Cultura Commestibile 104

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N° 10 4 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Cultura Commestibile si ferma per le vacanze natalizie Torneremo puntuali sabato 10 gennaio 2015 Auguri Fabrizio Rondolino Iscritto nel 1977, dal 1986 al 1988 nella Direzione nazionale della FGCI Federazione Giovani Comunisti italiani Morire per delle idee, va bè, ma di morte lenta

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N° 104

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Cultura Commestibile si ferma per le vacanze natalizieTorneremo puntuali sabato 10 gennaio 2015

Auguri

Fabrizio RondolinoIscritto nel 1977, dal 1986 al 1988 nella Direzione nazionale della FGCIFederazione Giovani Comunisti italiani

Morire per delle idee,va bè, ma di morte lenta

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Da nonsaltare

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Simone Lenzi non ha biso-gno di presentazioni: scrit-tore e frontman del gruppo

Virginiana Miller, dimostra in questo testo raccolto durante la serata di presentazione della ri-produzione anastatica dei “Canti Orfici” di Dino Campana, realiz-zata dalle Edizioni Cronopio in collaborazione con l’associazione “Cometa rossa”. La pubblicazione è costituita da un cofanetto che racchiude la ristampa anasta-tica, fedele e accurata, del libro stampato dalla tipografia Ravagli nel 1914, un quaderno critico di introduzione e nota bio-bi-bliografica a cura dello scrittore e studioso argentino Gabriel Cacho Millet e, novità assoluta, un CD audio con i Canti orfici letti per la prima volta integralmente da Claudio Morganti. Si può acquistare in libreria o contattan-do l’associazione Cometa Rossa (tel. 3356677849 Dino Castro-villi, e-mail [email protected]).

Questa sera vorrei leggere e commentare alcune poesie tratte dalla riedizione anastatica dei Canti Orfici, realizzata dalle Edizioni Cronopio. Ho scelto la poesia attraverso la quale io da adolescente mi sono innamora-to di Dino Campana e della sua poetica: Barche amorrate. L’edi-zione di Cronopio ha innanzi tutto il pregio di ripristinare il titolo originario che è, appunto, Barche amorrate. Nelle edizioni successive a quella originaria di Marradi del 1914, non si capisce bene per quale motivo, il titolo diviene Barche amarra-te. Ma “amorrate” invece, vuol dire altra cosa: da una voce del dialetto genovese, vale per “are-nate”, dunque “Barche arenate”. Che, capite bene, è esattamente il contrario di “ammarate”. Volevo leggere questa poesia e spiegare in maniera breve e an-che, purtroppo, confusa, perché mi innamorai di questo poeta.

Barche amorrateLe vele le vele le veleChe schioccano e frustano al ventoChe gonfia di vane sequeleLe vele le vele le vele!

Che tesson e tesson: lamentoVolubil che l’onda che ammorzaNe l’onda volubile smorzaNe l’ultimo schianto crudeleLe vele le vele le vele

Ecco, definirei questa poesia abissale. Perché? Contini ha det-to che Campana non è un poeta visionario, ma è un poeta visivo. Ora io sono di quelli che crede che Contini ha sempre ragione. Ora, se Contini non sbaglia mai, io credo che abbia ragione anche questa volta. Quando usiamo l’aggettivo “visionario” in genere ci riferiamo ad una visione che è spostato più in là: l’oggetto di una visione, di un visionario non è qui ed ora; ma è una visione che riguarda un altrove, le cose che ancora non sono. Ecco, Campana non è questo. Campana è il poeta di una visione che è qui ed ora. Rileggo: Le vele le vele le veleChe schioccano e frustano al ventoChe gonfia di vane sequeleLe vele le vele le vele!

La prima cosa che mi colpì di questi primi quattro versi fu l’anafora ingannevole dei due

“che”: Le vele le vele le vele/Che schioccano e frustano al vento. Questo primo “che” vale per “le quali”. Il secondo “che”, invece, riguarda il vento. Quando un poeta colloca due parole in ana-fora, in realtà ci sta dicendo che queste sue parole sono la stessa parola eppure in questo caso sono due parole diverse. Perché un “che” vale per le vele e l’altro invece vale per il vento. Ecco, la cosa interessante che notiamo subito in questi quattro versi è che se questi due “che” sono contemporaneamente la stessa parola e un’altra parola, allora le vele e il vento sono necessa-riamente la stessa cosa. Questo ci sta raccontando Campana in questo momento: le vele sono al vento, sbattono nel vento e il vento sbatte le vele e vele e vento sono la stessa cosa. Ma questo abisso che ritorna su se stesso, si sviluppa ulteriormente nei versi successivi: Che tesson e tesson: lamentoVolubil che l’onda che ammorzaNe l’onda volubile smorzaNe l’ultimo schianto crudeleLe vele le vele le veleQui lo stesso gioco che nei primi quattro è stato fatto con il

“che”, lo gioca l’aggettivo “volu-bile”.Volubile in senso veramen-te letterale: il lamento è volubile come le vele nel senso che si volge, a destra e a manca, ché è il vento che smuove l’onda. Vo-lubile si riferisce al lamento che quindi è il rumore delle vele, ma si riferisce anche all’onda. Ecco, dunque, che alla fine notiamo che vele, vento, onda e lamen-to sono quattro nomi per la stessa cose, per una visione che è unica e che riverbera all’infinito. Questo riverberare all’infinito e quindi questo chiudersi del cerchio fa sì che la poesia finisca esattamente come era iniziata: le vele le vele le vele.Interessante, a mio avviso, anche che se volessimo rintrac-ciare un accadimento in questa poesia, il penultimo verso, Ne l’ultimo schianto crudele, potreb-be essere interpretato come una spiegazione per quell’ammorate che finalmente la riedizione anastatica di Cronopio ci resti-tuisce. Cioè l’ultimo schianto crudele è l’accadimento di que-sta barche che infine si spiaggia-no. E questa è sicuramente una interpretazione plausibile.Ma ce n’è un’altra che che si riferisce non tanto ad un accadimento, quanto al bisogno di chiudere il cerchio di quella visione. Cioè l’ultimo schianto crudele è l’epifania di questa stessa visione. Con quest’ultimo schianto crudele Campana sta esprimendo non tanto quello che succede, ma una verità po-etica che è forse più profonda. La cosa che colpisce di questo penultimo verso, Ne l’ultimo schianto crudele/Le vele le vele le vele, è qualcosa che poi ho ritrovato un po’ ovunque nei Canti Orfici. Qualcosa che non so spiegare con precisione, ma che potrei definire così: Campa-na è, secondo me, il poeta che

Lenzi Campana

di Simone Lenzitesto raccolto da Simone Siliani legge

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meglio ha usato la “r” e la “l”. Può apparire forse ingenuo, ma questa è davvero una costante nella musicalità di Campana. Pensate all’uso di parole che fa come “invetriata”, “barbaro” che sono parole ricorrenti e che sono sempre accostate a parole con una grande liquidità, come le vele, per esempio. Ricordate il “panorama scheletrico del mondo”? “Scheletrico” è un’altra parola che torna spesso. Per me, quando lessi per la prima volta Campana, questo fu l’aspetto che musicalmente mi colpì di più.Vorrei leggervi un’altra poesia. Non leggo, ovviamente, nessuna poesia maggiore perché dopo che l’ha fatto Carmelo Bene mi sembra quasi irriguardoso. Invece vi leggo una poesia “mi-nore”, semplice, facile: La petite promenade du poète. Questa poesia, da un punto di vista formale, è una poesia semplice, giocosa. Innanzi tutto la scelta metrica: è scritta in ottonari. L’ottonario nella poesia italiana è un verso della poesia giocosa e sceglierlo non è mai un atto neutro. Tutti noi possiamo ri-cordare casi di questo tipo come

“Qui comincia l’avventura/del signor Bonaventura”. E questo vale anche per Campana: anche per ricostruire l’immagine più gioiosa, scherzosa, scanzonata di Campana, egli usa questo metro per scrivere di una piccola pas-seggiata di un poeta.

Me ne vado per le stradestrette oscure e misteriosevedo dietro le vetrateaffacciarsi Gemme e Rose.Dalle scale misteriosec’è chi scende brancolandodietro i vetri rilucentistan le ciane commentando.

La stradina è solitaria

non c’è un cane; qualche stellanella notte sopra i tetti:e la notte mi par bella.

E cammino poverettonella notte fantasiosapur mi sento nella boccala saliva disgustosa. Via dal tanfovia dal tanfo e per le stradee cammina e via cammina,già le case son più rade.Trovo l’erba: mi ci stendoa conciarmi come un cane:Da lontano un ubriacocanta amore alle persiane.

Una poesia leggera di Campana che reca però in sé un picco-lo dispetto, in un punto non casuale ovviamente. Sono tutti ottonari, tranne uno: la saliva disgustosa. Via dal tanfo. Qui ab-biamo un ottonario e poi subito altre quattro sillabe. E’ come se Campana ci portasse per queste stradine paesane, dove lui sa che dietro le persiane ci sono le cia-ne maldicenti che si prendono gioco di lui che è un po’ strano, ma ad un certo punto dopo averci accompagnato per mano su un ritmo così scherzoso, non resiste e ci dà uno schiaffo: la saliva disgustosa. Via dal tanfo. Una parola durissima. Ma dopo lo schiaffo, sembra dirci “ripren-diamo il cammino leggero, che abbiamo interrotto”.

Uno stralciodella letturadel cantantedei Virginiana Milleralle Oblate di Firenze

I Canti orfici secondo CauteruccioCome per Gianfranco Contini, che definì Dino Campana non poeta visionario o veggente bensì visivo, così fin dal tito-lo Giancarlo Cauteruccio ha tradotto il “suo” Campana al Teatro Studio di Scandicci met-tendo in scena “Canti Orfici/Vi-sioni”, interpretato dall’ottimo Michele Di Mauro. L’apparato scenico e le visioni campaniane proiettate sui lunghi drappi bianchi strappati, - “Vidi le bianche cattedrali levarsi... Vidi le Alpi levarsi ancora come più grandi cattedrali” -, si impone immediatamente come il vero protagonista del lavoro teatrale. Insieme alle musiche originali di Gianni Maroccolo, di una potenza evocativa soverchiante. Programmaticamente Caute-ruccio celebra il Libro, non la vicenda umana di Campana autore e la dedica esplicita è a Carmelo Bene, solo che qui la voce - unica e inarrivabile prota-

gonista della versione del grande attore pugliese - si fonde con immagini e suoni originando appunto Visioni. Architettura di suoni e immagini e non per questo meno solida e strutturale; echi dell’architettura sensoriale, passione giovanile di Cauteruc-cio. E’ il riflesso dell’esperienza sensoriale di Dino Campana con la natura, gli elementi primordiali (aria, acqua – mol-tissima -, terra, fuoco, magma), che qui Cauteruccio traspone in una elevazione di guglie gigantesche, in un cantiere ope-roso che concresce su se stesso, soverchiante e incombente e ti coinvolge nel suo crollo robo-ante per poi riprendere subito la costruzione. E’ uno dei tagli possibili dell’opera campaniana, che pure ha momenti sublimi di lievità, serenità, felicità (come scrive Lorenzo Bertolani nel suo penetrante saggio “Felice di essere povero ignudo. Felicità

e religiosità nell’opera di Dino Campana”, Edizioni della Me-ridiana, 2014, di cui torneremo a scrivere con l’ampiezza che merita). Ecco, Cauteruccio da architetto visionario interpreta il Campana poeta visivo come una sorta di Demiurgo di un universo composto di materia allo stato puro, archetipica. Lo spettacolo, così, raggiunge i punti culminanti ne “La notte” e sopratutto “Genova”, l’arche-tipo mitico di ogni città: “così ti ricordo ancora e ti rivedo impe-riale/Su per l’erta tumultuante/Verso la porta disserrata/Contro l’azzurro serale,/Fantastica di trofei/Mitici tra torri nude al sereno,/A te aggrappata d’intor-no/La febbre de la vita/Pristina: e per i vichi lubrici di fanali il canto/Instornellato de le pro-stitute/E dal fondo il vento del mar senza posa,”. Tutto si fonde: metafisica, naturalismo, mistici-smo in una architettura poetica

che il lavoro di Cauteruccio è riuscito a cogliere trasponendolo in corporeità e vocalità, consu-stanziali unità basiche del suo teatro.

