. L’o-riginale era scomparso. Copre il periodo tra il 27luglio e il 20 agosto, prima che il Duce venisse tra-sferito nell’Italia centrale. Lo scritto cadde in ma-no dei nazisti che lo fecero tradurre. Poteva servi-re a capire qualcosa della psicologia e delle inten-zioni di Mussolini, l’uomo che Hitler in passatoaveva tanto ammirato. Di questa traduzione ilFührer pare abbia ricevuto una copia accompa-gnata da un breve resoconto del 25 luglio. Hitlernon rinnegò mai Mussolini però qualche dubbiocominciava ad averlo. Si confiderà con una delleanime più nere del nazismo, Göbbels, che scrissenel diario: «Il Duce non ha tratto dalla catastrofe leconclusioni che il Führer si aspettava. Non pensaa vendicarsi». Conclude: «Il Duce a differenza diHitler e di Stalin non è un vero rivoluzionario. IlFührer è deluso».

Comunque gli originali del testo dei Pensierivennero bruciati al momento del crollo della Ger-mania nazista. Un ufficiale delle Ss ne salvò tutta-via una copia appunto nella traduzione tedesca.Se la tenne nascosta per qualche anno poi si deci-se a farla pubblicare su un giornale austriaco ilSalzburger Nachrichten: troppi passaggi. C’eraquindi il timore di manipolazioni. Grazie alla co-pia rinvenuta da Repubblicaoggi sappiamo che iltesto pubblicato a suo tempo è nella sostanzaesatto anche se c’è per la doppia traduzione qual-che variazione nella scelta dei vocaboli e nel girodelle frasi. I Pensieri pontini e sardirivelano quin-di davvero lo stato d’animo di Mussolini. Sta percominciare la Repubblica di Salò, il momento piùferoce e forsennato del fascismo. Mussolini, pri-ma di rientrare nella fornace, sembra avere unasola speranza, quella di morire. Firma in quei gior-ni qualche lettera «Mussolini defunto», il che sto-ricamente non è senza significato. Nelle prigioniamericane il passaggio di un condannato a morteviene annunziato col grido «dead man walking»,uomo morto che cammina.

Repubblica Nazionale

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ROMA BOMBARDATANelle foto, da sinistra,

case distrutte a Roma

dopo il bombardamento

sul quartiere di San Lorenzo

Benito Mussolini con la moglie

Rachele e i figli a Villa Torlonia

Saluto al Duce al momento

della fuga dal Gran Sasso

a bordo di un aereo tedesco

La foto grande di Mussolini

che illustra questa pagina

e la pagina precedente

è stata scattata al Gran Sasso

in occasione della fuga

Nella foto di copertina,

Benito Mussolini alla scrivania

a Palazzo Venezia

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 22 LUGLIO 2007

a nulla e a nessuno.70. È tornato dal Continente un maresciallo, ta-

le Daini di Ciociaria, e ho scambiato con lui quat-tro parole. È un uomo schietto, di modeste facoltàmentali, per cui le sue parole hanno un certo sa-pore.

71. Fra gli umili che mi hanno servito ne voglioricordare due: Ridolfi e Navarra. Il primo pervent’anni ha cavalcato accanto a me tutte le mat-tine o quasi. È stato il mio maestro di scherma e diequitazione. Scrupoloso, disinteressato, fedelenel vero senso della parola. Gli avranno fatto del-le miserie? Navarra è stato il capo dei miei uscie-ri… Educato, discreto, rispettoso, anche lui disin-teressato. Una parola di elogio va detta anche peril mio autista Borath (il nome esatto è Boratto, ndr)che ha rischiato la pelle con me negli attentati esalvo un cane ucciso a Montefrosinone non hamai avuto il minimo incidente di macchina, puressendo portato a correre velocemente.

72. E dopo gli uomini, perché non dovrei ricor-dare gli animali? Anch’essi sono stati nella mia vi-ta. Sono i nomi dei cavalli Ruzowich, Ziburoff,Ned, Thiene, Fron... E i cani Carlot (brutto ma in-telligentissimo), Bar, il cane di Bruno. Esso stettealcuni giorni accovacciato davanti alla stanza diRiccione, dov’erano le cose di Bruno. Fedeltà diuna bestia!

73. 19 agosto. Se così può chiamarsi la mia set-timana di passione comincia esattamente un me-se fa col mio incontro col Führer a Feltre. Tale in-contro era stato progettato di una durata di quat-tro giorni... senonché gli avvenimenti di Sicilia lofecero anticipare al 19 luglio e ne fissarono la du-rata a un giorno solo...

Il convegno ebbe inizio alle ore 12... il Führer co-minciò a parlare per due ore... il mio segretario en-trò nella sala e mi consegnò una telefonata da Ro-ma che diceva: «Dalle ore 11 Roma è sottoposta aintenso bombardamento aereo». Comunicai lanotizia al Führer e agli astanti... creò un’atmosfe-ra pesante di tragedia...

Terminata l’esposizione del Führer, ebbi unprimo scambio di vedute a quattr’occhi. Egli midisse due cose importanti: la prima che la cam-pagna sottomarina sarebbe stata ripresa con al-tri mezzi e che a fine agosto la flotta aerea dellarappresaglia avrebbe cominciato ad agire suLondra...

Fu solo nell’ora trascorsa in treno che feci chia-ramente intendere quanto segue: e cioè che l’Ita-lia reggeva — ora — l’intero peso di due imperi co-me la Gran Bretagna e gli Stati Uniti... Egli mi dis-se che avrebbe mandato altri rinforzi aerei e nuo-ve divisioni per la difesa della penisola…

Quando l’aeroplano del Führer partì... decol-lai anch’io facendo rotta direttamente su Ro-ma... Vidi una grande densa nube che offuscaval’orizzonte. Era il fumo degli incendi della sta-zione del Littorio… centinaia di vagoni brucia-vano, le officine distrutte... lo stesso spettacoloal deposito locomotive e al quartiere San Loren-zo. I danni apparivano immensi. Scesi all’aero-porto di Centocelle. Dirigendomi a Villa Torlo-nia rimontai un’immensa fiumana di gente chea piedi e con ogni veicolo si dirigeva verso lacampagna. La città aveva un aspetto buio… Neigiorni successivi mi recai a visitare alcuni deiluoghi più colpiti... ma ordinai che non se ne par-lasse sui giornali.

74. Il molto atteso ammiraglio Brivonesi, tor-nato stamane 19 da Roma, ha rotto il mio isola-mento portandomi una lettera di mia moglie indata 13 agosto, nella quale mi dice che anch’es-sa praticamente è isolata, che non ha telefono eche vive in continuo allarme, non so se aereo o dialtra natura...

Poi in una lettera l’ammiraglio Brivonesi mi co-munica... che Vittorio è riparato all’estero ed è sta-to dichiarato disertore, la qual cosa mi dispiaceimmensamente, che Vito è alla Rocca... Circa lamia posizione personale niente di nuovo.

