Cultura Commestibile 11

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N° 1 10 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Michelangelo Donatello Facile, no?

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N° 110

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Michelangelo

Donatello

Facile, no?

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Da nonsaltare

Nasce a Milano nel 1928 da una famiglia di origi-ne genovese, partecipa

giovanissimo alla Resistenza, e nell’immediato dopoguerra comincia a lavorare per giornali come l’Avanti, l’Unità, Milano Sera e Le Ore, dapprima come cronista di nera e poi come fotoreporter, perché capisce che certe cose non possono essere descritte con le parole, e perché gli piace viaggiare. A Milano inizia a frequentare il Bar Giamaica, insieme a personaggi come Camilla Cederna, Giulia Niccolai, Luciano Bianciardi, ma anche Quasimodo e Buzzati, oltre ai fotografi Alfa Castaldi, Ugo Mulas ed Uliano Lucas. Nel 1955 si trasferisce a Parigi, dove rimane per trent’anni, lavoran-do per Le Monde, Le Nouvel Observateur e per la leggendaria rivista comunista Regards, e dove conosce personaggi come Roland Topor, Claude Mauriac e Daniel Pennac. Da Parigi collabora con L’Espresso, L’Illu-strazione italiana ed Il Giorno, e successivamente con Vie Nuove, Tempo Illustrato, L’Europeo ed Epoca, oltre che con Il manifesto e con il Diario di Enrico Deaglio. Aperto a nuove esperienze collabora con le riviste Jeune Afrique, Afrique-Asie e Demain l’Afrique, contribuisce a trasmissioni radiofoniche e televisive, documenta la realizza-zione di opere cinematografiche e collabora e sostiene Emergen-cy, documentando anche il suo lavoro in Afghanistan. Per sua lunga e prolifica attività ottiene riconoscimenti e premi, e le sue opere sono oggetto di numerose pubblicazioni e mo-stre. Ma quello che caratterizza il suo lavoro non sono solo la serietà professionale, la conti-nuità, l’abbondanza e la varietà della sua produzione, ma una grande onestà intellettuale ed un impegno culturale, certamente maturati nel corso delle lunghe ed assidue frequentazioni con i circoli letterari ed intellettuali, italiani e francesi, da cui ha mutuato quel misto di curiosità, interesse e distacco, che unita-mente alla necessità di approfon-

Mario Donderofotoreporterdi razza

di danilo [email protected]

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Da nonsaltare

dire e di capire la realtà al di là delle apparenze e dei pregiudizi, fa di un qualsiasi fotoreporter un autentico fotografo, interprete della vita e dei fatti della vita. Molte delle sue immagini sono diventate la sintesi di un momento storico e di un’epoca, la Parigi di Sartre e quella del maggio, gli scrittori del Nou-veau Roman, ritratti in gruppo davanti alla sede delle Editions de Minuit (Beckett, Sarraute, Robbe-Grillet, Mauriac, Simon, Pinget, Ollier, Lindon), la Roma di Moravia, Morante, Maraini e Pasolini, la Milano con Mulas, la Vanoni della “mala”, le torture in Algeria, Berlino prima della caduta del muro, la Cambogia del Khmer rossi, la Grecia dei colonnelli, la Spagna di Franco, mezzo secolo di intrecci fra sto-ria, politica e cultura. Fra i suoi maestri ideali cita Robert Capa e Cartier-Bresson, mentre il suo coetaneo Berengo-Gardin si ono-ra di averlo conosciuto ed imita-to. Accosta le persone, qualsiasi genere di persona, da quelle più famose agli sconosciuti, perché lo interessano veramente, non solo per il piacere di fotografarle. La sua galleria di ritratti è impres-sionante, ma talvolta rinuncia a fotografare delle persone perché sente di non doverlo fare, per garbo e per educazione. Ammet-te invece di essere un narratore, di avere imparato a fotografare leggendo i romanzi di Buzzati, Tobino, Hemingway, Pratolini e Pavese, confessa di avere un forte interesse per la fotografia in bianco e nero della scuola francese, e la preferisce allo stile eccessivamente levigato e con-trollato di Life, e dichiara che il colore spesso lo distrae. E’ autore di una fotografia umana, rifiuta gli effetti spettacolari, e rispetta il momento e la semplicità del reale, affermando che la sempli-cità è il risultato di un percorso, piuttosto che un inizio. Non gli interessa la fotografia “artistica” né il lavoro di camera oscura, ma solo il momento dello scatto, perché “troppa estetica uccide la verità”. Una sola macchina foto-grafica e delle scarpe solide sono l’essenziale, ti danno la felicità di fotografare. Ancora oggi, a chi lo chiama “maestro” risponde presentando-si: “Mi chiamo Mario Dondero, e sono un fotoreporter.”

Intervista a Izzedin Elzirpresidente dell’Ucoi

“Volevo fare il marinaio, poi sono diventato fotografo”

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riunione

difamiglia

Forse sarà stato il periodo che invoglia alle burle e al riso o forse l’Istituto Stensen ha voluto dare un tocco di ironia, quasi di ilarità alla sue conferenze, invitando il Professore Architetto Ingegnere Marco Dezzi Bardeschi (sopran-nominato dagli amici Marco Scherzi Pazzeschi) a parlare di “Architettura e sociale” nell’ambito delle conferenze Eros Filia Agape, che si tengono il sabato pomeriggio nell’Auditorium di Viale Don Minzoni. Il “nostro” è infatti ca-pace di distinguersi per la perfetta, e affermata, incoerenza fra le parole e i fatti.La conversazione è stata preceduta da un diffuso mormorio in sala quando il presentatore della serata ha ricordata che il “nostro” è l’au-tore del palazzo Rosso e Verde, con gli spigoli e i cilindri sito in piaz-