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riunione

difamiglia

Basta con la deregulation e il fai da te, con questo grido la giunta Renzi nel 2012 riorganizzò i dehors dei locali del centro, uniformandoli e, per quanto riguarda piazza della Repubblica, riportando in voga lo stile costruttivista sovietico. L’allora vicesindaco Nardella, generalissimo della campagna, smosse persino l’allora ministro Ornaghi per pie-gare la sovrintendenza riottosa. Il bollettino della vittoria sciorinava le cifre, dei caduti (i vecchi dehors), dei nuovi avamposti e persino le percentuali di Pil che sarebbe cresciuto grazie ai nuovi ornamenti urbani. Di sicuro aumentò il Pil di chi quegli attrezzi realizzava per-ché in breve tempo palchi di legno, ornamenti nell’ormai insopporta-

bile corten ornati dal provincialis-simo giglio fiorentino, spuntarono ovunque come funghi. Poi si sa che il Pil si annoia e bisogna trovare sempre nuove iniziative perché quello sfaticato ricominci a correre. Ecco dunque che la giunta Nar-della (si proprio l’ex generalissimo) ha decretato che dehors sono troppi ed andranno sfoltiti. Una nuova battaglia per “i’decoro” e la bellez-za della città che il generalissimo Bettarini compirà nei prossimi mesi. Mettere e levare, in fondo, è sempre un gran lavorare e così alla fine, direbbe Car Carlo Pravettoni, il Pil s’impenna.

Pregevolissima iniziativa del nostro olimpico Eugenio! Avendo il Capo Supremo sdoganato l’olim-pico sogno, candidando Roma ad ospitare i Giochi Olimpici del 2024, oltre a perpetuarsi sul soglio governativo fino a cotale data, il Renzi ha dato anche la stura alla retorica decoubertiana che Giani non poteva non cogliere, avviando l’operazione sostituzione di Dante con il de Coubertin nell’olimpo – naturalmente – dei miti immortali gianeschi. Macché Michelangelo o Antognoni: Pierre de Frédy, barone di Coubertin, è il nuovo idolo in-discusso del Nostro. D’altra parte, così parlò Renzustra: “Da gennaio partirà il Comitato promotore sotto la guida di Giovanni Malagò e non lo faremo con lo spirito di De Coubertin, per partecipare: lo faremo per vincere”. Il quale, come tutti sanno, diceva che l’importante è partecipare, non vincere. Così, il Nostro Eugenione ha organizzato un bel simposio per celebrare il barone francese e il 17 dicem-bre a Villa Ruspoli a Firenze ha presieduto l’interessante dibattito “L’Olimpismo come stella polare dello sport”, tutto all’insegna di De Coubertin: “Lo sport alla luce di de Coubertin”, “Pierre de Coubertin tra comunicazione e formazione”, “Religio Athletae. Pierre de Cou-bertin e la formazione dell’uomo per la società complessa” e il suo incommensurabile “Pierre de Cou-

Le SoreLLe marx

i Cugini engeLS Lo zio di TroTzky

BoBo

Metti il Dehor, togli il Dehor

L’olimpico e olimpionicoEugenione

Ah, Bbombafacce Tarzan!

ha incantati tutti; altro che “Nando” di “Un americano a Roma”. E parlando de’ Roma, mica se poteva esimere da di’ ‘na battuta:“Voi mi direte: Non ci dici niente di Roma? E che vi devo dire? Se voi dite Roma, io dico bellez-za! Se voi dite Roma, io dico capitale;

dico Città che nel mondo suscita emozione!”E i Democratici in erba tutti in coro: “ah Bbomba, facce Tarzan! Te damo ‘na sigaretta!”Ma lui, imperterrito, continuava la sua arringa: “Noi non sap-piamo se quello che sta emer-gendo dipinge il quadro di un atteggiamento di tangentari alla matriciana o di mafiosi capaci di relazioni pericolose. Ma intanto, caro Buzzicone, m’hai provocato e io ti distruggo adesso, maccaro-ne! Io me te magno...! “.E’ chiaro a tutti che il suo nume ispiratore è Arthur Herbert Fon-zarelli, in arte Fonzie. E se non bastasse l’incedere “sordiano”, basta ricordare l’acme politico del suo discorso ai GD: “Salvini non ci fa paura e non mi riferisco alla copertina: se io ho fatto Fonzie, lui può anche fare l’orso Yoghi”. In effetti è una bella gara.

Matteo Renzi da Ri-gnano over the Arno, detto “i’ Bomba”, ma autosoprannomina-tosi Santi Bailor, ha dato ancora spetta-colo dai suoi G.I. (ah no, scusate i GD che sta per Giovani Democratici). Con il maglioncino rosso un po’ tarmato perché nell’armadio dal tempo del liceo, li

bertin ed i 100 anni di costituzio-ne del CONI in Italia”. Si narra che l’incipit del suo intervento fosse il seguente: “Possano la gioia e i buoni intenti amichevoli regnare, così che la Torcia Olimpica possa perseguire la sua via attraverso le ere, aumentando le comprensioni amichevoli tra le nazioni, per il bene di una umanità sempre più entusiasta, più coraggiosa e più pura, dietro la luce inestinguibile della Sacra Guida Italica, Matteo Renzi”. Pregevole iniziativa.

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Fuori dal pozzoNon ho remore a dichiarare

che “Fuori dal pozzo”, nuo-vo album di Enrico Fink,

Arlo Bigazzi e Cantierranti inciso per l’etichetta Materiali Sonori, è uno dei progetti musicali più interessanti e intriganti che ho ascoltato negli ultimi anni. Non è solo un sapiente e raffinato mix di tradizioni musicali e influenze sonore, ma un micro univer-so-mondo in cui si incontrano e si mescolano, senza perdere identi-tà, culture, lingue, sapori, idee, profumi, sogni... proprio come il mondo in cui viviamo.Dieci tracce in yiddish, italia-no, inglese, francese, aramaico, burkinabé. Ritmi travolgenti, lenti, intensi. Strumenti i più diversi e lontani. Un impluvio delle esperienze musicali che Fink e Bigazzi hanno compiuto negli anni, talvolta incrociandosi altre volte seguendo singole e divergenti strade, oggi arrivando a conflu-ire in questo piccolo diamante incastonato nella roccia vulcanica della storia musicale del mondo. Ne abbiamo parlato insieme.Sperimentale quasi in tutto questo “Fuori dal pozzo”: Fusione di culture musicali (non solo world music), di strumenti, di testi e di lingue, di culture ed epoche, di geografie e popoli. Quello che invece appare rigorosamente “tra-dizionale” è la ricerca, il lavoro di estrazione dal multi-materiale coeso di una pulizia di suono, di una essenza da storytellers, quasi da cesellatori: come si lavora da tirar fuori una figura così definita da una massa enorme e complessa di melting pot culturale come questa?Bigazzi Non saprei spiegarlo. Credo che questo modo di lavorare sia connaturato in noi. Ormai fa parte della nostra na-tura e si porta dentro le nostre esperienze. Non ci facciamo molte domande… no, non è vero, di domande ce ne fac-ciamo molte, ma l’approccio - almeno per quanto mi riguarda - è molto istintivo. Se non altro nella parte iniziale del processo

creativo. Poi, man mano che si sviluppa il lavoro, mi chiedo perché stiamo facendo certe scelte, ma il “mescolare” ci è or-mai congenito. In fin dei conti siamo tutti cittadini del mondo e viene piuttosto naturale il suonare una musica che non abbia generi e confini ben deli-neati. Una musica cosmopolita, praticamente… Fink La difficoltà principale è, come negli esercizi di medita-zione, smettere di pensare. Più si invecchia - non d’anagrafe, ma di ascolti letture esperienze, più è difficile creare; ogni idea che nasce viene immediatamen-te affogata da mille somiglianze, rimandi, “sì ma l’ha già fatto lui”. Lavorando poi con le mani immerse nella tradizione, il rischio maggiore è ragionarci troppo: voler restare fedeli a troppe intenzioni, genesi, filo-logie e quindi di fatto impedirsi di inventare. Ma se si riesce a re-stare un po’ bambini e a giocare, dimenticando tutto e ricreando, reinventando, sospendendo il proprio giudizio spesso castrato-rio - a volte si riesce a costruire qualcosa… o almeno lo spero!Sì, siete usciti dal pozzo ma pare che prima avete dovuto fare una lunga e profonda immersione fino al fondo del pozzo, toccando la base delle vostre individuali cul-

ture (musicali e non) e delle vostre individuali esperienze artistiche: così diverse eppure così sincreti-che: Come avete gestito questa diversità durante la produzione del disco?Bigazzi Con pazienza. Penso che Enrico ed io si sia abbastan-za diversi. Nel metodo, nelle esperienze e nelle conoscenze musicali. Ma quando decidiamo di lavorare assieme, riusciamo quasi sempre a trovare una base comune su cui lavorare e confrontarsi. Mi sembra che ci venga naturale trovare un punto d’incontro e di fusione delle nostre differenti convinzioni. I contrasti ovviamente ci sono, sarebbe irreale non averli, ma sono rari e rivolti alla soluzione di un problema. Non mi sembra sia mai accaduto che uno volesse prevalere sull’altro per difendere una propria convinzione. In so-stanza siamo due “possibilisti”…Fink Penso in realtà che siamo funzionali l’uno all’altro: siamo due “lupi solitari” abituati a voler gestire tutto quanto, ma nel tempo abbiamo trovato una qualche strana chiave che ci permette di rispettare il ruolo dell’altro, e di valorizzarlo, e di usarlo anche come sponda per metterci del proprio. E, anche qui, il fondamentale è stato che per entrambi c’era un comune

divertimento, un piacere di fare quello che stavamo facen-do. Come ci dicevamo spesso durante la produzione, non per ottenere chissà cosa, ma per fare un disco che ci piacesse riascol-tare, e piacesse anche alle nostre figlie, e così da poter raccontare ai nipotini “Una volta, tanto tempo fa, abbiamo fatto un disco proprio bello, pieno di storie….”La base klezmer e anche la lingua ebraica e quella yiddish sembra-no essere il catalizzatore della riuscita, anche testuale, di diverse canzoni dell’album (A Tsiterdiker Thom, Tumbalalika, Rosenfeld’s Dream): è questa la vera essenza dell’ebraismo, una così solida identità fondata sulle diversità?Bigazzi Nello specifico, ti risponderà più dettagliatamente Enrico, visto che è l’artefice dei testi. Io, ovviamente, vedo la cosa da un punto di vista diverso. Posso dirti che il poco che mastico della cultura ebraica e del klezmer è tutto merito suo. Mi era quindi naturale, lavoran-do con lui, partire dalla tradi-zione ebraica; sia perché Enrico ne è un profondo conoscitore, sia perché, nei lavori dove mi ha coinvolto prima di FdP, molto spesso abbiamo tentato di dare una lettura personale della tradizione. Già dal primo pro-

di Simone [email protected]