75. Qui finisce il primo quaderno dei Pensieripontini e sardi, ore 15 del giorno 20 agosto 1943.

Repubblica Nazionale

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Sandro Luporini ha lavorato per quarant’annial fianco di colui che egli stesso chiamavail “Brel italiano”. Insieme hanno condiviso

tutto: arte e miseria, passioni e delusioni politiche, sofferenzee successi. Ora, per la prima volta e mentre si preparanole celebrazioni per l’anniversario della morte dello chansonnier,“Lupo” apre i suoi cassetti e sfoglia per noile pagine fittissime scritte a quattro maniin giornate di rabbia, ispirazione e nicotina

“Non ci siamo mai scritti,non ci siamo mai dettigrazie. Sappiamo una cosaentrambi: che nella vitasi soffre solo per amoreIl resto sono preoccupazioni”

DARIO CRESTO-DINA

VIAREGGIO

C’è un luogo dove il signor G. conti-nua a vivere, all’insaputa di tuttinoi. Si trova da qualche parte den-tro un uomo che è stato il prolun-

gamento, non si sa in quale punto innestato, se neipiedi, nella testa o nell’anima, di quel corpo che pa-reva potersi tirare e torcersi all’infinito contro il fon-dale di un palcoscenico. Guardi le foto che li ritrag-gono uno accanto all’altro, i gomiti che si toccano, eintuisci che devono essere ancora lì, in qualche lororifugio segreto. A discutere, a fumare, a ridere di noi.Gaber scrive le sue canzoni su fogli bianchi, senza ri-ghe. Lettere tonde, parole distanziate, qualche voltain stampatello. Numeri ai margini della pagina, for-se un riferimento alla metrica. Annota i temi che vuo-le affrontare. Stampa, Giustizia, Borsa, Partiti, Pote-re, Vaticano, Burocrazia. Alcuni li sottolinea, altri licancella con un rigo. Gli piacciono i pennarelli blu,ma predilige un blu che tende all’azzurro, per le cor-rezioni e i cambi di rotta adopera quelli neri. Lupori-ni ha una vecchia agenda con la copertina di pellemarrone consumata dalle mani sue e da quelle diGiorgio. Le pagine ingiallite sono fitte di appunti. Usauna stilografica con un pennino fine e morbido.Lampi, bellissimi: «La Settimana enigmistica ha lacapacità di assumere in sé due concezioni del mon-do opposte. Infatti, di alcuni quiz, la soluzione nonc’è e bisogna aspettare la prossima Settimana, ugua-le “Storia”. Di altri esiste apagina 44, uguale “Dio”».

Se ci sono uomini che rie-scono a vivere con due cuo-ri tanto da consentire aquello di una persona che siè molto amata di continua-re a battere anche dopo lasua morte o il suo addio, unodi questi è Sandro Luporini.Mentre a ottobre, a quasicinque anni dalla scompar-sa avvenuta il primo gen-naio 2003, la fondazione di-retta dalla figlia Dalia, in col-laborazione con il PiccoloTeatro, dedicherà a Gaberdue settimane di incontri,spettacoli e inediti a Milano,un’iniziativa che ripercor-rerà tutta la sua straordina-ria carriera, Luporini accetta di raccontare i senti-menti e le anse più nascoste di un’amicizia e una sim-biosi artistica durate più di quarant’anni. Lo fa nellasua piccola casa di Viareggio, dalla quale non si vedeil mare che lui immagina soltanto e dipinge dentro unminuscolo studio con una finestra ancora più piccinaaffacciata sulle nuvole lunghe e sottili che aderisconoperfettamente alla sommità del cielo. Nei suoi quadriil mare è sempre grigio. È un mare di lavoro, di fatica,non di villeggiatura e castelli di sabbia. Quasi sempred’inverno. Giovani donne camminano senza che i lo-ro piedi tocchino terra, uomini imbacuccati in lunghicappotti trascinano sulla battigia la loro solitudine

ni e nella mia timidezza. Siamo anche poco atti a rac-contarci le cose intime, i nostri stati d’animo, l’amo-re. Sappiamo una cosa entrambi, cioè che nella vita sisoffre soltanto per amore. Il resto sono preoccupa-zioni». Nel ’59 Luporini a Milano abita in via Procac-cini con i colleghi pittori Banchieri, Martinelli e Fer-roni, assieme confluiranno nel gruppo del realismoesistenziale. Ha ventinove anni. Il ventenne Gaber stalì vicino, in via Landonio. Si sfiorano per il cappucci-no al bar Sempione, fino a quando Luciano, un ami-co comune, li fa incontrare. «Io canto», dice Gaber. «Iodipingo, ma verrò a sentirti», risponde Lupo. «La pri-ma volta vado in una balera nei pressi di Varese. Can-ta in inglese, una roba rock. Non capisco un cazzo, maresto affascinato dalla sorprendente energia che spri-giona quel corpo magro e secco. La nostra amiciziacomincia così, una simpatia anche fisica, senza sco-modare l’omosessualità. Giorgio ha sete di conosce-re, esce da ragioneria, io ho già letto Platone e Robbe-Grillet e ho un cassetto pieno di poesie. Lui è allegro,divertente. Giochiamo a calcio balilla, a biliardo, ascacchi. Più che di politica ci piace parlare dell’atteg-giamento verso la vita. Siamo molto politici senza fa-re politica, senza alcuna simpatia nei confronti deipolitici. Un giorno mi dice: scrivimi una canzone. Lofaccio. Nasce Il signor G. incontra un albero». Gaber lainterpreta per gioco in casa, le sere in cui invita un po’di gente. Verrà recuperata nei Borghesi, quando Gior-gio abbandona la tv e con Sandro inventa il teatro can-zone. Cominciano gli anni Settanta, il debutto al Pic-colo con il primo spettacolo firmato assieme, dal tito-lo Dialogo tra un impegnato e un non so. Non si fer-mano più. Lavorano a Viareggio, poi alla Padula, l’exconvento che Gaber compra a Montemagno di Ca-maiore, sopra il mare della Versilia. «Ogni volta par-liamo per venti giorni, un mese, senza prendere unappunto. Trovato il titolo e gli argomenti, ci barri-chiamo in una stanza dalle tre del pomeriggio alle ot-to di sera. Fumiamo una sessantina di sigarette cia-scuno, la stanza diventa una camera a gas. Io scrivocome un forsennato, anche cinquanta pagine inun’ora, lui taglia questo fiume di parole, perché èGiorgio l’architetto. Ha il senso del passo, della ritmi-ca, una rara speculazione del pensiero, un’intelli-genza a cuneo. È quello che fa i salti mortali tra le miesestine e ottavine e mette a posto le cose. Se me laprendo e gli dico: “Cristo santo, quel pezzo potevi la-sciarlo”, lui mi zittisce: “Sandro basta, il pubblico sistanca presto”. Io copio a man bassa da Céline, il piùgrande, pesco un po’ di Borges, rubo a Shakespeare ePessoa. Ci divertiamo come matti. Io gli dico: Gior-gio, tu sei come Brel mentre De André è il nostro Bras-sens. E io sono un pittore al quale hai donato la paro-la per dire cose che con il suo mestiere non sarebberiuscito a esprimere».

Li affascina la prima fase del Sessantotto, quella an-tiautoritaristica. Contro la famiglia, contro la scuola,contro lo Stato. Li delude la svolta politica della ribel-lione, ne prendono le distanze nel ’77 con la messa inscena di Polli di allevamento. Attaccano la sinistra, li-tigano con l’Unità, per una battuta sui “grigi compa-gni” di Io se fossi Dio si vedono negare i teatri dell’E-milia, si stancano presto di Craxi, quasi risparmianoBerlusconi. Gaber soffre il passaggio della moglieOmbretta Colli nelle file di Forza Italia, eppure non c’èsolo questo. «Ci è più congeniale picchiare i vicini

come in un tempo sospeso, clown e fate dolenti al-l’ultima notte di carnevale sotto la luna pallida cerca-no di farsi vicendevolmente coraggio con sguardimuti per togliere la maschera della giostra e rimetter-si addosso quella di tutti i giorni.