za san Jacopino. Ed è continuata su questo tono di scettismo fino alla fine quando, sempre gli astan-ti, hanno scoperto che il “nostro” è anche l’autore della sala consiliare del comune di Campi Bisenzio, denominata la “fabbrica delle nuvole”. Nel mezzo Marco Dezzi Bardeschi ha trovato il modo di citare Ruskin che suggeriva di fare attenzione a conservare “la dorata patina del tempo” che gli edifici hanno accumulato negli anni (sic direbbe l’edifico del palazzo comunale di Campi Bisenzio), e anche Giovanni Michelucci, suo maestro, che ebbe a dire: ...”penso che valgano solo quelle parole che sono lo specchio dei fatti”...Solo alla fine si è potuto ammi-

rare qualcosa di autenticamente innovativo nel campo del restauro (che sarebbe la materia insegnata dal nostro) con l’intervento per il restauro del Duomo-Tempio, nel rione Terra di Pozzuoli. Un intervento che unisce attenzione al passato, anche attraverso la sua riscoperta fisica (come per

le colonne del tempo corinzio) e innovazione tecnologica e formale con le grandi pareti a vetro, e che ha riconciliato la vista, e anche l’uditorio, con la coerenza delle parole. Una conferenza insomma perfettamente coerente con la perfetta incoerenza del professore MSP.

Dovessero mai girare un House of Cards in Regione Toscana ci sareb-bero serissimi problemi a trovare Frank Underwood e consorte, ma nessunissima a rintracciare il fedele braccio destro del politico, quel Doug Stamper che ne condivide i segreti e i lavori sporchi. Non certo per somiglianza fisica con l’atto-re Michael Kelly, ma quel ruolo sarebbe inevitabile affidarlo a Ledo Gori, uomo ombra di Enrico Rossi da sempre. Fedelissimo, scaltro, di grande intelligenza politica, pacato quanto il suo capo è esuberante, defilato quanto l’altro è protago-nista. Insomma l’idealtipo del colla-boratore di alto livello. Ma questa è una rubrica di costume e non certo di fine politica per cui a me Gori interessa soprattutto per il suo inconfondibile look. Non si ricorda-no apparizioni di Gori in cravatta, anzi la sua tenuta prevede camicia con bottone del colletto sganciato e talvolta pure il secondo da cui ap-pare, magnificente, una t-shirt nera paricollo. Il fisico già squadrato di suo è poi accentuato da giacche dal taglio classico e dalle fantasie da gentiluomo di campagna. Per pantalone spesso un jeans, classico, mai cedevole alle mode del momen-

to. E poi il profumo, una colonia che diremmo essere Rockford , assolutamente fuori moda ma capace di risvegliare, come una madeleine proustiana, vortici di ricordi. L’immagine complessiva è quella di un uomo semplice da inquadrare; che la forbita donna di mondo, come l’azzimato professore universitario, tende a sottovalutare dall’apparente alto della propria spocchia, per venire poi nove volte su dieci a dover cedere ai di lui ragionamenti. Insomma un aspetto che è il coronamento di un carattere e di un ruolo.

le Sorelle Marx

la StiliSta di lenin

BoBo

Marco Scherzi Pazzeschi

Ledo Gori il Doug toscano

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La sacralità è un concetto ambiguo e complesso: inserirla nell’attuale

universo contemporaneo è un compito arduo, ma esiste nella prassi estetica una formatività tesa a riconoscere e a ricercare nel linguaggio artistico l’uni-versalità dell’Assoluto. L’Essere si manifesta là dove sacro e profano, infinito e finito, asso-luto e relativo, eterno e divenire coincidono in un’unica forma pura, in quanto momento dialettico del pensiero che, dal particolare al concetto, mette in luce quell’anello mancante fra l’essenza e l’esistenza. L’Essere emerge quindi dal linguaggio e con l’Arte si manifesta in una pluralità di possibilità evoca-tive, dove l’ethos e il pathos si qualificano come risultanze di una percezione soggettiva e personale dell’universalità che tutto trascende: un Erlebnis vivo che fluisce costantemente verso la presa di coscienza della necessità di una chiave di lettura idonea a poter cogliere l’invisi-bile, attraverso una leggibilità inedita e in grado di porsi al di là di ogni preconcetto. La sacralità, di conseguenza, è una vera e propria poetica soggetti-va che fa della Bellezza e della Forma uno strumento evocativo e conoscitivo, poiché attraver-so l’Arte si compie un viaggio introspettivo, oltre l’apparenza delle cose, volto a cogliere l’essenza vera e pura dell’Essere. Tale è la tematica che, oggi, la Festa degli Artisti di Prato offre al pubblico con una mostra d’eccezione dedicata al sacro al femminile. All’interno del percorso espositivo del Museo dell’Opera del Duomo le artiste Stefania Orrù, Rachele Biag-gi e Alessia Porfiri dialogano insieme - con i miti e le icone del passato - fra il figurativo e l’astratto, fra l’evanescenza e la materia, alla scoperta di un Mistero che avvolge da sempre la Storia dell’uomo, attraverso una semantica dell’Essere che si snoda nella sperimentazione concettuale e fenomenica del linguaggio artistico. La molte-plicità dell’espressione, il fascino del particolare, l’eleganza del segno, la purità della forma e la forza del pathos risultano essere gli elementi peculiari che

Sopra Rachele Biaggi, Arca (dell’Alleanza), 2012A sinistra Alessia Porfi-ri, Maternità, 2011Sotto Stefania Orrù, Into the light, 2012

di laura [email protected] contraddistinguono le tre vie

di un unico percorso di ricerca: la prospettiva di una Bellezza illuminante e di una Verità an-cora velata. I rimandi simbolici dei giochi di materia e luce di Stefania Orrù si amalgamano perfettamente alle teofanie evo-cative e alle citazioni bibliche di Rachele Biaggi, per conver-sare con la sensibilità estetica di Alessia Porfiri, la quale si relaziona alla totalità dell’Essere e della vita in una comunione di esperienza ed emozione. Le opere esposte rappresentano in toto la delicatezza di una ricerca artistica che procede oltre la l’espressione, per porsi come manifestazione concreta di una vena poetica che contempla il mondo con occhi diversi, ma consci dell’esistenza di un’uni-versalità da comunicare e far percepire.