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tino leggere un tema a scuola, e raccontare del suo arrivo, bam-bina, dall’Albania in fiamme. Così Rosenfeld’s dream, in cui si sono andate a sommarsi senza pensarci troppo un elemento intimo, quasi esistenziale - un certo senso di delusione per il futuro, di stanchezza rispetto agli ideali e ai sogni di quando “eravamo giovani”; e un ele-mento politico, l’immagine dei lavoratori bruciati a Prato nei capannoni qualche anno fa, così simile a quella storia atroce della Triangle Factory a New York che sembrava essere lontana un secolo dall’oggi e dal qui. E in mezzo la poesia di Morris Rosenfeld, che della vita delle operaie bruciate a New York parlava senza raccontarne la fine tremenda ma descrivendo la delusione della realtà della vita da immigrate dopo l’illusione di libertà del viaggio. La musica contemporanea e gli autori di oggi che maggiormente hanno “toccato” il vostro lavoro. Parlate di Conte e Capossela (oltre ovviamente a Ovadia). Qualco-sa anche di Battiato e finanche della nuova musica italiana, forse, come in Il pozzo. Chi altri? A cosa guardare nel panorama musicale contemporaneo?Bigazzi Mi spiace deluderti, ma sinceramente sono musicisti che non “frequento” molto. Devo riconoscere, è una mia man-canza, che non ho una buona conoscenza dei loro lavori. Se c’è stata una fonte d’ispirazione, quando abbiamo iniziato a lavo-rare a FdP, io stavo ascoltando SuperHeavy… Penso sia stato uno dei progetti più interessanti degli ultimi anni. È pop molto ben confezionato, ma è anche world-music, ambient, blues… analizzandolo come un progetto musicale e non solo d’intratte-nimento, è musica che va oltre i generi. E non solo. Penso che mi abbia più influenzato quel

disco che gli artisti che citi. Però fa piacere che FdP te li rammenti. Sinceramente, però, avevo più in mente certi lavori di Tom Waits che Capossela. E poi, alla base, la lezione del reg-gae. Che mi piace considerare come una vera “musica demo-cratica” dove tutti hanno un ruolo determinante. Ovviamen-te attribuisco a questi esempi un significato d’influenza gene-rale, di criterio. Di approccio. Non di similitudini di genere. Abbiamo usato arrangiamenti e strumenti musicali completa-mente diversi.Per quanto riguarda il panorama contemporaneo, penso che di cose interessanti non ce ne siano molte. Riesco a trovarle ancora nei Sigur Ros, nei Radiohead, in un certo new-folk come Mamford & Sons e Luminers. Tutte esperienze musicali che, se fossero nate in Italia, non avreb-bero avuto nessuna possibilità di sbocco. Non mi viene in mente altro, in questo momento. Per il resto mi sembra che si sia un po’ tutti appiattiti e omologati. In fin dei conti siamo figli del nostro tempo e, come dice il poeta, “gli artefici del nostro destino”…

getto discografico dove abbiamo lavorato insieme, Il ritorno alla fede del cantante di jazz: un ten-tativo di rilettura della musica sinagogale ferrarese e fiorenti-na. Questa volta abbiamo solo deciso di spingersi un po’ oltre la tradizione e usarla solo come base di partenza, con la speranza di approdare a nuovi lidi… Fink Penso che oggi sia impe-rativo per ogni cultura trovare il modo di crescere nel contatto con le altre, senza tradire se stessa. È un equilibrio difficile, e che non si ottiene senza dolore e difficoltà, nell’arte come nella vita. Ma sono finiti i tempi dei ghetti, fisici o culturali, e così dei melting pot che creano un nuovo distruggendo il vecchio. La difficoltà in questo che per molti è il “secolo delle identità” è proprio conciliare il sé e il diverso da sé, la tradizione e il movimento, la differenza e il dialogo. Ora, questo è un disco e non un trattato di sociologia, ma un po’ di questo pensiero sta alla base di ciò che abbiamo scritto e suonato. L’identità ebraica da cui io parto si sente, è forte, e spero non sia tradita se attraverso di essa parlo d’altro, racconto storie lontane.

Poi i temi contemporanei, bru-cianti, quasi di cronaca affron-tati con una poetica lieve eppure potente, in Il mare di Valona o in Vedo chiaro limpido vero: un tempo nuovo per l’impegno sociale nella vostra musica?Bigazzi Veramente avrei l’illusione di pensare che tutti i dischi che ho realizzato siano legati all’impegno sociale. Come amava dire Mingus dopo il solo di Haitian Fight Song “io gliel’ho detto, spero che mi abbiano ascoltato”. Ma penso anche, questi ultimi anni in, che il ruolo dell’artista sia divenuto piuttosto impalpa-bile, vago. Siamo un po’ tutti inutilmente “leggeri”. Però, se vogliamo far parte del nostro tempo, penso che un artista abbia pure il dovere di dare e proporre spunti di riflessione. Noi ci abbiamo provato, anche con un testo lieve e ironico come Vedo Chiaro Limpido Vero. Ma anche con brani meno immediati, come A Tsiterdiker Thom e Rosenfeld’s Dream, abbiamo toccato temi sociali. Il primo è la traduzione in yiddish di un testo scritto da Alessandro Benvenuti e dedicato alla trage-dia del terremoto in Abruzzo, l’altro all’incendio della Triangle Shirtwaist Factory di New York a inizio Novecento. Evento che contribuì alla nascita della Gior-nata Mondiale della Donna, l’8 marzo. Ma persino Tumbalalika - che è una “love song” tradi-zionale - ha, in questa versione, una prima strofa, rintracciata da Enrico, dedicata all’esperienza associativa dei kibbutz.Fink Una certa idea, una linea politica quasi mi verrebbe da dire, sta alla base stessa dell’idea del disco, come dicevo prima. Le storie raccontate, poi, sono venute da sé, erano in testa e sono uscite. Così “il mare di Valona”, nata dall’aver ascoltato una ragazza di un liceo dell’are-

Intervistaa Arlo Bigazzie Enrico Fink

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Jakob De ChiricoIl grottescosi fa poesia

La pluralità dei linguaggi odierni è fonte di ispi-razione per molti artisti,

i quali colgono l’occasione per esprimere con profonda sincerità il proprio Ego e le proprie ideologie, in un universo vorticoso di pensieri e riflessio-ni, di verità celate e particolari socio-culturali che solo l’Arte può far emergere con chiarezza e semplicità, portando il lettore alla presa di coscienza critica dell’impensabile e di tutto quello che la ragione, persa nelle con-traddizioni contemporanee, non riesce a cogliere. Il non-detto e il non-manifesto si trasformano in paradossi intellettuali tesi allo svelamento di quella peculiare contemporaneità che la prassi estetica da sempre tenta di ana-lizzare e interpretare. In tal senso l’Arte diviene un mezzo attraver-so il quale esprimere la propria visione del mondo e della vita, nel presente in quanto presente, nell’evoluzione irrefrenabile del tempo dell’uomo e delle forze in gioco che dominano un’attualità sempre più complessa e sempre più difficile da discernere. Jakob De Chirico si muove in questo contesto come un filosofo ante litteram: pensatore e creatore di torsioni critiche e ripensamenti volti a dissacrare le falsità insite nei linguaggi postmoderni, troppo caotici per essere colti al primo sguardo; uomo di cultura che osserva il Tutto con spiri-to anarchico e gioiosa serietà; intellettuale progressista attento ai minimi mutamenti socio-cul-turali, nonché artista, ironico e militante, all’attacco dell’e-stablishment e delle strutture che governano e stanno alla base della delicata situazione culturale odierna. Nelle sue opere c’è un mondo in continua metamorfosi che vive dei propri elementi, in una sussistenza artistica, equilibrata e armoniosa, volta a espandere le coscienze verso la consapevolezza della necessità di nuove aperture e incessanti rotture, grazie ad assemblaggi, manipolazioni e performances legate alla vita, ma svincolate dalla tradizione. Non a caso im-magini e oggetti presi in prestito dalla vita concreta animano le opere e le performances, metten-do continuamente in discussione i valori antropologici, il consu-

Da sinistra in senso orario . Testamento dell’inquisizione, 1974Assemblaggio su tela cm 141x87x23; Maschera, 2013, Tecnica mista e assemblaggio su legno cm. 50x20x20; Senza titolo, 1997, Assemblaggio su carta applicata su tavola cm. 100x70 , Senza titolo, 1997; Assemblaggio su carta applicata su tavola cm. 100x70 . Tutte Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

di Laura [email protected] mismo di massa, i feticci etnici, i

riti e le reliquie devozionali che, insieme alla parola rappresentata e alla pluralità di forme e croma-tismi, colpiscono l’osservatore il quale, ignaro delle intenzioni artistiche, è necessariamente costretto a riflettere e a prendere coscienza del messaggio dell’ope-ra. Quella di Jakob De Chirico è una poetica dell’oggetto e del grottesco che esaspera il linguag-gio contemporaneo, caratte-

rizzandosi per ironia, creatività e spontanei-tà: la sintesi di flash intellettuali e singole riflessioni che questo artista concretizza, fra il razionale e l’emotivo, donandoli allo spetta-tore come singoli pezzi di una grande verità ancora da scoprire e disvelare, nella consa-pevolezza che la Cul-tura non ha esaurito il proprio compito e che all’artista non resta che continuare a indagare, guardando avanti in vista di una resa estetica

sempre più manifesta.

