omenica VITTORIO ZUCCONI DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007...

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DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007 D omenica La di Repubblica PADOVA S uona presto la sveglia al secondo piano di via Volturno 23/1. Un quarto d’ora dopo le cinque bisogna essere in piedi. Ap- pena il tempo per lavarsi la faccia poi giù dalle scale, cercando di non fare rumore, perché nell’appartamento di sotto c’è la signora Sriyanikontha, arrivata dal Pakistan, che ha i bambini piccoli. Un caffè veloce al Rosy’s bar proprio di fronte a casa (a quell’ora i giornali an- cora non sono arrivati) e via in macchina, dieci chilometri verso Vigonza. Alla “Fin. Al”, lavorazione trafilati di alluminio, il turno del mattino inizia alle sei. Ma è bello entrare in fabbrica assieme ai compagni che hanno gli occhi ancora pieni di sonno. «Ciao Davide», «Davide, ci vediamo in men- sa?». È bello perché qui Davide non è solo un operaio e nemmeno solo un sindacalista. È il vero leader della fabbrica e quando c’è l’assemblea tutti l’ascoltano in silenzio e gli danno ragione. Ha fatto il pieno di voti anche nell’ultima elezione per la Rsu, la Rappresentanza sindacale di base. «So- lo tu sei capace di strappare qualcosa ai padroni. Davide, tu sì che conosci le leggi». Davide Bortolato, trentasei anni compiuti il 7 novembre, quan- do entra alla “Fin. Al” è «il compagno della Fiom», quello che ha finito il li- ceo scientifico Curiel a pieni voti e poi è andato a lavorare perché «non ser- ve essere i primi della classe a scuola, bisogna esserlo in fabbrica». (segue nelle pagine successive) cultura Dc-Pci, la guerra fredda di celluloide FILIPPO CECCARELLI il fatto Harvard, la vendetta delle streghe VITTORIO ZUCCONI il reportage Le scuole divise dell’Irlanda del nord JOHN LLOYD le tendenze Il reggiseno, cent’anni di vita spericolata LAURA LAURENZI JENNER MELETTI C hi sono questi nuovi terroristi? Diversi o identici a quel- li degli anni Settanta? Certamente molto simili, figli del- la stessa incapacità di adeguarsi al mondo come è. Ho chiesto trent’anni fa a Giorgio Semeria, brigatista del gruppo storico, ciò che potrei, che vorrei chiedere oggi ai terroristi di ultima generazione: abbiamo età diver- se, storie diverse, ma siamo cresciuti nello stesso Paese, letto gli stes- si libri, gli stessi giornali, partecipato agli stessi mutamenti della pro- duzione e delle tecniche, agli stessi andirivieni della storia... e dun- que come è possibile che abbiamo visto il mondo, la vita in modi co- sì diversi? «Non so dirtelo — rispose allora Semeria — so solo che ave- vo nausea dello stato delle cose, terrore di doverlo accettare, di esse- re condannato a vivere in quella gabbia». Guardo i nuovi terroristi, leggo le loro dichiarazioni, le loro storie e riconosco la patologia di quelli che sono come sono e non possono rinunciare a quello che sono, impazienti, ossessivi, presuntuosi, de- cisi a ridefinire tutto, la società, se stessi, la produzione, il tempo li- bero. Sicuri delle loro analisi quanto più sono lontane dalla realtà, marxisti quanto più sideralmente lontani dal marxismo, dallo stori- cismo, dal materialismo, senza accorgersene fichtiani idealisti, del ti- po «posso ciò che voglio, se dici non posso è segno che non vuoi». (segue nelle pagine successive) GIORGIO BOCCA la lettura Il gioco del calcio, miseria e nobiltà EDOARDO NESI e SANDRO VERONESI i luoghi Mosca, i fantasmi della vecchia Russia DEMETRIO VOLCIC Br Fabbrica e sindacato, centro sociale ribelle, lotta armata clandestina Le tre vite del compagno R, l’ultimo terrorista FOTO PAOLO PEDRIZZETTI GRAZIA NERI Trent’anni dopo Repubblica Nazionale

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DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007

DomenicaLa

di Repubblica

PADOVA

Suona presto la sveglia al secondo piano di via Volturno 23/1.Un quarto d’ora dopo le cinque bisogna essere in piedi. Ap-pena il tempo per lavarsi la faccia poi giù dalle scale, cercandodi non fare rumore, perché nell’appartamento di sotto c’è la

signora Sriyanikontha, arrivata dal Pakistan, che ha i bambini piccoli. Uncaffè veloce al Rosy’s bar proprio di fronte a casa (a quell’ora i giornali an-cora non sono arrivati) e via in macchina, dieci chilometri verso Vigonza.Alla “Fin. Al”, lavorazione trafilati di alluminio, il turno del mattino iniziaalle sei. Ma è bello entrare in fabbrica assieme ai compagni che hanno gliocchi ancora pieni di sonno. «Ciao Davide», «Davide, ci vediamo in men-sa?». È bello perché qui Davide non è solo un operaio e nemmeno solo unsindacalista. È il vero leader della fabbrica e quando c’è l’assemblea tuttil’ascoltano in silenzio e gli danno ragione. Ha fatto il pieno di voti anchenell’ultima elezione per la Rsu, la Rappresentanza sindacale di base. «So-lo tu sei capace di strappare qualcosa ai padroni. Davide, tu sì che conoscile leggi». Davide Bortolato, trentasei anni compiuti il 7 novembre, quan-do entra alla “Fin. Al” è «il compagno della Fiom», quello che ha finito il li-ceo scientifico Curiel a pieni voti e poi è andato a lavorare perché «non ser-ve essere i primi della classe a scuola, bisogna esserlo in fabbrica».

(segue nelle pagine successive)

cultura

Dc-Pci, la guerra fredda di celluloideFILIPPO CECCARELLI

il fatto

Harvard, la vendetta delle stregheVITTORIO ZUCCONI

il reportage

Le scuole divise dell’Irlanda del nordJOHN LLOYD

le tendenze

Il reggiseno, cent’anni di vita spericolataLAURA LAURENZI

JENNER MELETTI

Chisono questi nuovi terroristi? Diversi o identici a quel-li degli anni Settanta? Certamente molto simili, figli del-la stessa incapacità di adeguarsi al mondo come è. Hochiesto trent’anni fa a Giorgio Semeria, brigatista delgruppo storico, ciò che potrei, che vorrei chiedere oggiai terroristi di ultima generazione: abbiamo età diver-

se, storie diverse, ma siamo cresciuti nello stesso Paese, letto gli stes-si libri, gli stessi giornali, partecipato agli stessi mutamenti della pro-duzione e delle tecniche, agli stessi andirivieni della storia... e dun-que come è possibile che abbiamo visto il mondo, la vita in modi co-sì diversi? «Non so dirtelo — rispose allora Semeria — so solo che ave-vo nausea dello stato delle cose, terrore di doverlo accettare, di esse-re condannato a vivere in quella gabbia».

Guardo i nuovi terroristi, leggo le loro dichiarazioni, le loro storie ericonosco la patologia di quelli che sono come sono e non possonorinunciare a quello che sono, impazienti, ossessivi, presuntuosi, de-cisi a ridefinire tutto, la società, se stessi, la produzione, il tempo li-bero. Sicuri delle loro analisi quanto più sono lontane dalla realtà,marxisti quanto più sideralmente lontani dal marxismo, dallo stori-cismo, dal materialismo, senza accorgersene fichtiani idealisti, del ti-po «posso ciò che voglio, se dici non posso è segno che non vuoi».

(segue nelle pagine successive)

GIORGIO BOCCA

la lettura

Il gioco del calcio, miseria e nobiltàEDOARDO NESI e SANDRO VERONESI

i luoghi

Mosca, i fantasmi della vecchia RussiaDEMETRIO VOLCIC

Br

Fabbrica e sindacato,centro sociale ribelle,lotta armataclandestinaLe tre vitedel compagno R,l’ultimo terrorista

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Repubblica Nazionale

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(segue dalla copertina)

Ma Davide Bortolato è un uomoche unisce molte vite. È il«compagno Davide», e basta,quando entra al Gramigna, il“collettivo politico autogesti-to” dove da più di vent’anni si

sogna la rivoluzione e si organizzano cortei conpassamontagna in testa e manici di piccone inmano. E nell’ultimo anno Davide Bortolato èdiventato anche «il compagno Roberto», capoclandestino del nucleo padovano delle nuoveBrigate rosse. Ha cercato di vivere queste tre vi-te — operaio sindacalista, compagno antago-nista nel collettivo, sergente dell’esercito rosso— cercando di non farle incontrare mai. Hadormito poco, ha macinato migliaia di chilo-metri, ha raccontato molte bugie. Anche alladonna che sta con lui, Ma-nuela Musolla, che è una fun-zionaria dirigente della Fiomprovinciale. I Nocs hannopreso Davide a casa delladonna, alle cinque di lunedì.Lo hanno ammanettato, in-cappucciato e portato via. So-lo in quel momento la signo-ra ha scoperto che Davide,«affettuoso, sempre gentile»,era un capo delle nuove Br. Èriuscita a dire soltanto: «Sonosconvolta».

Adesso che è stato arresta-to, Davide Bortolato ha persoanche il suo vero nome. Nel“comunicato sindacale” ap-provato dai centodieci lavo-ratori della “Fin. Al” di lui si di-ce soltanto che è «un compo-nente della Rsu coinvolto neifatti contestati dalla magi-stratura di Milano» e si espri-mono ovviamente «rabbia,amarezza e sorpresa». Eppu-re qui in fabbrica — era entra-to quindici anni fa — DavideBortolato ha passato le suegiornate più belle. I turni ini-ziano alle sei del mattino, alledue del pomeriggio e alle die-ci di sera. Un altro caffè allamacchinetta, prima di tim-brare il cartellino, poi il lavo-ro di taglio e di assemblaggiodell’alluminio per gli infissi.«Nel pre-contratto del 2004 Davide ha organiz-zato settanta ore di sciopero ma è riuscito aconquistare un aumento di centoventi euro,trenta in più di quelli ottenuti da Cisl e Uil cheavevano fatto l’accordo separato con il gover-no Berlusconi».

Sono importanti, trenta euro al mese. Con iturni, se hai più di dieci anni di anzianità, por-ti a casa millecentocinquanta euro. Se non fai iturni, arrivi appena a mille. Per chi inizia allesei, alle undici c’è la pausa di mezz’ora per lamensa. Con un euro, pasta al ragù, pollo e ver-dure. Nel documento del Comitato politicoper la ricostruzione del Partito comunista, tro-vato dietro l’armadio nell’appartamento di viaVolturno, c’è scritto che si può entrare nel sin-dacato ma senza sostenerlo davvero. L’iscri-zione serve solo a reclutare i militanti più fru-strati o rabbiosi. Davide non obbedisce, nonsegue la linea. Per la Fiom si impegna davveroe i risultati delle elezioni in fabbrica, a voto se-greto, lo dimostrano. «Lui era il leader con cuiparlavi di piattaforma e contratto ma anchedella strage di Erba, degli operai giovani chequando finisce il turno scappano come seuscissero di galera, di questo Tfr che chissà co-me andrà a finire». La fabbrica sta cambiando,ma unisce ancora. E soprattutto in mensa par-li di tutto. «Uno come Davide aveva successoperché era preparato su tutto, tranquillo e

sempre pronto a darti una mano».Anche quando diventa “Roberto” e si incon-

tra con «Prof., Sberla e Tyson» che stanno re-clutando l’esercito rosso, Davide Bortolato cer-ca di essere preparato e tranquillo. Ma non è fa-cile diventare brigatista, si subiscono ancheumiliazioni. Ci sono i ragazzi più giovani, maanche quelli più anziani di lui. Come ClaudioLatino detto Gallinella, cinquant’anni e BrunoGhirardi, cinquantuno anni, che a Milano fan-no i capi e guardano un po’ dall’alto in bassoquelli che arrivano da Padova. Sono già staticlandestini, hanno assaggiato la lotta armata,hanno provato la galera. Durante un incontrocon Bortolato, parlano di un attentato controuna casa di Berlusconi, discutono di cosa sidebba fare contro Pietro Ichino, docente di di-ritto del lavoro. «Non è che gli puoi fare nient’al-tro che farlo fuori». A “Roberto” invece si limi-tano a chiedere di trovare un posto dove prova-re le armi, e soprattutto di organizzare un furto

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007

la copertinaBrigatisti 2007

JENNER MELETTI

Famiglia di ceto medio,liceo con ottimi votima niente università“perché non serveessere i primidella classe a scuola,bisogna esserloin fabbrica”, così comevent’anni prima di luiaveva fatto il brigatistaRoberto OgnibeneUn solo “amore vero,per la rivoluzione”

ad un bancomat, per finanziare l’organizzazio-ne. Dovrà fare sopralluoghi continui, prima diavere l’ok dei milanesi.

Senza soldi non si fa la rivoluzione e Bortola-to si dà da fare, come se organizzasse il versa-mento delle quote sindacali alla Fiom. «Noi diPadova possiamo contare su un giro di unaventina di compagni che possono contribuirea livello economico. Un compagno a milleeuro al mese secondo me ce la può fare…Bisogna cominciare ad essere più regola-ri nel pagamento delle quote. Bisognaessere più stabili… e risparmiare.Mobilito tutti: servono i sghei». Por-ta millecinquecento euro ad Al-fredo Davanzo, clandestino al-l’estero. Altri mille euro per«finanziare il suo rientro inItalia». Bortolato non si la-menta mai. Non è comeVincenzo Sisi, cin-

Le tre vite del compagno R

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STAGIONE DI PIOMBODavide Bortolato, 36 anni, sindacalista

e “nuovo brigatista”. Qui sopra, il muro

esterno del centro sociale “La Fucina”

di Sesto San Giovanni. Per la copertina

e come cornice delle pagine è stata

utilizzata la foto di Paolo Pedrizzetti

(Grazia Neri) scattata nel 1977 durante

gli scontri in via De Amicis, a Milano

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Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007

Maglie colorate e doppiopetticosì il terrore litigava sul look

I brigatisti Settanta, tic e manie visti da vicino

GIORGIO BOCCA

(segue dalla copertina)

Eil terrorista, il brigatista vuole tutto e subito, vuole soprattutto uscire dal-la vita come è, avere una vita fuori dalla norma, sordo a ogni richiamo del-la ragione, imprudente quanto più cerca di essere prudente, uno che en-

tra e esce dalle gabbie che fabbrica con le sue mani. Il terrorismo è comprensi-bile solo perché esiste, evento irresistibile quando si alza nel mondo il vento ar-dente del furore e il terrorista si alza e va alla morte degli altri e sua. Mi ha rac-contato Lauro Azzolini: «Ero a Reggio Emilia da ragazzo e andavo in giro in ca-mioncino a distribuire bombole di gas. Portavo con me anche una bombolettadi vernice rossa spray e scrivevo sui muri dappertutto: W le Brigate rosse. Dibrigatisti allora a Reggio ce ne erano tre, Ognibene, Bonisoli, Franceschini.Capirono che c’ero anche io e io andai con loro».

È la incontenibile sindrome terrorista che li fa incontrare e che se li trascina dietroverso la inevitabile cattura, la inevitabile galera. Diversissimi fuori, identici dentro. Ri-corda Morucci: «Il primo incontro con i compagni del nord lo ebbi a Milano. Io e Adria-na arrivammo da Roma su un’auto spider color argento, in jeans e maglioni colorati.Ognibene e Franceschini, i compagni del nord, indossavano dei doppiopetti scuricome impiegati delle pompe funebri. Capii che non vedevano l’ora di separarsi dal-la nostra imprudenza romanesca».

La follia comune teneva assieme le Br e gli antichi vizi dell’uomo si riproduceva-no nel loro moralismo settario. Si stenterà a crederlo ma anche nel terrorismo, an-che nel quotidiano rischio della morte le ambizioni del comando, dell’afferma-zione personale, le debolezze personali restavano e si nascondevano. C’erano duedonne nella colonna torinese che più diverse non potevano essere: la Vai, ag-gressiva al massimo, uscita da anni di miseria e di malattie, con un rancore so-ciale divorante; e la Ponti, un donnino grazioso e feroce capace di uccidere sen-za la minima esitazione che si lamenta perché il “logistico” non vuole pagarle unsapone speciale per la sua pelle delicata. Un giorno la sentono dire: «Le Br mihanno aperto degli spiragli, certe cose della vita non mi bastano più». Ha pian-tato un marito infermiere per far carriera nelle Br e la fa con fredda determina-zione. Micaletto, il comandante della colonna genovese, la capisce di istinto eglielo dice, quando muore Piancone, il suo compagno, e lei non ha un momentodi turbamento: «Tu sei contenta che il tuo uomo sia caduto, così puoi entrarenella direzione del fronte». Per gli intellettuali carichi di prudenze e di dubbipratici Micaletto è la quintessenza del brigatista, è «un brigatista per intendi-tori», come dice il professor Fenzi. «Parlava pochissimo ed era sempre moltoironico. Non rispondeva volentieri, a volte canticchiava: “È inutile che bussi,qui non ti risponderà nessuno”, ma comunicava sicurezza, aveva la capacitàdi essere lui l’organizzazione. La impenetrabilità delle Br genovesi è stata tut-ta opera sua».

E nelle Br c’era Mario Moretti, un personaggio drammatico che ha accetta-to di parlare con me del tema centrale, del rovello di un terrorista: la rivoluzio-ne ti giustifica se uccidi? «Moretti — gli chiedevo nei nostri incontri a San Vit-tore, quando cercai di capire il terrorismo — ma era proprio necessario ucci-dere l’avvocato Croce solo perché presidente dell’ordine degli avvocati torine-si al tempo del primo processo alle Brigate rosse? Bisognava proprio piantargliuna pallottola in testa per dissuadere gli avvocati torinesi dal partecipare al pro-cesso?». «Noi — rispondeva — non abbiamo ucciso l’avvocato Croce come per-sona, ma la sua funzione». È un ragionamento politico a cui un terrorista non può

rinunciare ma è un dubbio che si porta dietro insoluto per tutta la vita.

Davide Bortolato ha trentasei anni. Col nome di “Roberto”è il capo del nucleo padovano delle nuove Br. Ma è ancheil sindacalista Fiomche guida gli scioperi nella fabbricadi trafilati d’alluminio dove lavora. E anche il “compagno”che dà la linea ai ragazzi ribelli del Centro sociale Gramigna

quantaquattro anni, che quando riceve un rim-borso di mille euro è tutto felice. «Così metto atacere i familiari. Loro non capiscono che la ri-voluzione ha un costo».

Si fa il colpo al bancomat, finalmente. Maquesti apprendisti del terrore, che si infilano inbicicletta contromano e cambiano strada deci-ne di volte quando hanno un appuntamento,non sanno che sulla Ford Kia di Bortolato, e nonsolo su quella, la Digos ha messo un Gps satel-litare e controlla ogni movimento. Così, quan-do si trovano davanti al bancomat di Albigna-sego e si mettono a siliconare la macchina deisoldi per farla saltare con il gas, i poliziotti fan-no suonare l’allarme e mettono tutti in fuga. Peruna volta, il compagno “Roberto” perde la cal-ma. «Porca puttana, tutta sta fatica per fare uncazzo. Mi girano i coglioni. Adesso facciamoqualcosa di politico».

