omenica RAIMONDO BULTRINI DOMENICA MAGGIO 2007 di...

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DOMENICA 13 MAGGIO 2007 D omenica La di Repubblica i luoghi Afghanistan, le mille facce di Kabul ATTILIO BOLZONI il reportage India, ritorna la pira delle vedove RAIMONDO BULTRINI cultura Il Grand Tour di Dumas alle Eolie ALEXANDRE DUMAS e AMBRA SOMASCHINI la memoria I ragazzi della via Pál cento anni dopo GIAMPAOLO VISETTI la lettura Le catastrofi raccontate dai Pulitzer ROBERT FISK e ERNEST HEMINGWAY l’incontro Jane Birkin: il mio film-nostalgia LAURA PUTTI CONCITA DE GREGORIO nitori erano sfollati, ha detto messa a Santa Teresina, ha portato in gita i ragazzi della Fuci e gli scout dell’Agesci. Non è esuberan- te come il suo predecessore, Tarcisio Bertone, il salesiano estro- verso che andava alla partita di pallone, i bambini gli tiravano la veste e lo chiamavano “ArciTarci”, l’arcivescovo superman. No, Bagnasco è genovese, è diverso. Ora che è tornato a casa ha mes- so la città al dito, la sua Madonna. La “gazzarra” di cui gli parlano le donne col fare di chi minimizza una sciocchezza sono le svasti- che e le stelle a cinque punte che gli disegnano sui muri attorno al Duomo, il bossolo inviato per posta in Curia, la valigia lasciata sui gradini della cattedrale che forse era una bomba e invece no, «at- tento Bagnasco», «vergogna Bagnasco», due uomini con l’aurico- lare di scorta all’altare e don Gallo, il prete delle comunità di ba- se, che dice «finché c’è la Digos in chiesa non ci metto più piede io». Terroristi, balordi? Nuove Br, gente in cerca di chiasso? Per non sbagliare il prefetto gli ha dato la scorta, il Papa la divina soli- darietà. Cofferati in visita ha espresso la sua consapevole preoc- cupazione, il mondo politico unanime il suo sdegno. Monsignor Angelo Bagnasco, a fine giugno imminente cardi- nale, successore di Ruini indicato dal medesimo, è da due mesi presidente della Cei e da uno oggetto di minacce di stampo ter- roristico decuplicate nella visibilità da giornali e tv. «Bagnasco attento ancora fischia il vento», gli hanno scritto. La Procura in- daga, il primo passo è stata un’equazione facile facile: «Ancora fischia il vento» era lo slogan scelto dal coordinamento dei cen- tri sociali genovesi per la manifestazione del 25 aprile. (segue nelle pagine successive) Vescovo terroristi e i il FOTO FABIO BUSSALINO Una giornata con monsignor Angelo Bagnasco, il presidente della Cei messo sotto scorta dopo le minacce ricevute GENOVA Q ui lo chiamano don Angelo, come si fa col parroco. Ha gli occhi piccoli, il naso diritto e l’incarnato di una fan- ciulla di altri tempi. Gesti brevi, sorriso lento. Le mani di porcellana, delicate e intatte. Il mignolo legger- mente ricurvo, all’anulare destro uno stupefacente cammeo bianco-avorio di madonna con bambino. «È la Madonna della Guardia», risponde con l’antica indulgenza dovuta a chi non sa ma può imparare. La Madonna che protegge la città, il simbolo cattolico di Genova. È l’anello che si dovrebbe baciare, l’anello dell’Arcivescovo, ma qui le donne non si gettano a terra al suo pas- saggio, lo baciano sulle guance piuttosto e gli dicono don Angelo, domenica le mando Filippo per la cresima, lui domanda come va a scuola il secondogenito — lo chiama per nome — loro rispon- dono bene grazie, lei però non se la prenda per questa gazzarra, lui sorride e ringrazia, certo che no, passerà. «Una tempesta sul nulla», mormora. «Prego ogni giorno per chi sventatamente se- mina odio, li tengo con me nel mio cuore. Sono un pastore e tutte le pecore sono il mio gregge. Li raccomando al Signore, il tempo riporterà serenità e armonia. Basterà poco tempo, vedrà». Bagnasco è Genova, per strada e in cattedrale i fedeli gli parla- no con la confidenza che si riserva a uno di famiglia. Lo toccano, gli dicono cose in dialetto, ridono e lui ride di rimando: è stato ra- gazzo qui, ci è tornato bambino da Pontevico di Brescia dove i ge- Repubblica Nazionale

Transcript of omenica RAIMONDO BULTRINI DOMENICA MAGGIO 2007 di...

DOMENICA 13MAGGIO 2007

DomenicaLa

di Repubblica

i luoghi

Afghanistan, le mille facce di KabulATTILIO BOLZONI

il reportage

India, ritorna la pira delle vedoveRAIMONDO BULTRINI

cultura

Il Grand Tour di Dumas alle EolieALEXANDRE DUMAS e AMBRA SOMASCHINI

la memoria

I ragazzi della via Pál cento anni dopoGIAMPAOLO VISETTI

la lettura

Le catastrofi raccontate dai PulitzerROBERT FISK e ERNEST HEMINGWAY

l’incontro

Jane Birkin: il mio film-nostalgiaLAURA PUTTI

CONCITA DE GREGORIOnitori erano sfollati, ha detto messa a Santa Teresina, ha portatoin gita i ragazzi della Fuci e gli scout dell’Agesci. Non è esuberan-te come il suo predecessore, Tarcisio Bertone, il salesiano estro-verso che andava alla partita di pallone, i bambini gli tiravano laveste e lo chiamavano “ArciTarci”, l’arcivescovo superman. No,Bagnasco è genovese, è diverso. Ora che è tornato a casa ha mes-so la città al dito, la sua Madonna. La “gazzarra” di cui gli parlanole donne col fare di chi minimizza una sciocchezza sono le svasti-che e le stelle a cinque punte che gli disegnano sui muri attorno alDuomo, il bossolo inviato per posta in Curia, la valigia lasciata suigradini della cattedrale che forse era una bomba e invece no, «at-tento Bagnasco», «vergogna Bagnasco», due uomini con l’aurico-lare di scorta all’altare e don Gallo, il prete delle comunità di ba-se, che dice «finché c’è la Digos in chiesa non ci metto più piedeio». Terroristi, balordi? Nuove Br, gente in cerca di chiasso? Pernon sbagliare il prefetto gli ha dato la scorta, il Papa la divina soli-darietà. Cofferati in visita ha espresso la sua consapevole preoc-cupazione, il mondo politico unanime il suo sdegno.

Monsignor Angelo Bagnasco, a fine giugno imminente cardi-nale, successore di Ruini indicato dal medesimo, è da due mesipresidente della Cei e da uno oggetto di minacce di stampo ter-roristico decuplicate nella visibilità da giornali e tv. «Bagnascoattento ancora fischia il vento», gli hanno scritto. La Procura in-daga, il primo passo è stata un’equazione facile facile: «Ancorafischia il vento» era lo slogan scelto dal coordinamento dei cen-tri sociali genovesi per la manifestazione del 25 aprile.

(segue nelle pagine successive)

Vescovoterroristi

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Una giornata con monsignorAngelo Bagnasco, il presidentedella Cei messo sotto scortadopo le minacce ricevute

GENOVA

Qui lo chiamano don Angelo, come si fa col parroco. Hagli occhi piccoli, il naso diritto e l’incarnato di una fan-ciulla di altri tempi. Gesti brevi, sorriso lento. Le manidi porcellana, delicate e intatte. Il mignolo legger-

mente ricurvo, all’anulare destro uno stupefacente cammeobianco-avorio di madonna con bambino. «È la Madonna dellaGuardia», risponde con l’antica indulgenza dovuta a chi non sama può imparare. La Madonna che protegge la città, il simbolocattolico di Genova. È l’anello che si dovrebbe baciare, l’anellodell’Arcivescovo, ma qui le donne non si gettano a terra al suo pas-saggio, lo baciano sulle guance piuttosto e gli dicono don Angelo,domenica le mando Filippo per la cresima, lui domanda come vaa scuola il secondogenito — lo chiama per nome — loro rispon-dono bene grazie, lei però non se la prenda per questa gazzarra,lui sorride e ringrazia, certo che no, passerà. «Una tempesta sulnulla», mormora. «Prego ogni giorno per chi sventatamente se-mina odio, li tengo con me nel mio cuore. Sono un pastore e tuttele pecore sono il mio gregge. Li raccomando al Signore, il temporiporterà serenità e armonia. Basterà poco tempo, vedrà».

Bagnasco è Genova, per strada e in cattedrale i fedeli gli parla-no con la confidenza che si riserva a uno di famiglia. Lo toccano,gli dicono cose in dialetto, ridono e lui ride di rimando: è stato ra-gazzo qui, ci è tornato bambino da Pontevico di Brescia dove i ge-

Repubblica Nazionale

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13MAGGIO 2007

(segue dalla copertina)

Il manifesto è ancora lì attaccatoai cancelli del Buridda, il “labo-ratorio sociale” che ha preso ilnome dalla minestra di pesce e ilocali dall’austera deserta vec-chia facoltà di Economia proprio

sopra l’ottocentesca piazza Corvetto,in centro. Sul muro della facoltà occu-pata c’è scritto «Digos boia», gli «Stu-denti autonomi» si firmano con falcemartello e stella a cinque punte. Il ma-nifesto sul cancello dice che «solo la lot-ta può cambiare le cose». Dentro ungruppo di ragazzi preparano per il 19maggio “illegal art”, esposizione di artifigurative, uno spettacolo di teatro e unconcerto per giovedì. Rispondono inmodo garbato, nemmeno su richiestasanno dire perché sia sotto accusa Ba-gnasco e se gli si fa osservare l’analogiadegli slogan trovano che «fischia il ven-to» sia una frase qualsiasi ormai di usocomune, la strofa di una canzone.

La donna che abbraccia don Angeloper prima alla messa delle otto — lui hacelebrato il suo matrimonio, lui ha se-guito l’educazione dei suoi figli — diceche «è nato tutto da un’esagerazionedei giornali, dal nulla». Proprio nullano. Tutt’al più una semplificazione. Ba-gnasco ha detto, parlando di «forme diconvivenza alternative alla famiglia»,parlando di Dico insomma: se si adotta«il criterio di maggioranza vestita dademocrazia, perché dire di no all’ince-sto, allora, come in Inghilterra dove unfratello e una sorella hanno figli? Perchédire di no al partito dei pedofili in Olan-da se ci sono due libertà che si incon-trano?». I Dico come l’incesto e la pedo-filia, hanno sintetizzato i titoli dei gior-nali. Di seguito le scritte, il bossolo, lascorta della Digos all’altare. Il suggeri-mento, da Roma, di tacere per un po’.Prudenza, discrezione. E questi due an-geli custodi con gli occhiali scuri, Eccel-lenza, sono proprio necessari? In fondoin chiesa la protezione divina è assicu-rata, non potrebbero stare discosti?«Non dipende da me, anche in questooccorre pazienza: il tempo lavorerà, bi-sogna pregare, avere fede, attendere».

Alle undici seconda messa del gior-no: cortile di una fabbrica. Una tradi-zione ligure questa della celebrazionepasquale nei luoghi di lavoro. Fu Giu-seppe Siri a introdurla: i cappellani dellavoro, i parroci da cui non si va, i par-roci che in fabbrica vanno loro. Siri, perpiù di quarant’anni (fino all’87) arcive-scovo di Genova. Ala ultraconservatri-ce della Chiesa. Quarant’anni: se ne haisessantaquattro come Bagnasco, qua-ranta sono tutta la vita. Il nuovo presi-dente della Cei era «uno della nidiata»di Siri: solo stamattina lo cita tre volte.Non sarà un caso se Ruini lo ha indica-to per la successione. Cambia lo stile,non cambia la parola. Bagnasco ha unavoce suadente e quasi femminile, la usaper dire che «l’amore è sacrificio, è il sa-crificio che invera l’amore», che «lagioia della fede è un impegno che siconquista con la perseveranza dellapreghiera».

Quattro omelie in un giorno: due infabbrica, una in cattedrale, l’ultima inconvento e tutte per esortare al rigo-re del sacrificio, del dovere. Gli ope-rai della Esaote, azienda leader nelmondo nelle tecnologie biome-diche, ascoltano in piedi il pre-cetto. In piedi anche Carlo Ca-stellano, il presidente, dirittonella prima fila di seggiole no-nostante il suo bastone e la suagamba malferma, al bavero l’o-norificenza di cavaliere del la-voro. La sorte si incarica sempredi annodare i destini e colorarlidi senso. Bagnasco, l’arcivesco-vo sotto minaccia di sedicenti ter-roristi, stamani celebra messa “acasa” — nella fabbrica — di CarloCastellano, alle 18.30 del 17 novem-bre del 1977 colpito da otto proiettilisparati da tre terroristi della colonnagenovese delle Br. Sono trent’anni cheCastellano non ne parla. Era direttoredella pianificazione dell’Ansaldo, allo-ra. Sedeva nel comitato centrale del Pci,migliorista, amico fraterno di Napoleo-ne Colajanni. Quando in ospedale mi-nacciarono di amputargli la gambachiese di aspettare, di provare ancora,«guardavo questi macchinari della Sie-mens con cui mi scannerizzavano legambe e pensavo: ma non potremmofabbricarli anche noi all’Ansaldo? Sì, èvero, in un certo senso continuavo a la-vorare», sorride. Esaote, fra le prime

dieci aziende che producono strumen-ti diagnostici nel mondo, è nata così.

Quindi lei è venuta a Genova per leminacce all’arcivescovo, si informa.Per questo, sì. Il nuovo e il vecchio ter-rorismo, lei pensa che ci sia un filo? Leicrede che sia terrorismo anche questoo ha piuttosto pudore di usare le paro-le? A volte nominare qualcosa lo rendepiù vero del vero... «Capisco cosa inten-de. Bisogna usare cautela, sì. Lo chia-

merei nuovo estremismo. Il terrorismodelle Br di allora era un’altra storia, era-vamo in un altro mondo, non c’è dub-bio. Tuttavia c’è un filo che corre da al-lora. C’è qualcosa di greve, di opaco an-cora adesso. Bisogna fare molta atten-zione, non sottovalutare la violenza.Molto è cambiato ma non tutto. Intat-ta, da allora, c’è un’idea radicata in cer-ti ambienti della sinistra che sia la vio-lenza la scorciatoia del confronto. L’an-

titesi del dialogo, no? L’opposto dellademocrazia, eppure questa sinistra,questi partiti della sinistra non hannotrovato gli anticorpi per combatterequel che è stato: non hanno saputo no-minare, descrivere e quindi non hannometabolizzato quel che è successo.Hanno pensato di poter voltare pagina,ma non è così. Io vivo in fabbrica, lo ve-do. Un tempo, allora, c’erano le univer-sità e le fabbriche. Oggi i centri in cui i

giovani tramandano la cultura dellaviolenza sono altri, meno strutturatiforse ma altrettanto nitidi. L’ho dettoqualche giorno fa a Epifani, ne ho par-lato per la prima volta in pubblico aun’assemblea del sindacato: è terribileche tante persone fra gli arrestati del-l’ultima ora fossero sindacalisti, signi-fica che davvero non abbiamo ancoracapito che non si può essere a un tem-po forze di lotta e di governo, e che la lot-

la copertinaChiesa e società

“Prego per chi semina odio”

Amato dai suoi fedeli come uno di casa, chiamatoaffettuosamente don Angelo, l’arcivescovo di Genova svolgela sua attività pastorale e dice messa sotto scorta da quandoha ricevuto minacce di morte per le sue dichiarazionisui Dico. Lui si limita a commentare:“Tutte le pecoresono il mio gregge. Il tempo riporterà serenità e armonia”

CONCITA DE GREGORIO

le tappe

LA NOMINA7 marzo: Angelo

Bagnasco,

arcivescovo

di Genova,

viene nominato

presidente

della Cei

Le sue prime

parole: “Quando

il Papa chiama,

si risponde”

FO

TO

AN

SA

LA POLEMICAL’intervento

di Bagnasco

con il paragone

tra Dico, incesto

e pedofilia

scatena

la polemica

La Cei precisa

che il presidente

“è stato

mal riportato”

LE SCRITTE2 aprile:

sul portone

di San Lorenzo

a Genova

compare

la scritta

“Bagnasco

vergogna”

Altre si trovano

a Bologna, Torino,

Cosenza

L’INTERVENTO31 marzo:

il presidente

della Cei

interviene

sui Dico. “Perché

dire no

all'incesto?

Perché dire

di no al partito

dei pedofili

in Olanda?”

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 13MAGGIO 2007

ta non può mai prendere il sentiero del-la violenza, davvero, mai».

Nel cortile ventoso Bagnasco veste iparamenti con l’agnello e la croce. Aidue diaconi che a fine mese saranno or-dinati sacerdoti sussurra, nel microfo-no per caso già acceso, «l’essere e l’ap-parire, la tematica di Pirandello». Staspiegando qualcosa che ha a che vede-re con la realtà e con quello che sembra.Marco e Francesco, i diaconi, non han-

no trent’anni. Annuiscono. Adesso Ca-stellano, elegante nel suo abito grigio,va ad abbracciare l’arcivescovo. Nonhanno mai parlato di terrorismo: Ba-gnasco non ha chiesto, Castellano nonha detto. Oggi neppure, oggi è in pro-gramma una visita all’azienda e si di-scorre di progresso, di futuro. Una visi-ta lunga, con esibizione di macchinaricapaci di vedere dove l’occhio dell’uo-mo non vede. Ecografie, risonanze ma-

gnetiche. Bagnasco si sofferma ammi-rato.

Dunque, eccellenza, che cosa è dav-vero contro natura? Lei prende l’aereo,eppure all’uomo non è dato di volare.Queste macchine indagano nel corpoumano, eppure all’occhio non è dato divedere. Qual è il limite per l’uomo, co-me si stabilisce cosa sia arbitrio, azzar-do e cosa progresso? «L’uomo ha in do-no lo straordinario strumento della sua

intelligenza, un dono di Dio. Deve nu-trire e indirizzare questo dono al bene.È un patrimonio inestimabile. L’uomolo custodisce e lo indirizza, con la guidadel Signore, a beneficio di tutti comeDio vuole». Quindi va bene vedere sul-lo schermo i legamenti del ginocchio,se l’intelligenza dell’uomo datagli indono da Dio lo consente. Il presidentedella Cei ne conviene. Non va bene con-vivere fuori dai sacramenti, qui l’intel-

ligenza dell’uomo è fuori strada, la li-bertà si trasforma in arbitrio, allora an-che certi costumi immorali come la pe-dofilia e l’incesto, appunto, se approva-ti diventerebbero leciti e la Chiesa ha ildovere di indicare la legge morale. An-che a voce molto alta. Anche dando in-dicazione di voto ai parlamentari catto-lici, anche intervenendo in politica?

Castellano, zoppicando, accompa-gna Bagnasco fino nella sua stanza. Sul-la scrivania c’è il trofeo di «imprendito-re dell’anno». Su un tavolo il plasticodella collina degli Erzelli dove il consor-zio Genova Hi Tech promette di realiz-zare (entro il 2009 il primo lotto) un vil-laggio tecnologico in cui convivanouniversità, fabbriche, abitazioni: dieci-mila posti di lavoro e il futuro dell’oc-cupazione e dell’impresa. Su uno scaf-

fale la foto di un uomo in camicia aquadri: «Era un docente universita-

rio, un francese che ho conosciutoanni fa, poi è diventato eremita,poi è di nuovo tornato all’inse-gnamento. Lo tengo lì perchémi voglio sempre ricordare checambiare è possibile in ognimomento».