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Cronacadi una serataDentro Firenze

Mario Primicerio, sindaco di Firenze dal 1994 al 1999, ha avuto qualche

momento di commozione quando ha ricordato che qualche tempo prima una signora, che abita le residenze sociali alle Murate, lo aveva invitato in casa a vedere quello che il Comune di Firenze aveva fatto nell’ex carcere.Primicerio stava parlando proprio in una sala di quel complesso che aveva contribuito a restituire alla città avviando lo studio di fattibilità redatto da Renzo Piano.Era stato invitato dall’editore Maschietto a parlare del libro di John Stammer “Dentro Firenze, Architetture, architetti, progetto e percorsi del tempo presen-te”, curato da Aldo Frangioni, Michele Morrocchi e Simone Siliani, da oggi nelle librerie.Insieme a lui, in diretta su Controradio, Elisabetta Meucci (assessore all’Urbanistica del co-mune di Firenze), Sara Nocen-tini (assessore alla cultura della Regione Toscana), Silvia Viviani (presidente dell’Istituto Na-zionale di Urbanistica), Guido Murdolo (presidente della Fon-dazione Architetti di Firenze), e il nostro Aldo Frangioni.E’ stato lui ad aprire la diretta talk/show ricordando come gran parte delle pagine scritte da Stammer siano già comparse sulla nostra rivista e come questo lavoro collettivo sia l’avvio di un percorso che ne porterà altri, in primis sul sistema tranviario fiorentino.Davanti ad un foltissimo pubbli-co che ha riempito il saloncino delle Murate, Elisabetta Meucci ha ricordato come spesso l’uso

ma sia fatta soprattutto da chi la vive e la usa e che l’Istituto da Lei presieduto abbia in animo di costruire mappe di lettura delle diverse modalità di vissuto delle città e di avviare una iniziativa, proprio da Firenze, sulla città metropolitana lanciando l’idea di un Festival della città Metro-politana.Il libro tratta della trasformazio-ne di Firenze in questi ultimi 20 anni e lo fa in modo inusuale non parlando solo di architet-tura ma attraverso il racconto, in alcuni casi quasi anedottico, ma sempre molto informato, di alcuni di questi episodi di tra-sformazione (sono 42 le schede che parlano di opere realizzate e 1 del Modello di Firenze in scala 1:1000) e raccogliendo le testi-moninaze di alcuni dei proget-tisti protagonisti di questa tra-sformazione (Marco Casamonti, Paolo Desideri, Elio Di Franco, Gerard Evenden dello studio Fo-ster and Partners, Andrea Maffei e Arata Isozaki, Adolfo Natalini, Aimaro Oreglia D’Isola, Richard Rogers e Ernesto Bartolini, Car-lo Terpolilli, Paolo Zermani), e alcune riflessioni di Andrea Branzi, Francesco Gurrieri, Vit-torio Maschietto,Antonio Natali e Gianni Pettena.Il libro è aperto da una Lettera a Firenze di Giancarlo Cauteruc-cio e chiuso da una postfazione di Gaetano Di Benedetto, un articolato resoconto delle attività politico amministrative che hanno permesso quelle trasfor-mazioni.Il libro si trova nelle maggio-ri librerie e anche lunedì 22 dalle 17,30 alle 20 alla festa di Maschietto Editore, via del Rosso Fiorentino 2/D, Firenze.

dello pseudonimo (John Stam-mer è lo pseudonimo dietro il quale si cela l’identità vera dello scrittore del libro) sia un modo

per prendere le distanze dall’og-getto della scrittura e vedere più chiaro e nitido il contorno del lavoro.Ma anche per essere più libero di scrivere e ragionare sui temi della recente trasformazio-ne della città. Quasi lo stesso concetto espresso tempo fa da Giancarlo Cauteruccio che ebbe a dire che per scrivere di Firenze e per lavorarci “bisogna farsi stranieri”.Silvia Viviani ha raccontato come la città non sia fatta da episodi o da singole architetture

Foto in bianco e nero di Daniele Cecchi

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Sul numero 100 di Cultura Commestibile avevamo posto un interrogativo

Cosa è cultura?e avevamo pubblicato alcune risposte arrivate in redazione. Adesso proseguiamo con l’intervento di Mario Primicerio

Devo dire che dopo aver letto le prime righe del documento della redazione di “Cultura commestibile”, la mia prima reazione è stata di un certo sconforto.Perché per decenni il mio impegno di docente e di ricer-catore è stato prevalentemente centrato sulla matematica applicata, e più propriamente sulla matematica applicata ai processi industriali. Faccio par-te da otto anni del Board della organizzazione che raggrup-pa le società scientifiche del mondo intero che si occupano di questo settore disciplinare (International Council for Industrial and Applied Mathe-matics, ICIAM) e considero un successo il caso in cui la modellazione matematica di un certo processo industriale, la sua simulazione al computer e la ottimizzazione dei para-metri che reggono il fenomeno consentono di migliorare la produttività di un impianto e quindi producono un reddito per l’industria committente e per il dipartimento universi-tario che ha svolto la ricerca, permettendo ad esempio il finanziamento di una borsa di studio per un dottorando.Ebbene, di fronte all’incipit del documento che afferma che “la cultura non serve a nulla, as-solutamente a nulla (…); cioè la cultura non può “servire” ad un altro fine, ad un diverso pa-drone, se non se stessa” la mia reazione non poteva che essere –come dicevo- di un certo sconforto. Perché allora, tutto ciò su cui ho lavorato, tutto ciò che ho insegnato in questi anni non è cultura. Peggio ancora: ho usato la cultura matematica prodotta dall’umanità nel corso dei secoli per venderla e farne un fattore di produttività eco-nomica! E naturalmente ho guardato con una certa invidia al lavoro di altri colleghi del Dipartimento che, impegnati in ricerche assai più astratte delle mie e slegate da ogni applicazione, erano per ciò stesso esenti dal peccato che inquinava il mio modo di fare matematica (almeno fino al momento, tutt’altro che in-

frequente, in cui si scopre che quei risultati apparentemente astratti possono essere applicati alla crittografia, alla computer graphics, o ai telefoni cellula-ri, per fare solo degli esempi recenti).Per fortuna non mi sono fermato alle prime righe ed ho trovato, nello stesso statement redazionale delle risposte a tut-to tondo che ben si adattano alla storia del progresso delle discipline scientifiche che, al pari di quelle umanistiche (sto usando qui, per brevità degli aggettivi largamente impreci-si!), concorrono al progresso culturale della società. Perché, se è imprescindibile che ogni impegno culturale sia libero ed autonomo da ogni condiziona-mento di tipo produttivistico od economico, esso è anche una attività che –in quanto produttiva di conoscenza- può avere anche significati econo-mici.In modo largamente appros-simativo ma forse efficace, si può dire che il progresso di ogni disciplina è mosso da due motori: uno interno alla disciplina stessa (il cercare di andare “oltre” il già detto, il già visto, il già saputo), l’altro esterno ad esso (le richieste di altre branche del sapere o delle applicazioni). Entrambi hanno uguale dignità e diritto di cittadinanza; entrambi fanno sì che cultura significhi “seguir virtute e conoscenza”.Si può dire anche di più: è ragionevole che la produzione culturale che genera valore eco-nomico serva a sostenere anche quella che non lo genera; ed è giusto incrementare tale valore con adeguate scelte, investi-menti, ricerca di partnership con i privati. Ma questo non esime il potere pubblico dal suo dovere di sostenere la cul-tura indipendentemente dalle cosiddette leggi del mercato! Perché è essenziale rendersi conto –e qui ritorno ad una af-fermazione del documento che considero fondamentale- che il valore della cultura consiste nel miglioramento della qualità della vita delle persone. Se vogliamo dirlo in un modo più provocatorio, il valore della cultura sta nella sua capacità di aumentare il tasso di felicità.

Mario priMicerio

Illustrazione di Lido Contemori

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Carta o byteQuestoè il dilemma?

Il nostro direttore ed io abbiamo questo vezzo, ormai di lunga data, di

punzecchiarci sull’innovazione. Abbiamo deciso di vestire lui la maschera del luddista novecen-tesco, io quella dell’ottusa posi-tivista per cui tutto quello che è innovazione brilla illuminata dal sol dell’avvenire.In questo gioco di fioretto, in cui in maniera semiseria ci scambiamo opinioni e idee seris-sime, ieri, con gran vanto, mi condivide il link a un articolo del Guardian, dal titolo, per lui, definitivo: Teens prefer the printed page to ebooks (gli ado-lescenti preferiscono le pagine stampate agli ebook).Ma l’articolo dice altro, rispetto al titolo (e il direttore lo sa). Una ricerca Nielsen sulle abitu-dini alla lettura riporta che tra gli adolescenti (o meglio “gli utenti precoci di nuove tecno-logie”) il 20% compra ebook, contro il 25% dei 30-44 enni e il 23% dei 19-29 enni.Perché? La risposta nell’indagine non c’è, ma il giornalista, giusta-mente, non è così sicuro che si tratti di una preferenza verso il libro cartaceo, quanto piuttosto, o meglio anche, per un minore utilizzo dell’acquisto online tramite carta di credito e, forse, anche per l’abitudine di passarsi i libri tra amici, più difficile utilizzando i device elettronici. Anche se su questo punto sono scettica, perché scambiarsi un ebook in formato epub è facile quanto scambiarsi un mp3.Ma, al di là di questo, a me questa contrapposizione libro di carta contro libro elettroni-co sembra poco interessante e inutile. Qui il tema non è carta contro elettronica, ma è lettura contro non lettura. Cioè, dal mio punto di vista, leggete sul diavolo di supporto che volete, ma leggete libri, ragazzi.Perché la concorrenza è non tan-to e non più con la TV - tutte le ricerche ci dicono che i ragazzi ormai la TV la guardano po-chissimo - ma dalla rete. Per fare qualche esempio: da uno studio commissionato da Variety le cinque star più amate per il pubblico 13-18 anni americano provengono da YouTube, con Jennifer Lawrence solo settima. E sempre la Nielsen rende noto

più aggiornati di molti pomposi saggi accademici). Sofri si spinge a confrontare il libro al teatro, entrambi splendide, meraviglio-se “nicchie laterali della cultura contemporanea”.Che ci piaccia o no, credo che abbia ragione.Poi però c’è la costruzione del proprio essere, della propria identità, che non poggia solo sul presente, sulla contemporaneità. E che, almeno per me, poggia ancora, e molto, su libri. O meglio, su quello che c’è scritto, nei libri.Si parla del futuro del libro grazie agli audiolibri e può non essere una cattiva idea, perché si possono ascoltare nella vita da pendolari, in macchina, peda-lando, sui mezzi pubblici ecc. Peguin Random House ha cre-ato la App Volumes, gratutita, con la quale rende disponibili audiolibri dalla propria libreria digitale e lo rende acquistabi-le con un click. Lo stesso per Barnes & Noble, che ha appena realizzato un’applicazione, con più di 50mila audiolibri. Ci sono anche gli abbonamenti in streaming, a 10 dollari al mese, come Skybrite, con 10mila titoli, e Audbile, fondata da Donald Kats alla fine del secolo scorso e venduta ad Amazon nel 2008 con, solo nel 2014, 18 mila opere, che produce lavori originali, libri che non vedranno mai la luce in formato scritto, ma solo audio.Insomma, si cerca di catturare un pubblico nuovo, in una competizione agguerritissima, dove grossa parte non l’ha solo la rete, ma anche i videogiochi. E dove dalla rete e, soprattutto dai social network, il 45% dei ragazzi, per tornare alla ricer-ca Nielsen, è moderatamente influenzato nei suoi gusti. Insomma, è chiaro che quella del direttore era una provoca-zione e anch’io, che ho studiato nel 900, quando devo studiare, sottolineare, ho bisogno della carta, ma ritornando sul tema vero: come fare a far leggere i nostri figli?E se cominciano a leggere, se siamo così fortunati, anzi sono così fortunati che gli piace leggere, come farli incuriosire a qualcosa d’altro che non sia Henry Potter o la saga di Hun-ger Games?

