JOAN BAEZeVITTORIO ZUCCONI DOMENICA 26 AGOSTO...

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DOMENICA 26 AGOSTO 2007 D omenica La di Repubblica l’anniversario San Francisco e l’Estate dell’Amore JOAN BAEZ e VITTORIO ZUCCONI la memoria Islero, l’ultimo toro di Manolete GIANNI CLERICI il racconto I decabristi e la principessa di Siberia PIERO OTTONE cultura Saint-Exupéry, oltre il Piccolo Principe DANIELE DEL GIUDICE e HAYAO MIYAZAKI la lettura Il cantastorie nella foresta delle facce RUGGERO PIERANTONI spettacoli Venezia, tutti i Pulcinella di Luzzati FEDERICO FELLINI, EMANUELE LUZZATI e MARIO SERENELLINI MILANELLO (Varese) I l pallone scivola sull’erba bagnata del campo con la stessa dolcezza di una boccia sul panno di un biliardo. Pare volersi avvolgere nell’erba, non fa rumore, è una lunga carezza. Un ragazzo di quasi quarant’anni in jeans e felpa scura lo guar- da come se fosse una cosa sua. Non lo può toccare, ma sa che quan- do smetterà di rotolare quel pallone si fermerà esattamente tra i suoi piedi. Ancora una volta. Succede da un quarto di secolo. A pensar- ci bene, è un’eternità. Ha smesso di piovere da pochi minuti. C’è Ka- lac, un portiere australiano di due metri che chiama tutti «man» e che si stira fin sulla punta delle sue pantofole da doccia infinite. Si lamenta della schiena che cigola come una persiana arrugginita. Sembra davvero il giorno giusto, dentro questa umidità che a Mila- nello ha spento le luci e fatto saltare i computer, per sentire i dolori nelle giunture, le ferite incise nei tendini, il tempo che passa sulla nostra pelle e ci vive. Il ragazzo è stato operato sei volte. In tre occasioni dopo che gli hanno spaccato il naso, nella quarta lo zigomo. Le ginocchia, inve- ce, se ne sono andate per conto loro nelle ultime due stagioni, pri- ma quella destra, poi la sinistra, sfarinandosi attorno all’osso come cartapesta sfregata tra le dita. I suoi compagni dicono che il capita- no è l’unico calciatore al mondo capace di correre senza le ginoc- DARIO CRESTO-DINA chia. Paolo Maldini è stato operato l’ultima volta il 29 maggio a An- versa, dal professor Marteens, un medico belga che è diventato ric- co e famoso grazie alla sua abilità con il bisturi e alla capacità di tra- sformare in tanti terminator gli atleti caduti dai loro paradisi come angeli sfiniti. Tra qualche giorno riprenderà a muoversi in campo, a fine settembre sarà pronto per la sua prima partita stagionale. So- no qui a chiedergli di raccontarmi i suoi mali e come si fa, a qua- rant’anni (li compirà il prossimo 26 giugno) a giocare nella serie A italiana e in Champions League, a percorrere centinaia di chilome- tri su scarpini con i tacchetti di gomma o di acciaio — esistono an- cora? —, a incrociare i piedi e la testa anche tre volte la settimana con avversari che potrebbero essere quasi suoi figli. Gli domando, in- somma, quando morirà un campione quasi miracoloso. Lui sgra- na gli occhi chiari, abbozza uno scongiuro dietro al sorriso da buo- na educazione e comincia proprio dal ginocchio sinistro al quale è stata ricostruita la cartilagine. «Si gonfiava, mi procurava un dolore lancinante e continuo, abbiamo scoperto anche un ossicino che ne impediva la massima estensione. Ho sofferto molto, ma ho giocato lo stesso tante partite, compresa la finale di coppa campioni di Ate- ne. Ogni volta che entravo nello stadio per il riscaldamento dicevo a me stesso: non ce la faccio, non ce la posso fare, mi fa un male del- la madonna. Poi per novanta minuti l’entusiasmo e la forza di vo- lontà funzionavano come un anestetico. Il brutto veniva dopo». (segue nelle pagine successive) con articoli di EMANUELA AUDISIO e EDMONDO BERSELLI Giocare a Torna con la serie A il grande calcio e torna Paolo Maldini, simbolo di una longevità sportiva che è fenomeno atletico e di costume 40 anni FOTO EFREM RAIMONDI / CONTRASTO Repubblica Nazionale

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DOMENICA 26 AGOSTO 2007

DomenicaLa

di Repubblica

l’anniversario

San Francisco e l’Estate dell’AmoreJOAN BAEZ e VITTORIO ZUCCONI

la memoria

Islero, l’ultimo toro di ManoleteGIANNI CLERICI

il racconto

I decabristi e la principessa di SiberiaPIERO OTTONE

cultura

Saint-Exupéry, oltre il Piccolo PrincipeDANIELE DEL GIUDICE e HAYAO MIYAZAKI

la lettura

Il cantastorie nella foresta delle facceRUGGERO PIERANTONI

spettacoli

Venezia, tutti i Pulcinella di LuzzatiFEDERICO FELLINI, EMANUELE LUZZATI e MARIO SERENELLINI

MILANELLO (Varese)

Il pallone scivola sull’erba bagnata del campo con la stessadolcezza di una boccia sul panno di un biliardo. Pare volersiavvolgere nell’erba, non fa rumore, è una lunga carezza. Unragazzo di quasi quarant’anni in jeans e felpa scura lo guar-

da come se fosse una cosa sua. Non lo può toccare, ma sa che quan-do smetterà di rotolare quel pallone si fermerà esattamente tra i suoipiedi. Ancora una volta. Succede da un quarto di secolo. A pensar-ci bene, è un’eternità. Ha smesso di piovere da pochi minuti. C’è Ka-lac, un portiere australiano di due metri che chiama tutti «man» eche si stira fin sulla punta delle sue pantofole da doccia infinite. Silamenta della schiena che cigola come una persiana arrugginita.Sembra davvero il giorno giusto, dentro questa umidità che a Mila-nello ha spento le luci e fatto saltare i computer, per sentire i dolorinelle giunture, le ferite incise nei tendini, il tempo che passa sullanostra pelle e ci vive.

Il ragazzo è stato operato sei volte. In tre occasioni dopo che glihanno spaccato il naso, nella quarta lo zigomo. Le ginocchia, inve-ce, se ne sono andate per conto loro nelle ultime due stagioni, pri-ma quella destra, poi la sinistra, sfarinandosi attorno all’osso comecartapesta sfregata tra le dita. I suoi compagni dicono che il capita-no è l’unico calciatore al mondo capace di correre senza le ginoc-

DARIO CRESTO-DINAchia. Paolo Maldini è stato operato l’ultima volta il 29 maggio a An-versa, dal professor Marteens, un medico belga che è diventato ric-co e famoso grazie alla sua abilità con il bisturi e alla capacità di tra-sformare in tanti terminator gli atleti caduti dai loro paradisi comeangeli sfiniti. Tra qualche giorno riprenderà a muoversi in campo,a fine settembre sarà pronto per la sua prima partita stagionale. So-no qui a chiedergli di raccontarmi i suoi mali e come si fa, a qua-rant’anni (li compirà il prossimo 26 giugno) a giocare nella serie Aitaliana e in Champions League, a percorrere centinaia di chilome-tri su scarpini con i tacchetti di gomma o di acciaio — esistono an-cora? —, a incrociare i piedi e la testa anche tre volte la settimana conavversari che potrebbero essere quasi suoi figli. Gli domando, in-somma, quando morirà un campione quasi miracoloso. Lui sgra-na gli occhi chiari, abbozza uno scongiuro dietro al sorriso da buo-na educazione e comincia proprio dal ginocchio sinistro al quale èstata ricostruita la cartilagine. «Si gonfiava, mi procurava un dolorelancinante e continuo, abbiamo scoperto anche un ossicino che neimpediva la massima estensione. Ho sofferto molto, ma ho giocatolo stesso tante partite, compresa la finale di coppa campioni di Ate-ne. Ogni volta che entravo nello stadio per il riscaldamento dicevoa me stesso: non ce la faccio, non ce la posso fare, mi fa un male del-la madonna. Poi per novanta minuti l’entusiasmo e la forza di vo-lontà funzionavano come un anestetico. Il brutto veniva dopo».

(segue nelle pagine successive)con articoli di EMANUELA AUDISIO e EDMONDO BERSELLI

Giocarea

Torna con la serie A il grande calcioe torna Paolo Maldini,simbolodi una longevità sportivache è fenomeno atletico e di costume

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(segue dalla copertina)

La domenica gli eroi sonosempre giovani e belli. In-vecchiano negli altri gior-ni, sui prati dove sgambet-tano e provano gli schemi,nei saloni dei ritiri dove si

annoiano e spesso intristiscono. È lìche si accorgono di arrivare sulla pallacon una frazione di secondo di ritardo,sentono spuntare una fitta alla schienanei pomeriggi di pioggia, si spaventanoperché il muscolo della coscia indolen-zito dalla fatica non smette di tremaresenza l’intervento del fisioterapista.

Un tempo non era così. Quando sene va la gioventù, questi Achille so-pravvissuti alla freccia, non devonoguardarsi soltanto dai loro talloni. Tut-to in loro tentenna, esita, si fa di cristal-lo. Li osservi sfilare nei corridoi di que-sto albergo-collegio e hanno l’aria unpo’ seria e nostalgica dei padri o deglizii. Qualcuno ha già smesso, come Se-bastiano Rossi e Billy Costacurta, altrisono vicini all’ultimo metro come Ca-fu e Serginho e li vedi preferibilmentestare tra loro, oppure da soli come i lu-pi più antichi di un branco. Spiega Mal-dini: «Negli allenamenti la verità è spie-tata, gli allenamenti sono uno spec-chio che ti mostra che cosa sta cam-biando in te. Io so di invecchiare inmezzo a ragazzi sempre più giovani esempre più veloci, ma per fortuna i me-todi di preparazione sono diventatipersonalizzati e mi aiutano a prolun-gare la carriera. Ti faccio un esempio:quando giocavo sulla fascia lavoravosulla velocità e sulla resistenza, oggi dacentrale curo maggiormente lo scatto eil recupero. Scatto e recupero, scatto erecupero. In pratica durante la setti-mana non faccio altro. Mi stanco me-no, forse è soprattutto per questo mo-tivo che mi sento ancora molto forteanche se le mie articolazioni scricchio-lano».

Sono stato fortunato, dice. Ma allagenerosità della natura ci ha aggiuntomolto di suo. L’entusiasmo, la tenacia,un’osservanza delle regole e del lavoroquasi giansenista. Ha cominciato a se-

Lo sport è carogna, basta un attimo. Entri incampo da giocatore, esci da ex. Sei sempre tu,stesso fiato e polmoni, stesso lato del campo,

ma con i tempi di reazione di tuo nonno. Ti dici chenon è niente, che è solo un’impressione, uno sla-lom andato a male, una finta troppo finta, peròdentro di te lo sai che il tempo ha cominciato il suolavoro. Quel filo di vecchiaia che si deposita suifianchi è quasi invisibile, però Shilton messo a se-dere da Maradona ai mondiali dell’86 sembrò im-provvisamente non un portiere di trentasette anni,ma un uomo dell’Ottocento.

Lo sport svela, più delle rughe. Non è per quelloche si vede fuori, ma per quello che non si sente piùdentro. La maturità è bella, ma se devi marcarel’uomo è solo un fondale scuro della tua carriera. Èvero, ci si può allenare a durare, a non esagerare, arisparmiare sui vizi. Ma il muscolo non ha memo-ria delle piccole virtù, è solo indolenzito dalle con-tinue lotte per tenere testa al successo, alla gloria.Basta un attimo, basta lo scarto tra quello che vor-resti fare e quello che realmente fai per denuncia-re la tua anagrafe. In quello spazio ci sta il tempo an-dato, l’illusione di non finire fuori gioco.

Però c’è chi resiste. Con qualità. Ci sono i DorianGray del calcio, nessun patto con il diavolo, ma unabuona gestione di se stessi. Maldini Paolo a trenta-nove anni ancora in campo è la notizia buona. Cer-to non gioca tutte le partite, però in finale di Cham-

pions c’era, non è campione del mondo, ha lascia-to la nazionale dopo il mondiale 2002, però è pre-sente nel campionato che riparte. Ed è stato co-munque più determinante del giovane Cassanoche in Spagna ha poco calpestato il terreno delReal.

Le carriere si allungano: ci si allena meglio e si la-vora sulla prevenzione degli infortuni. A trent’anniuna volta si era quasi al confine, ora a trentacinquesi può ancora parlare di contratti e di futuro senzache sembri un furto e che qualcuno ti chiami non-no. Ci sono quelli che hanno un fisico senza tempo,come Pietro Vierchowod che ha giocato fin oltre iquaranta. Ci sono i portieri come Ballotta, quaran-tatré anni e Pagliuca, quaranta, ci sta Oscar Brevi,capitano del Torino, anche lui a cifra quaranta, Bil-ly Costacurta ha lasciato a quarantuno. Non è soloil calcio ad allungare la scia, ma tutto lo sport, chenon è più un momento della vita ma il momentodella vita. Il formato gioventù bruciata non usa più.

Maldini Paolo ha avuto un padre giocatore e al-lenatore, ha guardato, imparato, capito come sinutre e si lucida una passione, perché lui ha sem-pre voluto fare il calciatore. Non c’è mai stata trop-pa diversità tra quello che era e come giocava. Equi-librio, aggressività, consapevolezza. Casa nel cen-tro di Milano, dalle parti di piazza Cadorna. Moltadiscrezione nei suoi rari eccessi, forse perché conun padre un po’ naif, che si comporta da figlio, vie-ne spesso voglia di essere grigi e maturi. Nessunarabbia o rimpianto, ma serenità, buona gestionedel patrimonio, lieve sorriso e molta voglia di an-dare. Platini smise per noia, Tardelli pure. La testaad un certo punto si stacca, segue pensieri suoi, sene frega della traiettoria del cross. A quel punto èinutile punire il fisico con altri allenamenti. PerMaldini Paolo invece quella traiettoria è ancoratutto, è una stella cometa, è un universo. Il musco-lo alla fine non è folle, si piega ai desideri. Soprat-tutto a quelli esauditi.

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 AGOSTO 2007

la copertinaGiocare a 40 anni

Maldini, l’arte di dribblare il tempo

Da un quarto di secolo è nell’élite del calcio mondiale,ora sta per tornare in campo a duellare con attaccantiche potrebbero essere suoi figli. Lo abbiamo incontratoper capire cosa c’è dietro la straordinaria longevitàsportiva di questo ragazzo di mezza età che “nella testa”si sente ancora il più giovane dello spogliatoio

dici anni, mai un infortunio grave, unodi quelli che ti spaccano l’anima e il co-raggio oltre che una gamba o una cavi-glia. «Se mi fosse successo, se avessi do-vuto rimanere fuori un anno, un anno emezzo, non so come avrei reagito. Af-fronto i problemi solo se me li trovo difronte. Posso immaginare che moltosarebbe dipeso dall’affetto della mia fa-miglia, dalla vicinanza degli amici, daquanto mi avrebbe scaldato il fuoco del

calcio. Per me giocare a pallone è sem-pre stato un sogno che brucia anche digiorno, cerco ancora oggi di seguire laroutine senza mischiarmi agli altri.Non sono un fantasista, ma mi piacel’estetica di questo mio mestiere. Mipiace provare un gesto che mi può di-stinguere e che rappresenta anche unatestimonianza di personalità. Stoppa-re una palla in un certo modo nella miaarea di rigore, mi fa godere. In mezzo

agli altri, sulle panche dello spogliatoiomi credo ancora il più giovane di tutti.Ma so che la realtà è diversa».

Maldini adesso è nella sala stampa diMilanello completamente deserta, se-duto a un banco che assomiglia a quel-li che ancora si trovano nelle scuole ele-mentari. Tiene tra le mani un berrettoda baseball rosso e blu. La sua giornatafinisce alle due del pomeriggio, mentrequella dei suoi colleghi comincerà alle

quattro. Lo aspettano, lui sa che traqualche settimana li raggiungerà. È ilcapitano, in queste stanze quando pas-sa lui gli altri gli fanno spazio, un segnoinconscio di rispetto. Il vecchio è anco-ra lì, è ancora il numero uno. «Ora tor-no a Milano, mi attende un pomeriggioda persona normale. So di essere unprivilegiato, ma non vivo su un altropianeta. Sto soprattutto con i miei figli.Non ho paura di vedere appassire il miocorpo e la mia faccia, ho il terrore di in-vecchiare nella testa. Ho bisogno disentirmi sempre vivo. Non andrei maiad abitare su un’isola. Mi attraggonoMilano e New York perché sono cittàfrenetiche. Forse ho bisogno di stressper sentirmi davvero in pace».

I figli di Paolo si chiamano Christiane Daniel. Hanno undici e cinque anni.Il primo studia da campione con lastessa maglia del padre, il più piccolo,dice Maldini, è una specie di simpaticoteppista capace di spaccare il mondo.Lo hanno visto giocare, sono stati piùfortunati di lui che invece è nato dopoil ritiro di suo padre Cesare. Vorrebbe-ro che il loro papà non smettesse mai.«Io credo nella felicità, so che esiste eche si può perpetuare. Sono stato mol-te volte felice, una in particolare, quan-do sullo schermo dell’ecografo ho vistoil mio primo bambino nella pancia diAdriana, mia moglie. Ti giuro che ave-va la mia stessa testa, mi assomigliavain modo pazzesco. Era la mia fotogra-fia di quando avevo sei mesi. Se devodefinire l’amore, ritorno con il ricordoa quel pomeriggio in uno studio medi-co, a quell’immagine, a quell’emozio-ne. Sto cercando di educare bene i mieifigli, come hanno fatto i miei genitoricon i miei fratelli e me, soprattutto miamadre, Maria Luisa, per noi Marisa,che sapeva parlarci, ascoltarci, portar-ci anche la voce di papà che era semprein giro per il pallone. Parlo molto an-ch’io con Daniel e Christian, raccontoloro la mia infanzia e la mia adolescen-za. Gli spiego che forse ero più libero diloro, che a quei tempi c’erano menopericoli, che è importante saper faredelle scelte, capire la differenza tra lebuone e le cattive compagnie. Patisconon poco le angosce di tutti i genitori,ma credo di essere stato finora un buon

DARIO CRESTO-DINA

1996/97 1997/98 1998/99 1999/2000 2000/01 2001/02

CAMPIONATO

1985/86 1986/87 1987/88 1988/89 1989/90 1990/91

Mix di muscolie desiderioEMANUELA AUDISIO

Repubblica Nazionale

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Finda bambini siamo stati socializ-zati al fattore età, nel calcio: e per itifosi più accaniti, quindi più pro-

pensi alla sofferenza, l’avanzare del-l’età era come assistere al lento consu-marsi di una carriera, osservare il pre-valere della fisiologia sulla forza e laclasse. Quasi un dolore oscuramentepercepito, e tuttavia protratto e inevi-tabile: perché la soglia canonica deitrent’anni preludeva al declinare delcampione amato. Soltanto certi fe-nomeni dal fisico eccezionale, ma-gari aiutati da un’autodisciplinarara nei calciatori, poteva-no inoltrarsi nel decen-nio della trentina, sfi-dando l’età, l’usu-

ra delle carti-lagi-

n i ,il logoramento dei meni-

schi e delle articolazioni. E questasoglia era a suo modo anche un limiteesistenziale, che separava gli anni del-

lo studio, delle sperimentazioni profes-

sionali, del farfallonismoamoroso, dalla condizione vera-

mente e stabilmente adulta.Sicché il caso di Paolo Maldini è il se-

gnale che indica un cambiamento di con-fine fra territori vitali. Per il tifoso del Milan ilbellissimo quarantenne Maldini sarà pure labandiera dei rossoneri; ma per l’adulto comu-ne è il simbolo della possibilità di prolungare fi-no a scadenze imprecisate l’età giovane. Vedereun difensore che lotta nei pressi dell’area di rigorecontro avversari con quindici anni di meno può esse-re altamente consolante, nel senso che allarga indefi-nitamente la sensazione della propria competitivitàpotenziale. Vero che a suo tempo ce l’ha fatta Pietro

Vierchowod, a superare la quarantina in buona effi-cienza fisica, e anche Billy Costacurta, per restare in am-bito berlusconiano; ma “Paolino” è un gradino più sunella costellazione delle immagini di massa, proprio inquanto emblema del calcio italiano, oltre che del Milan,e poi figlio di suo padre, sommo stilista calcistico, e an-che simbolo della nazionale azzurra.