La strada verso il terrorismo è tutta in disce-sa. Si provano le armi nelle campagne di San

Martino di Venezze. Bortolato accompagna inauto quelli che sparano e poi controlla che nonarrivino «gli sbirri». Ma non si accorge che i po-liziotti sono già lì: «Dalle ore 17,50 alle 18 del 19novembre 2006 si sono sentite brevi e ripetuteraffiche di mitra». Bortolato si esalta. Al risto-rante cinese Song He di Milano, in una delletante «riunioni strategiche» fatte a portata dimicrofono direzionale o di microspie della po-lizia, dirà a compagni: «Gli strumenti suonanobene». Ora anche i milanesi si fidano dei pado-vani. Si possono decidere gli obiettivi «strategi-ci», fra i tanti di cui si è discusso per mesi. Ma ar-riva l’ora dei reparti speciali. Porte sfondate,“bombe” che assordano e abbagliano, pistolepuntate. Alla stessa ora, tutti i nuovi soldati del-l’esercito rosso si trovano buttati giù dal letto eammanettati prima che riescano a capire cosastia succedendo.

Per comprendere perché il «compagno del-la Fiom» diventi anche il «compagno Roberto»

bisogna andare nel capannone del Gramigna(«l’erba cattiva non muore mai»). Davide Bor-tolato entra qui quando è ancora al liceo e nonsi è mai allontanato. Questo è il posto dove «ilProletariato non dimentica» e anche adessoche sono stati trovati i kalashnikov si continuaa dire che «il vero terrorismo è costruire basi diguerra». Si fanno anche feste, ogni tanto. Per laBefana, «Bruxemo ea vecia», bruciamo la vec-chia, che naturalmente è Romano Prodi. Unpaio di cinquantenni ricordano a ragazze e ra-gazzi i bei tempi antichi, quando Padova vole-va dire rivolta e ogni notte bruciavano i fuochidell’Autonomia.

Ma i “miti” non sono Toni Negri e soci. Tuttiinvece conoscono la storia di Walter Maria Gre-co detto Pedro, autonomo padovano ucciso aTrieste il 9 marzo 1985 dalla polizia. «Hannodetto che era armato ma quando è caduto a ter-ra hanno visto che in mano aveva solo un om-brello». Tutti conoscono Nicola Pasian, «che havissuto una vita intensissima in pochi anni».Prima autonomo, poi latitante, sempre ribelle.Morto in un incidente nel 1997. «Guidava l’au-to senza patente, non accettava nessuna rego-la». È qui, nel capannone con Che Guevara sul-la facciata, che «si tramanda l’amore vero, quel-lo per la rivoluzione».

Davide Bortolato — famiglia di ceto me-dio, genitori separati, tre fratelli, madre se-gretaria di scuola media e consigliere comu-nale a Vigonza — rinuncia all’università perandare in fabbrica perché così avevano fatto,quasi vent’anni prima di lui, i brigatisti rossicome Roberto Ognibene. E Bortolato passa iltestimone ad altri ragazzi che hanno pocopiù di vent’anni e come lui hanno lasciato illiceo per «indossare la tuta da operaio». «Livedi lì fuori dal centro, tengono addosso latuta anche quando vanno a una riunione o abere birra. La tuta è un simbolo, per qualcu-no una divisa». Sono una cinquantina, i mili-tanti. A comandare è «il collettivo». La mili-tanza è la ragione di vita. Occupazioni di ca-se, manifestazioni a volto coperto. Vannoanche all’estero: sono andati a Praga a sfa-sciare un Mc Donald’s. Ragazzi di vent’anniche vivono per la politica, per il comunismo.L’amore arriva solo dopo. «Il collettivo deci-de se la ragazza scelta è quella giusta. Certo,puoi sempre andartene, ma se vuoi esseredel Gramigna devi sapere che l’individuonon può decidere da solo». Tredici sfratti, avolte con le ruspe, con amministrazioni didestra e di sinistra, «ma noi risorgiamo dallenostre ceneri». L’importante è trovarsi, dopola fabbrica, a discutere del Chapas o dell’im-perialismo americano e annunciare a tuttiche «la guerra non è solo in Afghanistan, inIraq o in Libano ma è anche a casa nostra».

Davide Bortolato eredita dai «vecchi» untestimone che scotta le mani e brucia la vita.Senza rimorsi, lo passa a chi ha vent’anniadesso. Ai fratelli Alessandro e MassimilianoToschi (sono fra quelli che hanno lasciato lascuola) che ora come tutti gli altri si trovanoaccusati di «partecipazione a banda armatacon finalità terroristiche e di eversione del-l’ordine democratico». Testimone passatoanche ad Amarilli Caprio, studentessa poioperaia che a ventisette anni viene mandataall’università statale di Milano ma solo percercare «nuove reclute». Con lei il fidanzatoAlfredo Mazzamauro. Per loro, davanti ai mi-lanesi, garantisce Davide Bortolato. «Sonofra i più fervidi militanti del Gramigna».

Nel giardino della casa popolare di via Vol-turno (Davide Bortolato aveva occupato unappartamento, poi l’ha avuto in affitto dopouna sanatoria) sono spuntate le prime viole.Non c’erano, lunedì, quando i poliziotti sonovenuti a prendere Massimiliano Toschi cheabitava nello stesso appartamento del capo.Una sistemazione comoda, così si potevapartire assieme, a qualsiasi ora, per un so-pralluogo a un bancomat o per controllare ilcasolare con i kalashnikov. E poi bisogna te-nerseli vicini, i ragazzi da crescere.

Repubblica Nazionale

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BOSTON

Le prime tre impiccate furonodonne. Nessuno, in quel villag-gio di puritani chiamato Salemin omaggio a Jerusalem, si era

meravigliato quando tre donne, Titùba laschiava nera, Sarah Good e Sarah Osborn, lesue succube e complici, avevano ammesso ipropri commerci carnali con il Maligno, nel-l’anno del Signore 1692. Da oltre due secoli,da quando Papa Innocen-zo VIII aveva pubblicato nel1487 il Malleus Malefica-rum, il martello delle stre-ghe, ogni buon cristiano,cattolico o protestante chefosse, sapeva bene che ledonne erano portate alleconsorterie sataniche. «Es-sendo che il sesso femmini-le è preoccupato di faccen-de della carne, perché è na-to da una costola d’uomo ele femmine sono animaliimperfetti e corrotti».

Ma i bravi Puritani di Sa-lem volevano essere certi. Per mettersi la co-scienza a posto, si rivolsero a dottori indi-scussi della legge e della fede e si affidaronoa quel seminario-università da pochi anniaperto nella vicina Boston ma già investitoda un’aureola di indiscussa autorità: Har-vard. E il giudizio estratto dai testi e dalle opi-nioni dal presidente della neonata Univer-sità, il reverendo Increase Mather, e dal fi-glio, l’altrettanto reverendo Cotton Mather,non lasciarono dubbi. Tutti gli indizi, le ma-nifestazioni, le convulsioni, i cedimenti allacarne di quelle tre donne provavano la lorocolpevolezza. La schiava Titùba e SarahOsborne furono impiccate. Sarah Good, cheera incinta, fu incarcerata in attesa del parto.Il neonato morì di freddo in cella. La puerpe-ra fu impiccata. E il primo omicidio di ame-ricane uccise nel nome della lotta al demo-nio, fu consumato con la benedizione del-l’Università destinata a divenire la più cele-brata e premiata al mondo. Quell’Harvardche ha come motto, nel sigillo araldico, tresillabe: Ve-ri-tas.

Trecentoquindici anni, quanti ne sonotrascorsi dall’impiccagione di quelle donnealla scelta di una donna per guidare Harvardfatta in questi giorni, possono sembrare mol-ti per assistere alla rivincita delle “streghe”.Ma per un’istituzione che predata di un se-colo e mezzo la nascita degli Stati Uniti d’A-merica e che, come disse forse scherzandoun suo noto “alunno” e insegnante, HenryKissinger, «sicuramente sopravviverà anchealla fine del mondo», sono una fulminea ri-voluzione, uno scatto bruciante di sensibi-lità. Quando ci si crede, e si è, l’ombelico delsapere, del potere e della ve-ritas, ammettere di avereavuto torto nel giudicare ledonne può anche richiede-re tre secoli. La Chiesa cat-tolica ne ha impiegati al-trettanti per ammettere,con Papa Wojtyla, che infondo in fondo Galileo nonaveva tutti i torti. E la Har-vard University è quanto dipiù vicino a un Vaticano l’A-merica possieda e veneri,per il suo immenso e cre-scente potere temporale,per la impronta che si allar-ga sulla società americana.

Con sette presidenti degli Stati Uniti e qua-rantatré premi Nobel tra i propri cardinali,compresi due italiani, Rubbia e Giacconi, co-munque transitati anche loro da Harvard, unpoco di spocchia cardinalizia e autoreferen-ziale è comprensibile. Eppure, sorprenden-do anche la scrittrice bostoniana e premioPulitzer, Ellen Goodman che «mai avrebbeprevisto una donna chiamata a guidare Har-vard prima di una donna presidente», la sto-rica cinquantanovenne Catherine Drew Gil-pin Faust è stata la prescelta come nuovo Pa-pa. Satana, se ne fosse capace, sorriderebbeal pensiero che la prima femmina presiden-te dell’Università degli ex cacciatori di stre-

ghe porti il nome di Faust.Se non fosse già defunto da centoventi

anni, certamente non sarebbe sopravvis-suto a questa notizia quel presidenteemerito di Harvard e considerato ilcreatore del suo trionfo nel ventesimosecolo, l’insigne chimico e matemati-co Charles Eliot, che nel 1869 definìl’insigne istituzione come «la incu-batrice della virilità americana» ebuttò in scienza le tesi di Inno-cenzo VIII quando aggiunse che«le donne hanno capacità men-

tali inferioriagli uomini».Sorpresissi-ma sarebber i m a s t aanche lam a d r edella dot-t o r e s s aG i l p i nF a u s t ,che in-v a n oa v e v aspiega-to alla

figlia, nella Virginia nata-le, che «questo è un mon-do che appartiene agliuomini e prima ti rasse-gni, figlia mia, meglio è».Né molto meglio si devesentire il presidente de-posto, Lawrence Sum-mer, già ministro del Te-soro nell’amministrazio-ne Clinton, che dannò ilproprio regno all’infernodella political correctnesscon una famosa osserva-zione sulle donne che nonpossederebbero «le qualitàintrinseche» necessarie perassumere una cattedra adHarvard. Dove ci sono, pro-porzionalmente, meno pro-fessoresse nelle facoltà di quan-te signore ci siano nell’ammini-strazione Bush, non accusabiledi sfrenato femminismo.

Tanta spasmodica, ammirata einvidiosa attenzione per la più anti-ca e incomparabilmente più riccauniversità privata americana, conuna “dote” finanziaria di circa trentamiliardi di dollari donati da ex alunni eun costo annuale fra retta e alloggio vici-no ai cinquantamila dollari per studente,è ovviamente la conferma della unicità diHarvard non soltanto nel panorama accade-mico americano, ma nella storia di questanazione. Se quel nome, Faust, è solo unacoincidenza, non lo è il fatto che la nuova

presidentessa sia una dellemassime specialiste di sto-ria americana. Dunque, èun caso unico di una stori-ca chiamata a fare la storia,e non più soltanto a scrive-re di storia.

Sobbalzino pure sulle lo-ro sedie gli studenti dellealtre celebri universitàamericane, le consorelledella Ivy League, legate dairampicanti che ne copro-no le facciate e dalla qualitàdell’insegnamento e dalla,per noi italiani, sconvol-

gente disponibilità di mezzi economici(Harvard ha la terza biblioteca nel mondo,dopo la Library of Congress e la British Li-brary). È un fatto che nessuna delle altregrandi, dentro e fuori la “Lega dell’Edera”,neppure Yale e Princeton che pure con essarivaleggiano formando il triangolo detto di“Yarverton”, ha il prestigio assoluto dell’uni-versità creata, con i propri libri personali e ipropri soldi, dall’inglese John Harvard, unreligioso laureato a Cambridge ed emigratoin questo terreno sulla riva nord del fiumeCharles ribattezzata, comprensibilmente,Cambridge. Anche il Times di Londra, in-goiando l’orgoglio british per le sue Oxford eCambridge, ha definito Harvard e il vicino

VITTORIO ZUCCONI

il fattoRivoluzioni

L’ex rettoredisse che solo

gli uomini hannole “qualità

intrinseche”per quella carica

Sotto il mottoVeritas

ne potrebbecampeggiare

uno più onesto:Potestas, potere

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007

19.789studenti nel 2004

35%iscritti di varie etnie

70%i borsisti

23mila $la borsa di studio media

UNA PIOGGIA DI NOBELTra i 43 harvardiani insigniti del premio, sono statiNobel per la pace Theodore Roosevelt nel 1906 ed HenryKissinger nel 1973; Nobel per la letteratura T.S. Eliotnel 1948. Nel 2005 il professor Roy J. Glauber, docentead Harvard di teoria dei quanti, ha vinto il Nobel per la fisica

IL FONDATOREL’anno della fondazione dell’Harvard Collegeè il 1636. L’Università prende il nome dal primodonatore, il ministro protestante John Harvard,che alla sua morte lasciò una ricca bibliotecae la metà dei suoi beni immobili

LE DONNENel 1943, a causa della guerrae dell’assenza di numerosiinsegnanti impegnati

al fronte, le ragazzedella sezione femminile

sono ammesseall’interno

del campusper seguire

i corsidei maschi

FAMOSI NEL MONDOMolti gli ex-allievifamosi: oltre alloscrittore T.S. Eliot,il compositoreLeonard Bernstein,il vice di ClintonAl Gore, il papàdi Jurassic Park

Michael Crichtone il primo capodi governo donnapakistano

Benazir Bhutto

Una donna al potere

Nel 1692 per impiccare tre cittadine di Salem accusate di avere scambicon il Maligno ci si rivolse alla neonata università sulla riva del fiume Charlesgià riconosciuta come indiscussa autorità. I professori benedissero l’esecuzioneOggi, dopo oltre tre secoli, la scuola più importante del mondo,“l’incubatrice della virilità americana”, abbatte il suo anticotabù: Catherine Drew Gilpin Faust è nominata presidente

Repubblica Nazionale

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presenza di dottorandi europei, asiatici,africani, mantiene quell’aura di internazio-nalità che Harvard ricerca e che serve a col-tivare il proprio prestigio internazionale.Qui studiarono l’ammiraglio Yamamoto, lostratega di Pearl Harbor, e il presidentefrancese Jacques Chirac, e vi tenne lezioneRomano Prodi.

Il sentimento di essere coloro che eredi-teranno l’America, e con essa buona partedel mondo, non ha bisogno di essere colti-vato o insegnato, perché dalle finestre deidormitori o dalle classi la testimonianza di

appartenere ai “bramini”della terra è ovunque. Daqueste stesse piazze e stra-de oltre il fiume Charles,che divide Cambridge daBoston, uscirono sette pre-sidenti: John Adams, lau-reato nel 1775, quando an-cora le graduatorie fra glistudenti erano stabilitenon in base ai voti ma «at-traverso il rango socialedelle loro famiglie»; suo fi-glio (a proposito di fami-glie) John Quincy Adams;Rutheford Hayes; Theodo-

re Roosevelt; suo cugino Franklin DelanoRoosevelt; John F. Kennedy (che non riuscìa completare però il master); e George W.Bush. E se per il futuro incombono i rischi diuna Yalie, una laureata in legge a Yale comeHillary, o di un prodotto della New YorkUniversity come Rudy Giuliani, Harvard haun solido cavallo in gara in Barak HusseinObama, il primo studente di colore chia-mato a dirigere la Harvard Law Review, la ri-vista di studi di giurisprudenza.

Qualunque sia la corsa, se il traguardo èimportante, ci sarà un fantino con la casac-ca crimson, cremisi, in gara. L’ideologia nonconta, conta il potere. Harvardiano è l’ideo-logo più garrulo della destra neo con, Wil-liam Kristol, come harvardiano è il ministrodella giustizia in carica e sommo giustifica-zionista delle tecniche di interrogatorio chealtrove si chiamerebbero torture, AlbertoGonzales. Ma harvardiano è il capofila del-la sinistra nel partito democratico, il sena-tore di New York Charles Schumer, come loè il verdissimo Ralph Nader. Anche il crea-tore di un serial televisivo di successo mon-diale quale Dr. House, Peter Blake, è laurea-to ad Harvard. Ci studiò anche Bill Gates, adHarvard, senza laurearsi.

La scarsità di donne, in un elenco di no-tabili e di potenti che richiederebbe le pagi-ne gialle, è evidente e ha un’altra confermanel fatto che soltanto da otto anni, dopo es-sere stata trattata semplicemente come unannex, un’appendice, l’università femmi-nile di Radcliffe, gemella di campus, è statafinalmente assimilata e parificata ad Har-vard. Ma nessuna parificazione, e nessuno

sforzo di creare “diversità”di pelle, di cultura e di ge-nere, è riuscita ancora ascardinare la cabala deiporcelli, anzi, per esserecorretti e classici, dei Por-cellians, il club esclusiva-mente maschile e apertosoltanto al sangue più bludel potere e della ricchezza,che dal 1791 raccoglie l’es-senza migliore, e peggiore,di questa mirabile istitu-zione del sapere. Tra i Por-cellians, che esibiscononelle loro riunioni riservate

distintivi a forma di porcellino all’occhiello,non si entra, si viene chiamati, e persino unfuturo presidente come Franklin Rooseveltfu respinto perché giudicato troppo popu-lista. Ne rimase amareggiato per tutta la vi-ta e neppure quattro elezioni consecutivealla presidenza della nazione, record cheresterà imbattibile, lo consolò, forse perchéil cugino Teddy, invece, ci era riuscito.

Oserà adesso una donna presidentespezzare anche l’ultima incubatrice della“virilità” sopravvissuta nella fabbrica deiNobel e dei ministri? Sarà sicuramente ten-tata di farlo, a costo di pestare il codino al de-monio. O ai porcelli.