di BarBara SeTTitwitter @Barbara_Setti

che, ancora negli USA, nei pri-mi tre mesi del 2014 il consumo televisivo in quella fascia di età è crollato del 18% (e invece cre-sciuto tra gli over 50). E c’è chi parla già, come Carlo Freccero, di generazione “no TV”.E se è pur vero che la rete può essere un poliformo, caotico, irrazionale ambiente pieno di distrazioni e iperstimoli, è an-che, soprattutto, la porta aperta verso nuovi mondi, nuove realtà

non solo immaginifiche, ma vi-sive, uditive, spesso immersive. E come può il libro competere?È questo, secondo me, il nodo.Ha ragione Luca Sofri, quando questo agosto scriveva che il libro sta diventando marginale come mezzo di costruzione e diffusione della cultura con-temporanea. Cultura che si fa ormai da altre parti, in formati più brevi (non necessariamente più superficiali e sicuramente

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Christer Stromholm (1918-2002) nasce a Stoccolma il 22 luglio (un ottimo

giorno per nascere), e dopo il suicidio del padre si reca a stu-diare arte a Dresda nel 1937, ri-mane affascinato da Paul Klee e dagli artisti “proibiti” dal nazi-smo, entra in urto con i propri insegnanti e si trasferisce a Pa-rigi per studiare all’Accademia di André Lothe. Fra il 1938 ed il 1940 viaggia continuamente fra il sud della Francia, Spagna, Tunisia ed Italia, poi torna in Svezia per il servizio militare e per combattere i tedeschi come volontario in Finlandia. Nel 1947 torna a Parigi e scopre il fascino della fotografia, diven-ta ritrattista, fra il 1950 ed il 1953 aderisce al movimento “Fotografie Subjektive” di Otto Steinert e comincia ad esporre le proprie immagini, ma con-tinua a guadagnarsi la vita con diversi mestieri, come guida turistica in Spagna ed a Parigi, ma anche come insegnante di fotografia all’Università di Stoccolma. Nella seconda metà degli anni Cinquanta la sua esistenza subisce una svolta de-cisiva, comincia a frequentare la Place Blanche (quella su cui si affaccia il Moulin Rouge), dove entra in contatto con il mondo dei travestiti e dei transessuali, che comincia a fotografare nel 1959, scoprendo nello stesso tempo il fascino della fotografia in luce ambiente ed il concetto di responsabilità personale, ma-turando così i propri principi nei confronti del contenuto e dell’impiego delle proprie immagini. Dopo avere viaggiato ancora fra India, Giappone, Stati Uniti ed Africa, rientra in Svezia nel 1962 per assumere la presi-denza della scuola di fotografia dell’Università di Stoccolma, che mantiene fino al 1974, ed in cui forma la maggior parte dei fotografi scandinavi contemporanei. Irrequieto per natura, alterna i propri sog-giorni fra Stoccolma e Parigi, continua a viaggiare, partecipa a mostre, si dedica al cinema, continua le proprie ricerche visive (“Immagini della realtà”, “Immagini private”, “Segni e piste”) e pubblica libri (101

di daniLo [email protected] Le amiche

di Stromholmparole sagge / 102 parole sagge) fra cui spicca il fotolibro del 1983 “Le amiche della Place Blanche”. Nel 1980 Camera gli dedica un numero monografi-co, nel 1998 gli viene assegna-to il premio internazionale di fotografia Hasselblad. Dal 1999 si ritira sulla costa svedese e la-vora fino alla fine ai suoi ultimi due libri, “Testamento” e “Phai-don 55”. Nel 2011 “Le amiche della Place Blanche” viene rieditato e nel 2012 lo stesso tema viene ospitato in una mostra allo ICP di New York. Nella ampia e variegata produ-zione di Stromholm la “Place Blanche” continua a rimanere un punto nodale della sua vita e della sua opera, un cardine attorno al quale si è sviluppata la sua sensibilità di uomo e la sua coscienza di fotografo. In un momento storico in cui la Francia ultraconservatrice di De Gaulle perseguita trave-stiti e transessuali, considerati

elementi socialmente “estranei e disturbanti”, Stromholm li elegge come il proprio tema, i propri modelli preferiti, ed il proprio cerchio di amicizie. Nel 1983, presentando le pro-prie immagini, scrive: “Queste sono immagini di persone di cui ho condiviso la vita e che credo di avere capito. Queste sono immagini di donne (bio-logicamente nate come uomini) che vengono chiamate ‘tran-sessuali’. Quanto a me, io li chiamano ‘le mie amiche della Place Blanche.’ Allora ed ancora oggi, si tratta di come ottenere la libertà di scegliere la propria vita ed identità. “

Plac’ Blanche toute la nuitOn danse, on chante, on ritEt chaque soir mains enlacéesOn peut y boire et s’embrasserPlac’ Blanche dans l’noir Boris Vian

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(BGKO), dove troviamo una spagnola, due serbi, un italiano, un francese e un greco. Il nome del sestetto allude alla parentela musicale fra ebrei e Rom, che comunque non è una novità: basti pensare a Moni Ovadia, che nel CD Oltre i confini. Ebrei e zingari (Promo Music, 2011) l’ha evocata apertamente.Imbarca (Satélite K, 2014), primo CD della BGKO, alterna quin- di il tradizionale

ebraico “Hévenu Shalom Aléchem” a “Ederlezi”, classico rom già noto nella ver-sione di Goran Bregovic.Non mancano omaggi alle culture ibe-riche, come “La dama d’Aragó”, un’antica canzone

catalana rilet-ta in chiave balcanica, e

“Hasta Siempre Comandante”. Il celebre pezzo dedicato a Che Guevara è comunque una scelta convenzionale che poteva essere evitata.Lasciamo Barcellona per fare rotta verso Firenze, dove trovia-mo Enrico Fink. Molto attivo nella comunità ebraica del

capoluogo toscano, questo mu-sicista raffinato è al tempo stesso impegnato in progetti teatrali e musicali di vario tipo. Il suo ultimo lavoro, Fuori dal pozzo (Materiali Sonori, 2014), lo vede accan-to al gruppo Cantierran-ti e ad Arlo Bigazzi. Quest’ul-timo, come il fratello Giam-piero, è anche il fon-datore dell’e-tichetta: i fratelli Bigazzi, prima ancora che discografici, sono musicisti.La collaborazione fra Enri-co Fink e Materiali Sonori è cominciata con la pubblicazione di Lokshen – Patrilineare (2000), anche se all’epoca il musicista non era più un esordiente.Ma torniamo a Fuori dal pozzo, che grazie alla presenza di numerosi musicisti offre una grande varietà timbrica e stili-stica. Ecco quindi le percussioni di Claudio Bonafé, le chitarre di Mino Cavallo, la fisarmonica di Riccardo Battisti, oltre al flauto di Fink e al basso di Bigazzi.

La fine del comunismo europeo non ha avuto soltanto conseguenze

politiche ed economiche, ma anche culturali. In termini musicali, per esempio, ha restituito all’Europa una varietà impressionante ma dimenticata, fatta di suoni balcanici, baltici, mitteleuropei, slavi, zingari. In questo modo ha ritrovato spazio anche il klezmer, espressione tipica degli ebrei askenaziti. Come ogni musica autentica-mente popolare, il klezmer è un cuore che batte, una materia viva che respira. Nasce nelle comunità ebraiche dell’Europa centrale e orientale, ma poi scorre ovunque come un fiume e si arricchisce di quello che incontra sul proprio cammino. Negli Stati Uniti, per esempio, trova nuova linfa vitale grazie all’incontro col jazz. Viene suo-nato a Praga come a Barcellona, a New York come a Melbourne.Naturalmente lo spazio a nostra disposizione non ci permette di esaurire un tema così ampio e sfaccettato. Quello che possia-mo fare, comunque, è un breve viaggio europeo prendendo spunto da tre CD recenti. I dischi non sono stati scelti sol-tanto perché usciti negli ultimi mesi, ma anche perché ciascuno declina il klezmer in maniera diversa. A conferma che questa musica è diffusa anche al di fuori dell’area di origine - l’Eu-ropa cen-trale e orientale - questi lavori sono stati realizzati nella parte occidentale del Vecchio Continente.La prima tap-pa è Barcello- na. Questa città non è soltanto la patria del nazionalismo catalano, ma anche una fucina multiculturale alla quale con-tribuiscono immigrati europei e sudamericani. Lo conferma la formazione della Barcelo-na Gipsy Klezmer Orchestra

di aLeSSandro [email protected] La tradizione ebraica si intreccia

col rock e col jazz; emergono accenti reggae (“Rosenfeld’s Dream”), mentre il violino di Ruben Chaviano porta i colori dell’America latina. Alla varietà sonora si accompagna quella linguistica: dall’italiano al fran-cese, dall’inglese allo yiddish. Al canto si alternano in prevalenza Enrico Fink e Sabina Manetti, ma in “A Tsiterdiker Thom”, cantata in yiddish, compaiono anche Moni Ovadia e Raiz. Il brano è stato scritto da Alessan-dro Benvenuti e Arlo Bigazzi dopo il terremoto che aveva colpito l’Abruzzo nel 2009.Mentre suonano le ultime note di “Tumbalalaika”, il pezzo che chiude il disco, partiamo per Londra. Nella capitale britanni-ca ci accolgono i suoni trasci-nanti di Wild Goats and Unmar-ried Women (Riverboat Records, 2014). Sono otto musicisti, tre donne e cinque uomini, si chiamano She’Koyokh.La cantante è la turca Çiğdem Aslan, della quale abbiamo già parlato alcuni mesi fa (numero 78). Grazie alla sua presenzail klezmer si colora di toni greci e turchi (“Amarantos”, “Sela-

nik Türküsü”). Questi ultimi lambiscono poi

la tradizione kurda(“Esmera Min”). “Moi Dilbere” è una vecchia can-zone d’amore bosniaca che veniva suonata ai tempi dell’impero ottomano, mentre “Limonchiki” è un brano russo che il cantante Leonid

Utyo- sov rese celebre negli anni Trenta del secolo scorso.Anche questo gruppo utilizza una strumentazione ricca, all’in-terno della quale dominano clarinetto, fisarmonica e violino.Il nostro viaggio termina qui, ma prima di chiudere è necessa-rio un consiglio. Siamo convinti che la lettura rappresenti un complemento necessario per chi vuole conoscere la musica, quindi vi segnaliamo il libro Musica errante. Tra folk e jazz: klezmer e canzone yiddish (Stam-pa Alternativa, 2009), scritto da Gabriele Coen e Isotta Toso.