Alla domanda sulla voceche si alza Bagnasco non ri-sponde. «Adesso è necessarioritrovare la serenità», dice so-lo. Castellano lo ringrazia perla messa, per la visita. «Alzare ilvolume dello scontro è sempre

un errore», dice poi, l’arcive-scovo già nell’auto blindata di-

retta verso la cattedrale. «Certonon tutti gli errori sono dello

stesso segno ed hanno le medesi-me conseguenze. Tuttavia la strada

del dialogo e del confronto, quella chevorremmo insegnare ai nostri figli, nonpassa mai dai toni ultimativi. Non vo-glio parlare di azione e di reazione. Nonmi voglio addentrare nello scivolosoterreno delle colpe originarie. Ricordoche nell’album di famiglia della sinistrac’erano pezzi di chiesa, ma è un ricordopersonale. Io ho lasciato il Pci e i mieirapporti con la fede sono un fatto pri-vato. Di vero c’è che se non si affrontaquel che è stato con coraggio e con de-siderio di verità il passato resterà sem-pre con noi: il passato tesse le sue fila earriva nel presente. Le prove di forzanon hanno mai portato a niente di buo-no. Io, per me e nel tempo che mi resta,quel che desidero è fare: realizzare, seriesco, in silenzio».

In cattedrale le due guardie del corposi sistemano davanti alle colonne. È laloro terza messa, oggi. I diaconi scher-zano con uno dei due: «Il Signore ti stamettendo alla prova». Giorni fa nelle fo-to sui giornali erano ai lati dell’altare.«Un’illusione ottica», dicono in Curia,un effetto del grandangolo. Fatto stache non è bello, in effetti, vedere la Di-gos in chiesa e non sarà per effetto del-le parole di don Gallo ma i poliziottisembrano più discreti. Si allontananoai lati delle navate, si schiacciano allecolonne. D’altronde, se una minacciareale ci fosse, la scorta, come la storiadel terrorismo insegna, in luoghi pub-blici e così affollati potrebbe ben poco.Bagnasco lo sa, in cuor suo vorrebbeevitare questo trattamento ma non puòdirlo se non per accenni. Allarga le brac-cia, sospira, sorride. «Sono veramentesereno, sono davvero tranquillo», dice.

Celebra messa per la fondazioneAuxilium, più antica della Caritas. «Voisiete il cuore di Genova che sa essereconcreta e generosa. Voi siete il cuorepulsante della solidarietà ecclesiale.L’amore degli uomini è sempre limita-to dalle ombre, lasciatevi amare da Cri-sto, perseverate nella preghiera e sare-te l’incarnazione dell’amore di Dio». Lepie donne, le dame della carità lo ab-bracciano a messa finita. Stringono inmano la sua prima lettera pastorale:«Prega con perseveranza».

Il cuore generoso di Genova deve oc-cuparsi dei senza tetto che dormonoscalzi nell’androne del Carlo Felice,stasera sotto il portone principale delteatro sono sei. La targa di marmo inti-tola la galleria a Giuseppe Siri, quaran-tennale arvicescovo. Dopo Tettamanzie Bertone è il turno adesso di un «giova-ne della sua nidiata», dicono soddisfat-ti i maggiorenti della città. Bagnasco,l’allievo di Siri, il pupillo di Ruini. «Itempi degli uomini non sono i tempi diDio. Cresciamo nella perseveranza del-la fede. Preghiamo. Io prego, ogni gior-no, per chi non ha ancora trovato ilcammino». Il giusto cammino. Le scrit-te sui muri scoloriranno, fra poche set-timane Genova avrà il suo cardinale. LaChiesa, fin da ora, il suo nuovo Ruini.

L’ALLERTARaddoppiano

la scorta

armata

in borghese

e le misure

di sicurezza

intorno

a monsignor

Bagnasco

Il clima

si surriscalda

IL BOSSOLO29 aprile:

al prelato viene

recapitata,

in Curia

a Genova,

una busta

con un bossolo

Il Vaticano:

“L’Italia

lo sostenga

e non lo lasci solo”

I SIMBOLI8-9 aprile:

svastica, P38

e stella a 5punte

compaiono

sui muri accanto

alle scritte

“Bagnasco

a morte”

La Digos indaga

Solidarietà

dai politici

LA SCORTA7 aprile:

le scritte

contro il Papa

e l’arcivescovo

si moltiplicano

in periferia

A Bagnasco

è stata già

assegnata

la scorta

di due agenti

le tappe

Nato a Pontevico (in provincia di Brescia) il 14 gennaio 1943, da genitori sfollati per la guerra, Angelo Bagnasco

è stato ordinato sacerdote nel 1966 da Giuseppe Siri, l’alloraarcivescovo di Genova che lo ha preceduto anche alla guida

della Cei. Laureato in filosofia, è stato per 25 annivicino al mondo degli scout. Dal 1995, per tre anni, ha diretto

il seminario di Genova diventando poi vescovo di PesaroDal 2003 è stato ordinario militare d’Italia fino alla nomina

a Genova dove si è insediato come arcivescovo il 24 settembre 2006.Dal 7 marzo è presidente della Cei

La carriera

Repubblica Nazionale

il reportageIndia segreta

Nell’ultimo anno nel Madhya Pradesh e nel Rajastanc’è stata una recrudescenza del terribile rituale del “sati”,nel quale la vedova si getta sulla pira funeraria del maritoUna di queste donne è stata fermata in extremis. Siamoandati a parlarle, per capire le ragioni di un gesto ancestrale

“Sono prigionieradel mio destino, continueròa soffrire. Aspetteròancora dodici mesi:se tutto resteràcome è adesso,riuscirò a fare quelloche mi hanno vietato”

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13MAGGIO 2007

to la sua promessa, confidata in lacrime ai paren-ti appena saputo della morte di Anil. Dopo averlatrattenuta a forza a due passi dalle fiamme, qual-cuno ha chiamato la polizia, che a sua volta ha ri-ferito il caso al collector, il governatore della pro-vincia, una donna residente nella capitale Bho-pal. Per dieci giorni Rinki è stata rinchiusa a forzain casa e sorvegliata da uomini armati, finché lagovernatrice non è giunta di persona a Dehra perpromettere alla giovane donna aiuto e un impie-go. Lei sembrò rinfrancata, però quel lavoro nonè mai arrivato e la sua volontà di uccidersi nonsembra affatto domata.

Il racconto rompe il silenzio irreale del cortilegremito e attento. «Venni in questo villaggio daUmri, nell’Uttar Pradesh, per sposarmi il primomarzo del 2004. Nei diciassette mesi del nostromatrimonio io e mio marito siamo stati insiemesolo tre mesi e dieci giorni. Anil era un soldato difrontiera. La sua caserma si trovava in Kashmir (re-gione contesa e in perenne stato d’allerta ai confi-ni col Pakistan, ndr) e non poteva trasferirsi quisenza un congedo. I miei genitori lo avevano scel-to perché aveva un buon lavoro, e Anil era moltoorgoglioso di servire l’esercito indiano. Prima diconoscerlo avevo visto solo la sua foto, ma ho im-parato presto ad amarlo, era intelligente e bello.Ero tanto sicura del suo amore che non credo nes-

sun altro uomo possa mai aver amato tanto suamoglie. Per questa passione il nostro bambino èstato concepito subito; quando Anil è morto, il pic-colo aveva appena due mesi. A quel tempo ci sve-gliavamo insieme ogni notte per scaldargli il lattee lui volle chiamarlo Goro, che vuol dire orgoglio.L’amore che Anil aveva per noi non lo posso di-menticare, anche se avrò un lavoro, anche se con-tinuo a essere circondata da tutte queste personeche mi riempiono di attenzioni ma mi impedisco-no di fare qualsiasi cosa, anche di uccidermi».

Rinki per la prima si volta copre il viso con unlembo del velo. «Ho fatto del mio meglio per il be-ne di mio figlio, che è l’unica ragione per cui sonoancora al mondo, ma questo dolore che ho dentronon mi abbandona. Lo sentivo già prima di sape-re che Anil era morto, l’avevo sentito sulla mia pel-le, che era diventata rossa e irritata, e avevo già de-ciso che avrei commesso sati».

«Quel giorno, prima di comunicarmi la notizia,mi hanno messo il bambino in braccio. Si aspet-tavano che piangessi. Ma non avevo lacrime, sen-tivo già di essere morta, non avevo paura dellamorte, né del fuoco, né del calore. Non avrebberodovuto fermarmi». Nel glaciale imbarazzo collet-tivo che segue queste parole le chiediamo se suomarito fosse stanco di stare così lontano dalla fa-miglia. Secondo le indagini, Anil si sarebbe suici-

DEHRA (MADHYA PRADESH)

Rinki fissa il vuoto mentre racconta delsuo eterno amore e del rogo che con-tinua a bruciarle dentro. «Qui sonogià morta», dice indicando il cuore.

C’è silenzio attorno a lei anche se il cortile dellacasa di famiglia del suo defunto marito è pieno digente. Ci sono i suoceri, le cognate e i cognati, i cu-gini acquisiti, i vicini, frotte di bambini e due po-liziotti curiosi che ci hanno voluto accompagna-re nel villaggio armati di tutto punto. Siamo a ri-dosso delle gole del fiume Chambal, le impene-trabili ravinesdove visse la leggendaria Regina deiBanditi Poolan Devi. Per poche rupie si uccide, sistupra, si rapisce. Ma la storia che racconta Rinkinon ha nulla a che fare con i briganti. Questo è al-meno ciò che dice la polizia, secondo la quale lamorte di suo marito Anil è solo un caso di suicidio.

Quando inizia a parlare nel suo fluente hindi —appreso nelle buone scuole frequentate dalla suacasta thakur — ben pochi tra gli stessi parenti ave-vano mai sentito per intero l’intimo racconto diquesta vedova di ventidue anni bella e altera, dellaquale sembrano avere una certa soggezione. A unanno dal gesto che l’ha resa celebre nel distretto diBhind e ben oltre lo stesso Stato del Madhya Pra-desh, Rinki ha deciso di far sentire la sua voce. Av-volta come una madonna in uno sgargiante sari ce-leste, col suo bambino dai grandi occhi in grembo,sembra dar voce a tante donne indiane che il mon-do conosce come le “vedove del sati”. Le altre nonpossono parlare, dal paradiso dove si sono spintetra le fiamme del rogo, sante di un altro mondo e diun altro tempo dove il maschio era dio e la donnauna sua mera proiezione. Sati è infatti la leggenda-ria, eterna compagna di Shiva, che si gettò nel fuo-co per l’onore del suo Signore. Ne consegue che,come lei, ogni donna devota ha il diritto di ripren-dersi nel regno di Yama il corpo del suo uomo.

Secolo dopo secolo eserciti di vedove si sonogettate — o sono state spinte — sulle fiamme chestavano divorando le spoglie mortali del consortee il popolo le ha considerate sante, dedicando lo-ro altari e preghiere. Ancora oggi, che i tempi so-no cambiati e le leggi considerano il sati un crimi-ne, non sono poche le donne disposte a raggiun-gere i loro sposi nel fuoco, mentre parenti e testi-moni non trattenendole rischiano consapevol-mente la galera. La escalation più evidente di que-sto fenomeno, come nel passato connessofrequentemente alla deprecabile condizione so-ciale della vedova, c’è stata nel 2006, con decine dicasi segnalati e tre perseguiti per legge, soprattut-to nel Madhya Pradesh e nel vicino Rajastan, do-ve i pellegrini continuano a recarsi a frotte sui luo-ghi dei sacrifici. Se Rinki avesse subito la stessasorte, avrebbe di sicuro scatenato a sua volta la de-vozione popolare del distretto e forse dello stato.Invece nessuno la considera una santa, perché èancora viva e per di più da quel giorno — ci ha det-to — non prega nemmeno per se stessa.

La tradizione del sati, antica quanto le leggen-de epiche hindu care ai sacerdoti bramini orto-dossi, fu vietata dagli inglesi nel 1829. Dopo esse-re quasi scomparsa, travolta dal nuovo corso del-l’India progressista e secolare, è tornata improv-visamente in auge nell’ultimo anno proprio inquesta regione centrale del Paese, a poche ore ditreno da Delhi, con un livello d’istruzione medio-alto e buone infrastrutture, cerniera stradale edeconomica tra il Nord e il Sud dell’India.

Il 4 ottobre del 2005, vestita con i suoi abiti mi-gliori come quando aveva sposato il bel soldatoAnil Singh Tomar — morto in circostanze ancoranon del tutto chiarite —, Rinki aveva lasciato la ca-sa mentre il fuoco della pira funeraria già avvolge-va il corpo del marito. Tutti capirono dal suo ab-bigliamento che la ragazza stava per mettere in at-

Storia di Rinki, la sposachevuolbruciaresulrogo

RAIMONDO BULTRINI

Repubblica Nazionale

ANTICHE USANZEQui accanto,

la pira rituale

di un funerale

hindu in un’antica

stampa inglese

Nella foto

in basso,

Rinki Tomar

con in braccio

il figlioletto Goro

e in mano la foto

del marito Anil

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 13MAGGIO 2007

dato con il veleno, ma aveva anche un taglio allagola, un mistero che non è stato risolto. Forse Anilsi è davvero ucciso, diciamo alla vedova, forse nonsopportava più quella forzata lontananza? «No»,risponde lei quasi sdegnata. «Lui era felice di ser-vire il suo Paese e anche se rischiava la vita ognigiorno, sapeva che si trattava di un sacrificio ne-cessario per un soldato. Io stessa sarei stata orgo-gliosa di aver sposato un martire. Però ultima-mente era diventato strano, nervoso, diverso,aveva paura che gli spiriti maligni volessero farglidel male, come se qualcuno avesse fatto un sorti-legio di magia nera contro di lui. I suoi superiori loavevano messo sotto sorveglianza, perché per ve-nire a casa aveva abbandonato più volte il suo po-sto lungo il confine (non sono infrequenti i casi difughe e suicidi da paranoia tra i soldati indiani inKashmir, ndr). Ma mi domando perché, se era sot-to controllo, non gli hanno impedito di partire?Sono loro i responsabili della sua morte, eppureora il governo dice che è un disertore e che la suafamiglia non ha alcun diritto».

Per convincerla a non commettere sati le hannoperò promesso un lavoro, non è vero? «Sì, però nonè successo niente. La Croce Rossa ci ha dato cin-quemila rupie (cento euro), ma non voglio soldi,nemmeno un miliardo potrebbe estinguere la miapena. Con la mia educazione avrei forse potuto fa-

re un mestiere utile, l’insegnante oppure l’assi-stente sociale nei villaggi — perché qui mancanogli uni e gli altri — così da dare un senso a questa miavita... Invece niente». Rinki richiude il velo sul viso.Sembra non avere più voglia di parlare.

Rinki Tomar non è la sola donna indiana in que-sta condizione. Come le vedove, anche le moglimalvolute perché le famiglie non hanno potutopagare una dote adeguata vivono lo stesso sensodi vuoto e di prigione e giungono ad essere odiateo spesso uccise per un altro matrimonio più con-veniente. Per le femministe indiane il tentato sa-crificio di Rinki simboleggia comunque il retaggiodi una mentalità ancestrale inculcata nelle bam-bine fin dalla nascita, quella della loro apparte-nenza al marito e alla nuova famiglia.

Tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007 una dram-matica catena di sati, ben più efficaci di quello diRinki, hanno riportato il fenomeno all’attenzionedell’opinione pubblica indiana, dove ormai mi-lioni di donne delle città, nubili o vedove, studia-no e lavorano, vanno al cinema e flirtano, usano icomputer e guidano l’auto senza nemmeno la-sciarsi sfiorare dall’idea di potersi un giorno darealle fiamme. Il numero più alto si è verificato nelMadhya Pradesh. A Patna Tamoli, nel distretto diSagar — celebre per tre satinel 1950, nel 1961 e ap-punto nel 2006 — un intero paese è stato punito

l’estate scorsa dal governo con il blocco dei finan-ziamenti pubblici per non aver agito come gli abi-tanti di Dehra, che hanno fermato Rinki appena intempo. A Patna i figli e alcuni parenti della vedovasuicida sono stati addirittura arrestati con l’accu-sa di aver spinto psicologicamente la donna aduccidersi, così da potersi impossessare dei suoibeni e magari innalzare un tempio in suo onore eattirare i pellegrini che portano fiori, soldi e cibo.

Quando le chiediamo se è al corrente di questifatti, Rinki scrolla le spalle e riprende a parlare diquello che le sta a cuore: «Va bene, mi hanno fer-mato. Ma nessuno pensa che adesso ho problemiad allevare mio figlio? Un giorno questa casa saràdivisa e a me spetterà magari una stanza, senza sol-di per comprarmi il cibo, in mezzo a gente che miricorderà sempre mio marito. Senza di lui, prigio-niera del mio destino tra queste mura, non farò al-tro che continuare a soffrire». Le chiediamo se siadi religione induista. «Sì, ero devota della dea Dur-ga, ho fatto molti offerte per me e per mio marito.Ma gli dei non mi hanno aiutato e anche se non so-no arrabbiata con loro, non vado più al tempio».

Al di là della religione, secondo Girija Vyas, por-tavoce della Commissione nazionale femminile,è l’«arretratezza culturale» a favorire un «atteg-giamento mentale» ancora forte nelle aree rurali— la maggior parte del territorio indiano — «doveanche le autorità civili e la polizia, per non parla-re dei politici ultrareligiosi, sono vittime dellastessa logica e contribuiscono a mantenere in vi-ta un fenomeno del tutto irrazionale. Spesso lemotivazioni sono economiche: per impadronirsidei loro terreni o di altri beni, oppure per non do-verle sostentare, le vedove vengono spinte dai pa-renti a vivere di elemosine nei luoghi consideratisacri specialmente per loro, a Mathura o Varana-si, con la scusa che la loro esistenza è ormai dedi-cata non più agli uomini ma a dio. Altre finisconoper prostituirsi nei postriboli delle città».

Girija Vyas ammette che le leggi dello Stato, co-me quella sulla prevenzione del sati firmata daRajiv Gandhi nel 1986, «andrebbero fatte applica-re con campagne di massa» e magari con una pen-sione meno misera delle attuali duecento rupie almese per le vedove: meno di cinque euro. La leggeequipara infatti il sati a un omicidio e prevede pe-ne fino a sette anni di carcere per chi è ritenuto re-sponsabile di aver forzato la vedova a gettarsi tra lefiamme. È opinione generale, in ogni caso, che unalegge da sola non basti a cancellare costumi ance-strali, fatti risalire al sacrificio delle mogli e delleconcubine dei guerrieri rajiput che s’immolavanoper non cadere nelle mani degli invasori islamici.Oppure alla tradizione di un’alta casta di satrapi delBengala, i cui uomini intendevano evitare così il ri-schio di farsi avvelenare da una delle tante donnedel loro harem vincolando la loro vita alla propria.

Ma Rinki è lontana anni luce dalla scia di questetradizioni. Il dialogo aperto tra lei e la morte è cosìintimo da non essersi certo interrotto con il sacrifi-cio mancato nel giorno del funerale di Anil. «Nonc’è vuoto più pesante di quello che non si può riem-pire», dice. «Aspetterò un altro anno. Se tutto re-sterà com’è adesso, riuscirò in un modo o nell’altroa fare ciò che mi hanno vietato». Dall’intervista so-no passati tre mesi. Alcune rappresentanti dellaCommissione nazionale femminile ci hanno spie-gato che si tratta di un ricatto emotivo e che avreb-bero verificato i fatti. Ma la scadenza si sta avvici-nando e Rinki non ha cambiato intenzione.