La longevità di Maldini può essere insomma lo spec-chio atletico e sportivo di una longevità diffusa. Quindisoggetta non tanto all’ammirazione, ma a un processoimmediato di imitazione: se ce la fa lui, a scendere incampo e a entrare in tackle sul centravanti avversario, cela faremo anche noi, non tanto a continuare a massa-crarci a calcetto o in feroci partite a tennis, bensì a con-trastare l’invecchiamento sul posto di lavoro, a mante-nere una competitività professionale non scalfita né da-gli anni né dall’avvento delle generazioni più giovani(pleonastico poi aggiungere il riverbero inevitabile sullasfera del vigore erotico).

Insomma Paolo Maldini è l’avverarsi, istante dopoistante, anno dopo anno, di un mito, quello dell’eternagiovinezza: che non è un mito calcistico, bensì piuttostoil fantasma che ossessiona l’italiano medio contempora-neo, davanti allo specchio ogni mattina, e che si trasfor-ma nella possibilità di contrastare il tempo che passa, oalmeno di dribblarlo, con spregiudicate fughe in attacco.

EDMONDO BERSELLI

Generazionesempreverde

padre, nonostante i miei inevitabili er-rori, le assenze, le stanchezze, le disat-tenzioni».

Spiega che i suoi anni più difficili so-no stati quelli tra i diciotto e i venticin-que: «Ero molto timido, pativo la miacondizione di figlio d’arte, le aspettati-ve che erano riposte in me. Mi sonochiuso e ho cercato di osservare gli altri.Dovevo imparare. Oggi mi sento più li-bero di dire ciò che penso. Non sonoperfetto, ma credo di essere una perso-na leale, una qualità che so di possede-re e che pretendo venga rispettata. Nonsopporto i tradimenti, le invidie, le pic-cole miserie. Ne ho incontrati, nella vi-ta e negli spogliatoi. Non è stato bello.Non litigo spesso, ma quando mi capi-ta, nella mia testa c’è un motivo benpreciso. E, mi spiace ammetterlo, sonoun uomo che serba rancore».

A quarant’anni si può decidere di ri-lasciare poche interviste («sempre lestesse domande, sempre le stesse ri-sposte»), di contare gli amici sulle ditadi una mano, di guardare quasi mai latelevisione, di imparare l’inglese da so-lo, di ascoltare la radio e la musica ame-ricana, di respingere il futuro più bana-le degli ex calciatori: allenatori o com-mentatori tv o, perché no?, entrambe leprofessioni. Maldini vuole sedersi in ri-va al mare ad aspettare il tramonto conserenità e entusiasmo, con occhi acu-minati per scorgere sull’orizzontequell’ultimo raro bagliore di amore eprosperità, il raggio verde di Verne eRohmer. Il destino dei fortunati e deibuoni. Tra otto mesi smetterà con ilcalcio proprio per non correre il rischiodi diventare un vecchio patetico ragaz-zo in pantaloncini corti, proprio pernon subire in campo quel ritardo infi-nitesimale nel tackle che ti umilia econgela la tua inadeguatezza.

Qualche giorno fa Adriano Galliani,l’amministratore delegato del Milan,gli ha chiesto che cosa vorrà fare dopo.Nella società di Berlusconi per luitutte le porte sono aperte. Ha ri-sposto: non lo so, discutiamonetra un po’. «Mi fermo perchénon voglio rischiare di andareoltre, perché voglio arrivare acinquant’anni senza essereun rottame, voglio conce-

dermi la possibilità di giocare ancoraqualche partita di calcio con gli amici,a tennis con i miei figli. Smetterò per-ché devo proteggermi e avere un’esi-stenza normale. Non ho paura del vuo-to, non comincerà un’altra vita. Certo,mi mancheranno il campo, i compagnidi squadra, l’emozione di un gol, dellevittorie, le lacrime e la rabbia per unasconfitta. Eppure non farò mai l’alle-natore, è un mestiere che non mi piace.Non giochi, devi parlare tre volte la set-

timana con la stampa, devi gestireun gruppo di almeno venticin-que ragazzi, devi trattare con idirigenti e il presidente del-la società, e questi sonoproblemi grossi, massìanche con Berlusco-ni. Devi girare ilmondo per lavora-re e io lo vogliofare solo dat u r i s t a ,

con la mia famiglia. Èuno dei motivi per cuinon sono mai andatolontano dal Milan».

A quarant’anni si co-mincia a dormire qual-

che ora di meno e a rac-cogliere pensieri che

non ci avevano mai as-sillato prima di vali-

care il confine tra lagiovinezza e lamaturità. Maldi-ni abbassa gliocchi sul suocappello da

baseball: «Da unpo’ di tempo a questa

parte mi sfiora ogni tantol’idea della morte. Mai digiorno, solo la notte,

quando fati-

c oa prendere son-

no. Mi domando: comesarà? La sento come qualcosa che faparte della vita, per adesso non mi sgo-menta. Penso ai miei cari, a me. Pensoche prima o poi tocca a tutti. Sono uncredente, i miei figli frequentano unascuola cattolica, ma vado poco, pochis-simo, in chiesa. Mi sforzo di tenere Diodentro. Prego, e non di rado. Per carità,non recito il padre nostro, l’ave maria,parlo con il Signore con le parole checonosco. Ho persone da proteggere,ma prego anche per la pace. Prego perchi soffre lontano da me, lontano daqui, lontano da noi. O sono parole diringraziamento per ciò che ho avuto dibello e di facile nella vita». Gli dico chespesso i privilegi sono il passaporto ver-so l’autodistruzione. Paolo Maldini miguarda con stupore quasi offeso. «A menon succederà». Gli domando come glipiacerebbe essere definito. Rispondecosì: «Una persona semplice».

2002/03 2003/04 2004/05 2005/06 2006/07

1991/92

846 126le presenze in Nazionale,7 i gol segnati

601le presenze in serie A,28 i gol segnati

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 26 AGOSTO 2007

1993/941992/93

I TROFEIIn queste pagine, la lunghissima carriera di Paolo Maldinisintetizzata dalle foto delle figurine tratte dagli album Calciatori PaniniMaldini, sempre con il Milan, ha vinto sette campionati italiani,una Coppa Italia, cinque Supercoppe italiane, cinque ChampionsLeague, quattro Supercoppe europee e due Coppe intercontinentali

le partite ufficiali col Milan,38 i gol segnati

Repubblica Nazionale

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Finimmo due volte a Santa Rita (un carcere femminile nella contea diAlameda, in California, ndt). La prima in ottobre, la seconda a di-cembre. Me lo ricordo perché la seconda volta a Natale venne a farci

visita Martin Luther King. Venne, e in seguito tenne un discorso sul fattoche ci trovassimo lì.

Un sacco gente si stava godeva quel periodo. Io ero troppo seria. Io erol’Institute of Non-Violence (ente di cui Joan Baez è fondatrice, ndt). An-davo in prigione e sognavo di sposare un renitente alla leva.

La prima volta fu per dieci giorni, la seconda per tre mesi, con quaran-tacinque giorni di sospensione di pena. Dopo un mese ci buttarono fuori,a mia madre e me, perché pensavano che stessimo istigando gli altri dete-

nuti. Di mia madre era vero, ma non di me. Lei di na-scosto inviava dolciumi nelle celle, perché provavapena per quelle persone. Ci dissero che credevano cifossimo riabilitate. Infatti era così, disse mia madre.In questo posto, disse, ho imparato moltissimo: pri-ma non sapevo dire bugie, non sapevo rubare, men-tre adesso farei qualunque cosa pur di far arrivare undolce in una di quelle celle. Mia madre se ne andòdalla prigione con un grembiule che aveva rubato eportando infilate nella biancheria intima lettere chele detenute non potevano spedire: c’erano scrittetroppe cose, e sarebbero state censurate.

Sai come chiamo la Summer of Love? «La tempestaperfetta». C’era la musica, c’erano gli autori, e tuttoconfluiva verso questa implosione al centro. C’era-no i diritti civili, c’era la guerra. C’era un senso di coe-sione, ed è quello che adesso manca di più. Oggi c’èmolta attività, ci sono molti sentimenti, tante perso-ne capaci di pensare e secondo me c’è, naturalmen-te, un atteggiamento sano. Ma manca un collanteche tenga tutto insieme, in modo duraturo.

Direi che allora c’era una consapevolezza dovutaagli eventi e in parte forse al caso, perché è come unpendolo. In parte era nella musica, a giudicare dellemie esperienze personali, e la gente in seguito neparlava in questi termini, dicendo che non se ne po-teva più della gomma americana e della musica di

gomma, fatta in serie.È interessante notare che quando queste cose accadevano io ero giova-

nissima. Avevo diciassette anni e imboccai senza indugi quella direzione.Ero già politicizzata e questo rende il mio caso un po’ diverso. Molte per-sone acquisirono una consapevolezza politica attraverso il movimentodei diritti civili o la guerra. Io, invece, all’epoca in cui incontrai King avevoventicinque anni, già sapevo molte cose sulla non-violenza, su Gandhi eavevo preso già molte decisioni.

Credo che la nostra cultura abbia preso una piega sempre più brutta.Credo che negli anni di Reagan abbiamo fatto dei considerevoli passi in-dietro, con il che non voglio dire che lui non fosse un tipo assolutamenteper bene. Sapete per quale motivo credo che fu eletto? Perché John Wayneera già morto. Volevamo una figura di eroe, suppongo. C’era un enormesenso di auto-soddisfazione e c’era molta avidità. C’è avidità. Sarebbe bel-lo poter credere che si tratti di un mito in declino, ma di certo è tuttora vi-vo e con questa Amministrazione è più vivo e prospero che mai.

Quando hanno incominciato a domandarmi quando qualcuno avreb-be scritto un’altra Blowing in the wind, e quando sarebbe arrivato qualcu-no capace di scrivere Imagine, ho risposto: sapete una cosa? Sono già sta-te scritte. Non sappiamo cosa accadrà. Non sappiamo che cosa uscirà fuo-ri dalle macerie.

La prima cosa ad emergere dalle macerie, a creare piccole fenditure nelmuro delle bugie è stato Michael Moore. Che il suo stile, o il modo con cuiha affrontato i fatti, vi piaccia o no, era la verità, e per questo motivo ha vin-to un Oscar. Poi a intaccare il muro è arrivata Cindy Sheehan (la donna di-ventata attivista dopo che suo figlio venne ucciso in Iraq nel 2004, ndt). Perme sono questi due fatti che risaltano, al posto di Blowing in the wind eImagine. Non si possono pretendere quelle canzoni.

Adesso c’è una canzone che per me è all’altezza di With God on our side.Una canzone che ho aspettato a lungo e credo sia davvero geniale e com-movente. Si tratta di The day after tomorrow di Tom Waits. È talmente bel-la che mi ha praticamente lasciata a bocca aperta. La interpreto da sola,senza altri musicisti. Cristo, che canzone. La canto benissimo, perdonatel’immodestia.

Per me, la cosa sorprendente è che io non ci sia davvero passata. Nonprendevo droghe, non frequentavo musicisti che ne facevano uso. In quelsenso ero davvero una diversa. All’epoca credevo che il motivo fosse cheero superiore. In realtà avevo una paura da farmela sotto. Non ero nem-meno capace di farmi una canna, e a tutt’oggi è ancora così.

Testo raccolto da Joel SelvinCopyright The San Francisco Chronicle

Traduzione di Marzia Porta

Mai fumata una cannaall’erba preferivo la politica

La testimonianza della cantautrice pacifista

JOAN BAEZ

l’anniversarioStagioni mitiche

L’Estate dell’Amore

Tra il luglio e l’agosto del 1967, all’incrociofra Haight e Ashbury Street, accanto al Golden GateBridge di San Francisco, si radunò la generazionedella nuova America,accomunata dal rifiutodella guerra, dalla libertà sessuale, dal consumodelle droghe. Ne rimane solo un ricordo sbiadito

WASHINGTON

Calarono sulla baia leggeri co-me la nebbia che al mattino av-volge San Francisco, una goc-ciolina dopo l’altra, fino a in-

ghiottire tutto prima di dissolversi come unsogno. Arrivarono uno alla volta, comin-ciando nel 1966, quando ancora non aveva-no un nome né un viso, uno con la chitarra,un altro con un fiore nei capelli, una ragazzacon i tamburelli, anche bambini e bambinedi dodici o tredici anni, richiamati dal suonodi un pifferaio magico che soltanto loro riu-scivano a sentire da ogni punto del villaggioAmerica, nel frastuono di un’adolescenzaprospera, annoiata e in-quieta, avvolti nel profumolanguido del patchouli, lapianticella indiana che ser-ve a mascherare l’odoredella marijuana.

Li accoglieva nel parcodel Golden Gate, accantoal ponte, un professore diHarvard — Harvard, mical’università del cantone —che li invitava con due fiorigialli in testa, uno per orec-chio come i macellai por-tavano un tempo le matitecopiative, ad abbandona-re le scuole e i college, le ca-sette di sobborgo fabbrica-te con lo stampino, le cuci-ne componibili, il danaro,la chiesa, il matrimonio, alasciare l’America dei loropadri e delle loro madri,non per “fare”, come im-pone il vangelo nazionale,ma semplicemente per“esistere”, per lasciarsi vivere. Nei giorni diun’estate di quarant’anni or sono, fra il lu-glio e l’agosto del 1967, goccia dopo gocciadi nebbia e di Lsd, la foschia arrivata da ol-tre la Sierra Nevada era diventata una crea-tura formata da almeno centomila, o due-centomila, e chi li contava più, ragazzi e ra-gazze fra i dieci e i venticinque anni. Una“nazione di tribù” come loro si facevanochiamare, che sarebbe volata via lasciando-si dietro le armonie di musiche inquietanti,il sapore dell’“acido” e l’impronta di un no-me che ancora semina spavento, nostalgiee voglie: hippie.

Fu l’estate nella quale l’America si ribellòa se stessa, il tempo dei «ribelli senza unacausa». La battezzarono the Summer of Lo-ve, l’estate dell’amore, e di amore quell’ar-mata di profughi dal puritanesimo e dalproduttivismo, ne fece parecchio, come di-mostrarono i casi di malattie veneree tripli-cati in due mesi e trattati con «secchiate dipenicillina» secondo l’espressione di unesausto medico nella clinica gratuita. Mal’amore era più di una coppia allacciata ne-gli scantinati delle vecchiecase vittoriane della viaHaight, costruite un secoloprima per emigrati irlan-desi, sui prati del parco, sulmarciapiedi, ovunque lavoglia li cogliesse. L’amo-re, fisico, mistico, immagi-nario, universale, obbliga-torio, era la loro mite armadi autodistruzione di mas-sa, pensata per respingeree quindi demolire un ordi-ne sociale, economico, po-litico che sembrava avereprodotto soltanto ingordi-gia, corsa dei topi, automi“dalle nove alle cinque”con la camicia di sinteticoa maniche corte. E soprat-tutto una guerra semprepiù vicina, che cominciavaad azzannare la loro gene-razione con le cartolineprecetto per quel Vietnamche i coetanei furbi, comeBill Clinton, o raccoman-dati, come George W. Bush, evitavano.Quella generazione di figli della guerrache allora rappresentava, con novantamilioni di americani nati dopo il 1945,quasi la metà dei duecento milioni di abi-tanti. L’America stava per sbarcare sullaLuna, ma nello spazio questi già volavanosenza muoversi.

San Francisco, che fra catastrofi natu-rali, incendi, avventurieri, bizzarre reginedi California, indigeni diligentementesterminati, macilenti cercatori d’oro e na-viganti russi scesi bordeggiando dall’Ala-ska credeva di avere visto tutto, aveva giànel suo nocciolo il seme della ribellionepermanente. Ribolliva nella vicina uni-versità di Berkeley pronta ad esploderenella fiammata che noi avremmo poi

chiamato Sessantotto. Soffriggeva nella li-breria aperta dal poeta figlio di un immigra-to venuto da Brescia, Lombardia, LawrenceFerlinghetti, la City Lights, luci della cittàproprio come il titolo del capolavoro di Cha-plin, che leggeva e discuteva con gli scrittoribeat sempre in rissa fra loro versi disperati estupefacenti per i figli dell’America cresciu-ta a latte, pannocchie e salmi: «...costante-mente rischiando di cadere nell’assurdo e dimorire, il poeta si libra come un acrobata sulfilo teso degli sguardi del pubblico… ad alispiegate nella vuota aria dell’esistenza…».

Wow, man, groovy, stupendo, mormora-vano rintronati gli ascoltatori. Ma i beatnik, iFerlinghetti, i Ginsberg, i Kerouac, li guarda-vano con condiscendenza mentre cantava-no le ballate della loro ribellione morbida,

sensuale, passiva: quelle che invitavano,con i Mamas and Papas, a «mettere un fioretra i capelli, se vai a San Francisco», o crea-vano con i Grateful Dead di Jerry Garcia il SanFrancisco sound, la grande muraglia sonoradel rock psichedelico che aveva influenzatoanche Lennon e McCartney, passati da SanFrancisco nel 1966 e tornati con il loro Sgt.Pepper’s. Si credevano hip, forti, ganzi, avan-guardia: per questo gli appiccicarono il di-minutivo sprezzante di hippie.