Lupo ha settantasette anni, una figlia di quattordi-ci, una fidanzata di ventidue che lo ha appena chia-mato per dirgli che ha preso trenta all’università e unafaccia che è un misto tra John Wayne e Jack Lemmon.È lungo, magro, porta camicia e pantaloni azzurri. Daragazzo studia ingegneria e legge libri su Van Gogh. Siinnamora di Morandi e De Chirico. Nel ’52 va a Roma.«Ma Roma è solo cinema, anzi er cinema. Pensano so-lo a quello. A teatro non vanno oltre Zio Vania e Gol-doni, mentre a Milano già si mette in scena Ionesco,Beckett, Brecht. E c’è Strehler. Allora mi dico: è a Mi-lano che devi andare. Scopro una città magnifica, al-l’avanguardia, accogliente. I tassisti apostrofano imeridionali con un hei terùn, ma c’è un non so che diaffabile e scherzoso nella battuta, quasi un abbraccioche scalda». Apre scrivanie, sfoglia libri, cerca comechi si prende gioco di te, come chi non vuole dividerei ricordi con uno straniero. «Non ho più niente diGiorgio». Mi mostra una chitarra che tiene sopra unarmadio. «Un suo regalo, tento qualche accordo, ognitanto. Io gli ho dato in cambio Minima Moralia diAdorno. Io e Giorgio non ci siamo mai scritti una let-tera, non ci siamo mai detti grazie. Abbiamo conser-vato una verecondia antica, abbiamo persino il pu-dore di abbracciarci. Negli anni più recenti al termi-ne dello spettacolo lui mi chiama sul palco, io mi na-scondo, ho sempre il timore di inciampare nei gradi-

I taccuini del Signor Ll’altra metà del Signor G

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 LUGLIO 2007

Gabersegreto

I RICORDINella foto grandeGiorgio Gabere Sandro Luporinisulla scenadello spettacoloIl grigio; qui in alto,Notte di Carnevalesulla spiaggia (2002)di Luporini; Gabere Ombretta Colliin viaggio di nozzein Marocco nel ’65

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Repubblica Nazionale

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L’ultima risata di un anti-italianosui professionisti del culto postumo

FRANCESCO MERLO

Sono tra quelli che amano Marx, ma non sopportano i marxisti. Allo stessomodo, non sono un gaberista. Peggio: da morto, Gaber non mi piace più.Penso infatti che in Italia la gran parte degli omaggi funebri sono sigilli ci-

miteriali, pietre tombali che chiudono ermeticamente e definitivamente i sarco-fagi. E dunque anche Gaber, che da vivo sfuggiva all’appartenenza e non volevaconsegnarsi «a quei bordelli di pensiero / che chiamano giornali», da morto haavuto i suoi becchini, e ovviamente in molti lo hanno tumulato per pareggiare iconti della serva.

A sinistra, quelli che egli aveva ridicolizzato e che sempre più lo trattavano comeun ospite impresentabile, come un qualunquista (o, peggio, come un traditore pervie coniugali) si sono presi la rivincita sul morto: oggi sono diventati tutti “gaberia-ni”. Potesse vederli, sono sicuro che il poeta degli sconfortati che non trovano maila posizione comoda, che lo sgraziato e affascinante mimo che introduceva la di-stanza cantando la vicinanza, li tratterebbe con il solito devastante sarcasmo, bec-cando a nasate la malafede celebrativa dei «colitici psicosomatici».

Più facile da immaginare è l’ironia che riserverebbe alla destra che, lui vivo, siera frustrata in manovre di accostamento, e adesso che è morto e sepolto incre-dibilmente si riconosce nel “Gaber giovane”, si è appropriata dello stralunatocompagno che cantava il «Primo maggio di lotta e di coraggio», del malinconicopoeta di ringhiera, di quello che fischiava «in un cortile largo fatto a sassi». Ri-cordate? Berlusconi ai funerali arrivò a dire: «È stato il cantautore della mia Mi-lano, quello della mia giovinezza». Evidentemente scambiava Il Giambellinocon Milano 2. Ma ve lo immaginate il giovane Silvio che canta alla luna «nellestrade di notte»?

La verità è che Gaber, che ha sempre cantato il disagio della inadeguatezza,l’ossimoro dell’anarchia solidaristica, l’impossibile solidarietà dell’individuali-sta, ha lasciato un disco postumo che si intitola Io non mi sento italiano. Anch’e-gli faceva parte dei grandi italiani anti-italiani, grandi di varie grandezze, daiManzoni sino ai Gassman. Perché ci sono solo due modi di essere italiano. O as-sumendo su di sé i vizi e i difetti d’Italia, o sentendosi sempre altrove, sempre con-tro, sempre fuori. Potesse vedere come l’hanno ridotto, cosa farebbe, secondovoi, Giorgio Gaber? Secondo me si farebbe uno shampoo.

piuttosto che gli estremamente lontani, megliobastonare i compagni che Andreotti. Ma decidia-mo anche che sulla politica non c’è più nulla dadire. Giorgio e io siamo dei veri comunisti, i solirimasti. Crediamo nel comunismo antropologi-

co, stessi diritti e stessi bisogni alla nascita per ogni es-sere umano, e non assolviamo questa sinistra che nonè più sinistra, una sinistra che quando va al potere di-venta quasi di centrodestra. Ci è cara una frase delsubcomandante Marcos: bisogna sempre combattereil potere per non prenderlo. Il potere, prima o poi, siestingue da solo. Sepolta la politica, ci restano i senti-menti». Li raccontano, li mettono in musica. Sono trele canzoni che non dimenticheranno mai e di cui van-no orgogliosi: Il dilemma, Quando sarò capace diamare e Illogica allegria.

Gaber si ammala di cancro, Luporini continua a

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 22 LUGLIO 2007

Io, quella volta lì, avevo sessant’anni. Eravamo nel 2000 o giùdi lì. Praticamente ora. E vedendo le nuove generazioni, i ven-ticinquenni di ora così diversi mi domando: che eredità abbia-

mo lasciato ai nostri figli? Forse, in alcuni casi, un normale benes-sere. Ma non è questo il punto. Voglio dire... un’idea, un sentimen-to, una morale, una visione del mondo... No, tutto questo non lo vedo.Allora ci saranno senz’altro delle colpe. Sì, il coro della tragedia gre-ca: i figli devono espiare le colpe dei padri.Siamo stati forse noi padri insensibili, autoritari, legislatori di stupideistituzioni? No. Allora dove sono le nostre colpe. Un momento, era trop-po facile per noi essere pacifisti, antiautoritari e democratici. I nostri padriavevano fatto la Resistenza. Forse avremmo dovuto farla anche noi, la Re-sistenza. È sempre tempo di Resistenza. Perché invece di esibire il nostro at-teggiamento libertario non abbiamo dato uno sguardo all’avanzata dello svi-luppo insensato? Perché invece di parlare di buoni e di cattivi non abbiamoalzato un muro contro la mano invisibile e spudorata del mercato? Perchéavvertivamo l’appiattimento del consumo e compravamo motorini ai no-stri figli? Perché non ci siamo mai ribellati alla violenza dell’oggetto?Il mercato ci ringrazia. Gli abbiamo dato il nostro prezioso contributo.Ma voi, sì, voi come figli, non avete neanche una colpa?Dov’è il segno di una vita diversa? Forse sono io che non vedo. Rispondete-

mi: dov’è la spinta verso qualcosa che sta per rinascere? Dov’è la vostra indi-viduazione del nemico? Quale resistenza avete fatto contro il potere, contro leideologie dominanti, contro l’annientamento dell’individuo?D’accordo, non posso essere io a lanciare ingiurie contro la vostra impotenza.C’ho da pensare alla mia. Però spiegatemi perché vi abbandonate ad un’iner-zia così silenziosa e passiva? Perché vi rassegnate a questa vita mediocre sen-za l’ombra di un desiderio, di uno slancio, di una proposta qualsiasi? Forse ilmio stomaco richiede qualcosa di più spettacolare, di più rabbioso, di più vio-lento? No! Di più vitale, di più rigoroso, qualcosa che possa esprimere almenoun rifiuto, un’indignazione, un dolore…Quale dolore? Ormai non sappiamo neanche più cos’è, il dolore! Siamo cadu-ti in una specie di noia, di depressione... Certo, è il marchio dell’epoca. E quan-do la noia e la depressione si insinuano dentro di noi tutto sembra privo di si-gnificato.Si potrebbe dire la stessa cosa del dolore? No! Il dolore è visibile, chiaro, localizzato, mentre la depressione evoca un malesenza sede, senza sostanza, senza nulla... salvo questo nulla non identificabileche ci corrode.