Mit, «le due migliori università del mondo».Sotto il simbolo dei tre libri - tre Bibbie

- aperte sulle sillabe di Veritas, potreb-be campeggiare oggi un altro motto la-tino più onesto: Potestas, potere, per-ché potere - politico, finanziario,scientifico - è ciò che oggi realmen-te Harvard vende in cambio deiduecentomila dollari necessariper una laurea quadriennale,più le altre centinaia di migliaiaper i livelli superiori di mastere di dottorato. I duemila fortu-nati licealiammessi afrequenta-re il primoanno, so-no il dieciper centodei r i-c h i e -d e n t i ,c o -scientidi esse-re “lac r è m ede lacrème” prodotta dallescuole superiori, poi-ché nessun mediocrestudente oserebbeneppure tentare la for-tuna. E se i meccanismidi accettazione sempreapparentemente meri-tocratici conosconopurtroppo le solite ecce-zioni del favoritismo edel familismo, come di-mostrano i casi celebri di

John Kennedy, di JohnKerry e di George Bush,

mediocri studenti ammes-si a Harvard o a Yale in forza

della family connection, iprodotti della antica mac-

china crimson, cremisi, il co-lore ufficiale della scuola,

prendono titoli di studio nellamateria essenziale per avere

successo nella vita: la cono-scenza di chi guiderà la nazione,

il suo governo, le sue aziende, lesue università. La legge del «non è

importante che cosaconosci, ma chiconosci» trova a Harvard la propria

massima espressione.«Ad Harvard non diventerai un av-

vocato migliore», scrisse con la solitapunta di invidia malevola un avvocato-

scrittore di grande successo, Michael Cri-chton, «ma conoscerai gli avvocati miglio-ri. O, ancora meglio, incontrerai i futuriclienti più ricchi». In una società ufficial-mente senza classi e sen-za nobiltà ereditaria, leuniversità come Harvardrappresentano quanto dipiù vicino esista a un mec-canismo di cooptazione edi autoriproduzione delpotere e delle caste. Non èun caso se i bostoniani dipiù alto rango sociale, edestinati ad Harvard, so-no stati soprannominai“bramini”. Chi vi vuoleaccedere, deve imbocca-re fin dall’asilo le stradegiuste, e con asili privatiche ormai chiedono fra i cinque e i dieci-mila dollari all’anno per i bambini di treanni, la strada è sbarrata per la maggioran-za ancora prima di avere imparato a farepipì nel vasino.

La popolazione americana nella metà in-feriore dei redditi manda appena il dieci percento degli studenti nelle trenta universitàtop americane (su tremila) mentre il dieciper cento più alto dei redditi copre il settan-taquattro per cento degli iscritti. È più faci-le, relativamente, per un cittadino stranie-ro trovare un posto, soprattutto nei corsipost laurea, di quanto lo sia per un ameri-cano nato ad esempio nel Sud, perché la

In una societàufficialmentesenza classi

i bostoniani sonosoprannominati

“bramini”

NeancheFranklin

Roosevelt riuscìa entrare nel club

esclusivodei Porcellians

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007

le donazioni del 2005

25 mld di $i libri della biblioteca

15mln 931il dottorato più costoso

35.600$la retta più economica

27.448$

Drew Gilpin Faust

DAL CAMPUS ALLA CASA BIANCASette presidenti degli Stati Uniti hanno studiato ad Harvard:

John Adams, John Quincy Adams, Rutherford B. Hayes,Theodore Roosevelt, Franklin Delano Roosevelt, John

F. Kennedy e, da ultimo, George W. Bush (prima laureato a Yale, come suo padre, e poi specializzato ad Harvard)

LE DIECI FACOLTÀDopo i quattro anni obbligatori per tutti ci si può

specializzare in arte e scienze, economia,medicina, design, teologia, odontoiatria,

giurisprudenza, scienze politiche, scienzedell’educazione, scienze della salute

CREMISIIl cremisi (crimson

in inglese) è il colore ufficialedell’Università dal 1910,

scelto in omaggio a CharlesEliot, ex campione

di canottaggiodiventato rettore

che scelse sciarpedi questo colore

per il suoteam

CARRIERE FEMMINILILa prima donna

ad insegnaread Harvard è stata

Alice Hamiltonnel 1919. Nel 1956

viene assunta la primadonna full professor,

Cecilia Payne-Gaposchkin, docente

di astronomiaOggi le insegnanti

sono il trediciper cento

del totale

vendica le streghe

Catherine Drew Gilpin

Faust, classe 1

947,

è una studiosa di storia

americana. Tra i suoi libri,

“Mothers of Invention:

Women of the Slaveholding

South in the American

Civil War”. È il primo

presidente, dal 1672,

a non essersi la

ureato ad

Harvard

Repubblica Nazionale

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il reportageSeparati in casa

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007

Un gruppo di madri, riunite in una cittadinanordirlandese, discutono della possibilità di spezzarela storica divisione tra scuole cattoliche e protestantiLa località è Omagh, dove nove anni fa un attentatouccise ventotto persone. Dopo un dibattito imbarazzatoe teso, i progetti di integrazione fanno passi avanti

OMAGH

In una stanza, con otto donne,una delle quali è lì per presiede-re la riunione. Nella cittadina diOmagh, nell’Irlanda del nord,

dove nell’agosto del 1998 una bombalasciata in un furgoncino da un gruppodi terroristi repubblicani, in una stradaaffollata da gente che faceva shopping,uccise ventotto persone, in maggio-ranza donne - una era incinta - e inmaggioranza cattoliche.

La stanza era silenziosa. Le donneevitavano di guardarsi negli occhi. Era-no state radunate, insieme ad altrecentocinquanta persone, un sabatomattina di inizio febbraio, per discute-re dell’istruzione dei loro figli. In realtà,la convocazione era rivolta anche aipadri ma, com’è nella natura delle co-se, a rispondere all’invito sono state so-prattutto le madri, le donne. La richie-sta era quella di partecipare a un son-daggio deliberativo sulla scuola, unprogetto ideato da un professore ame-ricano, James Fishkin. Tutti gli interve-nuti avevano compilato un lungo que-stionario prima di venire; e un altroquestionario li aspettava al terminedella giornata, scandita alternativa-mente da discussioni in piccoli gruppie sessioni plenarie in cui tutti i cento-cinquanta genitori intervenuti poteva-no porre delle domande a un gruppo diamministratori scolastici ed esperti delsettore.

Questo gruppo di donne aveva pas-sato la mattinata insieme, inizialmen-te con un certo disagio, dato che nes-suna si conosceva; poi, con l’aiuto del-la donna che presiedeva la riunione(una moderatrice di professione), ave-vano cominciato a parlare più libera-mente, discutendo della qualità dellescuole frequentate dai figli, della diffi-coltà degli esami, se la selezione scola-stica sia necessaria o meno, tutti inter-rogativi che stanno a cuore ai genitoridi ogni parte del mondo. Durante lasessione plenaria del mattino avevanofatto delle domande, poi alcune di loroerano andate a pranzo insieme.

Quando è ripresa la riunione, però,c’è stato un momento di silenzio e di di-sagio. La pausa tra la domanda fattadalla moderatrice e la risposta che nonarrivava si prolungava. Le donne sispostavano nervosamente sulle sediedisposte a semicerchio nella spogliasala delle riunioni dell’istituto di for-mazione professionale superiore dellacittà. La moderatrice ha riformulato ladomanda, ma la risposta è stata anco-ra il silenzio.

La domanda era una delle tante chela gente, in Irlanda del nord, cerca dievitare. Quelle donne sarebbero statedisposte a mandare i loro figli in unascuola di un’altra fede? I protestanti sa-rebbero stati disposti a mandare i lorofigli a scuola con i cattolici, e viceversa?

In Irlanda del nord - dopo la divisio-ne dell’isola nei primi anni Venti,quando la Repubblica irlandese pro-clamò l’indipendenza dalla Gran Bre-tagna e il Nord, in maggioranza prote-stante, rifiutò di unirsi alla nuova Re-pubblica e insistette per rimanere sot-to la corona inglese - le scuole sono di-

vise. La Chiesa cattolica insisteva chetutti i cattolici dovevano frequentarescuole cattoliche; il governo nordirlan-dese, dominato dai protestanti, feceuno sforzo per creare scuole miste, marinunciò quasi subito, senza sforzarsipiù di tanto: molti protestanti preferi-vano scuole separate. E così, per oltreottant’anni, le scuole nella provinciasono state cattoli-che o “statali” (chevoleva dire, per lopiù, protestanti).La maggior partedegli osservatori, emolti cittadininordirlandesi, ri-tengono che scuo-le divise significhi-no comunità divi-se: è più facileodiare, perfino uc-cidere, gente chenon hai mai incon-trato.

Ma di fronte alladomanda diretta -«Che cosa fare-ste?» - dare una ri-sposta non erasemplice. Alla fi-ne, però, qualcu-no ha rotto il silen-zio. Una donnache chiameremoMary e che duran-te la mattina spes-so aveva assuntoun ruolo guidanella discussioneha fatto un lungorespiro e parlandolentamente e mi-surando le paroleha detto: «Mi piacel’idea di un’istru-zione cattolica. Mantiene un equili-brio fra istruzione e moralità. È belloavere un’istruzione religiosa. Ha unalunga storia, una storia positiva, e a me

sta bene».Un’altra donna, Bernadette, che an-

che lei era stata fra le più attive nellesessioni mattutine, ha preso la parolaper sostenere la posizione di Mary. «Lacosa spaventosa dell’istruzione pub-blica è che tratta i bambini come unità.La cosa importante è l’etica della scuo-la. Io capisco le argomentazioni di chivuole una scuola integrata; ma il go-verno è ingenuo se pensa che mettereprotestanti e cattolici nella stessascuola possa cambiare qualcosa. Inogni caso, in questa cittadina, c’è dia-logo fra di noi, non è un problema se seicattolico o se sei protestante».

Mentre le prime due parlavano, unadelle altre donne, di nome Carol, sem-brava irrequieta, ed è intervenuta par-lando velocemente, quasi con aggres-sività: «Io sono decisamente a favoredell’integrazione scolastica. Non pen-so che sia un’idea ingenua, tutt’altro.In questo momento, a Omagh, esisteun forte razzismo e una delle cause è ladivisione delle scuole. Secondo me ciilludiamo se diciamo che c’è dialogofra di noi».

Un altro momento di silenzio. Comein qualsiasi gruppo di persone civiliz-zate l’intenzione delle donne era di ri-manere in buoni rapporti con le altre.E così era stato, fintanto che non erastato affrontato questo argomento.Ora si trovavano di fronte a una do-manda che le invitava a dire: la mia re-ligione è migliore della tua e voglio te-nere i miei figli lontano dai tuoi. Unaquarta donna, Christina, è intervenu-ta, anche in lei in modo quasi aggressi-vo, per replicare a Carol: «La religioneè parte della tua identità: l’essere cat-tolici è una parte importante di quelloche sei. Se perdi la tua identità, non saipiù chi sei e da dove vieni. I bambiniperderebbero rapidamente la loroidentità se imboccassimo la stradadell’integrazione scolastica».

Poi ha preso la parola una donna dinome Brenda, che fino a quel momen-

JOHN LLOYD

AFFRESCHI DI PROPAGANDAMurales di propaganda repubblicana

e unionista a Belfast (le foto

risalgono alla fine degli anni Novanta)

“Qui da noi c’èun forte razzismoUna delle causeè l’insegnamento”

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Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007

to aveva parlato poco. Dall’accento edal modo di parlare sembrava proveni-re da un ambiente più popolare rispet-to a quelle che avevano parlato prima,tutte donne della classe media. «Se-condo me l’integrazione scolastica è lastrada giusta. Io sono cattolica, ma hosposato un protestante. I miei figli van-no a una scuola cattolica. Mia figlia,quando la gente glielo chiede, dice:“Mia mamma è verde e mio papà èarancione” [i colori che identificano ri-spettivamente i repubblicani e gliunionisti] e ne è tutta orgogliosa. Maqui sento molta ostilità. Se la gente fre-quentasse le stesse scuole, fin da pic-coli, ce ne sarebbe meno».

L’ultima a prendere la parola è unaragazza, vestita piuttosto male, che fi-no a quel momento non aveva mai par-lato. Anche lei sembra meno benestan-te delle altre: parla con chiarezza e conenfasi. «Io sono favorevolissima all’in-tegrazione scolastica. Anche la mia fa-miglia è mista: io sono protestante e ilmio compagno è cattolico. Mio figlioha frequentato scuole cattoliche escuole protestanti, e ha amici dall’unae dall’altra parte. Dovrebbe essere cosìper tutti».

Le inibizioni cominciano a cadere,gli schieramenti diventano più eviden-ti. Mary riprende la parola con decisio-ne. «Vogliamo una società atea? Vo-gliamo che la separazione fra Stato eChiesa arrivi al punto in cui è arrivata?».Carol replica seccamente: «Io pensoche Stato e religione debbano essereseparati. Secondo me, dire che c’èun’etica cattolica nelle scuole, e chequest’etica è migliore, è arrogante: sia-mo tutti cristiani, dopotutto».

La moderatrice interviene con genti-lezza per spegnere sul nascere il diver-bio. La conversazione continua, maben presto scivola su questioni di mi-nore importanza, come condividere icampi sportivi o prevedere giorni in cuile scuole fanno lezione insieme. La ses-sione giunge a termine.

Più tardi, nella riunione plenaria, gliesperti che rispondono alle domandecercano di nascondere il loro disaccor-do e si comportano educatamente. Mauna cosa esce fuori con chiarezza. Pro-testanti e cattolici hanno una visionefondamentalmente differente dellascuola. Per la maggioranza dei prote-stanti, le scuole devono essere respon-sabilità dello Stato. La religione deveavere un ruolo, mamolti dicono dinon essere contra-ri all’integrazionese verrà lasciatospazio alla religio-ne. Per gli espo-nenti cattolici al-l’interno del grup-po di esperti - unoera un gesuita,un’altra una suorapreside di unascuola - la scuola faparte di una trinitàdella fede cattolicacomposta da fami-glia, scuola e co-munità. Le scuole,secondo loro, nonpotrebbero deci-dere di diventaremiste, perché so-no gestite sulla ba-se della fede in Dio.

Tra gli espertic’era un uomochiamato MichaelWardlow, diretto-re del Consiglioper l’integrazionescolastica dell’Ir-landa del nord.Wardlow dice cheil suo movimento ènato vent’anni fa,quando un gruppo di genitori, stanchidella divisione, hanno messo in piediuna scuola integrata in un’aula dellacittadina di Lagan. Oggi circa il sei per

Irlanda del nord, un muro tra i banchicento dei bambini nordirlandesi fre-quenta una scuola integrata e la per-centuale è in crescita: sono state fon-date nuove scuole e qualcuna di quellegià esistenti - tutte protestanti - hannovotato a favore dell’integrazione.Wardlow dice che la gente ha un’ideasbagliata delle scuole integrate: sonoscuole fortemente religiose, l’unicadifferenza è che sono presenti entram-

be le religioni. La scuola chiude sia inoccasione delle festività cattoliche chedelle festività protestanti. Vengono in-segnati anche i precetti dell’altra con-fessione. Alla morte di Giovanni PaoloII, tutti i bambini hanno partecipato aun servizio funebre.

È straordinario che in uno Stato de-mocratico avanzato ci sia tutta questanecessità di fare discorsi del genere; èstraordinario che abbia tutta quest’im-portanza. Nel resto della Gran Breta-gna ci sono scuole anglicane e scuolecattoliche, e anche scuole metodiste,quacchere, ebraiche e battiste. Tuttequeste scuole hanno elementi legati al-la tradizione delle rispettive fedi, matutte, quale più quale meno, sono mi-ste, con genitori che cercano le scuolemigliori per i loro figli: e tutte sono fi-nanziate dallo Stato.

Ora, in Gran Bretagna, anche i mu-sulmani chiedono di avere delle loroscuole: una richiesta a cui molti guar-dano con timore, perché è dimostratoche le scuole islamiche possono inse-gnare ai bambini a odiare i cristiani e gliebrei. L’esempio dell’Irlanda del nordnon è incoraggiante: dove esistono di-visioni e sfiducia, la segregazione sco-lastica sembra peggiorare le cose. Euna volta che si creano scuole separa-te, tornare alle scuole miste è difficile.

Alla fine della giornata, i partecipan-ti all’incontro di Omagh hanno riempi-to i loro questionari. Analizzandoli, èuscito fuori che sia i protestanti che icattolici, in molti casi, avevano cam-biato idea: avevano un’opinione mi-gliore gli uni degli altri, si guardavanocon meno diffidenza, ed erano moltopiù numerosi, una netta maggioranza,quelli che pensavano che l’integrazio-ne scolastica fosse una buona cosa. Lasfida ora ricade sulle spalle dei politici,e soprattutto delle gerarchie ecclesia-stiche. Seguiranno l’orientamento deiloro fedeli? Eviteremo un’altra divisio-ne nelle scuole britanniche?

traduzione di Fabio Galimberti

LA PROTESTAAltri murales sui muri di BelfastLa foto grande è stata scattatanel quartiere cattolico di Falls

“Se unificassimogli istituti, i bambiniperderebbero prestola loro identità”

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LE TAPPE DI UNA GUERRA CIVILE

Col trattato del 1921 l’Irlanda del nord rimane sotto il dominio britannico.Travagliatada una politica di discriminazione nei confronti della minoranza cattolicala regione piomba nella guerriglia: il 30 gennaio 1972 (“the Bloody Sunday”)tredici civili vengono uccisi da soldati britannici. Per tutti gli anni Ottanta il terrorismoprevale sui negoziati e i morti sono migliaia. Nel 1998 l’Accordo del Venerdì Santopermette di avviare un processo di pace

Repubblica Nazionale

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Vjaceslav Mikhailovic Molotov (1893-1986), ministro degli Esteri di Stalin, esua moglie Polina (1897-1970).Fedelissimo di Stalin, insieme a Kaga-novic, Molotov era un grande servitoredello Stato e in questa funzione ha avu-

to momenti di declino, momenti di semiombra o pe-nombra e poi è sempre rispuntato di nuovo. Morì alleprime luci della perestrojka. Lo hanno mandato in po-sti secondari, in Mongolia addirittura, lui il grande di-plomatico, e negli ultimi anni della sua vita è stato spe-dito a Vienna come rappresentante sovietico pressol’Agenzia atomica internazionale dove faceva l’amba-sciatore, posto di scarso rilievo ma di bella vita. E lì l’hoincontrato.

Un giorno passeggio per la strada vedo un signoreche aveva una faccia conosciuta e una signora cinqueo sei metri dietro. I due non si scambiano una parola,fanno qualche chilometro, poi si siedono nella loromacchina, partono, il tutto senza le guardie del corpo.La donna è la moglie, Polina, che aveva trascorso alcu-ni anni nei campi di concentramento, accusata di uncomplotto ebraico e persino di corruzione sessuale.Era amica della Golda Meir, il primo ambasciatoreisraeliano a Mosca. Nel ‘48 era stato creato lo Stato diIsraele e Polina, per promuovere la causa di Israele, mi-se in piedi un comitato ebraico a Mosca, con l’appog-gio di Stalin il quale aveva capito l’importanza dellafaccenda e fece entrare nel comitato, presieduto daPolina, i più illustri ebrei della città. Compilata la listadegli ebrei influenti, entro pochi mesi caddero tutti indisgrazia, e la moglie di Molotov fu spedita nel lager.Quando, subito dopo la morte di Stalin, Beria, ministrodegli interni, l’anima nera del regime, rilascia dal lagerla signora Polina, Molotov va a prenderla. Lei gli chie-de: «Che cosa c’è di nuovo?». «Lo sai no, che è mortoStalin?», risponde lui. E lei si mette a piangere.

Non perdonò il marito; perdonava Stalin, ma nonperdonava il marito che non aveva fatto tutto il possi-bile per salvarla dal lager. Molotov era presente a tuttele cene che Stalin organizzava di notte nella sua daciae i compagni lo prendevano pure in giro, chiedendo-gli: «Ma come sta tua moglie?». Tutti erano a cono-scenza del fatto che lei, Polina, si trovava in un lager.