Ma a loro non poteva importare di menodel giudizio altrui. Timothy Leary, il profes-sore di Harvard coi fiori sulle orecchie, li ave-va invitati a «sintonizzarsi» sulle vibrazionidi quell’estate e a «buttarsi fuori» dalla caro-vana del tempo e loro si buttavano. Inventa-vano una vita che neppure loro conosceva-

ALBUMFOTOGRAFICOFoto dell’estate1967, dall’alto:il poeta AllenGinsberga un raduno“be in”;Joan Baezalla chitarra;l’incrociotra Haighte Ashbury Street,epicentrodella “Summerof Love”

DANZA ESTIVAIl disegno qui accantoè tratto da un poster realizzatoda David Singernel 1997per il trentesimoanniversariodella “Summerof Love”Nella foto grandein basso,una danza hippie

VITTORIO ZUCCONI

La festa “hippie”sarebbe naufragatanello squalloreDi quelle settimaneresta la musicamemorabileche influenzòanche John Lennon

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 AGOSTO 2007

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no, organizzavano i be in,i raduni per esistere. Or-ganizzavano falò gigan-teschi e purificatori didollari, naturalmente fal-si, perché di quelli veri necircolavano pochi nelquartiere attorno all’in-crocio di due strade, Hai-ght e Ashbury, che divenne

per loro quello che San Pie-tro è per i cattolici. Mangiare

non era un problema. I Dig-gers, i minatori, una compa-

gnia di attori senza scrittura,battevano grossisti, supermer-

cati, ristoranti, raccogliendo cas-

se di frutta, verdura, riso, carne, formaggiavanzati o scartati e sfamavano chiunque sipresentasse. Lo shopping era gratuito, nelFree Store dove tutto era a disposizione.Farsi curare, pure. Nella Free Clinic (che an-cora esiste e funziona, sempre lì, a Haight)eroici dottori volontari curavano tutti gratispompando antibiotici, lavando le piagheinfettate nei piedi sempre obbligatoria-mente scalzi, accudendo neonati malnutri-ti e praticando quegli aborti che sfuggivanoalla prima pillola anticoncezionale, l’Eno-vid, entrata in commercio proprio in queglianni, ma troppo costosa per le figlie dei fio-ri senza soldi. Janis Joplin, la musa del rockacido che morirà a ventisette anni nel 1970di overdose, ebbe un aborto proprio nellaFree Clinic, alla quale lasciò migliaia di dol-lari per gratitudine. Naturalmente, nelmondo alternativo dove gli hippies viveva-no, nessuno si chiedeva chi avesse coltiva-to quella frutta, distillato quegli antibiotici,fabbricato quegli abiti.

La principale società di bus, la Grey Line,organizzava tour della San Francisco hip-pie, portando turisti sbigottiti e un po’ invi-diosi a vedere la zona di Haight-Ashbury,come i gorilla del monti Virunga, con an-nesso glossario del gergo. Nonne coi capel-li turchini, padri con il cuore in gola, guar-davano quella fiumana di giovani che scia-bordava senza meta fra il parco del GoldenGate, i giardini pubblici di Fell Street, le co-muni di Haight, ringraziando il loro Dio pernon avere i propri figli tra di loro, a rintro-narsi del carburante che alimentava l’esta-te dell’amore, lo Lsd, l’acido lisergico diati-lamide, creato trent’anni prima da un di-gnitoso chimico svizzero della Sandoz chene scoprì per caso (almeno così disse) la po-tenza psichedelica. Volare nella “realtà al-ternativa”, che l’acido produce sconvol-gendo i sensi e la percezione, era la condi-zione inevitabile del rifiuto della “norma-lità”. Per mesi a San Francisco scarseggia-rono le zollette di zucchero, il veicolo per in-gerire le gocce amarognole di Lsd.

Ancora alla fine del 1966, nessuna auto-rità aveva prestato molta attenzioneall’“acido” sintetizzato dallo svizzero, cheinfatti era legale, fino a quando il governato-re della California, un certo Ronald Reagan,rispose all’agitazione degli adulti e alla pres-sione delle polizie e lo dichiarò fuorilegge,riuscendo soltanto ad eccitarne la potenzatrasgressiva e facendo la fortuna dello spac-cio clandestino e del crimine organizzato.Alla fine dell’estate, alla riapertura dellescuole, quando nella città dell’amore eranorimasti soltanto i più convinti, i più strafattio i più disperati, la nebbia si ritirò come eraarrivata, svanendo. Al posto delle figlie deifiori erano arrivati i pusher di professione,che avevano cominciato a trafficare in robadura, eroina, speed, anfetamine. La cucinadei “minatori”, dei Diggers, serviva orrendee mefitiche porcherie, come ammise unodei suoi cuochi, l’attore Peter Coyote. E le ra-gazze, le figlie dell’America perbenino checredevano di avere trovato qui la liberazio-ne dai tabù e dai reggiseni della femminilitàobbligatoria, cominciarono a scoprire cheloro restavano, per i maschi, giocattoli ses-suali e tanti di quei foruncolosi adolescentierano calati sulla baia soltanto per “farsele”e buttarsi nella mischia. «La posizione delledonne nel nostro movimento», avrebbedetto il leader della Pantere nere StokelyCarmichael, «deve sempre essere una sola:sdraiate sulla schiena».

Willian Hedgepeth era l’inviato del setti-manale Look, mandato a vivere con gli hip-piescome uno hippie. Se ne andò in settem-bre, immalinconito dalla fine squallida diuna stagione «bizzarra ed eccitante», comescrisse Newsweek. «Lo squallore, Cristo, losquallore…». In autunno, quando cominciaa fare freddo e piove anche a San Francisco,gli ultimi profughi celebrarono «il funeraledegli hippies» dando l’addio a loro stessi,sconfitti dall’America che avrebbe visto,con Reagan, Clinton e i Bush, la rivincita dipadri e madri e il chiudersi del mitico gap frale generazioni. Forse non ci sarebbero statiil femminismo, la liberazione sessuale, l’e-cologismo, la spinta verso i diritti civili di tut-ti e tanta, straordinaria musica nuova, sen-za l’estate in cui l’America si ribellò a se stes-sa, ma nella San Francisco dove le case diHaight oggi sono passate dagli hippie agliyuppieper milioni di dollari (veri) è rimasta,di quel tempo, la malinconia di una genera-zione di Peter Pan invecchiati, i baby boo-mers, oggi più preoccupati della prostata edei Bot che della salvezza del mondo. Hed-gepeth ricorda di essere stato inseguito daun amico hippiementre saliva sul taxi che loportava all’aeroporto. «Ti ho spedito unacartolina affrancata con un francobollo im-bevuto di Lsd, man, lecca il francobollo, lec-ca il francobollo, ti prego, leccalo», gli grida-va correndo col fiatone, «fallo per ricordartidi noi e dell’estate dell’amore».

La cartolina non gli fu mai recapitata.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 26 AGOSTO 2007

PROFETA PSICHEDELICOIl professor Timothy Leary, psicologo,

predicava ai giovanil’uso di sostanze psichedeliche

COLONNA SONORALa band dei Grateful Dead

rimane la massima espressionedel sound di quella stagione californiana

FIGLIA DEI FIORILa cantante rock Janis Joplin (sdraiata),

tra i protagonisti della “Summer of Love”,morirà di overdose a ventisette anni nel 1970

MASCHILISTALe dichiarazioni di Stokely Carmichael,

leader delle Pantere nere, restaronofortemente sessiste verso le donne

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la memoriaSangue e arena

Il 28 agosto di sessant’anni fa, nella Plaza de torosdi Linares, colui che molti considerano il massimotorero di tutti i tempi finiva i suoi giorni incornatoda Islero, una bestia di cinque anni. Un grande“aficionado” rievoca quel fatale pomeriggioe i molti presagi che annunciarono la tragedia

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 AGOSTO 2007

La Plaza de toros di Linarespuò contenere diecimila-cinquecento spettatori. Cen’erano altrettanti fuori dal-l’arena, il 28 agosto del 1947,per una corrida che vedeva

riuniti i più grandi matadores dei tempi— forse di tutti i tempi —: Gitanillo deTriana, il ventenne Luis Miguel Domin-guin, e sovrattutti Manuel RodriguezSànchez, universalmente conosciutocon il soprannome di Manolete.

Lo spettacolo — ma forse è meglio direla cerimonia — ebbe inizio alle cinque emezza de la tarde, del pomeriggio.

I tori sono all’altezza dei toreri, pro-vengono dal famoso allevamento Miura.

Entra nell’arena per primo Gitanillo,impegnatissimo a non sfigurare al con-fronto con il campione dei tempi, Mano-lete, e col miglior giovane emergente,Dominguin. Torea al suo meglio, e ucci-de tra gli applausi.

Segue Manolete, con il suo inimitabilestile che qualcuno ha definito astratto, e,dopo “faene” punteggiate da sospiri col-lettivi d’ammirazione, fatica ad uccidere,pur rischiando per l’assoluto coraggio ela contiguità col toro.

In tribuna, più d’uno ricorda che, do-po un anno sabbatico causa lo sfinimen-to, il 1946, il Genio è stato ferito, e grave-mente, soltanto trentadue giorni prima,a Madrid, e ha accettato di recarsi a Lina-res contro i suggerimenti generali, primofra tutti del suo agente Camarà.

Il terzo toro, davvero “bravo”, collabo-ra nell’offrire ad un ammirevole Domin-guin il premio delle sue due orecchiemozzate.

Con il quarto, una bestia di più di cin-quecento chili, Gitanillo non è certo bril-lante.

Il quinto Miura, Islero, una bestia dicinque anni, esce e carica immediata-mente, su due rotaie. Sembra un partnerideale per Manolete, che ne controlla imovimenti con tre “faene” d’assaggio, elo indirizza verso i “picadores”, che gli in-fliggono, su richiesta del matador, nonpiù di tre picche.

È nuovamente Manolete a torearlo,con una serie di passaggi bassi, e di “de-rechasoz”. Questa “faena”, che spinge ilpubblico al delirio, continua intermina-bile, con Islero sempre più vicino a Ma-nolete, sino a sfiorarlo e, addirittura, astracciargli il corpetto del “traje de luz”con il corno sinistro.

Nell’apparenza indifferente, Manole-te fa seguire due passaggi alti, e offre due“manoletine”, una figura di suo conio.

E, probabilmente esaltato, giunge a in-ginocchiarsi, in una rischiosissima “fae-na”.

Mentre il pubblico delira, uno dei suoi“peones”, il più fedele, gli offrirà per bendue volte la spada, che Manolete rifiuta.

Ed è dal pubblico, consapevole del ri-schio, che si leva un coro, una preghieradi finirla.

Manolete ora conduce Islero di frontealla porta d’uscita del “toril”, la stalla: luo-go pericoloso se uno ce n’è nell’arena.

Uno dei “banderilleros”, Chino, noncessa di gridare «Toglilo di là, cambiagliposto».

Manolete non sembra sentirlo. Final-mente si prepara a uccidere, dritto, diprofilo, lentissimo, il braccio sinistro cheindirizza il toro verso la porta del “toril”.

Spinge la spada nel corpo del toro.Nello stesso istante, il corno di Islero

buca la coscia di Manolete, lo aggancia elo solleva, facendolo volteggiare sopra ilmuso.

Lo proietta al suolo, e, nel tentare di ri-sollevarsi, Manolete sviene.

Gli altri toreri si precipitano, sommer-gono di cappe Islero che vorrebbe acca-nirsi su chi lo ha ferito, afferrano Manole-te per portarlo in salvo.

Nell’emozione, nella fretta, lo traspor-tano nella direzione d’uscita sbagliata,contraria a quella che conduce all’infer-meria. Perdono tempo prezioso, mentredalla ferita di Manolete escono fiotti disangue, a macchiare la sabbia.

Nella modesta infermeria, il dottorGarrido si china sullo squarcio, dopo chel’impresario Camarà l’ha messo a nudotranciando l’abito a gran colpi di forbice.

I muscoli sono spezzati, così come levene e le arterie.

Garrido si butta a operare, per quaran-ta minuti, mentre il gruppo dei toreri of-fre sangue, per una trasfusione.

Col telefono si riesce alfine a raggiun-gere il dottor Gonzàles Duarte, il maggiorspecialista della zona.

Manolete viene trasportato all’ospe-dale di Linares, mentre il corpo di Islero ègià stato squartato, e venduto, carne damacello.

Alle otto di sera, finalmente, il ferito ri-prenderà coscienza, l’arteria femoralelacerata, e aprirà bocca per lamentarsidel gran dolore.

Dopo un’altra trasfusione, si addor-menterà, per risvegliarsi nel mezzo dellanotte e domandare al suo agente: «Mihanno dato le orecchie?».

«Certo. E la coda».Dopo qualche minuto è il matador Ra-

fael Ortega ad entrare, e a sentirsi dire:«Vedi come sono ridotto. Ho la forza di unneonato».

Non riesce ad addormentarsi, Mano-lete. Gli concedono una sigaretta, loinformano che, fuori dalla stanza, atten-

de licenza di entrare la sua amante, LupeSino.

Dopo un attimo di incertezza, Mano-lete fa segno di no.

Nel tentativo di lenirne le sofferenze edi dargli un poco di forza, i medici gli pra-ticano una trasfusione di plasma. È sca-duto, e concorrerà probabilmente a uc-ciderlo.

Alle cinque e sette minuti dell’alba, ildottor Tamara lascia ricadere il polso chetante volte era stato inesorabile nell’im-pugnare la spada.

«È morto», dichiara.Dominguin, che mai l’aveva lasciato

dall’istante dell’incornata, avrebbecommentato: «Forse Manolete ha giudi-cato Islero troppo appesantito dalla “fae-na”, e non ha voluto sconfinare nel terre-no di lui per spingerlo a caricare. Gli haperò dovuto tagliare la fuga verso la por-ta della stalla, e, nonostante il gran ri-schio, non si è per nulla affrettato a finir-lo, gli ha immerso la lama un centimetroalla volta, nella parte alta del garrese. Manon si è certo trattato di una semplice di-strazione, la sua unica colpa è stato il co-raggio».

Una vita predestinata, quella di Mano-lete. Manolete Terzo, si sarebbe dovutochiamare, se i toreri fossero considerati,oltre che nella mente degli aficionados,

Manolete contro la mortela sfida dell’ultima corridaGIANNI CLERICI

STILE RIGOROSODue “figure” di Manolete nell’arenaIl suo stile era unico, estremamente rigoroso,da alcuni giudicato ripetitivoMa proprio in questo consistevala sua grandezza: piegare qualunque toroalla sua volontà, costringendoloa effettuare i passaggi voluti dal torero

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 26 AGOSTO 2007

stirpe regale.Era figlio e nipote di toreri: il prozio, Pe-

pete, era stato anche lui ucciso, vedi de-stino, da un Miura.

Suo padre Manuel Rodriguez era tore-ro.

Sua mamma, Angustias Sanchez, ave-va avuto non uno ma due mariti matado-res: il primo, Lagarttijo Chico, morto gio-vane di tubercolosi.

Unico maschio, conteso da cinque so-relle, Manuel sarebbe nato il 4 luglio 1917e cresciuto in un sobborgo di Cordova, elbarrio de la Mercedes, in cui, ad aver ta-lento, non si poteva sfuggire al destinodel “toreo”.

Dignitosamente povero, dopo lascomparsa del padre, i suoi primi contat-ti con i tori sono rappresentati da due te-ste impagliate appese in sala, Sardinero eBotinero, uccisi dal primo e dal secondomarito di mamma Angustias che, la sipuò capire, non favorirà certo la scelta delfiglio.

Intorno ai sei anni, i geni taurini si ri-svegliano alla vista di un’immagine dicorrida, fatale al valenciano Manolo Gra-nero.

A scuola, Manuel non partecipa, cometutti, ai giochi di palla, calcio e pelota. So-lo in un angolo, disegna, sempre piùspesso, tori.

Non tarderà a legarsi d’amicizia con unragazzo più grande, Domingo Roca, chevuole diventare torero.

Sinché, la povera scorata Angustias sitroverà ad ascoltare la temuta frase:«Quiero ser torero», voglio essere torero.

Una decisione che lo porterà agli inizidi fronte a due corna montate su una mo-bile tavoletta, poi al primo incontro conuna vitellina di una ospitale azienda agri-cola, e ai primi applausi dei mezzadri, in-cantati dai gesti eleganti, insoliti in un ra-gazzino decenne.

Saltiamo al 25 luglio del 1935, per ritro-vare Manuel novillero a Madrid, scono-sciutissimo, tanto che il manifesto lo an-nunzia come Angel Rodriguez, invece diManolo.

A indignarsene è il suo agente, che èforse meglio definire preveggente, JosèFlores detto Camarà, sicurissimo nell’af-fermare che Manolete avrebbe dato vitaad una rivoluzione del “toreo”.

E, senza rischiare analoghe iperboli, igiornali specializzati, da ABC ad Ahora,sottolinearono le sue qualità.

Inizia, nel 1936, la guerra civile, ma perbuona fortuna di Manolete la leva che lodestina all’artiglieria, e la collocazione diCordova nel territorio nazionalista, nonne interrompono l’attività: vietata, inve-ce, nel territorio repubblicano.

Mentre, nel 1939, si sta placando laguerra, il 2 luglio l’ormai notissimo no-villero riceve “l’alternativa” a Sivigliadalle mani di Rafael Jiménez Chicuelo,

in presenza di Gitanillo de Triana Se-condo, di fronte al toro Mirador.

E ottiene “confirmacion” a Madrid, il12 ottobre, assistito da Marcial Lalan-da, e Juan Belmonte Compoy, duegrandi.

Quel che segue è un ininterrotto suc-cesso, propiziato anche dalla neutra-lità di un paese ansioso di risorgere dal-le rovine della guerra civile: un paesedesideroso di identificarsi con eroi checon la guerra non abbiano a che fare.

Diventa un simbolo di una nuovaSpagna quel ragazzo alto e sottile, dalviso scarno, il naso lungo come unaspada, lo sguardo venato di tristezza.

Inventore di uno stile assolutamentenuovo, essenziale: metafisico dirà ilmio amico Kléber Haedens.

Un atteggiamento non solo sprez-zante verso la morte, una gestualità in-differente alle corna che lo sfiorano e,più di una volta, feriscono.

Le annate di Manolete segnano re-cord crescenti, a partire dal 1941, in cuitutti, dagli esperti ai giornali, dal gran-de pubblico sino alla maggioranza deisuoi rivali, lo definiscono il NumeroUno o, ancor meglio, “El monstruo”.

Nel 1942 accumula settantadue corri-de, nonostante un seria ferita a Madrid.Nel ‘43 le ferite salgono a quattro, ma lecorride non scendono sotto le sessanta.

Sempre più richiesto, apparirà novan-tatré volte l’anno successivo, con trasfer-te su una caotica e sconvolta rete strada-le che concorreranno a debilitarlo sino aprovocargli insonnia e depressione.

Non estraneo al disagio, l’arrivo dalMessico di un rivale, Manuel Ruiz Va-squez, detto Manolo Arruza, che con-quista il primato non solo con centoot-to corride, ma con uno stile immagino-so e colorito, opposto a quello rigorosoma anche ripetitivo di Manolete.

È la sua volta, di trasferirsi e trionfarein Messico, dove subisce però una nuo-va incornata.

Decide allora di concedersi un annosabbatico, con una sola apparizione aMadrid, nella Corrida della Beneficen-za, in cui terrà a battesimo un nuovogiovanissimo collega, Luis Miguel Do-minguin.

Riprende faticosamente, Manolete,nel 1947, per essere ferito il 16 luglio aMadrid, ma accettare sprezzante unnuovo impegno a Linares, quello chesarà l’ultimo, di cui ho riferito all’iniziodi questo racconto.

Per il quale, a me occasionale aficio-nado, è stato preziosissimo aiuto GianPaolo Bonomi, uno dei maggiori esper-ti italiani di corride.

A partire dal 1941 tutti, dagli espertial grande pubblico, perfino i suoi rivali,lo definiscono il Numero UnoLui accumula trionfi e ferite, fatiche,depressione. Si concede un annosabbatico. Torna, è ferito di nuovo...

