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DOMENICA 10 GIUGNO 2007 D omenica La di Repubblica FOTO SR. CECIL BEATON/GRAZIA NERI MARLON BRANDO e DONALD CAMMELL S otto una nube nera, la prigione. E dentro la prigione, un ribel- le sveglio. I muri dell’edificio erano altissimi e, nonostante fos- se impossibile, sembravano inclinarsi all’indentro e allo stes- so tempo gonfiarsi verso l’esterno, sormontati da una lumi- nosa smerigliatura di vetri rotti. Vista dall’alto della modesta collina di Victoria Peak — dalla residenza estiva del governa- tore della colonia inglese di Hong Kong — la prigione doveva apparire molto bella. «Se mai il sole dovesse splendere», disse Annie al portoghese, «i pezzi di vetro luccicherebbero. E la prigione sembrerebbe una collana di diamanti, Lorenzo. O un enorme Margarita, in una coppa quadrata». Il sole non si vedeva da novembre. Era il 2 marzo del 1927, «l’anno del Signore», per usare le parole di Annie. Quella nube immensa, bassa e spessa, con un diametro di parecchie centinaia di miglia, era come ac- covacciata sull’isola, e pisciava sulla sua prigione. Annie Doultry (il cui vero nome era Anatole, in onore di monsieur France, lo scrittore) stava scontando il centottantesimo giorno di galera, su una pena di sei mesi. (segue nelle pagine successive) il fatto Lo zoo volante dell’Air Press One MARIO CALABRESI il reportage Uganda, il paradiso di prima classe JOHN LLOYD i luoghi Il tempo immobile del Cairo STEFANO MALATESTA la lettura I diari segreti di Batman JOE R. LANSDALE spettacoli Ingrid Bergman, i set e gli amori NATALIA ASPESI e AMBRA SOMASCHINI GABRIELE ROMAGNOLI S e abbiamo respirato di sollievo quando Michael Jor- dan, il più grande atleta della storia del basket, ha fal- lito nel baseball, se non crediamo che Valentino Ros- si possa, semplicemente, passare da due a quattro ruote restando un fenomeno, come possiamo af- frontare la lettura di un romanzo scritto da Marlon Brando? Scritto, e sottolineo scritto, dall’uomo che meglio di chiunque ha saputo dare il volto a un giovane ribelle e la voce a un vecchio padrino. Ma le parole a una storia? Marlon Brando? Possibile? Per non leggere questo Fan-Tan con le lenti defor- manti dello scetticismo bisogna provare a convincersi che sia possibile, per qualcuno, avere in dote più di un talento. E non è cosa semplice. Già il talento dello scrittore è una chimera. L’oceano editoria- le è solcato da dozzine di vascelli fantasma: soltanto i loro visio- nari capitani sono convinti di trasportare doti ineguagliate. (segue nelle pagine successive) scrittore BRANDO MARLON Stanco di essere una leggenda, l’attore si provò in un’altra arte Firmò un romanzo che ora, dopo 25 anni, viene pubblicato Ecco il suo primo capitolo Repubblica Nazionale

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MARLON BRANDO e DONALD CAMMELL

Sotto una nube nera, la prigione. E dentro la prigione, un ribel-le sveglio. I muri dell’edificio erano altissimi e, nonostante fos-se impossibile, sembravano inclinarsi all’indentro e allo stes-so tempo gonfiarsi verso l’esterno, sormontati da una lumi-nosa smerigliatura di vetri rotti. Vista dall’alto della modestacollina di Victoria Peak — dalla residenza estiva del governa-

tore della colonia inglese di Hong Kong — la prigione doveva appariremolto bella. «Se mai il sole dovesse splendere», disse Annie al portoghese,«i pezzi di vetro luccicherebbero. E la prigione sembrerebbe una collanadi diamanti, Lorenzo. O un enorme Margarita, in una coppa quadrata».

Il sole non si vedeva da novembre. Era il 2 marzo del 1927, «l’anno delSignore», per usare le parole di Annie. Quella nube immensa, bassa espessa, con un diametro di parecchie centinaia di miglia, era come ac-covacciata sull’isola, e pisciava sulla sua prigione. Annie Doultry (il cuivero nome era Anatole, in onore di monsieur France, lo scrittore) stavascontando il centottantesimo giorno di galera, su una pena di sei mesi.

(segue nelle pagine successive)

il fatto

Lo zoo volante dell’Air Press OneMARIO CALABRESI

il reportage

Uganda, il paradiso di prima classeJOHN LLOYD

i luoghi

Il tempo immobile del CairoSTEFANO MALATESTA

la lettura

I diari segreti di BatmanJOE R. LANSDALE

spettacoli

Ingrid Bergman, i set e gli amoriNATALIA ASPESI e AMBRA SOMASCHINI

GABRIELE ROMAGNOLI

Se abbiamo respirato di sollievo quando Michael Jor-dan, il più grande atleta della storia del basket, ha fal-lito nel baseball, se non crediamo che Valentino Ros-si possa, semplicemente, passare da due a quattroruote restando un fenomeno, come possiamo af-frontare la lettura di un romanzo scritto da Marlon

Brando? Scritto, e sottolineo scritto, dall’uomo che meglio dichiunque ha saputo dare il volto a un giovane ribelle e la voce aun vecchio padrino. Ma le parole a una storia? Marlon Brando?Possibile? Per non leggere questo Fan-Tan con le lenti defor-manti dello scetticismo bisogna provare a convincersi che siapossibile, per qualcuno, avere in dote più di un talento. E non ècosa semplice.

Già il talento dello scrittore è una chimera. L’oceano editoria-le è solcato da dozzine di vascelli fantasma: soltanto i loro visio-nari capitani sono convinti di trasportare doti ineguagliate.

(segue nelle pagine successive)

scrittoreBRANDO

MARLON

Stanco di essere una leggenda,l’attore si provò in un’altra arteFirmò un romanzo che ora,dopo 25 anni, viene pubblicatoEcco il suo primo capitolo

Repubblica Nazionale

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10GIUGNO 2007

la copertinaBrando scrittore

Annieil ribelle,specchiodi Marlon

sta; rimaneva tuttavia il fatto che un piede vulnerabi-le poteva essere privato della sua naturale protezione.E così, i piedi diventavano rivelatori di sensibilità. PerAnnie, poi, era anche peggio, perché gli scarafaggi glimordicchiavano perfino le dita delle mani, nel corsodella notte — ah, con quale delicatezza brucavano lapelle attorno alle sue unghie! Agendo con grande pru-denza, non lo svegliavano mai. La sua stazza impo-nente, senza dubbio, li intimidiva. «Occhio a non sve-gliarlo», sussurravano tra loro, con tutta probabilità,mentre si sfamavano. E da qui, le calze nelle mani.

Annie Doultry aspettava, in cerca dell’immobilitàperfetta. La luce si era fatta più debole, mentre il nerodella nube, in cielo, si era ispessito, con l’arrivo dellanotte. E sotto quella nuvolaglia nera, c’era la prigione.

[...] Annie era disteso nella sua branda, cosparso diesche per gli scarafaggi, con le mani nascoste nellecalze e il volto minacciato dal progressivo cedimentodel materasso del portoghese, che sporgeva come unfungo mostruoso tra le maglie arrugginite della retedel letto — uno strumento perverso, il letto, che ri-produceva note disperate a ogni movimento di quelpoveraccio. Una chiazza dal contorno simile all’Au-stralia gravava sugli occhi di Annie, con tutto il peso diquell’immenso continente che lui aveva conosciutopiù di quanto non desiderasse, nel corso dei suoi viag-gi. E pensare che era solo il retro del materasso! Chis-sà qual era il suo aspetto dall’altra parte, dove venivaa contatto con il sedere peloso del portoghese, con lesue palle raggrinzite, con il suo sfintere debole?

Lungi da noi pensarci.[...] Era bello grosso, questo: almeno dieci centi-

metri. Si era issato sulla testata del letto, vicino ai pie-di di Annie. Prima lo squadrò, poi zampettò diffi-dente sull’alluce. Annie l’aveva lavato con cura, queldito, per renderlo più appetibile, come il resto delpiede. Ma l’animale ignorò le ricchezze che gli eranostate offerte — lui o lei, qualsiasi cosa fosse. Gesù, co-me si fa a stabilire il sesso di uno scarafaggio? (Be’,Hai Sheng ci riusciva, e più tardi dichiarò che si trat-tava di un maschio).

Per uno scarafaggio, la taglia di scarpe di Annie do-veva avere le dimensioni che per un uomo ha l’im-pronta del Budda, lunga dodici metri e scolpita nellaroccia chiara delle montagne singalesi. I suoi calli e isuoi duroni erano stati indeboliti da altri scarafaggi, ela sua pelle era dolce e levigata come quella di una ra-gazzina. L’animale proseguì deciso su per i pantalo-ni, fino al Poggio della Rotula, e poi giù fino all’Inse-natura dell’Inguine, dove alcuni bocconi di sorgo, ap-positamente bagnati perché aderissero al corpo, oc-chieggiavano da un buco nel tessuto. Ma l’animaleignorò anche quel lussuoso banchetto.

Con passo guardingo ma risoluto, discese lungo ivari strati di sporco depositati tra le pieghe dei calzo-ni, fino al margine stesso della patta: quella vergo-gnosa fenditura nella superficie del mondo, dallaquale — così pensava Annie — uno scarafaggio comequello si sarebbe tenuto alla larga. La patta era aperta— Annie si era giocato i bottoni alle corse, e li avevapersi — e da essa spuntavano orrendi ciuffetti colorbronzo, arricciati come viticci. Le antenne dello sca-rafaggio, intanto, fendevano l’aria umida, e il suo ca-rapace brillava come l’armatura di Belzebù, nera e lu-cente come la pece. L’animale guardò in basso, versouna zona d’ombra; e quella vista dovette disorientar-lo, poiché non sentì il sussurro di Annie. «Lei non è af-fatto un gentiluomo», gli disse, per non essere accu-sato, in seguito, di non aver detto nulla e di essersi ap-profittato della fiducia dell’animale.

Poi, il calderone buio della sua tazza discese comeun sudario sullo scarafaggio, facendo di lui un altroprigioniero.

Traduzione Martino Gozzi(© 2005 by The Estate of Marlon Brando and The

Estate of Donald Cammell; © 2007 Fandango Libri Srl)

(segue dalla copertina)

Era nato a Edimburgo nel 1876, e dimo-strava tutti i suoi anni, minuto per minu-to. Suo padre era stato un compositore dicaratteri tipografici, uno scozzese inclineal romanticismo le cui mani giocavanocon le parole, un uomo innamorato dei

giochi linguistici e delle tragedie, del King Lear e diEdward Lear. Sua madre, una donna fuori dal comu-ne, dolce e amata, anche se non esattamente rispet-tabile. Era una MacPherson, ma aveva sempre avutoun carattere volubile. In più, aveva avuto degli aman-ti, allo stesso modo in cui certe famiglie hanno deglianimali domestici, e nonostante fosse stata educa-ta alla logica, al buon senso e a un’economiaspartana, di tanto in tanto si era concessaqualche azzardo — uno, in particolare:suo marito. Alla fine, i Doultry eranoemigrati a Seattle, insieme al figlio ealla nonna paterna, seguendo l’e-sempio di molte altre famiglie delMidloth, in quegli anni (quando an-cora c’era un posto dove migrare).L’intera vicenda, tuttavia, era piut-tosto confusa, e Annie non era certoil tipo da rimuginare sull’infanzia. Lasua memoria era lacunosa, piena dibuchi come un vecchio calzino. E laScozia era solo un accento che amava.

[...] Annie occupava il letto di sotto inuna cella di tre metri per due, nel blocco D, unbuco attrezzato con i soliti accessori sinistri, uncesso e una finestrella ignobile e sprangata, senza ve-tri, ma con il davanzale a quasi due metri dal pavi-mento — il che rendeva del tutto impossibile, per uncinese, guardare fuori. Non per Annie, però, che eraalto e terribilmente muscoloso. Tutto, nel suo corpo,era grosso, dal torace alle dita, dalle sopracciglia aitendini dei polsi e delle ginocchia — beni preziosi,questi, per un uomo violento come lui, uscito da po-co da una giovinezza sfrontata in cui aveva riso anchedei pestaggi nei bar e degli spintoni per le scale. Annieaveva anche una barba folta. I secondini avevano ten-tato di costringerlo a tagliarla, ma lui si era fatto vale-re contro tutti, dal barbiere del penitenziario al capodelle guardie, fino al governatore — e l’aveva spunta-ta. Così, gli avevano rasato la testa, ma non la barba,con cui poteva ancora giocherellare. Di conseguenza,i suoi capelli erano ricresciuti più forti, anche se in-dubbiamente più grigi. Era un grigio strano, il suo, uncolore simile all’ossido di rame, quella particolaresfumatura che il bronzo assume quando si impregnadi ciò che gli operai metallurgici chiamavano patinad’acqua. [...] I capelli, piuttosto radi, gli erano statispuntati alla meno peggio sul capo e ai lati. Era que-sto il taglio in voga nel carcere, poiché non lasciavaspazio alle colonie brulicanti di pidocchi.

Adesso non gli restava che infilare le mani nei cal-zini. Le dita dovevano toccare il fondo, mentre il pal-mo doveva coincidere con il tallone, anche se il tallo-ne era un buco enorme, e la luce della cella era davve-ro scarsa. Eppure bisognava farlo. Non c’era altro mo-do per difendersi dagli scarafaggi.

[...] Se ne stava sdraiato con i pugni avvolti nellecalze. Sulla chiazza villosa del petto teneva in equi-librio una tazza da tè, lo smalto azzurro intaccato damacchie scure simili a vecchie lesioni che non pro-mettevano nulla di buono. Annie ne faceva tesoro,perché era la sola cosa che gli fosse rimasta, in quel-la prigione. Le altre cose — l’accendino senza pietrafocaia, lo specchio di metallo, la fibbia d’ottone conla testa di cammello — se le era giocate alle corse de-gli scarafaggi. Inoltre, ad Annie piaceva il tè, e il capodelle guardie del blocco D, il caporale Strachan, or-mai in congedo, ne versava sempre un goccio in piùin quella tazza, la sua tazza. Adesso, tuttavia, eravuota anch’essa, come un peccato senza piacere.Annie la stringeva con tutt’e due le mani, due manigrigie e possenti come la pietra, vere e proprie ma-nos de piedra, con le nocche ben in rilievo e le dita in-credibilmente sensibili — se si considerava quel cheavevano passato.

Era immobile. Attorno alla tazza, il suo costato eradisseminato di piccoli residui secchi di sorgo — unasostanza quasi commestibile — dal sapore simile al-lo zenzero. Gli scarafaggi ne andavano pazzi. Il suoampio torace accoglieva un lungo sentiero di questisedimenti che, dall’ombelico e attraverso le pieghedei pantaloni di tela, percorrevano il suo corpo fino aipiedi nudi. Gli alluci poggiavano con greve dignitàsulla rete del letto, tutta arrugginita. E attorno alle di-ta, Annie aveva sparso altre briciole, come fossero lamiccia collegata a un barilotto di Tnt.

Se ne stava disteso in attesa della sua preda, dopoaver eseguito una scrupolosa preparazione degna diun cacciatore di tigri, o di leopardi; ma anziché ser-virsi di una capra impastoiata, Annie esponeva sestesso al pericolo. Questo era un aspetto fondamen-tale del suo piano — gli insetti lo trovavano appetito-so. Se davvero esisteva qualcosa che gli scarafaggiamavano più della saggina e dello zenzero, era pro-prio la pelle secca dei piedi di un bianco. Non si sa-rebbero mai sognati di rosicchiare la carne viva — nonerano in cerca di guai — ma di certo apprezzavano icalli di un condannato almeno quanto un rabbino li-cenzioso poteva apprezzare un’aringa affumicata.Prendersela con loro — gli scarafaggi, intendo — sa-rebbe stato un errore, il frutto di un pregiudizio di ca-

MARLON BRANDO e DONALD CAMMELL

Il grande attore e un artista visionario ammalatodi cinema. La loro amicizia, tra alti e bassi, duròtrent’anni. Finì a causa di un romanzo che scrisseroinsieme: la storia di un avventuriero nei mari cinesidisegnata su misura per un film. Ora, in quelle paginepubblicate in Italia, l’ultima interpretazione del genio

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 10GIUGNO 2007

IL LIBROSi intitola Fan-Tan e sarà in libreria da venerdì 15

giugno il romanzo scritto da Marlon Brando e Donald

Cammell inedito fino a due anni fa anche negli Usa

Lo pubblica Fandango Libri (303 pagine, 18 euro)

Il libro ha una storia rocambolesca quanto

la sua trama, come racconta David Thomson

nella postfazione. Cammell, artista scozzese,

si accostò al cinema intorno agli anni Cinquanta,

lo stesso periodo in cui divenne amico di Brando

Alla fine degli anni Settanta Brando ebbe l’idea

di un film ambientato nei mari della Cina

con protagonista un americano (interpretato

da Brando) che stringe un patto di sangue

con un manipolo di pirati guidati da una donna

Del film non si fece nulla e i due decisero di trarre

dall’idea un romanzo: Brando recitava ad alta voce

le scene, Cammell imbastiva la storia. A causa

di liti e incomprensioni non si fece nulla neanche

del romanzo e il dattiloscritto rimase per vent’anni

chiuso in un cassetto fino a quando la vedova

di Cammell non lo tirò fuori. Ne anticipiamo un brano

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Il vero talentova sprecato

GABRIELE ROMAGNOLI

(segue dalla copertina)

Ci mancava davvero il “Sea Change” comandato da unuomo di nome Annie, che cita Wittgenstein e invec-chia male, frutto degli specchi, più che dell’immagi-

nazione di Marlon Brando? Quanto talento ha, davvero, abordo? Zero? Una modica quantità? E, delle due, che cosa sa-rebbe peggio? In un vecchio e misconosciuto racconto inti-tolato Le tue, la scrittrice americana Mary Robison fa dire aun suo personaggio che «possedere un po’ di talento è unacosa terribile, tormentosa, che essere speciale soltanto unpoco significa che ti aspetti troppo, per la maggior parte deltempo, e che ti piaci troppo poco».