Alle porte del villaggio di Dehra, lasciata allespalle la casa della giovane vedova, chiediamo al-la nostra guida locale se la donna potrebbe torna-re eventualmente dalla famiglia d’origine nell’Ut-tar Pradesh. «Nessuno la rivorrebbe», è la risposta.«I genitori o i fratelli dovrebbero prenderla in ca-rico con il bambino, perché ben pochi sono di-sposti a sposare una vedova. Dopo aver incassatoa suo tempo la dote, adesso è la famiglia del mari-to a doversi occupare di lei».

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Repubblica Nazionale

la memoriaMiti letterari

Il romanzo di Ferenc Molnàr compie cent’anni e l’Ungheriasi prepara a celebrarlo con mostre, convegni, video-rape parchi tematici. Ma quello che ancora non si riesce a fareè riconoscere a questo “libro per i giovani” il valoredi un manifesto dell’eroismo, di una profezia per adultisul secolo della “lotta per bande” e della “guerra fredda”

All’incrocio convia Màriauno stabile anneritoha preso il postodel “dolce Grund”Cancellato il campo,il lago e gli stagni,questa periferiasi è saldata al centro

Kilian, primo teatro della rivolta anti-co-munista del 1956, esibisce una facciatasporca di vetri rotti.

All’incrocio tra via Pàl e via Mària, dove siapriva «il dolce Grund», uno stabile anneri-to conferma il valore storico di un’operaequivocata in «romanzo per l’infanzia».Una targa in italiano, affissa nel 1990 dalGr3, recita: «A Ferenc Molnár, ai suoi ragaz-zi ed ai ragazzi di tutte le periferie». È unamedaglia alla memoria: cancellato il cam-po della via Pàl, questa periferia è scivolataa ridosso del centro. Nessun bambino, quicome nelle nostre città, potrebbe più tra-scorrere i pomeriggi vagando libero fra ter-reni vuoti e boschi sotto casa. Via Ràkos, do-ve abitava Nemecsek, non esiste più. Ilgrande Orto botanico, in Illes Utca, è statoridotto a un giardino nascosto tra due clini-che. Resistono le pericolanti serre libertystipate di palme, qualche “ginko” secolare.Il lago e gli stagni sono stati prosciugati, as-sorbita l’isola. Il municipio voleva tagliare icosti e chiudere: prima delle elezioni è sta-to fermato dalle proteste del quartiere.

La mappa della storia, grazie alla metro-politana, è rapidamente percorribile. Il suomondo però è scomparso: dietro i muta-menti urbanistici emerge l’estinzione diun’epoca sociale, di una cultura, di una ci-viltà demolite con maniacale accuratezza.Gli ungheresi, sui giornali, dopo un secolosi domandano se sono stati all’altezza diBoka, o del capo delle Camicie Rosse, FeriAts. I telespettatori hanno spinto I ragazzidella via Pàlal secondo posto del concorsoche ha eletto Le stelle di Eger miglior ro-manzo di tutti i tempi.

La lettura, nelle scuole, è obbligatoria.Tradotta in trentacinque lingue, l’operaha venduto cinque milioni di copie solo inpatria e ora viaggia a quota diecimila al-l’anno. Ma è imbarazzante, per i genitori,per gli intellettuali, o per i politici, ragio-nare sul suo significato profondo. «Abbia-mo costruito un Paese spaccato e semprepiù estremista — dice Adam Horvàt, regi-sta e nipote di Molnár — dove tutti tradi-scono e nessuno si pente».

Il giubileo si consuma così tra mostre,convegni, riedizioni commemorative,francobolli, inaugurazioni di statue etentativi di nuove riduzioni cinemato-grafiche. A metà ottobre, nel museoPetofi, verrà inaugurata la rassegnaEvviva il campo. In ogni sala un per-sonaggio, o un luogo del romanzo.«Il visitatore — dice la curatrice,Teréz Emod — vivrà come un pro-tagonista in viaggio dentro la sto-ria». Lo scultore Peter Szanyi col-locherà un monumento in ciòche resta dell’Orto botanico.Daniel Mann ha invece ideatoil “parco tematico” in piazza-le Corvin. «Sarà ricostruito ilcampo della via Pàl — dice— con segheria, magazzino,cataste di tronchi e trincea per lebombe di sabbia. I bambini potranno gio-care come ai primi del Novecento». La casaeditrice Mora ha ristampato il libro, affi-dando le illustrazioni a Péter Kovàcs. Qua-si esaurito. «Gli eroi possono fallire — spie-ga il direttore, Jànos Tòth — ma l’eroismo èeterno. Il debole che sconfigge il forte, il Be-ne che trionfa sul Male restano la matrice diogni fiaba. Il finale drammatico, in questocaso, trasforma in realtà ciò che nasce co-me finzione».

A Budapest è arrivato anche l’inglese An-tony Kemp. Nel 1967, quando aveva dodicianni, ha fatto la parte di Nemecsek nel filmdi Zoltan Fabri. Oggi è arredatore. Omoses-suale dichiarato, ha ammesso di non avermai letto I ragazzi della via Pàl. I giornali,scandalizzati, hanno titolato: «L’analfabe-ta Nemecsek è diventato gay». «L’iniziativapiù poetica — dice Matyas Sarkozi, l’altronipote di Molnár che vive a Londra — è sta-to il video-rap del cantautore Peter Geszti.Giovani graffitari ungheresi, sui loro skate-board, cantano e ballano la battaglia rac-contata da mio nonno. Potrebbe diventareun musical capace di parlare ai contempo-ranei». Il secolo della via Pàl resta così unagrande, bella, interessante, turistica, edifi-cante festa nazionale per bambini ed exadolescenti, come si potrebbe organizzareper I tre moschettieri, o per Zorro.

Taciute, quasi segrete, si mantengono

i n -vece negliarchivi ungheresila tragedia di Molnár, laprofezia della sua «lotta per ban-de», la «guerra fredda» combattuta control’amore per il suo romanzo. Nel 1907 l’Im-pero asburgico e le monarchie europee so-no agonizzanti. Le rivoluzioni popolari el’esplosione dei nazionalismi annuncianoconflitti sociali, dittature ideologiche e per-secuzioni razziali. «I ragazzi della via Pàl —dice Horvàt — nasce per caso. Ma ogni rigaè un manifesto contro il Male che da alloraci tiene in ostaggio». Il romanzo, dal 10 apri-le, esce a puntate sul Giornale degli studen-ti del ginnasio di via Lònyay, dove Molnáraveva studiato. Il vecchio professore di let-tere era ricorso all’ex alunno, già famosodrammaturgo, per fronteggiare un calo dicopie. L’autore rievoca la storia vera dallasua classe, scrive un episodio a settimana eregala tutto alla sua scuola.

«Amore per la patria ed esaltazione del-l’eroismo nazionale contro l’invasore stra-niero — dice lo scrittore Pàl Békés — tri-butano al racconto un immediato succes-so europeo. È l’età d’oro di Molnár. Finoagli anni Trenta i suoi testi vengono messiin scena contemporaneamente da oltreduecento teatri in Ungheria e all’estero.

I ragazzi della via Páltraditi dal NovecentoGIAMPAOLO VISETTI

BUDAPEST

Iragazzi della via Pàl compiono cen-to anni. L’Ungheria e l’Europa, chesono cresciuti con loro, li hanno tra-diti. Per questo, oggi, li celebrano.

Una società fondata sull’inganno rim-piange l’eroismo della lealtà, sepolto assie-me alla propria giovinezza.

Dopo un secolo, il mondo riscopre ancheFerenc Molnár. Il Novecento ha espulsol’autore che ha documentato il tramonto diuna grandezza e anticipato l’alba della fol-lia. Il Duemila lo richiama, a cinquantacin-que anni dalla morte in esilio, ammettendoinfine l’implacata sete di libertà e di infinito.Gli ideali per cui si è combattuto, contro ilterrore e la spietatezza delle ideologie, sem-brano spenti. Ma il campo di Jànos Boka eDeszo Gereb, del sacrificio di Erno Nemec-sek, resta illuminato dal sole.

L’anima di chi è invecchiato consuman-do il coraggio, sa che la vita si nasconde nel-la lotta, nobilitata dalle regole, per restare fe-deli al valore dei propri sogni. L’alternativa,il disprezzo delle avversità, è la corrotta re-gressione nella custodia dell’indifferenza.Così milioni di lettori si chiedono perché,istintivamente, sentono di dover partecipa-re alla glorificazione di una parabola laicache certifica il collettivo fallimento.

Le strade di Budapest, nell’anno delle ce-lebrazioni, testimoniano il paradosso diquesta discreta nostalgia per l’incompiutagenerosità dell’infanzia. Nelle librerie si ac-cumulano i puntuali seguiti di Harry Potter.Lungo i viali dei parchi pubblici, gli adole-scenti non gridano e non si rincorrono. Im-mobili e soli, sulle panchine, pigiano te-lefoni, videogame e mp3. Nell’ottavo e nelnono distretto, come dovunque, i cortili so-no diventati parcheggi e sulle praterie sonocresciuti palazzi.

La casa natale di Molnár, all’83 di Fe-rencz Korùt, è un edificio trascurato. Ilpianterreno è occupato da un negozio dimacchinari da palestra. Nell’appartamen-to dove è nato lo scrittore, nel 1878, abita lafamiglia Pàsztor, omonima dei prepotentifratelli del suo romanzo. La vicina caserma

LO SCRITTOREFerenc Molnár

in un fotoritratto

di Nickolas Muray

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13MAGGIO 2007

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Repubblica Nazionale

L’Orto botanico,in Illes Utca, è ridottoa un piccolo giardinotra due clinicheResistonole pericolanti serreliberty stipatedi palme e qualcheginko secolare

Poi la sua previsione, ossia la perdita delcampo-patria e la sconfitta di tutti i con-tendenti (ragazzi di via Pàl e Camicie ros-se) per mano di un oscuro nemico esterno,si avvera». L’Europa è devastata da Primae Seconda guerra mondiale. Esplode ladittatura del nazismo e del comunismo. Siconsuma l’orrore anti-semita. Molnar èebreo e di famiglia borghese. Vaga tra Ita-lia, Austria e Francia. Brucia tre matrimo-ni. Lettere e documenti rinvenuti ora a Bu-dapest, rivelano che già nel 1925 intuiscela catastrofe. «Nel 1927 — dice il nipote —vende la casa di Berlino. Dal 1937 non met-te più piede in Ungheria. Le sue operescompaiono dai cartelloni teatrali. Nel1942, sulla stessa nave di Ingrid Bergman,fugge definitivamente a New York».

Il destino dei ragazzi della via Pàl si sepa-ra così da quello di Molnár. Il romanzo,troppo amato dalla gente per poter essereproibito dalle autorità, viene ridotto a unamelodrammatica storia per bambini. Loscrittore, in quanto ebreo, è perseguitatodai fascisti fino al 1945. Come borghese, fi-no alla morte, è invece sopportato dai co-munisti. «Se fosse tornato in patria — diceil presidente degli editori ungheresi, PeterZentai — sarebbe finito in un campo di la-voro e non avrebbe più potuto pubblicare».Le accuse trovate negli archivi sono chiare.Ai tempi dell’Urss Molnár doveva esserepresentato come un «cosmopolita borghe-se che ha sacrificato il talento per il succes-so nei paesi capitalisti».

Anche i ragazzi della via Pàl facevanopaura al regime. I bambini-eroi danno vitaalla “Società dello stucco”, dove il capo vie-ne eletto democraticamente. La delazionee il tradimento, simboleggiati da Gereb,vengono disprezzati anche da chi può trar-ne vantaggio. Le “Camicie rosse” di Ats, de-stinate alla sconfitta per la sete di conqui-sta, sono invece un regime fondato sullaforza del leader e sull’autoritarismo. La de-mocrazia umanistica dei ginnasiali, preva-le sul decisionismo scientifico degli allievidell’istituto tecnico.

Nel 1907, a Vienna, l’imperatore non ap-prezzò il «parlamentarismo» di Molnár.Nel 1947, da Mosca, Stalin iniziò a demoli-re il suo «indipendentismo magiaro». «Unanno prima — dice Csilla Csorba, direttricedel Museo letterario ungherese — Molnáraveva scritto riservatamente al primo mi-nistro. Alludeva alla possibilità di un ritor-no a Budapest. Il vecchio amico, lo dissua-se». Una condanna ufficiale, da parte delleautorità, non è mai arrivata. NemmenoMolnár si è esplicitamente dissociato dalcomunismo. «Ma negli auguri di fine annotrasmessi via radio dagli Usa — dice AdamHorvàt, dieci anni agli arresti come «nemi-co del popolo» — nel 1951 e nel 1952 miononno fece inequivocabilmente capire aiconnazionali le ragioni del suo esilio».

È difficile, parlando oggi con i pensio-nati seduti davanti alle torte del caffè Ger-baud, sopravvissuti a Krusciov e a Kàdàr,capire le ambigue ragioni di un successo

tanto subìto e travisato. Assistendo ai ra-duni dell’estrema destra contro il gover-no, sotto il parlamento, o sfilando con chidenuncia il nuovo dilagare di xenofobia eantisemitismo, la storicizzazione ludicadei ragazzi della via Pàl risulta invece me-no oscura.

A un secolo dalla pubblicazione, il saltoda «romanzo per ragazzi» a «denuncia de-gli adulti» resta vietato. In Ungheria e nel re-sto del mondo nemmeno un teatro è inti-tolato a Molnár. «Boka e Feri Ats — dice il re-gista Gyorgy Vidovszky — lottano lealmen-te per il campo da gioco, ossia per la libertà.Concordano le regole della battaglia, ren-dono onore allo sconfitto, riconoscono diaver perso, sanno chiedere scusa, rifiutanoil tradimento, perdonano chi sbaglia e pu-niscono i soprusi. Di fronte alla morte, “perla prima volta intuiscono quel che è vera-mente la vita”. È un testo ancora impresen-tabile, per i potenti della terra».

I ragazzi della via Pàl si legge così nellescuole, per dovere, ma non in famiglia. «Ese venisse distribuito in parlamento — di-ce Békés — metà dei deputati nemmeno loaprirebbe. La febbre di potere dei partiti ri-corda quei bambini, tra i quali solo il canedel custode Jano (Ettore, ndr) è rimasto sol-dato semplice. Le guerre di Bush sono l’op-posto della battaglia nel campo all’angolocon via Mària. La multirazzialità della “So-cietà dello stucco” è il contrario del razzi-smo che alimenta l’estremismo dei conser-vatori europei. L’interventismo ecclesia-stico nell’ordinamento degli Stati si infran-ge contro l’assenza di riferimenti alla fedescelta da Molnár. Speculazioni immobilia-ri e distruzione della natura confermano ladisperazione di chi «fuggì da quella terra in-fedele che li abbandonava per prendersisulle spalle, per sempre, un palazzone d’af-fitto». Una società di opportunisti, dovetutto è in vendita, non può condividere l’in-dignazione contro «l’impiegato comunaleche pretende subito il vestito nuovo, men-tre il figlio del sarto sta morendo».

Dal più inquieto Paese della Ue, assie-me alla Polonia, parte un richiamo preci-so contro le vendette dei vincitori, l’odiodegli esclusi e le nostalgie degli sconfitti.«Purtroppo — dice Matyas Sarkozi — ilmessaggio è accuratamente occultato inun anniversario letterario, o confinatonel recupero turistico di un vecchio par-co-giochi di periferia».

Ha senso allora che un mondo di vigliac-chi celebri l’anniversario di una fiaba che èil Manifesto dell’eroismo umano? O cheuna società gerontocratica, che centellina ifigli, esalti il romanzo che dimostra comesolo i giovani hanno la grandezza per argi-nare l’ingiustizia che governa l’esistenza?Verrebbe da rispondere di no, pensando al-le transoceaniche battaglie per i dirittid’autore, o alla secolare e contrapposta mi-stificazione ideologica che ha travolto Mol-nar e i suoi ragazzi. Ma nella serra “Victoria”dell’Orto botanico di Budapest, dove Ne-mecsek si era immerso tra le ninfee gigantiper sfuggire ai Pasztor, si è convinti che in-vece la risposta sia sì.

Cent’anni dopo, è una sera calda dei pri-mi di maggio. Il Danubio scorre viola. Unpappagallo tropicale sovrasta il gracidaredelle neonate rane. Le samare bianche deitigli diffondono il profumo degli ippoca-stani. Due bambini si contendono due sas-si da gettare nello stagno. Il più robusto sot-trae anche quello del più gracile e, precipi-tando nello sgomento la vecchia bigliet-taia, lancia lo spaventoso, ormai eterno gri-do del sopruso: «Einstand!». Sta per tirare.Scivola sulle foglie marcite dell’inverno e lepietre ruzzolano nello scavo per il trapian-to dei bulbi di tulipano. Ferenc Molnar, sullettino operatorio dove morì sotto i ferri,interruppe i chirurghi impegnati a scam-biarsi i titoli professionali: «Permetteteche mi presenti anch’io, sono il malato».Le sue ultime parole, tra le risate. I duebambini di Budapest, diversamente bat-tuti, se ne vanno ora riappacificati dalladelusione, tenendosi per mano. Dopo unsecolo, vogliono dire che i ragazzi della viaPàl sono stati traditi da tutti i loro lettori,che oggi li portano in trionfo. Ma che re-stano i più forti. Perché il destino umano èla sconfitta: ma adesso sappiamo che solocombattere eroicamente, per non tradirese stessi, vale la pena.

COPERTINEAl centro,

illustrazione d’epoca

de I ragazzi della via Pále, in piccolo,

alcuni disegni

di G. Toffolo

tratti dall’edizione

1964 dell’Editrice

Boschi

Ai lati delle pagine,

una serie di copertine

Così Budapest lo ricorda un secolo dopoI ragazzi del via Pàl apparve a puntate su un giornalino scolastico dal 10 aprile

1907. Per celebrarne i cento anni, dall'11 ottobre 2007 fino al 30 giugno 2008

al Museo Petöfi di Budapest sarà aperta la mostra Evviva il campo. Nell'Orto

botanico sarà inaugurato un monumento. Dietro il cinema Corvin sarà aperto

il parco tematico della via Pàl: fedelmente ricostruito il campo descritto

da Molnàr, si potrà giocare come se ci risvegliasse nella battaglia tra bambini

di un secolo fa. Cinema e tivù ritrasmetteranno i quattro film tratti del romanzo,

documentari, interviste agli eredi di Molnàr. Gli scolari, in autunno, saranno

invitati a sorpresa a svuotare le tasche: il contenuto sarà raccolto, confrontato

con quello delle tasche di Csònakos descritto nel libro, e esposto in una mostra

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 13MAGGIO 2007

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Repubblica Nazionale

i luoghiVite di confine

La capitale dell’Afghanistan aveva novecentomila abitantisei anni fa, alla cacciata dei Taliban. Oggi ne ha quasicinque milioni. E tutti, a piedi, sulle pesanti biciclettecinesi, sui taxi sgangherati, sono in perenne e freneticomovimento. Dentro la anormale normalità di un’altalenaincessante tra i pericoli della guerra e le speranze di pace

Al piccolo Nadir brilla lo sguardomentre mi offre un tappeto

istoriato con gli aereiche abbattono le torri gemelle

Il Serena Hotel è un cinque stelle,il primo quaggiù. Si paga cash

e in anticipo: non si sa maicosa possa capitare al cliente

VOLTI. Le foto di queste pagine, tutte di abitanti di Kabul, sono state scattate dal nostro inviato Attilio Bolzoni

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13MAGGIO 2007

ATTILIO BOLZONI

Quando nell’autunno del 2001 imujaheddin dell’Alleanza del Nord ri-tornarono da vincitori a Kabul si im-possessarono di queste belle case, letrasformarono nei loro quartier gene-rali. Le più grandi furono affittate aprezzi stellari, quasi sempre ai giorna-listi europei che arrivavano stremati daQuetta, da Peshawar, da Islamabad.Diventarono le prime “Guest House” diKabul. Adesso sono le dimore dei nuo-vi ricchi dell’Afghanistan.