Sergei Mikhailovic Eisenstein (1898-1948), registacinematografico

Sergei Eisenstein ha realizzato sette film, tutti sottol’influenza diretta di Stalin il quale era molto interes-sato alla trilogia su Ivan Groznij, “Giovanni il terribile”.Stalin per certi versi durante la guerra si identificavanella figura del grande zar russo e dunque anche me-ditava sui mezzi necessari per dominare la Russia nelmomento in cui combatteva Hitler. Pertanto volevaessere informato sia sulla sceneggiatura sia su comeprocedevano i lavori. Questo evidentemente distur-bava Eisenstein che non si sentiva molto libero. Il pro-blema però era anche un altro. La casa di Prokofiev,quella di Eisenstein e quella di Osip Mandel’stam, di-stavano in linea d’aria trecento, quattrocento metridal Cremlino. La rivoluzione russa nasce anche sottola speranza di una rinascita culturale e gli artisti ci cre-devano. Allora non deve meravigliarci il fatto che esi-stono delle lettere che il regista indirizzò a Stalin, maanche lettere di scrittori a Stalin, missive a cui pun-tualmente venivano date delle risposte. Era un circui-to molto limitato, geograficamente chiuso, e si sapevatuttavia che se Stalin, volubile, cambiava il parere inqualche modo si poteva lavorare ancora e andareavanti ma anche trovarsi ai margini o peggio. Stalin vo-leva un Ivan Groznij non proprio modellato sulla suafigura ma non in contrasto con le sue idee sul potere. Èstata realizzata la prima parte, il secondo film, intito-lato La congiura dei boiardi, è uscito ma non ha circo-lato tra il pubblico in quanto il Comitato centrale delPcus lo giudicò negativamente. Il regista ebbe un in-farto e la terza puntata non è stata realizzata. SergeiMikhailovic Eisenstein è stato gay, intellettuale, ebreo.Nessuna delle tre cose piaceva in quel momento al re-gime.

Andrei Andreevic Gromyko (1909-1989), ministrodegli Esteri dell’Urss

La caratteristica dei grandi diplomatici sovietici èstata di essere servitori dello Stato. Hanno seguito le

decisioni dell’Ufficio politico, certamente non una lo-ro politica personale, ma si sono adoperati per realiz-zare le decisioni del loro vertice. Un diplomatico dipunta vale qualcosa. È molto difficile sostituirlo, quan-do manca una ragione precisa. Se uno che ha spesotanti anni alle Nazioni Unite nel dialogo con gli StatiUniti, poi sparisce, bisogna pur spiegarlo. Si può in-viare un sostituto ma sono i Gromyko che hanno rea-lizzato la politica, hanno dato anche un proprio ap-porto: quando c’erano due vie, la possibilità di un dia-logo, la possibilità di sprigionare la forza della media-zione e della diplomazia, avendo come alternativa laguerra e il conflitto, hanno sempre puntato sulla viatranquilla, guadagnandosi un buon nome nella diplo-mazia mondiale.

È lui che ha votato e ha sempre sottolineato di esse-re stato il primo ad aver votato per l’istituzione delloStato di Israele; la politica sovietica sosteneva Israele,in quanto Israele era avversato dalla Gran Bretagna.Più tardi invece è prevalsa la lobby araba nel vertice so-vietico e Gromyko doveva imporre un’altra linea. Ilproblema nella diplomazia è spesso lo stile: uno spo-stamento che il nostro aveva affrontato, benché per-sonalmente, pensiamo soltanto alla moglie attivistaebraica, lui abbia saputo farlo bene.

Anton Pavlovic Cecov (1860-1904), drammaturgoIl suo teatro fu un grande insuccesso all’inizio. Al suo

debutto nell’ottobre del 1896 al teatro Aleksandrinskij,a San Pietroburgo, fu un clamoroso fiasco e nessuno loaveva apprezzato e anche di Try sestry, “Tre sorelle”, di-cevano: «Beh, la trama è molto semplice, tre ragazzedalla provincia vogliono andare a Mosca, che ci vada-no, si prendano un biglietto, anziché star sedute per

tutti e tre gli atti su un divano». Poi si scoprì che si puòleggere il teatro a più livelli, quello della quotidianitàmolto bassa, il secondo livello è psicologico e il terzoraggiunge le dimensioni di una parabola umana. Edunque le pause avevano un ruolo espressivo non me-no del dialogo, le didascalie erano ampie e descrittive,e quel tipo di dramma era un vero e proprio teatro d’at-mosfera, di stati d’animo. Alla fine del Diciannovesi-mo secolo, nel 1898, Il gabbiano, la pièce di Cecov, ot-tiene un grande successo e diventa anche il simbolodel teatro borghese, che è molto lontano dal teatro po-polare, satirico, crasso ma anche molto lontano dalteatro aristocratico.

Raissa Maksimovna Gorbaciova (1932-1999), mo-glie di Mikhail Gorbaciov, ultimo leader sovietico

L’Unione Sovietica non era abituata a vedere le mo-gli dei capi nello svolgimento della propria funzione.Qualche volta, in penombra, la moglie di Lenin; la mo-glie di Stalin si è suicidata nel ‘32. Dopo non abbiamovisto nessuna signora del regime accompagnare il ma-rito all’estero, fare della beneficenza, comportarsi co-me se fosse la prima compagna occidentale. In Russiahanno sempre contato di più i padri che le madri e nelcaso delle zarine queste diventavano “padrine”.

Il loro era un bellissimo matrimonio che durava daquarantasei anni, si amavano molto, si completavano,discutevano di politica e delle questioni da risolvere.Noi corrispondenti abbiamo accompagnato i Gorba-ciov nelle visite di Stato e ovviamente si parlava di tut-to. Lei era sempre presente e interveniva nelle discus-sioni di politica. Era in disaccordo su piccoli dettaglidella vita quotidiana. Lui era compiaciuto e divertito;dopo aver preso in una giornata mille decisioni dove-

va obbedire alla moglie che gli chiedeva di mangiarequesto o quell’altro, di cambiarsi la cravatta o qualco-sa del genere. Era una famiglia molto legata e lui si di-vertiva con lei, ma riceveva anche stimoli intellettuali.

Nikolai Vasilevic Gogol (1809-1852), scrittoreNon era sepolto a Novodevichy. A un certo mo-

mento quando hanno deciso di fare la rappresentati-va nazionale dei personaggi celebri, l’hanno dissep-pellito dal monastero Danilovskij e l’hanno portatoqui nel 1931.

Aveva una salute cagionevole e ogni tanto cadeva inpreda a crisi mistiche che culminarono in una speciedi autopunizione. A un certo punto non volle più man-giare né lavarsi né curarsi. Una crisi di inedia. «È dun-que necessario morire», disse, «e io sono pronto. Mo-rirò». Gli legarono le mani e cominciarono a curarlo, glibagnarono la testa con l’acqua fredda, gli fecero le san-guisughe e via con quello che per l’epoca poteva esse-re l’accanimento terapeutico. Una notte, in preda aldelirio, si svegliò e urlò: «La scala, fate presto, la scala!».Si riaddormentò e morì nel sonno. Trovarono una let-tera, scritta qualche tempo prima che diceva: «Ci saràuna scala, pronta a esserci lanciata dal cielo e una ma-no, tesa verso di noi, ci aiuterà a salire».

Vladimir Vladimirovic Majakovskij (1893-1930),poeta

Un po’ è dimenticato perché con l’ideologia un po’è scesa anche la sua immagine. Era il “megafono dellarivoluzione”, così lui si definiva, e la sua poesia eraesplicitamente politica anche se poi era un personag-gio molto più complesso di quanto appariva a primavista. Aveva quattordici anni, figlio di un guardabo-schi, e già si era dato alla poesia. Conobbe nel ’12 Ma-rinetti. Gli piacevano i futuristi italiani, e scrisse un do-cumento antiborghese: si definiva un futurista comu-nista. Uomo molto piacevole, anche fisicamente.Quando qualcosa gli andava bene amava radersi i ca-pelli a zero. Di bella presenza, aveva molti contatti inOccidente, in quanto la donna principale della sua vi-ta, Lili Brik, aveva una sorella che si chiamava, è mortasì, si chiamava Elsa Triolet, la quale era sposata con ilpoeta francese Louis Aragon, e da qui il collegamentodel poeta con il mondo intellettuale francese e occi-dentale.

[A proposito dell’interrogativo sulla vera ragione delsuicidio di Majakovskij, se si sia trattato di amore, di-sgrazia politica o disillusione sull’ideale comunista]Alla povera Lili Brik, tutti quanti le chiedevano la stes-sa cosa, e lei per trent’anni ripeteva — lo ha detto an-che a me — che se lei fosse stata presente in quei gior-ni lui non si sarebbe ammazzato perché lei lo cono-sceva. C’era di mezzo anche la delusione d’amore, for-se si sentiva un invecchiato, lui vitalista spinto, forsequalcuno lo ha offeso; perché il poeta è sensibile, an-che quando si tratta del megafono della rivoluzione.

Nikita Sergevic Krusciov (1894-1971), segretariogenerale del Partito comunista sovietico

L’autore [della tomba] si chiama Ernest Neizvestny.Era, ed è ancora, il migliore scultore russo, anche seadesso vive in America. Era il dicembre del 1962 quan-do, in una celebre visita al Maneggio di Mosca, Kru-sciov vede le sue opere d’avanguardia e lo insulta di-cendo: «Il mio asino avrebbe dipinto meglio con sua lacoda, perché fai diventare mostri gli uomini sovieti-ci?». E Neizvestny ebbe il coraggio di rispondere: «Se-gretario generale, io ho fatto la guerra, ho combattutoper l’Unione Sovietica, non può darmi del traditore, hodiritto di vedere il mondo così come lo vedo io». Kru-sciov arriva a insultarlo dandogli del pideraz, del pe-derasta, ma pronunciava male la parola. La rispostadello scultore pesca nelle favole russe e dice: «Lei Niki-ta Sergevic è mezzo diavolo e mezzo angelo. Se in leivince l’angelo sarà un bene per tutta la Russia, ma guaise dovesse vincere in lei il diavolo». È questa la ragioneper cui l’ultimo riposo di Nikita Krusciov è costruitocon la pietra bianca da angeli e con il marmo nero cheè il colore del diavolo. Dopodiché Ernest Neizvestnyvenne tolto da tutte le associazioni degli artisti, checontavano molto, e gli venne negata la possibilità diesporre nei musei.

Senonché, quando Krusciov è morto la sua famigliasi rivolse proprio a Neizvestny, dicendogli che nei suoiscritti Krusciov si era in qualche modo scusato ed erarimasto dispiaciuto per quanto aveva detto. Verso la fi-ne della sua vita si era ravveduto e aveva annunciatoche il partito non deve intromettersi nelle vicende del-l’arte e che dunque si pentiva di quel suo giudizio,quella volta alla mostra del Maneggio. L’ho visitato ungiorno nel suo studio, l’artista, mentre realizzava que-sta testa in bronzo. Ecco, l’ha fatto mezzo diavolo,mezzo angelo. La testa avrebbe dovuto essere metà inoro, metà in bronzo ma l’oro avrebbe potuto esser por-tato via da una gazza. Le gazze a Mosca sono un pro-blema. Tant’è vero che ai tempi russi e sovietici esiste-va un reparto falconieri al Cremlino che addestrava ifalchi da lanciare contro le gazze che rischiavano di ro-vinare e portare via le cipolle dorate delle chiese.

DEMETRIO VOLCIC

i luoghiTombe monumentali

Nel famoso cimitero moscovita di Novodevichy sono sepoltimolti dei maggiori scrittori, musicisti e pensatori russi, accantoalle personalità politiche di spicco del settantennio comunistaAdesso, per un programma di RaiSat Extra, un grandeconoscitore di quel mondo si è aggirato in mezzo alle lapidie ne ha raccontato le storie, singolarissime eppure esemplari

Il testo che segue è tratto dalle prime due puntatedella nuova serie di Extraterreni, un programma

di Valeria Paniccia in onda ogni sabato alle 22,30dal 24 febbraio su RaiSat Extra, il canale satellitareRai su Sky diretto da Marco Giudici. È un viaggiodella memoria attraverso i cimiteri monumentaliPrima tappa Mosca, dove il giornalista Demetrio

Volcic racconta Novodevichy, il camposantodi un monastero che dal secolo scorso ospita

le spoglie di personaggi celebri

Krusciov insultò lo scultore d’avanguardia Neizvestny:“Il mio asino avrebbe dipinto meglio

con la sua coda”. Ma quando Krusciov morìla sua famiglia si rivolse a lui per il sepolcro

I fantasmi della vecchia Russia

SOTTO LA NEVEIn alto a sinistra, una veduta del cimitero moscovita di Novodevichy; a destra Demetrio Volcic tra le tombe; sopra

la tomba di Konstantin Stanislavsky. Nella pagina di destra, dall’alto in senso orario, i monumenti funebridi: Molotov e sua moglie Polina; lo scrittore Mikhail Bulgakov sotto la neve; Sergei Eisenstein; Andrei Gromyko;

Anton Cecov; Raissa Gorbaciova; Nikolai Gogol; Vladimir Majakovskij; Nikita Krusciov

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007

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La moglie di Molotovnon lo perdonò mai

di non aver fatto il possibileper salvarla dal lager

Sergei Eisensteinera gay, intellettuale, ebreo

Nessuna delle trecose piaceva al regime

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007

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ROMA

Allaricerca della cinepoliti-ca perduta, nei meandridi archivi che d’un tratto siaccorgono di aver accu-

mulato tesori. Fotogrammi sgranati emessi a repentaglio da macchie cheesplodono sugli schermi degli odiernidvd. Pellicole che sfidano il tempo perspiegarlo meglio. Immagini insiemefantasmatiche e mummificate, ma pro-prio per questo decisive e definitive.

I film di propaganda dei comunisti edei democristiani, grosso modo. Qua-ranta, cinquanta, sessant’anni fa gli ita-liani se li sorbirono al buio, nei cinema,in parrocchia, in sezione. Religiosamen-te assistevano a quelle visioni, tra ombree abbagli, cielo e terra, santi e diavoli, tro-ni celesti e povera gente.

Togliatti che dopo l’attentato del 1948gioca a scacchi in giardinocon Longo. Voce dellospeaker: «E guardate ilcompagno Secchiacom’è tranquillo!». Sec-chia si accende la pipa,guarda la cinepresa, fa unmezzo sorriso. Oppure.Primo piano, ad allargare,di un libro aperto. Si trattadell’Imitazione di Cristoche De Gasperi portò consé in carcere. Stacco, musi-ca: la sedia vuota del presi-dente del tribunale che locondannò a quattro anniper antifascismo. Altrostacco: la foto incorniciatadella moglie e delle figliebambine che l’illustre pri-gioniero teneva accanto alpagliericcio di Regina Coeli.

Esterno, giorno. Le corseciclistiche e gli incontri diboxe organizzati sulla spiag-gia, sotto il sole, dall’Associa-zione Amici dell’Unità. Milio-ni di lettori, centomila diffuso-ri s’intitola il cortometraggio,1949. L’anno prima, per spin-gere il popolo ad andare a vota-re, i Comitati Civici hanno fattoriadattare a Eduardo De Filippola celebre scenetta di Questi fantasmisulla preparazione del caffè alla napole-tana. E ancora alla fine degli anni Ses-santa, in un film pilota di Eros Macchi,compaiono Franco e Ciccio, al bar. Fan-no gli spiritosi sulla cassiera: «Vita stret-

cante. Comunque asseconda il più com-pleto dispiegamento di simboli: decinedi falci che svettano al sole, sfilate di cro-cifissi, piazze strapiene di folla, a perditad’occhio.

Tra mercoledì 28 febbraio e giovedì 1marzo la Camera dei deputati si apriràper la prima volta a un flusso quasi inin-terrotto di immagini. Le hanno fornite,in lodevole concordanza, la FondazioneArchivio Audiovisivo del MovimentoOperaio, l’Istituto Luigi Sturzo, la Cine-teca del Comune di Bologna, l’IstitutoGramsci Emilia-Romagna. Montecito-rio ospita un convegno-monstre: Cine-ma di propaganda. La comunicazionepolitica in Italia attraverso il Cinema.

1946-1975. Sette presentatori, sette rela-zioni introduttive (significativa quella diTatti Sanguineti), una tavola rotonda fi-nale con Andreotti e Macaluso (che perun attimo si rivedrà in foto, giovanissi-mo, su un cartellone che illustrava al mo-do dei cantastorie il sacrificio del sinda-calista Turiddu Carnevale). Previsti nel-la due giorni quasi sessanta interventi,una specie di sinedrio composto da stu-diosi, registi, critici, esperti di comunica-zione, nonché dai superstiti di quellalunga stagione nella quale, attraverso leimmagini, si forgiò appunto l’immagi-nario della Prima Repubblica: da EttoreBernabei a Pupi Avati, da Giuseppe DeRita a Goffredo Fofi, passando per Paolo

Mereghetti, Bartolo Ciccardini, Giusep-pe Bertolucci, Gian Luigi Rondi, France-sco Rosi, Turi Vasile, Damiano Damiani,Edoardo Novelli.

Una retrospettiva che riporta alla lucepreziose gemme, offrendole a genera-zioni di cinefili. Fonti, ispirazioni, espe-rimenti. Le prime prove, ad esempio, deifratelli Taviani che per il Pci si misuraro-no con un Mezzogiorno (Sicilia all’ad-dritta, 1959) in bilico fra la preistoria, ilterzo mondo e la tragedia greca. Comepure certe sequenze del 1956 sul PrimoMaggio delle Acli, con atterraggio di unCristo bronzeo elitrasportato da Roma aMilano: «Con somma gioia di FedericoFellini — nota Tatti Sanguineti — che treanni dopo, nell’apertura de La dolce vita,imbarcherà sullo stesso elicottero, chetrasporta il Cristo lavoratore, ancheMarcello Mastroianni e Paparazzo».

Cinepolitica a suo modo profetica.Cartoni animati democristiani controAchille Lauro, davvero molto simile a unproto-Berlusconi: dispiego di quattrini,conflitto di interessi, sovrana megalo-mania, utilizzo elettoralistico del calcio edel tifo. Oppure Modugno, che sempreper lo scudo crociato racconta una bar-zelletta su Krusciov e canta «Libero, so-no liberoooo!». Sketch comunisti e di-vorzisti con Gianni Morandi in versionefamigliare, Gigi Proietti che si profondein gorgheggianti virtuosismi sul «No»,Pino Caruso ritratto in uno specchio ba-rocco e uno scanzonatissimo Nino Man-fredi, al trucco.