L’INEDITO

stare con lui, su alla Padula, tra le colline. Scrivonouno spettacolo in prosa di sei racconti, più un’intro-duzione e un epilogo (inedito pubblicato in questepagine) che devono essere intervallati da una can-zone. Lo chiamano Io quella volta lì avevo 25 anni.Rimarrà in un cassetto. «Siamo alla fine. Giorgio nonriesce più nemmeno a sollevare la chitarra. Ma fac-ciamo finta di lavorare, facciamo finta di essere sa-ni. Lui rivela un coraggio incredibile. Come ha sapu-to amare, sa soffrire. Una delle ultime sere mi dice:“Purtroppo non si muore mai”. Quando succede,smetto di scrivere. Per tre anni non riesco più a pren-dere la penna in mano». Un giorno ricorda le paroledi Gaber: «Vivi sempre come un bambino». Allora lofa: «Come se avessi davanti altri cent’anni di stupo-ri». Oggi Luporini, l’uomo nel quale battono duecuori, scrive di nuovo.

GIORGIO GABER E SANDRO LUPORINI

I DOCUMENTIDall’alto:

il testo del ’72 di L’ingenuo;quello di Il potere dei più buoni

del ’97 e un appuntodall’agenda di Luporini

sulla Settimana enigmisticadella seconda metàdegli anni Settanta

Voi, figli rassegnatia un mondo di noia

MARCO TRAVAGLIO

Mordacchia Mastella

CINZIA SCIUTO

Chiesa pigliatutto: le carte

truccate dell’otto per mille

GIUSEPPE GIUSTOLISI

e MARCO TRAVAGLIO

Anna Finocchiaro, vita e opere

di una Ségolène con l’inciucio

GIOVANNA

CORRIAS LUCENTE

Il businessdella diffamazione

CATERINA MALAVENDA

Una proposta democratica,dunque indecente

GIAN CARLO CASELLI

ORESTE FLAMMINII MINUTO

GAETANO PECORELLA

LUCIANO VIOLANTE

Il bavaglio bipartisan,ovvero la legge Mastella

contro la libertà di stampa

FURIO COLOMBO

Sotto il “riformismo”, niente

MASSIMO CACCIARI

Partito democratico?

Purché federalista

PANCHO PARDI

OLIVIERO DILIBERTO

GIANFRANCO BETTIN

MARCO REVELLI

La partitocraziapuò essere di sinistra?

Repubblica Nazionale

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«Un gelato al limone», cantava Paolo Conte. Nessuno canterebbe maiun gelato al peperone. Eppure, è un vero godimento per il palato,tanto che a Senise, terra benemerita per il prodotto più carnale del-l’orto, la seconda settimana di agosto bar e pasticcerie faranno a ga-ra per realizzare coni e coppette golosissime. Siamo tradizionalisti:i peperoni sono verdura, e quindi da collocare nella casella del “sa-

lato”. Eppure, le tante ricette in agrodolce dovrebbero insinuare una piccola crepa nel no-stro castello di certezze gastronomiche. I fortunati che hanno assaggiato gli strabilianti fa-gottini di fagioli e peperoni con crema al peperoncino di Fulvio Pierangelini — dessert im-possibile da gustare oltre il secondo boccone senza chiedere un bis preventivo — sannoquanto poco valgano nella cucina d’autore le divisioni tra dolce e salato.

Il peperone è così: sfrontato, intenso, tanto pieno di colori da poter simboleggiare il po-tere della cromoterapia: rosso, giallo, verde, ovvero vitamine a gogo (C in primis, con per-centuali maggiori che in pomodori e agrumi!). In più, l’esile manciata di calorie lo rende per-fetto — arrostito, con un filo d’olio e un trito di odori — per un antipasto dietetico ma tutt’al-tro che punitivo nel sapore.

Se il fuori è sgargiante, l’interno è infuocato: merito della capsicina, alcaloide che confe-risce il tipico gusto piccante, annidata nella parte membranosa biancastra. La presenza dicapsicina si misura con la scala Scoville: se nel peperone dolce la quota massima è di 500unità, nell’Habanero si arriva fino a 300.000, roba da vigili del fuoco...

Eliminata la buccia, che può appesantire il lavoro dello stomaco, l’unica altra controin-dicazione è di tipo familiare. Come pomodoro, melanzana, tabacco e patata, infatti, il pe-perone appartiene alle solanacee. Come dire, ortaggi a rischio di intolleranze (tutta colpadella solanina, altro alcaloide lievemente tossico).

A completarne la personalità intrigante, i fiori ermafroditi e quindi capaci di autofecon-darsi senza attendere l’operoso spendersi degli insetti da una pianta all’altra. Una fiorituratanto prolungata da far scoprire sullo stesso fusto infiorescenze e frutti (bacche) a diversipunti di maturazione, così da poterli raccogliere freschi per molte settimane consecutive.

Tanto sfacciato quanto modesto: Eduardo De Filippo lo celebra come protagonista nel-le sue ricette di cucina povera e popolare all’ombra del Vesuvio. Perché col peperone si puòfar di tutto: cuocerlo intero o in filetti, addentarlo crudo come natura l’ha fatto, battezzatocon una lacrima d’extravergine grintoso e un grano di fleur de sel o immerso nella perversa,irresistibile bagna caoda (salsa calda di aglio, olio e acciughe), accoppiarlo con carne o pe-sce, pasta e riso, frutta e verdura, zucchero e sale, olio e aceto, farne salse, gelatine, biscotti.

Sulle rive del Mediterraneo, dalla Puglia alla Turchia, per sopperire all’astinenza inver-nale dei frutti coltivati en plein air(le serre non rendono mai merito ai profumi scatenati dal-la maturazione al sole, assaggiare per credere) è diffusa la pratica dell’essiccazione. Due, tregiorni dopo averli appoggiati su teli o reti lontano dalla luce, s’infilano dal lato dei pedun-coli con uno spago sottile. Le collane, esposte all’aria perché perdano l’acqua residua, di-ventano monili da appendere in cucina, facili da ritrasformare in cibo tagliandoli fini o dan-do loro qualche attimo di bollore.

Ma il loro vero trionfo è nelle ricette d’estate. Innamorati del caldo, si esaltano nel gazpa-cho andaluso, farciti al forno, con l’insalata di pasta. Se poi frullate la peperonata raffred-data insieme a qualche foglia di basilico e mentuccia, diventeranno impagabile salsa da cro-stini. Un bicchiere di Sauvignon — profumo di foglia di peperone! — vi accompagnerà nel-la cena fredda più appetitosa dell’estate.

i saporiVerdure a colori

Sgargiante e colmo di vitamina C, straordinariamente piccantein alcune varietà, ha dimostrato in cucina una versatilitàche ha ben pochi paragoni. È buono crudo o cotto, interoo a filetti , accoppiato con carne o con pesce, pasta e risoE adesso è partito alla conquista delle ricette dolci,cominciando dai dessert per finire in gelateria...