In mezzo alle macerie e alle miseriedi Kabul c’è un ventre opulento, inso-spettabile, protetto da sorveglianti cheimbracciano kalashnikov e celanobombe a mano sotto i giubbotti. È il pri-mo albergo a cinque stelle in questocuore d’Asia. La hall è grande, lumino-sa. Tutto luccica di lusso nel Serena Ho-tel che ha voluto l’Aga Khan nel centrodella capitale, trentacinque milioni didollari di investimenti, 177 camere,suite, beauty salon e business center. Sipaga solo cash e sempre anticipato,non si sa mai cosa può capitare allostraniero di passaggio. Una camera co-

sta 255 dollari a notte. Jamil è uno dei barman del Serena. È

bravissimo a fare il caffè espresso all’i-taliana, offre pistacchi, succhi di frutta,con i samovar colmi di tè porta anchepasticcini e semi secchi di albicocca,uva passa, pinoli. È un bar molto forni-to quello del Serena, gli alcolici natu-ralmente sono al bando. «Non so doveli vendono», risponde Jamil. E poi con-tinua a servire ai tavoli.

Lo sa Naser, il giovane autista che miaccompagna da qualche giorno dentroKabul. Mi confessa che non ha mai pro-vato quella vodka ghiacciata che di tan-to in tanto si scola in solitudine il suoamico, quello che stiamo andando a in-contrare per avventurarci in un quar-tiere lontano e comprare una bottigliadi whisky. È complicato fare certi ac-quisti in Afghanistan. Scende dall’autoprima Nadir, dà un’occhiata in un nuo-vo supermarket che c’è nella zona del-le palazzine grigie, eredità della domi-nazione di Mosca, quartieri a blocchi,tipica architettura in stile soviet. Tornaa mani vuote e allora scende dall’auto il

suo amico. Ridiscende un’altra voltaNadir. Dopo quasi un’ora Nadir arrivasconsolato con una bottiglia nascostadentro una borsa di plastica: «Non hotrovato whisky mi dispiace, c’è soloquesta: è Johnnie Walker Red Label». Efa una smorfia di rammarico. Nadirnon sa che dentro quella busta c’è quel-lo che cercavamo.

Hanno facce tutte uguali e tutte di-verse gli uomini di Kabul. Le più fanta-stiche sono quelle dei guardiani diEmergency, gli angeli custodi dell’o-spedale di Gino Strada e della sua casache sta proprio là di fronte. Sono tuttibarbuti, forzuti, duri, rigidi come pali.Dopo una prima diffidenza verso l’e-straneo e qualche chiacchiera, i sorve-glianti di Emergency si rivelano simpa-tici, affettuosi, felici di darti un consiglioo un aiuto. Sembriamo già vecchi amicidopo pochi minuti. È l’Afghanistan.

Fanno a pezzi i capretti nelle macel-lerie sulle traverse della Shahar-i-Now,vendono spezie, riso, arance, melogra-ni. Ma non conviene più riempire lozaino per una spesa, ci sono almeno

KABUL

Sulla porta della bottega c’èNadir, un ragazzino vestitodi stracci. È seduto sul gradi-no, ha in mano due pietre di

un blu profondo con venature dorate.Lapislazzuli. «Le vuoi comprare?»,chiede poco convinto mentre guardocascate di pashmine e di scialli chescendono dal soffitto. Poi mi invita aentrare, sorride, si arrampica sulle sca-le: «Vieni, vieni anche tu che ti faccio ve-dere qualcosa che ti piacerà». La botte-ga è al buio, a quest’ora non c’è maienergia elettrica a Kabul. Puzza di chiu-so, di vecchio. Da una montagna di tap-peti ne tira fuori uno più piccolo deglialtri, lo stende a terra. Nadir ha occhiche sembrano ciliegie, brillano. È fierodi quello che mi sta mostrando sul pa-vimento del negozio di suo padre aChicken Street, la strada dello shoppingper gli occidentali, collane di ambra, co-ralli, argenti, turchesi. È una guida ret-tangolare, di fattura grossolana. I coloridominanti sono il marrone e il rosso, ildisegno raffigura gli aerei che l’11 set-tembre puntano sulle torri gemelle.«Venti dollari se ne compri una, quindi-ci se ne compri due, là sotto ne ho altredi più belle e di più grandi», dice Nadir inun mattino di primavera a Kabul.

È stato un inverno freddo e anchepiovoso, il sole esce ancora a fatica frale creste delle montagne che circonda-no questa sacca di umori aspri e di bru-talità che è la capitale dell’Afghanistan.I suoi abitanti erano novecentomilaquando sei anni fa avevano cacciato iTaliban, oggi sono quasi cinque milio-ni. E sono tutti in movimento perenne,fino al tramonto. Si spostano a piedi,con pesanti biciclette cinesi, qualcunoanche sui taxi. Verso mezzogiorno inalcune strade il traffico sembra quellodi Bagdad. Assurdo. Ci sono vapori an-cora più fetidi, si appiccicano sulla pel-le, sui capelli, sui mantelli che avvolgo-no gli uomini, sui burqa che nascondo-no le donne.

Piove ancora sulla Jalalabad road, lastrada più cattiva di Kabul. Piove anchesui teloni dove un altro Nadir, un altroragazzino della città più pezzente facuocere i suoi ceci in un pentolone. Hale labbra screpolate dal freddo, un naso-ne da pugile, i capelli rasati. Intorno alsuo bivacco c’è solo fango. In lontanan-za sale già il fumo dell’ultimo attentato,l’ultimo kamikaze che si è lanciato con-tro un convoglio militare americano.Quanti morti? Più o meno di quelli di ie-ri al vecchio bazar di Jadi Maiwand?Quanti morti? Più o meno di quelli di ie-ri l’altro vicino alla grande moschea? Ka-bul non tiene mai la conta delle sue per-dite. Kabul cerca di sopravvivere.

Passano veloci all’incrocio i blindatidelle forze Nato, sfrecciano per le vieche raggiungono le caserme, i grandifortini dove i militari americani o ingle-si o italiani sono asserragliati, circon-dati da chilometri di filo spinato. Gli af-gani si voltano dall’altra parte, fingonodisinteresse, indifferenza. Non guar-dano più nemmeno quei poliziotti delloro stesso sangue, infagottati in divisesempre troppo lunghe e troppo larghe.Quelli che vigilano sulla sicurezza deisoldati «invasori». Non ci sono vendito-ri ambulanti nelle vie delle caserme,non ci sono mendicanti, non ci sonobambini che camminano per tutto ilgiorno con i loro bracieri di incenso o dicarbone per racimolare qualche dolla-ro. E lì, neanche le vedove delle tanteguerre dell’Afghanistan allungano ma-ni per la carità. Sono vie deserte. Comequelle fra le case di Wazir Akbar Khan,il quartiere più esclusivo, al confine conil vialone che porta all’aeroporto. Villenascoste da palizzate di cemento, siscorgono solo le cime degli alberi.

trenta nuovi ristoranti nell’incredibileKabul del 2007. Non si mangia più solokebab. C’è un bistrò vicino al vecchiohotel Intercontinental, nel menu ci so-no anche «pennette al pesto». Ha appe-na aperto un francese, L’Atmosphère.Si mangia pizza, la portano anche a do-micilio. Il migliore ristorante però è LaTaverne du Liban, alle spalle di WazirAkbar Khan. Hummus, falafel, ali di pol-lo marinate in olio e limone, minestre dilenticchie al profumo di cannella.

Quante Kabul ci sono a Kabul? «Tan-te», spiega Ashraf che è un hazara, unodi quei tre o quattro milioni di discen-denti mongoli delle armate di GengisKahn che una volta erano tutti insedia-ti nella meravigliosa valle di Bamyan.Là c’erano i giganteschi Budda, primache i Taliban li facessero saltare in ariacon l’artiglieria. Ashraf guida un taxi, civuole portare al lago di Qargha dove neigiorni di festa gli afgani fanno il picnicsulle rive. Ci racconta del nuovo centrocommerciale con le scale mobili, le uni-che che esistono in tutto l’Afghanistan.Sembra tanto lontana Kandahar daquesta Kabul che ha voglia di vedere lasua luce, lontana è la provincia del-l’Helmand e anche Ferat e LashkarGha, i regni dei Taliban, i territori proi-biti dove i “soldati di Dio” assaltano esequestrano e i caccia americani bom-bardano.

Di notte però Kabul si fa all’improv-viso cupa in ogni suo vicolo, sempre av-volta in un silenzio lugubre. Ogni due otre giorni le ambasciate occidentalidiffondono a tutti i loro connazionaliun comunicato via mail. Li avvertonodei pericoli notturni. A volte avvisanoche qualche intelligence ha avuto co-noscenza di imminenti attacchi suicidinei dintorni di alberghi o palazzi gover-nativi, a volte informano «della presen-za di gruppi armati» che attaccano au-to civili anche nel quartiere di Shash-dark. È proprio nella zona della capita-le blindata, fra le ambasciate e il co-mando Nato. La raccomandazione pertutti gli occidentali è sempre quella:«Mantenete un atteggiamento di bassoprofilo». In altre parole: non fatevi rico-noscere come occidentali.

Per arrivare o per partire da Kabul c’èsolo l’aeroporto. C’è una compagniaprivata e c’è quella di bandiera, l’Aria-na. È sulla “lista nera” delle linee a ri-schio. L’orario dei voli è incerto, i con-trolli di sicurezza tanti e inutili. Si puòtrasportare tutto sugli aerei dell’Aria-na. Un volo molto frequentato è quellodelle 14,30 per Dubai, scalo a Kan-dahar. Bisogna presentarsi al corpo diguardia dell’aeroporto quattro ore pri-ma. Le strade che portano al banco deicheck in sono fogne a cielo aperto, sul-le pareti della squinternata aerostazio-ne ci sono solo manifesti di Massud, «ilLeone del Panshir», leggendario co-mandante che prima ha sconfitto l’Ar-mata Rossa e poi combattuto i Taliban.«Aspetta qui per venti minuti», ordinaSharif, il poliziotto dell’ultimo control-lo. Poi sussurra: «Baksish». Vuole lamancia Sharif. Con due dollari i ventiminuti diventano venti secondi.

Alle quattro del pomeriggio final-mente l’aereo si alza fra audaci evolu-zioni per schivare vette affilate e bian-che di neve. È un vecchio e rattoppatoBoeing 727, riciclato da chissà qualecompagnia europea o dell’estremooriente. È pieno. I passeggeri sono tutticon i sandali ai piedi, con il turbante intesta e addosso hanno il salwar kamiz,il tradizionale abito afgano, pantalonilarghi e stretti in vita da una cintura. So-no tutti pasthun. Molti tornano a casa,nei villaggi intorno a Kandahar. Altrivanno a Dubai per fare i manovali. La-voratori stagionali. Stanno là tre o quat-tro mesi per raccogliere un po’ di dena-ro. E riportarlo a Lashkar Gha, a Bala-boluk, a Mayvand, le loro montagne, iloro deserti, il mondo dei pasthun.

Kabul, la città dalle mille facce

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 13MAGGIO 2007

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13MAGGIO 2007

PALERMO

lunedì 5 ottobre 1835

Come il capitano ci aveva detto,trovammo il nostro equipag-gio al porto. A venti o trentapassi dalla riva, la nostra pic-

cola speronara ondeggiava vivace, armo-niosa e leggera tra i grandi bastimenti, si-mile a un alcione tra un nugolo di cigni. [...]Fu con vivo piacere, lo confesso, che mi riu-nii ai miei bravi e buoni marinai sulla co-perta così ben pulita e lustra della nostrasperonara. Infilai la testa nella cabina: i no-stri due letti erano perfettamente in ordi-ne. Dopo tante lenzuola dalla pulizia al-quanto dubbia, era un vero piacere veder-ne di un candore così abbagliante. [...] Era-vamo appena arrivati a bordo che la nostrasperonara si mosse, scivolando dolce-

mentesotto lo

sforzo deiquattro re-

matori, e ci al-lontanammo dal-

la riva. Ai nostri occhiiniziò allora a delinearsi

Palermo in tutta la sua magnifi-cenza, dapprima come agglomerato con-fuso, poi allargandosi, allungandosi,estendendosi in bianche ville sparpagliatetra aranceti, querce e palme. [...]

6 ottobre, Alicudi e LipariAl nostro risveglio, il vento ci aveva spin-

to a nord; navigavamo di bolina per dop-piare Alicudi, ma lo scirocco e il grecale chesoffiavano insieme facevano a gara a nonpermettercelo. Per conciliarli o dar loro iltempo di calmarsi, ordinammo al capita-no di accostare il più possibile all’isola e dimettersi in panna. [...]

Alicudi è l’antica Ericodes di Strabone, ilquale, come tutti gli antichi, conosceva so-lo sette isole Eolie: Strongyle, Lipara, Vul-cania, Didyme, Phoenicodes, Ericodes edEvonimos. [...] È difficile imbattersi in qual-cosa di più triste, più tetro e desolato diquest’isola infelice che forma il lato occi-dentale dell’arcipelago delle Eolie. È un an-golo della terra dimenticato al momentodella creazione, è rimasto al tempo delcaos. Nessun sentiero raggiunge la sua vet-ta o segue le sue coste; alcune piste tortuo-se, scavate dalle acque piovane, sono gliunici camminamenti offerti ai piedi mar-toriati dalle pietre taglienti e dalle asperitàdella lava. Su tutta l’isola non un albero,non uno spicchio di verde su cui riposaregli occhi; soltanto, sul fondo di qualche gra-vina, tra gli interstizi delle scorie vulcani-che, rari steli di quell’erica che ha indottoStrabone a chiamarla, a volte, Ericusa. Ep-pure, su questo cantuccio di lava rossastravivono in misere capanne centocinquan-ta o duecento pescatori, che hanno cerca-to di sfruttare le rare briciole di terrenosfuggite alla distruzione. [...]

Lipari, con la sua roccaforte costruita suuna rupe e le sue case che assecondano lecurve del terreno, offre un’immagine dellepiù suggestive. [...] Appena entrati nel por-to ci mettemmo alla ricerca di un albergo.

be. [...] Dopo una seconda arrampicata dicirca un’ora ci trovammo sul ciglio del se-condo vulcano; al suo interno, in mezzo alfumo che fuoriusciva dal centro, scorgem-mo una miniera intorno alla quale s’affan-nava un’intera popolazione. Ci vollero cir-ca venti minuti per raggiungere il fondo diquella immensa caldaia; via via che scen-devamo, il calore del sole, combinandosicon quello della terra, diveniva più inten-so. Arrivati alla fine della discesa fummoobbligati a fermarci un momento: l’aria eraappena respirabile. [...] Sarebbe stato diffi-cile vedere qualcosa di più bislacco dell’a-

spetto di quegli infelici forzati: a secondadei diversi filoni di roccia a

cui lavora-

va-no, avevano finitocoll’assorbirne il colore; alcunierano gialli come canarini, altri rossi comegli uroni, questi infarinati come pagliacci equelli tinti con il bistro come mulatti. Nonera facile credere, di fronte a quella ma-scherata grottesca, che ciascuno degli uo-mini che ne facevano parte era lì perchéaveva rubato o perché aveva ucciso. La no-stra attenzione era stata attratta in partico-lare da un ragazzetto d’una quindicinad’anni dalla figura aggraziata come quellad’una fanciulla. Chiedemmo qual era il suoreato: all’età di dodici anni aveva uccisocon una coltellata un domestico della prin-cipessa di Cattolica. [...]

Panarea e Stromboli, 8 ottobreCi risvegliammo di fronte a Panarea. Il

vento era stato contrario tutta la notte e,

Nel 1835 l’autore de “I tre moschettieri” navigò attraverso l’arcipelagosiciliano a bordo di una piccola “speronara” e ne ricavò un racconto vividoe dettagliato di questi scogli sconvolti dal fuoco, arroventati e quasi fusi,

dove ogni piccola macchia di verde sembrava un “frammento di cielo caduto sulla Terra”Adesso un libro di Nuages e una mostra rievocano quella bizzarra avventura

PALERMO

Cercammo da un capo all’altro della città:né la più piccola insegna né il più miseroostello. Ce ne stavamo là [...] quando scor-gemmo una gran ressa davanti a una por-ta; ci avvicinammo fendendo la folla e ve-demmo un morticino di sei o otto anni ada-giato su un povero giaciglio. Eppure la suafamiglia non sembrava particolarmenteafflitta; la nonna s’occupava delle faccen-de domestiche, un altro bimbo di cinque osei anni giocava rotolandosi per terra condue o tre lattonzoli. Solo la madre sedeva aipiedi del letto, ma, invece di piangere, par-lava al cadaverino a una velocità tale chenon riuscivo ad afferrare una parola. Do-mandai a un vicino quale fosse la ragionedi quello sproloquio, ed egli mi rispose chela madre stava affidando al figlio dei mes-saggi per il padre e il nonno, morti l’unol’anno precedente e l’altro tre anni prima;tali messaggi erano alquanto sorprenden-ti: il figlio aveva l’incarico d’informare l’ar-tefice dei suoi giorni che sua madre stava

per rimaritarsi, e che la scrofa avevascodellato sei cinghia-

letti belli

come angeli. In quel momento due france-scani vennero a portar via il cadavere. [...] Ilferetro non aveva ancora superato la sogliache già la madre e la nonna si mettevano ariordinare il letto per cancellare anche l’ul-tima traccia di quanto era accaduto. [...]

Dalla cima di Campo Bianco si domina-va l’intero arcipelago; così come la visualeche ci circondava era magnifica, altrettan-to quella che si spiegava sotto di noi era cu-pa e desolata. Lipari non è altro che un am-masso di pietre e di scorie; dalla distanza acui eravamo, persino le case sembravanodei cumuli di pietre affastellate alla rinfusa,e su tutta l’isola a malapena si distingueva-no due o tre macchie di verde — che sem-bravano, per servirmi della definizione diSannazzaro,dei frammenti di cielo cadutisulla terra. [...]

7 ottobre, VulcanoUn tratto di mare largo appena tre miglia

separa Lipari da Vulcano. [...] Vulcano, si-mile all’ultimo relitto d’un mondo deva-stato dal fuoco, si protende dolcemente inmezzo al mare che sibila, freme e ribolletutt’intorno a lui. È impossibile, neanchedipingendola, rendere l’immagine di que-sta terra sconvolta, arroventata e quasi fu-sa. Non capivamo, alla vista di quellastraordinaria apparizione, se il nostroviaggio era solo un miraggio e se quella ter-ra fantastica sarebbe svanita davanti a noinel momento in cui avremmo creduto diposarvi il piede. [...]