Autoesiliato in un’isola della Polinesia, arreso al canto del-le sirene d’Oriente e alla pigrizia indotta dalla fine di ogni ne-

cessità, Marlon Brando ha abdicatoalla sua, immensa, vocazione princi-pale. Cerca, dentro di sé, una secon-da uscita, quella di sicurezza, dovenon ci siano il tappeto rosso, unostuolo di fotografi e un produttorehollywoodiano alla cassa, in nomee per conto dell’ideologia di vitaamericana. Può trovarla? Lo psi-cologo James Hillman, nel suo ce-lebrato saggio Il codice dell’ani-ma sostiene di no. Scrive infatti:«Io e voi e chiunque altro siamovenuti al mondo con un’imma-gine che ci definisce, ovverociascuno di noi incarna l’ideadi se stesso e questa forma,questa idea, questa immaginenon tollerano eccessive diva-gazioni».

Se fai l’attore, non puoi fa-re il romanziere, nemmenoper poter recitare la parteche vuoi tu e non quella cheti cuciono addosso gli stu-dios. Perché, dice Hill-man, il talento è un “dai-mon”, che sbuca all’im-provviso dalla sua tana,prendendosi il palco escacciandone la contro-figura. Per dire: quando,agli inizi degli anni Qua-

ranta, il giovane MarlonBrando arriva a New York per fare l’ar-

tista, tenta di sfondare nella danza. Due piroetteed è a terra. Si iscrive, per caso, a un corso d’arte drammati-ca e diventa Marlon Brando. E Stanley Kowalsky. E don VitoCorleone. E il colonnello Kurtz. Fin qui, tutto bene. Il pro-blema è che il talento, se accompagnato dall’intelligenza,s’annoia di sé. Riconosce quel fondo di fasullo che il mondoesterno si ostina a non vedere perché non ha occhi o non hainteresse. È qui che Brando proclama: «Recitare è una cosada barboni. Smettere, un atto di maturità». E dopo, po-ver’uomo? Se ha ragione Hillman, non esiste via d’uscita.Nemmeno nel paradiso di Tahiti.

Ma Brando conosce Donald Cammell, che è stato un ap-prezzato (da alcuni) pittore e ora è un apprezzato (da alcu-

ni) regista. Sa che pure Julian Schnabel ha rivelato lo stes-so doppio “daimon”. Che è anche doppiezza umana

e sessuale. Inevitabilmente. Già da qualche anno ilcantante Leonard Cohen ha scritto un delizioso ro-

manzo intitolato Il gioco preferito e di lì a un decennioil giovane attore Ethan Hawke pubblicherà il suo Mer-

coledì delle ceneri. Passeggiando sulla spiaggia della suaisola, accanto a Cammell, Brando traccia una storia. Cam-

mell le dà forma. La sua moglie bambina (China Kong, figliadi una ex amante di Marlon) li ascolta e, unica dei tre con il“daimon” letterario, prende aggraziati appunti sullo sfacelodi quei due uomini senza pace.

Sarà lei, vent’anni dopo, erede di tanta vanità e tor-mento, a far pubblicare Fan-tan. La domanda vera a cuici resta da rispondere non è tanto se Marlon Brando ave-va o no quell’altro talento. Si è risposto da solo bloccan-do l’uscita del romanzo già comprato in Inghilterra, ab-bandonando il progetto e ogni forma di scrittura a due oquattro mani. Lo ha fatto continuando a recitare in par-ti sempre più ridotte e ridicole. Arrivando a fare la cari-catura del suo ultimo, odiato, ruolo da Oscar nel de-menziale Il boss e la matricola. A quel punto MarlonBrando non cercava dentro di sé un altro talento. Avevadeciso, con un’estrema e condivisibile intuizione, che inquesto spettacolo di società un uomo sano e dotato di untalento (o più) per farne un uso nobile deve sprecarlo.

Repubblica Nazionale

Racconto di prima mano dal Boeing 777 pienodi rappresentanti dei media di tutto il mondo e di agentidel servizio segreto che seguono il presidente Usanei suoi viaggi all’estero. I veterani, i novellini, i riti,le gerarchie, le libagioni, la lotteria. Se immaginateche l’Air Press One sia per i secchioni resterete delusi...

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10GIUGNO 2007

SALA STAMPAIn alto, Bush in volo circondato da uomini del suo staff. Qui sopra,

giornalisti al seguito del presidente al lavoro in sala stampa

T-SHIRTIn alto, lo stemma sulle t-shirt ricordo

degli uomini del Secret serviceQui sopra, una prima pagina del N.Y.Times

MARIO CALABRESI

il fattoGiornalisti al seguito

ti bisognerebbe consegnarlo tre ore pri-ma della partenza e, visto che, per esem-pio, da Roma per Tirana si parte alla 4 e 45del mattino, la sola idea di alzarsi dal let-to poco dopo la mezzanotte cancellaqualsiasi tentazione di portarsi dietrol’intero guardaroba.

Sotto la scaletta viene distribuito l’or-ganigramma del potere, che stabilisce inmodo indiscutibile l’importanza di ognitestata. È la mappa dei posti a sedere. Inprima classe ci sono dieci posti. Nella topten entra un solo quotidiano — a rotazio-ne tra New YorkTimes, Washington PosteLos Angeles Times —; quattro agenzie distampa: Associated Press, Reuters, Bloom-berg, France Presse; e cinque televisioni:Cnn, Abc, Fox, Cbs e Nbc. Presto scopriròche sono loro a dettare i tempi degli spo-stamenti e tutti si dovranno adeguare alleloro necessità. Fanno ascolto, fanno pro-fitti, fanno sempre la differenza, decido-no i destini dei presidenti, conterà purqualcosa tutto ciò. Nelle prime file dellabusiness ci sono i settimanali Timee New-sweek e i fotografi delle agenzie. Seguonogli altri giornali americani e poi le radio.

Prima di arrivare in fondo, verso la clas-

se economica, dove le poltrone si restrin-gono e dormire diventa difficile, restanodieci posti liberi. Sono per i corrispon-denti stranieri. A rotazione se li gioche-ranno giapponesi, italiani e tedeschi, i trepaesi che mandano più giornalisti al se-guito del presidente degli Stati Uniti.Comprendere la logica che li assegna èimpossibile, nell’algoritmo vanno infila-ti il numero dei viaggi fatti dalla testata,l’importanza che gli americani le attri-buiscono, le nazioni che verranno tocca-te nel programma, i precedenti e l’anzia-nità del corrispondente. Poi forse anchela sorte aiuta, se il novizio a sorpresa si tro-va seduto dietro al Financial Times.

Finalmente si sale sulla scaletta di que-sto Boeing 777 della United Airlines. Ben-venuti sull’Air Press One, l’aereo che tra-sporta i giornalisti che seguono l’impera-tore americano nei suoi viaggi. Ennio Ca-retto, una vita in America tra Stampae Re-pubblica, corrispondente da Washing-ton del Corriere della Sera e veterano diqueste trasferte — ha cominciato con unmemorabile viaggio di Nixon da Wa-shington alla California per ricevere Leo-nid Breznev nel giugno del 1973 — mi av-

visa sulla scaletta: «Adesso entriamo allozoo, perché il vero nome di questo aereoè “the zoo”».

Resto interdetto, mi aspettavo un am-biente formale, silenzioso, pieno di sec-chioni. La prima cosa che si vede è l’im-mediato pellegrinaggio al buffet e al car-rello con il vino bianco e lo champagne.Tutti si conoscono, le hostess si illumina-no nel rivedere volti conosciuti. Nessunochiede di allacciarsi le cinture, non ci so-no i filmati illustrativi delle procedure disicurezza, né le raccomandazioni. Tantoche mentre l’aereo già si muove sulla pi-sta, molti continuano a telefonare, altricompulsivamente proseguono a scriveresui cellulari o ascoltano la musica in cuf-fie gigantesche. Mentre l’aereo decolla c’èchi ha già reclinato il sedile e chi sta in pie-di. Ora comincio a capire il soprannome.

Le ali non si sono ancora rimesse in pa-rallelo con il terreno che già una voce po-tente chiama la lotteria. È la voce di Rod-ney Batten, gigantesco cameraman nerodella Nbc. Ha in testa un cappello da jokercon le punte colorate, comincia a fare unamusichetta con la bocca al microfono,come un rapper, e chiama «Seato». Il no-me di questa lotteria aerea prende il no-me da seat— posto a sedere — e la si fa da-gli anni Ottanta, quando l’Air Press Onevolava dietro a Ronald Reagan. Rodneypassa con un sacco di tela bianca e racco-glie biglietti da venti dollari, su cui ognu-no segna a pennarello il suo numero diposto. Ogni mezz’ora torna all’attaccoper convincere gli indecisi: motivettomusicale introduttivo e poi la cifra: «La-dies and gentlemen, siamo arrivati a 1.020dollari, non perdete l’occasione». A 1.380dollari decide di fermarsi. Ora c’è l’estra-zione, quindici secondi di suspense poivince il 14E. Eberhard Plitz, corrispon-dente da Washington della televisione te-desca Zdfalza le braccia al cielo tra gli ap-plausi. Arriva una giornalista televisivache lo bacia sulla guancia per la foto di ri-to, come si fa con il vincitore all’arrivo ditappa al Giro o al Tour, poi Ronald gli con-segna il bottino. Segue lungo giro dell’ae-reo per ringraziare.

Lo scorso anno, nel viaggio del presi-dente in Giappone, vinsero gli italiani,che si erano consorziati e decisero di da-re il premio in beneficenza. Annunciaro-no che lo avrebbero mandato alla vedovae ai figli di un poliziotto morto cadendodalla moto mentre faceva la scorta a Bu-sh durante la tappa alle Hawaii. Ovazionedegli americani, pacche sulle spalle,strette di mano, complimenti, ma poi

Bush e lo zoo volante

Prima di salire a bordo si consegnail passaporto e per nove giorni

si viaggia così: niente documenti,biglietti aerei, prenotazioni

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La prima cosa che ti chiedonoalla base militare di Andrewsin Maryland, venti chilome-tri a sud-est di Washington, èdi consegnare il passaporto.Lo rivedrai nove giorni dopo,

ti verrà restituito solo quando sarai dinuovo al Virginia Gate, l’ingresso della ba-se che dal 1962, per decisione di John Ken-nedy, è la casa dell’Air Force One, l’aereodel presidente degli Stati Uniti. Stai par-tendo per un viaggio che ti porterà insie-me ad altri centodue giornalisti e a trentaagenti del Secret Service dall’altro latodell’Atlantico, a saltare da una parte all’al-tra dell’Europa. Ma non hai in mano nul-la, non solo non hai più il tuo documento,ma neppure un biglietto aereo, una pre-notazione, un pezzo di carta, il nome di unalbergo. Nulla. Hai solo il tuo nome.

Sotto la pioggia, al check-in della base,abbassi il finestrino del taxi e a una solda-tessa dai capelli rossi dici come ti chiami.Lei passa e ripassa l’elenco e tu resti inapnea, se non trova il nome salta tutto. Poiti sorride, fa un cenno con il capo e da quelmomento sarà la macchina organizzativadella Casa Bianca ad occuparsi di te. Tra-sportarti in aereo, un po’ in business classun po’ in economica a seconda di compli-catissime alchimie che ben pochi sono ingrado di decrittare, in autobus, in barca eall’occorrenza in elicottero. Darti damangiare, preoccupazione costante econtinua, in ogni luogo e in ogni momen-to, a ciclo continuo. Dalla sala d’attesa, al-l’aereo, al pullman, fino al centro stampae ritorno, il cibo non manca mai. In aereoc’è anche l’alcool, abbondante come nel-le feste universitarie che si rispettino, poiquando c’è da lavorare scompare im-provvisamente e trionfano Coca Cola,caffè e litri di succhi di frutta.

Nella sala d’attesa la differenza tra ve-terani e novizi è data da un particolare in-visibile, una minuscola catenella al collosopra la camicia. Presto si capirà a cosaserve. Distribuiscono il pass plastificatoche aprirà le porte delle conferenze stam-pa, degli alberghi, dei bus, degli aerei, checonvincerà gli addetti alla sicurezza diogni paese a lasciarti passare, che sarà iltuo unico segno di identità per tutto ilviaggio. I veterani lo agganciano subitoalla catenella con gesto distratto, mentresalutano i vecchi amici; i novizi se lo gire-ranno a lungo tra le mani cercando unmodo per sistemarlo da qualche parte.

Non si fa il check-in e non si devonospedire le valigie. O meglio, tutti viaggia-no con il solo bagaglio a mano, altrimen-

Repubblica Nazionale

MICROFONIIn alto, conferenza stampa improvvisata di Bush. Qui sopra,

ressa di giornalisti per salire sull’Air Press One.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 10GIUGNO 2007

nessuno ha seguito l’esempio.Ogni occasione per brindare o festeg-

giare è benvenuta: compleanni, matri-moni, cambi di carriera e ultimi viaggivengono annunciati all’altoparlante.Giampiero Gramaglia, corrispondenteda Washington per l’Ansa, diventa diret-tore dell’agenzia e la notizia viene datadurante un viaggio tra Amman e Wa-shington: sull’aereo si spellano le mani esubito si stappa lo champagne. Il clima sifa leggermente più serio non appena vie-ne distribuito il press kit, grande libronegiallo con tutto quello che bisogna sape-re: tappe, spostamenti, appuntamenti,cartine, schede delle nazioni visitate, bio-grafie di premier, curiosità e statistiche.Parte la caccia all’errore. Questa volta nonce ne sono molti, ma Berlusconi per la Ca-sa Bianca è il Cavalliere, con due elle.

Si scoprono anche dettagli non secon-dari: che lo zoo non passerà dalla Poloniama andrà direttamente da Heiligendam,sede del G8, a Roma, perché i signori del-le televisioni non possono permettersi diessere in volo di sera, quando sulla costaest degli Stati Uniti parte il prime time, lafascia pomeridiana e serale di maggiorascolto. Per le sei del pomeriggio voglio-no un bel collegamento con lo sfondo delCupolone di San Pietro. Pazienza per ilpresidente polacco e poi tutti sono felicidi andare a cena a Roma. Già a Praga c’èchi prenota e chiede consigli agli italiani.

Il presidente non resta mai solo. Con luisull’Air Force One, aereo con stanza daletto, tavolo di quercia per le riunioni, sa-la operatoria e un telefono con ventottolinee criptate, c’è il pool. Sono cinque o seigiornalisti, sempre e solo americani, chea rotazione lo seguono ovunque e poi fan-no rapporto via mail dai loro palmari atutti gli altri. Danno al volo le notizie piùimportanti e rispettano il gioco di squa-dra. Una riga per «allertarvi: Putin ha pro-posto di mettere il sistema di difesa anti-missile in Azerbaigian».

E raccontano dettagli e curiosità, perpermettere a tutti di infilare un po’ di co-lore nei pezzi. Sheryl Stolberg del NewYork Timesera nel pool che è finito a Jura-ta in Polonia. Bush al mattino si era senti-to male: «Ho chiesto a Potus come si sen-tiva, lui ha alzato i pollici verso l’alto e hadetto: “Bene, grazie”. Ma lo ha fatto conuna voce debole e le sue guance erano piùrosse del solito e poi non ha più detto unaparola. Insomma non sembrava staretanto bene». Pochi minuti dopo si ricolle-ga: «Il presidente Lech Kaczynski e suamoglie Maria, insieme al loro cane Titus,

che somiglia a Barney — lo scottish terrierche abita alla Casa Bianca — hanno datoil benvenuto a Potus e Flotus. I Kaczynski,il loro cane e i Bush si sono messi in posaper una foto insieme di fronte al giardinoche degradava fino al Baltico, il tempo eraperfetto, la luce brillante e c’era un venti-cello fresco. “Oh, è meraviglioso”, ha det-to Laura Bush, poi ha guardato il cane cheera al guinzaglio e ha aggiunto: “Ci sentia-mo proprio come a casa”». Per i giornali-sti del poolla coppia presidenziale si chia-ma sempre Potus (President of the UnitedStates) e Flotus (First Lady of the US), perlo staff della Casa Bianca invece sono thePresidente mrs. Bush.

In fondo all’aereo siedono uomini gi-ganteschi, i capelli cortissimi. Sono gliagenti dello US Secret Service, il serviziosegreto che da centosei anni garantisce lasicurezza del presidente e del suo seguito.Producono e vendono i gadget, a partiredalla maglietta blu, nera e bordeaux conlo stemma del presidente che contienel’aquila e la scritta European PresidentialTrip 2007. Costo venticinque dollari. So-no superallenati, dormono in spazi ri-stretti e si alzano per andare verso l’uscita

mentre l’aereo sta ancora atterrando.Appena a terra si corre in sala stampa,

tutto è già allestito, si passa da un acqua-rio a un altro. Ma qui c’è la colonna sono-ra. È la voce di Mark Knoller da Brooklyn,l’uomo della radio Cbs. Ha cominciatocon Ford e ha il record delle miglia per-corse con Bill Clinton. È un uomo im-menso, con la barba; somiglia a MichaelMoore ma con una voce profonda e pos-sente. Quando si collega — succede an-che ogni quindici minuti — tutti prendo-no appunti: ha il dono della sintesi, l’at-tacco del pezzo è pronto.

Quelli delle agenzie si marcano stretto,se uno di loro si alza di scatto tutti gli altrilo seguono correndo con il taccuino inmano, nessuno sa perché ma la meta èsempre la stanza allestita per lo staff di co-municazione della Casa Bianca. Le vitti-me sono Gordon Johndroe, texano ditrentadue anni, portavoce del Consiglioper la sicurezza nazionale della CasaBianca, che segue Bush da quasi un de-cennio, e Salvatore Antonio Fratto, dettoTony, quarantuno anni la prossima setti-mana. Tony è figlio di italiani e ricorda vo-lentieri le estati passate a Cefalù, quando

In prima classe ci sono dieci posti:uno è per un quotidiano americano,

gli altri per i network e le agenzieAgli stranieri pochi sedili in business

FO

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AF

P

PRIMA CLASSE•Cnn,Fox, Cbs, Abc, Nbc•Ap, Reuters, Afp, Bloomberg•N.Y.Times, W.Post, L. A.Times(a rotazione)

BUSINESS•Stampa Usa•Fotografi agenzie•Stampa estera (10 posti a rotazione)

ECONOMICA•Stampa estera•Servizi segreti(ultimi posti)

Boeing777

103 giornalisti

30 agenti

servizio segreto

equipaggio

si alzava alle quattro del mattino per in-naffiare i limoni con il nonno. La loro spe-cialità è minimizzare. La loro mimica fac-ciale è perfetta. Sono pagati per essere ve-loci e risolvere problemi. Capita che arri-vino di corsa e dicano: «Nessun soldatoturco è entrato in Kurdistan». Cosa? Co-me? Perché? «La notizia», proseguono, «èdestituita di fondamento». Solo alloraqualcuno si accorge che da pochi minuticircola in rete un’indiscrezione. Il lorocontrollo è globale, e intervengono subi-to, prima che la valanga cominci a rotola-re e qualcuno inizi a pensare che la Tur-chia ha mandato i suoi soldati in Iraq. Ilpresidente si vede pochissimo, i suoi con-siglieri però si fanno sentire in continua-zione: spiegano, analizzano, fornisco-no dati, non demordono.