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 LUGLIO 2007

PeperoniI belli dell’orto innamorati del caldo

LICIA GRANELLO

le calorie per cento grammidi peperone

31

della produzione provieneda coltivazioni del sud

51%

gli ettari dedicatialla coltura del peperone

14.000

‘‘Isabella QuarantottiDe Filippo

Eduardo aveva invitatoa pranzo Nilde Iotti,

una gran bella persona,e voleva farle assaggiare

i mucilliCosì vengono

chiamati a Napolii peperoni imbottiti

di spaghetti, e cioè micini,perché, messi stretti stretti

in una teglia da forno,sembrano una nidiatadi gattini appena nati

Da Si cucine cumme vogli’i’...La cucina povera di Eduardo

de Filippo raccontatadalla moglie Isabella,

Guido Tommasi Editore

QuadratoCroccante, spesso, uniformenella pezzatura, ha saporedolce e aromatico, colorevariabile tra giallo e rossoFamoso quello di La Motta,frazione agricoladi Costigliole d’Asti

Corno di bueHa forma conica e moltoallungata. Polpacompattae colore netto lo rendonoadatto per le conserveÈ la varietà d’elezioneper il piatto-cultopiemontese bagna caoda

TrottolaDimensioni contenute,forma a cuore, consistenzamolto carnosa, coloresoprattutto giallo (tre quartidella produzione) e rossoOttimo per le conserveTra le varietà, quarantinoe pimento

TopepoIl peperone-pomodorodeve il nome alla superficiecostoluta e al contornosferico. Ha colore verdeintenso che vira al gialloe al rosso quando maturaLa polpa è spessa e dolceOttimo anche sotto aceto

PapacellaBattezzato ricciaper la superficie diseguale,ha polpa carnosae molto saporitaViene impiegatoin sottaceti e sottoli,o farcito con ripieno di tonno,alici, mollica e pomodorini

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 22 LUGLIO 2007

Il toscanoMaurizioGalliganiè il garbato,colto proprietariodel ristorante“La Refezione”

di Garbagnate Milanese,dove si alternanoricette tradizionalie rivisitazioni intelligentiTra i piatti più golosidel suo menù, una soaveterrina di peperonicon melanzane e ricotta

Nomeultramillenarioper lo storicopolmone agricolodella provinciatorineseLe quattro varietàcoltivate in zona —quadrato, trottola,

corno di bue e tumaticot — protette dal Presidio SlowFood, vengono festeggiate tra agosto e settembre

DOVE DORMIREAGRITURISMO LA BENVENUTA (con cucina)Via San Pietro 10Tel. 011-9795062Camera doppia da 55 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELA TORRE Via Carlo Costa 17/aRacconigiTel. 0172-811539Chiuso lunedì sera e martedì, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREBANCARELLE CONTADINElungo la stataleCarmagnola-Poirino

Carmagnola (To)Impreziositadal bel centro storicobarocco,è appoggiata davantialla Valle d’Itria,punteggiata di trulliLa cucina mandain passerellagli ortaggi

della campagna, a cominciare dai peperoni, fritti,arrostiti o farciti a mo’ di involtini

DOVE DORMIRECASABELLA B&BVia Tiro a segno 6Tel. 080-4303647Camera doppia da 90 euro, colazione esclusa

DOVE MANGIARECIACCOVia Conte Ugolino 14Tel. 080-4800472Chiuso lunedìMenù da 35 euro

DOVE COMPRAREORTOFRUTTA DOMENICO TOPOVia della Libertà 34Tel. 080-4808094

itinerariIl bel borgo lucano,impreziositodalle sue ricchezzearchitettoniche,è l’epicentrodi una zonabenedettaper la produzionedel peperone

crusco Igp. Tredici i comuni interessati, affacciatisulle valli del Sinni e dell’Agri, parco del Pollino

DOVE DORMIREAGRITURISMO COSTA CASALE contrada Vito ChiaromonteTel. 0973-642346Camera doppia da 55 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELUNA ROSSAVia Marconi 18Terranova di PollinoTel. 0973-93254Chiuso mercoledì, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREORTOFRUTTA GAZZANEOVia Carlo Marx 17Tel. 0973-585000

Martina Franca (Ta)Senise (Pz)

RipienoCento ricette con il peperone

in versione contenitoreSpellato per renderlo

più digeribile, si farciscecon carne, riso, verdure,

pesce, formaggiPer i vegetariani pasta, tofu,

spezie e carne di soia

AgrodolceSalsa agrodolce unita

ai peperoni in tocchettidirettamente nei vasi

prima di bollirliOppure cottura dei peperoni

in olio e cipolla,poi pomodori

Aceto e zucchero alla fine

PeperonataFatti sudare in olio gli anelli

di cipolla, si aggiungonosbucciati i peperoni privati

dei semi e tagliati a listarelleo i pomodori a tocchetti

Una volta insaporitoil primo ortaggio, si aggiunge

il secondo. Basilico alla fine

InfornatoNella tradizione siciliana

la teglia, abbondantementeunta d’extravergine,

ospita peperonia tocchetti, olive nere,

capperi, basilico,prezzemolo, sale,pangrattato, aglio

InvoltinoLa farcitura varia

da una fettina di roast-beefo una crema di tonno e ricotta

(senza cottura), ai compostida spalmare su fettinedi peperone spellato.

Chiusura con stecchinobagnato e passaggio in forno

Sembrerebbe un cibo se non fosse per il suosapore strano e intenso. Con queste paroleCristoforo Colombo, esploratore dei mari,

ma anche esploratore del gusto, annuncia all’Oc-cidente la scoperta del peperone.

Proprio come gli uomini del Nuovo mondo, an-che i loro cibi suscitano diffidenza. Se i nativi ame-ricani appaiono ai bianchi come degli pseudo-umani, i loro cibi sembrano degli pseudo-alimen-ti. D’altra parte il povero ammiraglio del Gran Ma-re Oceano bisogna anche capirlo. Abituato a rape,fave e fagioli il suo palato non poteva che naufra-gare nei vertiginosi abissi di sapore del peperone.

Con questo edificante esempio di eurocentri-smo militante comincia l’avventura europea del“pepe d’India”. Così viene chiamato all’inizio peril suo gusto forte come quello del pepe. Tanto sa-pido e profumato che gli spagnoli lo scambianoper una spezia e lo importano sicuri di fare ungrande business, come con la noce moscata, lacannella, lo zafferano e il cacao. Ma fanno i contisenza la prodigiosa capacità del peperone, dolce epiccante, di adattarsi a tutti i climi. In pochi de-cenni orti e giardini d’Europa e d’Africa si popola-no di peperoni di ogni colore e dimensione. Così il

sogno monopolistico dei conquistadores falli-sce miseramente. Ogni contadino, an-

che il più povero, può fabbricarsi lasua dose di pepe d’India. Prezioso

esaltatore di sapori, la spezia deipoveri conquista le nostre tavo-le con una irresistibile spintadal basso. Mentre l’aristocra-zia si sazia di carni grasse far-cite di tartufi, insaporite dachiodi di garofano, zafferano ecannella, i poveri, maestri nelfare di necessità virtù, inventa-

no capolavori di gastronomiademocratica. Che costituiscono

ancora oggi un patrimonio di sa-pori con pochi eguali al mondo. Dal Piemonte alla Sicilia sua mae-

stà il peperone regna sovrano sullemense del Bel Paese. Crudo e cotto, ar-

rostito e fritto, secco e in polvere, buonocon carni e pesci. Sublime con la pasta.

Contenitore e contenuto, imbottito e im-bottitore, dolce e piccante. Contorno specia-

le per colpi di teatro gastronomici grazie anchead una fantasmagoria di colori che sembra fatta

apposta per appagare insieme l’occhio e il palato.Sottaceto al nord, spellato vivo al sud, questo

jolly della cucina pop si trova dovunque. E ovun-que rispecchia l’identità alimentare del luogo, neprende i sapori e i profumi. Il mimetismo di que-sto Zelig degli ortaggi ha dato vita ad un ampiospettro di variazioni locali. Dal peperone con leacciughe, gloria degli antipasti piemontesi, allepeperonate lombardo-venete fino alle peveradeche esaltano il gusto dei bolliti padani. E scenden-do giù per lo Stivale lo si ritrova sposato con il bac-calà come lungo il Tirreno o fritto in padella conolive, capperi e pinoli come a Napoli, dove si cele-bra anche il culto dei peperoncini verdi, dal gustosexy ed austero, prima fritti, poi ripassati nel po-modorino, infine buttati sugli spaghetti. Un veroinno al piacere. Come i peperoni croccanti che co-lorano di rosso acceso balconi e finestre dei paesiarrampicati sull’Appennino meridionale, dall’Ir-pinia alla Lucania. Fino alla Puglia dove i cosid-detti friggitelli, verdi e lunghi, vengono consuma-ti semplicemente fritti, con quella raffinatissimasobrietà che è tipica di quella terra. Mentre la Sici-lia ha fatto della caponata un sontuoso saggio digastronomia barocca. Per non dire delle impara-bili salsicce calabresi infuocate dal peperoncino.Un connubio coronato da un successo planetario.Al punto che la pizza col salamino piccante, da LosAngeles a Pechino, da Sidney a Nairobi si chiama“peperoni”. E basta.