Mosaico klezmer

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Le renne sbavano. Insozzano la mia giacca rossa di liquido giallo. Nessuno ve lo viene a

raccontare che le renne sbavano e scatarrano. Non di certo a Natale. Frusto le bestie a sangue per cieli dannatamente stellati, mi fiondo giù in picchiata con tutta la slitta verso quei comignoli che sbuffano le miserabili esalazioni e gli umori domestici del sottoproletariato. Queste discese ripide sono un vero e proprio attentato alla mia sinusite, così come le folate gelide che spaccano guance e zigomi, capillarmente. Sono patetico con tutti questi cristalli di gelo sulla barba, e francamente mi sono rot-to i coglioni di prendere in faccia spruzzate di merda e di piscio di renna. Vivo un letargo costante, beato, con l’intermezzo disgrazia-to di questa celebrazione disuma-na, nell’impazzimento della specie che anela alla festa. Mi risveglio con tutti i muscoli dolenti, le mascelle bloccate, una sete senza nome, assordato dall’urlo molesto dei pargoli, angosciato dalle ansie di questi marmocchi che aspetta-no con trepidazione il regalo.Li sento dentro di me. Neanche un caffè. Occorre ridestare le bestie e partire con la schiena spezzata, l’ernia iatale, la panza che deborda e la diverticolite acuta che brucia il mio colon. Vai dal medico, vai dal medico. E come ci vado dal medico conciato così? Mica possono ricoverarmi. C’è tuttavia quell’attimo, quel frangente in cui si parte, il distacco dalla terra, la vertigine, il fremito mio e delle bestie quando ci lanciamo nel vuoto…che ancora mi emoziona.

- Prima dimmi se la mamma è in casa.- Sì, certo.- E il papà?- Papà è andato via. Sono divor-ziati. Ih, ih.- E dimmi, la mamma è bella?- Bella? Bellissima! A scuola si girano tutti quanti ogni volta che passa.- Allora ho un regalo bellissimo per te, anzi, tanti regali, quanti ne vuoi. Apri la porta ragazzino, su, fai in fretta che qui fuori si gela.- Ma lei non passa dai comignoli?- Sì ma non c’ho voglia adesso, apri che mi hai già rotto.Consegno venti pacchi al ragaz-zino, lo ipnotizzo e lo mando a dormire per direttissima. Mi fiondo nella stanza da letto dove un’amazzone in vestaglia giace sprofondata fra le braccia di Morfeo. La penetro dopo averla sottoposta ad un incantamento minore, e ritorno alla goduria dei sensi, alla droga corroborante che dovrei evitare come i cibi piccanti. La mia pancia sbatte, sbatte, sbatte e il sangue ripren-de a pulsare dopo secoli, un fiume rosso che inonda a fiotti i canali prosciugati e non solcati da tempo immemorabile. Le mie gote avvampano di calore e si accendono come palle di Natale nella notte. Ogni poro della pelle è dilatato, si allargano i polmoni mentre precipito nell’orgasmo di Babbo Natale. Lascio mamma e marmocchio belli che addormen-tati e stringo bene le redini della slitta. La mia stretta è quella vi-gorosa d’un tempo. Una pacca al culo delle bestie e si riparte. Sono Babbo Natale, e vado a finire il mio porco lavoro.

Diciamocelo pure: un tempo fare ‘sto mestiere poteva anche avere il suo fascino. Un regalo era davvero prezioso. Ma adesso è passata la voglia. Decine di pacchi per moccioso, uno spreco indicibile, il consumismo sfrenato. Epoca degenerata, senza nerbo. Mi si scambia per lo zio. Mi si scambia per il papà o per il nonno. Come conciliare questo disagio con la magia del Natale, il colestero-lo nelle arterie con l’albero e il presepe? Molti ragazzi li ho visti crescere. Alcune bambine adesso sono oramai nonne, tutte tirate che paiono mummie egizie. E io continuo a lavorare, casa per casa: Morlacchi, Rovelli, Cencetti, Borotti, Salviotti, Contini, Mara-no, Silvestri, Rivatti, Beghelli…zona fichetta. Pure un Rolex devo consegnare a un moccioso di sette

anni. Non ce la faccio. Parcheggio le bestie che ansimano pure loro, porelle. Non lo posso fare più ‘sto mestiere. Qua, sulla strada gelida, tutto sembra avvolto da una ano-mala sideralità. Non ce la faccio più, vivo la mia reale agnizione: sono davvero Babbo Natale. Io. B-a-b-b-o-N-a-t-a-l-e. - Signore è lei Babbo Natale?- No, ragazzino, sono lo zio trave-stito, torna pure a letto.- Ma lo zio non è ciccione…e quelle…sono renne giganti!- Stai solo sognando piccolo, tor-na a dormire che prendi freddo.- Ma lei è tutto sporco di spruzzi di cacca.- …- Lei, signor Natale, fa proprio puzza, sa?- …- Mi ha portato il regalo?

Santa Claus fuck yeah!

di FranCeSCo [email protected]

Scavezzacollo

di maSSimo [email protected]

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con la scusa che c’hai novant’an-ni suonati deleghi tutto a quei 4 gnomi sfigati e alla fine, ogni anno, coi tuoi regali è un terno al lotto... Non penserai che…? Noooo, lei no. Quell’altra figurati se mi dà retta, tutta cenci e mezza curva sulla sua scopa sbrindellata, semmai dovrei farlo io un regalo a lei, magari potrei mandarle un buono per un paio di lezioni di pilates così si raddrizza un po’.Io quest’anno scrivo all’Olent-zero, passo alla concorrenza. Ti spiego un po’ chi è, e magari tu prendi appunti. Tanto per

cominciare è un carbo-naro Basco-Navarro, una persona umile, con una gran pancia, e in questo sì che vi asso-migliate, amante della buona tavola, fuma la pipa e spesso alza un po’ troppo il gomito, ma è un tale bonaccio-ne che gli si perdona tutto. Era un trovatello, venne cresciuto da una

famiglia di boscaioli e nei boschi, lontano da certi agi, vive tuttora. Certo, non è un bel vedere lui, non ha la barba curata e candida come la tua e non dev’essere nemmeno tanto profumato, d’altronde viene dalla montagna e non da un villaggio incantato dove l’aria profuma di muschio e cannella. È abituato a spaccar legna e raccogliere carbone lui, non a spazzolare renne... e co-munque pare sia un tipo ganzo a tal punto che quelli delle sue parti se lo portano in processio-ne alla vigilia di Natale prima dell’assalto al consueto cenone e lui, in cambio tutti gli anni, immancabilmente, si fa il giro dei caminetti e quatto quatto adempie al suo dovere, esauden-do grandi e piccini. Il suo nome in basco significa “bei tempi”, il che sembrerebbe

Era la sera dell’8 aprile 1498, Domenica delle Palme, quando una folla inferocita diede l’assalto al convento di San Marco, dove si trovava Savonarola con la maggior parte dei suoi seguaci. Strana coali-zione quella che conduceva l’attac-co: c’erano naturalmente i “Palle-schi” (dalle palle nello stemma dei Medici), fautori della restaurazione della signoria medicea, che però si erano alleati strumentalmente con i “Compagnacci” che, per quanto non dichiaratamente pro-Medici, erano comunque ostili al rigore morale propugnato dal frate.La battaglia durò tutta la notte e fu assai cruenta; i seguaci del frate (detti i “Piagnoni”), si erano asser-ragliati nel convento e, come dice un cronista dell’epoca “mostrarono che erano così buoni a dir paterno-stri come a trattare il fucile e la ba-lestra; e dal tetto, dal campanile e dalle finestre cominciarono a tirare sugli avversari”; la lotta era però impari e furono uccisi quasi tutti.

Francesco Valori, il loro capo, fu massacrato insieme alla moglie a colpi di roncola, probabilmente ad opera dei parenti di cinque Pal-leschi condannati a morte l’anno prima. Scamparono alla mattanza Savonarola, frà Domenico Buon-vicini e fra’ Silvestro Baruffi, solo per morire sul rogo il mese dopo. Anche fra i Palleschi si registrarono morti e feriti; fra gli altri Iacopo di Tanai de’ Nerli perse un occhio, peraltro in maniera singolare: un frate glielo cavò con un colpo di un crocifisso di ottone.Durante tutto l’infuriare della battaglia la campana del convento, che aveva a sua volta preso il nome di “Piagnona”, suonò disperata-mente a martello chiamando il

popolo fiorentino a raccolta in difesa dei Domenicani: ma le folle che avevano assistito alle prediche di Savonarola sembravano essersi dileguate come neve al sole, e nessuno rispose all’appello.Ristabilito l’ordine, non ci si dimenticò della Piagnona che, per decreto del Gonfaloniere di Giustizia, venne condannata a cinquant’anni di esilio sul campa-nile della chiesa di San Salvatore al Monte. La povera campana fu

tirata giù dal campanile di San Marco, caricata su un carretto e trasportata fino a San Salvatore fra gli sputi e le sassate della gente e le frustate di un carnefice destina-to all’uopo proprio da Tanai de’ Nerli, che intendeva così vendicare il suo occhio.Però Tanai aveva fatto i conti senza l’oste; scrisse qualche anno dopo fra’ Pacifico Burlamacchi, uno dei pochi seguaci di Savonarola sopravvissuti: “Dio giusto giudice non volle più prolungare la sua vendetta, imperochè subito li mandò un’infermità sì grande e re-pentina che si morì et la campana, che per ancora non aveva suona-to, suonò la prima volta al suo mortorio”. Subito si sparse la voce che Tanai fosse stato strozzato dal demonio evocato dalla campana maltrattata.In fretta e furia la Piagnona fu restituita alla chiesa di San Marco, dove fece onestamente il suo lavoro per qualche altro secolo, prima di creparsi e di essere messa a riposo nel Museo della Basilica.