In sala stampa non spengonomai la luce: i giornalisti lavora-no a ondate, a seconda deifusi orari. All’alba ci sono igiapponesi, nel primopomeriggio i tedeschiche chiudono prestoi loro giornali, poi gliitaliani, la sera gliamericani, poi dinotte tornano i giap-ponesi. Tutti mangia-no in sala stampa, ilpiatto accanto al com-puter. Roma fa eccezionee un esercito di cinici di-sincantati, mentre il pull-man passa davanti ai Fori, siscioglie e per un attimo si lasciaandare: «Wonderful».

Nella Città eterna si arriva con treore d’anticipo. Lo ha deciso Ann Comp-ton. Lavora per la Abc, è la veterana: ha co-minciato nei giorni del Watergate ed è sta-ta l’unica giornalista tv ad essere ammes-sa sull’Air Force One l’11 settembre 2001,mentre il presidente girava per i cieli d’A-merica per stare lontano da Washington.Questo le dà l’autorevolezza necessaria aguidare l’Associazione dei corrisponden-ti dalla Casa Bianca e a fare l’organizzatri-ce: è l’unica che riesce a cambiare gli ora-ri dei voli e degli spostamenti.

Ogni volta che l’ora della partenzacambia entra un ragazzo dell’organizza-zione e urla: «Si rinvia di trenta minuti, butsoft not hard». Significa che la mezz’ora èflessibile. Se fosse hard sarebbero trentaminuti spaccati e si partirebbe senza i ri-tardatari. Che resterebbero a terra senzapassaporto. Lontano dal circo, fuori dal-lo zoo.

PASSIn alto, il passplastificatoQui soprae a destra,

le copertinedel press kit

Repubblica Nazionale

L’Uganda è uno dei Paesi del mondo dove più impetuosamentecresce il numero dei cristianipentecostali. I cui pastori predicanoil successo, il lusso e la ricchezza

KAMPALA

L’Occidente guarda al male in Ugandaattraverso il prisma del violento regimedi Idi Amin (1971-1979), la cui storia, inversione romanzata, è stata racconta-

ta dal recente film L’ultimo re di Scozia. A pagliacciatesulla scena internazionale il suo governo univa una pa-ranoia sempre più acuta sul fronte interno, causa diuna vendetta che non ha conosciuto limiti: Amin èconsiderato responsabile dell’uccisione di un nume-ro di suoi connazionali stimato tra i trecentomila e icinquecentomila.

Ma la maggioranza degli ugandesi non fanno riferi-mento a questi fatti e, se interrogati, non sembrano vo-lerne parlare. Gli aderenti alla Chiesa pentecostale oborn again (rinati), il cui numero è in veloce crescita,rappresentano piuttosto il male attraverso immaginiper loro molto più vivide. Ad esempio, come la figuradi Satana che sotto le spoglie di un enorme serpenteentra in chiesa strisciando; o di un finto pastore creatoda Satana per ingannare i fedeli; o come una forza che,tra un balenare di fulmini, un accavallarsi di tuoni e undiffondersi di odore di zolfo, ti afferra per trascinarti inbasso, verso l’agonia di molteplici morti, e ti getta in uninferno la cui superficie ribolle come lava fusa.

Sono visioni che mi sono state raccontate duranteun recente viaggio in Uganda da diversi cristiani bornagain, ogni volta con un’intensità calma che presup-poneva che condividessi la loro fede. Una fede che, se-condo i loro correligionari e i sostenitori del movi-mento born again,è seguita in Uganda più che in qual-siasi altra nazione dell’Africa e forse del mondo, e chesta sottraendo fedeli alle Chiese cattolica e protestan-te obbligandole ad avvicinarsi a loro volta ai born againnella pratica del proprio culto: i pentecostali hannocreato nel loro immaginario un universo sontuoso difede, paura, esaltazione e gratificazione.

La variante più intensa dell’inferno, e della reden-zione, mi è stata raccontata una sera nell’ufficio im-macolato, ordinato e lussuoso di un uomo chiamatoPeter Semitimba, titolare di una stazione radio, discjockey, imprenditore, proprietario terriero e in passa-to candidato a sindaco di Kampala, la capitale del Pae-se. Il suo messaggio è che Dio è amore, ma anche psi-cologo, consulente e socio in affari.

Quella di arrivare a Dio è stata, per Semitimba, unamossa immensamente vantaggiosa. Questa è la suastoria: una sera, mentre riposava a casa sul divano ac-canto a degli amici che giocavano a carte, un fulmine siè frapposto con rombo di tuono tra lui e loro. Semitim-ba si è sentito immobilizzare sul divano e in uno statodi confusione si è sentito come trascinare verso il bas-so. Provava un grande dolore. Poi si è ritrovato sospesosu un mare di lava incandescente, che sapeva esserel’inferno. Ha urlato: «Gesù, se mi salvi crederò in te!».«Dopo un po’», dice, «Gesù deve aver detto: “Ok! Ok! Ilragazzo crede davvero”». «Così ho iniziato un rapportomolto concreto con Dio. Gli ho detto: “Ascolta, se devoavere con te un rapporto per il resto della mia vita devoimparare davvero a conoscerti”. Gli ho detto: “Mi haifatto amare il denaro, la buona tavola, gli aeroplani, eun giorno spero di averne uno tutto mio. Perché?”. EDio ha risposto: “Perché lo chiedi?”. Ho detto: “Perchémoltissimi tuoi seguaci sono poveri e puzzano. Se midici che devo essere povero, d’accordo. Ma se mi diciche essere ricchi va bene, allora mi innamorerò di te!”».

In una serie di conversazioni (che ancora continua-no), Dio ha detto a Semitimba che la grande maggio-

ranzadei cri-stiani lo frain-tendevano. Hadetto che i suoi figli ri-fiutavano le parole che Luiaveva usato per creare la Terrae tutto ciò che essa contiene. E cherifiutando quelle parole rinunciavanoalla propria capacità di arricchirsi. «Ho det-to a Dio: “Tutto questo mi affascina. Ma ti met-terò alla prova. Sono un uomo pratico”».

Così Semitimba disse a Dio che voleva guarire lepersone, «e sono andato in cerca di malati. Ma nes-suno dei miei amici stava male. Alla fine ho trovato unamico che aveva mal di testa: gli ho poggiato le manisul capo — ho immaginato che si facesse così! — e hodetto: “Padre, le tue parole dicono che questo è pos-sibile. Dichiaro quest’uomo guarito. Le tue parolenon possono fallire”. E il mal di testa è sparito sedutastante. Eravamo entrambi spaventati, e ho detto: “Ohmio Dio, funziona!”».

È stato allora che Semitimba si è scoperto la voca-zione di diventare pastore, un titolo che è andato ad ag-giungersi a quelli di proprietario di stazione radio, di-sc jockey e uomo d’affari. Semitimba crede che le sueattività economiche prosperino perché è stato salvatoed è divenuto pastore. E, anche se la sua candidatura asindaco di Kampala non è andata a buon fine, la suastazione radio continua ad essere tra le maggiori del-l’Uganda; ha acquistato un impianto per la trasforma-zione degli alimenti e spesso predica sulla LighthouseTv (tv faro), un canale dedicato alla religione dei bornagain. Recentemente ha acquistato un fantastico ter-reno su una penisola che si affaccia sul Lago Vittoria:«Il proprietario mi aveva detto che l’avrebbe vendutaper cento milioni di scellini (circa 45mila euro). Mi so-no rivolto a lui con le parole di Dio, e mi ha dato ottomesi di tempo per pagare. Ho comprato molte pro-prietà in questo modo».

Sulle masse urbane prevalentemente povere dell’U-ganda, più che su quelle rurali, questo schietto abbrac-cio della ricchezza attraverso la fede ha un effettoprofondo. Ad eccezione del quindici per cento della po-polazione rappresentato da musulmani (come Amin,che si era convertito), la maggior parte degli ugandesisono cattolici o protestanti. Sino alla seconda metà del-l’Ottocento gli abitanti erano animisti. Poi, in velocesuccessione, sono arrivati l’islam (nel 1860), il prote-stantesimo anglicano nel 1875, e nel 1877 il cattolicesi-mo. In una serie di guerre, anche interne, tra gli aderentialle diversi fedi, ha prevalso l’anglicanesimo, che per-suase il riluttante governo britannico a dichiarare unprotettorato in modo da stabilizzare la propria influen-za. Gli ordini monastici cattolici e i preti però non furo-no espulsi e contavano (contano) più seguaci. Intanto,a partire dagli anni Trenta, parallelo e interno alle con-fessioni prevalenti, cominciava a crescere il movimen-to dei born again, sorto inizialmente all’interno dellaChiesa anglicana. Secondo la testimonianza di moltipentecostali del tempo, alla rapidità della sua crescitacontribuì la repressione messa in atto da Amin. FredWantante, che negli anni Settanta era studente pressol’Università Makerere, assisté ai pestaggi di fedeli che sirifiutavano di obbedire all’ordine di chiudere la lorochiesa. Molti furono incarcerati, altri torturati ed ucci-si. Fu allora che decise che una fede sentita così profon-damente doveva valere la pena di essere abbracciata.Adesso è lui il pastore di quella chiesa.

Amin venne deposto, e tornò Obote. E benché an-che il suo secondo governo fosse spietato, revocò la

JOHN LLOYD

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10GIUGNO 2007

In primaclasseversoil Paradiso

il reportageTra i credentiTra i credenti

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Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 10GIUGNO 2007

messa al bando dei pentecostali e intra-prese una politica di tolleranza che sotto

Museveni ha poi sfiorato l’incoraggiamentodi fatto, in parte grazie alla moglie, born again.

L’importanza dei pentecostali deriva anchedal fatto che i loro pastori sono un gruppo di uo-mini straordinari. Ognuno di quelli che ho in-contrato emanava una forte personalità e que-sto rientra proprio nella loro vocazione. Si pre-sentano di fronte ad un pubblico, spesso diversevolte a settimana, e con la sola forza delle parole

riescono ad incantare centinaia, spesso migliaia, dipersone. In senso più ampio però la loro importan-

za, ed il motivo principale per cui è probabile che di-ventino politicamente e socialmente potenti, è data

dal controllo che esercitano sui loro seguaci. Ogni pa-store è indipendente; e poiché non so-no necessari titoli di studio né unaqualsivoglia preparazione, non esisteun’effettiva disciplina, a differenza diquanto accade nella Chiesa cattolica.Con nulla a cui far riferimento a partela propria personalità e (direbbero al-cuni) la grazia salvifica di Gesù, i pa-stori di successo diventano personag-gi dominanti capaci persino di intimi-dire, che non ammettono dissensi.

Una ventosa domenica mattina disole mi sono recato alla Miracle CentreChurch, il principale centro bornagain di Kampala, diretto dal pastoreRobert Kayanja. Questi è il fratello mi-nore di John Sentamu, l’arcivescovoanglicano di York che è secondo nellagerarchia della Chiesa anglicana.Stando al sito web della chiesa, essa è ilpiù grande auditorium dell’Africaorientale e ha una capacità di diecimi-lacinquecento posti. Se i dati sono

esatti, al secondo servizio del mattino dovevano esse-re presenti circa novemila persone. Kayanja indossa-va un completo elegante e impeccabile, una camiciabianca con i gemelli e un grande orologio da polso.Mentre predicava, percorreva su e giù a grandi passi lospazio tra le prime file e il palco, occupato dal coro. La

sua immagine era proiettata su enormi schermi.«Siamo noi stessi a ridurci in schiavitù!», diceva.

«Alcuni di noi si sono impantanati perché nonrispondono ai miracoli che ci vengono offerti!»,ha concluso. E se ne è andato.

Durante il breve intervallo sono stato avvi-cinato da un membro del servizio d’ordine ingiacca gialla, che mi ha cortesemente chie-sto cosa facessi lì (ero l’unico bianco tra mi-gliaia di persone). Ho detto che venivo daLondra e lui ha insistito perché mi sedes-si davanti. Il secondo servizio è iniziatocon uno spettacolo intenso e straordina-rio, tra un succedersi di cori e danze: ado-lescenti che si esibivano in numeri dibreakdance, giovani che cantavano in sti-le soul, uomini e donne più maturi vestitiin lunghi camici che intonavano gospel eun coro che ha cantato in lingua luganda.Si avvicendavano sul grande palco ac-compagnati da una buona orchestra,mentre cantanti-predicatori prendevanoil microfono per tessere lodi appassiona-te, con molti tra il pubblico che si univanoa loro, ballando o facendo ondeggiare lebraccia. Seduto tra questi entusiasti mi so-

no sentito sgarbato per non potermi unire a loro.Dopo un’ora trascorsa in questo modo Kayanja è ri-

comparso, tra i saluti dei fedeli, indossando un nuovoabito. Ha fatto qualche annuncio, comunicando adesempio l’imminente apertura di un ristorante pressola chiesa, dove un nuovo chef avrebbe preparato unbrunchalla fine del servizio. Si è poi lanciato in un ser-mone imperniato sulla creazione della ricchezza e ilpeccato della povertà. Ad un certo punto se l’è presacon i mendicanti. Atteggiandosi ad accattone ha as-sunto un atteggiamento servile e si è inginocchiato conil volto distorto dalla disperazione, le mani tese. Ha rac-contato di quando, poche settimane prima, di ritornodagli Stati Uniti, aveva sorvolato l’Atlantico in primaclasse («l’unico modo di volare»), atterrando a Nairo-bi. Lì avrebbe dovuto cambiare aereo per imbarcarsisul volo che in cinquanta minuti lo avrebbe portato aEntebbe, l’aeroporto di Kampala. L’addetto dellacompagnia aerea gli ha detto che il suo nome non com-pariva tra quelli dei passeggeri della prima classe delvolo per Entebbe. Lui si è detto furioso e ha fatto chia-mare il direttore. Con dovizia di dettagli ha poi descrit-to una scena conclusasi con la sua trionfale conquistadi un posto in prima classe.

Con il procedere del racconto mi domandavo cosastesse cercando di dimostrare a un pubblico che perla maggior parte non poteva, e mai avrebbe potuto,permettersi di volare in classe economica per andareda nessuna parte. Ha detto: «Ho preteso la prima clas-se! Perché ho preteso la prima classe? Ho preteso laprima classe perché il Signore mi considera di primaclasse. Se vi considerate di prima classe il Signore viconsidererà prima classe. Ma dovete esigerlo! Dove-te esigerlo! Non avete sentito cosa vi ho appena det-to! Dovete esigerlo!».

Durante il sermone il pastore ha detto alla gente difarsi avanti con la propria offerta, infilata nelle bustemesse a disposizione. Lungo i corridoi si sono forma-te allora lunghe file per depositare le buste nei conte-nitori retti dai membri del servizio d’ordine. Lui citavail profeta Malachia del Vecchio Testamento, capitolo3, versetto 10, che dice: «Portatemi tutte le decime allacasa del tesoro, perché vi sia cibo nella mia casa». Ver-so la fine ha raccontato un’altra storia, di lui che si ri-lassava sul balcone della sua villa guardando il lago,quando un’aquila è scesa in picchiata e ha preso un pe-sce, afferrandolo con gli artigli e facendo allontanaregli altri uccelli. Questo, ha detto, era quello che dove-vano fare loro: afferrare quanto gli spetta e lasciarsi al-le spalle chi non fa altrettanto, realizzare il proprio po-tenziale, conquistare la ricchezza e perseguire gliobiettivi personali.

Terminato il servizio, Kayanja si è allontanato agrandi passi e i fedeli hanno iniziato a riversarsi fuo-ri, mentre altri aspettavano di entrare. Avevo visto so-prattutto poveri offrire somme che parevano consi-stenti a un uomo che ostentava la propria ricchezza eprometteva loro che avrebbero potuto essere comelui e che più avessero dato, prima lo sarebbero dive-nuti. Durante le ore trascorse in chiesa si erano com-portati come se si fossero elevati; erano pieni di gioia,salvati. E come già fanno decine di milioni di statuni-tensi, sudamericani e coreani, avevano donato som-me ragguardevoli a una chiesa che in cambio regalaloro la convinzione di andare in paradiso, e non solo:che raggiungeranno salute e ricchezza in Terra. L’hosentito e l’ho visto. Quello che non sono riuscito a ca-pire è se si tratti davvero di un buon affare. O, per dir-la da uomo pratico, come Peter Samitimba, se ne val-ga davvero la pena.

Traduzione di Marzia Porta

FEDELINelle foto di questa

pagina, cristiani

pentecostali ugandesi

in una chiesa di Kampala

Qui sotto, il loro pastore

e, dietro, lo striscione

che fa pubblicità

alla sua chiesa

Repubblica Nazionale

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10GIUGNO 2007

Cairo, il miraggiodel tempo immobile

i luoghiScatti d’autore

Un grande fotografo,Luca Campigotto,ha “fermato” oggiin un magicobianco e nerole antiche pietredella città egizianaUn gioco di prestigioche resuscita il passato

STEFANO MALATESTAriti a ruota dopo la fuga di Faruk nel1952 lasciando vuoto il mercato di Sha-ri el-Muski. Ma dei miniaturisti capacidi imitare qualsiasi pittura, dei rilegato-ri, dei ceramisti di gran classe che rifa-cevano le maioliche persiane color avo-rio di Nishapur con i caratteri cufici, deisarti eccelsi che tagliavano il miglior li-no del delta, dei camiciai, dei mercantidi seta cinese, delle polveri d’oro allostato grezzo che arrivavano dalla Nubiae di altre decine di merci oramai intro-vabili come le ceramiche fatimide, i tes-suti copti, probabilmente i migliori tes-suti africani, paragonabili per ricchez-za di colori e fantasia a quelli asiatici.