Insomma è il sapore esplosivo la costante chesegna, sempre e dovunque, il destino del pepero-ne. Dalla diffidenza degli inizi al trionfo attuale.Da quasi-cibo a gusto globale.

È lo Zeligdegli ortaggi

MARINO NIOLA

Repubblica Nazionale

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le tendenzeDonne in divisa

È il simbolo di ogni conflitto: così vestono i soldati e i manifestantiper la pace, le rockstar e i no global, i teenager e gli ecologistiLo hanno celebrato Andy Warhol e Veruska, se ne sono impadronitii grandi stilisti da Gaultier a Yamamoto fino alle nuove collezioniPrada e Fendi. Per questouna grande mostra a Londra all’ImperialWar Museum rende onore al secolo breve della mimetica

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 LUGLIO 2007

Il titolo dell’opera d’arte del giova-ne giapponese Hiroharu Mori al-la Biennale di Venezia si intitola ACamouflaged Question in The Aire viene definita nel catalogo «unpallone-pensiero, alla portata di

chiunque voglia intrattenere dei pen-sieri sulle proprie incertezze». Cioè? Sitratta di un video in cui l’artista, poi unasignora, poi una famigliola con cane, suun prato idillico, trattengono con un fi-lo un grande pallone gonfiato bianco,decorato da un punto di domanda gi-gante di disegno chiazzato, cioè mime-tico, o se si vuol essere alla moda, camo(da camouflage). Quindi par di capireche le incertezze dell’artista siano rap-presentate non tanto dal punto di do-manda, quanto dal camouflage che locompone.

Insomma se vuoi dire qualcosa daimille significati, rivolgiti al camo che vasempre bene: anche se, in fatto di usouniversale, ha sempre avuto i suoi alti ebassi, sin da quando se ne scoprirono levirtù di occultamento, cancellazione,protezione e disorientamento durantela prima guerra mondiale, virtù già pra-ticate da sempre in natura dagli animaliper rendersi invisibili agli occhi dei pre-datori e dei cacciatori, a loro volta mi-metizzati, i primi dai colori delle pelli, isecondi con un abbigliamento moltomaschile color foresta, con berretti co-perti di foglie e piume, per turlupinare ipoveri cacciati.

Oggi il camo si trova dappertutto, è ilsuo momento, a cominciare da unagrandiosa mostra in uno dei più affasci-nanti e frequentati (quasi esclusiva-

mente da uomini) musei del mondo, illondinese Imperial War Museum, doveviene sottoposta a muta devozione ognisorta di bombardiere o carro armato odivisa delle varie guerre ovviamente vin-te dalla Gran Bretagna. A Milano si è piùartisticamente pratici e sono i conteni-tori dell’Amsa ad essere dipinti a mar-gherite o a foglie di quercia o a felci, peralleviare almeno visivamente le puzzeche emanano; abbondano ovunque instrada i pantaloni chiazzati da paraca-dutista carichi di cinghie e tasche pereventuali shopping pesanti, e anche lamoda firmata quest’anno si è mimetiz-zata soprattutto nelle borse: per uomo diFendi di tessuto militare, per signore diPrada di raso macchiato a colori accesi,oltre ai parka di Angela Missoni.

Certo negli anni scorsi si era osato dipiù e sono esposti alla mostra londinesemeraviglie di lusso eccentrico come ilminiabito di Versace in camoverde sme-raldo, indossato nella sfilata del 1996dalla turbolenta Naomi Campbell, e poisontuose crinoline da Imperatrice Eu-genia di massima ironia bellico-frivola,con montagne di chiffon maculato(Gaultier, 2000), in raso a doppia gonnaa fogliami autunnali (Valentino, 1994), etutta una asimmetria di teli a disegnoche più camo non si può (Yamamoto,2006) anche nel trucco della stravoltamodella. Il camouflage rappresenta ildisorientamento, la maschera, il cam-bio di identità, la contraddizione, l’invi-sibilità, è il Dorian Gray dell’apparenza;immagine tradizionale della guerra an-cora oggi in Iraq e nei mille sanguinosidisordini del mondo, fu indossato con-tro la guerra nelle manifestazioni per lapace dai veterani del Vietnam, piace

adesso ai no global in funzione anticon-sumo, lo indossano i gruppi pop per farcasino, lo sbandierano i protettori dellanatura come simbolo ecologico.

L’arte vi ricorre vantandosi di essernestata la fonte di ispirazione, sin dai tem-pi del cubismo. O viceversa? Sempre al-la Biennale, la franco marocchina YtoBarrada espone Public Park, una serie difoto che rappresentano ognuna unapersona distesa su un prato con la faccianascosta sotto un telo o un cappuccio;ma il surrealista inglese Roland Penrose,biografo di Picasso, era stato più ardito.Nel 1940, a seconda guerra mondialeiniziata, tenne delle conferenze all’eser-cito, illustrandole con foto della suaamante del momento, la modella efotografa Lee Miller, bellissima, di-stesa su un prato, completamen-te nuda sotto una rete, per di-mostrare l’efficacia voyeur diquesto tipo di camouflage.

Come si vede nei quadri an-tichi, o nei film che rievocanobattaglie del passato, sino allafine dell’Ottocento i soldati in-dossavano divise riconoscibili,rosse, bianche, azzurre, diven-tando facili bersagli: carne dacannone, o da sciabola, come sidiceva una volta. In realtà il camou-flage come arma di difesa e comunquedi inganno (nell’estate del ‘44 gli Alleatischierarono un gigantesco contingentedi mezzi corazzati finti per far credere aitedeschi che lo sbarco sarebbe avvenu-to a Calais e non in Normandia) divenneindispensabile con la Prima guerramondiale quando per la prima volta l’a-viazione venne usata per le ricognizionidall’alto. Furono chiamati artisti di fa-

NATALIA ASPESI

Arte da camaleontiper la guerra contro l’invisibilità

ORME SUL TERRENOCamouflage in rosa

per le stiletto disegnateda Philip Tracy

per Gina Couturee, in basso, prototipo

di anfibio di Pittards

CAMALEONTI VOLANTIL’adozione del camouflage da parte degli aereida guerra trasformò il secondo conflitto mondialeanche in una guerra di colori tra la Raf britannicae la Luftwaffe. A fianco un modello di BritishHawker Hurricane Mark I

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 22 LUGLIO 2007

ma, tradizionali o anche d’avanguardiacome Jacques Villon e André Mare, ar-ruolati nell’esercito, per escogitare i giu-sti colori, le forme, le stoffe, per occul-

tare carri armati, mezzi di trasporto,armi, munizioni, postazioni, poi na-vi, fabbriche, magazzini. Quando Pi-casso, indifferente alla guerra, videper le strade di Parigi un cannonemimetizzato, esclamò orgoglioso:«Siamo noi cubisti ad averlo inven-tato». E a Jean Cocteau: «Se vogliono

rendere l’esercito invisibile a di-stanza, vestano i soldati da arlec-

chini».Alla fine della guerra, agli ini-

zi del ‘19, al Chelsea Arts Clubfesteggiarono la pace con un fe-stosissimo Dazzle Ball, una

gran festa dedicata al più cubistadei disegni camouflage, applica-

to soprattutto alle navi, appun-to il dazzle (abbagliante), che

ispirò alla fine degli anniCinquanta l’Op Art. La Pri-ma guerra mondiale avevatrascurato di mimetizzare isoldati, che portavano divi-se grigie, i tedeschi, caki everdi gli americani e gli in-glesi caki o verde, gli italianiil grigioverde. Solo con laseconda il camouflage pas-sò anche agli individui, conuna infinità di macchie ecolori studiati da specialistiquesta volta non artisti mascienziati: alla mostra c’èuna immensa vetrina dove

sono allineate decine e decinedi divise camo, ognuno diversa dall’al-tra. Quando negli anni Sessanta i co-

mandi militari inglesi e americani cer-carono di tornare ai colori uniti, ci fu unrifiuto generale: e gli psicologi spiegaro-no che era, è la divisa mimetica ad assi-curare aggressività e violenza e persinopatriottismo.