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Carnevale luce, colore, movimento

La ricerca di Carlo Lari è verso la fotografia astratta, la sua immagine è contras-

segnata dalla forma fluida del segno prodotta dal movimento, e dal colore che assume così un ruolo preminente. Sino ad un certo punto si è creduto che l’immagine fotografica non potesse scindersi dalla rappresen-tazione della realtà con l’evidenza dell’oggetto riconoscibile. Ma quando il concetto della rappre-sentazione crollò nell’arte visiva, pittorica o scultorea, iniziò anche nel campo della fotografia una sperimentazione verso l’astra-zione. I filoni in questo ambito sono stati diversi: dagli studi sperimentali nel rispetto della normale ripresa fotografica, sino all’avvicinamento della macchina per rendere non individuabile l’oggetto e ampliare così il campo dell’immaginario. La produzione di Carlo Lari in questa serie non arriva alla radicalità di rendere del tutto irriconoscibili gli oggetti rappresentati, piuttosto si serve del mosso, dello sfocato in modo quasi giocoso, in linea col tema del Carnevale, per ottenere fasci e onde di colori in movimento, fluidi di luce, macchie e linee gra-fiche con il risultato di immagini di estrema leggerezza e allegria, molto gradevoli a vedersi. Carlo Lari è stato promotore e critico per mostre ed eventi

d’Arte sul territorio della Versilia, ove ha curato la rassegna interna-zionale di Pittura e Scultura a Vil-la Le Pianore di Camaiore (Lu) ed è stato Direttore Artistico del Circolo Culturale Gennj Marsili. Avvia il suo percorso con una do-cumentazione sul paesaggio di S. Anna di Stazzema. E’ presente nel documentario “I dimenticati”, di Niccolò Signorini sull’Ospedale Psichiatrico di Maggiano (Lu). Nel 2011 inizia a frequentare lo studio del fotografo Sergio Fortuna, attratto dalla sua poetica del surrealismo.

La F

iaba

del

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era

Scavezzacollo

di MaSSiMo [email protected]

La Fiaba della Sera, chiuderà. Ne hanno dato l’annuncio, i Fratelli Grimm, editori della storica testata. Crollo delle vendite. La crisi dell’editoria non risparmia nessu-no. Il primo numero del quotidiano uscì nel 1812. Nel sommario dell’ultimo nu-mero, troviamo a pag. 2 un bell’articolo, scritto a quattro mani da Hanse e Gretel, “Ciottoli bianchi”, sulla possibilità, con un po’ di ingegno, di trovare una strada nella vita, anche in situazioni di trend negativo. A pag. 6, l’evento del mese: Scadono i cento anni della maledizione di Rosaspina, quella che si era punta con il fuso. Il primo principe che la bacerà, svegliandola da quel sonno profondo, oltre a sposarla, diventerà proprietario di un castello, di una torre con dentro una vecchina che fila la lana, di cavalli, cani da caccia, mosche sul muro e arrosti misti. Poi a pag. 9, un servizio fotogra-

fico sulla matrigna di Cenerentola in vacanza a Ibiza. La pag. 10, è una pagina con i consigli di Cappuccetto Rosso sulla coppia: “Come piacere al tuo lupo!”. A pag. 12, una recensione sull’ultimo Cd di Biancaneve che si chiamerà: “Pazza idea (fare una torta di mele)”. A pag. 14, un approfondimento politico: I sette capret-tini dopo essere usciti dalla pancia del lupo, fondano un proprio movimento di opinione che si chiamerà “Forbici, ago e filo”. Alla 16, i consigli per una buona alimentazione, a cura di Raperonzolo. A pag. 18, una nota Principessa, celata sotto lo pseudonimo: “La guardiana delle oche”, parla di bon ton, e di problemi inerenti a fantesche e badanti. Pag. 20 “Specchio favella, chi è la più bella?”, è dedicata alle poesie dei lettori, scelte dallo specchio fatato. Pag. 22 è de-dicata alla bellezza e a tutti i prodotti giusti da usare per avere il viso bianco e le guance rosse. A pag. 24 i ricordi di Charles Perrault: “Quello che mi ha insegnato Mamma Oca!”. La classica frase di rito “E tutti vissero felici e contenti…” chiude il numero.

di elda [email protected]

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ormai le influenze recipro-che fra culture musicali diverse sono così varie e

frequenti che è molto difficile trovarne una che ci sorprenda. Ma forse esiste ancora qualcosa da scoprire, soprattutto se si tratta di uno strumento come il pianoforte. Per lungo tempo questo è stato associato ai mu-sicisti europei, nordamericani e australiani. All’interno di questi confini ampi, ma comunque ben defini-ti, si muovevano artisti gravitanti nell’ambito del rock, del jazz o della musica classico-contem-poranea. Poi si sono venuti gli asiatici come Lang Lang e Ramin Brahmani. In pratica sembrava che soltanto l’Africa restasse immune da questo fermento. Ma non era così. Si trattava soltanto di un panorama ancora ignoto, ma che negli ultimi anni sta emergendo in modo deciso. Uno dei compositori più attivi è il pianista etiope Girma Yifra-shewa. Nato nel 1967 ad Addis Abeba, impara presto a suonare il krar, un’arpa che viene considerata uno degli strumenti più anti-chi. Negli stessi anni si accosta al patrimonio folklorico, che diviene presto una base della sua formazione culturale.All’età di 16 anni scopre il piano e decide di dedicarsi a questo strumento. Inizia gli studi al Conservatorio di Addis Abeba, dopodiché una borsa di studio gli permette di trasferirsi a Sofia per perfezionarli. Forse può sem-brare strano che un etiope studi in Bulgaria, ma bisogna ricordare che all’epoca la dittatura marxi-sta di Menghistu (1977-1991) è strettamente legata a Mosca e ai suoi satelliti. L’atmosfera di questi anni cupi verrà poi ricreata efficacemente dal regista etiope Haile Gerima nel film Teza (2008).In seguito alla caduta del comu-nismo Yifrashewa ripara in Italia, perdendo così la borsa di studio. Successivamente riesce a tornare a Sofia, dove completa gli studi grazie all’aiuto di alcune associa-zioni umanitarie. Nella capitale bulgara si afferma come interpre-te dei grandi autori continentali, fra i quali Beethoven, Chopin e