Nessuno sa spiegare come facciano asopravvivere quei materassai, una vol-ta così numerosi e ora ridotti a un nu-mero esiguo, che continuano ad aguc-chiare nel suq Khiyamiya, a sud delBaab Zuwayla, dove una volta si taglia-va la testa ai criminali; o i lattonieri chelavorano l’ottone delle “Faranis”, lelanterne adoperate durante le lunghenotti del Ramadan. I soffiatori di vetrohanno trovato nei frammenti delle bot-tiglie moderne il modo per dare ai lorotradizionali prodotti una lucentezzacolorata che si è rivelata molto graditaai turisti: Seven Up per il verde, Coca-cola per il trasparente, chinotto perl’ambra. E gli impagliatori fanno di-screti affari con le poltroncine a motividecò di legno di palma, le più elegantipoltroncine da giardino che abbia maivisto. Ma non tutti sono stati così intra-prendenti e fortunati.

Si cerca di mascherare il degrado so-stenendo che c’è sempre stato: la vera,autentica Cairo nascerebbe già deca-dente, una città di pittoreschi (non tan-to) straccioni, circondati da meravi-gliosi, nobili palazzi fatiscenti che fan-no da impareggiabile fondale lungo lestradette ingombre di immondizie cheportano a el Ahzar, la molto venerabiletra le venerabili moschee del Cairo, onei piccoli slarghi davanti alla moscheadel sultano Hassan, una delle più belledel periodo dei mamelucchi, o nellaShari el-Muiz, l’antica kasba. Un ventreaperto che mostra le frattaglie, calcina-te dal sole, come in tutte le città storichedefinite eterne, ossia sempre uguali a sestesse.

Il Cairo è una città a più velocità,quella più rapida e superficiale, di ge-nere imitativo, sovrapposta a quelle piùantiche e di lunga durata, autoctone esedimentate l’una sopra l’altra come sivede nelle stratigrafie. L’ultima in ordi-ne di tempo era stata organizzata dagliinglesi, che avevano fatto dell’Egittouno stato indipendente solo di facciata,con i re fantoccio asserviti alla politicadell’Inghilterra, dove chi aveva coman-dato veramente come un faraone eraLord Cromer, uno di quegli straordina-ri funzionari su cui si reggeva l’imperopiù vasto che si fosse mai visto. Il luogodove si esercitava l’arte sopraffina del-la lusinga alternata con la pressione echiamata “indirect rule” era loShepheard Hotel, intonato a uno stilechiamato «edoardiano della diciottesi-ma dinastia»: il primo edificio ad esseredato alle fiamme quando gli inglesi

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Poco più di cinquant’anni fa ilCairo era una città subde-sertica con due milioni diabitanti irrequieti e accesa-mente nazionalisti, che sta-vano aspettando il momen-

to migliore per liberarsi di un re inetto edella insopportabile tutela inglese. Mail suo aspetto esterno non tradiva alcu-na angoscia: gli europei circolavano li-beramente, ben accolti ovunque, l’ariaasciutta profumava di aloe, che daigiardini delle isole del Nilo portava isuoi aromi nei quartieri della vecchiaal-Qahira dove lavoravano artigiani de-gni della grande tradizione islamica.Per quanto uno avesse viaggiato, nonesisteva al mondo un luogo paragona-bile per fascino, scavi e monumenti ar-cheologici, avventure, divertimenti earia salubre. E — se non eravate inte-ressati a Osiride e Iside; ai falsi reperti diTebe o del Fayum, che non risalivano altempo dei faraoni ma a quello della re-gina Vittoria, eppure erano fatti così be-ne da costituire un mercato a parte; o aipapiri, alle superbe calligrafie alloracon prezzi accessibili, ai marmora ro-mana — potevate affittare una felucaper scendere il grande fiume fino aLuxor, che si pronunciava possibil-mente con l’accento francese, Luxòr, enon Làxor come faranno gli americani,oppure salire su una Land Rover co-struita venti anni prima, ma ancora ab-bastanza resistente da affrontare unagita nel deserto, che i francesi chiama-vano «Le baptême de la solitude», se pervoi era la prima volta.

Oggi la stessa irriconoscibile, sfortu-nata città ha superato i venti milioni diabitanti, una parte dei quali abita nei ci-miteri in loculi accanto alle care salme,visti come penthouse rispetto ai giaci-gli accatastati lungo le strade percorseda un traffico che non ci sono aggettiviadeguati per definirne l’orrore. Con untasso d’inquinamento paragonabilesolo a quello di Città del Messico, e tut-ta la città avvolta perennemente da unanube tossica simile all’iprite adoperatadalle truppe d’assalto della Prima guer-ra mondiale. Così raggiungere unoqualsiasi dei seicento monumenti isla-mici protetti dall’Unesco per la lorobellezza è diventata un’impresa similea quella dei cavalieri delle saghe, quan-do andavano sulla montagna sacra perimpadronirsi del tesoro, sfidando i dra-ghi lanciafiamme.

Anche se il collasso urbano, che ap-pare inevitabile, viene ogni volta rin-viato per quelle che sono le conseguen-ze più gravi, il Cairo ha subito una talemutazione in peggio che non è più pos-sibile mantenere quella finzione di po-polo povero ma felice, quel teatrino ditessitori e calderai, di mulattieri e latto-nieri, di bibitari e locandieri, di santonie avventurieri di kasbe, che circolano,sentenziano e soprattutto raccontanoballe nei romanzi di Naghib Mahfouz.Non sto parlando degli artigiani per ric-chi, che contavano su una clientela fa-coltosa, con il sospetto della volgarità,specializzati in gioielli e diamanti, spa-

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 10GIUGNO 2007

vennero cacciati bruscamente dal Pae-se, nel 1952. Ma per trenta o qua-rant’anni questa dependance abba-stanza frivola dei palazzi governativivenne frequentata dai turisti impor-tanti, e sulle sue terrazze fu preparata lacontroffensiva alleata nel deserto.

Di sera gli europei più vivaci ed ele-ganti andavano al Kit Kat, un locale not-turno affollato da tipi con la linguasciolta che avevano fatto dell’abito dasera l’abbigliamento abituale, quandonon erano in kaki ad arrancare sulle du-ne del grande mare di sabbia. Nessunosapeva cosa facessero e da dove venis-sero, erano chiamati avventurieri-gen-tiluomini, una definizione largamentesproporzionata a favore degli avventu-rieri. Uno dei pochi il cui rango era sta-to acclarato, perché di fresca data, eraLaslo von Almasy, molti anni più tardiirriconoscibile protagonista del Pa-ziente inglese, che aveva radunato in-torno al principe Husein, un patito del-le esplorazioni, un fantastico gruppo didiverse nazionalità, molto elegante eanche capace, nonostante la casualitàcongenita delle sue azioni, di impresememorabili. Monod, famoso esplora-tore transahariano, lo incontrò proprioal Kit Kat mentre stava progettando laricerca di un’oasi fantasma, persa neldeserto e che avrebbe custodito tesorimai visti.

L’alternativa allo Shepheard Hotel eal Kit Kat erano le cene sontuose offertedai ricchi e intelligenti ebrei che porta-vano nomi come Cattani, Rolo, Larari oMenasce, occasioni d’incontro ancheper le grandi famiglie copte come i Wis-sa o Khaiiyat, per gli esponenti di famo-si clan greci come i Rodocanachi, e pergli altrettanto ricchi cristiani siro-liba-nesi. In questa società cosmopolita econsapevole di esserlo, tra i giovani sta-va crescendo un presentimento di futu-re apocalissi, che davano alle relazioniintrecciate tra i ragazzi di diversa estra-zione una colorazione tragica, moltoletteraria.

A distanza di oltre mezzo secolo, diquesto mondo che imitava l’Europanon è rimasto nulla, tranne i vasi Lali-que svenduti prima dell’esodo e i rac-conti di Lawrence Durrell, che si riferi-scono ad Alessandria ma che possonoessere estesi a tutto l’Egitto. L’architet-tura dell’epoca, a differenza di quellaitaliana nelle colonie, non ci ha lasciatomanufatti memorabili e l’improntamusulmana sul Paese e sulla città è di-ventata negli ultimi tempi più forte chemai, se non fosse in qualche modo smi-nuita dallo sfacelo urbanistico. Gli ar-chitetti succedutisi nei secoli hannodato interpretazioni assai differenti dicome doveva essere un edificio che ri-specchiasse il volere di Dio. E l’asceti-smo, che si identifica con i colori pri-mari nelle facciate delle costruzioni de-gli Omayad, sta esattamente all’oppo-sto del fasto e dell’opulenza dei palazzifatti erigere per più di duecento annidai mamelucchi, una casta militare de-dita all’omicidio come scelta preferen-ziale per risolvere problemi di succes-sione. Il più famoso tra i comandanti ere dei mamelucchi, Baibar, aveva una

tale predilezione per i mercati e i cara-vanserragli che durante il suo regno nefunzionavano regolarmente ottanta-sette, con dodicimila botteghe che ven-devano ogni possibile oggetto di lusso,dai velluti italiani alla mossola siriana,dagli uccelli esotici e dall’oro dell’Etio-pia agli specchi dipinti di Damasco. Mai visitatori occidentali, che sono po-chissimo o nulla istruiti sulle belle artimussulmane, che conoscono solo il TajMahal di Agra come prototipo di tuttoquanto ha da offrire l’Oriente di misuraclassica, confondono madrase con ca-sini di piacere, caravanserragli con ca-serme, riuscendo a riconoscere solo glihammam, i bagni turchi che frequenta-no da qualche anno. E dovendo fareuna sintesi delle loro impressioni, par-lano di un unico, continuo mercato, co-me puntellato di edifici di cui non si ca-pisce la funzione.

È un’immagine che eliminando bru-talmente tutto quello che di unico offreo offriva il Cairo coglie l’elemento uni-ficante di tutte le città islamiche, qual-siasi sia il livello dei suoi artigiani e lagloria del loro passato: la profonda con-vinzione dei suoi abitanti che il vende-re e il comprare e più ancora tutto quel-l’insieme di preliminari, il mercanteg-giare, che accompagnano la transazio-ne non sia solo un atto che rientra nellasfera economica, ma una forma supe-riore di conoscenza in cui il caratteredegli umani si rivela come in nessun’al-tra occasione. Due tra i traumi avvertiticome pericolosi per la loro stessa so-pravvivenza dai cairoti nel passato so-no stati, non a caso, la fine del monopo-lio basato sulle spezie che arrivavanovia terra dall’Oriente, un monopolio in-franto dal viaggio di Vasco De Gama inIndia e sostituito immediatamente dalcaffè dello Yemen. E la europeizzazioneforzata della città voluta da MehemetAlì nell’Ottocento quando venne crea-to Bulaq, il porto occidentale del Nilo ecentro del progetto di industrializza-zione che prevedeva, tra le altre cose, iltentativo di abolire uno degli aspettipiù significativi delle costruzioni me-dio-orientali: le musharabie, il gratic-cio di legno applicato ai balconi che im-pediva di essere visti ma consentiva achi stava dentro di osservare quello chesuccedeva in strada.

Una mossa infelice, che aveva creatospavento perché ritenuta anticipazio-ne di una rivoluzione programmata acapovolgere i modi di vita dei cairoti ead abolire il suk, dove le musharabie co-struiscono uno degli elementi essen-ziali. Chiunque sia stato anche per po-che ore al Cairo avrà capito che i cairotinon si sono mai sognati di abolire que-sto schermo della loro vita privata che èservito nei secoli per nascondere intri-ghi che facevano le delizie degli harem.Negli ultimi anni la funzione delle gra-te ha avuto un’evoluzione al passo coni tempi diventando il posto di osserva-zione privilegiato dei servizi segreti diMubarak e nello stesso tempo dei grup-pi religiosi estremisti, e non si capiscechi spia chi in attesa del prossimo at-tentato già in ritardo sui tempi previstie che tutti ritengono inevitabile.

LE IMMAGINI

IL LIBRO

Le pietre del Cairo

(Peliti Associati, 104 pagine,

50 euro, con una introduzione

di Achille Bonito Oliva)

contiene 58 fotografie

scattate da Luca Campigotto

tra il 1995 e il 1996

per catturare le atmosfere

perdute di questa

“città eterna” nei suoi luoghi

più rappresentativi:

le Piramidi di Giza, il Bazar

di Khan El Khalili,

le tombe dei Mamelucchi,

la Città dei Morti

6

7

8

5

1 Piramidi di Chefren e Micerino

2 Piramide di Chefren

3 Saqqara

4 Cittadella e moschea di Mohammed Alì

5 Moschea di Ibn Tulum

6 Shareh Khan Abou Takiah

7 La Città dei Morti

8 Cairo islamica

Repubblica Nazionale

A Milano l’“Ufficio oggetti rinvenuti” sta in una fuga

di stanzoni dentro un’ex fabbrica. Un “museodella sbadataggine” che vale la pena di esplorare alla ricerca

di tutti quei reperti rimossi dalle nostre vite per dimenticanza, distrazione o sfortuna

Ricordandosi sempre che la vera fabbrica della rimozione è l’inconscio

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10GIUGNO 2007

BEPPE SEBASTE

Oggetti

L’artedi trovarele cose

MILANO

Sono seduto al bar con l’amico regista Giuseppe Bertolucci,e parliamo di “oggetti smarriti”, anzi, “oggetti trovati”. Glidescrivo lo storico e ormai secolare Bureau des objettrouvés a Parigi, al 36 di rue des Morillons, nel XV arrondis-

sement, impressionante e pittoresco museo della sbadataggine. Allafine degli anni Novanta tra gli oggetti in giacenza si trovavano ancheun’urna funeraria con tanto di ceneri del defunto trovata nel metrò, unteschio umano, statue di Gesù, e perfino un serpente scappato da unozoo. Ma sono gli oggetti comuni che quello stesso anno al museo an-darono davvero, quando Christian Boltanski, artista affascinato dalleidentità anonime, presentò al Musée d’Art Moderne di Parigi installa-zioni con le migliaia di giacche, cappotti, borse e occhiali non recla-mati del Bureau di rue des Morillons. Parigi è una grande città cosmo-polita, nei cui circuiti e pubblici trasporti si muovono quotidiana-mente milioni di persone che lasciano una scia inevitabile di oggetti arappresentarli. E in Italia? Che cosa perdono gli italiani? E cosa signifi-ca smarrire un oggetto?

Giuseppe Bertolucci ha girato nel 1979 un film che s’intitola proprioOggetti smarriti, con Bruno Ganz e Mariangela Melato. C’era ancheLaura Morante, per la prima volta sullo schermo, e la storia si svolgevainteramente alla Stazione Centrale di Milano. Lui è affascinato dallestazioni, e il suo primissimo film, Andare e venire, si svolgeva alla sta-zione Trastevere a Roma, mentre negli anni Ottanta un lungometrag-gio documentario dal titolo Panni sporchi descriveva gli emarginatidella stazione di Milano evocati in Oggetti smarriti. «Nella sua monu-mentalità — mi dice Bertolucci — la Stazione Centrale mi sembravauna grande scenografia dell’Aida. I suoi traffici e passaggi lo rendonoil luogo dell’impermanenza, dove gli unici stanziali sono gli emargi-nati». Ma il suo film, nato liberamente da un romanzo inglese di JohnWayne (Un cielo più piccolo), storia di un paleografo che decide al-l’improvviso di non tornare più a casa e di stabilirsi alla stazione, tra al-bergo diurno e sale d’aspetto, gioca con l’ambiguità del titolo. Gli og-getti smarriti sono anche i “soggetti”, gli ego individuali che perdono esi perdono, ma anche i soggetti intesi come idee e storie. Nel film è Bru-no Ganz, che incontra Mariangela Melato, donna in crisi che perdecompulsivamente un treno dopo l’altro. Lei che rifiuta il concetto bor-ghese di famiglia si troverà a ricomporre, con estranei della stazione,una nuova famiglia.

A entrambi, Giuseppe Bertolucci e me, piace soprattutto l’aggettivo“smarriti”, il cui fascino letterario è irresistibile. A parte Dante, che nonlo separa dalla speranza della salvezza (perduti sono solo i dannati), cievoca le folle di Baudelaire, la flanerie e il vagabondaggio urbano, maanche la psicanalisi. Se l’inconscio è il luogo in cui si fabbrica la rimo-zione, l’oggetto smarrito è molto importante. Se si considera il nume-ro impressionante di carte d’identità che vengono perdute e ritrovate,e giacciono nei depositi degli oggetti rinvenuti, nei lost & found italia-ni, ci si rende conto del desiderio di fuga, evasione o cambiamento del-la popolazione.

Le stazioni, nella mia indagine, le ho però lasciate da parte, dico aBertolucci, perché lì si depositano solo gli oggetti lasciati sui treni. So-no andato a Milano — città della moda, dell’industria e del design — a

cercare l’equivalente di rue des Morillons. Lì l’ufficio “oggetti smarri-ti” si chiama “degli oggetti rinvenuti”, ma continuo a pensare che laformula più appropriata dovrebbe essere quella che, in francese, defi-nisce il vecchio “fermoposta” — quel servizio, oggi in via di estinzione,che permette di ricevere lettere negli uffici postali di ogni città —: cioèposte en souffrance, posta che “soffre” la mancanza del proprio desti-natario, lettere in giacenza, smarrite e inutili come personaggi in cer-ca d’autore su un pirandelliano, burocratico scaffale; e che forse, co-me in Kafka, sono lette e assimilate solo dai fantasmi. Ecco, le cose cheho visto, gli scaffali a parete ricolmi di borse, i vestiari, le centinaia discatole piene di buste che contengono a loro volta documenti e por-tafogli perduti, sembrano essere lì “in sofferenza”, e al tempo stessospecchio della disattenzione e dei costumi dei cittadini.