babbo caro,io quest’anno non ho proprio voglia di chiederti

nulla e non perché non abbia più niente da scrivere sulla wish list – ci sarebbe ancora quel vicino da disintegrare, l’altro, non quello figo, e poi quel viaggetto oltreo-ceano dove il cielo è sempre più blu, per non parlare di quelle décolleté che sono ancora in ve-trina e di quel modello di homo sapiens sapiens che non so più su quale catalogo andare a cercare, e la lista potrebbe continuare ad li-bitum – ma semplicemente per-ché sto giro le mie missive, da te più volte evidentemente scartate, cambieranno destinatario. Ho scoperto una nuova opzione, che tanto nuova poi non è, visto che il personaggio in questione è atti-vo in Spagna fin dal XVII secolo, e che evidentemente mi è anche più a portata di mano. Viene dal nord anche lui, ma non da così lontano e poi ha un pubblico più di nicchia, lo conoscono giusto una manciata di milioni di abi-tanti in tutto il pianeta, quindi si dovrebbe occupare solo di pochi. Pochi, ma buoni.E poi fa tutto da sé, quindi su di lui, e solo su di lui, ricade ogni responsabilità, mica come te che

di FaBrizio [email protected]

di buon auspicio per il futuro, ma sulla questione etimologica c’è molta controversia e quindi non mi soffermo. Sta di fatto che, col buono o col cattivo tempo, l’Olentzero scenderà dai monti anche questo Natale e se poi strada facendo gli venis-se una gran voglia di farsi un bicchierino e fra me e un buon Rioja scegliesse i piaceri del palato, da estimatrice del buen tinto riojano sarei pronta anche a chiudere un occhio. Mal che vada posso sempre giocarmi la carta de Los Reyes. I Magi – sono in tre, vuoi che non si sappiano metter d’accordo per esaudirmi?! – arriveranno nella capitale il 5 gennaio, con un drappello di carrozze e paggetti al seguito e come ogni anno verranno accolti in grande stile con una parata carnevalesca, la cosiddetta Cabal-gata, lungo le arterie principali della capitale.A quel punto mi ritroverò faccia a faccia con loro. Se va bene mi getterò anch’io nella mischia a fare incetta di caramelle lanciate dai carri, se però anche stavolta andasse male… Caro babbo, sai che ti dico? Che non aspetto neanche un altro giorno e a quelle scarpe in vetri-na ci penso da sola. E comunque buon natale anche a te.

CaroBabbo

Piazza San MarcoPalleschi,Compagnaccie Piagnoni

di vaLenTina [email protected]

rebusispanico

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di Giorgio Valagussa, precettore di casa Sforza, attesta la consuetudine ducale di celebrare il cosiddetto rito del ciocco. La sera del 24 dicembre si poneva nel camino un grosso ciocco di legno e, nel frattempo, venivano portati in tavola tre grandi pani di frumento, materia prima per l’epoca di gran pregio. Il capofamiglia ne serviva una fetta a tutti i commensali, serbandone una per l’anno succes-sivo, in segno di continuità.Ingredienti: 800 g di farina, 15 g di lievito, 150 g di burro, 2 uova, 4 albumi, 450 g di zucchero, 80 g di canditi, 50 g di uvetta, 30 g di zucchero vanigliato, 60 ml di latte, un pizzico di sale.Preparazione: Il primo giorno, riscaldate il latte, e una volta intie-pidito, sciogliete in una ciotola un quarto della farina con il lievito. Lavorate l’impasto e dategli una forma a tondeggiante, prima di coprirlo con un tovagliolo e lasciarlo lievitare per tutta la notte. Il giorno successivo, tornate a lavo-rare l’impasto su di una spianatoia di legno, aiutandovi con qualche goccia di acqua tiepida e circa 100 g di farina. Lasciate quindi riposare nuovamente per circa 2 ore. Ripetete ancora l’operazione, aggiungendo altri 100 g di farina

Sembra avorio, ma non lo è: taglia-carte pubblicitario, di celluloide, 1930 circa. Fu proprio per proteg-gere le zanne degli elefanti da cui si ricavavano le palle da biliardo, 8 palle per una zanna, che nel 1863 un tale di New York destinò un bel mucchietto di dollari a chi avrebbe scoperto un materiale altro adatto a costruirle. E fu così che John Wesley Hyatt, nel 1865, costruì la prima palla di celluloide, sostanza già in fieri da un po’, composta da nitrocellulosa di azoto e canfora... Non saprei spiegarvi la magia che da e per esse origina questo materiale resistente e al contempo morbido, adatto ad essere plasma-to, scolpito, inciso e disegnato e che ha come unico neo quello di essere molto molto infiammabile. Chi non ricorda il rogo delle pelli-cole che provoca la cecità al povero Philippe Noiret nel film “Nuovo Cinema Paradiso”? Con la cellu-loide infatti si iniziò a produrre pel-licole per le foto e, nel 1887, anche per il cinema il cui mondo è perciò detto di celluloide. Passiamo ora

al vermouth, il nostro tagliacarte reclamizza infatti un particolare tipo di questa be-vanda alcolica. Il suo nome è parola tede-sca Wermut, assenzio, nome comune della “Arthemisia Absinthum”, i cui estratti vennero usati per aromatizzare il vino bianco con cui fu prodotto per la prima volta da Antonio Benedetto Carpano nel 1786. Altra accezione sarebbe quella che riconduce il termine all’unione di Wher, esercito, e muth, coraggio, “coraggio liquido” per i soldati prima delle battaglie quindi. Gli aromi che in varia mi-stura ne definiscono colore e sapore sono una schiera infinita i cui nomi spaziano dalla a alla zeta passando per tutte le lettere dell’alfabeto, dry o no dal più o meno zucchero. Il primo ad aromatizzare del vino con

Arthemisia e Dittamo macerati sarebbe stato addirittura Ippocrate nel 460 a.c. per creare un rimedio tonico e

stomachico coadiuvante dell’attività biliare; gli venne

così gradevole che la sua fama si diffuse fino a Roma dove ebbe fra gli estimatori quell’uggioso di Cicerone che offriva ai suoi ospiti del “vinum absinthiatum e Plinio che ne magnificò gli effetti tera-peutici. Il nostro oggetto propone anche la Farmacia di S. Giovanni Di Dio, quella cioè dell’omonimo Ospedale fiorentino, fondato da un prozio di Amerigo Vespucci nel 1382 e da poco dismesso, gestito nell’antichità dalla congregazione di frati detta “Fatebenefratelli”. E qui ci siamo, passiamo alla “nux vomica”, frutto dell’albero della

stricnina, sorta di bacca glabra e globosa contenente alcuni semi piatti dal sapore amaro e dall’odore nauseante, da cui “vomica” che induce nausea, e che contengono stricnina, sostanza che, usata in do-saggio ampio provoca morte rapida e certa per convulsioni e paralisi neuromuscolare, e che, in adeguate e minime dosi, avrebbe mirabolanti effetti terapeutici, sarebbe digesti-va, anticefalalgica, antipertensiva, diuretica e infine e, perché mai no, vagamente afrodisiaca in quanto stimolerebbe neurologicamente l’erezione... e dico poco! Mi sentirei comunque di sconsigliare di pren-dersi una sbornia con il Vermouth alla noce vomica e vi proporrei in visione la foto del vestibolo del vecchio Ospedale con lo scalone e le sculture di Girolamo e Pompeo Ticciati, 1735.

Fragole e cremaRicci biondi e occhio bello, vuoi venire al mio castello?Tu sarai la mia regina e mai più starai in cucina.Avrai vesti ricamate e d’argento le posate; sulla fronte avrai un diade-ma, mangerai fragole e crema.Panettone” viene da Pan de Toni? Secondo questa chiave etimologica Toni, umile sguattero della cucina di Ludovico il Moro, sarebbe l’inventore di uno fra i dolci più caratteristici della tradizione italiana. Ecco la storia: alla vigilia di un Natale, il capocuoco degli Sforza brucia il dolce preparato per il banchetto ducale. Toni, allora, decide di sacrificare il panetto di lievito madre che aveva tenuto da parte per il suo Natale. Lo lavora a più riprese con farina, uova, zucchero, uvetta e canditi, fino ad ottenere un impasto soffice e molto lievitato. Il risultato è un successo strepitoso, che Ludovi-co il Moro intitola Pan de Toni in omaggio al creatore. La vera origine del panettone va ricercata nell’usanza diffusa nel medioevo di celebrare il Natale con un pane più ricco di quello di tutti i giorni. Un manoscritto tardo quattrocentesco

di miCheLe [email protected]

a Cura di CriSTina [email protected]

e lasciando nuovamente riposare per un paio d’ore. Nello stesso tempo, fate rinvenire l’uva passa in una ciotola con acqua tiepida per circa 20 minuti. Sciogliete il burro a bagnomaria, tenendone da parte una noce che servirà poi per im-burrare la tortiera. Lasciate anche sciogliere in acqua tiepida il sale e lo zucchero, aggiungendovi poi le uova intere e gli albumi, mescolan-do lontano dalla fiamma. Ripren-dete quindi l’impasto e tornate a lavorarlo, aggiungendo la farina rimasta, il burro fuso e il miscuglio fatto con l’acqua tiepida e le uova. Lavorate sempre con le mani ben calde e verso la fine dell’impasto, quando lo vedrete ben amal-gamato ed elastico, aggiungete l’uvetta passa, dopo averla passata velocemente nella farina, ed i canditi. Imburrate una tortiera che sia stretta e alta, metteteci dentro l’impasto e lasciatelo lievitare per circa 3 ore. Preriscaldate il forno a 180° e metteteci dentro la tor-tiera con il panettone, lasciandola cuocere per circa 45 – 50 minuti. Una volta ben colorito, toglietelo dal forno e lasciatelo raffreddare a testa in giù, così da evitare che l’uvetta ed i canditi si depositino sul fondo. Una volta raffreddato potete servirlo ai vostri ospiti.

Il Pan de Toni umile sguatterodiLodovico il Moro

Dalla collezione di RossanoBizzarriadegli oggetti

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Vale la pena spostarsi a Sesto Fiorentino per tro-vare una mostra preziosa,

raffinata e ricercata le cui imma-gini continuano a seguirci anche oltre gli spazi espositivi, vuoi per l’abilità di quest’arte in “bianco e nero” che riesce a far percepire il “colore” e a ricreare un “clima”, vuoi per la capacità del mezzo grafico di esplorare le sensazioni che riguardano l’inconscio. La mostra che è curata da Emanuele Bardazzi, Giulia Ballerini e M. Donata Spadolini sarà aperta fino al 18 gennaio ed si articola nei due spazi espositivi presenti sul territorio: “La Soffitta Spazio delle Arti” di Colonnata, nella parte alta della città, e il Centro espositivo “Antonio Berti” più in basso, vicino al centro storico. La genesi di una mostra su Max Klinger nasce da un’idea di Fran-cesco Mariani (responsabile del Gruppo “La Soffitta”) immedia-tamente partecipata a Emanuele Bardazzi, grande studioso e collezionista di grafica fra Otto e Novecento, che da subito propone di estendere il tema espositivo all’influenza suscitata dal trattato Griffelkunst (Arte dello stilo) di Max Klinger sull’incisione dei suoi contemporanei; un modo per approfondire un ambito ancora poco esplorato in Italia e puntare la luce su artisti come Karl Stauffer-Bern Otto Greiner e Sigmund Lipinsky, Max Roeder, Bruno Héroux, Richard Müller, Alois Kolb, la svedese Tyra Kleen e su altri, certamente più conosciuti, come Franz von Stuck e Käthe Kollwitz, antesignana dell’Espres-sionismo. Il risultato finale è la presentazio-ne, attraverso la grafica, di tutta una congerie di artisti nordici fortemente legati al mondo sim-bolico che soggiornarono o vissero in Italia cercando nel mondo mediterraneo gli ultimi riverberi di un‘arcadia ideale, da qui il titolo evocativo della mostra. Si tratta di un’occasione unica per poter ammirare opere poco note al vasto pubblico, per la prima volta riunite insieme e rese disponibili grazie ai prestiti di appassionati cultori di grafica del periodo, in primis Bardazzi stesso che puntua-lizza: “la mostra offre un caleido-scopio di immagini che esprimono intensamente i lati reconditi