di aleSSandro [email protected] Queste influenze si ritrovano in

Love and Peace (Unseen Worlds, 2014), il disco più recente del pianista africano. Il CD non contiene composizioni recenti, ma nuove registrazioni di pezzi già apparsi su due dei tre lavori precedenti, tutti ormai difficil-mente reperibili. I cinque brani hanno evidenti richiami culturali e geografici all’Etiopia. I brevi testi che li descrivono non sono scritti soltanto in inglese, ma anche in ge’ez, l’antica lingua semita dalla quale derivano vari idiomi etiopici. Echi raveliani sono presenti in “The Shepherd with the Flute”, la prima composi-zione del pianista, tratta da una canzone popolare. In “Chewata”, composta secondo le regole della musica copta, si trovano invece accenti gospel. “Ambassel”, ispirata all’omonima montagna, mostra una cura per i dettagli che richiama certe composizioni di Chopin. Yifrashewa ci dimostra come sia possibile scrivere musica “colta” senza per questo rinunciare a un’impronta profondamente africana.Perché la musica non ha il passa-porto né la targa, quindi ignora quei limiti culturali e geografici che vorremmo darle quando cerchiamo di descriverla.

Un’altra idea dell’AfricaSchumann.Rientra in patria nel 1995. No-nostante il contatto quotidiano con la musica europea, Girma è rimasto profondamente legato alla tradizione autoctona. L’in-fluenza più importante, infatti, è da ricercarsi in Tségue Maryam Guébrou, un’anziana monaca

copta che ha registrato vari di-schi con le proprie composizioni pianistiche. L’unico facilmente reperibile è Ethiopia Song (Buda, 2006). Entrambi i compositori utilizzano le quattro scale pen-tatoniche che formano la base della tradizione musicale etiopica (il krar viene accordato così).

Il miglioredei Lidipossibili

Ad ognuno secondo le sue capacità;

ad ognuno secondo i suoi bisogni

di lido [email protected]

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il padre dell’ecologia Jakob von Uexküll aveva definito ‘l’ambiente’ come un siste-

ma chiuso, dove le percezioni dell’animale sono legate al dato biologicamente significativo. In tale contesto, l’essere non uma-no (e lo studioso aveva eletto a modello la zecca) sottostà a una tensione binaria, dove allo sti-molo percettivo risponde, quasi in automatico, un’azione ben precisa: non c’è spazio, insom-ma, per uno sguardo estetico, poiché l’oggetto diviene pura eteronomia e cessa di esistere nel momento stesso in cui ha assolto le sue funzioni (un ape, di conseguenza, non coglierà mai la bellezza del fiore, ma si limita a fruirne per portare a termine il processo impollina-torio). Diversa, al contrario, è la condizione dell’uomo, che viene a porsi nelle zone di giuntura tra i vari ambienti: il Mondo, dove l’essere umano trascende l’immanenza animale e occupa una posizione di eccentricità, in nome di quell’operazione che Giorgio Agamben, sulla scorta delle teorie lacaniane, ha definito «Macchina An-tropogenica». Una seconda Genesi, dunque, mediante cui l’Homo Sapiens riconosce

creazioni letterarie – che la fra-gilità dell’humanitas si rivela. Il mondo è scritto, poi cancellato: il (vero) testo ‘spazia’ continua-mente e mette in discussione i limiti, ridefinisce i rapporti, smaschera quasi sempre un disagio e un’emergenza latenti. Torna – come notato da Duccio Demetrio in un suo recente lavoro – la necessità creativa di raccontare la Terra e decifrar-ne le narrazioni: uno scambio semiotico al crocevia di alfabeti foto di Aldo Frangioni

l’umanità che gli è propria, corrispondente all’acquisizio-ne stessa della parola: il corpo diventa ‘Io’ e – volendo fare riferimento alle considerazioni di Émile Benveniste in merito alle particelle pronominali – si torce su se stesso assumendo una prospettiva esclusiva, tesa a dirimere il simbolo (la parola, il nome, il linguaggio) dalla carne (quelle membra che, ormai, vengono osservate dall’esterno e

concepite quale corporeità). Di conseguenza, la lingua ‘spazia’, nel senso che crea distanze, allontana e origina questa spinta alla trascendenza. Tuttavia, la parola può tornare a occupare questi interstizi, laddove i confini tra ‘ambiente naturale’ e ‘mondo’ si fanno labili, incerti e per questo latori di nuovi significati: paradossal-mente, è negli studia humanita-tis – cui dobbiamo ricondurre le

Se l’alfabeto spazial’ambiente

di diego [email protected]