L’“ufficio oggetti rinvenuti” di Milano si trova in via Friuli, traversadi corso Lodi. È un quartiere residenziale piuttosto scialbo, anche se apochi passi dall’ufficio comunale lo vivacizzano gli inconfondibiligraffiti colorati sui muri da archeologia industriale di un centro socia-le giovanile. Anche gli stanzoni che ospitano l’ufficio erano di una fab-brica di scarpe che il Comune acquisì negli anni Sessanta per farne lasede dell’economato, in coabitazione con l’ufficio vestiario dei vigiliurbani e una tipografia. I soffitti sono molto alti, il pavimento è rico-perto da un linoleum rosso e gli ampi volumi intervallati da colonne, elunghi tavoli disposti a L col piano zincato. Completano l’arredamen-to alcuni ventilatori a steli e vecchi armadi, su uno dei quali riconoscocon un sorriso, sbiadita dal tempo, una stampa del Quarto stato di Pel-lizza da Volpedo. Ci sono due ingressi: quello di chi segue le indicazio-ni, riservato ai cittadini che depositano un oggetto “trovato”, con unaspecie di reception; e quello riservato ai cittadini convocati per ritira-re l’oggetto “smarrito”, ma anche all’entrata quotidiana dei professio-nisti del ritrovamento — addetti ai trasporti urbani, alla posta o ai gran-di magazzini, e rappresentanti della polizia municipale, della poliziadi stato o dei carabinieri.

In giro per le stanze, insieme al direttore, mi accompagnava Alber-to, che lavora qui da vent’anni. Mi danno un po’ di cifre: in questo uf-ficio, che esclude appunto i ritrovamenti ferroviari, vengono effettua-li circa 1500 verbali di consegna al mese, 22mila all’anno. Una cin-quantina al giorno. Nel 2005 gli oggetti repertoriati sono stati 51.827,di cui restituiti al proprietario e/o al rinvenitore (dopo dodici mesi digiacenza, secondo il codice civile chi li trova può chiederne la pro-prietà) sono stati la metà, 25.410. I lotti di oggetti alienati tramite astasono stati 762, con un ricavo di 18.656 euro. Impressionante la quan-tità della valuta rinvenuta: 29.485 euro, di cui restituiti 18.599.

Ho assistito in presa diretta a due verbali di consegna: uno è l’ap-puntamento pomeridiano di un funzionario della metropolitana, chesvuota sul tavolo di zinco il contenuto di un sacco. Osservo la compi-lazione dei moduli di consegna e la presa in carico, con guanti d’ordi-nanza, di borse, telefoni, una quindicina di portafogli, uno dei qualigonfio di banconote. Tutto viene repertoriato e annotato, e dà l’occa-sione ad Alberto di sottolineare una virtù sottovalutata dei cittadini: ilcinque per cento dei portafogli consegnati hanno soldi in contanti, enon sono pochi — senza contare il paradosso di chi porta all’ufficio sol-di trovati per terra, di cui è impossibile risalire al proprietario. Ecco unaspetto, l’onestà anonima, di cui non si parla perché non fa notizia.L’altra consegna viene fatta da un tizio in giacca e cravatta che accededall’ingresso per il pubblico: è un oggetto curioso, una carta pcmcia da

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Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 10GIUGNO 2007

La pauradi perderese stessi

Smarriti

computer accompagnata da un verbale da lui già redatto. Alcune del-le mie congetture fantastiche incontrano l’assenso teorico di uno de-gli addetti: sì, l’ufficio oggetti rinvenuti può essere una buona strategiaper imboscare qualche oggetto per un certo tempo, e poi rientrarne inpossesso. Insomma, il luogo non è male per un libro poliziesco.

Prima di percorrere le stanze adibite a deposito, da un cassettino mimostrano l’oggetto mascotte per eccellenza, in giacenza da anni e maireclamato: un occhio di vetro che mi guarda dalla bambagia di un por-ta gioielli. Non è certo l’unica protesi arrivata all’ufficio, e le dentierenon si contano. Alberto mi racconta l’episodio recente di un’anzianasignora che cercava ansiosamente una borsa senza documenti in cuic’era di tutto, come le tasche di Eta Beta. Quando la signora la vide labaciò felice, trovò all’interno la sua dentiera e la mise subito in bocca.Inutile dire che il suo eloquio migliorò.

Ho guardato quindi gli scaffali di ferro fino al soffitto stipati di borsee valigie di ogni tipo, ma anche altri oggetti: una chitarra, delle luci disegnalazione per cantieri, un cambiamonete, un generatore, un ap-parecchio elettrico che potrebbe essere qualunque cosa, anche un de-pilatore. Tutti gli oggetti sono contrassegnati da un cartellino azzurroe sono disposti in ordine di data. Altri scaffali, non meno impressio-nanti per dimensioni, contengono i documenti chiusi in buste bian-che. Altre cassette contengono occhiali, da vista e da sole, e vari cam-pionari di telefonini. C’è un vestiario che occuperebbe un negoziod’abbigliamento, una stanza di biciclette, e un’intera parete occupatada una rastrelliera a cui sono appesi mazzi di chiavi. Come nei sogni,penso, gli incubi di quando si teme di aver perso la carta d’identità, la

chiave di casa, e chissà cosa vuol dire per l’analista. Nell’elenco degli oggetti rinvenuti nel 2005 dall’ufficio di Milano si

va in ordine alfabetico, dalle agende alle valigie, passando per anelli,bastoni reggipersona (stampelle), calcolatrici, cappotti, computer,guanti, indumenti, libri, ombrelli, orologi e gioielli di ogni tipo, pellic-ce, macchine fotografiche, dischi, quadri e dipinti, strumenti musica-li, targhe e tessere varie. Perfino oggetti commestibili. Ma c’è ancheuna voce che dice: “oggetti diversi”. Sono gli oggetti contenuti nelleborse smarrite, e per esaminarli ne scegliamo alcune recenti dal com-puter. Alberto porta le borse sul tavolo del direttore e le svuotiamo. Ècome comporre ritratti di persone anonime, e capisco che gli addettiall’ufficio abbiano ormai un notevole talento nell’elaborare i “profili”e le biografie degli sbadati. La prima è una borsa di pelle marrone, con-tiene carte di credito e tessere sanitarie, trucchi e rossetti costosi. La se-conda è uno zainetto multicolore di bambino, con Dragonball stam-pato sopra, e dentro caramelle, una crema dermo-emolliente, un dvde un gameboy. La terza è una borsa di tela nera da donna tipo zainetto,con un pupazzetto appeso. Ci sono un passaporto intestato a una don-na polacca, una spazzola per capelli, un’agendina, un deodorante, unatrousse da toilette, un coltellino svizzero, un porta-occhiali da vista, unbiglietto della metro con scritto dietro un numero di telefono, delle sal-viettine intime, un porta cipria. La quarta è un sacchetto di plastica del-l’Esselunga, pieno di giocattoli poveri. E davanti ai nostri occhi scor-rono storie, quella di una borghese distratta, di una donna immigratache cerca lavoro, di un bambino come tanti, del dono abbandonato damani stanche, giocattoli di cui qualcun altro si è liberato la casa…

Sono dunque così banali gli oggetti perduti, anche a Milano? Ma sia-mo sicuri che tutto questo sia banale? Al telefono, il gentile direttoregenerale dell’ufficio “servizi al cittadino” del Comune mi aveva confi-dato che dal suo osservatorio c’è materia per un discreto ritratto an-tropologico dei cittadini: lui assiste alla loro completa biografia, dallenascite ai decessi, passando per traslochi, matrimoni e altre tappe cer-tificate. L’idea è interessante, ma mi limito al catalogo delle rimozioni,delle dimenticanze.

Intanto mi accorgo che mi sono smarrito anch’io in questo raccon-to, soggetto e oggetto. Giuseppe Bertolucci, che oltre ad essere cinea-sta dirige una grande cineteca che restaura anche i film smarriti, e ha iltalento dell’archivista che esplora i meandri di quell’inconscio di tut-ti che è il cinema, approfitta per darmi altri spunti. So che condivide colfratello Bernardo una vera passione per la psicoanalisi, ma anche perla poesia. In Res amissa, mi dice, poesia pubblicata postuma di GiorgioCaproni, il cui titolo dice le cose che si possono perdere (latino amitte-re), e quindi inappropriabili, come la Grazia, si parla di cose preziosecustodite gelosamente, ma di cui si perde la memoria non solo del luo-go in cui sono state collocate, ma perfino della natura di tali oggetti. Co-se che ci siamo dimenticati di avere perduto, e che diventano res dere-licta, come gli oggetti smarriti. Vorrei prendere degli appunti, ma miaccorgo turbato che ho perso la penna, e ho anche poca memoria. Èdunque più tardi, a casa, che sfogliando l’edizione di Tutte le poesie diGiorgio Caproni (ri)trovo questi versi dal titolo L’ignaro, esattamenteuna pagina dopo Res amissa: «S’illuse, recuperato / l’oggetto accura-tamente perso, / d’aver fatto un acquisto. / Fu gioia d’un momento. /E rimase / turbato. / Quasi / come chi si sia a un tratto visto / spogliatod’una rendita. / (Lui, / ignaro che ogni ritrovamento / — sempre — èuna perdita.)». E, a questo punto, vorrei riscrivere questo articolo.

IL MAGAZZINO DELLA DIMENTICANZA

Il Bureau des objets trouvés al 36 di rue des Morillons, a Parigi, è il più grande

magazzino d’Europa con circa settemila oggetti smarriti. Ogni giorno

i quarantatré impiegati che lavorano nel Bureau ricevono e archiviano,

numerandoli uno ad uno, più o meno quattrocento oggetti a cui viene

allegata una dettagliata descrizione che dovrebbe far risalire ai proprietari

In funzione dal 1805, l’archivio è un modello dell’amministrazione

napoleonica. Nelle pagine, da sinistra: l’esposizione delle uniformi

e dell’oggettistica militare; articoli sanitari; alcuni reperti trovati tra le macerie

del Wtc dopo l’11 settembre e, infine, una collezione di abiti da sposa

Repubblica Nazionale

la letturaSuperuomini

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10GIUGNO 2007

“Mio caro, insostituibile amico...”. Così comincia la confessionedi Bruce Wayne, alter ego dell’uomo pipistrello, al suo fedelemaggiordomo. E continua parlando di passato che ritorna,incubi, sete di vendetta e di un’idea di giustizia ormai opacaAlmeno secondo Joe R. Lansdale, il grande scrittore noirche rende omaggio in un libro al suo antieroe preferito

Alfred, come sempre queste righe so-no per te, mio caro, insostituibile

amico.Annotando ciò che vedo ogni notte trovo una

certa pace, e mi consolo della mia incapacità, cer-te volte, di esprimere verbalmente le mie emo-zioni più vere e oscure. In questo modo, imiei appunti sono meno soggetti alle alte-razioni della memoria, e io posso fissa-re gli eventi per poterli studiare in se-guito, o per condividerli con te —semmai tu decidessi di leggerequesto diario — senza sentir-mi costretto a parlare diquanto accaduto.

Chi dice che Batmanè senza paura, sba-glia.

Io affrontoc r i m i n a l i ,pazzi, pi-stole ecoltel-l i ;

m ia f f a c -

cio quoti-dianamente su

un abisso di deprava-zione; ma quando entro

nella camera oscura del miopassato, mi mancano le forze. È una

stanza nella quale non riesco a fermar-mi a lungo, per timore di scoprire che non c’è

pavimento, ma solo un abisso senza fondo.Perdona il melodramma, Alfred, ma in fondo è

parte del mio mestiere.Ancora una volta mi trovo nel ventre di quella

che tu scherzosamente chiami la Batcaverna; in-serisco le specifiche degli avvenimenti di questanotte e le mie annotazioni. È stata una notte lungae difficile, benché non sia successo nulla o quasi.

Un gruppo di borseggiatori ha circondato unavecchietta in Crime Alley, ignari della mia presen-za e del fatto che non avrei permesso loro di farlealcun male.

Spero che il nostro incontro di stasera lasci lorosufficienti brutti ricordi da indurli a ripensare alleloro scelte professionali, ma ne dubito.

La strada è sempre spietata, Alfred. Il criminepermea ogni aspetto della vita. È il crimine che miha reso quello che sono, ma ormai è così diffusoche la gente quasi non ci fa più caso. Questo, so-prattutto, mi preoccupa: il crimine è ormai consi-derato qualcosa di normale. Se un tempo il disgu-sto e l’orrore erano la reazione tipica alla menzio-ne di certe efferatezze, oggi il rischio di rimanernevittime è così alto che la maggior parte della genteha assunto una posizione fatalista, come se il cri-mine dovesse e potesse prendere il sopravventosulle loro vite da un momento all’altro. Il che è as-solutamente possibile, tra l’altro.

Prendi questo esempio. La settimana scorsa. SulGotham Times, in seconda pagina — non era de-

JOE R. LANSDALE

IL LIBRO

È un omaggio a Batman scrittoda Joe R. Lansdale, unodei più importanti scrittori noirdel mondo. Si intitolaLa lunga strada della vendetta(Edizioni BD, 272 pagine, 12,50euro) e sarà in libreriada domani. Il romanzoè ambientato a Gotham Citye in una cittadinadei sobborghi doveuna misteriosa automobileuccide diverse personeIndagano uno sceriffodi origine pellerossae il Batman creatoda Lansdale, oscuro, inquietoe violento come lo hanno giàpensato autori come FrankMiller o Todd McFarlaneNon mancano, ma restanosullo sfondo, personaggicome il commissarioGordon e l’infaticabilemaggiordomo Alfred

L’ARTEDI MILLERI disegnidi queste paginesono trattida BatmanIl ritornodel cavaliereoscurodi FrankMiller, (PlanetaDe AgostiniComics)

DIARIO DIGITALE DI BRUCE WAYNE/BATMAN,

MATTINO, 29 LUGLIO

I diari segreti di Batman“Io, cavaliere nero

e l’abisso del buio”

Repubblica Nazionale

gnan e m -

meno dellaprima, bada — è

stata pubblicata la fo-to di alcuni allievi di scuo-

la elementare in fila davanti al-la porta dello scuolabus. Alcuni di

loro stanno calpestando un cadavere co-perto di sangue rappreso, senza dubbio la vit-

tima di un crimine o di un incidente mortale. Ibambini nella fotografia non sembrano più che in-fastiditi dal fatto di dover scavalcare un morto.Neanche fosse un mucchietto di immondizia.

Il corpo doveva essere lì da un po’, se c’era statoil tempo di chiamare un fotografo che era rimastoad aspettare il passaggio dei bambinidiretti a scuola. E tutto questo era suc-cesso prima che a qualcuno venisse inmente di chiamare una pattuglia di po-lizia, il che mi sembra ancora più effe-rato. Trovare un corpo per la strada, epensare di chiamare un giornale primadelle autorità.

Probabilmente vedere il proprio no-me stampato viene prima dell’indaginesu un crimine, nella mente di certa gen-te. Nessuno fa più caso alla morte.

Sto divagando. Mi succede spesso. Iborseggiatori erano insignificanti. Nonho nemmeno sudato. La cosa che mi hasconvolto, oltre alla generalizzata sen-sazione di sconfitta che ha iniziato apermeare la nostra città, è stato l’incon-tro con un giovane tossicodipendente.

Senti questa: dopo che l’ho fermato, l’agente dipolizia che lo stava inseguendo mi ha spiegato chel’aveva pizzicato all’imboccatura di un vicolo, conuna borsetta e una gamba umana, mentre conta-va soldi rubati e carte di credito.

L’agente ha ammanettato il ragazzo e ha chiama-to una pattuglia, così me ne sono andato, per non ag-gravare la posizione di Jim Gordon nei miei con-fronti. Ha già abbastanza problemi, senza che io mifaccia vedere nei pressi di ogni fatto strano che av-viene a Gotham. È fin troppo paziente nei confrontidelle mie ingerenze nelle indagini della polizia.

Ma sentimi, sto cercando di razionalizzare,quando in realtà torno in questo luogo pieno dirimpianti, convinto di svicolare da quello che con-sidero il mio dovere, e suffragando le mie azionicon la scusa di voler aiutare Jim. Non è vero. Non èquesto il motivo. Quel ragazzo ha fatto scattare inme qualcosa con cui non volevo avere a che fare ol-

treil mini-

mo neces-sario.

È stato quel mo-mento a rendere questa

notte faticosa oltre lo sforzo fi-sico, a darmi la sensazione che la

mia anima mi sia stata risucchiata, e orasi trovi in un abisso inaccessibile, oltre i limi-

ti della carne, del sangue, delle ossa.Quel ragazzo sta buttando via la propria vita, Al-

fred. Ce ne sono tanti, come lui. Sono come im-mondizia lasciata sulla strada. Io non posso farealtro che passare, raccoglierla, e portarla doveverrà stoccata e processata. Per lo meno tempora-neamente, finché il compattatore che chiamiamogiustizia non li riciclerà, rendendoli al cuore scurodi Gotham City, fino al giorno in cui non sarannoraccolti e gettati via definitivamente.

A volte temo che non ci sia speranza, che ciò chefaccio sia una colossale perdita di tempo; mi sembradi avere incastrato un mignolo nel buco gocciolan-te che mina la gigantesca diga della legge e dell’ordi-ne, mentre oltre la parete la massa liquida di deca-denza e corruzione preme inesorabile, troppo forteper la diga e per il mignolo; quando l’acqua inizieràa zampillare intorno al mio dito, la diga inizierà a ce-dere, esploderà in un miliardo di frammenti che nonpotranno mai più essere riparati per contenere le di-laganti, vorticose acque della paura.

Magari dopo una buona giornata di sonno lapenserò diversamente. Forse sentirò, come ogni

tanto mi accade, di essererealmente in grado di cam-biare le cose. Lo penso, a vol-te, quando la notte sta finen-do ed è caduta una pioggialeggera, e mi accuccio in ci-ma a uno degli alti edifici diGotham in contemplazionedell’alba; Arterie rossastre diluce solare iniziano a solcareil cielo antracite e si espan-dono lentamente, come ildiffondersi di una contami-nazione nel sangue. Certo, loso che è proprio da me para-gonare la maestosità del sor-gere del sole all’avvelena-mento del sangue — eppurein quel momento perfetto iomi ammanto nella mia om-

bra che si disgrega e sento il vento fresco del primomattino sollevarmi il mantello, e ne assaporo ilcontatto sulle parti esposte del mio viso; in quelmomento la puzza di immondizia che normal-mente sale dalle strade non raggiunge le mie nari-ci, perché la pioggia l’ha temporaneamente in-chiodata al suolo. Nessun grido d’aiuto o di paurami fa scattare in azione. È un istante di rinascita, dirinnovamento, nel quale riesco a credere di averealmeno due dita infilate nella falla della diga dellalegge e dell’ordine, e che forse alcune delle crepesono state riparate con maggiore efficacia di quan-to avessi pensato inizialmente; che la parete puòreggere, e che presto un sole incandescente sor-gerà per far evaporare il mare del crimine.