Iniziammo a salire verso il cratere delprimo vulcano; a ogni passo udivamo laterra risuonare sotto i nostri piedi come sestessimo camminando su delle catacom-

malgrado i nostri uomini si fossero dati ilcambio alla voga, non avevamo fatto mol-ta strada: eravamo ad appena due migliada Lipari. Il mare era perfettamente calmo:diedi quindi ordine al capitano di mettersiall’ancora e di fare le provviste per la gior-nata, ma soprattutto di non dimenticare learagoste. [...] Dopo circa un’ora di sosta aLisca Bianca, vedemmo la speronara cheiniziava a muoversi e s’avvicinava a noi. [...]Il capitano aveva eseguito alla lettera il mioordine: aveva fatto una tale scorta di asticie di aragoste che non si sapeva più dove po-sare i piedi, tanto il ponte ne era invaso; die-di ordine di metterli tutti assieme e di con-tarli: ce n’erano quaranta. Rimproverai al-lora il capitano, accusandolo di volerci ro-vinare, ma lui mi ribatté che avrebbe presoper sé quelli che non volevo, visto che nonera possibile trovarne di così a buon mer-cato; veramente, quando ci rese il conto,

dimostrò che la spesa assomma-va a dodici fran-

chi:aveva compratoin blocco l’intera pescata d’unabarca a due soldi la libbra. L’escursione aLisca Bianca ci aveva risvegliato un tre-mendo appetito; demmo perciò istruzio-ni a Giovanni di mettere in pentola per noie per l’equipaggio i sei esemplari più gros-si di quella bella compagnia, poi, per nonfar mancare nulla al nostro spuntino, fa-cemmo portare dalla cambusa sei botti-glie di vino. [...]

Arrivammo a Stromboli verso le sette disera. [...] Dieci minuti dopo eravamo or-meggiati a sessanta passi dal versante set-tentrionale della montagna. Era nelleprofondità di Stromboli che Eolo tenevaincatenati luctantes ventos tempestatesquesonoras. Al tempo del cantore di Enea,quando Stromboli si chiamava Strongyle,certamente l’isola non era ancora cono-sciuta per quello che è e andava preparan-do nelle sue viscere quelle infuocate eru-zioni cicliche che ne fanno il vulcano piùgentile della terra. Con Stromboli, infatti, sisa cosa aspettarsi: non è come il Vesuvio ol’Etna, che per una seppur minima eruzio-ne fanno attendere il viaggiatore anche tre,a volte cinque, a volte dieci anni. Mi si diràche ciò dipende senza dubbio dal postoche essi occupano nella gerarchia dellemontagne che eruttano fuoco, un postoche consente loro di fare gli aristocratici co-me più gli aggrada: è vero; cionondimenobisogna ringraziare Stromboli di non es-sersi illuso neppure un istante sulla sua po-sizione sociale, e d’aver capito di essere so-lo un vulcano tascabile al quale nemmenosi presterebbe attenzione se si rendessetanto ridicolo da darsi delle arie. In difettodi qualità, dunque, Stromboli ripiega sullaquantità. E infatti non ci fece aspettare. Do-po appena cinque minuti di attesa si udì unrimbombare sordo, seguito da una deto-nazione simile a quella di una ventina dipezzi d’artiglieria che si mettessero a spa-rare tutti insieme, e un lungo getto di fuocos’innalzò in aria per poi ricadere in una

ALEXANDRE DUMAS

Alicudi

Filicudi

Dumas Eoliealle

“Con Strombolisi sa cosa aspettarsi:le sue infuocateeruzioni ciclichene fanno un vulcanotascabile, il piùgentile della Terra”

Grand Toursotto i vulcani

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 13MAGGIO 2007

REGGIO CALABRIA

alta nuove pietre e nuove lave che, rica-dendo e otturando la bocca di sfiato, pre-parano una nuova eruzione. Visto da doveci trovavamo noi, cioè dall’alto verso ilbasso, è uno spettacolo superboe orrido a un tempo; a ogniconvulsione che lamontagna vive nel-le sue viscere lasi sente tre-mare sot-to di sée

sembra che stia per spaccarsi; poi arrival’esplosione, simile a un gigantesco alberodi fuoco e fumo che agita le sue foglie di la-va. Mentre ammiravamo quella meravi-glia, il vento cambiò d’un tratto: ce ne ac-corgemmo dal fumo del cratere che, inve-ce d’allontanarsi da noi come aveva fattosino ad allora, piegò su se stesso come unacolonna che crolli e si diresse verso di noi,avvolgendoci nelle sue spire prima cheavessimo il tempo di sfuggirgli. Al con-tempo, la pioggia di lava e pietre, sollecita-ta dalla stessa forza, cadde tutt’attorno anoi: rischiammo di venir soffocati dal fu-mo e insieme di essere uccisi o arsi daiproiettili. Ci ritirammo dunque tutti preci-pitosamente verso un altro pianoro, piùbasso d’un centinaio di piedi e più vicinoal vulcano [...].

Quello stesso giorno, alle quattro del po-meriggio, uscimmo dal porto. Il tempo eramagnifico, l’aria tersa, il mare appena in-crespato. [...] Avevamo concluso la nostra

esplorazione di tutto quel fa-voloso arcipelago

che Stromboli il-lumina come

un faro.

pioggia di lava; una parte di tale pioggiarientrò nel cratere del vulcano, mentre l’al-tra, scivolando lungo il pendio, precipitòcome un torrente di fuoco e andò a estin-guersi sfrigolando nel mare.Il fenomeno siripeté dopo dieci minuti, e così fu a inter-valli di dieci minuti per tutta la notte. Con-fesso che quella fu la notte più straordina-ria della mia vita.

9 ottobre, Stromboli[...] Erano quasi le otto del mattino: per

salvaguardare la nostra ascensione dallatroppa calura ci met-temmo subito inmarcia. La vettadi Stromboli è asoli dodici,quindicimilapiedi sopra il li-vello del mare,ma la sua penden-za è così ripida che nonla si può affrontare in linea retta: bi-sogna sempre zigzagare. All’ini-zio, uscendo dal villaggio, il cam-mino era stato facile: s’inerpica-va in mezzo ai vigneti carichi diquell’uva che costituisce tuttoil commercio dell’isola; i grap-poli ne pendevano in così grannumero che chiunque ne co-glieva a piacere senza nean-che pensare a chiedere il per-messo al proprietario. Unavolta usciti dalla zona dellevigne, però, non c’era più al-

cun sentiero e do-

v e m -mo procedere a caso,cercando il terreno più fa-cile e le pendenze menoscoscese.Malgradotutte que-ste precau-zioni, ar-rivò il mo-mento incui fummocostretti asalire car-poni; masalire nonera niente:c o n f e s s oche, supe-rato quelpunto e voltatomi indietro, lo vidi così ri-pido e a picco sul mare che chiesi terroriz-zato come avremmo fatto a ridiscendere.Le guide risposero che saremmo scesi daun altro versante, e questo mi tranquil-lizzò un poco. [...] Il cratere di Stromboli hala forma d’un enorme imbuto, al fondo enel mezzo del quale c’è un’apertura attra-verso cui un uomo riuscirebbe a malape-na ad entrare e che comunica con il cami-no nel cuore della montagna. È questaapertura, simile alla bocca d’un cannone,a scagliare un nugolo di proiettili che, rica-dendo nel cratere, si trascinano dietro pie-tre, ceneri e lava, le quali, rotolando versoil fondo, otturano l’imbuto.Allora il vulca-no, sentendosi compresso dall’occlusio-ne della sua valvola, sembra radunare leforze per qualche minuto; ma nel giro d’unistante i suoi polmoni iniziano ad ansima-re e si sente un mugghio sordo correre lun-go i fianchi erosi della montagna. Infine lacannonata esplode ancora una volta, lan-ciando a duecento piedi sopra la cima più

Panarea

Una barca a sei remi per sfuggire ai pi-rati africani: la speronara, alberocorto, poppa aguzza, prora curva or-

nata da uno sperone. Alexandre Dumas viha fatto il suo Grand Tour in miniatura alleisole Eolie: è salito a bordo il 5 ottobre 1835,è sceso quattro giorni dopo, ha veleggiatosotto cieli scintillanti, ha toccato terra, hadormito in un monastero a Lipari, ha am-mirato lava e lapilli, scalato Stromboli eVulcano. Escursione alle Isole Eolie(Nuageseditore, 160 pagine, 29 euro) è questo itine-rario e tante altre cose: un racconto per im-magini, un cahier de voyage, un album dadisegno, un puzzle di connessioni storico-letterarie, una mostra internazionale.

Il racconto di Dumas corredato dalle illu-strazioni di Giorgio Maria Griffa esce il 24maggio pubblicato da Nuages, galleriad’arte e raffinata casa editrice di Milano, viadel Lauro 10, diretta da Cristina Taverna.Taverna e Griffa si incontrano a Stromboliuna sera d’estate, legano l’avventura du-masiana a quella del colore, il romanzo diieri agli acquerelli di oggi, il libro alla mostraaperta da Nuages fino al 21 luglio e da otto-bre a Natale tra Londra, Parigi, New York.

Il racconto di Dumas (stampato in Italiaanni fa da Pungitopo di Marina di Patti,Messina) è il secondo volume de Le capi-taine Aréna,storia del padrone della spero-nara, pubblicato a puntate tra il giugno1842 e il gennaio 1843 come romanzo d’ap-pendice su Le Sièclee successivamente dal-l’editore parigino Dolin. L’album da dise-gno è il cahier di Griffa: tono, tratto, sfuma-ture seguono il ritmo fluttuante della scrit-

tura e il moto ondoso del mare, tratteggia-no la speronara, la costa, le luci, le isole, lechiese, i caratteri dei personaggi. Griffa in-venta il puzzle tra pittura e radici storico-letterarie, scrive una lunga prefazione rivi-sitando tutti i viaggiatori dell’arcipelago:«Tra gli ospiti-autori — l’ammiraglio Hora-tio Nelson, Pietro Fabris e Jean Pierre LouisLaurent Houel, due artisti che hanno di-pinto le Eolie — Alexandre Dumas è gar-gantuelico e straripante. Un vero Porthos,con la guasconeria di D’Artagnan, più no-bile, più paterno di Athos, baciato dalla for-tuna come Aramis». Griffa rintraccia il filorosso tra la vita di Houel, la sua e quella diDumas. Da piccolo vede Il grande ammira-glio, lo rivede da grande interpretato daLaurence Olivier (Nelson) e Vivian Leight(Lady Hamilton). Lady Hamilton, apparein due romanzi di Dumas La San Felice eEmma Lyonna, è l’amante di Nelson, la mo-glie di Hamilton, raffinato collezionistad’arte, appassionato di vulcani, venditoredi quadri antichi al British Museum. Nel1776 Hamilton raccomanda Houel auno studioso siracusano, SaverioLandolina... Il filo rosso si dipanaaccompagnato dall’alchimia delcolore, una mescolanza di blu, az-zurri, turchesi, viola, celesti, inda-co, grigi, rossi carminio. «Giochi dicarta per ricordare chi ha scrittomolto tempo fa — aggiunge Griffa —timbri e francobolli riciclati trovati invecchi libri per tessere una ragnatela dicorrispondenze tra scrittori e mappe delcuore».

Lipari

Vulcano

Stromboli

Il pittore delle isole di cartaAMBRA SOMASCHINI

Salina

LIBRO E MOSTRAGli acquerelli riprodotti

in queste pagine sono

di Giorgio Maria Griffa e sono tratti

dal libro Escursione alle Isole Eoliedi Nuages, da cui è tratto anche

il testo di Dumas pubblicato

qui in sintesi. Gli stessi acquerelli

saranno in mostra alla Galleria

Nuages di Milano

e successivamente a Londra,

Parigi e New York

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PROFILO DELL’ISOLA DI LIPARI

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Repubblica Nazionale

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13MAGGIO 2007

la letturaDisastri e cronisti

YOKOHAMA

N on ci sono nomi in questastoria. I personaggi sono unreporter, una giovane re-

porter, una madre e una figlia davvero bel-la in un kimono giapponese. [...] Alle quat-tro del pomeriggio il reporter e la reportererano sulla veranda dell’ingresso. Il cam-panello della porta aveva appena suonato.«Non ci faranno mai entrare», disse la re-porter. Sentirono qualcuno che si muove-va dentro la casa e poi una voce disse:«Scendo io. Li ricevo io, madre». La porta siaprì per uno stretto spiraglio. Lo spiraglioandava dalla cima della porta fino al fondo,e circa a metà c’era un viso molto scuro,molto bello, con i capelli soffici divisi in due.«È bella, dopotutto», pensò il reporter. Ave-va ricevuto così tanti incarichi in cui figura-vano belle ragazze, e così poche di quelle ra-gazze si erano poi rivelate essere belle.

«Chi cercate?», disse la ragazza che era al-la porta.

«Siamo dello Star», disse il reporter.«Questa è la signorina Tal dei Tali».

«Non vogliamo avere niente a che farecon voi. Non potete entrare», disse la ra-gazza.

«Ma...», disse il reporter e incominciò aparlare. Aveva la fortissima sensazione chese in qualsiasi momento avesse smesso diparlare, la porta si sarebbe violentementerichiusa. Così continuò. Alla fine la ragazzaaprì la porta. «Va bene, vi faccio entrare»,disse. «Vado di sopra e chiedo a mia ma-dre».

Andò di sopra, rapida e flessuosa, vestitadi un kimono giapponese. Dovrebbe esser-ci un altro nome per chiamarlo. Kimono haun suono confuso, da primo mattino. Nonc’era niente di kimonico in questo kimono.I colori erano vivaci e il tessuto di buonaconsistenza, e aveva un bel taglio. Sembra-va quasi che avrebbe potuto essere indos-sato con due spade alla cintura.

La reporter e il reporter si sedettero su undivano nel salottino. [...]

Per le scale scese la ragazza nel kimonogiapponese. Con lei c’era la madre. Il viso

della madre era molto duro.[...] «Non dire-mo niente. Non vogliamo finire sui giorna-li. Ne abbiamo già avuto abbastanza. È pie-no di gente che ha sofferto molto più di noinel terremoto. Non ne vogliamo assoluta-mente parlare».

«Ma io li ho fatti entrare, madre», disse lafiglia. [...] «Se parliamo con voi e vi diciamoquello che volete sapere, ci promettete dinon fare i nostri nomi?», chiese.

[...] La figlia iniziò la storia e la madre lacontinuò. «La nave [la Empress of Australiadella Canadian Pacific] era pronta a salpa-re», disse la figlia. «Se mia madre e mio pa-dre non fossero stati giù sul molo, non cre-do che si sarebbero salvati».

«Le navi Empress salpano sempre di sa-bato, a mezzogiorno», disse la madre.

«Poco prima delle dodici si sentì un forteboato e poi tutto cominciò a tremare muo-vendosi avanti e indietro. Il molo ondeggiòe sussultò violentemente. Mio fratello e ioeravamo a bordo della nave, appoggiaticontro il parapetto. Tutti stavano lancian-do stelle filanti. Durò appena trenta secon-di», disse la figlia.

«Fummo gettati lunghi distesi sul molo»,disse la madre. «Era una grande banchinadi cemento e ondeggiava avanti e indietro.Mio marito e io ci tenevamo stretti uno al-l’altra e il molo ci buttava di qua e di là. Mol-te persone vennero scaraventate in mare.Ricordo di aver visto un guidatore di risciòche si arrampicava faticosamente fuoridall’acqua. Le auto e qualsiasi altra cosa fi-nirono dentro, tranne la nostra[...]».

«Cosa faceste quando finirono le scos-se?», chiese il reporter.

«Raggiungemmo la riva. Fummo co-stretti ad arrampicarci. Il molo aveva cedu-to in più punti e si erano staccati grossi bloc-chi di cemento. Ci incamminammo su peril Bund lungo la riva e ci accorgemmo che i

grandi go-downs, i magazzini delle merci,erano tutti sprofondati. Conoscete il Bund.Il viale sul lungomare. Arrivammo fino alconsolato britannico ed era completa-mente crollato. Franato su se stesso, comein un imbuto. Sbriciolato. Tutti i muri era-no venuti giù e attraverso la facciata ante-riore dell’edificio potevamo vedere fino al-lo spiazzo sul retro. Poi ci fu un’altra scossae capimmo che non serviva a niente anda-re avanti o cercare di salire fino alla nostracasa. Mio marito venne a sapere che moltagente non era in ufficio e che non c’era nien-te da fare per coloro che stavano lavorandonei go-downs. Sopra ogni cosa c’era unagrande nube di polvere che veniva dagliedifici crollati. Impediva quasi di vedere, etutto intorno stavano scoppiando degli in-cendi».

«E la gente cosa faceva? Come si com-portava?», chiese il reporter.

«Non c’era il minimo panico. Questa erala cosa strana. Non vidi nessuno che fosseanche solo isterico. C’era però una donnaal consolato russo. Quello russo si trovavaproprio accanto a quello britannico e nonera ancora crollato, ma aveva subìto gravidanni. La donna uscì dal cancello piangen-do e c’era un gruppo di coolie seduto con-tro la ringhiera di ferro davanti al cortile delconsolato. Li implorò di aiutarla a portarefuori sua figlia dall’edificio. “È solo una ra-gazzina”, disse in giapponese. Ma loro ri-masero lì seduti. Non vollero muoversi.Sembrava che non potessero farlo. Natu-ralmente in quei momenti nessuno anda-va in giro ad aiutare gli altri. Ognuno dove-va già badare a se stesso».

«Come avete fatto a tornare alla nave?»,chiese la reporter.

«C’erano alcuni sampan, le barche delluogo, e alla fine mio marito ne trovò una eci mettemmo sulla via del ritorno. Ma pro-

prio allora l’incendio stava divampandocon violenza e il vento soffiava da terra. Perun bel po’ ci fu un terribile vento. Infine ar-rivammo [...] ci gettarono una cima e sa-limmo a bordo».

La madre non aveva più bisogno di do-mande o sollecitazioni, adesso. Quel gior-no, e i giorni e le notti seguenti nel porto diYokohama, si impadronirono nuovamen-te di lei. Ora il reporter capiva perché nonvoleva essere intervistata e perché nessunoaveva il diritto di intervistarla e di far torna-re tutto a galla. Le sue mani erano nervosepur rimanendo molto quiete.

«Il figlio del principe [il principe deBéarn, il console francese] era rimasto nel-la loro casa. Era stato malato. Loro eranoappena scesi al molo per vedere la parten-za della nave. Il quartiere degli stranieri sitrova in alto, su un promontorio dove vive-vamo tutti noi, e il promontorio era franatoarrivando fin dentro la città. Il principetornò a riva e riuscì a salire fino alle rovinedella sua casa. Tirarono fuori il ragazzo, masi era fatto male alla schiena. Lavoraronoore e ore per estrarlo dalle macerie. Ma nonriuscirono a tirare fuori il maggiordomofrancese. Dovettero andarsene e lasciarlo lìsotto perché l’incendio si era avvicinatotroppo».

«Lo lasciarono lì sotto vivo con l’incendioche stava arrivando?», chiese la reporter.

«Sì, dovettero lasciare il maggiordomofrancese lì sotto», disse la madre. «Era spo-sato con la domestica, perciò dovettero dir-le che lo avevano tirato fuori». [...].

«Per buona parte del tempo non si riuscìa vedere la riva a causa del fumo. Ma il peg-gio fu quando esplosero le cisterne di pe-trolio sottomarine e il petrolio prese fuoco.Le fiamme si estesero al porto e in direzio-ne del molo. Quando lo raggiunsero, cichiedemmo se ci eravamo salvati a bordo

della Empress solo per finire bruciati. Il ca-pitano aveva fatto mettere in mare tutte lescialuppe sul lato più lontano dalle fiam-me[...]».