IL MANIFESTOL’immagine grande

a centro pagina è trattadal manifesto (a destra)

dell’ultima corridadi Manolete, nell’arenadi Linares in Andalusia,

il 28 agosto 1947,con Gitanillo de Triana

e Luis Miguel Dominguin

Repubblica Nazionale

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il raccontoAmore e rivoluzione

Negli slavi, uomini e donne, c’è sem-pre un tocco di follia. Ma nei deca-bristi, che furono i primi rivoluzio-nari nella storia della Russia, i “gen-tiluomini rivoluzionari”, la follia, inuna miscela di idealismo, fatalismo,

frivolezza e irresponsabilità, raggiunse nel giro dipochi anni, fra il 1820 e il 1825, vette inesplorate.

Vediamo il quadro d’insieme. Napoleone è statosconfitto; il Congresso di Vienna lascia prevedereper l’Europa, dopo tante tempeste, un lungo perio-do di pace. In Russia la grande aristocrazia, im-mensamente ricca, protetta da mille privilegi, puòassaporarne i frutti in un’esistenza lussuosa, frivo-la, elegante, che si svolge intorno alla corte dellozar. La vita è un susseguirsi di grandi feste nei pa-lazzi di San Pietroburgo; di partite di caccia nelle te-nute sconfinate in Ucraina e in Crimea; di viaggi dipiacere a Parigi, a Vienna, a Capri. Sono presenti in-somma, in quegli anni e in quella classe sociale, tut-ti gli ingredienti per gustare, come non mai, la dou-

ceur de la vie.Perché la rivoluzione, dunque? Per varie ragioni.

Le nuove idee giunte dalla Francia sulle baionettedella Grande Armée, gli ideali di uguaglianza e li-bertà, hanno avuto il loro effetto. Con la Francia gliaristocratici russi tengono rapporti stretti, parlanoil francese meglio che il russo, sono esposti all’in-fluenza di tutto ciò che succede sulle rive della Sen-na. Ma la scoperta degli ideali democratici non ba-sta, da sola, per spiegare la nascita dello spirito ri-voluzionario fra i russi che appartengono alla gran-de aristocrazia. In loro c’è l’amore del gioco, il gu-sto del rischio: le grandi passioni della gente slava.C’è, misteriosa, l’attrazione del precipizio. E c’è an-che, come spesso succede fra gli uomini troppo ric-chi e troppo potenti, una buona dose di superficia-lità. Così accadde che varie decine di principi e du-chi decisero di giocarsi, con aristocratica leggerez-za, tutto quel che possedevano: per fare, niente me-no, la rivoluzione, per tentare il colpo di Stato, perabbattere l’assolutismo, contro uno zar che era lo-ro amico, in molti casi loro parente. Per affermare idiritti dell’uomo, la monarchia costituzionale, l’a-bolizione della servitù, a favore di una popolazioneprimitiva e analfabeta che accettava, infinitamen-te paziente, la sua sorte e credeva che Costituzionefosse la moglie di Costantino, figlio dello zar.

La rivoluzione fu una farsa. Un giorno di dicem-bre del 1825 tremila soldati di un reggimento scel-to furono mandati dai gentiluomini rivoluzionariin piazza a San Pietroburgo, senza precise istruzio-ni. L’azione era improvvisata, priva di senso. NelSud, intanto, uno dei capi, Sergej Muraviev-Apo-stol, invece di dare ordini stava bevendo chiarettocol fratello, leggeva versi di Byron e declamava La-martine. Nel giro di poche ore due giovani ufficiali,pentiti, giurarono fedeltà allo zar, poi si tolsero la vi-ta. Il principe Trubetskoj, pentito a sua volta, giuròfedeltà allo zar, poi si rifugiò nell’ambasciata au-striaca. I gentiluomini rivoluzionari furono arre-stati. Seguì un lungo processo. Cinque furono im-

piccati, centoventi furono condannati ai lavori for-zati. Tre volte, durante l’impiccagione, la corda sispezzò. «Povera Russia», esclamò Muraviev, unodei condannati, quello stesso che beveva chiarettoe leggeva Byron, «non sai nemmeno impiccare co-me si deve!».

L’avventura dei decabristi è stata raccontata tan-te volte. A noi interessa qui la storia di MariaVolkonskij (anzi dovremmo dire, secondo l’uso deirussi, Volkonskaja), una donna incantevole estraordinaria, secondo il racconto che ne fa, in unbellissimo libro intitolato The Princess of Siberia,Christine Sutherland, scrittrice inglese. Una parteessenziale della documentazione è stata fornita al-l’autrice da Elena Cicognani, nata principessaVolkonskij, la cui villa, a Roma, è oggi residenza del-l’ambasciatore britannico.

Maria venne al mondo il giorno di Natale del1805. Apparteneva alla famiglia Raevsky, di nobiltàantichissima. Di lei ancora ragazza, graziosa espensierata, con una chioma folta di capelli neri egrandi occhi espressivi e con un che di esotico nel-l’aspetto, «principessa del Gange» come la chia-mavano in famiglia, conosciamo due fugaci appa-rizioni. La prima risale al 1820. Il padre, sofferentedi artrite, si trasferiva dalla tenuta in Ucraina peruna cura di qualche settimana nel Caucaso e viag-giava come sempre in grande pompa, su una car-rozza con un tiro a sei, alla testa di un corteo di fa-miliari e di servitori. Appunto su una carrozza delseguito c’era Maria, rannicchiata fra una sorella el’insegnante d’inglese. A una curva, improvvisa-mente, comparve una vista meravigliosa: il mare.Subito ordinarono al cocchiere di fermarsi, e le ra-gazze corsero felici sulla spiaggia, a farsi rincorreredalle onde: Maria aveva quindici anni. A sua insa-puta, un’altra carrozza del seguito si era fermata asua volta, a qualche distanza, e il più grande poetarusso, Puskin, amico di famiglia, allora ventenne, lastava guardando, rapito. La sera le dedicò alcuniversi, scrisse che invidiava le onde, anche lui avreb-be voluto baciarle i piedini: si era innamorato di lei.Quell’amore non ebbe un seguito.

La seconda apparizione fugace di Maria giovi-netta introduce nel nostro racconto Sergej Volkon-skij: discendente a sua volta di una famiglia fra lepiù famose, figlio di un personaggio che aveva ac-compagnato lo zar negli incontri con Napoleonefra una battaglia e l’altra, lui stesso uno dei dieciprincipi al sommo della scala gerarchica nell’im-pero di Russia, di bell’aspetto e di maniere affasci-nanti, con uno sguardo che dava un’impressione didolcezza piuttosto che di forza. Il nostro personag-gio, di passaggio a Kiev, notò su un campo di patti-naggio una ragazza che, graziosa nella lunga gon-na di velluto, con un berretto di pelliccia dal qualefuggivano i riccioli neri, e con un manicotto sul pet-to, pattinava con grazia spensierata. Intorno alcampo c’erano i servitori che avevano accompa-gnato le pattinatrici. A uno di loro Sergej chiese chifosse la giovane persona che aveva colpito la sua at-tenzione. La sua scoperta ebbe un seguito: il 12 gen-naio 1825 Sergej e Maria si sposarono a Kiev. Leiaveva vent’anni, lui trentasette.

Sergej era uno dei cospiratori. Alla fine dell’annofatale la cospirazione culminò nell’infelice colpo diStato. Quando i tremila soldati scesero in piazza, amezza strada fra l’Ammiragliato e il Palazzo d’In-verno, senza sapere bene perché, il principe Sergej,generale dell’esercito imperiale, si trovava in

La principessadella Siberia

A ventun anni, nel 1826, Maria Volkonskajadecise di abbandonare per sempre gli agidi Mosca e San Pietroburgoper seguireai lavori forzati il marito Sergej, nobiluomoe generale, condannato dallo zar all’esilioperpetuo per aver cospirato contro di lui...

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PIERO OTTONE

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 26 AGOSTO 2007

Ucraina. In quei giorni fatali aveva sentito, irresi-stibile, il desiderio di andare a casa, a Kiev, nella te-nuta dei Raevsky, in cui abitava con la giovane spo-sa, beatamente ignara di politica. Arrivato nel vastocortile antistante al palazzo, trovò una slitta condue ufficiali della polizia, giunti da San Pietrobur-go per arrestarlo. Era il 2 gennaio del 1826. In quel-le stesse ore, in quello stesso palazzo, Maria dava al-la luce Nikolenka, il primogenito.

Seguì il processo, a San Pietroburgo. Sergej, conlealtà irreprensibile, non tradì nessuno dei compli-ci. Fu condannato ai lavori forzati nelle miniered’argento di Nercinsk, vicino al confine con la Ci-na, e all’esilio perpetuo in Siberia. Prima di esseredeportati, alcuni dei condannati, fra i quali Sergej,dovettero assistere all’impiccagione di cinquecompagni, capi dell’insurrezione. Erano presentialti ufficiali, grandi personaggi: Sergej e gli altri sa-lutarono quelli che conoscevano, chiacchieraronodisinvolti, si comportarono con grande classe an-che allora.

Maria, non appena fu pronunciata la condanna,non ebbe un attimo di esitazione: avrebbe seguitoil marito. «Quale che sarà il tuo destino», gli scrisse,«lo dividerò con te». Invano amici e parenti, e lostesso zar, indispettito per la sua ostinazione, cer-carono di dissuaderla. Aveva vent’anni: si condan-nava alla morte civile, sarebbe stata diseredata, pri-vata di ogni diritto, ridotta nelle condizioni di unanon-persona; avrebbe abbandonato per sempre ilfiglioletto; non le sarebbe mai stato concesso di tor-nare in Russia. E infatti il soggiorno a Nercinsk futerribile. Solo col tempo, a poco a poco, le condi-zioni di vita migliorarono. Ai deportati fu concessodi trasferirsi a Irkutsk e Maria prese tante utili ini-ziative, migliorò le condizioni di vita nell’ospedale,fondò un teatro, diventò un personaggio: la princi-pessa di Siberia, così chiamata a furor di popolo.Nel 1855, quando aveva cinquant’anni, le fu final-mente concesso di tornare, con Sergej, nella Russiaeuropea.

Di tutti gli episodi della sua vita, che sono infini-ti, il viaggio da Mosca a Nercinsk fu il più incredibi-le, il più affascinante. Pensiamo allo stato d’animodi questa ragazza ventenne, bella, ricca, con unbambino appena nato fra le braccia, che decide diabbandonare tutto quel che ha nella vita e che sfi-da le suppliche e le minacce del padre, dei parenti,dello zar, per inseguire all’altro capo del mondo, frala neve e il ghiaccio della selvaggia Siberia, un de-portato. Viviamo con lei le ultime giornate a SanPietroburgo, a Mosca, prima della partenza. A Mo-sca la sua cugina più cara, Zinaida Volkonskij, dàper lei un pranzo di addio nel fastoso palazzo delTversky Boulevard: con tanti invitati e con un con-certo, come si usa nel gran mondo. Cantanti cele-bri intonano le arie più famose. Maria ascolta, ra-pita: ama la musica, per lei la musica è una ragionedi vita. A un tratto mormora: «Forse questa è l’ulti-ma volta che sento musica in vita mia…». Un ospi-te ascolta e le lacrime gli inumidiscono gli occhi: èPuskin, che sempre le è vicino, che prende la suamano.

Infine, la partenza. Con tutto il bagaglio affastel-lato su una slitta, e con due accompagnatori, undomestico e una cameriera reclutati all’ultimo mo-mento, spaventati e ostili perché sanno che Maria,ormai, è caduta in disgrazia. La ragazza di vent’an-ni lascia tutto dietro di sé, si avventura a velocità fol-le sulla trojka, la slitta tirata da tre cavalli, scompa-

re nella sconfinata distesa di neve. Ogni quattordi-ci verste si cambiano gli animali. È pieno inverno.Non ci sono strade: un albero che emerge dalla ne-ve indica vagamente la direzione. Poidì, poidì, gri-da il cocchiere; avanti, avanti, nella corsa verso ilnulla. Di tanto in tanto una breve sosta in una mi-sera locanda che emerge dal nulla: zuppa di cavolisul fornello, montagne di blini, mercanti che gio-cano a carte, gridano, bevono vodka. Immancabi-le il samovar: Maria beve un bicchiere di tè col li-mone, che le dà un po’ di calore. Potrebbe sedersisu una panca vicino alla stufa, riposare qualche ora,ma non vuole riempirsi di pulci: va a dormire sullaslitta con la cappotta rialzata, rannicchiata sotto lepellicce. E poi di nuovo avanti, sempre avanti: la Si-beria è sconfinata, Nercinsk è in capo al mondo.

È solo a un terzo del viaggio quando arriva a Ka-san, l’antica capitale dell’Orda d’oro. Ed è la nottedi Capodanno: decidono di fermarsi qualche oranell’unico albergo. Lì accanto, sull’altro lato delcortile, c’è il club dei nobili: «Vedevo», Maria scri-verà poi nel diario, «gli ospiti mascherati che scen-devano allegri dalle slitte, chiacchierando e riden-do. Non potevo sopportare il contrasto: qui c’eragente normale, gente ordinaria come me, che si di-vertiva, mentre io stavo scendendo nell’abisso…Per me, tutto finito, non più canzoni e danze, nonpiù divertimento: a un tratto mi sentii infinitamen-te infelice, fui presa dallo sgomento». Ed ecco unbrusco ufficiale, mandato dal governatore: ha l’in-carico di convincerla a rinunciare, a tornare. Mariariacquista la sua fierezza, risponde che proseguirà.Si avvicina la mezzanotte, si scatena una tempestadi neve. Le consigliano di fermarsi almeno perqualche ora, fino a quando la tempesta si placherà.«In Siberia sarà peggio», lei risponde, bambinaostinata. E dà l’ordine di ripartire.

«Non conoscevo la ferocia del vento sulla steppadi Kasan», scriverà poi. «La neve si ammucchiavasul tetto della slitta, c’era un monte di neve fra me eil cocchiere. Il mio orologio da viaggio segnò lamezzanotte, lo feci squillare perché salutava l’an-no nuovo: cominciava il mio ventiduesimo anno divita». Maria si volta verso la domestica, le augurabuon anno: lei risponde in malo modo. Allora au-gura buon anno al cocchiere. E intanto la assale ilricordo delle feste di Capodanno nel palazzo diKiev, la sua infanzia, i riti solenni nella cattedrale diSanta Sofia, il canto struggente, l’incenso. Poi pen-sa a Sergej: che cosa farà lo sventurato in questomomento? Il pensiero del povero Sergej scaccia glialtri (a Nercinsk lo troverà con le catene alle mani eai piedi, nei primi tempi potrà solo vederlo una odue volte la settimana, alla presenza di un carcerie-re, con l’obbligo di parlare russo, che loro conosce-vano male perché parlavano sempre francese).

Ma presto intervengono altri problemi: un’oradopo la partenza il cocchiere annuncia che nonpossono proseguire nella tempesta, i cavalli sonoesausti, lui si è perso. Scoprono la capanna di un bo-scaiolo, e lì passano il resto della notte, accanto a unfocherello stentato: la legna è bagnata, il fuoco spri-giona fumo, in lontananza di sentono gli sciacalli.La mattina il cielo è pulito, il viaggio riprende: maMaria non mette fuori il volto, ha troppo freddo,passa il tempo recitando mentalmente canzoni,poesie, ballate imparate nell’infanzia.

Il viaggio fino a Irkutsk dura ventiquattro giorni:rimangono altre seicento miglia, oltre il LagoBaikal, per Nercinsk. Quando finalmente si arriva,scaricano la slitta. Nei bagagli, nascosto fra le vali-ge, Maria scopre, con un grido di gioia, un minu-scolo pianoforte. La cugina, Zinaida, lo aveva fattocaricare a sua insaputa. Un pianoforte! Maria, feli-ce, si mette a suonare e a cantare.

Non c’è, negli slavi, un tocco di follia?

Un libro rievoca le straordinarie avventuredi questa eroina, risorta dalla morte civiledopo essere precipitata dalla vitaaristocratica all’oblio del gelido Orienterusso. Solo nel 1855, a cinquant’annicompiuti, le fu concesso il ritorno

RIVOLTA FALLITANell’immagine grande,la rivolta decabristasulla piazza del Senatodi San Pietroburgo,il 14 dicembre 1825(acquerello, collezioneprivata). Nei medaglioni,i ritratti di Mariae Sergej Volkonskij(Bridgeman Art Library/Alinari)

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cher, Mermoz, Estienne, Guillaumet. Nel1929 è a Buenos Aires, direttore di gestio-ne della “Aeroposta Argentina”, dove ri-trova i compagni della linea Francia-Ma-rocco: Mermoz, Guillaumet e altri. L’an-no dopo pubblica Vol de nuit, il suo capo-lavoro, il cui grande tema più che il volo èla responsabilità. Scrive: «Ciascuno è re-sponsabile per tutti. Ciascuno è il solo re-sponsabile. Ciascuno è il solo responsabi-le per tutti. Per la prima volta comprendouno dei misteri della religione dalla qualeè sorta la civiltà che rivendico come mia:“Portare i peccati degli uomini…”. E cia-scuno porta i peccati di tutti gli uomini».Quando André Gide presentò Vol de nuital pubblico francese, disse: «Qui c’è unaverità paradossale: la fortuna dell’uomonon è nella libertà, ma nell’accettazionedi un dovere».

Responsabilità e serietà. Nove anni do-po, in Terra degli uomini, osserva: «Esisteuna qualità indefinibile, forse è la serietà,ma la parola non è soddisfacente, poichéquesta qualità può accompagnarsi allapiù sorridente gaiezza; è la stessa qualitàdel carpentiere che si pone da pari a pari

di fronte al suo pezzo di legno». E ancheappartenenza. Per lui il tema dell’appar-tenenza era un bisogno di essere con glialtri e per gli altri, parte di una squadrigliadi amici e compagni, fossero letterati aicaffè di Saint-Germain o comandanti etecnici con mani sporche di grasso neronegli hangar degli aeroplani in riparazio-ne. La sua formula ricorrente era «essereper qualcuno», che non è poi grande im-presa, ma comunque un piccolo dono edesiderio, qualcosa almeno che si può fa-re. Nel tempo questa sua idea attraver-serà una sorta di filosofia dell’umanesi-mo in pieno Ventesimo secolo, l’uomonella sua azione, un’etica del mettersi ingioco e del non sottrarsi mai. Che sarà poiil tema di La Cittadella, libro iniziato nel1943 e interrotto per l’ultima missione diricognizione di Saint-Ex con il P-38 Light-ning, da cui non tornò mai più.

Adorava i suoi compagni, Henry Guil-laumet e Jean Mermoz, Guillaumet so-prattutto, che aveva attraversato novan-tadue volte la Cordigliera delle Ande nel-la tratta Buenos Aires / Santiago del Cileper la Compagnie Générale Aéropostale.

Esce in Italia per Bompiani la raccolta dei disegni di Saint-ExUn’occasione per esplorare la ricchezza della vita e dell’operadello scrittore-aviatore, troppo spesso “appiattito” sul suo libro

più famoso. Per apprezzare, ad esempio, la sua “mistica della linea aerea”, il vincolod’amicizia e solidarietà stretto con i meccanici e i piloti e basato sull’idea della libertà

come assunzione di responsabilità, sull’eticadel mettersi in gioco, del non sottrarsi mai al dovere

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 AGOSTO 2007

La volta successiva era partito come d’a-bitudine da Santiago con la posta perl’Europa, ma trovò la Transandina, rottaabituale, completamente ostruita da unaviolenta tempesta di vento. Tentò lo stes-so di passare ma trovò nuvole a otto, no-vemila metri di quota e una tempesta dineve che appesantiva l’aereo. Provò ascendere a tremila metri, tra le monta-gne, ma senza più carburante fu obbliga-to a un atterraggio d’emergenza che si ri-solse in un cappottaggio. A testa in giù,appeso alle cinture si lasciò cadere. Si ri-parò la prima notte nelle Ande, e poi altresette notti e giorni. Alla fine cominciò ascendere tra i ghiacci in cerca di un segnodi vita, e perché, anche se morto, volevache il suo cadavere fosse ben in vista perassicurare la pensione a sua moglie.