Momenti come questo vengono sbriciolati daincontri come quello con quel ragazzo. Mi sembradi rivederlo, correre all’impazzata nel vicolo verso

l em i e

braccia; perun istante, nel-

l’impatto dei nostricorpi, mi ha ricordato —

come mi succede milioni divolte ogni giorno, per i motivi più

diversi — un altro ragazzo, che sono io,che dentro di me sarò sempre, non importa

quanto io possa invecchiare.Anche quel ragazzo è in un vicolo, e torna verso

casa con i suoi genitori dopo aver visto un film, fe-lice, protetto dalla cognizione del male di cui gliuomini sono capaci, quando all’improvviso neviene a conoscenza, perché un uomo esce dal-l’ombra con una pistola in mano.

L’uomo chiede denaro, e i genitori del ragazzoreagiscono troppo lentamente. La mano sudatadell’uomo con la pistola ha un sussulto; parte unproiettile, che falcia il padre.

Il successivo raggiunge la madre, poi il ladro silascia prendere dal panico e scappa, lasciando ilragazzo sotto il cono di luce di un lampione, con gliinsetti che ballano impazziti nella luce mentre ilsuo mondo si sbriciola come la diga che ho imma-ginato questa sera.

In momenti come questi, ho la sensazione cheniente di ciò che mi è successo dopo quella sera nelvicolo insieme all’uomo con la pistola sia vera-mente successo; ho la sensazione di essere unbambino che è tornato a casa dopo aver visto Il se-

gno di Zorro, e che tutto il resto della mia vita siastato un sogno.

Nel sogno mi sono successe delle cose brutte.Mia madre e mio padre sono morti, e io sono di-ventato ciò che sono ispirato dalle gesta di Zorro.È un sogno spaventoso ed eccitante, ma mi conso-la il pensiero che presto mi sveglierò, probabil-mente gridando, e che mia madre correrà da meper consolarmi, e che poco dopo arriverà anchemio padre, e mi dirà: «Non aver paura, figliolo. Erasolo un incubo. Va tutto bene».

E tutto andrà bene.Solo che non mi sveglio in un corpo di bambino.

Mi sveglio così come sono, in un letto che sembragalleggiare nel silenzio di questo maniero, dovel’eco dei passi suona vuoto come certi anfratti del-la mia anima.

Altre volte penso di essere stato raggiunto anch’ioda un proiettile, quella sera. Mi immagi-no inerte in un letto d’ospedale, collega-to a tubi e apparecchiature, con la ma-schera d’ossigeno appoggiata sul mio vi-so che invecchia, mentre io sogno que-sta mia vita, un prosieguo diverso in cuiun uomo può indossare un costume dapipistrello, divenire una cosa sola con leombre, e incutere terrore nei cuori e nel-le menti dei criminali.

Sogno, dunque, scivolando lenta-mente nell’oscurità opaca del coma,aspettando con pazienza che il buio sifaccia assoluto e pacifico, e non ci sianopiù sogni, non più senso di vuoto.

Basta così. È inutile rivangare i ricordi,a meno che io non voglia che la mia vitadiventi inutile come quella della creaturainutile della quale mi stavo lamentando.

Lasciami solo dire questo, Alfred: c’èqualcosa di strano, di diverso, nel vento. Se c’èqualcuno che è in grado di accorgersene, quellosono io. In fondo, la mia vita indossa la stranezza eil mistero come un cappotto… anzi, come unmantello.

Il vento canta parole di sventura. Ha a che farecon questa notte. Con quel ragazzo. Con i morti nelvicolo. Sta succedendo qualcosa che i miei occhiancora non riescono a vedere, ma la percepisco di-stintamente.

Per il momento, comunque, tutto ciò che voglioche i miei occhi vedano sono le mie palpebre,quando le chiuderò per dormire.

Traduzione di Michele Foschini

(© 2007 DC Comics. All rights reserved. Batman

and all related characters and elements

are tademarks of DC Comics

© 2007 per l’edizione italiana Edizioni BD)

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 10GIUGNO 2007

Ancora una voltami trovo nel ventre

di quella che tu chiamischerzosamentela Batcaverna

È stata una notte lungae difficile

Lasciami solo direquesto, Alfred:

c’è qualcosa di strano,di diverso, nel vento

Se c’è qualcuno in gradodi accorgersene,

quello sono io

Repubblica Nazionale

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10GIUGNO 2007

NATALIA ASPESI

Venticinque anni fa si spegneva la diva di “Casablanca”e “Notorious”. Ammirata come star, divenneleggenda per la passione che la legò a Roberto

Rossellini. Una nuova biografia racconta adesso comefinì per liberarsidal predominio maschile di registi, produttori e soprattutto mariti

La bellissimache all’amorepreferì il set

L’ALBUML’infanzia di IngridBergman:piccolissimacon i genitori;bambinacol papà; primitravestimentidella futuraattrice

Per chi suona la campana è da qualche decennio un film in-guardabile: sfondi di cartone, colori innaturali, attori anne-riti per apparire spagnoli secondo l’idea un po’ razzista del-la vecchia Hollywood, Katina Paxinou (che si prese l’Oscar)smodata e zingaresca, un Gary Cooper particolarmente in-sipido, una sceneggiatura che aveva stravolto il romanzo di

Hemingway eliminando la presa di posizione politica antifranchistadell’autore. Allora, era il 1943 (noi lo vedemmo dopo la fine della guer-ra, stremati dalla sconfitta e dalla miseria, avidi di tutto ciò che venivadal paradiso americano), il film ebbe critiche discordanti, ma le plateesinghiozzarono beate: non tanto per la goffa rievocazione della guerracivile spagnola, quanto per la dolente storia d’amore con immancabi-le tragico finale tra la fanciulla spagnola stuprata dai falangisti e il vo-lontario americano Cooper, chiusi appassionatamente nello stessosacco a pelo, e lì l’immaginazione casta delle signorine di allora freme-va turbata. Lei, Maria, era Ingrid Bergman al suo primo film a colori, giàamatissima diva, ancora più bella con i capelli corti, pettinatura inu-suale per le belle dello schermo, e che subito divenne di gran moda.

Così ligia al suo lavoro e desiderosa di interpretare solo capolavori,Ingrid non aveva grande fiuto per i suoi personaggi. Al ruolo di Mariaaveva tenuto moltissimo e aveva fatto di tutto per ottenerlo, mentre po-co prima, di malavoglia, si era lasciata “vendere” dal suo produttore Da-vid Selznick alla Warner Brothers per Casablancache invece, per qual-che inspiegabile magia, divenne il più mitico dei film di Ingrid e diHumphrey Bogart; e ancora oggi, sessantacinque anni dopo, con la suastoria improbabile eppure memorabile, continua ad essere considera-to un capolavoro che ogni volta rinnova la commozione e l’emozione.

La nuova biografia dell’attrice, scritta da Charlotte Chandler, com-muove soprattutto quando racconta gli ultimi vent’anni di una gran-dissima star che finalmente si era liberata dal predominio maschile diregisti, produttori e soprattutto mariti, possessivi e intrusivi. Quel pe-riodo di serena autonomia e di lavoro appassionato (interpreta nel 1982Golda Meir in un film televisivo vincendo il Golden Globe e l’EmmyAward) si chiude la sera del 29 agosto di quello stesso anno, suo sessan-tasettesimo compleanno, quando nella sua casa di Londra Ingrid si spe-gne quietamente, sopraffatta dal cancro. Non il suo terzo e ultimo exmarito, non uno dei suoi quattro figli (Isabella stava per partorire, lon-tana), non uno degli uomini che l’avevano amata, che l’avevanobaciata nei film, con cui aveva diviso la celebrità e l’infinitagioia di lavorare insieme, era con lei.

Ingrid Bergman era arrivata dalla Svezia a Hol-lywood per la prima volta nel 1939, alla vigilia del-la guerra: aveva ventiquattro anni, era un’attri-ce stimata nel suo Paese, era sposata a un fa-scinoso dentista e poi neurochirurgo difama, Petter Lindstrom, e aveva una fi-gliolina, Pia, di un anno appena.L’avevano chiamata per rifare unfilm di grande successo giratonel suo Paese, Intermezzo: aLeslie Howard fu affidato ilruolo del grande violinistache lascia moglie e figli perla bella pianista, che peròsi sacrifica e lo rimanda acasa, tipica trama d’e-poca che doveva sem-pre finire con la sconfit-ta dell’amore e il trionfodella famiglia. «Era inassoluto l’essere piùbello che avessi mai co-nosciuto», ha racconta-to lo scrittore omoses-suale ChristopherIsherwood a CharlotteChandler: «Sai che non èquesta la mia inclinazione,ma per Ingrid avrei potuto fa-re un’eccezione. Era irresistibi-le. Era molto di più di ciò che si vedeva esteriormente. Era raggiante,dentro e fuori».

Nel mondo del cinema americano una così non si era mai vista: era-no gli studi a creare artificialmente le dive, a sovrapporre alla loro bel-lezza il generico glamour americano, a inventare per i fan una loro vitaprivata standard, edulcorata da ogni errore o scandalo. La serena si-gnora svedese dalla vita irreprensibile e dal talento sicuro irradiava na-turalezza, si opponeva ad ogni trucco, vinse la prima battaglia con Selz-nick rifiutando di sfoltire le vistose sopracciglia che i celebri truccatoridel cinema usavano cancellare. Secondo Danny Selznick, figlio del pro-duttore che aveva imprigionato Ingrid in un contratto di sette anni co-me usava allora, «lei era bellissima! Nessuna delle donne che ho cono-sciuto, di qualunque età e generazione, era di una bellezza mozzafiatocome lei. Aveva pelle, labbra, guance, orecchie, naso, occhi e corpo dadea». Era certo la fotografia in bianco e nero, oggi vituperata, ad esalta-re ancora di più la luce degli occhi, la carnosità delle labbra, la dolcezzadella carnagione, la linea purissima del collo, quei sorrisi che si illumi-navano di lacrime che poi tante attrici hanno tentato invano di imitare.

Nei dieci anni ad Hollywood Ingrid fu la protagonista di quindici film,una attrice rigorosa, un essere umano che rifiutava di comportarsi da di-va. I suoi ruoli erano quelli di eroina inconsapevole, spesso vittima di uo-mini crudeli. Eccone alcuni: moglie di squilibrato che si suicida per farcredere di essere stato ucciso da un amico di cui è geloso (Follia, 1941);prostituta nella Londra vittoriana si innamora di un buon dottore e vie-ne uccisa dal suo doppio cattivo (Il dottor Jekyll eMr Hyde, 1941); anco-ra Londra vittoriana, torturata psicologicamente dal marito che vuole

farle credere di essere pazza, la giovane si vendica (Angoscia, 1944,primo Oscar per lei); infiltrata in un’organizzazione segreta dicriminali nazisti ne sposa il capo e rischia di essere da lui avve-lenata (Notorious, 1946, il più lungo cinebacio che si ricordi, traIngrid e Cary Grant); Parigi alla vigilia della guerra, signora didubbia moralità intreccia relazione con medico illegale che lauccide (Arco di trionfo, 1948); Australia 1836, moglie alcolizzata diex ergastolano arricchito si addossa la colpa di un tentato omici-dio (Il peccato di Lady Considine, 1949).

Dieci anni di cinema patinato e irreale, dieci anni di fama mon-diale, dieci anni da moglie e madre irreprensibile e devota co-minciarono a renderla inquieta, scontenta. Attori, come AnthonyQuinn, e registi, come Alfred Hitchcock, si innamoravano di lei mainutilmente. Il primo cedimento avvenne a Parigi, dove, unmese dopo la fine della guerra, arrivò per iniziare una se-rie di spettacoli in Germania. Lei aveva trent’an-ni, lui, il celebre fotografo di guerra Ro-bert Capa, un paio di più. Scri-ve Ingrid nell’autobio-grafia: dopo la

tournée europea, «quando tornammo a Parigi, ritrovai Capa. Forse fuallora che cominciai ad innamorarmi di lui». Ma l’incontro fatale non fuquello. Nella primavera del 1948 furono gli ottantanove minuti di un filmsulla Roma occupata dai nazifascisti, girato da uno sconosciuto registaitaliano, a rivoluzionare tutta la sua vita, professionale, sentimentale,familiare, a farle scegliere l’azzardo di una passione che in film come In-termezzoil suo personaggio aveva sempre rifiutato. La storia fa parte del-la più sconvolgente e imprevedibile delle leggende cinematografiche.La lettera fatale a Roberto Rossellini diceva: «Ho visto i suoi film, Romacittà apertae Paisàe li ho apprezzati moltissimo. Se ha bisogno di un’at-trice svedese che parla inglese molto bene, che non ha dimenticato il te-desco, non si fa quasi capire in francese e in italiano sa dire solo “ti amo”,sono pronta a venire in Italia per lavorare con lei. Ingrid Bergman». L’av-veduta star nordica dal glamour raffinato e il geniale e squattrinato re-gista neorealista italiano caddero nella trappola di una passione così in-cauta da estinguersi, per loro fortuna, dopo solo cinque anni, come unareciproca liberazione.

Lo scandalo era stato apocalittico, il moralismo di allora aveva mes-so al bando, in America, la proba diva un tempo tanto amata e adessoaccusata di «turpitudine morale». Ingrid temeva che non avrebbe maipiù recitato: «Era una cosa terribile perché recitare era la mia vita, e pa-gai un prezzo tremendo in termini di felicità quando Petter mi proibì divedere Pia se non fossi andata in California, cosa che Roberto non miavrebbe permesso». L’idea di fare del loro amore un connubio ancheprofessionale si rivelò disastrosa: insieme girarono cinque film e mez-zo, da Stromboli, 1950, a La paura, 1954, che imbarazzarono gli ammi-

ratori del regista e orrificarono i fan del-l’attrice. Nacquero Roberto e poi le gemelle Isa-bella e Isotta, e intanto, ottenuto il divorzio dai ri-spettivi coniugi (e placata la disperazione di AnnaMagnani, che era stata la compagna di Rossellini) i dueincompatibili amanti riuscirono a sposarsi per procurain Messico, essendo il divorzio non riconosciuto in Italia.Non c’erano soldi e sarà Isabella a raccontare come ognitanto i mobili venissero venduti per pagare i debiti di papà.Confessava Ingrid: «Ero pronta ad essere povera, a cucinare e afare le pulizie di casa, ma detestavo i debiti».

A quarant’anni era arrivato il momento di diventare se stessa, diliberarsi dalla tirannia dell’amore. Disubbidì al gelosissimo Robertoaccettando di tornare al cinema con altri registi, prima con Jean Renoirper Eliana e gli uomini e nello stesso anno, il 1956, con Anatole Litwakper Anastasiacon cui vinse il secondo Oscar. L’America la stava perdo-nando, Rossellini no. Dal suo viaggio in India tornò con una giovanedonna, Sonali Das Gupta, già incinta, e quando Ingrid gli offrì di divor-ziare, accettò subito. Anche con Sonali sarebbe finita, c’era una nuovacompagna, la giovane Silvia D’Amico, ma ormai Ingrid era lontana e sta-va vivendo un’altra separazione. Il suo matrimonio con il produttoreteatrale svedese Lars Schmidt era durato dodici anni. «Quando Lars midisse della sua amante in attesa di un figlio, gli chiesi se voleva divorzia-re. Rispose di sì, come Roberto». Ingrid era stata, era una donna bellis-sima, una grande star, ma alla fine gli uomini che l’avevano amata nonpotevano perdonarle che, più di loro, lei amasse il suo lavoro.

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 10GIUGNO 2007

«Ho sfogliato l’album di famiglia con Isabella Rossellini, abbia-mo scelto le immagini insieme. Sono partita dalle foto, horaccolto centinaia di testimonianze, ho ricostruito la storia

di sua madre attraverso le impressioni, le emozioni delle persone chel'hanno vista vivere e lavorare». Il genere si chiama “biopic”, biografiadocumentata: scatti, lettere, interviste. In vista del venticinquesimo an-niversario della morte, avvenuta a Londra il 29 agosto 1982, e dopo ilgrande successo internazionale del lancio editoriale con Simon&Schu-ster, martedì prossimo va in libreria Ingrid Bergman(Frassinelli, 320 pa-gine, 19 euro) di Charlotte Chandler, una vita passata a raccontare le vi-te degli altri: Groucho Marx, Billy Wilder, Alfred Hitchcock, Federico Fel-lini, Bette Davis. Anna Pastore, editor Frassinelli racconta la reazione diIsabella Rossellini: «Dopo averlo letto ci ha detto: “Sono commossa, horivisto mia madre così com’era”».

Charlotte Chandler ha risposto alle nostre domande dal suo apparta-mento di Central Park South, a Manhattan.

Isabella Rossellini scrive nel suo libro: «Mia madre do-veva sempre dire la verità, era una sorta di necessità, qua-si un’ossessione. Per noi non era una bugia grave se,quando ci telefonava qualcuno con cui non volevamoparlare, chiedevamo a mamma di dire che non eravamoin casa. Lei non voleva farlo e alla fine arrossendo dicevache c'eravamo». Che ruolo ha avuto Isabella nella stesu-ra del suo libro?

«Dopo aver letto la mia biografia di Fellini, è stata Isa-bella a chiedermi di scrivere la storia di sua madre».

Che metodo ha usato per raccogliere tutto questomateriale?

«Ho conosciuto Ingrid Bergman, l'ho sempre conside-rata un’attrice unica, l’ho incontrata insieme a RobertoRossellini, li ho intervistati, ho intervistato le persone cheli circondavano. Ho cucito insieme i tasselli partendo dalloro punto di vista e illuminando il profilo personale di In-grid, la sua intimità».

Quale lezione può dare Ingrid Bergman alle attrici dioggi?

«La grandezza della Bergman non è limitata al suo talento, alla sua bel-lezza, ma è connessa al suo straordinario spessore umano, alla sua ge-nerosità. Era una persona speciale».

Quale film preferisce tra quelli interpretati dalla Bergman?«Casablanca. Un classico, l’ha resa immortale. Lei aveva un legame

fortissimo con questo film così come con Notorious. Ma Casablanca hauna storia particolare, all'inizio nessuno voleva farlo, né lei, ne Humph-rey Bogart...».