I Caffè Storici sono una delle attrattive principali di Trieste. Da sempre luoghi privilegiati di quell’incontro tra le civiltà di cui Trieste è espressione e testimo-nianza. Dallo stile degli edifici alla compresenza di sette religioni con altrettanti luoghi di culto.Il più famoso è il Caffé degli Specchi che si trova nella magni-fica Piazza Unità d’Italia, al pian-terreno di Palazzo Stratti edificato nel 1837 sui resti delle fortifica-zioni (oggi visibili nelle cantine) di Castello Amarina, costruito dai Veneziani nel 1370.Come nel caso del Caffè Greco di Roma e altri locali storici a avviare l’attività commerciale fu un “le-vantino”, il greco Nicolò Priovolo, un uomo proveniente da quell’O-riente culla della diffusione della pregiata bevanda.L’inaugurazione avvenne nel 1839 e Priovolo condusse il caffè per 45

anni fino al 1884 quando cedette l’attività a due professionisti del settore del caffé: Antonio Cesareo (già gestore del Caffè Stella Polare) e Vincenzo Carmelich. Durante la II° Guerra Mondiale il Caffé fu utilizzato come alloggio per truppe, magazzino, stalla, quartier generale della Royal Navy (la marina britannica).A dare il nome al Caffé tanto amato da letterati quali Joyce, Svevo e Kafka, fu l’idea del primo gestore di ricoprire le pareti con incisioni realizzate su specchi in ricordo di un fatto storico verificatosi in Europa nell’800. Gli specchi davano luce al locale anche al tramonto, consentendo così la permanenza dei clienti

senza l’uso di lampade ad olio.Molti specchi vennero sottratti a più riprese dai tanti eserciti d’occupazione e ai giorni nostri ne rimangono esposti soltanto tre originali, mentre gli altri sono conservati in luogo appartato per proteggerli da umidità e salsedine. Il complesso scultoreo sulla cima di Palazzo Stratti, opera di

Pietro Zandomeneghi, rappresenta il progres-so e le fortune della città (arte, industria, commercio, navigazio-ne). La grande figura femminile al centro simboleggia la città di Trieste. Si racconta che in una bella giornata di inizio ‘900, mentre la “Trieste Bene” si go-deva il sole d’Aprile ai tavoli esterni del Caffè degli Specchi, un buo-ntempone entrando

nel locale disse ad alta voce: “Ocio che la statua grande dindola!” (Attenzione che la statua grande traballa!). Seguirono una fuga precipitosa e un intervento dei pompieri per i debiti accertamen-ti. Nonostante le rassicurazioni per molto tempo i tavoli sotto la grande statua rimasero inspiega-bilmente vuoti.

di Stefano [email protected]

ecoletteratura

Caffè LetterarioCaffè degli Specchi

diversi (verbale e non). Se l’uomo, a partire da Adamo, ha sostantivato la Terra, va da sé che essa sia il frutto e il risultato delle sue parole: un susseguirsi di codici che, ancora, continua-no a ‘fare spazio’ e a ribadirne la distanza. Una distanza che è giocoforza accettare, compren-dere e rispettare, cominciando proprio dalla scrittura e dai testi, da un nuovo alfabeto che sappia narrarla, sia esso iconico o verbale. Non si tratta di at-traversare una soglia: bensì com-prenderla e, al contempo, essere consapevoli di un progressivo avvicinamento.

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Però, Angelina! Brava, brava davvero, ha finan-ziato la produzione di un

film edificante forse, dida-scalico e semplice anche, ma dalla collocazione in un mondo che ha necessità di attenzione quasi più che di pane. Difret è il titolo, in aramico, lingua dell’Etiopia, significa “osare”, avere il coraggio di cambiare. É una storia vera, le persone di cui narra sono vive e vegete, la ragazzina, Hirut, che ha, quasi involontariamente, il coraggio di cambiare e l’avvocatessa, Meaza Ashenafi, che ha quello, consapevole e battagliero, di stare dalla parte delle donne del suo paese, maltrattate, sfruttate, o forse meglio, nemmeno viste, e, se mai, deliberatamente vio-late con agghiacciante brutalità da un chiunque voglia rivendi-carne il possesso e validare una scelta matrimoniale unilaterale, magari precoce, è la tradizione, magari contro il volere della famiglia che, magari, ha scelto per la propria figlia la scuola e un diverso e migliore destino. La piccola Hirut, 14 anni, brava scolara è promossa, mentre va, per campi ariosi, verso il villaggio viene seguita ed accerchiata da dei, visivamente fascinosi, vili cavalieri che la chiappano, arraffandola come fosse un fuscello e la schiaffano in una misera capanna, uno la picchia, forte, e la violenta. Poi, la mattina dopo, le porta un caffè e... “tranquilla sa-rai mia moglie”. Sicuro di sè esce, chiamato dai “compari”, aveva appoggiato all’ingresso il fucile...la piccola lo prende e scappa, la inseguono, spara, lo uccide. Giustamente. Scampa per caso al taglio della gola sul posto, punizione adeguata ad un’assassina, viene imprigionata. Lo scenario dalla campagna, povera e solatia, si sposta in cit-tà, in una prigione sgarrupata, squallida e spoglia. Da qui parte la battaglia della avvocatessa, attiva in una associazione che difende le donne. Il regista, Ze-resenay Berhane Mehari, etiope che vive in America, ha scelto di girare in Etiopia il suo film, ci mostra due mondi diversamente arretrati, quello poverissimo dei contadini, che comunque offro-

no qualcosa a chi li va a trovare, impotenti rispetto alle tradizioni primordiali, anche se colpevoli di tramandarle, e quello della caotica città e dei Funzionari statali, ottusi, arroganti, sup-ponenti e malevoli. Nel mezzo l’Associazione delle avvocatesse, che a me , qui, ora, appaiono come vere e proprie eroine, paladine impavide di una Giu-stizia così lontana da apparire impossibile, che tendono ad una parità di diritto ad esistere che sta in un buco nero e profondo con le pareti lisce, scivolose, non rampicabili. Ciononostante non recedono di un millime-tro rispetto alla inoppugnabile verità della loro essenza e al cammino per il loro necessario e progressivo riconoscimento. La tradizione vede dei vecchi