Quando arrivò a valle e fu portato alcommissariato di polizia, nessuno crede-va fosse ancora vivo. In tutti quei giorni trale rocce pensava alla preoccupazione deisuoi compagni, e sapeva bene che non po-tevano fare passaggi bassi tra le rocce, e ilmeteo era proibitivo. Poco dopo passò unaereo a bassa quota, e Guillaumet disse: «È

Saint-Exupéry

NEL DESERTOQui sopra, Antoine de Saint-Exupéry davanti al suo Simoun-Caudron caduto nel desertodella Libia il 30 dicembre 1935 (Collezione eredi Saint-Exupéry-d’Agay)In alto, da sinistra: lettera alla madre, il cane Black che salta; l’Adieu, poesia calligrafatae illustrata con cinque rose; lettera a Henry de Ségogne, Henry de Ségogne scalauna montagna; lettera a Jean Escot, strada di campagna bordata di alberi e di personaggi

“Ciascuno è il soloresponsabile per tutti- scrive in Vol de nuit- Per la prima voltacomprendouno dei misteridella religionedalla quale è sortala civiltàche rivendicocome mia: portarei peccati degli uomini”

All’ombra del Piccolo Principe

Saint-Exupéry (1900-1944) fuin tutta la sua vita esigente, ec-cessivo e in fondo, forse gioco-samente contraddittorio. Inletteratura appartenne a unapattuglia di scrittori debut-

tanti tra le due guerre mondiali, Drieu LaRochelle, Malraux, Henry Michaux, JeanPrévost, André Gide, Charles du Bos, Ra-mon Fernandez.Ma appartenne anche aun’altra pattuglia, parallela, diversa,quella dei piloti, dei comandanti, deimeccanici.

Nato col secolo, di sé diceva «io sonodella mia infanzia, come si è di un paese»e non si vergognò di dichiararlo in tutti imodi. Antoine Marie Roger de Saint-Exupéry era nato a Lione, terzogenito delconte Jean de Saint-Exupéry, ispettore diassicurazioni, e di Marie de Fonscolom-be, limosino dal lato paterno e provenza-le da quello materno. Studiò come ester-no al Collegio gesuita di Notre-Dame deSainte-Croix; allievo discontinuo in pro-fitto e in condotta, come discontinuo e ir-regolare, e anche po’ distratto, sarà da pi-lota. A dodici anni aveva scritto una poe-sia aeronautica di cui restano solo tre ver-si: Le ali fremevano sotto il soffio della sera/ Il motore cullava l’anima addormentata/ Il sole ci sfiorava con il suo pallido colore.

Nel 1919 fu respinto all’esame orale diammissione alla Scuola Navale; era statoammesso a malapena, con un voto mol-to basso in lettere, sette su venti. Si iscris-se allora alla Scuola di Belle Arti, sezioneArchitettura, e nel frattempo faceva lacomparsa al Théâtre du Châtelet. Dueanni dopo prese servizio militare pressoil II° reggimento d’aviazione a Strasbur-go, addetto alle officine di riparazione.Più tardi dirà: «Un pistone è un pistone euna biella è una biella». Economizzandosul misero stipendio trovò il necessarioper pagare le lezioni di pilotaggio tenuteda un istruttore civile. Volò da solo, trop-po presto, sull’aereo scuola: primo inci-dente, senza gravi conseguenze. Ottenneil brevetto di pilota civile a Rabat dove erastato inviato come allievo ufficiale, e nel1922 quello di pilota militare a Istres, se-condo incidente con frattura al cranio.

Nel 1926 pubblicò un racconto breve,L’aviateur, prima versione di Corriere delSud; entrò nell’aviazione francese e l’an-no successivo assicurò i collegamenti po-stali tra Tolosa e Casablanca e tra Dakar eCasablanca, nel gruppo dei pionieri: Va-

DANIELE DEL GIUDICE

Repubblica Nazionale

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«Vede, Robinau, nella vita non esistonosoluzioni. Esistono forze in cammino: bi-sogna crearle e le soluzioni seguono». Eancora: «Forse il fine non giustifica nulla,ma l’azione libera dalla morte».

In Lettera a un ostaggio, del 1943, lostesso anno in cui uscirà Il piccolo princi-pe, Saint-Exupéry ritorna sul tema: «Qua-lunque sia l’urgenza, ci è vietato dimenti-care la vocazione che deve comandarla,senza la quale l’azione resterà sterile. Vo-gliamo fondare il rispetto dell’uomo».Azione di responsabilità, che col temposarà la responsabilità-libertà di quelli chehanno scelto la «Linea», la linea aerea,«come gli altri scelgono il monastero», èuna «mistica della Linea». Fine primario iltrasporto della posta. Più tardi, il fine saràla ricognizione come pilota da guerra nel-la squadriglia II/33, per il suo ultimo co-mandante, René Gavoille. Fece di tuttoper essere rimesso nella sua squadriglia,con il P-38 Lightning, il caccia più poten-

te dell’epoca, ma armatosolo di macchine fotogra-fiche. Del ritorno alla suasquadriglia scrive: «Tor-no a casa mia. Il gruppoII/33 è casa mia. E quellidi casa mia io li capisco,non posso sbagliarmi».Sono gli ultimi mesi di vi-ta di Saint-Ex, basato pri-ma ad Alghero e poi a Ba-stia in Corsica. Da lì, lamattina del 31 luglio1944, partì per una mis-sione inutile e che non erala sua, decollò per una ri-cognizione sulla Savoia, enon tornò mai più.

Dopo la sua scompar-sa, i primi a ricostruirne leimprese e la vita furono icompagni di volo, i suoi«camerati». Nell’arco didieci anni, dal 1974 al1984, la più prestigiosa ri-

vista aeronautica francese, Icare, pub-blicò in sette volumi tutto Saint-Exupéry,recuperando lettere, disegni, fotografie,taccuini, la vita e la morte di Saint-Ex.

Ho parlato molte volte con René Ga-voille. E ancora negli anni Novanta i suoivecchi compagni si riunivano un giornoal Senato di Francia per ricordare ungrande uomo, un grande aviatore, ungrande scrittore. Una volta venni invitatoa una delle loro riunioni, e fu per me unavera emozione.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 26 AGOSTO 2007

uando penso a Saint-Exupéry, miviene in mente una scena precisa,come se l’avessi vissuta io stesso.

Sotto i nostri occhi si estende il tracciato delCanal du Midi, scintillante di luce. Voliamoaccanto all’aviatore, a bassa quota. A poca

distanza dalle ali di legno, tela e fil di ferro delnostro apparecchio, c’è il suo Breguet 14, e

lui, dalla cabina di pilotaggio, ci saluta con lamano. Evitando le cime innevate dei Pirenei,punta verso il mare, in direzione di Alicante, ilsuo prossimo scalo. La fusoliera giallo chiaro

del suo aereo si allontana lentamente,mentre noi lo seguiamo con gli occhi, in

silenzio. Stretto tra il verde del continente el’azzurro del mare e del cielo che si spieganooltre le terre, il riflesso dell’aereo si assottiglia

gradualmente, fino a scomparire nellosfavillio del Mediterraneo. Cominciando la

discesa verso il nostro basso mondo, ciaccorgiamo di avvertire, più chiaramente di

prima, la sua presenza...

(© 2006 Hayao Miyazaki,“Un messaggio dal termitaio”)

L’aereo dal riflesso sottileHAYAO MIYAZAKI

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GIORNI DI PIOGGIADall’alto e da sinistra, Nudofemminile; “La mia anima nei giornidi pioggia”, piccolo personaggioin smoking (probabile autoritratto);Busto di donna nuda con collanadi perle (forse ritratto di Nellyde Vogüé); Donna con cappottoin una via di Parigi; Autoritrattocon cappello da marinaioPer tutte le immagini in pagina:© 2006 Editions Gallimard© 2007 RCS Libri S.p.A. - Bompiani

il mio amicoAntoine deS a i n t -E x u p é r yche mi vie-ne a pren-dere con imecca-nici». Il

ritrovarsi fu unagrande festa. Quando Guil-

laumet morì molti anni dopo nel Me-diterraneo, Saint-Exupéry scrisse: «Io so-no di Guillaumet». Diceva spesso: «Quan-do devo prendere una decisione impor-tante, mi chiedo: cosa farebbe Guillau-met?». Di lui scrisse ancora: «Il coraggio diGuillaumet, prima di tutto, è conseguen-za della sua rettitudine». Perché il corag-

gio da solo non è nulla. «Ho anche ca-pito, cosa che mi aveva stupito sem-pre, perché Platone (o Aristotele?)pone all’ultimo posto tra le virtù il co-raggio — osservò an-cora in Terra degliuomini —. Perchénon è fatto di granbuoni sentimenti[…], non ammireròmai più un uomoche sia soltanto co-raggioso».

Compagni cheerano anche figu-re di narrazione,innanzitutto Di-dier Raudat, pri-mo comandantee caposcalo aCap Juby, perso-naggio centraledi Vol de nuitconil nome di Riviè-re, il vero eroeche non vola maha «l’oscurosentimento diun dovere piùgrande di quello d’amare»,cioè rendere eterni gli uominiche ama. Eternità illusoria ono? La risposta è d’ordine reli-gioso — anche se si tratta sol-tanto di una «religione del-l’uomo». L’atteggiamento diRivière è esistenziale, pasca-liano, ciò che accosta Volo diNotte a La via regale di Mal-raux. Nel libro, Rivière di-chiara a un suo sottoposto:

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IL LIBRO

Antoine de Saint-Exupéry-Disegni, con la prefazionedi Hayao Miyazaki (330

pagine, 45 euro), pubblicatoin Italia da Bompiani,

in libreria dal 29 agosto,è la raccolta dell’opera

grafica di Saint-Exupéryarricchita da numerosi inediti

di schizzi, taccuinie lettere provenientida collezioni private

Repubblica Nazionale

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la letturaAssociazioni mentali

Le facce degli altri sono un “secondo ecosistema”che, al pari di quello naturale, occorre saper decifrarein tempo reale per consentirci la sopravvivenzanel nostro ambiente. È questo il sorprendente temadella “breve storia del viso umano” che RuggeroPierantoni narrerà al prossimo Festival della Mente

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 AGOSTO 2007

Nella foresta dei volti

La parola “mente” si è insinuata,profonda, attraverso il millennio e ol-tre, nella lingua, adesso, italiana: si èinsinuata profonda-mente. L’antico,impeccabile ablativo assoluto haspinto la parola sempre più nel fondo

quasi inconscio della nostra lingua e finimmo qua-si per dimenticarci dell’origine: dolce-mente, pro-gressiva-mente, definitiva-mente. Eppure, all’ori-gine ci sono anche “mann” e, poi, necessariamen-te: mentire. Quindi: uomo, calcolo, conoscenza,giudizio. E, inganno.

Il nuovo connubio tra “Mente” e “Festival” misuscita l’idea di una fiera antica, forse barbarica,con pennoni al vento colorati sospesi su padiglio-ni dipinti a strisce diagonali. In essi, allineati lun-go le rive di un largo fiume, si mostrano ai popoliche accorrono “menti” inazione. Menti che cantano,motteggiano, folleggiano,erudiscono, sussurrano… Cene ritorneremo al carro, al ca-vallo, alla barca con “souvenirmentali” nelle tasche, nel far-dello. A casa metteremo i ri-cordi vicino alla fiamma delcamino e ci ra-mmenteremodella nostra facoltà, forse or-mai già sperduta, di esserestati capaci, un tempo, di da-re un senso alle cose, di misu-rarle, di anticipare i moti siadei corpi che degli animi. Pri-ma di aprire il mio padiglionecolorato di immagini, nellungo prato della “Fiera”, chesarà pieno di gente buona ecuriosa e che venne anche dalontano attratta dalle bandie-re piene di vento e di colore,cerco di ricordarmi di cosaandrò dicendo.

E l’inizio sarà proprio pen-sando al fiume.

Nel 1978 J.J. Gibson, un uo-mo che fece il portiere d’al-bergo, il pilota d’aerei dabombardamento e il professore universitario nelmeraviglioso campus della Cornell University, in-ventò, o molto meglio ri-inventò la parola “affor-dance”. L’origine etimologica, anche qui, è rivela-trice. “Ford”, come noto, è il guado in inglese: Ox-ford è il guado dei buoi. Nelle mani di Gibson il“guado” diventa possibilità, disponibilità dell’am-biente a compiere azioni, “permesso” accordato.Il “ford” è, quindi, la disponibilità del fiume a farsiattraversare, ma lì e non in altro luogo, ma adessoe non in novembre. L’oasi è l’affordance che il de-serto ti concede, la forma e il colore del frutto be-nevolo sono l’affordance che il bosco ti suggerisce.Se non hai il sistema di rilevamento sensoriale ecognitivo che ti estrae l’oasi dal fondo omogeneodelle sabbie o il lampo rosso e oblungo dalla corti-na verde delle foglie, se non intuisci dal riflesso, dalrumore, dalla trasparenza la sottigliezza delle ac-que, il guado non sarà lì. Semplicemente, non esi-

Ad essa si aggiungono i visi nostri e di molte mi-gliaia di altri esseri umani che, ogni giorno, dob-biamo vedere. Questo “secondo ecosistema” nonè meno severo, né meno violento e brutale di quel-lo delle valanghe o delle cascate o del fulmine in ag-guato sopra le nubi. Dio non giocherà ai dadi maanche Madre Natura non ama gli spassi e i diverti-menti: chi sbaglia paga e paga assai e quasi subito.

Noi umani siamo proprio come Don Giovanni:«Non l’avrei giammai creduto, ma farò quel che

potrò, Leporello, un’altra cena, fa che subito si porti…».E il saggio Leporello non viene ascoltato: non de-

ve esserlo. Non contenti della notevole complica-zione che la mobilità dei nostri visi, la molteplicitàdelle interpretazioni, le infinite ramificazioni deldesiderio, della paura, della fiducia connesse adun fulmineo lampo dello sguardo possono inseri-re nel nostro bagaglio di comportamento abbiamo

deciso per «un’altra cena». All’ecosistema visivodei nostri visi ne abbiamo immediatamente ag-giunto un altro: quello delle immagini di noi me-desimi. In pietra, in pigmento, in inchiostro, inbronzo, gesso, smalto, corallo… Abbiamo creatoun secondo universo d’immagini che ci riflettono.L’infamia degli specchi di cui si lamentava il ciecoBorges si limitava alle immagini flebili, piatte, fred-de, che nascono dagli specchi, ed esse sono un mi-liardesimo di quelle che sono state trasformate inoggetti, cose stabili, permanenti, fisse, con un lorovolume o superficie irriducibili. La loro metastasiè immensa e definitivamente incontrollabile. Daquando le immagini hanno acquistato moto e co-lore e suono, esse c’inseguono, ci parlano, ci co-mandano, ci indicano, ci amano forse. Di certo es-se ci ingombrano la mente e la possiedono inin-terrottamente.

Sembra che un’ulteriore idiozia stia lentamente

sterà. Virginia Woolf calcolò bene il suo “guado” e,per prudenza, si riempì le tasche di sassi.

Entro la rete fittissima delle “affordances” natu-rali che ci circondano, che ci permettono, ci impe-discono, ci invitano all’azione o all’immobilità an-siosa esistono anche i volti umani. I volti dei nostrisimili: e il nostro stesso, per giunta. All’ecosistemad’alberi e pietre e gocce se n’affianca un altro, in-tricato e fulmineo di sguardi, di pupille spinte di la-to, di bocche appena aperte, di fronti che da liscedivengono corrugate in un decimo di secondo, diun sopracciglio che si alza, per un frammento d’i-stante, di un millimetro: e siete condannati. O vi siporta in paradiso. La lettura, in tempo reale, delle“affordances”, diciamo naturali, ma in esse dob-biamo aggiungere, ormai, semafori, schermi sucui scorrono papiri di numeri verdi, punti solitarie silenziosi ma fatali, soli virtuali e ombre digitali,ci permette la sopravvivenza nel nostro ambiente.

RUGGERO PIERANTONI

LE SCULTURELe pagine sono illustratecon un’immagined’insieme e alcuni dettaglidelle sculture del frontoneovest del Tempio di Zeusad OlimpiaQui sopra, Ippodamiae il centauroNella pagina di destra,primo pianodi un secondo voltodi centauroe un altro particolaredi lotta fra una figura umanae un centauro

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ORI Collezioni dai Musei dell’Ucraina

DEI CAVALIERIDELLE STEPPE

Trento,Castello del Buonconsiglio,1 giugno - 4 novembre 2007

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10.00 - 18.00, chiuso il lunedì

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Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 26 AGOSTO 2007

tramontando: quella di avere degli avatar. L’ideastessa di avere una sorta di “KA” digitale che si agi-ta elettronicamente da qualche parte, sepolto inun viluppo di domini magnetici e di micro-cor-renti, perfettamente piatto, alto pochi centimetri,dotato d’approssimative ombre secrete da un au-to-cad da strapazzo è inverosimilmente idiota. Ep-pure, anche questo “sogno” di eternità, di persi-stenza, di essere sempre, è così doloroso, cosìumano, così triste! Che ruolo gioca, in questo “gio-co” tra orrendo e imbecille, la nostra “mente”?Quando tutto è “cominciato”?

Nella breve storia del volto umano che illu-strerò, come fanno alle Fiere, appunto, i cantasto-rie con il loro lungo bastone che scorre sulle im-magini dipinte sulla tela srotolata e appesa ad undrago scrostato e zoppo, visiterò alcuni momentidi questa storia.

Ecco il profilo essenziale, puro, di Hesirè scolpi-to nel sicomoro della portadella sua “mastaba”. La par-rucca perfettamente aderen-te al suo cranio pieno di pen-sieri ordinati e d’idee geome-triche, la mano che stringe idue bastoni del comando, egliguarda netto alla sua sinistra,penetrante, pronto alla scrit-tura, sagace, capace. Intelli-gente. Attraverso la sua spallanuda scorre il legaccio dicuoio che trattiene il conteni-tore dei papiri, il porta-pen-nelli e i due serbatoi leggeri diinchiostro rosso e di inchio-stro nero. Attraverso i secoli losegue Sesostri Secondo: il vol-to scolpito dal potere, dallavolontà decisionale, dall’in-telligenza non costretta daostacoli meccanici. Le borsesotto gli occhi, le rughe attor-no alla bocca, le labbra con-tratte: tutto è restato, per sem-pre, nella pietra e ci rimandauna immagine di uno di noima che ebbe la sorte di deter-minare, personalmente, lastoria del suo paese.