«Per tutto il tempo lavorarono per taglia-re la catena dell’ancora che si era impiglia-ta nell’elica. [...] Infine riuscirono a condur-re l’Empress lontano dal molo. Fu magnifi-co il modo in cui la condussero via senzanessun rimorchiatore. Fu qualcosa che eradifficile credere che si potesse fare nel por-to di Yokohama. Fu magnifico».

«Naturalmente per tutto il giorno e tuttala notte continuarono a caricare a bordo fe-riti e sfollati. Arrivavano sui sampan o conqualsiasi altro mezzo. Li presero su tutti.Noi dormimmo sul ponte». [...]

Con la mente stava tornando al porto diYokohama. «Molta della gente che era ri-masta in piedi dentro l’acqua tutta la notteera stanchissima», proferì. [...] «C’era unavecchia che doveva avere settantasei anni.Restò in acqua tutta la notte. C’erano unsacco di persone anche nei canali. Yokoha-ma è tutta tagliata da canali, lo sapete».[...]

«Cosa pensò quando iniziò tutto?», chie-se il reporter.

«Oh, lo sapevamo che era un terremoto»,disse la madre. «È solo che nessuno sapevache sarebbe stato così brutto. Ci sono statimoltissimi terremoti lì. Una volta, nove an-ni fa, avevamo avuto cinque scosse in ungiorno. Noi volevamo solo entrare in cittàper vedere se era tutto a posto. Ma quandovedemmo che la situazione era così brutta,allora capimmo che non era delle nostrecose che dovevamo preoccuparci». [...]Lamadre era esausta. La reporter si alzò in pie-di. Il reporter anche.

«Voi capite. Niente nomi», disse lamadre.

«Ne è sicura? Non farebbero nessun dan-no, sa».

«Avete detto che non avreste fatto nomi»,disse la madre stancamente.

I reporter uscirono. [...] Il reporter diedeuno sguardo al kimono giapponese mentrela porta si chiudeva.

«Chi scrive il pezzo? Tu o io?», chiese la re-porter.

«Non lo so», disse il reporter.© The Toronto Daily Star, 1923

- minimum fax, 2007

Le onde di cementodella terra in tempesta

ERNEST HEMINGWAY

1 settembre 1923

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 13MAGGIO 2007

Ogni catastrofe ha il suo reporter che la racconta. Oraun libro raccoglie il giornalismo “da Pulitzer” alle presecon la natura impazzita. Anticipiamo due articoli ineditiin Italia: uno del giovane Hemingway durante il terremotodi Yokohama nel ’23 e l’altro di Robert Fisk in Turchia nel ’99

YALOVA

I corpi arrivano all’obitorio nei ca-mion di yogurt alla fragola o nei fur-goni con la scritta “Pesce fresco”. A

volte il carico dall’odore pestilenziale arri-va dentro un veicolo frigorifero decoratosul fianco da una grande fragola rossa, ov-viamente coperta di panna montata. Maquando si aprono gli sportelli posterioriperfino l’uomo nel cubicolo di vetro col re-gistro di nomi scritti a mano si ritrae dalcontenuto. Il terremoto turco restituisce lesue vittime nel modo più crudele.

Qualche volta arrivano intatti, con unpezzetto di carta legato all’alluce; ma al-trettanto spesso sono smembrati e ven-gono consegnati dentro sacchi. Con tren-ta gradi all’ombra, le nostre maschere digarza non servono a niente contro tantaputrefazione. Quando ci avviciniamo al-le celle frigorifere il mio traduttore turcovomita e si gira dall’altra parte. Giovedìsono arrivati seicento corpi e altri quat-trocento sono stati scaricati ieri all’alba.Una piccola parte dei circa quarantamilamorti stimati al momento.

L’uomo nel cubicolo di vetro mi dice diavere, forse, la metà dei nomi. E quando va-do nella cella frigorifera numero uno capi-sco perché. Alcuni dei morti arrivano den-tro buste di plastica nera della spazzatura,o nei sacchi militari per il trasporto dei ca-daveri, altri in involucri di gomma giallo vi-vo e vengono lasciati sulla guazza del pavi-mento di cemento.

Negli stanzoni dagli alti soffitti risuona ilrombo della refrigerazione prodotta da ungeneratore rumoroso. Ma al lato oppostodella stanza ci sono gli altri morti, ancoraavvolti nelle coperte e nelle lenzuola concui sono stati estratti dalle loro case. Ci so-no cadaveri in parte scoperti, una spallanuda, una gamba che finisce con la cartila-gine, un cadavere decapitato, un uomosenza mani, un corpo così piccolo che ba-sterebbe un fazzoletto a coprirlo.

In mezzo a tanto orrore devi ricordartiche quei mucchi sono gli innocenti, i buo-ni, i vulnerabili, uomini, donne e bambini

che non dovevano morire — che spesso so-no stati trovati stretti l’uno alle bracciaspezzate dell’altro. Quando ritrovano inte-re famiglie, i loro cadaveri vengono distesiuno accanto all’altro, coperti da quellaspessa, pietosa polvere scura che vela le vit-time dei terremoti in Turchia. Burocraziain pieno incubo. In Turchia per seppellireun cadavere serve un certificato di morte.E per avere un certificato di morte serve l’i-dentificazione ufficiale. E per quella biso-gna andare all’obitorio.

Inutile dire che non può andare avanticosì. Prendiamo il caso di Yelmaz Bekmez-ce, che era in vacanza dal suo lavoro in Ger-mania quando il terremoto ha cancellatola famiglia di suo zio a Yalova.

Arrivato a casa loro, Yelmaz ha trovatosolo un ammasso informe di cemento. Luie i suoi familiari hanno identificato un fi-glio dello zio, la moglie e una delle due fi-glie. Ma la maggiore, Nese Bolen, di diciot-to anni, non è mai stata trovata.

Ho incontrato Yelmaz a duecento metridalla cella frigorifera numero quattro, erapiegato in due per la nausea e si premevauna maschera sul naso: «Mi dispiace doverdire che tanti cadaveri sono terribilmentesfigurati», ha biascicato. «E forse qualcunaltro avrà pensato che Nese fosse figlia suae l’avrà sepolta chissà dove».

Come tutto il resto, oggi in Turchia an-che la morte è circondata da una routinedisperata, dozzinale e improvvisata. AIstanbul adesso espongono le vittime suuna pista da pattinaggio su ghiaccio.

A Yalova, dove l’obitorio dell’ospedaleormai trabocca da un pezzo, hanno apertole celle frigorifere del Centro di ricerca agri-colo e, per mancanza di carri funebri, han-no requisito i camion per il trasporto delloyogurt e del pesce. Così in un luogo dedi-cato al godimento, alla vita e al progresso,

arrivano i morti, vittime delle case marce,frutto della corruzione e dei facili profitti.

«Ho raccolto qualche pezzo di cementodalle rovine della casa di mia zia», ha dettoOmer Baykir. «Poi l’ho strofinato con le di-ta e mi si è polverizzato tra le mani. Alloraperché mi chiedete come è morta questagente?» Non hanno ancora trovato la zia diOmer, e nemmeno la sorella della zia, né ilmarito della sorella. Oya invece, la figlia didiciotto anni, l’hanno estratta da una fen-ditura di trenta centimetri, quel che era ri-masto del primo piano. Viva.

Giù alla base militare francese, ti vieneda pensare che sia tutta una questione distile. I soldati francesi non hanno pauradella morte, se non ricordo male. La ban-diera turca sventola su un pennone sopraa una francese (leggermente) più piccola, euomini alti con i capelli a spazzola che po-tevano trovarsi a loro agio in Algeria, a Sidi-bel-Abbès, sono pronti a qualunque oradel giorno o della notte a penetrare nelle ro-vine sepolcrali. Quando il capitano AubertPascal della squadra di soccorso civile del-l’esercito francese mi dice che il lavoro deisuoi uomini non è quello di recuperare imorti, la frase sembra tolta di peso da unfilm sulla Legione Straniera.

Ma dedichiamo un momento al capita-no Pascal, l’ufficiale al comando delle ope-razioni di comunicazione. In due giorni isuoi compagni hanno salvato nove vite, tracui quella di un neonato di tre mesi, di unbambino di dieci anni e di una ragazza disedici. Un uomo di ventisei anni aveva lamano intrappolata e i francesi gliel’hannodovuta tagliare per liberarlo.

E i morti? «Ne abbiamo trovati sessantao settanta — ma non tocca a noi preoccu-parci dei morti. Ricordate che è dei vivi chedobbiamo occuparci, di salvare vite uma-ne. Avete idea di che effetto faccia afferrare

la mano di una persona viva, intrappolatasotto tutto quel calcestruzzo, e tirarla fuori— e poi essere abbracciati dall’uomo cuiavete salvato la vita e dalla sua famiglia?».

Un giornalista, Fehmi Koru, si èespresso anche con maggiore eloquen-za dopo essere stato salvato a Yalova: «InTurchia non c’è una società civile che siassuma le responsabilità nell’ora del bi-sogno», ha scritto. «Non ci sono volonta-ri, non ci sono scorte di generi di primanecessità, non ci sono cani addestrati.Non c’è niente di niente».

Dall’altra parte, a Cinarcik, hanno presoin mano la faccenda. È una bella cittadinadi mare con i pescherecci e le stradine di-gradanti, con i chioschi che vendono ke-bab e le sorgenti calde che sgorgano dallaroccia vulcanica sottomarina. Martedìscorso la fortuna di Cinarcik si è trasforma-ta nella sua maledizione. Il terremoto haspianato al suolo due condomini sulla col-lina e altri quattro ne sono crollati nel cen-tro della città. Dopo lo shock iniziale la gen-te è andata agli uffici dell’impresa ediliziache ha costruito tanti di quegli edifici e li haassaltati con bastoni e pietre. Hanno rottole finestre e buttato giù la porta, più o me-no indisturbati da una polizia locale altret-tanto furibonda.

Nei giardini, nei parchi, nelle piazze, nel-le isole pedonali e lungo la costa sassosa lagente di Cinarcik, di Yalova e di Aydin oradorme all’addiaccio. Il più fortunato è sta-to il vecchio che viveva in una baracca tragli alti edifici di Yalova e che si era bevutouna bottiglia intera di raki la notte di lunedì,continuando a dormire tra il mostruoso in-furiare dei crolli tutt’intorno per svegliarsisolo dopo, disturbato dal rumore di unascavatrice meccanica. I più infelici sono isopravvissuti che sospettano la verità: cheil loro Paese non ha fatto, né farebbe in fu-turo, niente per salvarli.

Quando ho chiesto a uno dei soccorri-tori quale sarebbe stato l’effetto politicodi tante morti, lui ha guardato le monta-gne di detriti intorno a sé e con profondodisprezzo ha pronunciato una parolasola: «Nessuno».

Traduzione Maria Baiocchi© The Independent, 1999

- minimum fax, 2007

Un mucchio di corpisui camion di yogurt

ROBERT FISK

IL LIBROSi intitola Catastrofi. I disastrinaturali raccontati dai grandireporter (minimum fax, 250

pagine, 15 euro) e sarà in libreria

da domani il libro di cui

anticipiamo in queste pagine due

brani inediti in Italia. Il volume,

che ha una prefazione di Federico

Rampini, fa parte della collana

“Indi-Pulitzer”, diretta da Simone

Barillari. Dopo i grandi delitti

americani, le inchieste e i migliori

reportage sull’11 settembre

raccontati dai premi Pulitzer

questo volume raccoglie il meglio

del giornalismo mondiale alle

prese con i disastri naturali del

Ventesimo secolo. A raccontare

queste calamità, testimoni

d’eccezione come Jack London,

Ernest Hemingway e Robert

Frisk, il più importante inviato

speciale di lingua inglese, e una

serie di premi Pulitzer. Il tutto è

corredato da immagini d’epoca

21 agosto 1999

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Repubblica Nazionale

Si intitola “Vinicius”, è un docufilm che a sorpresariempie i cinema carioca,rilancia il mitodel grande artista e fa capire

la chiave della sua grandezza: essere sceso alle radicidella cultura del suo Paese, averne scopertoe divulgato la bellezza e la forza vitale

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13MAGGIO 2007

Provate a fare il nome di Vini-cius De Moraes a un brasi-liano. Immancabilmente,come per magia, il viso si di-stenderà in un radioso sor-riso di nostalgia, anzi, sa-

rebbe meglio dire di “saudade”. L’ef-fetto è prodigioso, e non capita solo aibrasiliani. Chiunque si sia imbattutonel suo poetar cantando conserva il ri-cordo di un’aura, intangibile, preziosa.Il fatto è che raramente un artista ha sa-puto spargere tanta gioia poetica nelmondo. La sua vita è stata un’irripeti-bile fiaba letteraria, la storia di un poe-ta che si è fatto musico, un intellettua-le che è uscito dall’accademia per ab-bracciare il suo amato popolo, per in-terpretarne i sentimenti profondi, rac-contarne l’epos avvincente.

Un amore ovviamente ricambiato.Quando recentemente è uscito in Bra-sile il documentario diretto da MiguelFaria Jr. (oggi disponibile anche in dvd)intitolato semplicemente Vinicius, lagente ha affollato le sale cinematogra-fiche come se fosse un film di successo.Tutti lì, nel buio immaginifico del cine-ma, con gli occhi lucidi a rivivere la ap-passionante vita di un poeta che è riu-scito a farsi conoscere e amare da ster-minate platee in tutto il mondo, conprodezze insuperabili per raffinatezzae cantabilità: «Tristeza nao tem fim, fe-licidade sim», chi non conosce questoverso che apre la canzone A felicidade,e che racconta il sogno di un popoloche vive tutto l’anno in attesa del car-nevale per scatenare fantasia e diverti-mento e poi dopo, il mercoledì, spental’euforia del martedì grasso, si ritrovaimprovvisamente con le sue tragediequotidiane, con la miseria, la fame, laviolenza delle favelas, in attesa delprossimo carnevale. La tristezza nonha fine, la felicità sì, scriveva su melo-dia di Tom Jobim, il suo partner più ce-lebre, col quale ha scritto anche La ra-gazza di Ipanema, uno dei brani piùsuonati in assoluto nel mondo. Do-vunque andrete, anche negli angoli piùsperduti del pianeta, con molta proba-bilità ci sarà un piano bar che ripropo-ne il ritmo suadente e sensuale della“garotinha” che mostra le sue bellezzepassando sulla spiaggia di Ipanema.

La storia — appassionatamente nar-rata dal film-documentario, con attoriche interpretano i suoi versi, cantantiche rieseguono le sue canzoni (tra cuiChico Buarque, Caetano Veloso, Gil-berto Gil), figli e amici che raccontanola sua vita, ampi pezzi di repertorio (tracui alcune strepitose immagini dellaRio de Janeiro degli anni Trenta), inter-viste, frammenti di conversazione traVinicius e Jobim, tra Vinicius e i suoi fi-gli, e tanti altri momenti della sua in-tensissima vita — è degna di un ro-manzo.

Marcus Vinicius da Cruz de MeloMoraes, universalmente noto comeVinicius De Moraes, nacque a Rio DeJaneiro il 19 ottobre del 1913, non mol-to distante da quella spiaggia che di-venterà spesso protagonista delle suefantasie. Cominciò presto a scriverepoesie e nell’ambito accademico ilsuccesso fu immediato. Pubblicò mol-te raccolte, alcune con titoli altisonan-ti e pretenziosi. Su una in particolare,

anni dopo, ebbe a scherzare. Si intito-lava Forma ed esegesi. «A dire la verità aquel tempo pensavo di essere una spe-cie di genio», racconta Vinicius in unvecchio pezzo di repertorio, pensandoalla sua prima vita, quella del poeta ac-cademico, premiato e acclamato dallaélite letteraria del Brasile degli anniTrenta. Ma in qualche strano modoquello non era ancora il vero ViniciusDe Moraes, era piuttosto una masche-ra, imposta da una borghesia che guar-dava ancora all’Europa, che volevascimmiottare la Francia, la moda, lostile la cultura francese.

Il vero Vinicius De Moraes nascequando si innamora della musica po-polare che prima derideva, quandoscopre la strada, l’umanità marginalema vitale che trova nelle bettole, quan-do guarda con altri occhi a quella Baiade Guanabara amata da Paul Gaugin eCole Porter, di fronte alla quale era na-to, la baia dentata di Rio De Janeiro. Insintesi il vero Vinicius nasce quandoscopre e si innamora della sua identitàbrasiliana, quando scopre che i suoiversi, grazie alla musica, potevano rea-lizzare la vera trasfigurazione mitolo-gica che cercava nei volti e nei senti-menti dei suoi concittadini. È così chela sua vicenda personale si fonde conl’emancipazione culturale dello stessoBrasile. Insieme a Vinicius fu tutto ilpaese a riscoprire la bellezza delle pro-prie radici, a costruire quegli argini an-cora oggi molto resistenti contro l’in-vadenza della cultura anglosassone.

Vinicius era ingordo di vita. Bevevacome una spugna («il whisky è il mi-glior amico dell’uomo», diceva), ama-va e divinizzava la femminilità (si èsposato ben nove volte), dissipatore egeneroso, incurante dei soldi, vivevaper l’amore e per la poesia, ma conquell’intensità e quella partecipazionemai distaccata dalla vita e dai suoi pia-ceri che è spesso tipica degli scrittorisudamericani. Lavorò come diploma-tico, per sbarcare il lunario, con incari-chi in vari luoghi del mondo, finché co-minciò a guadagnare abbastanza dadedicarsi interamente alla vita artisti-ca. Dalla élite letteraria passò gradual-mente a frequentare la boheme cario-ca, in quell’incrocio tra jazz, samba enuovo cinema che ribolliva nei circolidi Rio per tutti gli anni Cinquanta. Di-ventò amico di Orson Welles, di jazzistie attori, e ovviamente di tutti gli intel-lettuali che stavano rinnovando la sce-na artistica brasiliana. Anno dopo an-no i toni accademici scomparivano e

nasceva il Vinicius che tutti conoscia-mo, teorico dell’amicizia, dell’arte del-l’incontro, l’incontenibile gaudenteche aveva un sorriso, e un verso, pertutti.

Inizia a scrivere canzoni, i testi so-prattutto, ma qualche volta anche lemelodie. Nel 1953 scrive il suo primosamba, Quando tu passas por mim. Nel1954 la svolta. Scrive la piece teatraleOrfeo da conceiçao, che cinque annipiù tardi Marcel Camus trasformò inun film che fece furore in tutto il mon-do (premiato con l’Oscar e la Palmad’oro a Cannes). Nella sua visione, ilmito di Orfeo riviveva in una favela,l’incantatore è un ragazzo, un tranvie-re che canta e suona in modo mirabile,e secondo alcuni è grazie al suo cantoche ogni mattina spunta il sole. Il mitoarrivava così nelle strade povere di Rio,si confondeva coi riti pagani del carne-vale. Un vero colpo di genio e quandofu fatto il film (che ai brasiliani piacquepoco perché riproneva una versione“straniera”, esotica, del loro mondo) lemusiche erano già in odore di bossanova.

Vinicius amava la gente, passava in-tere giornate a chiacchierare e la suacasa divenne un porto di mare aperto atutti. Chiunque poteva arrivare, basta-va che avesse una chitarra sotto brac-cio, o in mancanza di quella una botti-glia di whisky, e ci si metteva a cantare.Era prodigo, generoso con tutti, so-prattutto quando iniziò a incassare ot-timi profitti dai diritti d’autore, e gira-va con rotoli sparsi di banconote chespendeva ovunque, senza badare mi-nimamente al valore del denaro, comericordano divertiti molti testimoni del-le sue scorribande in giro per i bar diRio.