Propaganda elementare, anzi pri-mordiale, e vista con gli occhi dell’oggiper certi aspetti anche un po’ selvatica.All’inizio ancora indissolubilmente do-minata dalla parola, come dimostrano letante inquadrature di titoli di giornale,scritte sui muri («Vota comunismo») ofrasi riprese dai cartelli delle manifesta-zioni e ripetute in voce con straniante ef-fetto karaoke. Eppure, per quei tempi,una comunicazione del tutto efficace,espressiva, professionale, pur nella sualimitata varietà di forme, comunque in

Per trent’anni, dal 1946 al 1975, prima che la tvrestasse la sola padrona del campo, i due grandipartiti di massa del dopoguerra si sono sfidati

a colpi di filmproiettati nella sale, negli oratori, nelle sezioni. Ora un convegnoalla Camera riporta alla luce queste pellicole segnate dal tempo: pubblicitàelettorale rudimentale, eppure specchio di un Paese in rapida evoluzione

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007

FILIPPO CECCARELLI

ta! Gambe lunghe!» commenta Ciccio daintenditore. Solo alla fine, come di sfug-gita, convengono che occorre votare Dc.

Anche il sonoro di questi cine-reperti,denso com’è di salti e fruscii, rinvia a untempo vertiginosamente lontano dall’e-poca televisiva. Quando non sono corisolenni, vagamente sovietici, o canti gre-goriani, la voce dello speaker risuonastentorea oppure ammic-

Nella retrospettivaautentiche gemmedi grandi registi

Repubblica Nazionale

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grado di accendere la fantasia e mobili-tare le emozioni di un’Italia che piùprofondamente e intimamente ideolo-gizzata non poteva essere, tanto menosembrare.

Il cinema restava, come aveva dettoMussolini, «l’arma più potente». E così,come il Centro Cinematografico Cattoli-co di padre Galletto si peritava di pro-muovere, bocciare o esprimere riservesui film, con lo stesso intento pedagogi-co un opuscolo del Pci venuto fuori du-rante l’organizzazione del convegnoconsigliava la proiezione di questa oquella pellicola e intimava di «denuncia-re» e «smascherare» altri film, in genereamericani, «per il loro carattere fascista eguerrafondaio».

A vedere il materiale della Dc e del Pcinel suo insieme, a perdifiato, appare evi-dente la riserva di sacralità che le duechiese secolari trasmettevano alle ri-spettive masse di fedeli. In primo pianoe sullo sfondo dei filmati cattolici ab-bondano croci, chiese, basiliche, cupo-le, campane che si sciolgono festose. Epapi, pasti, mamme, nascite, bimbi chevengono al mondo in tuguri: «È un ma-schio! Un maschio!» si felicita la levatricecon il papà, il protagonista di Nasce unasperanza (1952), un poverissimo conta-dino pugliese le cui condizioni verrannosensibilmente migliorate dalla riformaagraria e poi dall’entrata in funzione del-la Cassa per il Mezzogiorno.

Ma anche l’ecclesia rossa ha la sua fe-de, il suo Olimpo, i suoi riti sacrali. Nelfilm di Giuseppe De Sanctis sul VII con-gresso del Pci all’Adriano (1951), dovecompare a un certo punto un bellissimoBerlinguer, le delegazioni regionali, incostume, recano doni al banco della pre-sidenza con lo spirito — altro che mate-rialismo storico! — di chi depone offertevotive sopra un altare: prodotti indu-striali, modellini, capi di vestiario, gene-ri alimentari (un’enorme mortadella),addirittura una pecora viva, portata abraccia dalla Sardegna. Oltre alle stovi-glie carcerarie di Antonio Gramsci, chia-

e intorno al film: apparati, produzione,distribuzione.

Lo stesso vale per l’approccio, lo stile ei contenuti. Nel senso che la cinemato-grafia del Pci si ispira ai modelli del neo-realismo, mentre quella democristianatraduce in immagini la retorica della ri-costruzione. Ma il punto è che l’Italia diallora, dopo tutto, era una sola, e ad en-trambe le culture politiche appartenevanella sua stragrande maggioranza. Unpaese ancora agricolo sospeso tra mace-rie e risanamento. Un panorama alme-no all’inizio segnato da bestie, covoni,sacchi di farina, sguardi famelici, carrio-le, canottiere, biciclette, bambini con ilsedere scoperto, adolescenti in pantalo-ni a “zompafosso”, e muri scrostati, fan-go, assalti al treno, dormitori, mutilati.

Né la Dc, né tanto meno i cineasti co-munisti volevano o potevano ignorarnequella realtà visiva. In un documentariocomunista sulla dura vita degli operaiimmigrati nella periferia di Milano (Ilprezzo del miracolo, l’anno è il 1963) simostrano i segni scandalosi di quel chedi lì a poco si sarebbe chiamato benes-sere, additando al ludibrio degli spetta-tori il tutto esaurito alla Scala, le vetrinecon il caviale, le acconciature delle si-gnore borghesi, un’auto sportiva (defi-nita, per non fare pubblicità ai padroni,«cilindrata da sette milioni») e pure uninnocente barboncino. Il tutto a sottoli-neare una diversità quasi più antropolo-gica che ideologica.

Ma l’impressione è che la più flessibi-le e lungimirante cine-politica cattolicaraccolse proprio quella sfida lì; e ai do-lenti accenni sociali, alle coreografie fu-nerarie per la morte di Togliatti (stupen-di i materiali sovietici girati a Yalta nel-

l’agosto del 1964), alla poetica della mi-seria e del riscatto, cinquant’anni primadi Berlusconi lo scudo crociato risposemettendo in scena la speranza, l’ottimi-smo prudente, il sogno di progresso gra-duale ma inesorabile. E quindi esibiva atutto spiano ruspe, ciminiere, traliccidell’elettricità, lavori di bonifica, fami-gliole e bambini in salute, pranzi e cene.E sì: la Scala riapre, «l’Italia ritorna a can-tare!», s’entusiasma lo speaker; «gli ita-liani riscoprono la bellezza!», e si vedeuna bella ragazza discinta; «ci invadonomilioni di turisti!», detto con l’aria di chiben altre invasioni ha vissuto e teme chepossano avvenire di nuovo.

Ma forse aveva già vinto, la Dc, primadi inventarsi la tv a sua immagine e so-miglianza, perché mossa dall’istinto,sul piano ottico, visivo e cognitivo andòspedita al cuore dei più inconfessabili evibranti archetipi dell’identità naziona-le: la furbizia, tanto più risolutiva, quan-to più misurata e perfino bonaria. Dettain modo brutale: vinse, tenne il potere efece a lungo il suo comodo perché riuscìa far sentire i suoi elettori meno fessi.Meno disposti ad abboccare all’amodelle promesse come Il compagnoGnocco Allocco, del 1958, non a caso raf-figurato in un acquario all’inizio del filmin compagnia di pesci boccaloni. Unometto brutto e mezzo calvo che è sem-pre in prima riga negli scioperi, scrive dicontinuo sui muri «Viva la pace», «Vivala pa...» e subito un uomo belloccio e de-terminato gli completa la scritta in «Vivala pasta al sugo»; e alla fine spende unsacco di soldi per comprarsi un’orridacrosta da un pittore d’avanguardia, equello con i soldi si compra da bere, e siubriaca pure.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007

ITALIA IN BIANCO E NEROSopra, proiezione

all’aperto in un paese

del Lazio negli anni

Quaranta. Nell’altra pagina

in basso, un camioncino

elettorale della Dc

MANIFESTINella pagina accanto, due manifesti elettorali

del Pci: il primo, contro le basi americane,

è del 1958; il secondo è datato 1946. Qui a destra,

tre poster della Dc datati 1952, 1959 e 1953

Le immagini di queste pagine sono fornite

dalla banca dati on-line Manifestipolitici.it,

a cura dell’Istituto Gramsci Emilia Romagna,

e dall’Istituto Luigi Sturzo

L’arma della cinepoliticanel lungo duello Dc-Pci

IL CONVEGNOUn pezzo della storia d’Italiapassa sullo schermo,il 28 febbraio e il 1° marzo,

nella Sala delle conferenzedella Camera dei deputati,Palazzo Marini,via del Pozzetto 158, Roma

Per la prima volta gli archiviaudiovisivi della Dc(Istituto Luigi Sturzo) e del Pci

(Istituto Gramsci Emilia-Romagna) mettono a confrontoalcuni film di propagandamai più proiettati in pubblicodopo la loro realizzazioneIl convegno - Cinemadi propaganda-La comunicazione politica in Italia

attraverso il cinema 1946-1975 -è promosso da: Mibac-Direzionegenerale per il cinema, Cinetecadel Comune di Bologna,Fondazione Archivio Audiovisivodel Movimento Operaioe Democratico, Istituto Luigi

Sturzo, Istituto GramsciEmilia-RomagnaLa rassegna sarà presentatada Francesco Malgerie Tatti SanguinetiParteciperanno, tra gli altri:

Luciano Violante, GiuseppeBertolucci, Pietro Scoppola,Mimmo Calopresti, Gian MarioAnselmi, Sandro Curzi

C’era anche una listacomunista di film“buoni e cattivi”

ramente assurte al ruolo di reliquie.E tuttavia, ferma restando l’asprezza

del conflitto tra le due confessioni, i duepopoli, le due tribù, a distanza di mezzosecolo si resta impressionati dalla spe-cularità delle loro immagini. O meglio:sembra di cogliere nel complesso delmateriale una corrispondenza di tipo ar-cheologico, una simmetrica divisione

dei compiti. Per cui, spiega bene Sangui-neti, se il monolitismo comunista si con-centrò sul film, sul suo valore artistico ed’autore, i prodotti cattolici, spesso ano-nimi e di assai variegata provenienza(Comitati Civici, Spes, Rai, Istituto Luce,Settimana Incom, anche filmati made inUsa) dicono chiaramente che la Dc pre-ferì dedicarsi a tutto quanto stava dietro

Repubblica Nazionale

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la lettura46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007

Riti collettiviL’Argentina di Kempes e quella di Maradona,l’Inghilterra e le Malvinas, l’Uruguay con il suo innoda otto minuti, il Paraguay di Chilavert, il Messicodell’Azteca, l’Italia, il suo Mondiale e i suoi scandaliDue scrittori, davanti a una bottiglia di vino, panee formaggio, parlano del più grande spettacolo del mondo

Ore 12.00. Una grande cucina con un tavolo con il pia-no in marmo. Sul tavolo due piatti e due bicchieri; untagliere e del pane; un bel pezzo di spalla e un coltel-lo. Dalla porta entrano due persone: uno, N., è alto,ben messo, scarmigliato e ha in mano una bottiglia diFaugère del 2002 alla quale sta per tirare il collo; l’al-

tro, V., è pure alto, ma è più sottile, e porta sotto braccio tre bei toc-chi di formaggio.

N. Che si deve fare?V. Si deve ragionare intorno al calcio sudamericano, all’Argenti-

na, ma poi si va anche oltre.N. (Indica il caprino ricoperto di cenere)Si mangia anche la cenere?V. Certo.Toc! Salta il tappo della bottiglia.V. (Versa il vino nei bicchieri) [...] Il mio cuore di tifoso ha sempre

battuto dalla parte sbagliata rispetto a tutte le ragioni che uno comeme dovrebbe avere per scegliere da che parte stare. Per esempio, io,nel ‘78, tifavo per l’Argentina. Appassionatamente. Ma era l’Argen-tina dei colonnelli! Eppure mi commuovo solo a pensare a quei gio-catori lì: Kempes, Luque, Tarantini, Olguín.

N. Galván. V. Galván. Nell’86, invece, io tifavo contro l’Argentina, e quando

Maradona fece gol di mano, mi indignai perché per me quella parti-ta fu rubata a una squadra che doveva vincere i Mondiali. Ed era unasquadra molto ma molto più bella, l’Inghilterra di allora, se pure gliinglesi mi stanno anche sui coglioni. Ho tifato contro l’Argentinanell’86 e ho tifato contro l’Argentina nel ‘90 quando giocò con la Ger-mania. Perché tifavo contro Maradona. Eppure il mio cuore batteper Maradona, capito? Io tifo per la Juve, ma in teoria non dovrei es-ser tifoso della Juve, dovrei star dietro a tutte le retoriche del Torino,della Fiorentina… Perché, mi chiedo, io, in fondo, trovo giusta que-sta contraddizione?

N. Senti: io ti posso dire perché tifavo per l’Argentina nel ‘78 e per-ché mi sembrava una squadra straordinaria. Perché i giocatori, il lo-ro aspetto e il modo in cui giocavano in campo, erano la cosa più lon-tana dai colonnelli che ci potesse essere: le zazzere tenute in quel mo-do e chiaramente poco lavate; i baffoni; i riccioli di Tarantini; i capellilunghi sulle spalle di Kempes e di Luque. E mi sembrava che l’essen-za di quella squadra fosse, in assoluto, la vera forma di protesta con-tro l’Argentina di quei tempi. Per questo mi piaceva.

V. Ti piaceva perché era poco marziale. [...]N. Tu, contro Maradona, hai detto delle cose impegnative, ma io

non l’ho mai giudicato perché sono sempre stato accecato dal gran-de amore per lui. E [...] a me quel colpo di mano sembrò geniale e misembrò la vendetta per le Malvinas perché, alla fine, ogni partita Ar-gentina-Inghilterra è la guerra delle Malvinas. In fondo ho perdona-to quel gesto a Maradona perché non ho mai perdonato gli inglesiper aver silurato il General Belgrano, forse l’unico incrociatore ar-gentino, e aver ammazzato un mucchio di gente. [...] (Addenta unpezzo di formaggio) E che è questo?

V. Caprino piccante.

N. (Dopo aver mandato giù un boccone) Buono! [...]V. Ma io non credo che Maradona abbia fatto quel gol di mano per-

ché dall’altra parte c’erano gli inglesi. [...] (Alza il bicchiere e beve unsorso) È buonissimo, ‘sto vino.

N. È biodinamico.V. Cioè?N. Cioè senza chimica, nessun diserbante, tutto ciò che gli è stato

fatto è stato fatto a mano, in cantina lo hanno lasciato stare. [...]V. Però a me, francamente, questa cosa del gol di mano non mi va

giù. [...]N. Guarda che prima del gol di mano lui aveva fatto quel gol incre-

dibile…V. No! lo ha fatto dopo.N. Sicuro? [...] Comunque, io ti dirò che quando nel ‘90 ci furono i

Mondiali, durante quella partita a Milano quando tutto il pubblicofischiò l’inno argentino e Maradona disse: “Hijos de puta!”, io [...] logiudicai un gesto veramente eroico e pensai: «Se fossi argentino, glidarei tutto, a quest’uomo». Perché nel momento in cui ti insulta unanazione e gli altri giocatori argentini stanno zitti, lui, la bestia vera,ha fatto un grande gesto in mondovisione. [...]

V. (Taglia una fetta di formaggio) Toma valdostana.N. Sentiamo.V. Io, invece, esultare a un gol di Maradona, mai.N. Davvero?V. Non ero io a deciderlo, ma il mio cuore, sul campo di calcio. For-

se ero semplicemente contro la dittatura di un genio e di un talentocosì insolente che sul campo si permetteva di tutto. [...]

N. E comunque Maradona era amato dai suoi compagni perché lifaceva giocare bene tutti. Ti ricordi Careca? Lo lanciava in diagona-le e lui tirava il gol nell’angolo opposto della porta. Giordano, Carne-vale… Pensa che faceva queste cose e la sera prima magari aveva pre-so cocaina. [...] Pensa a come avrebbe giocato se non l’avesse presa,la cocaina. [...]

V. Più di così che cosa doveva fare?N. Io spero che non muoia, perché se muore per la droga è una tra-

gedia per i ragazzi. Che il cuore non gli ceda!

V. Se non muore Keith Richards, perché deve cedere il cuore di Ma-radona?

N. Keith Richards bisognerebbe ammazzarlo. Maradona, invece,deve vivere, invecchiare e diventare saggio.

V. (Riempie nuovamente i bicchieri)… [...]N. Senti, alla fine gli argentini sono parenti nostri e parenti veri. An-

che i nomi (si alza in piedi e con tono solenne): Mario Alberto Kem-pes, Leopoldo Luque. A guardarli sembravano due motociclisti sfor-tunati e invece giocavano a calcio, e anche bene. [...] (Alza il bicchie-re)A me piacerebbe raccontare il grande calcio sfortunato del Suda-merica.

V. Ma ti ricordi i Mondiali di Francia? Tutta la partita il Paraguay,negli ottavi di finale, — ottavi di finale! — contro i francesi, Chilaverttranquillizzava i suoi dieci inferiori compagni, perché non valevanomica nulla i suoi compagni.

N. C’era Gamarra il rosso.V. Chilavert sapeva che se si andava ai rigori, vinceva lui. Perché lui

li parava.N. E li tirava pure.V. E questi persero ai supplementari, le maglie sudicie…N. Bianche e rosse con i pantaloncini blu: una roba orrenda, da di-

lettantissimi. Come quelle squadre costrette a indossare la magliacon i pantaloncini di riserva…

V. Ma hanno tutti e tre i colori della loro bandiera addosso. Però iomi ricordo Chilavert che, invece di incazzarsi con i compagni quan-do Blanc segnò a dieci minuti dalla fine dei supplementari, lui, Chi-lavert, li consolò. Non li mandò affanculo come fanno i portieri, giu-stamente, tutte le volte che vengono presi d’assedio per colpa dei di-fensori. Li consolò. Perse e pareva avesse vinto lui. Questo vuol direessere grandi, ragazzi. [...] Ma li vogliamo enumerare questi eroi su-damericani sudici e bravissimi a giocare a calcio?

N. Teófilo Cubillas; Marco Etcheverry, il boliviano, tocco di palla,velocità di base pazzesca, capelli lunghissimi, basso.

V. Basso, ma non lo buttavi mai in terra.N. Era duro come un sasso.V. E Ayala? Forse era ancora più basso di Etcheverry.N. Come si chiamava di nome?V. Guillermo.N. A me viene in mente Tony Ayala, detto El Torito, pugile imbat-

tuto che quando buttava a terra l’avversario, gli sputava. Stava per fa-re il Mondiale, che avrebbe vinto di sicuro, ma stuprò una donna efinì in galera. C’è stato per vent’anni, è uscito poco fa e ha ricomin-ciato.

V. Il Messico invece è sempre stato un po’ deludente. L’unico pae-se del Sudamerica che ha avuto due volte i Mondiali in casa e non hamai vinto.

N. Avevano lo stadio Azteca, però.V. Hugo Sánchez che faceva gol di testa e di piede.N. Il portiere Campos.V. Già. Però, proprio perché ha sempre avuto giocatori buoni, co-

me ha fatto a non aver mai avuto un momento di vera gloria? Avevatutto e aveva i Mondiali in casa.

N. Gli mancava la tecnologia.

EDOARDO NESI e SANDRO VERONESI

Zidane ha chiamato suo figlio Enzoin onore di Francescoli, il giocatorepiù bello che il Sudamerica abbia

mai avuto. Alzò una coppacon un braccio rotto come Beckenbauer

Dialogo sul calcio e sulla guerra

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007

V. Che c’entra? Guarda che questi messicani si sono inventati laola, vogliamo dirlo? Nel 1986. Prima non esisteva, la ola. [...] Altro chetecnologia.

N. Dico tecnologia perché vincere un Mondiale, per una nazione,è un po’ come fare una navicella spaziale: è una faccenda di una dif-ficoltà spaventosa. [...]

V. Suvvia.N. All’ultimo Mondiale il Senegal arrivò quasi in fondo — e ora non

so se sia vero ma mi garba pensare che sia andata così — ma poi fini-rono i quattrini!