Un salto verso l’intima struttura di noi medesi-mi, l’intuizione della complessità della nostramente attraverso il volto, la vediamo nei visi deicentauri di Olimpia. Bernhard Schweitzer nel suostudio del ritratto greco del 1939 analizza in detta-glio tutte le teste di centauro scolpite da Fidia e netrae una forte e emozionante conclusione: è con icentauri che inizia la vera ritrattistica. Non saràcerto l’Apollo perfetto, incomprensibile, impene-trabile del frontone occidentale del tempio inOlimpia che ci mostrerà il lavorio della menteumana. Egli si accontenta di estendere orizzonta-le il suo braccio destro a riportare un ordine eucli-deo nel caos delle passioni umane. Ma è nel viso deicentauri afferrati e atterrati dagli eroi umani e gre-ci che si rivela una natura interna. Il dolore fisico,l’umiliazione atletica, l’impotenza muscolare, iltimore della morte troppo prossima scava rughenei loro volti. E non sono rughe di vecchiaia, d’età,

di sapienza. Le froge si arricciano come quelle deifelini braccati, le fronti si contraggono, le bocche sispalancano in urla ancora bestiali. Naturalmente,essi, i centauri, appartengono ancora a un Mondodi Mezzo. Il loro cammino verso l’umano è solo ini-ziato ma già il loro cuore è doppio, ambiguo, intri-so di futuro. Il volto di Pericle, quasi contempora-neo, anche se considerato il punto di partenza del-la ritrattistica attica ci si presenta, stranamente, ar-caico se comparato al gemito già quasi umano delcentauro di Olimpia.

Invece, come sappiamo assai bene, Laocoontenon grida. Dalla sua bocca anche se spalancatanon esce l’urlo ferino ma essa manifesta il profon-do dolore morale (e fisico) di chi sa che si deve sof-frire stoicamente e mostrare con il proprio con-trollo totale la natura umana: semplicemente. Ri-chard Brilliant nella sua analisi dei “miei tre Lao-

coonti” insiste a fondo sulla componente filosofi-

ca del dolore e del suo “significato” come elemen-to di recupero della nostra componente spiritua-le, come rivincita della mente sul corpo. Comecontrollo razionale. E, quindi come suprema af-fermazione estetica. Una lunghissima strada, an-che mentale, dall’urlo che esplode dalle bocchedei centauri.

Ancora una breve storia. Ma di un Settecento in-telligente, feroce e cortese, civile e tenebroso. Da-vid Garrick e William Hogarth sono rispettiva-mente il più grande attore inglese e il più famosopittore inglese viventi e contemporanei. Siamo at-torno al 1757. Sono legati da anglosassone amici-zia, si frequentano, si stimano. Garrick è sposatocon una bellissima giovane donna, Eva Marie Vei-gel, ballerina. Incarica Hogarth di ritrarli assiemein un momento di deliziosa intimità domestica.Hogarth esegue meravigliosamente. L’attore è se-duto allo scrittoio impegnato nello scrivere il pro-

logo alla commedia Tastedi S. Foote. Eva Marie ac-corre leggera alle spalle del marito e tenta di sfilar-gli la penna d’oca di mano. Garrick sorride com-piaciuto e con la mano sinistra fa il segno del nu-mero due: è già stato “disturbato” dalla bella EvaMarie due volte in questo pomeriggio londinese?Tutto civilissimo, educato, riservato e, anche, unpo’ erotico. Ma, durante l’ultima seduta di posa,tra il pittore e l’attore scoppia qualcosa che anco-ra secoli dopo non si è stati capaci di ricostruire.Hogarth, preso dall’ira cancella con una pennella-ta gli occhi di Garrick. Il quadro, stuprato, resta nel-lo studio di Hogarth: questi muore. Tutto finiscebene e per opera delle donne, come spesso acca-de. La vedova Hogarth fa ri-dipingere gli occhi daun alunno del defunto marito. E lo invia come do-no alla Eva Marie: happy end e della migliore na-tura, natural-mente. Il quadro fu svenduto dal pro-prietario temporaneo, H. Lockner, nel 1825, per-

ché «spaventava i bambini».Uno sguardo, anche fuggevo-le, al quadro mostra chiara-mente come gli occhi di Gar-rick siano bovini, bolsi, quasiinespressivi e frutto, chiara-mente, di un’arte assai infe-riore a quella di Hogarth. Lopossiamo constatare con-frontando quest’immagine diGarrick con quella di lui di-pinta da Sir Joshua Reynolds.In questa tela famosa l’attorecompare allerta, vistosamen-te soddisfatto di sé, ironico, atutto agio davanti ai suoi mi-rabili libri sulla storia del tea-tro classico di cui era sagacecollezionista. Gli occhi di Rey-nolds sono ben diversi daquelli dell’emulo di Hogarth.

Altre ed altre sarebbero lestorie che si possono indicarecon la punta del lungo basto-ne sul vecchio cartellone ar-rotolato e riarrotolato tantevolte. Non possiamo chiude-re la tenda e spegnere la pic-cola fiamma che esce dallefauci del draghetto che sem-

pre mi accompagna senza ricordare la Foto dei

Due Presidenti, fotografia famosissima e giusta-mente tale. In essa, infatti, Marilyn Monroe, la cuigonna candida e plissettata viene alzata per noi davapori complici della metropolitana di New York,si appoggia teneramente ad Abraham Lincoln.Egli sembra, un po’, è vero, venire fuori da una fa-mosissima fotografia scattata da Mathew Brady.E, devotamente e un po’ scontrosamente, occor-re dirlo, alza gli occhi al cielo: «Cosa si deve fare perla Democrazia!». Documento indiscutibile quin-di, fotografico, testimonianza ineccepibile. An-che se siamo sorpresi e magari un po’ scandaliz-zati, non possiamo dubitare: la fotografia è unaprova assoluta. «Anche a me, per dirtela tutta, quelLincoln non mi ha mai convinto. Hai visto? Face-va finta di non vederla. Chissà cosa aveva in men-te, invece…».

Era l’alba di Photoshop: fotografica-mente.

Un intreccio fulmineodi sguardi, di boccheappena aperteUn sopracciglioche si alza,per unframmento d’istante,di un millimetroE siete condannati

Secondo Schweitzer,la ritrattistica nascecon la raffigurazionedei centauridi Olimpiache mostrano il dolorefisico, l’umiliazione,l’impotenza, il timoredella morte prossima

IL FESTIVAL

Dopo il successo dello scorso anno con ventottomila presenze, il Festival della Mente di Sarzana,ideato e diretto da Raffaele Cardone e Giulia Cogoli, giunge alla quarta edizionePromosso dalla Carispe e dal Comune di Sarzana, si svolgerà dal 31 agosto al 2 settembrecon cinquanta appuntamenti tra conferenze, workshop, spettacoli, letture e laboratori per bambinie ragazzi. Informazioni e prevendita online su www.festivaldellamente.itIl testo che pubblichiamo in questa pagina è tratto dalla conferenza che Ruggero Pierantoni terràal Festival

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VENEZIA

Fiabe appese a un filo, a una nota. Notedi lana, filastrocche. Protagonista, inpunta di piedi, lieve, spumeggiante,una sagoma di biacca, gonfia di sogni

e d’appetito: Pulcinella. Non quello dell’anticaCommedia dell’Arte, ma il suo ultimo, minusco-lo discendente, non più teatrale ma in celluloide:il Pulcinella di Giulio Gianini e Emanuele Luzza-ti, equilibrista d’un piccolo circo delle meravi-glie, costruito dai due autori, in cin-que atti e in un quarto di secolo, dal1959 al 1985. L’apice è stato nel 1973,quando il corto Pulcinella vince ilprimo premio per l’animazione alFestival di Mosca e viene nominatoagli Oscar. È la consacrazione d’untandem d’artisti e d’un personaggioche pian piano s’è evoluto, nella gra-fica e nella personalità. Alla Mostra diVenezia, il 6 settembre, la CinetecaItaliana di Milano, che ha recuperato e restaura-to i vari Pulcinella di cartoon di Gianini-Luzzati,ne ricostruisce la genesi e le gesta a matita. Il pro-gramma, Tutti i Pulcinella: 1959-1985, affettuo-so ricordo di Luzzati, scomparso a ottantasei an-ni lo scorso gennaio, comprende, oltre ai classiciPulcinella del ‘73 e Pulcinella e il pesce magico

dell’81, tre inediti sorprendenti: La tarantella di

Pulcinella, Pulcinella e il giuoco dell’oca, en-trambi del 1959, e Duetto dei gatti dell’85, omag-gio a Gioachino Rossini nel quadro d’un proget-to mai portato a termine sull’Opera buffa.

La tarantella doveva segnare il debutto delneonato Pulcinella nella grande macina pubbli-citaria di Carosello e della tv agli esordi. «Fu peròun battesimo fortunatamente sbagliato», rac-conta oggi Gianini, animatore impareggiabiledelle silhouettes colorate di Luzzati: «Il corto, co-struito su una filastrocca, si concludeva in un’o-steria, con Pulcinella, Arlecchino ealtre maschere a tavola, davanti apiattoni di pastasciutta. Nono-stante la soddisfazione del nostrocommittente, Pietro Barilla, cuil’avevamo presentato in una salacinematografica improvvisata, ilsalotto di casa mia a Roma, con unproiettore acquistato a Porta Por-tese montato sul tavolo da pranzoe una tovaglia a fare da grandeschermo, il filmetto non superòl’esame dei responsabili della pubblicità azien-dale. Mai insuccesso fu più prodigo di futuri suc-cessi. Lele e io ci rassegnammo all’idea che noneravamo fatti per gli spot. E ci mettemmo di buo-na lena a lavorare su nuove avventure di Pulci-nella, sviluppando la tecnica rudimentale dellefigurine ritagliate (assai vicina al teatro delle om-bre cinesi e delle marionette, nostra passione co-mune), dentro lo studio casalingo che avevomesso in piedi nel garage di casa: è lì che sono na-ti i nostri lavori successivi».

Il secondo Pulcinella è, nello stesso anno, Il

giuoco dell’oca: durata due minuti, musica «delnostro amico parmigiano Gianfranco Maselli».Alle prese, di casella in casella, con ochette e al-tre incognite del labirinto animato, la figurinacomincia a farsi le ossa di futura star del cartoon.È in B/N ma già sprizza colore da ogni gesto. Unamarionetta muta e piatta, ma tutta ritmo e musi-ca. È nato un nuovo personaggio nel mondo del-lo spettacolo: solitario ma irruente, silenziosoma partenopeo, mediterraneo ma con ali di Cha-gall. Pulcinella, d’ora in poi, sarà sempre presen-te nel cinema di Gianini-Luzzati, anche quandonon c’è: nel Flauto Magico, dove la nidiata di Pa-pageno e Papagena è un vivaio di pulcinellini e,soprattutto, nella Gazza ladra del ‘64, complicedelle impennate fantasiose del predecessore, dacui impara la strategia del mare in rivolta, frulla-to a dovere dal vortice delle sue penne.

Ma è il Pulcinella da Oscar del ‘73 la rivoluzio-ne copernicana di una maschera: che succhia dalprototipo della Commedia dell’Arte ma accen-de, di suo, vulcanici fuochi d’artificio: la festa ri-belle della libertà, la disobbedienza permanentea convenzioni, norma, dovere. Un po’ Pinocchio,

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 AGOSTO 2007

MARIO SERENELLINI

LA PROIEZIONE

Tutti i Pulcinelladi Emanuele Luzzatie Giulio Gianini verrannopresentati dalla CinetecaItaliana di Milano alla 64ªMostra di Veneziail 6 settembre alle 18.30,in Sala Volpi. Tuttii Pulcinella sarà riproposto,in dicembre,al “Sottodiciotto” di Torino

un po’ monello di barricata post ‘68, Pul-cinella è diventato la preda in fuga da

ufficio-chiesa-famiglia: d’ora in poi,moglie, funzionari e carabinieri

sempre alle calcagna. Anche ilsuo identikit grafico è ormai de-finito. Affinato il look mario-nettistico del Carosello-Baril-la e abbandonato il coloregiallo delle origini, che, asso-ciato a un’accentuata indo-lenza di outsider, ne avevafatto un precursore del-l’Homer dei Simpson, ilPulcinella di Luzzati s’im-pone come una delle ma-schere più originali della ri-balta italiana del Novecen-to. I suoi compagni di giochi

non sono più Arlecchino ePantalone, né i vari Punch,

Polichinelle, Karagoz dei tea-trini europei, ma il Signor Bo-

naventura e Totò.Di entrambi, condivide la vo-

cazione teatrale e la serialitàespressiva: la fissità d’un repertorio

mimico al servizio di sempre nuoveavventure. Da Totò mutua lo sberleffo

ribaldo, travestimenti e acrobatici esca-motages e, soprattutto, il ritmico, danzante

singulto dei gesti. Del Bonaventura assimila la vi-

Piccole magie

di carta e luce

La Mostra di Veneziaricorda l’artista scomparsoproiettando i cinque cartoon

sulla maschera napoletana,creati con Giulio Gianinitra il 1959 e il 1985 e ora restaurati dalla CinetecaItaliana di Milano. Cinque gioielli di cui anticipiamoalcune immagini e una testimonianza dell’autore

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INEDITO

Il Pulcinellaqui accanto

è stato disegnatoda Luzzati nel 2001per la FondazioneCineteca Italiana

ed è un ineditoNella foto a destra,

Gianini e Luzzati

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 26 AGOSTO 2007

ta a colori nel mondo a due dimensioni di fumet-to e cartoon e la festosa essenzialità grafica, chelo ricopre d’una casacchina-sottanella, senzacalzoni né culottes: «Del personaggio di Tofano»,ricordava Luzzati, «mi aveva impressionato dabambino il colore rosso della casacca e del cap-pellino e mi avevano conquistato le storie in ri-ma: le ottave sul Corriere dei Piccoli, le divoravo,ripetendomele a memoria». Muto come il Bona-ventura (che è però sostenuto dal filo musicaledelle inesauribili «Qui comincia l’avventura...»),il Pulcinella di Gianini-Luzzati diventa sonoro ri-nunciando alla voce off della filastrocca, trovan-do invece un equivalente sinfonico, fluido eorecchiabile, alle ottave del Corrierino: la musi-ca di Rossini. «È il nostro sceneggiatore preferito,per la sua verve, la sua ironia», spiegheranno gliautori, che han costruito sulle ouvertures relati-ve i cortometraggi La gazza ladra e L’italiana inAlgeri e, sulla sinfonia del Turco in Italia, il so-gnante e rutilante Pulcinella. Un’arte combina-toria che trova la sua simbiosi perfetta nell’ine-dito Duetto dei gatti dell’85, dove si direbbe cheRossini e Pulcinella si divertono a rincorrersi e acanzonarsi, con la mascherina che, assecondan-do i virtuosistici “miaoo” irridenti al bel canto,non esita a farsi gatto, strusciando, la coda eret-ta, tra le gambe dei due soprani: giochetto da ra-gazzi, rispetto al Pulcinella, in cui s’era fatto gal-linella per scodellare (come già Totò) un biancoovetto o, attaccando uno spago alla luna piena,era potuto scendere a terra appeso al palloncino.

C’è chi ha sempre conosciuto Pulcinella fin dallanascita; c’è chi non l’ha mai conosciuto e forsenon l’incontrerà mai. E c’è chi l’ha incontrato a un

certo punto della sua vita e poi non l’ha più lasciato. Io ap-partengo a quest’ultima categoria: da piccolo conoscevoe amavo alcuni suoi simili come Bonaventura o Arlecchi-no, ma è solo nella piena maturità che, credo per caso, ungiorno ho incontrato Pulcinella e da allora mi accompa-gna sempre ovunque vado, qualunque cosa faccia e nonsi può dire certo che io non l’abbia anche ben sfruttato.

Appena l’ho incontrato l’ho subito raf-figurato a modo mio nelle pagine diun libro e non so perché l’ho ve-stito di giallo, cosa che non gli siaddice per niente. Ma quandodal libro lo stesso Pulcinella èmontato sul palcoscenico,ha indossato la sua solita ca-sacca bianca larga e sbraga-ta coi calzoni appena sotto ilginocchio, e quando poi èentrato da protagonista nelprimo dei nostri cartoni ani-mati addirittura ha perso an-che i calzoni ed è rimasto solocon la sua giacca-sottana quasi asottolinearne l’ambiguità: infatti ilfilm è appena incominciato che Pulcinella,inseguito dai carabinieri, si accuccia per un attimo e sfor-na un bell’uovo bianco prima di riprendere la corsa perpoi rifugiarsi nel suo letto a sognare.

Sognare: ecco, il mio amico Pulcinella passa quasi tut-to il tempo a sognare oppure a scappare da chi non gli per-mette di sognare: sua moglie, i carabinieri o alcuni perso-naggi soprannaturali come la morte o il diavolo. E cosa so-gna Pulcinella? Teatri lussuosi dove sarà il gran protago-nista, sogna ballerine e pagliacci, sogna di volare sulla lu-na, di passare le notti in un fantastico luna-park, e sognadi poter riposare sempre nel suo letto sul tetto della ca-setta in riva al mare. Ed è da quando ho conosciuto Pulci-nella che ho vissuto anch’io con lui i suoi sogni e questisogni talvolta son diventati realtà [...] Gli ho fatto fare pi-roette e salti mortali, lo si è potuto vedere in mille formediverse: sfottente, perdente, bastonato e bastonante, conil diavolo all’inferno, con gli angeli in paradiso.

Luzzati.Un incontroche mi ha cambiato

EMANUELE LUZZATI

Cari amici, ho visto il vostro Pulcinella. Beh, voi ri-cordate quanto mi era piaciuta La Gazza ladra,quanto avessi ammirato la fantasia figurativa, l’e-

stro umoristico, il senso della fiaba e le geniali soluzionigrafiche di quel vostro lavoro; non credevo avreste potu-to fare di meglio. Con gioia, invece vi dico che ci siete riu-sciti. Pulcinella è più bello, ha qualcosa di più, è prezio-sissimo e appartiene alla poesia perché si riferisce ad unsentimento che nell’altra vostra opera mi sembra fossemeno evidente, ed è il sentimento dell’umano, della sof-ferenza, del bisogno insopprimibile della giustizia…

Il vostro Pulcinella, pur rispettando la tradizione dellamaschera napoletana che lo vuole clown fantasioso e ca-nagliesco, surreale e tutto sprofondato nei problemi disopravvivenza animalesca, racconta soprattutto ildramma grottesco e straziante di un uomo che vuole contutte le sue forze essere libero...

Da una lettera a Gianini e Luzzati del 1973

Fellini.È un uomoche cerca la libertà

FEDERICO FELLINI

REPUBBLICA.IT

Da oggi, sul sitoRepubblica.it,uno specialeinterattivocon i disegnidi Pulcinella,il raccontodi EmanueleLuzzati e il cortonominatoagli Oscarnel 1973Una produzionemultimedialeRepubblica.it-RepubblicaTv-La Domenicadi Repubblica

LE IMMAGINI

I tre disegni qui sotto marcano le pizze dei film di Gianini e Luzzatidepositati alla Fondazione Cineteca Italiana di Milano. Dai film

della stessa Cineteca vengono le immagini in basso: la tarantelladi Pulcinella, il giuoco dell’oca e il duetto dei gatti. Dall’Archivio

del Museo Luzzati di Genova vengono invece i due disegni a destra:Pulcinella e il drago dei Carabinieri e Pulcinella e il pesce magico

Repubblica Nazionale

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50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 AGOSTO 2007

ChantillyLa maionese viene lavorata

con senape, sale, pepee un tuorlo. A parte, si montala panna e si aggiunge poco

per volta con un cucchiaiodi legno (movimento

dal basso all’alto). Sofficee delicata, si abbina

con verdure al vapore

TartaraNella sua ricetta originaria,la maionese si montaa partire da tuorli sodi,amalgamati con aceto, sale,pepe, senape, primadi lavorarli con olio a filoRifinita con cetrioli, capperi,prezzemolo e albumi tritati,è perfetta con le carni

AllioliNella all-i-oli catalana (ai-oliin provenzale) lo spicchiod’aglio, ridotto in pasta,viene lavorato nel mortaiocon un tuorlo (ma anchesenza), versando l’olioa goccia. Accompagna pesci– servita con crostininella zuppa – uova e verdure

«Lamaionese di un famoso chef o di una bra-va casalinga sarà incomparabilmente mi-gliore della miglior maionese industriale,perché dosare e condire prodotti freschi escelti per quattro commensali non è lo stes-so che produrre cinquemila vasetti al gior-

no, abbattendo i costi con qualità e quantità inferiori, e aggiun-gere prodotti chimici che contribuiscano alla conservazione, alcolore, alla dolcezza, consistenza, trasparenza, fluidità, acidità ealtre caratteristiche e sapori tipici degli alimenti conservati».