Ha un’altra biografia in mente?«Joanne Crawford. Voglio sfatare il mito negativo che la circonda da

sempre. Il mio sarà un libro positivo».

Un libro per raccontareuna “persona speciale”

AMBRA SOMASCHINI

LA COPERTINAIngrid Bergmansulla copertinadella biografiadella Chandler(Frassinelli)

CON ROSSELLINIL’immagine grande a coloriè tratta dal poster del filmStromboli terra di Diodi Roberto Rossellini, del 1950

ANGOSCIA, 1944Il primo Oscar

PER CHI SUONA LA CAMPANA, 1943A colori, con Gary Cooper

EUROPA ’51, 1952Uno dei cinque film con Rossellini

SARATOGA , 1945Intreccio sentimentale con Gary Cooper

NOTORIOUS, 1946Con Cary Grant, regia di Hitchcock

FIORE DI CACTUS, 1969Il bacio con Walter Matthau

IL DOTTOR JEKYLL E MR. HYDE,1941Spencer Tracy nel doppio ruolo

IO TI SALVERÒ, 1945Primo film con Hitchcock

GIOVANNA D’ARCO, 1948José Ferrer nei panni di Carlo VIII

LA DEAQui sopra, una foto in posadella Bergman mette in risaltola sua bellezza, che secondo DannySelznick, figlio del produttore David,era pari a quella di una “dea”

CASABLANCA, 1942“Buona fortuna, bambina”

Repubblica Nazionale

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10GIUGNO 2007

i saporiStoria del cibo

LICIA GRANELLO

Metti una sera a cena. Con amici, paren-ti, colleghi. Cucina rigorosamente ca-salinga. Che esiste e resiste, malgradoil tempo tiranno, la sapienza alimenta-re in declino, il trionfo di precotti e fa-st-food, allergie e sovrappesi, cucina

etnica e pranzi in piedi. Per tutti quelli che ancora la pra-ticano, sabato 23 giugno sarà festa grande, perché a For-limpopoli, città natale di Pellegrino Artusi, verrà inau-gurato il primo centro italiano dedicato alla cultura ga-stronomica domestica.

Immaginate il paradiso dei patiti (rigorosamente di-lettanti) dei fornelli: laboratori e cucine, biblioteca e sa-le da pranzo, luogo eletto di sperimentazione e fratel-lanza golosa. A completare struttura e attività, un corpo-so calendario in divenire, tra lezioni, convegni, dibattitie un maestoso archivio di documentazione dedicato al-l’enogastronomia, ricco di materiale a partire dall’Otto-cento fino ai giorni nostri (con raccolta di pubblicazioni,siti internet, dvd e materiale audiovisivo vario).

In più, verrà varato un nuovo portale tematico, Lechiavi di Casa Artusi, vera e propria banca dati on line ditutte le ricette domestiche italiane, aperto ai contributidei visitatori web. Ciliegina sulla torta, il ristorante di Ar-tusi, dove le ricette raccolte e raccontate dal Maestro Pel-legrino verranno riproposte e discusse, come si convie-ne a un vero tempio di cultura del cibo. Il tutto si compiràall’interno dell’undicesima edizione della Festa Artusia-na, in programma dal 16 al 24 giugno.

Certo, la cucina non è più quella di un tempo. Pelle-

grino Artusi pubblica la stesura della sua bibbia gastro-nomica — per altro orfana di intere regioni del Sud, evi-dentemente poco praticate da Nostro — quando la granparte dei suoi coetanei è abbondantemente sul viale deltramonto. È un uomo anziano (per quei tempi), agiato,appassionato di letteratura e gastronomo curioso, beni-gnamente segnato dall’aver vissuto prima in Romagna epoi in Toscana, patrie della cucina contadina.

A scorrere l’elenco delle 790 preparazioni scelte, codi-ficate, raccontate con arguzia e un pizzico di pedanteria,i sorrisi si alternano all’acquolina in bocca. Perché l’ac-qua non si dice più diaccia ma fredda, la mezza cotturadella pasta non viene più battezzata imbiancatura e illesso rifatto all’inglese Toad in the hole, rospo nella tana.

Ma il cuore delle ricette, quello resiste inossidabile amode ed evoluzioni, simbolo di una quotidianità dellatavola ormai quasi impossibile da intercettare nei pastifuori casa, complice la scomparsa dei locali che di quel-la cucina facevano la loro bandiera. Un po’ sono cam-biati i gusti, un po’ è crollato il rapporto di fiducia con ilristoratore: alzi la mano chi va al ristorante per mangia-re polpette, frittata, pasticcio di pasta… Invece, nell’in-timità delle cene casalinghe ancora si può spasimare perun piatto di lasagne ben fatte, un vassoio di bolliti, i po-modori ripieni, le frittelle di mele: cucina di memoria,ma anche trionfo della regionalità, vissuta non comeghetto e campanile ma come biodiversità applicata aifornelli.

Circondati dalle mille ricette della nuova cucina, alle-stire una cena retrò riuscirà perfino un esercizio colto.Basta aprire una pagina a caso di una delle cento o qua-si edizioni del libro per scoprire che la contaminazioneattualissima tra pesci e carni si traduceva più di cent’an-ni fa nella zuppa di gamberi con sugo di carne, che lo zaf-ferano nel risotto ha un effetto appetizzante e digestivo,che già allora la gastronomia pativa un inferiority com-plex nei confronti del vino. Infatti, «Bacco è figlio di Gio-ve, mentre Como, dio delle mense, ha genitori ignoti»,mentre «i popoli stessi hanno una indole loro, forte o vi-le, grande o miserabile, in gran parte dagli alimenti cheusano. Bisogna riabilitare la cucina». Ma attenzione, do-po il dolce, bagnato da Asti spumante o Vinsanto, nien-te liquori, «a eccezione del cognac. Senza abusarne,però».

“I migliori sono quelli lunghi all’uso napoletano,

di pasta sopraffine, a pareti grosse e foro stretto,

perché reggono alla cottura e succhiano

più condimento”. Ragù sontuoso

(carne, prosciutto, animelle, funghi, tartufi),

besciamella e copertura di pasta frolla

Cucina di casacolor nostalgia

“Le chiavi di Casa Artusi” è una banca dati on line di tutte le preparazionicaserecce d’Italia. Sarà la novità di punta del primo centro dedicatoalla “casalinghitudine” culinaria, che verrà inaugurato il 23 giugnoa Forlimpopoli, città natale del grande letterato-gastronomoche censì e raccontò i piatti inventati dalle nostre bisnonne

Pellegrino ArtusiPellegrino Artusi è uno degli autori italiani più amati nel mondo:

La scienza in cucina è tra i libri più letti insieme a I promessi sposi

ePinocchio. Nato a Forlimpopoli nel 1820 da famiglia agiata, si trasferì

a Firenze trentenne, dopo che la casa di famiglia era stata assaltata

dalla banda del Passatore. Commerciante, banchiere, letterato, si ritirò

dal lavoro sessantenne, per scrivere il manuale che l’avrebbe reso celebre

Morì nel 1911, a novantuno anni, unico erede l’amatissimo paese natale

La notizia arrivò a Forlimpopoli il primo aprile, lasciando incredulo

il sindaco, che dovette ricredersi quando arrivò l’eredità

Ricette retrò

“La farina, intrisa con uova, latte, sale e cacio

gruiera, si cuoce fino a rassodamento”. Una volta

freddo, il composto si taglia a tocchetti,

da comporre a strati col burro. Mai chiudere

col formaggio in superficie, “perché col fuoco

sopra prende l’amaro”

Gnocchi alla romana Pasticcio di maccheroni

Rosbiffe con patate

“Piatto di gran compenso in un pranzo

ove predomini il genere maschile… che vuole

ficcare il dente in qualcosa di sodo e sostanzioso”

Il pezzo indicato è la lombata della bistecca

alla fiorentina. Le patate, rosolate a parte,

si aggiungono con poca acqua

Artusi consiglia di separare la vescichetta

del fiele “dentro una catinella d’acqua”.

I fegatini vanno cotti in un battuto di cipollina,

grasso di prosciutto, prezzemolo, sedano,

carota, poi tritati insieme a funghi secchi

e ammorbiditi con poco brodo

Crostini di fegatini di pollo

Repubblica Nazionale

Zuppa inglese

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 10GIUGNO 2007

Ogni famigliaha il suo segreto

MASSIMO MONTANARI

“Da farsi quando i carciofi costano poco…

Bolliti qualche minuto e asciugati, vanno passati

al setaccio e miscelati con uova (non facendo

avarizia d’uno di più), parmigiano, noce

moscata e qualche cucchiaio di balsamella”

Cottura a bagnomaria

itinerariPiccolo borgoimmersonella campagnalangarola, cuoredell’allevamentobovino di qualità(Carrù, Farigliano,Fossano, Trinità)Una pratica antica,

che in cucina si traduce in arrosti, bolliti, stracottiE nel prelibato, immancabile vitello tonnato

DOVE DORMIRECASA BALADINPiazza Cinque luglio 34 Tel. 0173-795239Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREIL VIGNETOLocalità Ravinali 19, Roddi Tel. 0173-615630Chiuso martedì e merc. a pranzo, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREMACELLERIA TARICCOP.za Vittorio Emanuele 31, Tel. 017376343Farigliano

Cittadina del vinoe del buon cibo,ha nel nomeil suo destinoenologicoe l’abbinamento più classico:Frascati doce gnocchi

di semonella (semolino), o alla romana (con la farina,nella ricetta artusiana)

DOVE DORMIREB&B DA GIACOMOVia di Colonna 5 Tel. 06-9417082Camera doppia da 60 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREZARAZÀVia Regina Margherita 45 Tel. 06-9422053Chiuso lunedì, menù da 25 euro

DOVE COMPRARELA BOTTEGA DELLA PASTA Via Tommaseo 14 Tel. 06-93548419

Costruita nel 132a. C. sulla via Emilia,a metà strada traForlì e Cesena,deve il suo nome al console PublioPopilio Lenate(Forum Popilii)La tradizione

artusiana viene perpetrata nelle osterie che durantela festa offrono menù dedicati

DOVE DORMIREHOTEL GIANNINA (con cucina)Via Emilia 1180 Tel. 0543-741215Camera doppia da 63 euro

DOVE MANGIAREDA ANNAViale Matteotti 13 Tel. 0543-741330Chiuso lunedì e mercoledì sera, menù da 35 euro

DOVE COMPRARECASA ROMAGNACorte Dandini 3 Tel. 0547-613594

Viviana Vareseè figlia e nipoted’arte: nonnofondatore del barpiù famosodi Salerno,genitori cuochi

e pizzaioliNel menù di “Alice”, il suo ristorante milanese,oltre al buon pesceregnano incontrastatii dolci, primo fra tutti un meraviglioso babà

Piozzo (Cuneo) Frascati (Rm)

In una forma scannellata e imburrata, foderata

con savoiardi inzuppati con alkermes e rosolio

bianco alternati, si sovrappongono strati

di conserva di frutta, crema pasticcera

e savoiardi. Per sformarla, immergete

un istante lo stampo in acqua calda

104 le edizioni de “La scienzain cucina e l’arte di mangiar bene”

790 le ricette catalogatenel libro 1891 l’anno della prima

pubblicazione del volume

Un chilo di culaccio di vitella, da steccare

con le acciughe e far bollire coperto d’acqua

bollente salata con cipolla, sedano, carota,

prezzemolo e alloro. Freddo, si taglia sottile

e si lascia in infusione con una salsa di tonno,

acciughe, capperi e limone

“Questo è un dolce che vuol vedere la persona

in viso, cioè per riuscire bene richiede pazienza

e attenzione”. La pasta cresciuta, impreziosita

da uvetta, canditi, rum e marsala,

va cotta in una forma di rame

Quello ben cotto ha il colore della corteccia

Vitello tonnato

Si fa presto a dire “cucina di casa”. Si fa pre-sto ad auspicare che sia conservata, valo-rizzata, tramandata.

Ma dove cercarla? In casa, si dirà. Ma la casaoggi è diventato il luogo per eccellenza della cu-cina industriale, della tendenza all’omologa-zione culturale e all’oblio delle differenze locali,sollecitata dai messaggi pubblicitari e da un’or-ganizzazione del lavoro che lascia sempre me-no spazio alle pratiche tradizionali della cucinadomestica. Sicché, paradossalmente, in tanticasi è stata la ristorazione pubblica ad assume-re un ruolo di supplenza nel riproporre la “cuci-na di casa”, un patrimonio a tutti caro, da moltidimenticato. Questo patrimonio è necessariorecuperarlo guardandoci intorno senza pregiu-dizi, osservando ad ampio raggio, raccogliendotestimonianze ovunque ve ne siano tracce, den-tro le case ovviamente, ma anche fuori.

Poi, il problema sarà individuare un metodocorretto per descriverla, questa “cucina di casa”.Non certo codificarla, come qualcuno ogni tan-to pretende di fare, poiché il dato forse più ca-ratteristico di ogni tradizione orale è quello del-la variante, dello scostamento individuale dallanorma: ciò ovviamente non esclude (anzi im-plica) che una norma esista, ma senza il caratte-re “autoriale” che invece contraddistingue lacucina professionale, precisamente riconosci-bile in regole codificate o codificabili. La cucinadomestica al contrario si muove in un pulvisco-lo di possibili alternative che orientano di gior-no in giorno il lavoro sul cibo: le ricette cambia-no da un paese all’altro, da una famiglia all’altra,e le varianti, lungi dall’essere condivise, assu-mono un valore profondamente identitario, ta-lora espresso nella suggestiva dimensione del“segreto”.

Non si può dunque presumere di codificare lacucina di casa: semplicemente la si può descri-vere, in modo semplice e anzi semplificato: indi-viduare le tecniche e le procedure di base, il mi-nimo comune denominatore che tiene insiemele singole preparazioni (la tipologiadelle singo-le preparazioni) con le loro principali varianti, dicui è indispensabile rendere conto, pur limitan-dosi anche qui alle alternative fondamentali,vuoi nell’uso degli ingredienti, vuoi nei modi dipreparazione. In questo modo si potranno indi-viduare i princìpi essenziali su cui si è fondatanel tempo l’identità della cucina di casa: econo-micità, praticità, funzionalità, rapporto col ter-ritorio (e col mercato)... Princìpi che, desuntidall’analisi di situazioni specifiche, possono di-ventare un modello interpretativo senza confi-ni prestabiliti: “cucina di casa” non è la nostracucina, ma la cucina di tutte le case, ovunque visiano comunità famigliari raccolte attorno auna tavola.

Casa Artusi non potrà ignorare la sua specifi-ca dimensione territoriale (la Romagna e, subi-to oltre l’Appennino, la Toscana che di Artusi fuseconda patria) ma potrà farsi testimone della“cucina di casa” in quanto tale, di un modellometodologicamente esportabile ovunque. Lacucina di casa abita il mondo.

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46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10GIUGNO 2007

La moda femminile piacevolmente travolta da un turbine sporti-vo. Il fenomeno è in grande ascesa: nelle vetrine dei negozi, masoprattutto nelle strade, si assiste a un vero e proprio boom del-l’abbigliamento versione “sport-chic”. Le ragazze si propongo-no con minigonne inguinali da tennista, le signore indossano fel-pe da atleta realizzate con preziosi filati di seta e le manager viag-

giano per affari con le loro inseparabili giacchine in tela cerata da America’sCup, belle da indossare anche ai party notturni.

L’estate 2007 si annuncia all’insegna del dettaglio sportivo. Questo nonvuol dire che le donne si siano convertire in massa al rito della palestra.Tutt’altro, la percentuale italiana di chi pratica uno sport resta ancora al disotto dei livelli europei, ma in attesa che si accenda la passione la moda “ru-ba” particolari preziosi all’abbigliamento sportivo e ne fa un business. Nes-suno sport si salva dal “saccheggio” fatto scientificamente dagli stilisti. Nelmirino dei designer sono finiti così la vela, il tennis, il rugby, il calcio, il nuoto,lo sci, l’equitazione, il ciclismo, il baseball, il golf e il free climbing.

Ma il fascino della moda per lo sport (e viceversa) parte da lontano. Marchicome Lacoste, Sergio Tacchini, Paul &Shark, nati con un dna al cento per centosportivo, adesso vanno alla conquista diun mercato più ampio e vestono anchedonne che con la racchetta da tennis o leregate di vela hanno poco da spartire. Delresto, quello che conta è l’allure sportivapiù che la pratica sui campi. Tra le gran-di griffe della moda, Miuccia Prada è sta-ta una delle prime a proporre il connubiotra i dettagli sportivi e l’abbigliamentocasual usando il nylon per i suoi celebrizainetti, le giacche e i trench, diventatidei must e copiatissimi da tutti.

I veri innovatori su questo fronte sonoperò i giovani. O meglio, le gang metropolitane pronte a sovvertire le regoledel look. Maxi canottiere a rete, berretti da baseball, cinturoni da boxeur egiubbini vintage da biker, sono solo alcuni dei pezzi più amati dalle bande distrada e subito adottati dagli stilisti. «Il rimando all’universo dello sport —spiega Gianfranco Ferrè — non è solo fonte di ispirazione, ma è soprattuttouna riserva preziosissima in fatto di lavorazioni e di strutturazione dei capi.Costituisce una costante del mio credo creativo, un orizzonte di esplora-zione e di sperimentazione che mi ha sempre coinvolto. Lo sport signifi-ca prima di tutto energia, velocità, duttilità di forme e di costruzioni, ne-cessarie e indispensabili al vestire di oggi».

Lo sport è anche espressione di leggerezza e un nuovo modo di ve-stire, che non disdegna mai lo chic. Ralph Lauren figura tra i grandiesponenti di questo filone. Le sue maglie in cachemire ultra leggero e lesue polo colorate fotografate addosso a splendidi ragazzi e ragazzeamericani alle prese con la vela rappresentano una forte attrazione perchi si identifica in questa gioventù dorata, dal fisico atletico e dall’abbi-gliamento accattivante. E se quest’estate si fa largo lo sport, in omaggio aquesta tendenza Jean Paul Gaultier ha disegnato, con grande ironia, unacollezione da vere star della palestra con sneaker dal tacco stiletto, vestaglieda ring meravigliosamente ricamate, pantaloni da jogging in seta che on-deggiano sulle gambe e canottiere in rete dorata per cicliste che non hannonulla da nascondere e sono pronte a salire sul podio. Che la moda sportiva po-tesse diventare così sexy nessuno l’avrebbe mai creduto.