In questo fervore nacque la bossanova, la più importante rivoluzionedella musica popolare brasiliana, ilpunto di svolta. C’è un prima e un do-

GINO CASTALDO

Dissipatoregeneroso, incurantedei soldi, si è sposatonove volte e dicevadel whisky:“È il miglioreamico dell’uomo”

Ritorna il poeta-cantanteche ha inventato il Brasile

ViniciusDe Moraes

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 13MAGGIO 2007

po la bossa nova, un po’ come in Italia,in tutt’altra veste musicale, successecon Volare di Modugno. L’avvio fu unacanzone, Chega di saudade, scritta conJobim e cantata da Joao Gilberto. Nes-suno aveva mai sentito una cosa del ge-nere. C’è una intera generazione dimusicisti pronti a giurare che dopoaver ascoltato quel pezzo la loro vita ècambiata. La sintesi era irresistibile.Jobim e Vinicius, grazie alla complicitàdell’inarrivabile e sommessa interpre-tazione di Joao Gilberto, avevano in-ventato uno stile che era ben inserito

nella tradizione,ma allo stesso tempo

moderno, complesso,raffinatissimo, amato

poi dai jazzisti americanie diventato uno stile clas-

sico, quasi obbligatorio,per ogni musicista. La bossa

nova era la soluzione perfetta, una mu-sica fortemente intellettuale che peròaveva la grazia necessaria per essereamata da tutti. A questo punto il veroVinicius era sbocciato, brillava in tuttala sua forza.

Vinicius ha lasciato un forte segnoanche in Italia, dove ha vissuto a lungo.Già nel 1937 Ungaretti aveva tradottoin italiano una sua raccolta di poesie. Siera invaghito di quel giovane poeta cheveniva dal nuovo mondo, e fu così chemolti anni dopo accettò addirittura dipartecipare a un disco. C’erano Vini-cius, Toquinho, Sergio Endrigo, e Un-garetti recitava in quel suo indimemti-cabile modo i versi di Vinicius. Si inti-tolava La vita, amico, è l’arte dell’in-contro. Poi lavorò con la Vanoni, incisecanzoni per bambini (L’arca di Noe è lapiù nota).

Nel corso degli anni non ha maismesso di scrivere. Il suo approccioedonistico alla vita non escludeva chefosse un gran lavoratore, spinto da uninestinguibile fuoco sacro, una devo-zione assoluta al nume della poesia.Con Baden Powell inventò quello chepoi fu definito afro-samba, con To-quinho ha costruito un lungo e prolifi-co sodalizio che ha fatto epoca. To-quinho era il musicista, solido, costan-te, un giovane cantante e chitarristache sosteneva nel migliore dei modi ilgoffo e struggente canto di Vinicius.Morì a sessantasei anni, il 9 luglio del1980, lasciando un vuoto incolmabile.L’epitaffio più bello che si potesse im-maginare l’ha tirato fuori Maria Betha-nia, che nel film dice di Vinicius: «Se èvero che l’essenziale della vita è dareamore e riceverlo, allora Vinicius è sta-to mandato sulla terra per ricordarcelocostantemente».

LE MANISULLA CHITARRAL’illustrazione

con le mani

e la chitarra

è tratta dal libro

Blue Note-The albumcover art, edito

da Graham

Marsh,

Felix Cromey,

Glyn Callingham

A sinistra,

la copertina

DA PABLO NERUDA A WALT DISNEYQui sopra, da sinistra: Vinicius De Moraes (a sinistra)

con la moglie e Sergio Endrigo; con Pablo Neruda;

in piedi in una foto di gruppo con, al centro, Walt Disney

Nell’altra pagina, da sinistra: Vinicius (a destra) con Manuel

Bandeira; e (a destra) con Alex Vianni e Orson Welles

Nella Rio anni Cinquantala bossa nova segnò la rivoluzionedella musica popolare brasiliana

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46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13MAGGIO 2007

i saporiDolci snack

Si parte da una piccola truffa lessicale. Non è vero che tutti i biscotti sono bis-cotti: la maggior parte cuoce unavolta sola. Nel caso di meringhe e spumini, poi, si modifica perfino il concetto stesso di cottura, se è vero chel’albume montato deve solo asciugarenel forno spento. Non c’è elenco che esaurisca il numero spropositatodi ricette, con infinite varianti a coté, cui aggiungere creazioni estemporanee e sperimentazioni azzeccate.Non c’è regione italiana che si senta seconda a nessuna in tema di golosità a piccoli morsi, dai tozzetti più ru-stici alle paste di mandorle più suadenti. Non c’è pasticciere o fornaio appassionato che lesini al cliente l’as-

saggio di un biscottino “fatto in casa”, dolce biglietto da visita da mordicchiare. A voler disegnare una geografia dei biscotti, si smarrisce la bussola e si disorienta il palato, tanti e tali sono i sentieri che

portano al forno dei sogni. Addirittura, in Toscana si sono inventati una “strada dei biscotti”, itinerario benemerito chesi snoda lungo le contrade della provincia di Prato, dove gli artigiani infornano e sfornano più volte per aumentare a di-smisura la fragranza dei loro gioielli in miniatura. Proprio in questi giorni, è stato completato il ventaglio degli aderenti,

con decine di piccoli produttori e forni artigianali capaci di tramandare e riproporre unatradizione ultrasecolare, dalla Val di Bisenzio dove prospera il regno degli zuccherini, finoin città dove i cantuccini imperano in mille laboratori artigianali. E ancora giù, verso le vi-gne del Carmignano, terra di amaretti.

A volerlo, basterebbe far continuare la matita sulla carta per approdare a cavallucci e ric-ciarelli, Siena in passerella, ma anche più in là, colline pistoiesi, per celebrare i brigidini. Iltutto, con adeguato accompagnamento alcolico per sottolineare la croccantezza dolce dialcuni o la morbidezza pastosa di altri, dagli abbinamenti storici col vin santo e moscadel-lo, allo sfizioso aleatico dell’Elba.

Ma liquorosi, muffati o frizzanti che siano, i vini rappresentano solo una scelta possibi-le, ristretta al mondo degli adulti (e non tutti!), molto caratterizzata anche nella “tempisti-ca” del gusto. Si pensa a un biscotto intinto nel vino la sera, dopo cena, chiacchierando infamiglia, al massimo facendo un gioco di società con gli amici.

Memoria d’infanzia e tirannia pubblicitaria, invece, vogliono che il fine ultimo dei biscotti sia, tra colazione e meren-da, il tuffo in tazza, riempita a piacimento di caffelatte, cioccolata, o latte in beata solitudine, caldissimo o appena tiepi-do (solo i menù più morigerati prevedono l’utilizzo del tè).

Del resto, i biscotti non avrebbero bisogno di supporti calorici, se è vero che in quanto a calorie si parte da quota 400(anche per quelli con dolcificanti alternativi) per arrivare a più di 500 per i meravigliosi wafer farciti. Unica scappatoiapossibile, quella della leggerezza ponderale. Da questo punto di vista, i pavesini — messi in produzione da Mario Pave-si nell’immediato dopoguerra, pare su ricetta conventuale del tardo Rinascimento — rappresentano un buon com-promesso: 390 kcal per etto, ma solo 100 per ogni pacchettino-dosatore, grazie alla consistenza aerea regalata dall’al-bume montato.

Se peccato di gola deve essere, preparate una besciamella con il doppio del latte previsto, e scioglietevi dentro del buo-nissimo cioccolato fondente con un cucchiaio di fruttosio. Toglietela dal frigo un attimo prima di servirla dalla caraffanelle tazzine, dove fare zuppetta con i pavesini vi farà tornare il buon umore, senza se e senza ma.

itinerari

Sassello (Sv)

Tonino Strumia è un “trovarobe di cose buone”, slogandella bottega-culto con mieloteca e pasticceria gestita con la mogliea Sommariva Bosco, Cuneo. Tra le dolci "chicche" spiccanole fragranti paste di meliga (mais), base di un gelato squisito

Lamporecchio (Pt) Brindisi

Peccati di golasenza se e senza maLICIA GRANELLO

SavoiardiPreparati nel 1348 alla corte

di Amedeo VI di Savoia

in onore del re di Francia,

con ricetta codificata

(«Si fanno con poca farina,

albume d’uovi e zuccaro»,

a cui oggi si aggiungono

i tuorli sbattuti), vantano

anche una versione siciliana

più rustica e tostata

Biscotti

Adesso quelli di Prato si sono inventati una “stradadei biscotti” che serpeggia tra cantuccini e amarettiMa nessuna regione si sente da meno e la lista di questepiccole delizie - protagoniste di colazioni, merendee dopocena bagnati dal vin santo - è davvero lunghissima

Gli amaretti morbidi –

base pasta di mandorle

– sono nati oltre

un secolo e mezzo

fa in questo bel borgo

montano, segnalato

dalla Bandiera Arancio

dal Touring Club

Il forno Virginia, premiato a inizio Novecento

alla Fiera di Parigi, è ancora in attività

DOVE DORMIREVILLA BERGAMI

Via Bergami 11

Tel. 019-724029

Doppia da 60 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELA FAMILIARE

Piazza del Popolo 8

Albissola Marina

Tel. 019-489480

Chiuso lunedì, menù da 35 euro

DOVE COMPRAREAMARETTI VIRGINIA

Località Prapiccinin 6

Tel. 019-724119

Nel borgo a due passi

da Vinci (dov’è nato

Leonardo) l’arte

si esprime nei dolci

Pare che i brigidini –cialde croccanti

all’anice – siano nati

nel convento di Santa

Brigida per recuperare un errore nell’impasto

delle ostie. Delizioso anche il berlingozzo

DOVE DORMIREB&B TORRE VITONI

Via Sambarontana 83

Località Collececioli

Tel. 0573-803661

Doppia da 60 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREIL NICCHIO

Via Fucini 16

Tel. 0571-56504

Chiuso martedì, menù da 25 euro

DOVE COMPRAREPASTICCERIA CARLI

Via Gramsci 31

Tel. 0573-82177

Leggenda vuole

che il gran porto

del Salento, a forma

di testa di cervo,

ne abbia segnato

il nome (da brunda,

in lingua messapica)

In pasticceria, trionfano

dolcetti e biscotti: cartellate, mostaccioli,

scarcelle, taralli, prupate e cauciuni

DOVE DORMIREMASSERIA MARZIALE

Strada Mitrano 1

Tel. 0831-555528

Doppia da 90 euro

colazione inclusa

DOVE MANGIAREDA PANTAGRUELE

Salita di Ripalta 5

Tel. 0831-560605

Chiuso domenica, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREPASTICCERIA ESMERALDA

Via De Leo 42

Tel. 0831-523842

RicciarelliI dolcetti importati

dal senese Ricciardetto

della Gherardesca, reduce

dalle crociate in Terra Santa,

arricciati come

le babbucce dei sultani,

sono piccoli rombi di pasta

di mandorle (con farina,

albumi, scorze grattugiate)

Sopra c’è lo zucchero a velo

KrumiriNati a Casale Monferrato

a fine Ottocento e ispirati

ai baffi di Vittorio Emanuele II,

sono stati battezzati

alle fine di quel secolo

con il nome di una tribù

di predoni tunisini ( i krumir)usato in tono spregiativo

in Francia. Tra gli ingredienti:

farina di mais e miele

Baci di damaDi origine alessandrina

(Tortona) – ma diffusi

in mezza Italia con piccole

varianti – sono a base

di burro, zucchero, farina

e nocciole. Dopo

la cottura, le due piccole

semisfere si uniscono

in un bacio goloso grazie

alla crema di cioccolato

FrolliniLa base di pasta frolla

subisce cento variazioni –

olio al posto del burro,

uso di farine diverse, tuorli

rassodati – e altrettante

aggiunte (caffè, limone,

cacao). I più nuovi sono

aromatizzati con lavanda,

zenzero, cumino. Golosi

quelli tuffati nel cioccolato

WaferNel Quattrocento, i cialdonaiinglesi già producevano

fragili sfoglie croccanti, cotte

in stampi a tenaglia

con impressi i disegni

dei favi del miele (waba)

Raffreddati e spalmati

di creme tra uno strato

e l’altro, i fogli vengono poi

tagliati in piccoli rettangoli

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 13MAGGIO 2007

Imbarcarsi senza biscotti, diceva ilproverbio: segno di sventatezza. Maisalpare, senza dotare i marinai di quel

cibo corroborante e duraturo. Nel Sei-cento Agrippa D’Aubigné, l’austero poe-ta ugonotto, e poi Victor Hugo rilancia-no: l’estrema preveggenza è a suo modofollia. «C’erano undicimila quintali di bi-scotti», «L’Armada trasportava cento-sessantacinquemilasettecento quintalidi biscotti»: l’uomo propone, e il veroDio, o una tempesta di mare, dispongo-no.

I biscotti sono dunque, nella narrati-va, la guerra, e anche il sacro. Certo, dal-l’Ottocento in poi, la letteratura e massi-mamente quella inglese crede alle virtùricostituenti del tè, e accessoriamentedei biscotti — Alice, nel paese delle me-raviglie, cresce istantaneamente, quan-do ne prende uno dall’apposita scatoli-na con scritto: “Mangiami”. E nelle ri-spettabili public school o in qualsiasi in-terno borghese in cui stia per scatenarsil’orrore compaiono, con la loro insidio-sa mansuetudine, accanto al «bollitorecaldo», e alle tazze e ai piattini sul vas-soio, «i biscotti sul piatto di portata» (inThe wishing game, L’allievo, di PatrickRedmond, il testo dichiara minaccioso:quando si stabilisce un rapporto, si di-venta vulnerabili; e cosa sono i biscotti,se non l’attesa di una visita?).

Anche il biscotto più famoso della let-teratura è pieno di sensi ambivalenti: è laMadeleine della Recherche. Proust scri-ve proprio così, Petites Madeleines, conla maiuscola: perché il paffuto biscottofrancese che fa risorgere nel protagoni-sta prima un ricordo indistinto, e poi levacanze infantili e l’onda intera dellamemoria, si chiama come la Maddalena,la peccatrice. Sconvolta dall’incontrocon Cristo la Maddalena si pente, si get-ta ai suoi piedi e li lava con acqua profu-mata (sarà la santa dei profumi). Made-leine inoltre è la protagonista del ro-manzo François le champi di GeorgeSand, che all’inizio della Recherche lamadre legge al bambino per farlo addor-mentare. È la storia di un trovatello cheviene allevato come un figlio da una mu-gnaia, Madeleine, ma il loro legame èquasi incestuoso; finiranno per sposar-si. Nel nome di questo biscotto si mesco-lano perciò la devozione e l’affetto edipi-co del bambino per la madre, che è in-sieme profanata e venerata come Mad-dalena, peccatrice e pia donna — quellache per prima vede Cristo risorto: e si sal’importanza della parola resurrezioneper Proust, che conta sulla memoria perfar rivivere il passato. Maddalena è dun-que la santa dei profumi. Proust soffrivadi asma, e non poteva aspirare il profu-mo dei fiori: la sua malattia citava e met-teva a distanza Maddalena, immagineambivalente della madre.

La madeleine è definita da Proust «co-sì grassamente sensuale sotto la sua plis-settatura severa e devota», perché, gon-fia come un ventre da un lato, dall’altro èscanalata come una coquille Saint-Jac-ques. Una conchiglia appunto venivaappesa al cappello o al bastone, nel me-dioevo, dai penitenti che si recavano inpellegrinaggio a San Giacomo di Com-postela. Nel biscotto, un nodo di signifi-cati intreccia edipo, punizione e malat-tia, e la speranza, attraverso la letteratu-ra, della resurrezione — o almeno del-l’attenuazione della dimenticanza e del-la morte.

Settant’anni dopo, nella trilogia diDouglas Adams Guida galattica per gliautostoppisti, compare l’incantevole vi-cenda dei biscotti rubati. È nel volumeAddio, e grazie per tutto il pesce (1984).Arthur Dent, in giro per le galassie, si ri-trova sulla Terra, al bar di una stazioneferroviaria. Ha comperato un pacchettodi biscotti e si siede in attesa del treno.Un uomo, già seduto allo stesso tavolo,apre il pacco di biscotti, e ne mangia uno.Arthur, sbalordito, prende anche lui unbiscotto, e i due finiscono così, in silen-zio, l’intero pacchetto. Lo sconosciutose ne va; Arthur alza il giornale e scopre ilsuo pacchetto di biscotti, intonso. Riser-vatezza britannica? Più probabilmente,metafora profonda dell’isolamento nel-la civiltà moderna; solitudine surreale,nel non-luogo della velocità, la sala d’at-tesa di una stazione. Questa storia toccacosì da vicino, che anche se lo scrittore diCambridge ha scritto, nel Salmone deldubbio, che gli è realmente capitata nel-la vita, è universalmente consideratauna leggenda metropolitana — formamoderna e degradata del mito.

Cibo passe-partoutda Alice a Proust

DARIA GALATERIA

Lingue di gattoAccompagnano le creme

d’uovo, di cui sono

complementari. Le chiare

non utilizzate, infatti,

si montano con zucchero,

farina, burro (o panna)

Le striscioline, infornate

per pochi istanti, si possono

modellare finché sono

calde a mo’ di elica

LagacciLievitazione naturale

per il più tradizionale e tipico

dei biscotti genovesi

Il panetto di acqua e farina,

impastato con altra farina,

burro, zucchero e semi

di finocchio, va fatto

riposare in due riprese

Due volte anche in forno,

per aumentare la fragranza

Brutti e buoniInventati in piena Belleèpoque dal pasticcere

lombardo Costantino

Veniani, amati dalla regina

Elena e da Giuseppe Verdi,

sono preparati

con un impasto di nocciole,

mandorle o pinoli tritati

finissimi, chiare d’uovo

montate e zucchero a velo

CantucciFarina, zucchero, mandorle,

uova e scorza d’agrumi

a piacere per i biscotti

medievali di Prato. I filoncini

alti quattro cm, infornati

per un quarto d’ora e poi

tagliati di sbieco, si possono

ricuocere per qualche

minuto (bis-cotti) per dare

maggior croccantezza

Repubblica Nazionale

le tendenzeMade in Italy

Cornetti, santini, amuleti esotici, abiti feticcio, gestiscacciaguai, strani talismani: i “signori delle griffe”prima di uscire in passerella mettono in atto una serie

di riti propiziatori, proprio come fanno i divi del cinema

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13MAGGIO 2007

Il portafortuna di Armani? La T-shirt scura, rigorosissima, abbinata all’orologio da polso, per-ché lui, lo ammette, è ossessionato dal tempo. I Dolce e Gabbana sono più “tradizionalisti”:jeans, camicia bianca e tasche piene di cornetti, mentre Gianfranco Ferré, elegantissimo, cre-de fortemente nel potere delle sue amate spille che porta appuntate sulla cravatta. Krizia, inve-ce, sceglie le ranocchie, che colleziona in serie nella sua casa milanese. Vizi, tic e piccole manie dastilisti. Loro che dettano le regole della moda e vivono sotto i riflettori, in fatto di scaramanzie sem-

brano maestri quasi come il principe Totò. Dietro le quinte delle sfilate, quando fervono i preparativi per da-re il via allo show, i nostri designer fanno ricorso a riti propiziatori di ogni tipo. Nel backstage girano ciondo-li con serpenti, gobbetti, ferri di cavallo, santini e medagliette.