Certo, lo scrittore uruguaiano Daniel Echevarria non è ilmiglior testimonial possibile di Van den Bergh(Calvè) e Kraft, che insieme coprono oltre il set-tanta per cento delle vendite di vasetti e tu-betti alloggiati nelle dispense di tre quartidelle famiglie italiane. Il guaio è che loscollamento tra golosità e abilità culi-naria è ormai quasi assoluto. Amia-mo la maionese, versione salata del-la Nutella, capace di conquistare ipalati poco inclini al dolce sfaccia-to. Ma il fai-da-te ha smesso di ap-partenerci: i virtuosi della forchettasono fiori nel deserto.

Eppure l’emulsione stabile diolio frazionato in acqua, con tuorlod’uovo come emulsionante, aroma-tizzata con aceto o limone, come reci-ta l’abc della cucina, è una di quelle pre-parazioni-base che generazioni intere dimadri hanno insegnato alle figlie, insiemealla cottura della pasta e al soffritto di cipolla.Perché la maionese entrava in tante ricette quoti-diane e farla in casa testimoniava l’abilità della massaia.L’industria era confinata alle emergenze, con il vasetto/tubettodi scorta da assaltare per i supplementari di una superpartita, lavisita improvvisa degli amichetti dei figli, una crisi di fame arrab-biata a metà notte.

Poi abbiamo scoperto la tabella delle calorie e nulla è più statouguale. La parola maionese, infatti, gronda grasso da tutti i cuc-chiaini: sei-settecento calorie per etto, a seconda della concen-

trazione d’olio, extravergine o semi poco importa. Il più inno-cente dei tramezzini, il più dietetico dei filetti di pesce bianco, lapiù sana delle insalate di pollo, catapultati nel girone dei cibi dan-nati solo per aver ceduto a un baffo dell’emulsione peccaminosa.

Che fare? I cuochi si sono ingegnati, hanno provato, montato,diluito, fatto impazzire quintali di tuorli. Ognuno ha trovato lasua ricetta della maionese virtuosa. C’è chi alterna acqua e olio odiluisce con yogurt per ottenere un’emulsione chiara e lieve,ideale nei condimenti delle insalate — pollo, pesce, russa… —che altrimenti risulterebbero collose e pesanti. Altri alternano

semplicemente oli diversi: extravergine, comunque legge-ro come quelli del nord o da raccolte tardive, e gira-

sole, il più pregiato tra i semi. I convertiti alla tec-nologia inseriscono nel frullatore anche il

bianco dell’uovo, regalando consistenzaaerea, oppure sostituiscono il tuorlo

con altri elementi leganti o diretta-mente con lecitina, per una salsa a ri-dotto tenore di colesterolo.

Adattamenti e rivisitazioni quasimai riescono a cancellarne il fasci-no primordiale di sensuale esalta-trice per sapori timidi. Del resto iletterati del cibo concordano nelbocciare l’etimo più dotto della pa-

rola, ovvero l’arcaico vocabolo fran-cese moyeau, tuorlo d’uovo, in favo-

re di Mahon, antica città di Minorca eluogo di una battaglia campale a metà

Settecento. Raccontano che alla fine ilcuoco militare di Armand de la Porte, duca

di Richelieu, improvvisò una salsa a base di oliocrudo e tuorlo d’uovo per festeggiare la vittoria e

supportare i conseguenti festini amorosi.Se poi, malgrado le raccomandazioni dei puristi — cucchiaio

di legno, ingredienti a temperatura ambiente, pizzico di sale su-bito aggiunto al tuorlo e olio versato a goccia — la maionese dàsegni di pazzia, evitate accanimenti o crisi depressive e chiama-te in soccorso la vostra gastronomia di fiducia. Una vaschetta diinsalata russa preparata a regola d’arte vi riconcilierà con la regi-na delle emulsioni capricciose.

Tentazionii sapori

Ecco come una preparazione-basetramandata di madre in figlia è diventataun business per l’industriaalimentare. E come gli chefsi sfidano a demolirne le caloriesenza smarrirne il gusto

La versione salata della Nutella

I trucchiLa maionese è tabù e desiderio

impossibile per chi soffre di allergiaalle uova. In realtà, alcuni ingredienti leganti

come aglio frullato, latte, farina di soia, riduzionedi sugo di pesce possono sostituire il tuorlo

La ricetta molecolare prevede in alternativa l’usodella lecitina in polvere, da montare con l’olio

per una perfetta maionese senza uovo. Limonee aceto, coagulatori di proteine, aiutano

a stabilizzare emulsioni a rischio. Il bianco,aggiunto nel frullatore alla fine,

aumenta la spumosità

LE SALSE

Maionese

CocktailMai più senza nel cocktail

di gamberi (anni Settanta),è tornata in auge con l’happy

hour. La maionese-basesi rinforza con senape,

ketchup, worcestershiresauce, panna montata

e qualche goccia di cognacSi gusta con uova e crostacei

LICIA GRANELLO

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51DOMENICA 26 AGOSTO 2007

MICHELE SERRA

Prima ancora che il dibattito sul cibo e la gastronomiaassumesse i toni dotti di oggi, esisteva una animatachiacchiera sul mangiare, quasi sempre accesa dalle

rivalità nazionali e territoriali. Avevo una nonna francese,ottima cuoca (di taglio nizzardo) che amava molto le salse,e un nonno siciliano che ne diffidava assai. Divampava ognitanto, attorno a quella tavola, la polemica anti-salsista delnonno, il cui incipit era sempre lo stesso: «Perché hai na-scosto il pesce (o il pollo, o quant’altro) sotto questa infidarobetta?».

Il nonno era fermamente convinto che le salse fossero unespediente francese per fare scena e dissimulare la solidanatura del mangiare. Un’astuzia decadente, un imbroglio,come il belletto in eccesso di certe dame che vogliono dissi-mulare gli anni, e suppliscono alla perduta freschezza conl’inganno. «Io voglio masticare! — si lamentava — voglio i ri-gatoni al dente». (Non i maccheroni. I rigatoni, grossi e cor-ti). Credo che se il nonno fosse vissuto abbastanza da dove-re affrontare la stagione dei cibi destrutturati, sifonati e ram-molliti, avrebbe dato vita a un Fronte di Liberazione del Ci-bo da Masticare.

La maionese era però esentata dalle critiche sul “mal fran-cese” della cucina di mia nonna. Quasi non fosse una salsa,ma un cibo basico e naturale, un classico indiscutibile, uncondimento di valore universale come il sugo di pomodoroo l’olio d’oliva. Ovviamente fatta in casa, con relativa su-spense attorno al rischio di “impazzimento” del composto,battuta in una scodella fonda e giammai frullata meccani-camente, e neanche per sogno acquistata in vasetti o tubet-ti, sebbene i primi prodotti industriali cominciassero a po-polare gli scaffali dei negozi. Servita dunque nella salsiera diceramica bianca, esclusivamente accanto al pesce, a cuc-chiaiate dense e arrotondate, con quel suo bell’aspetto tra-slucido, la consistenza tanto pastosa da sfiorare la gommo-sità.

Il vaglio severo nel nonno si limitava dunque a stabilire seci fosse troppo o troppo poco limone, se gli ingredienti fos-sero ben legati, se l’uovo avesse preso il sopravvento e se l’o-lio (si era in Liguria) fosse all’altezza del compito. Ma le osti-

lità contro la cucina degenerata dei francesi erano sospese:la maionese non era «una salsetta» (termine con il quale ilnonno avrebbe liquidato con sprezzo le più eccellenti salsedel pianeta, quasi tutte francesi e dunque quasi tutte meri-tevoli di diffidenza), la maionese era la sposa eletta del pe-sce, specie dei branzini e delle orate che il nonno andavapersonalmente ad acquistare, di mattina presto, al merca-to del pesce, non fidandosi della propensione al risparmiodella nonna.

L’uso dilagante e stucchevole della maionese era di là davenire. Non esistevano ancora quelle tartine essudantimaionese, impossibili da mangiare senza sbrodolarsi lemani e i vestiti, che troneggiano in ogni bar, con misere ostiedi prosciutto o di altri salumi che annaspano nel profluviodi salsa. La maionese era un condimento specifico e non ge-nerico, aristocratico e non massificato, la sua comparsa eraun evento e non una regola, la sua preparazione un mo-mento solenne della settimana. Ma ciò che gli infidi france-si (per dirla con mio nonno) non riuscirono a imporre, e cioèla salsizzazione del mondo, è invece riuscito alla gastrono-mia usa e getta dei nostri giorni: trovare un panino al salameo al prosciutto che non sia tramortito dalle salse, e soprat-tutto dalle maionesi industriali, è diventata un’impresa. Equelle salse invece di arricchire dissimulano e nascondono,uniformano i sapori, impastano il palato.

La maionese, come ogni cibo, dovrebbe essere restituitaal suo specifico contesto. Oltre al pesce, trovo che stia beno-ne con l’insalata di pollo, e un tocco sobrio (non un alluvio-ne) aiuta anche l’insalata di riso. Rinuncio in partenza, inve-ce, a quegli impasti melmosi di gamberetti annegati nellamaionese, e in genere all’abuso di una salsa così squisita,quando è squisita, da trasformare gli altri sapori in inciden-ti, inglobandoli e cancellandoli. Non per caso la maionese èdiventata la risorsa dei disperati, quelli che frugano in fondoal frigo alla ricerca di un tappo per lo stomaco, e spremono iltubetto di maionese industriale su qualunque misero lacer-to di carne o salume o scatoletta di tonno per riuscire a man-darlo giù. La maionese va rispettata. Non è un lubrificanteuniversale. È un grande e raffinato classico europeo.

I PIATTI

Vitel tonnéUn tempo la salsa era un tritofinissimo di acciughe, tonno,capperi, diluito con poco olio

e limone. Gli stessiingredienti ora arricchiscono

una maionese che vestela carne (magatello, fesafrancese) cotta in acqua

e aromi e affettata fredda

Insalata di polloAltra ricetta-ricicloreinventata a piatto riccoI tocchetti di pollo – lessoo arrosto – si assemblanoa scelta con insalata verde,sedano rapa a julienne, melagranny, avocado, noci, olive,fagiolini. Diluite la maionesecon acqua, limone e yogurt

CapricciosaNella ricetta tutta-proteineche prevede fontina, linguadi vitello, petto di pollo,prosciutto cotto, mortadella,le verdure sono sottoli,sottaceti e insalate (lattugae rossa). Tutto tagliatoa listarelle e legato da unamaionese leggera al limone

Camillo e Loredana Rota – lui in sala,lei in cucina – gestiscono l’Osteria del Camelì,vicino a Bergamo. Squisito il vitello asciugatonel caffè, salsa tonnata e capperi croccanti,la carne adagiata sulla maionese arricchita

L’offertadel capoluogoemiliano pencolaallegramentefra grandetradizionegastronomicae modernità coltaLa salsa tonnata

viene impreziosita con aceto balsamicoLa Caesar Salad di Massimo Botturaè profumata con maionese di mango e papaia

DOVE DORMIREHOTEL CENTRALEVia Rismondo 55Tel. 059-218808Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREOSTERIA FRANCESCANAVia Stella 22Tel. 059-210118Chiuso domenica, menù da 70 euro

DOVE COMPRARELA DISPENSA DI GIUDITTACorso Canalchiaro 136Tel. 059-238345

ModenaOltre ai pessimiluoghi di show-food, la cittàdella modaaccoglie anchegastronomiee ristorantid’elezioneDa non perdere

gli strepitosi ravioli di maionese e il sandwichdi russa caramellata creati da Carlo CraccoDa comprare, l’insalata di sedano rapa

DOVE DORMIREB&B SANT’AGOSTINOVia San Vincenzo 18/DTel. 02-2047124Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARECRACCOVia Hugo 4Tel. 02-876774Chiuso domenica, menù da 75 euro

DOVE COMPRAREGASTRONOMIA CAMPAGNOLICorso Vercelli 14Tel. 02-48005361

MilanoStraordinario pologastronomicoretto da MorenoCedroni e MauroUliassi, doveperfino le salse-base sonoreinventatecon modalità

inusuali e strepitose, dalla maionese di totanocon hot dog di calamaro alla bouillabaissecon rouille al merluzzo

DOVE DORMIREDUCHI DELLA ROVERE (con cucina)Via Corridori 3Tel. 071-7927623Camera doppia da 120 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREMADONNINA DEL PESCATORELungomare Italia 11, Località MarzoccaTel. 071-698484Chiuso lunedì, menù da 60 euro

ULIASSIBanchina di Levante 6Tel. 071-65463Chiuso lunedì, menù da 70 euro

Senigallia (An)

itinerari

‘‘Le mani nereIn tutte le questioni culinarie

Kamante era di una straordinariaabilità manuale. I grandi trucchi

e i tours de force della cucinaerano giuochi da bambini

per quelle sue mani nere e curve,che avevano innata la scienza

delle omelettes, dei vol-au-vents,delle salse e della maionese

Una bontà via via impazzita

Da LA MIA AFRICA

di Karen Blixen

Insalata russaLa ricetta tradizionale —

patate, carote e piselli,maionese al limone — viene

impreziosita con capperi,tonno, uova sode, sottaceti,

mela. Essenziale la cotturadelle verdure, croccanti

e al vapore. In Russia vienechiamata insalata Olivier

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le tendenzeDivise alla moda

Una bizzarra mostra al National Maritime Museum di Londrariporta sotto le luci della ribalta un’eleganza che viene da lontanoVestire alla marinara è un gesto di appartenenza all’“upperclass” e, nello stesso tempo, un atto di ribellione e irriverenzaPerché il mare è frequentato sia dagli ammiragli che dai pirati

52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 AGOSTO 2007

Vestire alla marinara deveessere un po’ come fare un salto diclasse, un upgradingsociale che è tra-sversale agli ambienti, alle epoche, al-le cose. Tante sono le vie: dalle grandifirme della moda, a metà

fra il bon ton e l’irriverenza, fino al nonritorno, alle mascherate delle rock star,alle icone, ai miti, alla nostalgia, alle leg-gende del cinema.

Negli eterni corsi e ricorsi non dellastoria ma del costume indossare i pan-ni dell’ufficiale di marina, ma anchedel semplice mozzo, è una conquistadecorativa e fotogenica, un puntod’arrivo, un’affermazione di elegan-za. Si vestivano alla marinara i bam-bini dei ricchi, vedi i figli della reginaVittoria e vedi, com’è ovvio, l’Avvo-cato e i suoi fratelli e soprattutto lesue sorelle. «Don’t forget you are anAgnelli», era il monito che l’infles-sibile Miss Parker ripeteva ai ra-gazzi, imprigionati nei loro bave-ri blu bordati di bianco. L’Italiaricca vestiva alla marinara, quel-la povera non aveva neppure le scar-pe per camminare.

Cartoline ingiallite degli anni Venti, una tenuta,quasi una divisa, che era un immediato sinonimo diceto e di censo. In Svezia l’agiata famiglia borgheseraccontata da Ingmar Bergman in Fanny e Alexan-der è filtrata attraverso gli occhi dei due omonimibambini anche loro implacabilmente vestiti allamarinara. Indossava un timido abitino con il collo damarinaretto l’impacciata e giovanissima Lady Dia-na il giorno in cui, a occhi bassi, arrossendo, posò perle fotografie del fidanzamento. E non scelse forseuna divisa di gala da ammiraglio, scintillante di me-daglie e decorazioni, Carlo d’Inghilterra per portarescenograficamente all’altare la sua sposa?

Per un (ex) impero e per una grande potenza na-vale tutto quello che è legato alla marina è sinonimodi prestigio, potere, dominio, identità nazionale. E ditradizioni codificate. Il cosiddetto sailor chic tantocaro alle riviste di moda evoca e suggerisce uno stiledi vita upper class, crociere, lusso, esclusività, privi-

legio, vacanze a bordo del Britannia o negli Hamp-tons, uscite in barca a vela, regate, sport, benessere,donne sottili e dal fisico aristocratico. Ti immaginisubito Jacqueline Kennedy in pantaloni alla pesca-tora — più elegantemente denominati Capri pantsin inglese — con sopra una casacca rigata da mari-naio. Idem per le due Hepburn, Katharine e Audrey:nessuna ha portato una maglia a strisce orizzontalibianche e blu con la loro classe (e la loro magrezza).

Al cinema poche ambientazioni funzionano co-me quelle di carattere marinaro. E pochi costumihanno un simile appeal coreografico. I pantaloni avita alta con la schiera quadrata di bottoni per Gin-ger Rogers, la giubba da marinaio per Fred Astaire:eccoli imbarcati in Seguendo la flotta più leggiadriche mai. Lui a ben vedere porta la stessa giacchettadi due grandi eroi dei cartoon: uno è Braccio di fer-ro, meglio noto come Popeye the sailor man, e l’al-tro è il più amato di tutti: Paperino. Anche Paperino

veste alla marinara.Certi bianchi tailleur pantaloni a doppio petto,

caricatura di un’uniforme da ufficiale di marina,hanno reso immortale Marlene Dietrich. Ed è uncandido collare inamidato su abiti maschili che laRegina Cristina incarnata da Greta Garbo indossa,immobile sulla prua del suo vascello, mentre navi-

ga verso l’esilio. Il fascino dell’ambiguità: il piùesteta dei dandy, Cecil Beaton, adorava nellaGarbo l’androginia e la perseveranza con cui,fuori dal set, la Divina sceglieva di vestirsi conabiti militari che andava a comprarsi in inco-gnito nei magazzini riservati all’esercito e allamarina degli Stati Uniti.

Nella moda, nell’iconografia pop, nella dit-tatura dell’immagine il sailor chic ha unadoppia valenza, altamente contraddittoria,quella perbene e quella corsara: da un latol’innocuo bon ton, la tradizione, la classe, ilbuon gusto, il Riviera style, e dall’altro latol’irriverenza, la trasgressione, persino lasovversione, lo slittamento dei generi. Ilmarinaretto evoca disciplina, ordine, co-raggio ma contemporaneamente ancheindipendenza e ribellione. Assume i con-torni di icona gay, luttuosa come in Que-relle de Brest, giocosa e ribalda come nel-la versione non più marinaio o ammuti-nato del Bounty bensì Pirata dei Caraibi,come lo ha portato sullo schermo

Johnny Depp: un omaggio a Keith Richards, il chi-tarrista dei Rolling Stones che primo fra tutte le rockstar, prima di David Bowie, prima dello stesso MickJagger, si travestì chiassosamente da bucaniere. In-solente e sgangherato.