Anche l’arte continuò a lasciarsi se-durre dal mimetismo: Veruska, la cele-bre modella anni Sessanta, divenne ar-tista rendendo invisibile il suo corpo dalei stessa dipinto come sasso o comemuro. Nel 1986, un anno prima di mori-re, Andy Warhol produsse una serie diopere ispirate ai quattro colori del ca-mouflagescelto dall’esercito americanoper le divise da combattimento, nero,grigio e due verdi, ma anche in vari rosa,giallo e blu. Di quelle ultime opere delpop artista si servì vent’anni fa lo stilistaamericano Stephen Sprouse, per farnedei vistosi completi maschili, primo in-gresso del camouflage nel mondo onni-voro e predatorio dell’alta moda.

Quando Picasso,indifferentealla guerra,

vide per le stradedi Parigi

un cannonemimetizzato,

esclamò orgoglioso:“Siamo stai noi

cubisti a inventarlo”

POP WARAndy Warholsi confrontò

anche con lamoda militareproducendo

stampepoi utilizzate

da stilisti comeStephen Sprouse

MILITAR-CHICApertura di millennio con dedicaa una moda che non tramontamai: è un abito della collezioneprimavera/estate del 2000firmato Jean Paul Gaultier

FRONTE OCCIDENTALECampioni di colore utilizzatidall’esercito franceseper riprodurre su divisee mezzi le diverse tonalitàdel terreno sul fronteoccidentale

ADATTAMENTOUn particolaredello studio del 1940di Hugh Cott,zoologoe consulentedell’esercitobritannico, in baseal quale venne adottatoil colore delle divisenella Seconda guerra

RUNNER NEL PARCOUn astuccio per contenere

iPod o cellulari aggiungeun tocco di stile,

con il motivo“Bonsai Forest”,

al jogging quotidiano

STREET W(E)ARUna linea di skateboard Powell-Peralta

camouflage sottolinea il fascinoche questo esercita ancora sui giovani

ORIGINAL MARINEIn alto, una giaccadella Us Air Forcee sotto una del corpodei Marines adottatanel 1968. L’annoprima la mimeticaera riservata soltantoai corpi speciali;dopo il Vietnamfu adottatada tutti i militari

Repubblica Nazionale

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l’incontroStelle nascoste

LEONETTA BENTIVOGLIO

LUGANO

Entra in scena ed è un’appari-zione buffa e stregata. Chio-ma fluente e selvaggia constriature bianche, tacchi alti

su cui incede con qualche incertezza,giacchetta nera col bordo sghembo. Esotto, uno dei suoi gonnoni vasti e fuo-ri dalle mode. Una profuga di nobiliascendenze o un’avventuriera in fuga.Il volto è chiuso, emana quasi imba-razzo. Come a dire: non guardatemitroppo, non mi giudicate, attenti chesono pronta a scappare. «Subito primadel concerto mi assale il panico», con-fesserà più tardi Martha Argerich. «Dagiovane avevo veri e propri attacchi,mani gelate, gambe che tremavano co-sì forte che dovevo colpirle per bloc-carle. Ma quando suono passa tutto». Einfatti appena siede alla tastiera c’è ilmiracolo. Lievità nella padronanzaferrea dello strumento, profondità delgioco emotivo, naturalezza che dà l’il-lusione di un suono che sembra sgor-garle dalle dita. Il viso prende luce,conquista magnetismo e bellezza.

È la bellezza leggendaria della Argeri-ch, oggi la massima pianista al mondo.Detto così pare semplificatorio e di catti-vo gusto. Certe classifiche funzionanoper le vendite dei dischi, o quando si con-frontano i cachet dei concerti. Ma chenel pianoforte Martha sia la migliore trale donne è un fatto. Persino su quel ver-sante “commerciale” che detesta, nonper snobismo o per artifici moralistici,ma perché è un’artista libera e senza bri-glie, allergica ai condizionamenti dimercato. «Di denaro ne ho avuto pochis-simo, poco e molto», spiega, «e non è maicambiato nulla». La verità è che potreb-be registrare con chi vuole la musica chevuole, le basta alzare un dito e ha i disco-grafici ai suoi piedi. O una mattina po-trebbe svegliarsi e decidere di suonare inuna sala l’indomani, e avere il tutto esau-

rito. Però quel tipo di valore non c’entra.La misura della sua grandezza è altrove,nel talento prorompente e irrinunciabi-le, nel suo stile troppo personale peradattarsi alle categorie stilistiche segna-te dalle poetiche del pianismo. In più hauna personalità debordante, irregolare eincline a farsi enfatizzare: un po’ come laCallas, Edith Piaf, Glenn Gould o Nu-reyev. Creature “diverse”, spesso soffer-te nel rapporto tra arte e vita, portatrici diun’ispirazione che ci sfugge e di una pos-sibilità di contatto con zone sconvolgen-ti, che sanno farci intravedere l’espres-sione pura, ciò che non può dirsi se nonin un linguaggio che si nutre di se stesso.

Nata nel 1941, e frutto della prodigio-sa scuola di Buenos Aires, la stessa di Da-niel Barenboim, l’argentina Martha Ar-gerich, che dai cinque ai dieci anni stu-diò col magico didatta Vincenzo Scara-muzza, conta rari pianisti al suo livello,come Alfred Brendel e Maurizio Pollini,unica donna nel ristretto olimpo deicampioni. Il suo pianismo esorbita dalla“sola” bravura. Possiede qualcosa chenon si studia e che ha a che fare col cari-sma di miti scomparsi: Rubinstein, Ho-rowitz (lo definisce «la cosa migliore chesia mai arrivata al pianoforte»), Richter eArturo Benedetti Michelangeli, con cuistudiò nel ‘61: «In pratica non parlavamai. Ma trascorrendo con lui qualcheora ho imparato la musica del silenzio».

Siamo a Lugano, in uno studio dellaRadio della Svizzera italiana, ed è notte.Lei è lì, circondata da lucidi pianofortineri, pronta a lanciarsi nella consuetamaratona notturna. «Fa sempre così», ri-ferisce il musicologo Carlo Piccardi, exdirettore della rete culturale della Rsi.«Termina il concerto, gli altri musicistivanno a cena e lei resta a suonare fino al-l’alba». È in questo studio che avviene ilnostro incontro. Di interviste Marthanon ne dà mai. Per principio. Fa parte delsuo pudore senza affettazione, del suo ri-fiuto di aspetti promozionali. Va ac-chiappata come per caso, come se non losapesse. Per fortuna a Lugano è in vena,rilassata dal contesto. Qui, da sei anni, hadato vita a un festival, il Progetto MarthaArgerich, sponsorizzato dalla banca Bsie coordinato da Piccardi. Nell’ultimaedizione ha ospitato 17 eventi, con nomicome Mischa Maisky, Lylia Zilbertsein,Renaud Capuçon, Nicholas Angelich eaccanto a loro artisti freschi e sconosciu-ti. «Si lavora insieme. Giovani solisti conmusicisti d’esperienza. Un laboratoriodi scambio in un clima di entusiasmo.Niente star-system, è molto rigenerante.Una specie di famiglia che da un anno al-l’altro si ritrova e si rinnova».