Le passerelle sono come gli esami: non finiscono mai. E gli stilisti che di esami, di anno in anno, ne devonosostenere parecchi, affidano la propria sorte anche all’abito feticcio, spesso essenziale se non al limite del“francescano”. “Re Giorgio” non si separa mai dalla sua T-shirt portafortuna, stretta quanto basta per esal-tare il fisico sapientemente palestrato. Miuccia Prada è la regina dell’apparizione lampo: in passerella sta giu-sto una frazione di secondo. Ma si presenta sempre con le gonne, quelle che poi diventano oggetti cult. Il suorito propiziatorio? Bere una coppa di champagne prima delle entrèe. Valentino è giovanile e spiritoso nel-la scelta del portafortuna: usa un braccialetto brasiliano, semi nascosto dal candido polsino della camiciache sbuca dalla giacca. «Il mio amuleto è il serpente che ho elevato a simbolo della mia maison», spiegaRoberto Cavalli sempre in jeans e giacca nera, look ben lontano dagli eccessi della sua passerella.

Decisamente intellettuale l’oggetto della buona sorte di Antonio Marras, che si rifà alle tradizionisarde: un legaccio di stoffa rosso stretto al polso. Lo stesso nastrino, in origine, veniva usato dagli emi-granti per attaccarci le medagliette sacre. Crede nei “santini” anche Ermanno Scervino che porta intasca quello del cane Dudu «un amico amatissimo che stropicciava così bene le mie giacche». En-

LAURA ASNAGHI

Sfilano vizi e maniedella gente di moda

‘‘Ermanno ScervinoIl mio guardaroba? Classico maben stropicciato, come fosse stato“accarezzato” dal mio cane Dudu

‘‘Kean EtroSenza colore e ironialo stile fa acqua, io indossosempre calze variopinte

‘‘Donatella VersaceMi piace essere glamourda mattina a sera. Giannimi voleva proprio così

‘‘ValentinoIo? Scelgo giacca e cravattacome un vero padrone di casama al polso ho un tocco esotico

‘‘KriziaAmo i miei abiti perchéla mia moda parlail linguaggio della cultura

‘‘Angela MissoniFaccio abiti per rigenerarele donne, come l’acquarigenera la terra

‘‘Giorgio ArmaniSono affascinato dal rigoredella mia divisa blu navye ossessionato dal tempo

‘‘Alberta FerrettiL’abito è creato per dare forzaalla fragilità femminileLa mia forza è mio fratello

LE RANOCCHIENe possiede

una collezione,

sono gli amuleti

preferiti di Krizia

Le compagne

di sempre

IL BRACCIALETTOEssenziale, made

in Brasile,

il braccialetto

scaccia guai

di Valentino

è nascosto

sotto il polsino

della camicia

LE CALZEA righe multicolor,

le calze feticcio

di Kean

lo proteggono

dagli intoppi

delle sfilate

LA CROCEÈ una croce

appesa al collo,

il simbolo

che “aiuta”

Donatella

negli eventi clou

IL CANEL’amato cane

Dudu è morto

ma Ermanno

porta sempre

con sé la sua

foto: “Perché

porta fortuna”

IL FRATELLOUn talismano

umano per Alberta:

il fratello Massimo

dietro le quinte

della sfilata

le parla al telefono

L’OROLOGIO“Re Giorgio”

non può fare

a meno del suo

orologio bene

augurante

e della T-shirt scura

L’ACQUAUn bagno un po’ prima

di affrontare il défilé: è il rito

propiziatorio di Angela

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 13MAGGIO 2007

nio Capasa di Costume National, invece, usa come “rosario” la collana africana della mamma; Kean Etronon si affaccia in passerella se non ha indossato le calze a righe; Rocco Barocco ha sempre con sé una sca-tolina con i suoi «intrugli partenopei»; John Richmond (teorico del punk) è un fan dei teschi; mentre Ales-sandro Dell’Acqua da buon napoletano mescola jeans, giacca da smoking e corni «più una matita, ormaiconsunta, con la quale ho disegnato i miei primi abiti». Il giovane Francesco Martini Coveri, ideologo del-le camicie di seta stampate, considera la famiglia il vero talismano e raduna in prima fila mamma Silvana,fratello, sorella e nipote. Lo stesso fanno Paolo Gerani (per Iceberg) e Gabriele Colangelo, stilista di Amu-leti J, sostenuto dalle sue «nonne portafortuna».

Non sono immuni alle “magiche manie” neppure le signore delle maison. Donatella Versace, icona gla-mour, non lascia mai la croce bizantina, regalo del fratello Gianni. Frida Giannini, l’intraprendente stilista dicasa Gucci, affronta l’esame dèfilè indossando abiti sexy e la collana ereditata dalla nonna. Alberta Ferretti,tutta chiffon e «amore per le donne che hanno testa», non dà il via alla sfilata se prima non telefona al fra-tello Massimo (che sta dietro le quinte). Nel caravanserraglio della moda, i legami familiari hanno un for-te potere taumaturgico. Rossella Jardini (Moschino) vuole come supporter il suo fidanzato. Anna Moli-nari si fa affiancare dai figli e, per essere serena, ama spargere sale ai quattro angoli del salone in cui sfila-no i suoi modelli. Non solo. In passerella va sempre con un grande fascio di rose per ricordare che «la re-gina delle maglie stampate con le rose» è lei, e sempre lo sarà. Sorridente ma “tagliente” Laura Biagiottiin coppia con la figlia Lavinia. Il suo talismano è la forbice, che appende al collo come un ciondolo. Sil-via Venturini (per Fendi) adotta pullover neri e gatti neri che, al contrario delle credenze popolari, a leiportano fortuna. Gaia Trussardi, di pelle vestita, ha in tasca una «catenina magica», regalo di suo pa-dre Nicola. Angela Missoni placa le ansie da sfilata con un bagno rilassante prima dell’evento.

E poi c’è chi contro la mala sorte non imbraccia alcuna arma. È il caso di Mariella Burani, a lei bastail suo angelo custode. «Scusate se è poco».

‘‘Gianfranco FerrèCinquecento cravatte per mepossono bastare...Ecco una delle manie d’architetto

‘‘Roberto CavalliAmo i serpenti e gli eccessimescolati però con eleganzae un tocco di sensualità

‘‘Laura BiagiottiIo, noi: di bianco vestitecome in una favola magicada ritagliare su misura

‘‘Antonio MarrasDalla Sardegna con amore:gli abiti parlano di me,della mia terra e delle mie passioni

‘‘Miuccia PradaIl bello è stupire e andaresempre controcorrentecon un po’ di frizzante euforia

‘‘Anna MolinariVesto come una veraregina delle roseSono il sale della mia vita

‘‘Dolce e GabbanaIl nostro credo? Il jeans,la camicia biancae i cornetti portafortuna

‘‘Gaia TrussardiÈ vero, lo ammetto, vado pazzaper la pelle. Propriocome mio padre Nicola

LA FORBICELa forbice-cigno appesa al collo

con un cordino benedice tutte

le uscite in passerella di Laura

I CORNETTITanti cornetti contro la cattiva sorte.

Stefano e Domenico se ne riempiono

le tasche prima di ogni passerella

IL SERPENTEIl suo amuleto è il serpente, Roberto

ne ha esemplari in diversi materiali

IL SALE E LE ROSEIl sale sparso sulla passerella

e un mazzo di rose tra le mani:

Anna si presenta sempre così

LO CHAMPAGNEUna coppa

di champagne

prima del défilé,

basta a Miuccia

per “ottenere

il favore degli dei”

IL LACCETTORosso come quello

degli emigranti sardi

di un tempo: il laccetto

talismano è sempre

al polso di Antonio

LE SPILLECrede fortemente

nel potere delle sue

spille Gianfranco,

le appunta

alla cravatta

ad ogni uscita

in passerella

LA CATENINAMolto più

di un portafortuna,

la catenina

che Gaia ha in tasca

è un dono

del padre

scomparso

Si scopre così che a dispetto dell’elegante rigore, del lussoo dell’eccesso sfrenato dei modelli proposti in défilé,

i re del fashion affidano la propria sorte ai rassicuranti oggettidella quotidianità:magari una T-shirt o un pugno di sale

Repubblica Nazionale

50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 13MAGGIO 2007

‘‘

‘‘l’incontroVite contromano

PARIGI

In questa casa vive qualcuno cheha paura della solitudine. Qual-cuno che non butta via niente,neanche i ricordi più dolorosi.

Chi potrebbe mai immaginare che Ja-ne Birkin viva in una casa piena di og-getti, con pareti di damasco cremisi,con un drappeggio che pende dal sof-fitto del soggiorno come una tendaorientale e con decine e decine di cor-nici appese alle pareti o ritte sui tavoli.Sono foto, popolatissime e anche mol-to vecchie, e disegni più o meno infan-tili. Sono il passato ma anche il pre-sente, uno accanto all’altro, uniti. In-credibile vedere Jane Birkin muoversiin questa scenografia un po’ decaden-te, lei che è stata il simbolo della don-na liberata, un’inglese della SwingingLondon e allo stesso tempo una pari-gina chic. Da quando nel ‘69 i suoi so-spiri con Serge Gainsbourg in Je t’aimemoi non plus hanno eccitato il mondo,ma anche da quando Antonioni la spo-gliò in Blow up (era il ‘66), Birkin si ètrovata incollata addosso un’etichettadi libertà che in realtà non le si addice.Proprio come le etichette delle orga-nizzazioni umanitarie da lei incollatesul suo strapazzato “sac Birkin” non siaddicono alla borsa che Hermes le de-dicò nell’84, oggetto di culto come lapiù famosa “Kelly”. Ma in una vita pie-na di tre figlie, quattro compagni, unaquindicina di dischi, sei spettacoli tea-trali, più di cinquanta film come attri-ce e due come regista, c’è posto ancheper un simbolo del lusso assoluto, pur-ché indossato con quel suo disarman-te sorriso: gli occhi che si fanno sotti-lissimi e la bocca che si spalanca esembra occuparle il viso intero.

Jane Birkin è ancora bellissima. I

suoi sessant’anni senza trucco sonoinfilati in un paio di pantaloni verdemilitare e in un golfino marrone di ca-chemire, sottile come una pashmina.Con quel suo corpo androgino, eppu-re straordinariamente femminile, simuove come un ragazzo: ha una falca-ta lunga e un incedere chiassoso,tutt’altro che leggero. Si precipita incucina, afferra due piatti di orzo bolli-to decorati da un filo d’olio e, offerto-ne uno, si siede sulla moquette e, su untavolo basso, mangia il suo. Sul divanoè spalmata Dora, sua ombra da anni,un enorme bulldog le cui flatulenzesaranno stemperate da una serie dicandele profumate accese alla biso-gna. «Tutti i bulldog fanno così», siscusa Birkin, prima di liberare un fiu-me di parole con gli argomenti infilatiuno nell’altro, e per questo scelti da lei,da lei sola, ma va benissimo: ascoltar-la è un incanto e da quel suo “stream ofconsciousness” vengono a galla ele-menti che la definiscono come è oggi,con pochissime cose di ieri e con mol-to passato remoto.

È come se la morte di sua madre, nel2004, avesse rafforzato un sentimentodi abbandono. Dopo la scomparsa disuo padre e di Serge Gainsbourg, en-trambe nel ‘91 a pochi giorni l’una dal-l’altra; dopo quella, dieci anni dopo,dell’adorato nipote poeta Anno (figliodel fratello Andrew) a vent’anni in unincidente stradale a Milano; dopo la fi-ne delle storie con i suoi quattro com-pagni (il compositore John Barry, SergeGainsbourg, il regista Jacques Doillon eil giornalista scrittore Olivier Rolin); masoprattutto allo scadere del tempo bio-logico massimo per fare figli, JaneBirkin ha tirato il freno a mano. E hascritto la sceneggiatura di un film. Lastoria della vita di una donna tra i qua-rantacinque e i cinquant’anni, con ipersonaggi che la hanno popolata.Quelli del presente (le figlie) e quelli delpassato (tutti gli altri). Non una finzione“liberamente ispirata a”: proprio la suastoria, anche se con i nomi cambiati.

Ci ha messo dieci anni, ma l’ha fatto, ilsuo film. Si intitola Boxes, scatole, e saràpresentato al prossimo Festival di Can-nes (16-27 maggio) in una sezione spe-ciale dedicata alle celebrazioni dei ses-sant’anni della rassegna. «Volevo fareun film sulla crisi di una donna che viveun momento terribile: a che cosa serviròora che non posso più avere figli? che co-sa accadrà? avrò diritto a un ultimo amo-re? o sarò solo un ricordo? qualcuno avràancora voglia di baciarmi?», dice.

Altra sorpresa: il femminismo è lon-tano dalla sfera umana di Jane Birkin.Essere stata la musa di tanti e, per sca-duti termini di età, non poterlo più es-sere come un tempo: sarà questo ilproblema? Molte le personalità fortinella sua vita. Prima di tutto il padre,che nel film ha la magnifica presenza diMichel Piccoli. «Era un uomo straordi-nario, impeccabile. Da bambina miportava alle manifestazioni contro la

loro sonnifero, il loro era un rapportoaffascinante anche da vedere».

In Boxes c’è anche sua madre, inter-pretata da Geraldine Chaplin, ci sonole sue tre figlie (e Lou Doillon, l’ultima,è nel ruolo di Charlotte, la seconda), isuoi tre compagni (il film è stato scrit-to quando Jane Birkin era ancora conRolin, ndr). E c’è lei. Nella parte di sestessa. «Non avrei voluto interpretar-mi, questo è certo. Ma ho ricevuto bentre dinieghi. Uno da parte di GeraldineChaplin. Giravamo un film a Cubaquando le ho dato la sceneggiatura. Miha detto: “Non posso farlo, sulloschermo appaio più vecchia che nellarealtà. Non ti farei un favore. Sei tu chedevi fare te stessa”. E così Geraldine hadeciso di fare mia madre».

Jane-Anna si muove in una anticasplendida casa. Sembra la casa dellefate ed è proprio la sua. Il rifugio di Ja-ne Birkin in Bretagna, vicino al Fini-stere. La casa è ingombra di scatoledalle quali escono ricordi e dalle qualifanno capolino i morti e i vivi. «Quan-do mia sorella ha visto il film mi hamandato un sms: ringrazia MichelPiccoli e Geraldine Chaplin, perchépensavamo di essere orfani e non losiamo». È madre e figlia allo stessotempo, lei che è diventata nonna aquarant’anni e che oggi ha quattro ni-poti insiste nel guardarsi alle spalle. DiGainsbourg parla poco, perché negliultimi tempi — con Arabesque, il disconel quale rivisitava le sue canzoni conun orchestra arabo-andalusa — lo hamolto cantato e in tutto il mondo. Sene è riappropriata, lei che lo aveva la-sciato nel 1981 per esasperazione (eper Jacques Doillon). Però una volta lonomina. Quando racconta di aver por-tato in Russia il concerto di Arabesquee di aver parlato della Cecenia: inun’intervista radiofonica e prima del-lo spettacolo. «Dovevo andarci, inRussia, anche se sapevo che dopo i fat-ti della Cecenia per me sarebbe statoimpossibile tacere. Dovevo farlo per-ché da lì veniva la famiglia di Serge».

La sua passione è oggi tutta nell’im-pegno sociale: è stata in Bosnia duran-te la guerra, in Birmania per sostenerela lotta silenziosa di Aun San Suu Kyi,ha cantato a Ramallah e anche inRuanda durante il genocidio. «È ungrande privilegio per me poter arriva-re in questi luoghi. Vado con quelloche so fare. Posso andare con un solomusicista o anche cantare a cappellain mezzo alla strada. È necessario cheio vada, certe cose non si possono direper lettera, né per telefono e allora di-vento un messaggero. Posso cantareper la strada, davanti all’università,nelle prigioni, e in questo modo direalla gente: siamo con voi, pensiamo avoi. Se la vita non mi avesse portata al-trove avrei potuto fare l’infermiera erestare lì. Ora invece l’unica cosa cheposso fare è tornare qui e parlare a tut-ti quelli che conosco di chi soffre e del-le cose che ho visto».

pena di morte. A sedici anni mi haiscritto ad Amnesty International. Eracontro la prigione. Andava a vedereTom Bell (famoso sindacalista comu-nista scozzese) incarcerato dopo uncomizio e diceva a sua madre: non sipreoccupi signora, suo figlio non andràin prigione, mi farò garante per lui. E ioero bambina e sentivo i topi sul tetto dimadame Bell e vedevo cadaveri arriva-re su barelle a rotelle, perché MadameBell aggiustava i morti…». Ma suo pa-dre non era militare durante la Secon-da guerra mondiale? «Era diventatouna spia al servizio della Gran Breta-gna. La mia madrina è Sarah Churchill.Poi, però, dopo la guerra ha continua-to a combattere contro il sistema car-cerario, fino alla fine. Ho avuto unagrande fortuna: non ho dovuto cercar-lo lontano il mio ideale di uomo. E tuttii miei compagni hanno subito capitoche dovevano amare mio padre. La se-ra Serge e papà prendevano insieme il

Il suo primo ruolo cinematograficoè stato nel 1965 in The knack (Palmad’Oro a Cannes) di Richard Lester, re-gista simbolo della Swinging London.Lei avrebbe potuto diventare una del-le divine creature del movimento. Per-ché si è sottratta? «Non l’ho fatto ap-posta. La vita è una serie di traiettorieinattese, imprevedibili. Mio maritoJohn Barry era partito in America. Ave-vo vent’anni, avevo già avuto Kate edero molto triste. Sono tornata a viverecon i miei genitori, ma mi pesava. Al-lora ho accettato di fare un provino perun film. A Parigi. Così ho conosciutoSerge e non sono più tornata».

Ma prima ancora c’era stato Blowup. «Doveva essere solo una compar-sa, ma quel film ha segnato la mia car-riera. Antonioni è stato di una estremadelicatezza con me e ha sempre segui-to la mia carriera. Che grazia, che one-stà, che pazienza. Ricordo il provinoper Blow up: qualcuno mi chiede discrivere il mio nome su un muro. Loscrivo piccolissimo. Mi urlano: piùgrande! Alla terza lettera ti giri di pro-filo. JAN, profilo, E B e qualcuno urlaancora: perché fai così? Mi hanno det-to di fare così, rispondo. Dice: scriviforse il tuo nome così grande per atti-rare l’attenzione su di te? Allora scop-pio a piangere farfugliando: mi hannochiesto di scriverlo grande. E sento:cut! Allora Antonioni è venuto verso dime. “Questo volevo sapere: se lei eravulnerabile. Ora le do tre pagine daleggere, ma ci pensi bene perché nelfilm dovrà essere completamente nu-da”. Sono tornata a casa e ho raccon-tato tutto a John. “Se proprio ti devispogliare, un film di Antonioni è quel-lo per cui vale la pena farlo”, mi ha det-to. Ma ha aggiunto: “E comunque soche non lo farai mai. Perfino quando tispogli a casa spegni sempre la luce”.Merde! Mi sono detta. Lo farò».

Mio padre è statouna personastraordinaria,impeccabileIo posso diredi aver avutouna grande fortuna:non ho dovutocercarlo lontanoil mio ideale di uomo

Era il simbolo della donna liberatae messa a nudo da Antonioniin “Blow-up” e da Gainsbourgin“Je t’aime moi non plus”Ora ha infilato tutta la sua vicenda

tumultuosa - quattrocompagni, tre figlie,il cinema, il teatro, i dischi, - dentro un film,“Boxes”, che saràproiettato a Cannese che rivela comequesta sessantenne

dal fisico di ragazza è una romanticaancora legatissima al ricordodei genitori scomparsi

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LAURA PUTTI

Repubblica Nazionale