V. Ah ah ah! [...]N. Ma, scusa un attimo, e il Perù? E Ramón Quiroga? E la storia di

Ramón Quiroga?V. Ma… la vendette davvero la partita con l’Argentina?N. Sì, sì. E lo disse proprio. E lo scrisse, anzi: fece lettera aperta sul

Clarín.V. (Abbacchiato) Prese sei gol.N. (Ride) Sei gol!V. Ed era un portiere talmente forte che io francamente non ci cre-

devo che fosse venduta… Ci rimasi male, ricordo. (China la testa) Eci rimango male pure adesso. [...]

N. Poi c’è anche l’Uruguay che ha una bella storia.V. Io in Uruguay ci sono stato e ti dico la verità: la sai la cosa più bel-

la che ha fatto Zidane nella sua vita? Stiamo parlando di Zidane, lo saiqual è il capolavoro di Zidane?

N. (Alza le sopracciglia con fare interrogativo)…V. Chiamare Enzo suo figlio.N. Eh, sì.V. In onore di Enzo Francescoli, che era meno famoso di lui. Era già

meno famoso di lui, quando gli nacque il figlio. Era famoso nel Tori-no e nel Cagliari, soprattutto nel Cagliari perché lui aveva quel pro-curatore, come si chiama?

N. Casal.V. Paco Casal, sì. Sempre coi pantaloni di pelle. Comunque Enzo

Francescoli è, secondo me, il giocatore più bello, più bello, che il Su-damerica abbia avuto. […] Io ho visto Francescoli alzare la CoppaAmerica con un braccio rotto alla Beckenbauer, perché giocò la fi-nale, lo stroncarono ma giocò a casa sua a Montevideo. Era come ve-dere il mondo andare a posto, non so come dire. Lui segnò il rigoredecisivo. [...]

N. E poi ci sono i brasiliani. Però per essere un Mondiale sudame-ricano bisogna che si giochi là e non in Brasile. Il Brasile è un mondoa sé.

V. Il Brasile è un altro continente. Se si parla tutti la stessa lingua ein Brasile no, ci sarà una ragione… Nel calcio non è Sudamerica, ilBrasile.

N. Sicché dei brasiliani non si parla.V. Dei brasiliani, no. Io in Uruguay ci sono stato. Sempre la ban-

diera hanno e gli inni nazionali li cantano per intero. L’inno dell’U-ruguay è una cosa commovente, dura otto minuti, altro che. Non fi-nisce più. A me mi commuovono tutti gli inni nazionali: però quellisudamericani hanno un’aria da melodramma di seconda mano. Co-me c’hanno di seconda mano tutti i monumenti: il Campidoglio è

N. [...] E allora mi è sembrato un segno del destino... che negli ita-liani si riconosce prima che negli altri.

V. Ecco il discorso è questo: noi, voglio dire, non io, ma loro, ecco,ci credevano. Perché, se non ci credevano, Grosso non avrebbe fat-to quella cosa lì. Loro si sono preparati per vincere il Mondiale. Sonostati come l’ispettore Clouseau: perché lui lo vuole prendere il ladro,lui ci crede sempre, e alla fine lo piglia. Gli azzurri hanno fatto così.Come è possibile? [...]

Fa caldo. Decisamente molto caldo. Il vapore sale con ampie volu-te dove si attorcigliano parole intere.

N. E poi in conferenza stampa lo dicevano che se lo sentivano…V. Li volevano buttare fuori prima ancora di cominciare: Canna-

varo, Buffon, tutti via li volevano mandare. E questi non solo hannoresistito, ma hanno vinto.

N. Senza meritarlo.V. No. Meritandolo ma senza giocare bene. Via! [...]Si passa dal bagno turco alla sauna finlandese, il caldo è più secco

e le voci non rimbombano.N. Ma te, per esempio, questa vittoria, la senti tua o no? Ora.V. Ora no. In verità io non l’ho mai sentita mia perché ero a Los Ro-

ques, l’ho vista là. [...] Quando son tornato Lippi non c’era più e vera-mente era finito tutto. Sicché alla prima partita della nazionale — bat-tuta 2-0 in casa con la Croazia — mi son detto: ma ho sognato o che?Forse sono vecchio, ho detto. Perché nell’82 godetti un anno. [...]

N. Già, perché non è durato? È colpa nostra o lo è anche per gli al-tri?

V. Secondo me è una cosa collettiva. In Federazione si sono scor-dati di mettere la stelletta nella prima uscita. Via! Vai a fare la passe-rella a Livorno e ti scordi di mettere la quarta stelletta? [...] Noi siamostati per due mesi e mezzo prima del Mondiale tutti i giorni concen-trati su quell’altra rumba…

N. Nella lavatrice, a girare…V. Sollecitati da un’altra cosa che era lo scandalo. Quindi il Mon-

diale è stato un accidente, nel frattempo. Pensavamo tutti di andarea fare una figuraccia e poi la cosa importante era la Juve in B, il Milanin B o in A. [...] Senti, a proposito di Milan, ma a te sembra giusto chela Juve sia in B e quegli altri no?

N. Io credo che sia giusto che la Juve sia in B. Però come hanno fat-to la Lazio e la Fiorentina a non finirci, è del tutto incomprensibile.[...] Però per la Juve è un lavacro meraviglioso. [...]

V. È strano ma ora a me il calcio mi interessa di meno, tutto quan-to. Perché? Sarà per quella faccenda dello scandalo?

N. Quella faccenda è stata devastante. [...] Poi ci sono tutti queglialtri, i giornalisti, i telecronisti e quelli che stavano dietro. Io non cre-do molto però a questo repulisti. Mi dispiace per tutti quelli del pro-cesso… io lo guardavo spesso… il dottor Aldo, i tifosi coi cartelli cheridevano di lui… il casino fenomenale… [...]

N. Però adesso che sono praticamente disidratato, io voglio dire:non si fa così. Se si ha il convincimento che una partita sia truccata,si rovina tutto. (affranto)Non si fa così. Come si dice al bambino chedice le bugie. (ancora più affranto) Non si fa così. E il calcio, non loguarda più nessuno.

Tratto da La matematica del gol, © 2007 Fandango Libri

LIBRO E DVD

I due dialoghi tra Edoardo Nesi e Sandro Veronesi

(Conversazione etilica in margine al calcio in Sudamericae Conversazione a 90°) sono tratti da La matematica del gola cura di Marta Trucco (Fandango, 184 pagine +dvd 50’, 20

euro). Raccoglie scritti di Francesco Piccolo, Carlo Verdelli,

Antonio Dipollina e molti altri. Il dvd è Con la mano di Dio,

il documentario di Umberto Nigri che, prendendo lo spunto

dal gol di mano di Maradona all’Inghilterra nell’86, rievoca

la guerra delle Malvinas. In libreria il 23 febbraio

I disegni di queste pagine sono di Gianluigi Toccafondo

e sono tratti da Io sono el Diego (Fandango Libri 2002)

copiato dal Campidoglio americano che è copiato dal Pantheon diParigi che è copiato da San Pietro di Roma. Ma gli inni sono roman-ze d’amore, che sembrano non aver a che fare con la patria ma inve-ce ce l’hanno, e sono talmente solenni che a sentirli ti commuovi. [...]

V. e N. si ritrovano verso l’ora di pranzo allo Sporting a Prato. L’e-state è finita, l’Italia ha vinto i Mondiali, la Juve è in serie B. Decidonodi fare una sauna. Anzi, prima un bagno turco. Dentro non c’è nessu-no e la temperatura si aggira intorno ai 60 gradi. Ma le voci rimbom-bano e il discorso non sempre è comprensibile.

N. Io, a proposito dei Mondiali, vorrei dire una cosa. Torniamo unpo’ indietro ai minuti finali di Italia-Australia. Noi siamo in dieci, Tot-ti è zoppo, la nostra unica punta è Iaquinta. È finita. I Mondiali pernoi sono finiti. Siamo stati eliminati. Quella fuga di Grosso che è ri-masto in difesa per tutta la partita, da dove viene? ‘Sto Grosso fa unoslalom straordinario, poi il tonno del terzino australiano…

V. ...abbocca, certo. Ma se ti ricordi, non fa fallo. Non era rigore.Però dinanzi a un gesto del genere, doppio dribbling in area all’ulti-mo minuto, e poi giù in terra, anche l’arbitro abbocca per forza.

Gli Azzurri in Germaniaci credevano.Sono stati comel’ispettore Clouseau: perchélui lo vuole prendere il ladro,

lui ci crede sempre e alla fine lo piglia

‘‘Sandro VeronesiQuando Diego fece quel gol di mano mi indignaiperché quella partita fu rubata a una squadrache doveva vincere. Anche se non mi stavanosimpatici gli inglesi erano una squadra più bella ‘‘

Edoardo NesiIo non l’ho mai giudicato perché sono sempre statoaccecato dal grande amore per lui. E a me quel colpodi mano sembrò una vendetta. Non perdonaimai agli inglesi il siluramento del “General Belgrano”

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Cinque concerti-mito per festeggiarei suoi ottant’anni.E per provare a farrivivere quella Parigi febbrile, quando

“la cultura esplodeva in bolle iridate” davanti ai suoi giovaniocchi e Boris Vian raccontava la “masnada di dissennatiperdigiorno”delle strade di Saint-Germain-des-Prés

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007

PARIGI

Sul marciapiede di Boulevard Saint-Germain che vadal Flore ai Deux Magots, due dei caffè letterari piùrinomati della capitale francese, gruppi di turistitransitano ignari. Sono capitati in un hotel nei pa-

raggi con un pacchetto all-inclusive. Chiedono ai vigili la dire-zione per Champs-Elysées, Concorde, Louvre. E naturalmen-te Torre Eiffel. Non sanno di essere nel quadrilatero magicodella rive gauche. Sessant’anni fa il quartiere di Saint-Ger-main-des-Prés diventò la tana degli esistenzialisti, in una Pa-rigi esplosiva che profumava d’arte e di quella joie de vivrechePicasso aveva raccontato a pennellate nel celebre quadro di-pinto a Antibes, una sorta di manifesto della rinascita dello spi-rito umano dopo gli anni bui della guerra.

Nel 1947 Picasso è a Parigi, dove ha messo a punto le scenedi uno spettacolo di teatrodanza, Le rendez-vous, che contie-ne “Les Feuilles mortes”, una delle canzoni più potenti del se-colo: testo di Jacques Prévert, musica di Pierre Kosma, coreo-grafia di Roland Petit. E lavora alla realizzazione di un Oediperoidi Sofocle che va in scena al Théâtre des Champs-Elysée. Bi-ghellona, come gli altri artisti e le loro corti, nel quadrilateroche sembra esplodere sotto i colpi del jazz degli alleati, i ritmicaraibici, le percussioni africane, e Stephane Grappelli e BorisVian e Orson Welles e Jean Cocteau e Jean Paul Sartre e Simo-ne de Beauvoir con la cravatta che ha appena pubblicato Il se-condo sesso e Camus che sta per pubblicare La peste e negres-se esotiche dai seni al vento molti anni prima dello spogliarel-lo di Aiché Nana al Rugantino di Roma. Anche Greta Garbo fa

la sua apparizione al Tabou. Ma la musa de-gli esistenzialisti è una francese di Montpel-lier, si chiama Juliette Greco. Nel ’47, quan-do incide la prima canzone, ha vent’anni, èmeravigliosamente bella, libera, anti-conformista, ma già con molte storie dolo-rose da raccontare. Nella sua autobiografia,Jujube, ricordando quell’anno si racconta interza persona: «La cultura esplode in bolleiridate davanti agli occhi attoniti di Jujube.Al Tabou, ogni notte, lei distinguerà, secon-do il capriccio delle onde della vita di quellaParigi traboccante di idee e di desideri, i vol-ti di Albert Camus, François Mauriac e Si-mone de Beauvoir, che ha occhi azzurri co-me un mare in burrasca. Quando li tiene ab-bassati su un foglio per ore intere, al Flore o

al Deux Magots, ci si chiede se il foglio bianco non prenderàfuoco».

Il mito continua, a dispetto delle mode. Ieri sera, al Théâtredu Châtelet, la Greco ha tenuto l’ultimo di cinque concerti tut-to-esaurito con cui ha festeggiato i suoi ottant’anni, compiutiil 7 febbraio, ma soprattutto i sessant’anni di carriera, perchéspegnere le candeline sulla torta è una cosa che ha sempre de-testato. «Sono felice di essere ancora qui, di poter camminare,correre, di sentirmi così piena di vita», ha detto ai parigini pri-ma di cantare le ultime dodici “creature” incise nell’album Letemps d’une chanson, in cui accanto a brani di Brel, Trenet eGainsbourg ha incluso anche Nel blu dipinto di blu di Dome-nico Modugno.

Accarezzata dalle luci di scena, sembra ancora il volto-im-magine degli esistenzialisti che Boris Vian inserì nel suo Ma-nuale di Saint Germain-Des-Prés, di cui recentemente RizzoliNew York ha pubblicato una preziosa ristampa in inglese (Edi-tori Riuniti ne ha curato un’edizione nel ’99 con il titolo La Pa-rigi degli esistenzialisti). Una delle foto più belle del libro la mo-stra su un letto disfatto dell’hotel La Louisiane, nella camerad’angolo che era stata di Sartre, il corpo nudo avvolto in un len-zuolo, mentre sistema un microsolco sul giradischi. Sulla mo-quette lisa c’è un caos, tipicamente esistenzialista, di bottiglie,

Grecola musa

esistenzialistidegli

IL MANUALE/1

CAPELLI

Scompigliati che cadonoa ciocche sulla fronte(vedi il famoso ritrattodi Arthur Rimbaud,padredell’esistenzialismo)

CAMICIA

Stropicciata e apertafin quasi all’ombelico,sia in estateche in inverno

SCARPE

Dai colori sgargiantia strisce orizzontali

UOMO

CAPELLI

Lisci lunghifino al petto

ACCESSORI

Nelle taschedei pantaloni topolinibianchi addomesticati

TRUCCO

Severamente proibitol’uso del make-up

“E con una poesiasi pagavail conto al bistrot”

GIUSEPPE VIDETTI

DONNA

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007

tazze, cucchiaini, libri e copertine di dischi sparsi alla rinfusa.Nella prefazione, Vian annota: «Intorno al 1947 Saint-Ger-main-des-Prés diventò repentinamente la mecca del mondointellettuale». In quello stesso anno l’artista, che oltre a scrive-re suona la tromba, canta e trascorre notti ad alto tasso alcoli-co al Tabou, pubblica quattro libri, tra cui Autunno a Pechino,e ingordo di gloria dichiara: «Sarò contento solo quando inFrancia si dirà V come Vian». E quasi ci riesce. Nel mese di apri-le una copia del suo Sputerò sulle vostre tombe, istantaneo be-st seller pubblicato con lo pseudonimo di Vernon Sullivan,viene trovato accanto al cadavere di una ragazza strangolatadall’amante, un commesso viaggiatore che poi si toglie la vitain un bosco fuori città. Dalle pagine della cultura e dello spet-tacolo, Vian finisce involontariamente in quelle della cronacae della politica, insieme alla «masnada di dissennati perdi-giorno» che popolano le strade del quartier latin.

La verità è che lì si sta consumando una rivoluzione in cuicultura alta e bassa si mischiano senza pregiudizi. Il pianistaHenry Renaud, che nel ’47 aveva ventidue anni, ricorda:«Saint-Germain ha fatto per la musica ciò che Montparnasseha fatto per la pittura dopo il 1918. E non si trattava di una mu-sica qualsiasi. Era jazz». Sartre, travolto dall’energia degli arti-sti d’oltreoceano ma al tempo stesso preoccupato da quel-l’ondata di musica d’importazione, in un articolo intitolatoJazz 1947 scrive: «La musica jazz è come la banana: la si devemangiare sul posto».

Il Tabou era più trasgressivo di un rave, restava aperto finoalle dieci del mattino. Nel pomeriggio i modaioli — i più facol-tosi erano già “schiavi” del new look di Dior, che nel ’47 avevaaperto il suo atélier — prendevano lezioni di be bop dai mae-stri afroamericani. Poi si ballava tutta la notte con la musica diColeman Hawkins o Charlie Parker. Miles Davis non aveva an-cora ventitré anni quando sbarcò a Parigi. Con la ventiduenneJujube fu amore a prima vista. Nella sua autobiografia Davisracconta: «Non mi ero mai sentito così in vita mia: l’euforia ditrovarmi in Francia e di essere trattato come un essere umano.Io e Juliette passeggiavamo lungo la Senna, tenendoci per ma-no e baciandoci, guardandoci negli occhi e baciandoci di nuo-vo. Magia pura, mi sentivo ipnotizzato, ero in uno stato di tran-ce. Juliette è stata la prima a insegnarmi che si può amare qual-cun altro oltre la musica. Era April in Paris e sì, ero innamora-to». Restò un paio di settimane. Sartre gli chiese: «Perché nonla sposi?». E lui: «L’amo troppo per renderla infelice». E si dile-guò. «Non era a causa della sua reputazione di Don Giovannio per questioni di droga, come molti pensano», dice oggi Gre-co. «Sapeva quali problemi avrei avuto in America se avessisposato un uomo di colore».

A ottant’anni Jujube conserva intatti stile e charme. Gli stes-si che folgorarono Miles: «Lunghi capelli neri, bellissima, chic,un portamento che la rende diversa da tutte le altre». Si na-sconde ancora dietro elegantissimi abiti neri che si confondo-no con la scena buia, così la visione del suo viso pallido, unamaschera inconfondibile, arriva chiara e nitida anche aglispettatori delle ultime file. Qualcosa, nel tanto dolore e nellamalinconia che da sempre affogano le sue canzoni, lascia in-dovinare un tentato suicidio (proprio dopo aver girato Belfa-gor, nel 1965) e i troppi funerali degli eroi di Saint Germain chese ne sono andati, come canta drammaticamente in J’arrivedell’amico Brel («Di crisantemo in crisantemo i nostri amici in-cominciano ad andarsene…»). Sa di essere l’unica sopravvis-suta di tutti quei volti che affollano il “manuale” di Vian, l’ulti-ma testimone di un’epoca gloriosa. «È gentile che la vita mi ab-bia portato fin qui», dice. «Le persone anziane hanno più pau-ra della morte di quanta ne hanno i giovani, ma io sono rima-sta all’immaturità, non la temo. Mi aiutano le canzoni: hannoil profumo di un istante, eppure ce ne sono alcune che ti ac-compagnano per tutta la vita, entrano a far parte della memo-ria collettiva. E hanno l’effetto di una madeleine di Proust. Maio vivo sempre con sorpresa il presente. Solo un po’ di nostal-gia quando ripenso a un’epoca in cui si poteva pagare il contodel ristorante con una poesia».