saggi raccolti sotto un bellissimo ed enorme albero, in mezzo al nulla di campi gialli di erba alta non coltivata, per ascoltare i protagonisti della vicenda, le ragioni degli aggressori e la giustificazione degli aggrediti , condannano all’esilio la piccola, non a morte. C’è un giudice anche in Etiopia, non solo a Berlino. Alla fine Meaza Ashe-nafi vince, lascio a voi scoprire come, la piccola appare confusa e distante dal rumoroso mondo cittadino, non capisce perchè l’avvocatessa non sia sposata e non cucini. Verrà promulgata poi una legge che definirà reato il rapire e violentare a scopo matrimoniale, 6 anni la pena. Strada però, ci pare di aver visto, ne hanno ancora molta da fare colà.

Osare

Difret

di CriStina [email protected]

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dalla maschera, il supereroe che gli ha garantito il successo cinematografico (Batman nella realtà-finzione del Keaton-Way-ne), e da essa vuole liberarsi (Birdman appare e scompare, è una voce interiore, il Super-Io tentatore che rappresenta l’indu-stria del profitto e del successo). Il suo scopo è quello di realizzare un adattamento del racconto di Carver - “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”,- di misurare le sue qualità attoriali e registiche nell’olimpo del teatro e cioè a Broadway. Ma natural-mente, al di sotto della maschera

si nasconde un ulteriore inganno e la contromossa non può essere che quella di una rinnovata fuga nella fantasia, come nel “Brazil” di Terry Gilliam il sogno eroico dell’uomo-farfalla in lotta con l’assurdo di una società totali-taria. E’ evidente che a Riggan non basta il successo e che Inarritu è interessato alla fascina-zione della sovradeterminazione simbolica, a ciò che rimane, alla Cosa irriducibile, al significato ultimo. Oggi il “totalitarismo” espleta la sua ideologia con la tirannia dell’apparire (Riggan in mutande e i migliaia di tweet,

La sensazione è che “Bird-man” sia il film che aspettavamo da tempo. A

colmare il vuoto di una metafi-sica contemporanea annichilita dal feticismo del “dejà-vu”, ecco il manifesto del nostro contem-poraneo flaccido, l’opera corale che veste la fenomenologia del nostro tempo. Per tutta la durata del film non ho potuto fare a meno di pensare al libro mon-stre “Infinite Jest” di D.F. Walla-ce, perché questo film, nei limiti della sua fisiologica durata, è un’opera titanica che descrive l’epoca, un colosso dal cuore di farfalla. E’ a questa intima e irriducibile parte - al residuo di Reale, al plus-oggetto che elude la simbolizzazione,- che Wallace ed Inarritu (pensiamo a “21 grammi”) mirano, cioè all’eter-nizzazione di una prospettiva ideologica atta a superare i limiti della virtualità (il nuovo Reale). La scuola di tennis nell’opera di Wallace e il teatro di Broadway in Birdman sono solo luoghi-fe-ticcio, miniature d’universo in cui si scimmiotta la vita, microcosmi governati da schemi e norme secolari del tutto vane - e qui sta la perversione - al di fuori del Contesto. Riggan Thompson (uno strepitoso Michael Keaton) è ossessionato

Un colossodal cuore di farfalle

la foto del suo volto tumefat-to postata immediatamente dalla figlia sui social network), e condanna alla schiavitù del godi-mento che non concede tregua, spazio, respiro. Da questa pri-gione Riggan non può fuggire, e nel lungo infinito piano sequen-za del film, prevalentemente sonorizzato dalla batteria scarna di Antonio Sanchez, la frizione tra vita e recitazione si fa sempre più labile fino ad implodere nella singolarità della rivelazio-ne: sono i momenti più sinceri in cui Riggan riscopre l’amore per la moglie e la figlia, analizza gli errori del passato, computa e sovradetermina.Più che l’amore parrebbe essere la “Verità” il reale oggetto del desiderio del film: Edward Nor-ton la cerca nella vita fuori dalle scene (“sono vero solo quando recito”), Emma Stone, figlia tossica di Riggan, nel diktat del Super-Io, del padre autoritario che non ha mai avuto (“Obbligo o Verità?”) ecc. ecc.Peccato per il finale. Se Birdman si fosse concluso con la scena in teatro - il pubblico di anziani in tripudio, la critica del New York Times che fugge via a corregge-re la stroncatura,- staremmo a parlare di un film sublime. Ma Inarritu ha voluto aggiungere qualche minuto di troppo...

I titoli dei primi romanzi di Ellery Queen avevano una schema preci-so: un’indicazione “geografica”, un sostantivo e la parola “mistery”; quindi “The Chinese Orange Mi-stery” (misteriosamente diventato “Delitto alla rovescia”), “The Ro-man Hat Mistery” (“La poltrona n° 30”) e meno male che “The Egyptian Cross Mistery” diventò “Il mistero delle croci egizie”. Ho dato a questa puntata, sulla scia del Maestro, un titolo analogo, che si riferisce appunto a un mistero che si è dipanato per oltre 400 anni e che sembra non avere tuttora una soluzione definitiva.E’ l’8 ottobre 1587 quando Francesco I dei Medici e la moglie Bianca Cappello cenano nella Villa di Poggio a Caiano. Subito vengono colti da febbre alta e conati di vomito e muoiono poco dopo, Francesco il 19 ottobre e Bianca il giorno successivo. Si dis-se subito che erano stati avvelenati