Martha ha bisogno del consolida-mento “familiare”: è una costante ne-cessaria del suo mondo. Le piace lo stareinsieme «dove non si danno né si pren-dono lezioni e si può contare sugli altri.Ci si sente perduti, si ha un dubbio e c’èqualcuno a sostenerti. A chi esibisce si-curezze preferisco le persone che dubi-tano. Stesso discorso per l’interpretazio-

ri e i suoi paradossi. Martha è così, covauno spirito sfrenato. Forse per questo haavuto tre figlie da tre uomini diversi, tut-ti musicisti. Padre della maggiore, Lyda,oggi violista e unica musicista fra le tre, èil compositore Robert Chen, sposato nel‘63, mentre Annie, nata nel ‘70, è figliadel direttore d’orchestra Charles Dutoit,e il padre di Stéphanie, la più giovane, èil pianista Stephen Kovacevich. «Sonoun casino, credo di non essere nata perl’amore», dice. «E poi ogni volta che tidanno il caviale ti tolgono il pane».

Bisogna risalire alla sua infanzia aBuenos Aires, tormentata dagli obbli-ghi di enfant prodige, per comprende-re le radici della sua inquietudine: «Adue anni e otto mesi un amichetto misfidò: non sai suonare il pianoforte. Mipiazzai davanti allo strumento e ripro-dussi all’istante l’aria che canticchiavala mia tata. Ho dato il primo concerto aquattro anni e ho continuato, ma dete-stavo esibirmi. Amo il pianoforte, nonessere pianista. Sognavo di diventareun medico. Non sopporto l’idea di es-sere la sacerdotessa di un’arte, né itroppi viaggi. Da bambina ero capacedi cose orrende per far saltare le serate,tipo mettermi carta bagnata nelle scar-pe per provocare la febbre».

Nel ‘55 la portano a studiare a Viennacon Friedrich Gulda, una delle icone delpianismo del Novecento: «Era un geniodella curiosità e della ricerca, uno speri-mentatore straordinario. Mi ha influen-zato più di chiunque». Studia anche a Gi-nevra con Nikita Magaloff, che dice di lei:«È un cavallo da corsa, non si potrà maimetterla al trotto». Nel ‘57, a 16 anni, vin-ce i concorsi di Bolzano e Ginevra: «Pre-si a vivere come una quarantenne: viag-giavo da una città ignota all’altra, nonavevo amici, ero timidissima. Nello stu-dio ero caotica. Una bella pittura senzacornice. Giocavo d’azzardo. Studiandonon suonavo mai un concerto dall’ini-zio alla fine. Lo imparavo a pezzi e lo ese-guivo per la prima volta tutto insieme so-lo davanti al pubblico. Dormivo di gior-no e studiavo di notte. Il Terzo Concertodi Prokofiev l’ho imparato così, in modoquasi subliminale».

Nel ‘60 un arresto, un equilibrio che sispezza. Martha va a vivere a New York esmette di suonare per tre anni: «Tutto ciòche facevo durante il giorno era guarda-re la televisione». Riprende con l’aiutodel pianista polacco Stefan Askenase e disua moglie: «Li andavo a trovare moltospesso, e più che suonare parlavamo.Grazie a loro ho ritrovato la fiducia». A 24anni vince lo Chopin di Varsavia, untrionfo: «Fu in quel periodo che a mia fi-glia Lyda spuntò il primo dente». Nel ‘67la sua incisione del Terzo Concerto diProkofiev con la direzione di ClaudioAbbado è un successo da hit-parade.Eppure, con la carriera alle stelle, affio-rano altri periodi di silenzio. Altre so-spensioni, paure, sofferenze. Viene ag-gredita da un grosso male, un’affezionecancerosa, e sparisce per un po’, andan-

ne. Mi piace quando qualcosa sfugge alcontrollo. Uno squarcio imprevisto, vi-sioni inaspettate e preziose».

A Lugano, appuntamento fisso d’ini-zio estate, Martha è serena. Non flagellamai gli organizzatori con i suoi celebriforfait dell’ultima ora. È famosa per lesue fughe: un incubo per i programma-tori di concerti. Ma non si sente in colpa:«Non ho mai obbligato nessuno a invi-tarmi. Non ho mai disdetto un impegnoper la semplice ragione che non firmocontratti. Non mi sento costretta a suo-nare se non me la sento». Cancellò per laprima volta a diciassette anni: «LeggevoDelitto e castigo e volevo sentirmi tra-sgressiva. Avrei dovuto suonare a Em-poli, ma scrissi che rinunciavo per unaferita alla mano. Poi mi spaventai dellabugia e per non essere scoperta mi feciun taglio a un dito con un coltello, met-tendomi fuori gioco per un po’».

C’è chi ragiona, pianifica, analizza, echi si lascia travolgere dal flusso della vi-ta: la vita con le sue passioni, i suoi dolo-

do a operarsi negli Stati Uniti. Poi però ri-sorge con più energia di prima. E ognivolta meno jet-set, maggiore discrezio-ne e ancora più determinazione nel ne-garsi ai ricatti del divismo.

Ormai da tempo la Argerich non suo-na più come solista. Basta coi recital de-dicati a Chopin, a Schumann e soprat-tutto a Ravel, l’autore forse più compre-so e amato. Vuole esibirsi con gli altri, fa-re musica da camera e concerti con or-chestra, sempre con partner con i quali èin sintonia anche personale: Maisky, Gi-don Kremer, Abbado o l’ex marito Du-toit, con cui il 19 novembre sarà al CarloFelice di Genova, insieme alla Ubs Ver-bier Festival Orchestra. E prima, il 5 ago-sto, suonerà a Cortina d’Ampezzo, conl’Orchestra di Padova e del Veneto, in unconcerto promosso dall’AssociazioneDino Ciani, «pianista che morì a soli 33anni, dotato di una sensibilità talmentecristallina da mettere paura». Raccontache suonare da sola la faceva sentire unareclusa, «forse perché da piccola mi eser-citavo per ore, in solitudine, senza gioca-re con gli altri bambini. I miei dicevanoche il mio unico compagno di giochi do-veva essere il pianoforte. Oggi stare in-sieme a musicisti che ammiro, e sono an-che persone che mi piacciono, mi dà unconforto speciale».

Teme l’età che avanza? «Macché. Micullo nell’idea di diventare una vecchiapiuttosto ridicola». Il presente e il futurosono i “suoi” ragazzi, i giovani pianistiche promuove nelle rassegne che fondae dirige (oltre a quella di Lugano ne gui-da una in Giappone, a Beppu, e primaancora ne organizzò una a Buenos Ai-res). Li accoglie spesso nella sua casa diBruxelles, in Rue Bosquet, detta “Rue desPianistes” per la presenza di Martha e deisuoi amici: «Vengono per farsi conosce-re e aiutare. Arrivano, mi pregano diascoltarli, io lo faccio. A volte mi sentonosuonare e sono loro a darmi consigli.Non insegno perché non potrei imporreniente a nessuno. Ho ancora troppe co-se da imparare».

Ho dato il primoconcerto a quattroanni e ho continuato,ma detestavoesibirmiAmo il pianofortema non sopportol’idea di esserela sacerdotessadi un’arte

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‘‘Artista senza briglie, talentocarismatico, personalitàdebordante e irregolare (NikitaMagaloff la definì “un cavalloda corsa che non andrà mai al trotto”),

è oggi la massimapianista al mondoAllergicaai condizionamentidel mercato,non si esibisce piùcome solista ed è famosaper le sue fughe e i forfait

dell’ultima ora. Nella vita comenella musica, dichiara, “mi piacequando qualcosa sfugge al controllo”

Martha Argerich

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 22 LUGLIO 2007

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