di LuiSa [email protected] dell’anima, desideri, paure, sogni,

visioni; illustrano poemi e miti classici, composizioni musicali, fiabe, leggende e fantasie dove Eros e Thanathos si fronteggiano, l’ideale composto e armonico della classicità si contrappone all’ordine turbato del peccato. Vi si scoprono non solo le origini della psicanalisi, ma anche le radici dell’horror, del dark, del fantasy e del fumetto che tanto affascinano oggi soprattutto il pubblico più giovane.” Il cospicuo materiale è organizza-to in più sezioni: il corpus centrale formato dalle opere di Klinger, di cui sono presentati i cicli più importanti da Eva e il fututo a Un guanto, alla Brahmsphantasie oltre a varie opere sciolte; il nucleo costituito da numerose incisioni dei citati artisti che hanno assimi-lato la sua ricerca; infine un’intera sezione dedicata alla produzione degli ex libris nella quale gli artisti della Mitteleuropa eccelsero, concentrandosi soprattutto sul valore simbolico del nudo, ossia dell’Akt. Un totale di oltre 300 opere che riscattano a pieno titolo l’arte dell’incisione emancipandola dal preconcetto di arte minore “da riproduzione”.Giova infine riflettere su quanto afferma lo stesso Klinger, nel suo trattato Malerei und Zeichnung del 1891, per poter cogliere appie-no i diversi spunti offerti dalla mo-stra e individuarne i contenuti ico-nografici e simbolici: “L’attitudine dell’artista è quella di esprimere la propria esperienza con quanta più vastità e fedeltà possibili: egli non può quindi nascondersi la metà più oscura del mondo, la stessa che lo assale e da cui cerca riparo, per concentrarsi unicamente su quanto è gaio e festivo. E’ necessario che le immagini da lui prodotte rechino almeno in parte traccia delle indi-cibili tensioni esistenti tra il deside-rio, il presagio e l’esperienza di una possibile, perfetta felicità terrena da un lato e l’orrore dell’esistenza dall’altro, l’orrore che talvolta ci assale urlando: è così del resto per i poeti e i musicisti.” …altro che arte da riproduzione! L’artista ci sbatte in faccia il proprio mondo immaginario e interiore popolato di fantasmi, angosce e tormenti. E tutto questo esprimono le opere in mostra, il concetto di imprescindi-bilità dal lato oscuro della vita pur alleviandolo con elementi classici e mitici o connotandolo di una sottile ironia.

Incubi nordicimiti mediterranei

Max Klinger a Sesto Fiorentino

e

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Con il secondo tomo si completa il dittico dedi-cato al complesso edilizio

della basilica della Santissima Annunziata di Firenze, im-portante tappa del più ampio progetto editoriale di valoriz-zazione degli edifici religiosi fiorentini iniziato dall’antica Cassa di Risparmio di Firen-ze e ripreso dalla Banca CR e dall’Ente Cassa. La splendida basilica dei Servi di Maria con le sue pertinenze conventuali è colta attraverso i secoli nei suoi momenti più caratterizzati che la assimilano nella sua vastità ad una città nella città che cresce e si trasforma. I due assi portanti dello sviluppo del principale santuario cittadino attraverso il tempo della sua esistenza, e spe-cialmente in età barocca, sono dati dalla rivelazione dell’im-magine miracolosa e dalla celebrazione dell’ordine servita. L’Annunziata è in primis luogo della fede, della spiritualità ma anche luogo in cui si concentra la più ampia campionatura delle espressioni devozionali rivolte alla Vergine, ai santi fondatori, ai santi canonizzati manifestate tramite il mestiere delle Arti. L’arioso loggiato ad arcate, con il quale il Caccini perfezionò la sequenza visiva della piazza con i portici, è solo uno degli aggiornamenti del complesso monastico che si susseguirono senza soluzioni di continuità tra il 600 e l’800. Esso introduce al chiostrino de’ Voti, summa del manierismo fiorentino ed atrio della basilica, entrando nella quale si ha la percezione di una gloriosa vertigine, di una bellezza complessa e indecifra-bile che ci avvolge, ci accoglie e ci soverchia. Nell’ombra siamo travolti dal baluginare dei bronzi dorati, degli stucchi, dei marmi policromi dai colori intensi e dagli audaci contrasti. Sotto il diretto patrocinio me-diceo, la sensibilità devozionale dei padri serviti e la generosità dei molti benefattori, le diverse imprese decorative furono affi-date ai migliori artisti chiamati a dare visibilità a tutte le istanze della religione, della fierezza familiare, della propaganda governativa e dunque a tradurre in magnifici apparati di tele, in

di Laura [email protected]

stucchi, in sculture, in arredi la molteplicità dei messaggi che dall’Annunziata dovevano partire. Oltre all’incessante am-modernamento delle cappelle con esiti di veri e propri vortici illusionistici, i momenti deci-sivi del rinnovo del 600 e 700 coinvolgono i due fondi della celebrazione della religiosità, il tempietto e l’altare maggiore con il monumentale ciborio, visibile fin dall’ingresso della chiesa, il nuovo soffitto, la cui maglia geometrica di scomparti riccamente intagliati e dorati, al cui centro è incastonata come un grande cammeo la tela del Volterrano, ha un incredibile potere unificante, così come il pavimento voluto da Pietro Leopoldo, il grande riordinatore

di Firenze e della Toscana. L’ap-parente semplicità dell’alternan-za di quadrati marmo bianco e lapideo grigio, che ritroviamo nella sagrestia nuova di San Lorenzo e negli Uffizi, unifica fortemente questo spazio che si animava di vano in vano, di ornamento in ornamento, con il diversificare dei linguaggi e di apparati molteplici. Nell’800 continua l’arricchimento delle cappelle con affreschi, sculture e la creazione di nuovi monu-menti funebri in cui il Purismo governa il sentimento di età romantica di accettazione del dolore che la morte infligge e la mutata concezione del dialogo con i defunti tramite l’espressio-ne di contenuti più patetici in melanconiche figure allegoriche.

La Basilicadella SantissimaAnnunziata,dal Seicentoall’Ottocento

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La galleria antiquaria Turchi presenta per Contempora-neamente 2014 un lavoro site-specific FIRST AID for Artist (FAFA) delle artiste Lisa Stampfer, Chiara Macinai e Giada Colacicchi. L’opera si propone come una riflessione ironica sul ruolo dell’artista nella società odierna, tesa a rivendicare credibilità ad una professione che spesso viene derubricata come un mero passatempo. L’idea di First Aid for Artist (FAFA) gioca sulle norme di sicurezza personale sul lavoro e l’obbligo di tenere all’interno di ogni attività almeno una cassetta di pronto soccorso (in base all’articolo 45 del D.Lgs. 81/08 del decreto 388 del 2003). La cassetta “First Aid for Artist” contiene alcuni rimedi di primo soccor-so per un artista in difficoltà, “auto medicamenti” con nomi che richiamano molti farmaci di uso – più o meno - comune che possono essere sommini-strati all’occorrenza.Nessuna medicina inventata o formulata negli ultimi cento

cinquanta anni è gratis, ci avete fatto caso?Il mondo di oggi sembra obbe-dire a logiche di consumo che creano dipendenze e assuefa-zioni, che in fondo limitano  la nostra libertà di esseri creativi, capaci di reagire alle avversità della vita così come ai malesse-ri, alle stesse malattie.Nel palazzo che fu di Bian-ca Cappello, antico edificio quattrocentesco ristrutturato dall’architetto Bernardo Buon-talenti e decorato a grottesche da Bernardino Poccetti intorno al 1580, ha sede oggi la galleria antiquaria di Giovanni Turchi che prosegue oggi, insieme alla figlia Olivia curatrice e storica dell’arte, l’attività fondata nel 1942 dal padre Giorgio e dalla madre Niccolina Gallori.Installazione site-specific delle artiste Lisa Stampfer, Chiara Macinai, Giada Colacicchi per CONTEMPORANEAMENTE 2014. Un progetto a cura di Olivia Turchi.GALLERIA TURCHIPalazzo di Bianca Cappello - Via Maggio 42r

Aldo Frangioni presentaL’arte del riciclo di Paolo della bella

ScottexNelle sculture cartacee di della Bella, si è liberi di individuare la forma di un animale, di una persona, di una pianta, di un car-retto settecentesco di attori della Commedia dell’arte, insomma di qualcosa di esistente o di immagi-nato, oppure non vederci nessun richiamo e considerarle per quelle che sono: carta strappata, arroto-lata e spiegazzata. Segnalare che ci sono 7 macchie rossastre di varie dimensioni, con un buco centrale, sfrangiato alle pareti, che si affac-cia su un fondo nero, che ci pare guardare un abisso siderale che un po’ ci turba. Ma già quest’ultima considerazione ci può condurre a vedere più quello che sta dentro di noi che non nell’opera.

Sculturaleggera 3

Artspirina e altri rimedi di primo soccorso

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2014

horror

vacui Natale 2014

Disegni di Pam Testi di Aldo Frangioni

Non è facile trovare parole di conforto per questo Natale,ma noi ci proviamo cercando di dare un colpo d’ala alla speranza

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L

Il momento del riposo all’ombra della tenda improvvisata. Queste due favolose creature, con i loro occhi sgranati ed il loro senso di tenerezza mi hanno colpito in modo particolare. Mi sono sembrate due angeli “leggeri” in questa situazione stressante e particolarmente degradata. I loro genitori erano nei campi a raccogliere frutta ed ortaggi e le due piccole amiche, assieme alla loro bambola bionda, erano in attesa che le

donne anziane che si occupavano della cucina portassero loro il pasto del mezzogiorno. Erano dolcissime e quando ho parlato con loro in un ita-liano spagnoleggiante hanno sgranato i loro grandi occhi scuri e piano piano hanno iniziato a parlarmi nella loro lingua madre. Abbiamo parlato e giocato a lungo e alla fine mi hanno fatto vedere tutte le altre bambole artigianali fatte, come ai miei tempi, dalle nonne e dalle zie utilizzando ritagli di stoffa e riempite con granaglie diverse. Erano davvero due angeli che ti facevano dimenticare per un momento la durezza della realtà.

Gilroy, California, 1972

Dall’archiviodi Maurizio berlincioni

[email protected]

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