dal cardinale Ferdinando, fratello di Francesco al quale succedette sul trono dopo aver abbandonato la porpora cardinalizia. Nel 1924, però, il patologo Gaetano Pie-raccini, primo sindaco di Firenze liberata, nella sua monumentale opera “La stirpe dei Medici di Cafaggiolo”, sostenne che non poteva trattarsi di avvelenamento, mai caratterizzato da febbre alta, e attribuì le morti a una “febbre terzana”, tipica della malaria.Alla fine del ‘900 venne alla luce un antico documento che rivela-va come le viscere di Francesco e Bianca, dopo l’autopsia, fossero state sepolte nella chiesa di San Francesco a Bonistallo, dove in effetti furono ritrovati dei resti

organici di due persone: dall’esa-me dei fegati, svolto da tossico-logi dell’Università di Firenze. emersero tracce di arsenico, in quantità letale ma non fulmi-nante, il che giustificava la lunga agonia.Si trattava dei resti dei due sposi? Di Bianca, alla quale Ferdinando aveva negato le esequie di Stato, si ignorava il luogo dell’inuma-zione, ma Francesco era stato sepolto nelle Cappelle Medicee e il DNA del frammento di cute ritrovato nella cassetta di zinco era compatibile con quello dei resti di Bonistallo. Nel 2006 studiosi delle Università di Firenze e Pavia

confermavano la tesi dell’avvele-namento.Ma negli anni ’50 l’antropologo Giuseppe Genna aveva eseguito un calco in gesso del cranio di Francesco, asportando tutti i tessuti molli: quindi quella cute non apparteneva a Francesco e gli studi sul DNA non erano stati abbastanza accurati; inoltre venne fuori che era consuetudine dei medici del ‘500 trattare le viscere asportate nell’autopsia con composti arsenicali allo scopo di favorirne la conservazione.Nel 2009 ulteriori studi sulle ossa di Francesco rivelarono la presen-za di proteine del plasmodium falciparum (l’agente della malaria perniciosa): secondo gli esperti delle Università di Pisa e Torino Bianca e Francesco erano morti di malaria, come già aveva sostenu-to Pieraccini 75 anni prima. E allora? Sarà il caso di mettere in piedi una bella seduta spiritica ed evocare Ellery Queen per risolvere il mistero.

di faBrizio [email protected] Viale Pieraccini

Il misterodella Villa

di franCeSCo [email protected]

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salvare, gli ingredienti per un bel pomeriggio ci sono tutti se poi vi piaccion più i drammi esistenziali…Fratelli Applausi, sabato 14 e domenica 15, Teatro d’imbarco, Firenze ore 16.30

Nel mondo già difficile di per sé delle professioni culturali e dello spettaco-

lo in genere, il teatro di figura occupa un posto in ultima fila. Ingiustamente relegato nella categoria “roba da bambini” (come se educare un pubblico al teatro non fosse il primo dovere almeno in termini di prospettive di sopravvivenza del settore) o delle cose minori, non gode di molta fortuna dalle nostre parti. In fondo i burattini giravano nelle piazze di Paese, non nei grandi teatri; i suoi protago-nisti erano spesso mestieranti non fini intellettuali. E poi c’è Pinocchio e quella storia di Mangiafuoco che non ha aiuta-to la categoria a farsi una buona stampa. Invece quante volte di fronte ai drammi esistenziali che vanno in scena (che il copione lo preveda o meno) su molti dei nostri palcoscenici abbiamo pensato con nostalgia agli amati burattini o a un cunto di pupi? Per questo venire a conoscen-za di un trio di giovani che al teatro di figura si sono dedicati, a me, mette di buon umore. Sabato 14 febbraio e domenica 15 andrà infatti in scena al Tea-tro d’imbarco a Firenze, Fratelli Applausi, progetto pensato e rea-lizzato da Laura Landi, Marghe-rita Fantoni e Carlo Gambaro. Tre percorsi professionali, nel campo dello spettacolo, diversi (una scenografa, una burattinaia e un attore) che si fondono e, nel tempo, danno vita a questo spettacolo in cui il lavoro di scrittura si fonde a quello (diffi-cilissimo) di semplificazione di scene, emozioni e azioni senza per questo banalizzarle o mor-tificarle. Un percorso lungo, come raccontano i protagonisti, che li ha portati a confrontarsi col pubblico, soprattutto quello esigentissimo dei bambini, e far di questo spettacolo un work in progress continuo sino alla forma definitiva che andrà in scena questo fine settimana. Uno spettacolo che mischia varie forme di animazione dei pupazzi, scenari e meccanismi da gran teatro e che gli è valso riconoscimenti e premi. Uno sfortunato eroe, navi pirata e castelli incantati oltre che, ça va sans dire, una fanciulla da

di MiChele MorroCChitwitter @michemorr Per la rivincita

dei burattini

Soprattutto in Parlamento, ai banchi del governo, è invalsa e si è rapidamente diffusa la brutta maniera di coprirsi la bocca, avvicinando la testa a quella dell’interlocutore. Un tempo, ci si copriva la bocca per discrezione dall’incipien-te sbadiglio, ora lo si fa per evitare che i giornalisti pos-sano - con l’aiuto dei potenti teleobbiettivi - capire le frasi (o le “battute”) attraverso il movimento delle labbra ! Non so se tutto questo – assoluta-mente censurabile – abbia già una definizione lessicologica propria; le nostre conoscenze non vanno oltre la “labializza-zione” o la “fonetica articola-toria”, ma questi sono ancora fenomeni fisiologici e non di costume. Così accade che men-tre si predica la “trasparenza”, la chiarezza e il leale rapporto

di BurChiello 2000

PasquinateQuelle mani a coprirla boccacon la gente, ci si nascone miseramente la bocca per non far intercettare la frase (eviden-temente impudica, irriferibile o comunque da nascondere). E’ il “pissi pissi bau bau” che si faceva da bambini scherzando ma che mal si addice ai par-lamentari, rappresentanti del popolo. Quelle “mani a coprir la bocca” sono diventate un insopportabile comportamento a certificare il decadimento di stile nell’esercizio della cosa pubblica.