IL MANUALE/2

UNDICI - UNA

Bagno di sole al de Flore(nella foto)

UNA

Colazione,il più delle volte a credito,in uno dei bistrotdella zona,come “Les assassins”di Rue Jacob

LA GIORNATA

TRE-SEI

Al caffè de FloreLa domenica il Floreè rimpiazzatodal Deux Magots(nelle foto)

SEI-SEI E MEZZO

Chi ha una casasi ritiraper lavorare un po'

OTTO-MEZZANOTTE

Al Bar Vert

MEZZANOTTE-DIECI

Al TabouIl sabato il Tabouè rimpiazzatodal Bal Nègre (nella foto)

Fonte: Boris Vian,Manuel de

Saint-Germain-des Prés

FOTO DI GRUPPOLe foto nella paginadi sinistra dall’altoin basso: un gruppodi giovani esistenzialisti;Django Reinhardt;Jean Renoir; internodel Club TabouNella foto centrale,Giuliette Grecoall’Hotel LouisianeIn questa pagina,dall’alto in bassoe da sinistra a destra,l’interno della RoseRouge; William Faulknercon amici; Jean-PaulSartre e Boris Vian;Don Carlos Bian e amici;Orson Welles; StephaneGrappelli; Marc Doelnitze un’amica;Simone de BeauvoirTutte le immagini sonotratte dal libro di BorisVian Manuel

de Saint-Germain-

des-Prés (RizzoliAmerica, 2005,190 pagine, 40 dollari)

Repubblica Nazionale

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i saporiCibo dell’anima

Tra le centinaiadi monasteri sparsidalla Val d’Aostaalla Sicilia, alcunioffrono ospitalitàai non-religiosi(quasi semprecon un’offertalibera). Spessosi distinguono ancheper la produzionedi “chicche”alimentari. Eccoqualche indirizzoper orientarsi

Ora, labora… et ede; prega, lavora e mangia. L’estensionedel precetto di San Benedetto è fondamentale nella vita dimolti monasteri, se è vero, come diceva Santa Teresa d’A-vila, che «quando il corpo sta bene l’anima canta». Sem-plice, genuina e tradizionalissima, la cucina del chiostrorappresenta la summa della cucina casalinga, moltiplica-

ta per il numero dei monaci, impreziosita da piccoli grandi dettagli, apartire dall’orto. Conventi e monasteri ne vantano di bellissimi, verigiardini di verdura, spesso vissuti come luoghi di meditazione e racco-glimento. Ogni gesto — dalla semina alla raccolta — nei precetti dei pa-dri fondatori ha una fortissima valenza di omaggio e ringraziamento,che si traduce in pratiche di agricoltura virtuosa. Niente chimica, nien-te coltivazioni intensive, rispetto dei ritmi della natura.

Dagli orti, i frati cucinieri ricavano gli ingredienti di zuppe, frittate, su-ghi, contorni; i frutti vanno ad alimentare torte e macedonie. Per resta-re nei limiti del precetto senza mortificarsi, si adottano piccoli trucchisquisiti, come nel caso delle fritture. È nato così il tempura, apparente-mente importato dalla gastronomia giapponese, e invece inventato neimonasteri medievali durante i tempora, ovvero i tempi di penitenza(Quaresima).

Il resto della produzione viene trasformato in confetture, composte,gelatine, sottoli e sottaceti, che riempiono gli scaffali della dispensa, del-lo spaccio interno o dei negozi che li comprano in esclusiva.

Ma dentro questi piccoli antri di gastronomia benedetta c’è molto dipiù. Ben lo raccontano due documentari — Storie di clausura e Storie didolci— realizzati da Piero Canizzaro e in onda nei prossimi giorni su Rai-Tre: storie di povertà e redenzione, di sublimazione e riscatto.

Le monache benedettine di Monte San Martino, per esempio, svela-no che i pasti sono un momento di comunione, una liturgia «per rende-

re lode al Signore». Cibo e preghiera vengono vissuti come strumenti checonsentono di star bene e di trasmettere un messaggio positivo agli al-tri.

Ma ci sono anche racconti di ribellione, come quello di Maria Gram-matico, affidata bambina alle suore e vissuta vent’anni nel convento diclausura di San Carlo di Erice, Sicilia, gestito da monache custodi gelo-sissime di antiche ricette di pasticceria di alto livello. Maria — che oggiha 67 anni — negli anni riuscì a impossessarsi di tanto sapere dolciario.Una volta lasciato il convento e aperto un piccolo laboratorio autono-mo, cominciò a sfornare cannoli e cassatine. Una scelta felicissima, se èvero che ormai l’Antica pasticceria del convento manda cabaret dei suoidolcetti in tutto il mondo.

Dolci e non solo. Dallo straordinario formaggio Munster (monastero)alsaziano al prezioso miele di girasole, chiostri e conventi regalano vereprelibatezze senza limiti tra dolce e salato. Su tutte, regnano incontra-stati gli alcolici. Dura nel tempo il mito dei Mastri birrai trappisti, seguacidell’abate cistercense francese La Trappe (1600). Quattrocento anni do-po, sette monasteri (sei in Belgio e uno in Olanda) continuano a regalar-ci bionde, rosse e scure di grandissimo valore. Altra delizia, la miticaChartreuse, liquore raffinatissimo preparato alla Grande Chartreuse,nei pressi di Grenoble. Merito primario dei monaci benedettini, al se-guito delle armate cristiane in Terra Santa, che a suo tempo avevano car-pito dai manoscritti arabi i segreti della distillazione.

Non vi basta? Comprate la Guida ai monasteri d’Italia (di Tarallo eGrasselli) e regalatevi un week end spiritual-gastronomico. Oltre a mo-nasteri che offrono ospitalità spartana e pasti semplici, l’Italia abbondadi monasteri trasformati in veri tempi gourmand e locande di lusso, dal-la Frateria di Padre Eligio in giù. Ma non vi illudete: dopo l’Elisir del Fra-te chiudi-pasto, la preghiera di ringraziamento è d’obbligo.

50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007

LICIA GRANELLO

Marmellate, liquori digestivi, biscotti, prodotti dell’orto, torte e piatticasalinghi: in molti monasteri italiani l’ospitalità è un’antica vocazioneche adesso viene raccontata in due docufilm realizzati per Rai TreSi svelano così quelle ricette della “gastronomia benedetta”che custodiscono e tramandano da decenni i segreti della semplicità

Creata nel 1965da Enzo Bianchi, teologoattivissimo nel dialogo fra Chiesa e società,ristrutturando e ampliando

le rovine di una chiesa romanica,è una comunità monastica apertaa uomini e donne di chiesecristiane diverse, sottola guida di un priore. La coltivazionedi orto e frutteto si traducein confetture, gelatine e conserve

MAGNANO (BI)Località Bose Tel. 015-679115

Del 1500, divennesantuario mariano, notoper la cura degli appestatinell’epidemia del 1630Dopo secoli

di abbandono, i frati Servi di Marianel 1960 l’hanno riportato all’anticavita religiosa, culturale e artisticaDalle vigne del convento, nasce un eccellente Chardonnaydi Franciacorta, con l’etichettaBellavista

ROVATO (BS)Piazza Santissima Annunciata 2Tel. 030-7721377

Due anni dopola costruzione, cominciatanel 1471, venne annessoun piccolo convento, per una ventina di frati

Dopo varie vicissitudini, i monacibenedettini sublacensi sono tornatiad abitarlo a metà OttocentoStorica ed eccellente,la produzione di polline, pappa realee mieli di qualità diverse nel bel laboratorio apistico

Via Badia 28Tel. 0521-355017

Avvolto in un bel boscoe costruito a pochichilometri dall’EremoSacro grazie al conteMaldoli (ca’ Maldoli,

da cui il nome), fu a lungo sedeospedaliera per poveri e pellegriniI monaci benedettini camaldolesivantano una generosa produzionedi liquori (Elisir dell’Eremita, Lacrimad’Abeto), tisane, caramelle,confetture, porcini

AREZZOLocalità CamaldoliTel. 0575-556012

CucinaChiostro

Crostinicon

le interiora

Raviolialle

bietolone

Sardein

carpione

del

le scelte

Quel che passa il convento

Monasterodi Bose

Conventodell’Annunciata

Badia di Santa Mariadella Neve

Fondato nel 1142dal vescovodi Bressanone Hartmann, il complesso è formato da una chiesa tardo-

barocca, da un chiostro gotico,dal pozzo dei miracolie da una sontuosa bibliotecaI monaci agostiniani produconoottimi vini bianchi aromaticie una tisana di erbe coltivatenel maso Rauter

VARNA DI BRESSANONE (BZ)Via Novacella 1Tel. 0472-836189

Abbaziadi Novacella

Monasterodi Camaldoli

Repubblica Nazionale

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Monaci e gastronomia: un’abbinata vincente. Le affascinanti storie di monasteri immersi nella cam-pagna o fra i boschi facilmente si sposano con immagini di prodotti sani e gustosi, cibi affettuosa-mente preparati, modi di vita piacevolmente sobri, saperi secolari che profumano di zuppe fuman-

ti, erbe medicinali, salutari elisir, formaggi squisiti. In realtà, il rapporto della cultura monastica col cibo è caratterizzato da un’ambiguità di fondo. Scel-

te di vita moderate e discrete, come quelle raccomandate da san Benedetto, si incrociarono semprecon atteggiamenti feroci verso i piaceri del corpo, primo fra tutti il piacere alimentare, tanto perico-loso quanto necessario, dato che per vivere bisogna mangiare: un piacere “basico”, dunque, inevi-tabile, in qualche modo propedeutico ad altre attenzioni fisiche, ad altri vizi e piaceri. Questo pen-savano i padri del pensiero monastico, agli albori del Medioevo cristiano, osservando come lostesso progenitore Adamo si fosse macchiato di una colpa “originaria” occasionata dalla pas-sione per un frutto proibito: in buona sostanza, un peccato di gola.

La diffidenza nei confronti del cibo, e più in generale del piacere fisico, legittimava singola-ri esperienze di “anti-cucina” volte ad annullare le qualità organolettiche dei cibi: quando l’a-bate Lupicino ritornò al suo monastero — racconta un testo agiografico dell’alto Medioevo —e si accorse, dal profumo che usciva dalle cucine, che i monaci erano intenti a preparare pescisucculenti e altre gustose vivande, ordinò di mescolare tutto insieme e di farne un indistintopastone. Le pratiche di astinenza e di digiuno, prescritte da ogni regola monastica, sonoespressione di questa cultura, certo non tenera nei confronti del cibo.

Ma paradossalmente, furono le stesse regole dell’astinenza a generare attenzioni propria-mente gastronomiche. Soprattutto l’esclusione della carne dalla dieta monastica, che, con mo-dalità diverse da comunità a comunità, rappresentò per tutti la scelta di base, rese necessariaun’opera paziente di valorizzazione dei prodotti alternativi, zuppe di verdura e di legumi, mine-stre di pasta, uova e formaggi, per non dire dei pesci, che della carne furono l’immediata alternati-va. E poi confetture e conserve di ogni genere, con un’attenzione ossessiva alla dispensa, che ai mo-naci doveva garantire una completa autosufficienza per impedire che, in linea di principio, vagasse-ro a cercar cibo fuori dalla comunità. La solitudine monastica, funzionale alla meditazione e alla pre-ghiera, produsse in tal modo una sintonia sghemba con la società contadina, attenta anch’essa a far qua-drare il bilancio alimentare, a garantirsi dal pericolo incombente della fame.

In tal modo il monastero diventa, quasi a dispetto della scelta di vita che lo genera, un luogo formidabile dielaborazione della cultura gastronomica. L’icona del monaco goloso, stereotipo consegnato da una lunga tra-dizione orale e letteraria, fonda le sue ragioni su questo fondo di verità. Al quale si aggiunge il fascino del “se-greto”, di pratiche e consuetudini gelosamente conservate al riparo dalla corruzione mondana. L’attribuzio-ne monastica può così diventare un valore aggiunto di segno inequivocabilmente positivo. «Quanti formag-gi», si chiedeva Léo Moulin, «non sono monastici nelle loro origini?».

Nelle loro origini, non saprei. Ma sul piano del marketing è indubbio che quella attribuzione funziona. Sa-rebbe però ingiusto dimenticare i pastori e i contadini che, lavorando con (e per) i monaci, contribuirono inmaniera decisiva a costruire il nostro patrimonio gastronomico.

Dal peccato di gola di Adamo ed Evaalla sapienza segreta degli chef in saio

MASSIMO MONTANARI

Monastero sorto nel 1108,ristrutturato a metàdel Cinquecentoè da sempre nelle mani delle monache benedettine

che ne hanno fatto un accoglientecentro spirituale con seminarie consulenze psicologicheLe monache si dedicano con pariperizia alla produzione di vino, olio,distillati, oltre ai tradizionali dolci e ai biscotti regionali

BEVAGNA (PG)Corso Matteotti 15Tel. 0742-360135

Il trittico architettonicosorto all’iniziodel Dodicesimo secolo a 1270 metri – monasterobenedettino, abbazia

territoriale e santuario mariano –ospita anche mostre e concertiLa produzione di liquori d’erbeè ultrasecolare: si va dall’anisettabenedettina al cognac medicinaleEccellente anche la produzionedi miele

MERCOGLIANO (AV)Via MontevergineTel. 0825-72924

Nato per una donazione nel 1290, ebbe lunga vitatranquilla fino al 1944,quando fu occupatodai militari e divenne

caserma di guerra. A gestirlo,le monache cistercensi, ordinefondato in Francia da tre monacibenedettini. Oltre ai tradizionali dolcidi marzapane, viene realizzatauna variante del cus cuscon pistacchi e mandorle

AGRIGENTOCortile Santo SpiritoTel.0922-20664

I monaciIl merito dei monaci nell’evoluzione

della gastronomia del mondo è grandeUn nome su tutti: Dom Perignon, il frate che,

cercando di imprigionare le bollicine dei vini ri-fermentati nelle bottiglie della sua cantina, inventò

lo Champagne. La maggioranza dei formaggi fran-cesi sono nati nei monasteri, a partire dal munster (ter-mine latino monasterium, nome di un monastero-vil-laggio fondato nel 660 in Alsazia). Francesi e mona-cali anche i distillati d’uva. Nei centri religiosi tede-schi, invece, vengono prodotti meravigliosi distil-lati di frutta. Ma i frati-gourmand più famosi so-

no i trappisti belgi, capaci di inventare unproprio stile di birra, con tanto di mar-

chio registrato ed esclusivo diproduzione

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007

Polentaal nero di seppia

e bucatoli

Frutta seccadi originesiciliana

Pasta realein

minestra

BenedettineSanta Maria del Monte

Secondo tradizione,la fondazione,nel Dodicesimo secolo,si deve a una seguacedi santa Chiara, alcuni

anni dopo la visita di san Francescoin Abruzzo. Le suore clarissecontinuano a produrrei “dolci del monastero”: mostaccioli,pasta di noci, rafaioli con marmellatae le bocche di dama nera,con mandorle e cioccolato

ATRI (TE)Santa Chiara 11Tel. 085-87206

Monasterodi Santa Chiara

Annesso alla basilicafondata nel Quarto secoloda Sant’Elena, madredell’imperatoreCostantino, venne

edificato nel 1712I monaci cistercensi lavoranoil bellissimo orto ricavatonell’anfiteatro romanoSi producono mieli, marmellate,cioccolato e liquori a base di erbe officinali

ROMASanta Croce in Gerulasalemme 12Tel. 06-7014779

Santa Crocein Gerusalemme

Santa Mariadi Montevergine

Monasterodi Santo Spirito

Repubblica Nazionale

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Nel 1907 la rivista “Vogue” pubblica foto e disegnidell’indumento femminile “moderno”che prendeil nome di brassière. Comincia così - tra coppe,forme, stecche, lycra, pizzi e gel al siliconedi nuova generazione - la carriera di uno dei capipiù rivisitati e sexy dell’armadio delle donne

le tendenzeCassetto intimo

52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007

Compleanno tondo per il reggiseno. Ta-glia il traguardo dei cento anni ed è in ot-tima salute, rivisitato e riproposto inogni forma possibile, arma suprema diseduzione, feticcio dei feticci, ma ancheindumento indispensabile per la sua

praticità a miliardi di donne indipendentemente dal-la moda e dalle mode.

Un compleanno labile: non esiste una vera data dinascita. Il reggiseno - modello a fascia - è già presen-te nei mosaici di Villa Armerina. Il 1907 è però l’annoin cui la rivista Vogue, con il nome di brassière, co-mincia a pubblicare foto e disegni dei primi reggise-ni che potremmo definire «moderni». Gli americani egli inglesi abbreviano e nasce la parola bra. Prima infrancese reggiseno si diceva soutiens-gorge ed eramolto più parente del corsetto contenitivo. Nato inFrancia, saranno poi gli americani a perfezionarlo e adargli la forma che ha più o meno conservato in que-sto secolo di vita.

In realtà già nel 1889 una signora francese, Hermi-nie Cadolle, borghese agiata ma anche femministaconvinta, aveva presentato all’Esposizione Univer-sale di Parigi una sua creazione che si avvicinava mol-to alla versione poi codificata e pubblicata nel 1907:due coppe di cotone munite di bretelle, dunque il se-no separato nel mezzo, una rivoluzione. Ma ci vor-ranno anni e anni prima di mandare definitivamentein cantina le stecche di balena e altre torture.

Il primo brevetto di un reggiseno moderno ha la da-ta del 1914, quando una ricca dama newyorkese,Mary Phelps Jacob, deposita il marchio di una sua in-venzione con il nome di “Caresse Crosby” e la cede al-la Warner per 1.500 dollari: un reggiseno senza arma-tura che non fa trasparire segni. Il prototipo se lo erafatto da sola un anno prima utilizzando due fazzolet-ti ed un nastro, buttando il punitivo corsetto - prati-camente un cilicio- alle ortiche.

Nel 1917 l’industria bellica esorta le donne ameri-cane a fare a meno di reggiseni dotati di parti metalli-che. In questo modo furono risparmiate circa 28milatonnellate di metallo, quanto bastava - si rilevò pa-triotticamente - per costruire due navi da guerra. Ne-gli anni Dieci e Venti prevale il reggiseno che appiat-tisce. Il seno Liberty è piccolo e la donna è androgina:guardate le incisioni di Aubrey Beardsley e le sue Sa-lomè. Negli anni Trenta un’emigrata russa di nomeIda Rosenthal fonda negli Stati Uniti assieme al mari-to un’azienda che farà fortuna producendo reggise-ni, la Maidenform, la prima che crea misure differen-ziate per le coppe con le diverse categorie per circon-ferenza. Nel 1931 la Warner immette sul mercato iprimi reggiseni con le bretelle elastiche, ma sarà du-rante la Seconda guerra mondiale, grazie al nylon in-ventato nel ’38, che trionferanno le fibre sintetiche,utilizzate per ripiego in mancanza di materie primenaturali come la seta, la gomma, il cotone.

Gli anni Cinquanta sono gli anni delle maggiorate:seni abbondanti dopo le ristrettezze e i patimenti del-la guerra. Nasce il reggipetto imbottito, antenato ar-tigianale del push-up. Persino Marilyn Monroe - loabbiamo visto quando, nell’ultima asta dei suoi me-morabilia, è stata impudicamente messa all’incantopersino la sua biancheria personale - utilizzava i fa-mosi “pescetti”: le imbottiture ovali rimovibili da si-stemare all’interno delle coppe.