EFFETTO SPECCHIOLa novitàdell’estatedi Pradaè la camiciain cirè, tessutoche veniva usatonei Settantaper le regateColorato e lucido

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Belle come atletema un po’ più chic

LAURA ASNAGHI

Vela e tennis ma anche rugby, nuotoed equitazione sono sempre più spesso fonted’ispirazione per le collezioni degli stilistiBasta un dettaglio per trasformare un abitoEcco la genesi del nuovo look estivo

VENTO

IN POP

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Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 10GIUGNO 2007

Un secolo di scandali nati per giocoDa Wimbledon al nuoto: così le donne si trasformarono

LAURA LAURENZI

Che abisso, che differenza, fra come ci si vestiva una volta per fare sport e come ci si veste ades-so. È la stessa differenza che passa fra un passatempo d’élite e un’attività di massa. Molti an-ni sono trascorsi dalle perfette gonne a pieghe e dai candidi pullover stile inglese con cui gio-

cavano a tennis nel Giardino dei Finzi Contini. Lo sport targato “Come eravamo” è una galleria diimmagini di eleganza inarrivabile ormai sepolte sotto la polvere del tempo. A soffiarla via ci prova-no tutti gli stilisti di gamma altissima. A evocare charme, classe, gesti misurati, sussurri a bassa vo-ce, location super chic, ambienti sofisticati. La moda resuscita e rivisita lo sport di un tempo comeicona di estremo privilegio e di massima raffinatezza: attività per happy few più parente del gardenparty che non del sudore emanato a fiumi, più vicino al Royal Ascot che non alla dura palestra, piùprossimo alla crociera, alla caccia al grouse, al gioco del golf nel giardino di casa che non allo stadio,alla maratona in centomila, alla gara di massa in tuta di acetato. La massima aspirazione è dunquetornare a incarnare l’austera semplicità super signorile delle pochissime dame che potevano, untempo, permettersi di fare sport.

Un tempo quanto lontano? Al di là delle riviste di moda, delle passerelle, dei trend, delle tenden-ze e del gusto per il vintage, sport femminile e abbigliamento (repressivo) sono un binomio lastri-cato di scandali, soprusi, arresti, vittorie, sconfitte. La strada per l’emancipazione, per vestirsi in ma-niera “liberata”, per potersi muovere in condizioni di parità e di uguaglianza nei confronti dell’uo-mo è lunga e ancora tortuosa. Basta vedere, negli anni in cui a Occidente si gioca a tennis in tanga,quello che è successo la settimana scorsa alla nazionale delle calciatrici iraniane, attese a Berlinoper un’importantissima partita con le giovani tedesche di origine turca della Al-Dersimspor. Avreb-bero giocato in calzoni (e poi che calzoni, stiamo parlando di tute enormi, con felpe informi) e ci sa-rebbero stati degli uomini a fare il tifo sugli spalti: adducendo “problemi tecnici” (leggi politici) gliayatollah di Teheran hanno bloccato la trasferta. Alle atlete della Repubblica Islamica non è statoconsentito giocare neppure con la loro maxituta d’ordinanza e con il chador. Meglio restare a casa.

Tirava di boxe in cappellino piumato da vera lady e una sorta di complicatissima sottoveste-pan-taloni lunga fino al polpaccio la moglie del settimo conte di Barrymore nell’Inghilterra del 1819. In-dossava una ricca gonna a calice capovolto lunga fino a sotto il ginocchio, da cui spuntavano ampipantaloni alla turca e mocassini di pelle indiana, Julia Archibald Holmes, ardita scalatrice america-na che nel 1858 dette il suo nome a una vetta inviolata.

Pattinava con una gonnellona lunga fino alla caviglia, camicia con jabot, cappellino da passeg-gio con nastro di panno la britannica Florence Madeleine Cave Syers, pioniera del pattinaggio di fi-gura femminile, prima campionessa mondiale e olimpica nel singolo donne. Difficile ribellarsi. Nelnuoto lo fece l’australiana Annette Kellerman, nota come “The Diving Venus”, la Venere che si tuf-fa, la quale fu la prima a disobbedire, contravvenendo alle rigidissime regole di abbigliamento pre-scritto alle donne in piscina. «Non posso gareggiare con quella zavorra addosso», annunciò e nel1907, a Boston, si presentò a una competizione con un costume intero da lei ideato che fu giudica-to talmente scandaloso da valerle l’arresto immediato.

In quel tempio della tradizione che è Wimbledon l’americana May Godfrey Sutton nel 1905scioccò la platea perché osò, in campo, rimboccarsi le maniche fino a mostrare i gomiti (nudi!) e in-dossare una gonna che lasciava visibili le caviglie. Altro grande scandalo qualche anno dopo, nel1922, quando Suzanne Lenglen, sempre a Wimbledon, accorciò ulteriormente l’orlo della sottanae ardì, nientemeno, scendere in campo senza indossare un cappello, bensì una semplice fascia dispugna che, oltre ad asciugarle il sudore, le tratteneva i capelli consentendole una visuale migliore.Ma la più oltraggiosa di tutte fu Alice Marble, che nel 1932 giocò a tennis in calzoncini. Inimmagi-nabile. Proprio come per le calciatrici iraniane di oggi.

IRONIA SERALEAlta modain versione sport,firmata da JeanPaul GaultierLo stilistaha creato,con ironia, felpeda sera, canotteda ciclista superchic e shortglamour

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CAPIENZA MASSIMAPratica e capiente è la nuovaborsa per l’estate disegnatada Gianfranco FerréSecondo lo stilista milanese,tutte le discipline sportiverappresentano una grandefonte di ispirazioneper il mondo della moda

UNIVERSO D’ACQUAMix di sport e couture per il braccialeH20, che richiama l’universo dell’acqua,di Louis Vuitton. La corda da vela,stretta in nodi marinari, si fondeelegantemente con le pietre duree le candide perle fissate su metallo

PIÙ ADERENZALe polo Lacoste,a righe colorate,sono semprepiù morbidee aderential corpo. Cosìle voglionole ragazzine (manon solo loro) chele indossano conle mini e gli short

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Repubblica Nazionale

ra del dopo-Muti. «In passato, alla Scala,avevo fatto solo due o tre concerti con laStaatskapelle di Berlino. Non avevo maiaccettato gli inviti di Muti perché nonamo dirigere un’orchestra saltuaria-mente. Mi piace lavorare in modo stabi-le con una formazione, per trovare un lin-guaggio comune sui vari aspetti dellamusica: articolazione, problemi di tra-sparenza, rapporto tra tempo e contenu-to sonoro. La direzione d’orchestra im-pone un lavoro minuzioso, a partire dal-l’osservazione di quel fenomeno pretta-mente fisico che è il suono. Niente meta-fisica: tutto è molto concreto, come un la-boratorio, impossibile da realizzarequando si lavora a un unico concerto econ poche prove».

Alla Scala, un anno e mezzo fa, accettòdi dirigere la Nonadi Beethoven. «Per mefu un’occasione per verificare lo statodell’orchestra. Volevo fare Tristano e

Isotta, e capire se l’orchestra sarebbe sta-ta in grado di affrontare l’opera. Lo è. Sivede che è stata guidata musicalmenteprima da Abbado e poi da Muti. È una for-tuna eccezionale, per un’orchestra, esse-re forgiata da due direttori di questo livel-lo. Ho trovato la “macchina” in ottimostato e omogenea, e mi ha affascinato lacuriosità dei musicisti, la loro voglia diapprofondire».

Regista del Tristano e Isotta sarà Patri-ce Chéreau, col quale Barenboim ha giàcollaborato per Wozzecke Don Giovanni.«Ci intendiamo molto. Forse perché ionon sono solo un direttore, ma ancheuno strumentista, e lui non è solo regista,ma un attore meraviglioso. Da qui co-mincia la nostra affinità. Nel fare qualco-sa non pensiamo mai solo al perché, maanche al come, molto dall’interno». Spie-ga il loro speciale metodo di costruire in-sieme: «Per Wozzeck, a Parigi, dispone-vamo di due diversi palcoscenici, uno colpianoforte e l’altro senza. Io, da una par-te, facevo le prove musicali: giustezzad’intonazione, dinamica, fraseggio,espressione... Chéreau interveniva ognitanto: “Questo dev’essere così forte? Sipuò fare più veloce?”. Poi si andava nel-l’altra sala, senza musica, e lui, in quelcontesto secco, provava Wozzeck cometeatro puro. Così, scena per scena. Dopoun paio di settimane avevamo due spet-tacoli distinti, musicale e teatrale. Biso-gnava unirli o intrecciarli: il momentopiù interessante».

Qualche mese fa, alla Scala, Baren-boim ha voluto far suonare la sua creatu-ra più recente, la West-East Divan Orche-stra, fondata nel ‘99 insieme all’amicoEdward Said, scrittore e saggista palesti-nese, morto nel 2003: «L’idea era quella dicreare una specie di forum dove giovaniisraeliani e arabi, con qualcosa di moltosignificativo in comune, ovvero l’amoreper la musica, potessero conoscersi e la-vorare fianco a fianco. Una specie di pic-colo modello di nazione ideale. E un pun-to di partenza. Per dimostrare le condi-zioni necessarie affinché si possa convi-vere con dignità. Fondamentale è l’ugua-glianza. E prima ancora la libertà. Frater-

nunciabile. Uno dei cinque o sei compo-sitori che hanno segnato l’evoluzionemusicale in modo necessario, rifletten-do tutto quello che c’è stato prima e con-dizionando tutto il dopo. Come Bach eBeethoven».

Eppure il nesso con l’antisemitismoresta inevitabile: Wagner, in patria, è sta-to sempre vissuto come celebrazionedell’identità germanica, e le sue saghepoggiano sulle medesime radici del na-zismo. «Lo so bene», replica Barenboim,«ma non sta qui il problema del fascismo,che inizia quando si dice: solo un tedescopuò capire questa musica. E poi l’antise-mitismo non è solo Wagner. La Passione

secondo Giovanni di Bach è il testo piùantisemita che ci sia. Per questo non an-drebbe eseguita né ascoltata?».

Proprio Wagner, con Tristano e Isotta,segnerà, il prossimo 7 dicembre, la primavolta di Barenboim sul podio dell’aper-tura della stagione della Scala, dov’ècoinvolto come direttore di punta dell’è-

nità è l’ultima tappa, conseguenza delleprime due». Barenboim ha sempre dettodi considerare «moralmente e strategi-camente insensata una soluzione milita-re del conflitto in Israele», e le sue dichia-razioni contro l’attuale governo israelia-no lo hanno fatto accusare di essere undissidente. «Eppure un israeliano do-vrebbe poter criticare il suo governo sen-za per questo essere tacciato di tradi-mento, così come uno straniero dovreb-be poter mettere in discussione certescelte di Israele senza per questo dirsi an-tisemita, anche se ammetto che qui il di-scorso si fa scivoloso: certe critiche aIsraele rischiano di legittimare i troppiantisemiti che nel mondo usano quegliargomenti per mascherarsi».

Insiste, accorato, sul proprio desideriodi un futuro diverso: «Per duemila anniabbiamo vissuto come minoranza, spes-so perseguitata, e nel ‘48 siamo diventatinazione. Poi nel ‘67, dopo la Guerra deisei giorni, ci si è trovati a controllareun’altra minoranza, i palestinesi. E qui èmancata la transizione. La prima, da mi-noranza a Stato, è stata straordinaria. Perla seconda era necessario un cambia-mento di prospettiva: psicologica, etica,sociale, culturale... Non è avvenuto. E oracome possono gli ebrei, con tutta la lorolunga storia di sofferenza, restare indiffe-renti ai diritti e al dolore di un popolo con-finante?». Il sogno della pace, s’infiammaancora Barenboim, passa anche attra-verso la musica: «Con la Divan abbiamosuonato a Ramallah. Gran parte della po-polazione era contenta e commossa,però qualcuno ci ha attaccato. Che sensoha mostrare ebrei e palestinesi che suo-nano insieme, s’è detto, tra i carri armatie i soldati israeliani? Ma io resto convintoche è vitale dare ai palestinesi l’opportu-nità di constatare che non tutti gli ebreisono soldati, e che esiste un canale per ildialogo nonostante tutto. Cos’è la pace,se non contatti culturali, economici escientifici tra popoli diversi?».

È nato a Buenos Aires da una famigliadi ebrei russi e poi ha scelto di viverein Israele, dove ha fama di “dissidente”per aver diretto un brano di Wagnera Gerusalemme, rompendo il tabù,

e per aver creatoun’orchestra dove ebreie arabi suonano fiancoa fianco. “Fare musica -dice questo eccelsopianista e direttore -è come respirare. Davoconcerti a sette anni ma

non mi sentivo un prodigio e forseè per questo che sono rimastoun bambino senza più prodigi”

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 10GIUGNO 2007

‘‘

‘‘l’incontroTalenti scomodi

ROMA

N on è la solita retorica sulGrande Musicista. È undato semplice, esplicito,che non ammette dubbi:

Daniel Barenboim è una persona inte-gralmente e miracolosamente musicale.In lui tutto è una prova della capacità del-la natura d’imprimere su un essere uma-no il proprio marchio e di determinare undestino. «Fare musica, per me, è come re-spirare», racconta con i capelli arruffati egli occhi vispi e strani, percorsi da guizzid’invasamento, come un sospetto di pa-cifica follia, «e non ho mai avvertito nien-te di prodigioso in questo. È stato il miomodo di essere da sempre. Niente di esa-gerato, stregato o innaturale. Da ragazzi-no frequentavo la scuola come gli altri,avevo amici della mia età, il pomeriggiogiocavo a calcio. Poi facevo una doccia,mi vestivo e andavo a suonare il pia-noforte in un concerto di fronte al pub-blico. Così, come una parte normale del-la mia giornata».

Parlando ride e sorride spesso il diret-tore d’orchestra (ma è anche pianista epromotore di eventi e conferenziere e di-datta e manager di grandi teatri d’opera).Si esprime in un italiano mobile e ricco,«imparato dai libretti mozartiani di Lo-renzo Da Ponte», mentre sorseggia unatazzona di caffè, un triplo espresso chenon pare innervosirlo. Incredibile comequesto musicista, appena prima di unrecital dedicato a Liszt, pezzi di difficoltàmostruosa, si permetta una lunga inter-vista. Più di un’ora di conversazione se-duto al bar, poi un veloce cambio di giac-ca in camerino, ed eccolo sul palco diSanta Cecilia, lucido e rilassato, davantia quasi tremila spettatori adoranti e so-spesi al tocco delle sue mani corte e pos-senti sulla tastiera. Nessun altro pianistapotrebbe farlo.

Quasi disturbante questa sua man-canza d’ansia, questo suo genio sereno esfacciato. C’è il musicista che si arrovellae produce soffrendo, e quello alimentatodalla musica come da un flusso gioioso espontaneo, che non lacera, non consu-ma, non esige supplizi. Come Salieri eMozart nel film Amadeus. Barenboim cifa sentire tutti un po’ Salieri: invidiosi estupefatti. Dice: «Impossibile chiedermicosa avrei fatto nella vita se non il musici-sta. È come se mi si domandasse se homai pensato di essere una donna». Poi,più avanti, tra una memoria e un’appas-sionata disquisizione sul Medio Oriente(la questione israeliana è il suo rovello co-stante): «Spesso i bambini prodigio di-ventano adulti pieni di problemi. Inveceio, che davo concerti a sette anni, non so-no affatto problematico. Forse perchéquand’ero bambino non mi sentivo unprodigio, e adesso sono rimasto un bam-bino senza più prodigi».

Ormai da molti anni Barenboim, ar-gentino e israeliano, in realtà tipico citta-dino del pianeta, cosmopolita e multi-culturale, nato nel ‘42 a Buenos Aires dauna famiglia ebrea di origine russa che sitrasferì in Israele poco dopo la nascita delnuovo Stato, è uno dei massimi pianistidel mondo e un direttore ai vertici dellasua generazione, uno dei quattro o cin-que che dominano l’olimpo internazio-nale dei Maestri. In musica ha volatosempre in alto. A dieci anni studiava conIgor Markevich, il gigante Furtwängler loconsiderava un fenomeno, ha amato esposato la strepitosa violoncellista Jac-queline Du Pré (la cui carriera, nel ‘72, epoi la vita, nell’87, furono spezzate dallasclerosi a placche), ha condiviso studi eamicizia con Claudio Abbado e ZubinMehta, e tra i suoi complici musicali figu-rano Isaac Stern, Itzhak Perlman e Pin-chas Zukerman. Già negli anni Sessantasuonava come pianista i cinque Concerti

di Beethoven diretto da un mostro sacrocome Otto Klemperer, per poi dirigeredal podio gli stessi Concerti mentre al pia-noforte c’era un interprete leggendariocome Arthur Rubinstein.

Ha guidato le orchestre più prestigiosed’Occidente, governato come direttoremusicale la Chicago Symphony, esegui-to le opere di Wagner nel tempio di Bay-reuth, attraversato il repertorio sinfonicoe operistico viaggiando tra Parigi, Edim-burgo, Salisburgo, Monaco, Londra eNew York. A Berlino, dov’è Generalmu-sikdirektor della Staatsoper Unter denLinden, ha realizzato tra l’altro un’inte-grale senza precedenti delle opere di Wa-gner, eseguendole una dopo l’altra, in or-dine cronologico, dall’Olandese al Parsi-

fal. E nel 2001, a Gerusalemme, infran-gendo un tabù pluridecennale (Wagnerera la colonna sonora del nazismo), di-resse il Preludio del Tristano e Isotta. «So-lo trenta persone, su un pubblico di tre-mila, abbandonarono la sala. Gli altri se-guirono in silenzio. Avevo fatto una pre-messa all’esecuzione, spiegando i moti-vi della mia scelta. In molti compresero.Il fatto è che Wagner è un musicista irri-

Come possiamo noi,con tutta la nostralunga storiadi sofferenzarestare indifferentiai diritti e al doloredi un popoloconfinante? Cosaè la pace se noncontatto tra popoli?

Daniel BarenboimF

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Repubblica Nazionale