Oggi si veste sailor chic Carolina di Monaco, pro-babilmente griffata Chanel, e si veste sailor chic Ka-te Moss, ninfa egeria dei grandi magazzini. Vivien-ne Westwood la dissacratrice ha aperto la strada or-mai un quarto di secolo fa, e ogni stagione, specie seestiva, è tutta un nautico fiorire di “Vestiremo allamarinara”. Navy è anche il nome di un colore: il co-lore più amato di tutti, quel particolare punto d’az-zurro, cupo e austero. E non è, sobriamente, sem-pre vestito — a suo modo — alla marinara GiorgioArmani, che anche nelle occasioni più eleganti nonrinuncia alla sua maglia giro collo bleu marine? «Ohcapitano! Mio capitano! Il nostro viaggio tremendoè finito, la nave ha superato ogni tempesta».

LAURA LAURENZI

Perbene e ribaldo, uno stile doppio

TRASVERSALELo stile nacquein Gran Bretagna,ma si diffuse ovunqueLo dimostra questadivisa russa del 1940

PICCOLO PRINCIPELa regina Vittoria fece confezionare dal sarto della flotta imperiale questa divisa per il figlio Albert Edward

NEOROMANTICOLa stilista ingleseVivienne Westwoodvoleva creare“qualcosa di romantico”quando disegnòquesto abito da pirataper la collezionedella primavera 1981

BAMBINI DI CLASSESulla scia del principe Albert Edward,

la moda da marinaio prese piedetra i figli dell’alta borghesia

Qui sotto, il catalogo della sartoriadi Sir John Barran, fondata a Leedsnella seconda metà dell’Ottocento

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 53DOMENICA 26 AGOSTO 2007

COSTUME PER LEIA inizio Novecento erano ormaiassodati i benefici del mareper la salute. L’uso di passarele vacanze nelle località costieresi diffuse tra la borghesiaCon costumi come questole donne potevano passeggiaresulla spiaggia, andare in barcae fare il bagno senza scoprirsi

ARENATI SULLA SPIAGGIALa collezione primavera-estate2005 di John Galliano ricreail fascino romantico dei pirati,con un tocco ben evidentedi moda da spiaggia

DAL PONTE ALLA PASSERELLANel 2003 lo stilista sardo AntonioMarras disegna per Kenzoquesto abito, che dai pantalonial cappello mette insiemetutti i temi della moda marinaia

IN TESTA A NELSONCon questo cappelloin testa l’ammiraglioOrazio Nelsoncombatté la battagliadi Copenaghen nel 1801

PATRIOTTICHELe donnein divisada marinaioeranoconsiderateparticolarmenteefficacinello stimolareil patriottismoin tempodi guerra

IN MUSICALa locandinadi Anchors aweigh,il musical del 1945che ebbe per protagonistiGene Kelly e Frank Sinatra

ELEGANZA UFFICIALEL’uniforme da ufficialedella Marina britannicagià nell’80 ha tuttigli elementidell’eleganza marinara,dai bottoni in ottoneai pantaloni chiari

COSTUME PER LUICostume da bagno da uomodi inizio Novecento. A differenzadel suo equivalente femminileè di cotone. Anche se copreil corpo quasi per interoè attillato e permettedi nuotare con agilità

LONDRA

«Vorrei essere un uomo per potermi ar-ruolare in Marina». Sarà forse nato per unire unanazione nello sforzo della Prima guerra mondia-le, ma il manifesto con una donna sorridente indivisa bianca e blu ci ha messo poco a virare dalpatriottismo alla moda. E i pantaloni larghi chefileggiano al vento con la maglietta a strisce oriz-zontali sono diventati una passerella che i duegeneri ormai percorrono in un senso e nell’altro.

Da quella passerella negli ultimi centocin-quant’anni sono passati in molti. E a mettere in-sieme chi ha vestito alla marinara per guerra, pergioco o per seduzione erotica si ottiene la più ca-leidoscopica compagnia mai riunita tra le muradi un museo. A Greenwich d’altronde, archetipodi tutti i meridiani, non ci si stupisce più di tantose accanto all’ammiraglio Orazio Nelson, l’eroedella battaglia di Trafalgar, ci si volta e si incontral’eccentrico pirata di John Galliano. Il primo nel-la sua elegantissima uniforme blu, intaccata soloda un foro di proiettile, cessò di vivere. Il secondousava salutare il pubblico delle sue sfilate vestitocome un filibustiere effeminato e maledetto.

Nel National Maritime Museum a sud-est diLondra, che racchiude la storia navale dell’Im-pero britannico, è aperta fino al 2 dicembre lamostra Sailor Chic, Fashion’s Love Affair with theSea. Nel tempio della marineria mondiale, tragradi da ufficiale e bottoni di ottone, sono sbar-cati cantanti androgini e stilisti, principi e balle-rine, attrici di operetta o semplici bagnanti. Lecorrenti più diverse li hanno portati qui, semprein nome di una divisa, offuscando la linea d’oriz-zonte che separa terra e mare, realtà e arte, ele-ganza e gusto kitsch. E creando ovviamente con-tinui salti di genere tra uomo e donna.

Il primo a trascendere il proprio ruolo fu il prin-cipe Albert Edward, per cui la madre, la reginaVittoria, fece realizzare una perfetta divisa damarinaio. Nel 1846 il futuro Edoardo VII avevasolo quattro anni, ma il giorno in cui indossò lasua tenuta bianca e azzurra, Vittoria annotò neldiario: «Bertie oggi ha provato la sua divisa damarinaio, splendidamente confezionata dallostesso sarto di bordo che veste i nostri uomini.Quando è apparso, gli ufficiali e i marinai che era-no schierati sul ponte lo hanno applaudito. Era-no deliziati». Tenendosi in equilibrio tra classeimperiale e zuccheroso senso materno, Vittoriaandò oltre e commissionò al pittore di corteFranz Xaver Winterhalter un ritratto del princi-pino in divisa bianca, capelli biondi e occhi cele-sti con sfondo di mare blu: immagine che è oggiil logo della mostra Sailor Chic.

La figura di “Bertie” in una poco mascolina di-visa da marinaio, applaudito da ufficiali delizia-ti sul ponte di una nave, per la moda fu un colpodi cannone. A partire da quegli anni, il mare e isuoi uomini si trasformarono in un prisma ascomporre il quale si divertirono tutti i maggioristilisti. I loro disegni — in alcuni casi anche i capiveri e propri — sono esposti a Greenwich. Dal ge-nere “Glam Rock” di David Bowie e degli stilisti diChelsea fino alla divisa da pirata creata da una Vi-vienne Westwood alla ricerca di «qualcosa di ro-mantico» e alle marinaie di Antonio Marras, cheper ispirarsi è sempre rimasto al blu della sua Sar-degna.

Faccia a faccia Nelsone il corsaro di Galliano

L’esposizione londinese

ELENA DUSI

ALL’ANCORALo stile alla marinaranon risparmia gli accessori,come il fazzolettocon ancora applicataa punto turco di questo figurinoapparso su Le Jardindes Modes nel 1932

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54 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 26 AGOSTO 2007

‘‘

‘‘l’incontroSecond life

PANTELLERIA

Ha sempre avuto unosguardo magnetico Caro-le Bouquet. Quando peròarriva a Pantelleria gli oc-

chi le brillano di più. Splendono come lapietra nera che la circonda, lava che scal-da anche lei. Smentisce, una volta per tut-te, la leggenda che la vuole di ghiaccio esorride di se stessa: «Qui ho scoperto diavere l’audacia dei timidi». In quest’ago-sto di fuoco, che sembra rendere liquidepersone e cose, lei è sempre perfetta. L’i-sola le fa da sfondo. Selvaggia e un po’schiva, se la conosci ti accoglie con ina-spettata dolcezza, proprio come Carole.«Questo mese compio cinquant’anni epotevo fuggire da qualsiasi parte delmondo ma ho deciso di festeggiarli aPantelleria, come capita ormai da tantotempo, con i miei figli e gli amici più cari».

E proprio la mattina del suo com-pleanno, la femme fatale che ha fatto so-gnare la Francia, sembra ancora giova-nissima. Una ragazza dolce con appenaqualche ombra sulla fronte. Si muove ar-monica tra le sue terre. Le tocca con pas-sione. Ne ricava energia e serenità. «Dueanni fa ho prodotto la mia prima bottigliadi passito», spiega, «e quando l’ho avutatra le mani ho pianto». In realtà la sua sto-ria d’amore con questo scoglio incande-scente, a metà strada tra Tunisia e Sicilia,è iniziata molto tempo prima. «Ero a unacena a Parigi e la mia amica Isabella Ros-sellini, che ha sempre avuto grande fan-tasia nel raccontare le situazioni, mi haparlato di un’isola sperduta nel Mediter-raneo dove la gente viveva nelle grotte ein cui, a causa del violento e improvvisoscirocco, potevi impiegare giorni per ar-rivare e molti di più per andare via. Mi so-no detta che doveva essere un sogno e hoaffittato la mia prima casa qui».

Mentre si racconta il divano arancionele illumina l’abbronzatura. Non peserà

più di cinquanta chili, nel camicione afri-cano celeste polvere. Ma è anche solida.Uno strano connubio di astrazione erealtà. Non indossa gioielli eppure brilla.Ha un fisico scattante, dono degli dei edelle nuotate che ogni giorno, incurantedelle correnti e delle meduse, affrontacon bracciate sicure. Si tuffa dal Triche-co, il peschereccio che ha ristrutturato edipinto con colori squillanti, e nuota feli-ce. Una donna divertita e divertente chericava luce dal suo giardino segreto. «Lamia prima estate qui sono arrivata con unfiglio e parecchi amici e il vento è stato ga-lante con me e non mi ha respinto, anchese credo sia stata proprio l’imprevedibi-lità di Pantelleria a conquistarmi. Amo ilfatto di essere prigioniera di qualcosa chenon dipende da me, questa apparentecostrizione mi ha restituito la libertà e li-berato dal senso di colpa che avevo sin dabambina, trovo sia meraviglioso non riu-scire a partire, essere ferma per qualcosadi cui non sono responsabile».

Carole smette di parlare all’improvvi-so. Dall’ombra della casa esce un ragaz-zo di rara bellezza. Occhi blu e capelli ne-ri arruffati, si avvicina, la bacia e le fa gliauguri. È Luigi, il figlio ventenne che insettembre volerà a New York per iniziarela sua vita da adulto. Farà il regista. «Miimpressiona il fatto che vada a New Yorkperché ha la stessa età che avevo io quan-do mi sono trasferita in America». Dopopochi minuti arriva anche Dimitri, il piùgrande. Più nordico, con un lungo ciuffodi capelli castano chiaro che brilla sotto ilsole. Abbraccia la mamma e si allontana.Poi ci ripensa, torna indietro e le dà un al-tro bacio. Cinquant’anni portati così me-ritano un doppio festeggiamento. «I mieiragazzi hanno un rapporto bellissimocon Pantelleria, da bambini invitavo perloro tanti amici perché qui non esistevamondanità e temevo che si sentisserotroppo soli. Ora la vivono con grande li-bertà e qualche giorno fa Dimitri mi hafatto promettere che non venderò mai lacasa e la terra». E gli uomini di Carole, an-che loro hanno tanto amato l’isola? «Nonfacciamo nomi naturalmente», sorrideironica, «ma posso dire che non apprez-zavano l’aspetto selvaggio, più io cerca-vo l’anima estrema e più loro rincorreva-no qualche comodità. Inoltre capivanoche il vino era una cosa solo mia e troppopersonale, che non potevamo condivi-dere in alcun modo».

Basta, l’argomento è chiuso. Riprendeil racconto su Pantelleria con Carole chesi accende e quasi ti culla con quell’ac-cento francese che rende musicali anchele parole più banali. Beve un bicchierd’acqua e si lega i capelli. Ci saranno qua-ranta gradi ma sembra non accorgerse-ne. «Quando ho visto questa casa la pri-ma volta, l’avrei voluta comprare subitoma chiunque mi sconsigliava perché erauna riserva naturale. Così non ho dettoniente a nessuno e l’ho comprata lo stes-so». Tanta caparbietà ha una ragione.«Sono sempre stata una ragazza di cittàsenza radici, a Parigi non ho mai deside-rato di possedere un appartamento o un

e con il mare qui non sarei nessuno». Inquesta strana favola però c’è dell’altro.Della fatica e del lavoro vero. «Venire quiin vacanza era bellissimo però sentivoche volevo di più. Ho sempre desideratoun’identità italiana e ho capito che nonpotevo conquistarla con un passaportonuovo ma esclusivamente lavorando inItalia e ho comprato anche una cantinaper produrre da sola il passito».

La “second life” di Carole Bouquetcoincide con la sua prima vendemmia.Che non è una cosa facile. «La vendem-mia è come girare un film. Ciascuno de-ve avere un ruolo e il regista dirige i varipassaggi». Bisogna fare tutto a mano,stendere l’uva ad essiccare perché il soleè il vero pesticida biologico. La primabottiglia l’ha disegnata l’art director diCoppola perché la signora seduta consemplicità sotto il pergolato, anche secerca di camuffarsi da isolana, rimanepur sempre un mito. «Da due anni sonoperfettamente autonoma perché quan-do facevamo il vino nelle cantine degli al-tri mi sembrava d’indossare un vestitonon mio. Ho cercato un enologo bravis-simo e sono andata a trovarlo in Piemon-te, per convincerlo ad aiutarmi, e con luisiamo andati in Russia e in Georgia perstudiare i metodi migliori. Solo allora hocreato un passito che assomiglia alla miaidea di Pantelleria, alla luce dell’isola».Sette anni di lavoro per la prima bottiglia,solo trenta secondi per dargli un nome.«Ero in aereo seduta accanto a un tipo chemi ha chiesto come lo avrei chiamato e gliho risposto “Sangue d’oro” senza pen-sarci su».

Sarà che lei, così apparentemente ete-rea, è abituata alle risposte istintive. Dipancia. Spiega che sono il solo modo pernon essere delusa dalla vita. Se si pensatroppo a una cosa e poi non si realizza al-lora la sofferenza è insopportabile. Men-tre non avere sogni e lasciare che le coseaccadano naturalmente preserva dalledelusioni. «Avevo diciassette anni quan-do una persona m’interrogò su cosa avreivoluto fare da grande, e ho risposto “l’at-trice” senza averlo mai immaginato pri-ma. Dopo un mese ero iscritta a unascuola di teatro e nel giro di un anno LuisBuñuel mi chiamava ad interpretareQuell’oscuro oggetto del desiderio». Unfilm che ha acceso le fantasie degli uomi-ni di tutto il mondo. Il carattere natural-mente timido della Bouquet, poi, ha fat-to il resto. Un mix che ha contribuito acreare di lei un’immagine altera e inarri-vabile. L’ha resa un’icona. «In realtà hoaccettato la bellezza, e soprattutto lafemminilità, abbastanza tardi. Durante ilfilm di Buñuel non volevo che mi vedes-sero con gli occhiali, di cui mi vergogna-vo come una colpa, e ho girato i ciac sen-za vedere nulla, visto che ero già allorapiuttosto miope. Dopo qualche anno, daChanel mi chiesero di prestare l’immagi-ne e ho detto di no perché non mi sentivoall’altezza. Poi, quando ho compiutoventotto anni e stavo girando Troppo bel-la per tedi Bertrand Blier, ho capito quan-to la natura era stata generosa con me e

giardino, e solo arrivata qui ho capito chepotevo crearmi un’identità. In questapietra nera mi sento me stessa e ho biso-gno di questa luce perché è il mio Prozacnaturale, il mio antidepressivo e la cultu-ra che non ho mai avuto».

E con calma, ma senza mai arretrare diun passo, questa donna volitiva ha in-grandito negli anni la proprietà attornoal dammuso. Ettaro dopo ettaro. Hacomprato la terra da quaranta personediverse, parlando con tutti personal-mente, bussando ad ogni porta e convin-cendoli con grazia. Ora i panteschi laconsiderano una di loro. «Riesco a guar-dare Pantelleria con l’occhio dell’amoreproprio perché non sono di qui, quandoarrivo all’aeroporto di Trapani che è ve-ramente brutto già sono contenta». Nonsembra sentirne le durezze. Gli ostacoli.«Il fatto di essere donna mi ha aiutato, ionon sono stata aggressiva con gli isolanie loro lo hanno capito, mi hanno protet-to sempre e poi sono convinta che la di-versità aiuta, io senza persone comeNunzio e Gigi che mi aiutano con le terre

ho deciso di accettare la proposta dellamaison».

La sua non è una bellezza che la impri-giona, anzi. Non ha paura d’invecchiaree non sembra conoscere l’ossessionedella seduzione. «Se trovassi un chirurgoestetico che riesce a mantenere un visogiovane in modo naturale probabilmen-te ci andrei immediatamente, ma le ope-razioni mal riuscite mi fanno paura per-ché mostrano il terrore del tempo chepassa. Quando vedo un viso in cui si leg-ge chiaramente il segno del botulino ca-pisco la disperazione che c’è dietro, men-tre una donna oltre i cinquanta con le ru-ghe è bellissima».

Mentre parliamo una giovane coppiadi inglesi bussa alla porta. Hanno sapu-to che nelle vicinanze un piccolo dam-muso è in vendita. Vorrebbero sapere ilprezzo. Carole ride, spiega che la cifra èda capogiro ma li consiglia di provareugualmente a chiedere informazionigiù in paese. Magari è anche per lorol’opportunità di un’altra vita. «Io sonostata fortunata perché ho vissuto millevite, anche adesso continuo a fare laprofessione di attrice perché la terra neha bisogno, visto che i guadagni con il vi-no sono ancora pochi e le attrezzaturecostano molto care. Ma soprattutto per-ché mi piace recitare da donna libera, fi-nalmente conosco il mio mestiere e loaffronto senza avere paura di sbagliarementre, per anni, ho avuto il terrore deimiei errori e giudicavo tutti migliori dime». Da gennaio sarà di nuovo a teatro aParigi e reciterà in tre film di cui uno pro-dotto dal figlio Dimitri. «Ma posso ac-cettare solo lavori che m’impegnino perpoco tempo perché Pantelleria ha biso-gno di me e io ho bisogno dell’isola».

Si alza, si guarda attorno e si perde an-cora nei racconti lontani: «Da bambinaero angosciata dal rischio di annoiarmi,quando pensavo al futuro dicevo “vorreitanto una vita che somigli a una vita” e,forse, sentivo già allora che non ero adat-ta per fare una cosa sola».

Trovo che una donnacon le rughe,dopo i cinquanta,sia bellissimaQuando vedo un visoin cui si leggeil segno del botulino,capiscola disperazioneche c’è dietro

Prima un antico dammuso,poi la terra comprata poco a pocoda quaranta proprietari diversi,finalmente due anni fa la sua primabottiglia di passito “Sangue d’oro”

Così questa iconadi bellezza per le plateedi tutto il mondoha messo radicinella lava assolatadi PantelleriaE nel giorno dei suoicinquant’anni racconta

i progetti di lavoro, che devono esseretutti brevi “perché l’isola ha bisognodi me e io ho bisogno dell’isola”

Carole BouquetF

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IRENE MARIA SCALISE

Repubblica Nazionale