Reggiseno è una parola da pronunciare a bassa vo-ce, con pudore, arrossendo. Nell’Italia moralista diquegli anni Carosello, la trasmissione simbolo del no-stro boom economico, ha un suo catalogo di terminida censurare che vieta l’uso di parole considerate «in-decenti», fra cui spicca proprio reggiseno.

I formidabili anni Sessanta sono anche quelli delrogo. Che tirasse aria punitiva, per il seno e il reggise-no, lo si capiva già dal successo di una modella - di-ventata presto un modello - come la penitenziale

LAURA LAURENZI

ROMANTICORomantici cuoricini colorati su fondo

bianco e merletto rosa per il reggisenoproposto da Dolce e Gabbana

con tanto di logo sul pizzo

Cent’anni vissuti pericolosamente

SEXYTrasparente, rosso fuoco,

con il ferretto: decisamente sexyil modello La Perla con doppie

spalline sottili in raso

PRIMAVERILEPush-up in pizzo rosa e piccoli pois

con spalline color cioccolatosu cui spicca un ricamo floreale

È una delle proposte di Intimissimi

PREZIOSOPush-up realizzato in prezioso tullecon giochi di macramè e fiocchettiFa parte della serie Sharon di Parah

della collezione primaverile

ANIMALIERA forma di triangolo in tulle imbottitoma con effetto maculato. Proposto

da Yamamay in verde, perfettoper le giovanissime

CLASSICORealizzato in morbido raso con balza

in pizzo a contrasto, il reggisenoTriumph è un classico rivisitato

in chiave moderna

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 53DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007

Twiggy, simil-anoressica, emaciata e con un busto ta-glia zero. Il 1968 è l’anno in cui le femministe dannofuoco, idealmente ma anche materialmente, ai lororeggiseni. Accade di fronte al grande albergo in cui sitengono le finalissime del concorso di Miss America.Nello storico falò, filmato dai telegiornali, c’è di tutto:giarrettiere, piastre per capelli, pinzette, cere depila-torie, scarpe con i tacchi a spillo, tutto quello che vie-ne catalogato come arma di oppressione e strumen-to di tortura finalizzato a rendere la popolazione fem-minile del pianeta «donne oggetto». Ma il simbolo su-premo di discriminazione e ineguaglianza fra i sessi,più di ogni belletto, di ogni trucco e ogni inganno, èconsiderato il reggiseno.

Mandato in soffitta dalle purghe emancipatorie, inrealtà mai tramontato, il reggiseno aveva però già fat-to il suo ingresso nella leggenda e nel nostro immagi-nario collettivo, conquistandosi un posto d’onore fra imiti e le icone del Ventesimo secolo. Il reggiseno di Ma-ta Hari, che vi custodiva documenti segreti. Quello, an-zi quelli della miliardaria Barbara Hutton, che li colle-zionava a centinaia. Il reggiseno di Marilyn, che inQuando la moglie è in vacanza racconta di «tenere gliintimi in frigorifero». Il balconcino delle grandi dive:nero con nastrino per la Loren nel celebre spogliarellodi Ieri, oggi, domani, a quadrettini Vichy per la Bardot,color carne e scultoreo per Gina Lollobrigida. Il reggi-seno diventa materia di provocazione, se non addirit-tura di parodia da fumetto, in mano a stilisti come JeanPaul Gaultier e Vivienne Westwood. Ecco i turbo-reg-giseni a forma di siluro esibiti da Madonna.

Il resto è storia recente, anzi, cronaca dei nostrigiorni. La riabilitazione, i progressi tecnologici, la ri-cerca. Abbiamo capito che il reggiseno non soltantonon opprime (al massimo comprime) ma sostanzial-mente aiuta, dona, ed è il più versatile dei nostri in-dumenti o accessori, più un alleato che un nemico enon soltanto in palestra, indipendentemente dallasua carica erotica. Contiene i forti, sostiene i deboli eraduna i dispersi, osserva goliardicamente un colle-zionista. L’anno 1994, che vede il lancio del Wonder-bra, e cioè del reggiseno col push-up che fa lievitareanche i busti meno dotati, fa da spartiacque. È l’annoche dà il via all’impiego delle nuovissime tecnologieapplicate alla biancheria intima. La fine del secondomillennio e l’alba del terzo consacrano il trionfo delseno abbondante, vero o presunto che sia, ingrandi-to ed esaltato dal reggiseno col trucco o magari dal bi-sturi, vessillo di una femminilità esagerata.

Oggi viviamo gli anni della biancheria “esternabile”,così sexy e sofisticata da doverla ostentare sotto le giac-che. Modellante, effetto lifting, o semplicemente ripa-ratrice, come ha sfilato nei giorni scorsi al Salone an-nuale dell’intimo di Parigi. Un intimo che non si ac-contenta più di coprire e scoprire elegantemente le nu-dità ma piuttosto le plasma, le scolpisce, le rimpolpa,le sfina. L’industria ci propone ogni giorno reggisenicon optional ed effetti speciali sempre nuovi e diversi,in una corsa fantascientifica verso la biancheria intel-ligente, quando non addirittura parlante. Abbiamo ilreggiseno che cambia colore al momento dell’ovula-zione, quello con l’airbag, quello che controlla il di-spendio calorico, quello supervolumizzante che sigonfia a volontà con apposita cannuccia. Il reggisenodotato di microchip in grado di monitorare battito car-diaco e pressione. Quello antiaggressione che consen-te di dare l’allarme via radio. Il reggiseno dotato di unbip luminoso che entra in funzione per segnalare i pe-ricoli dal cielo, battezzato non a caso Armageddon,realizzato con il tessuto usato dalla Nasa per le tute de-gli astronauti. Quello al titanio, capace di memorizza-re la forma iniziale impressa la prima volta. Il reggise-no a olio, quello aerodinamico progettato sui principidel frisbee, l’antifumo, che rende l’aroma della siga-retta intollerabile e infine quello anti buco nell’ozonoe pro risparmio energetico. È in pelliccia ecologica, conimbottitura al gel: si infila qualche secondo nel forno amicroonde e aiuta a combattere il grande freddo.

MARILYN MONROE

Una giovanissimaMarilyn al telefononei primi anniCinquanta: la stardivenne famosaanche per le sueforme “burrose”e le sue scollature

SOPHIA LOREN

Sophia Lorenin reggiseno neronella celebrescena dello stripdel film Ieri, oggie domani, regiadi Vittorio De Sica1963

BRIGITTE BARDOT

È il 1957 B.Brecita ne Gli amantidel chiaro di lunaha un ariasbarazzinae un modellodi reggisenoa balconcino

MADONNA

La rockstarfece scandalonei concertianni Novantacon i reggiseniaggressivi“costruiti” per leida J. Paul Gaultier

Reggisenoil

LA STORIA

✯ LE STAR ✯

‘‘La fanciulla(...) e il corsettino

di broccatoche sosteneva

il senocon due punte

ricurve, davanoalla fanciullauna graziaorientaleDa CENERE

di Grazia Deledda

1959

Warners e Dupontproduconoil materialesinteticoche cambieràla vita della donne:la lycra. Cosìil reggisenodiventa impalpabile

1994

Arriva Wonderbra:il reggisenonon coprenè sostiene più ma evidenzia con il push-up le rotonditàfemminiliÈ una rivoluzione

2007

Ad aria, ad olio,con siliconeincorporatocon microchipche riscaldao luminescente:il reggisenoda indumentodiventa gadget

1928

Ida Rosenthal, immigrata russa,fonda con il maritoWilliam l’aziendaMaidenform: qui vengono definite per la prima voltale misure di coppadei reggiseni

1907

La rivista Voguepubblica col nomedi brassièrefoto, modellie disegni dei primireggiseni moderniLa parola del capoviene abbreviatae diventa bra

Repubblica Nazionale

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54 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 FEBBRAIO 2007

l’incontroMaestri della regia

ROMA

Dice, scandendo le paro-le: «Quando si parla diMani sulla città se neparla per la speculazio-

ne edilizia. Ma è riduttivo. Comequando definiscono il mio “cinemapolitico”. Riduttivo. Quel film, stiabene attento, è la storia di come vienecambiata a un terreno la destinazioneassegnata dal piano regolatore. E lastoria di come un imprenditore dellecostruzioni, realizzando un illimitatoconflitto di interessi, riesce a diventa-re assessore all’urbanistica da consi-gliere comunale che era, per potersiservire di quel potere a vantaggio del-le proprie imprese. Da qui parte il ri-conoscimento di qualcosa che era va-lido ieri, 1963, come è valido oggi.Rendere legale attraverso il poterepolitico corrotto ciò che è illegale.Non so se mi sono spiegato».

Si è spiegato forte e chiaro France-sco Rosi. Sempre sulla breccia, a 84anni peraltro artisticamente attivi: laregia teatrale di Napoli milionariaprima, e ora di Le voci di dentro, conocchio attentissimo alla sensibilità“politica” dell’Eduardo dell’imme-diato dopoguerra, fratello stretto delRossellini della trilogia neorealista:fondatori paralleli, anche se l’unonon sapeva niente dell’altro, di unosguardo radicalmente nuovo sull’Ita-lia. Il regista non perde un’occasionené un colpo, malgrado quel pizzico dicivetteria che gli fa dire: «Ma sonostanco, e poi non mi va di parlare, par-lare. Non mi piace». (Gli piace ecco-me, invece. Non è sua la tentazione difare come lo zi’ Nicola di Eduardo chesceglie il silenzio «perché è inutileparlare ai sordi»). Passa da un omag-gio alla carriera a una laurea honoriscausa, alla commemorazione di que-

cato preciso. «Io ho fatto cinema del-la realtà», dice. Combinazione dentrola quale è nascosto il “Rosi touch”, ilsuo tocco. Cinema: «Il linguaggio dicomunicazione più potente che esi-sta. Fa sentire e vedere, emozionare eidentificare, fa soffrire e sperare in-sieme ai personaggi. Io faccio il cine-ma, racconto storie di uomini e dipassioni umane, di virtù e difetti».Realtà: «Scelgo fatti che hanno im-portanza storica, ma non altero la ve-rità. Non inserisco elementi di fanta-sia per fare il cinematografo. Tuttodocumentato, riscontrabile storica-mente e giudiziariamente. Però nonfaccio film a tesi o di propaganda.Coinvolgo lo spettatore, che è interlo-cutore: lo chiamo a partecipare alprocesso, per capire».

Se non fosse chiaro: «Non dico cheMattei è stato ucciso ma porto ele-menti vagliati che affacciano il dub-bio. Non invento. E così per Giuliano.I nomi dei presunti mandanti dellastrage di Portella non li ho fatti. Perchéil film non me l’avrebbero fatto girare,ed era più importante farlo. Non pote-vo convocarli io se non li aveva convo-cati il tribunale. Avrei voluto ma miavrebbero mandato in galera. E LuckyLuciano: gli interrogatori si fondava-

sto o l’altro dei vecchi compagni ecolleghi che non ci sono più; non sisottrae a un dibattito né a un’intervi-sta, oggi su Napoli domani sulla ma-fia. Non è narcisismo, è senso del do-vere. Anche correndo, pazientemen-te, il rischio di dover subire un’inter-pretazione riduttiva della sua opera.

Del resto, lui è stufo di sentirselo ri-petere, ma resta verissimo che adogni emergenza napoletana, ad ogniripresa di discorso sul separatismo si-ciliano e sulla strage di Portella dellaGinestra come momento fondantedella moderna criminalità mafiosa, ead ogni periodico risveglio di interes-se per la fine del fondatore dell’Eni, igiornali corrono da lui e corrono aisuoi Mani sulla città, Salvatore Giu-liano, Il caso Mattei. Perché, come so-lo i capolavori (vedi La dolce vita diFellini, Il sorpasso di Risi, Rocco e isuoi fratelli di Visconti e pochi altri),quei film — quindi fiction, e fino aprova contraria elaborazioni di unasoggettività artistica — sono diventa-ti documenti, più veri del vero.

La sua Napoli è rimasta natural-mente, e sempre, nel cuore del suo in-teresse e al centro della sua passione.E nei mesi scorsi, fitti di rinnovateemergenze cui qualcuno ha avuto latentazione di far fronte con l’esercito,Rosi non si è fatto pregare a scenderein campo per dire e ripetere ciò in cuicrede. Questo: «Purtroppo tutto ciòche ho raccontato molti anni fa èprofondamente radicato nell’am-biente e nella città di Napoli. La cuistoria è storia di plebe. Napoli ancoraoggi vive una tragedia che è conse-guenza della mancanza di lavoro.Della mancanza di legalità e di stabi-lità sociale. E della mancanza di istru-zione e di educazione civile alla con-vivenza e al rispetto per gli altri: lecondizioni per il formarsi di unamentalità diversa, capace di opporsialla sopraffazione; a un degrado e auna corruzione nei quali la crimina-lità organizzata si è insinuata con vio-lenza feroce e si è fatta dominante atutti i livelli, malgrado gli sforzi deitanti cittadini onesti e delle istituzio-ni. Ma guai a dimenticare che Napoliè questione nazionale».

Rosi sa bene che c’è un tessuto diconsenso alla camorra perché è l’uni-ca a dare “lavoro”. Continua a difen-dere la sua proposta di aprire le scuo-le, di tenerle aperte fino a sera perchésiano luogo di aggregazione alterna-tivo e sano per i ragazzi. Parlando co-me è fatale del boom editoriale di Go-morra, il libro-inchiesta di RobertoSaviano, dice che ha un po’ paura del-la sua possibile, anzi probabile ver-sione cinematografica: «Mi allarma ilrischio dell’estetizzazione del terro-re».

Francesco Rosi rivendica con orgo-glio di non aver mai fatto «il cinema-tografo». Affermazione che va forsedecodificata, che ha però un signifi-

no sulla documentazione dell’Onu. Ioli ho fatti “passare”», ecco la chiusuradel cerchio perfetto, «attraverso i per-sonaggi e le facce e le sensibilità degliattori, il grande Volonté per primo.Coloro che comunicano l’emozione.La realtà è talmente piena di spuntispettacolari che non c’è bisogno di ri-crearla attraverso la fantasia».

E qui, con vezzo tipico del maestro,anzi del “professore” secondo il no-mignolo un po’ sfottente che nel tem-po il popolo di Cinecittà gli ha affib-biato, Rosi conclude: «Il mio cinemaha questo di diverso. Si fa in tante ma-niere il cinema, per carità... Però bi-sogna saperlo fare». Finto modesto,assolutamente cosciente di quantosia grande quello che ha fatto.

E infaticabile. Veramente infatica-bile. Di recente lo abbiamo accompa-gnato in una serie di occasioni cele-brative a distanza ravvicinata tra loro.Dall’università di Siviglia che gli hachiesto di tenere una lezione, all’Acca-demia dell’immagine dell’Aquila chelo ha voluto per inaugurare il suo annoaccademico (ma dietro l’angolo loaspettano un omaggio primaverile inLussemburgo e uno parigino in esta-te). Sfidando (senza caderci) la pedan-teria del professore, Rosi è l’unico deigrandi autori italiani che, distinguen-dosi dalla pur nobilissima stirpe deicommedianti cultori dello scettici-smo e di un esibito (ma finto) cinismo,non lesina mai partecipazioni, spiega-zioni, confronti, precisazioni. Insom-ma un comportamento che nasce dauna profonda consapevolezza. Quelladi essere portatore di grande respon-sabilità civile. E di essere chiamato adassolvere a un dovere educativo, di-dattico: l’introduzione della storia delcinema — del suo patrimonio artisti-co, civile, emotivo — nelle materied’insegnamento scolastico è un palli-no di Rosi. E una proposta che non sistanca mai di rilanciare. Un’altra è lacreazione di un canale satellitare cul-turale europeo. Del maestro, insom-ma, ha il talento, e del professore la vo-cazione. Più forte di lui.

Altra cosa che i critici ripetono di luie di cui lui forse si è stufato. Colpisceche questo giovane e promettente in-tellettuale napoletano del dopoguer-ra, formatosi in una temperie piena dibelle promesse, da Ghirelli a PatroniGriffi, da La Capria a Vittorio Caprioli,invece di seguire una delle tante stra-de per cui sembrava tagliato — potevadiventare un uomo di legge, un gior-nalista di prim’ordine, un leader poli-tico, uno storico — si sia invece ritro-vato a venticinque anni o giù di lì ac-canto a Luchino Visconti ad Acitrezzasul set de La terra trema. «Io non hofrequentato scuole di cinema. Ma ècome se le avessi fatte tutte le scuole,le accademie e i centri sperimentali dicinematografia». In effetti un “diplo-ma” così non può che segnare. E Rosine è stato segnato profondamente.

Ma la cosa rara è che ha portato den-tro il cinema, dentro l’arte della regia,trasfigurandole in stile, tutte quellechances e tutti quei numeri di cui eradotato il giovanissimo intellettualenapoletano del dopoguerra. L’uomodi legge e lo storico, il giornalista e ilpolitico. Caso davvero unico. Qualeartista, come lui, riassume in sé lo stu-dio e la comunicazione, la riflessionee l’emozione, quell’insieme partico-larissimo che gli ha permesso, ha per-messo a molti dei suoi film, di scavarea fondo nei problemi e contempora-neamente di colpire al cuore il pubbli-co? «Troppo americani», disse qual-cuno dei suoi primi film, storcendo ilnaso. Ma quanti americani hanno pe-scato dalla sua lezione? Rendendogliperaltro merito: da Sidney Pollack aOliver Stone.

Il suo sguardo è terribilmente esi-gente. Verso se stesso — con tutta lalecita soddisfazione per ciò che hafatto, ma sempre da implacabile per-fezionista — e quindi verso gli altri.Dal suo santuario-studio in uno deiposti più belli di Roma, a un passo daTrinità dei Monti, legge, consulta,classifica, ritaglia. E telefona. Rosi èuno che, se gli è piaciuto il film maga-ri di un collega anche molto più gio-vane, non esita ad alzare il telefonoper complimentarsi. Quella volta chechiamò Gabriele Muccino questi ri-mase a bocca aperta, incerto se fosseuno scherzo.

Segue, s’informa, commenta, par-tecipa, s’indigna Francesco Rosi.Non lascia che le ombre dell’età avan-zata, del tempo che passa, del rim-pianto per chi non c’è più lo sovrasti-no. E non dice che era meglio prima(anche se qualche volta di sicuro lopensa, ma chi non sarebbe tentato so-prattutto se parte di un gruppo che èstato artefice di una sfilza di capola-vori). È presente nell’oggi e guarda alfuturo con (relativa) fiducia.

I film sonoil linguaggiodi comunicazionepiù potente che esistaFanno sentiree vedere, emozionaree identificare

Nel tempo, per i suoi modie per il contenuto delle sue pellicole,da “Mani sulla città” a “Il casoMattei”, il popolo di Cinecittàgli ha affibbiato il nomignolo un po’

sfottente di “professore”E lui, a 84 anni,infaticabile,non si sottrae ai doveri(e ai vezzi) del pedagogo“Io faccio cinemadella realtà”, dicedella propria opera,

“per questo è diverso. Si fa in tantemaniere il cinema per carità...Però bisogna saperlo fare”

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Francesco Rosi

PAOLO D’AGOSTINI

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Repubblica Nazionale