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il saggio ortolano. Per tutti era i’ “Bure”, un sopran-nome che nemmeno lui

sapeva spiegare. I’ “Bure” aveva in affitto (bloccato) una strettis-sima bottega di verdure, frutta e “uova di giornata” in Santo Spirito (mi sembra di ricordare via Del Campuccio ma potrei sbagliarmi con quella prima, più verso via Sant’Agostino). La sua strettissima bottega senza insegna, tanto si vedeva bene cosa ci si vendeva (parole sue), era molto frequentata dal circondario, credo perché faceva “mescita”. Vendeva anche qualche fiasco di vino e quando venne fuori la “boccia toscana” da un litro e mezzo senza paglia di protezione, i’ “Bure” lasciò perdere i fiaschi. I’ “Bure” era di antica stirpe ortolana. Ortolani erano stati suo padre, suo non-no e, lui diceva, anche “i’ mi’ bisnonno”. Venivano tutti dal “Vingone”, notoriamente terra di ottimi “cardi” (detti anche “gobbi”, absit iniuria verbis) e di esperti contadini. Il quartiere di Santo Spirito, in quelle stradine, era di gente povera: piccolissimi artigiani, anziani con pensioni da fame e poi c’era qualche disadattato, quelli che “non era-no riusciti a salire sulla giostra della vita”, ma spesso i’ “Bure” li riforniva egualmente di frutta e verdura “roba ormai andata o quasi” (si scherniva il buon “Bure”) e qualche uovo “a fine giornata” per far fare loro alme-no la cena. Quando nel 1999 venne l’euro, i’ “Bure” s’infuriò. Per effetto dell’euro tutti i prezzi quasi raddoppiarono d’un tratto ma i’ “Bure”, produttore-vendi-tore (filiera cortissima, anzi zero filiera), mantenne la posizione finché gli riuscì. Poi l’aumento del prezzo della miscela per la sua sgangheratissima “Ape”, di quelli dei pezzi di ricambio, del vino che lui rivendeva non es-sendo produttore, delle tasse e il blocco delle già miserabili pen-sioni dei suoi “clienti” diventate nulla lo costrinsero a “chiudere bottega”. A lui dispiacque mol-tissimo, ne pianse, ma ancora di più dispiacque alla gente di lì. Al posto di’ “Bure” venne un corniciaio-pittore-impaglia-seggiole-tappezziere-falegna-me-verniciatore e imbianchino (attività tipica), ma durò solo

un paio d’anni poi anche lui fu “costretto dalla congiuntura avversa a chiudere bottega”. Ora in quello stretto e lungo fondo

c’è un ricovero per biciclette perché allora come ora in quella zona, se lasciati troppo per la strada, sono “articoli pizzicati”

L’economistaortolano

di frequente. Una questione di economia, non per lodroneria o malvagità. Si sa, il bisogno ... Un giorno i’ “Bure” venne in vi-sita e dopo un bicchiere di buon vino bevuto al bar all’angolo di via Delle Caldaie con i vecchi amici, disse loro queste lapidarie parole: «Per far ripartire il treno, levare di torno tutti questi disoccupati e stare tutti un po’ meglio, bisogna riportare l’IVA al diciottopercento e rimodulare il valore dell’euro a seconda delle varie economie nazionali». Lì per lì nessuno riuscì a capire se questa frase di’ “Bure” fosse uscita dal suo cervello o l’avesse letta o sentita da qualche parte, fatto sta che quando fu anda-to via tutti convennero come novantanove su cento i’ “Bure” avesse – com’a i’solito ‒ ragione. Chissà.

di aleSSandro [email protected]

Ode al paneDel mare e della terra faremo pane,coltiveremo a grano la terra e i pianeti,il pane di ogni bocca,di ogni uomo,ogni giornoarriverà perché andammo a semi-narloe a produrlo non per un uomoma per tutti,il pane, il paneper tutti i popolie con esso ciò che haforma e sapore di panedivideremo:la terra,la bellezza,l’amore,tutto questo ha sapore di pane.

Pablo NerudaUno dei piatti più celebri della cucina portoghese: il “porco à Alentejana”. È un piatto a base di carne di maiale e vongole stufate che, tra gli ingredienti, vede anche la presenza della “massa de pimen-tão”, una pasta di peperoni rossi cotti e messi a fermentare, una base di molte ricette della cucina portoghese.Prima di iniziare con la prepara-zione del “porco à Alentejana”, bisogna preparare la “massa de pi-mentão”. Gli ingredienti necessari sono dei peperoni rossi, maturi al punto giusto: tagliare i peperoni a pezzetti grandi e cuocere in acqua salata; lasciarli asciugare avvolti in

Il porco à Alentejana

un panno di cotone per circa due giorni, quindi triturarli finemente e salarli. Ingredienti per 4 persone. Per preparare il “porco à Alentejana”, occorre: 500 g di lonza di maiale, 1 kg di vongole veraci, 500 g di patate piccole, 2 spicchi d’aglio, Salsa “massa de pimentão”, Alloro, Burro, Prezzemolo, Strutto, Olio extra vergine d’oliva, Sale e pepe q.b., Succo di 1 limonePreparazione: Tagliare la lonza di maiale in cubetti abbastanza grandi e insaporire con sale e pepe, delle foglie di alloro e la “massa de pimentão” e mescolare tutto, la-sciando marinare per qualche ora. Nel frattempo bisogna pelare le patate e tagliarle a pezzi più grossi e spazzolare le vongole per pulirle bene.In una padella soffriggere poi la

carne con lo strutto e il burro fin-ché la carme non rosola e assume un colore dorato. Togliere poi la carne dalla padella e con il sughet-to di cottura bisogna soffriggere l’aglio schiacciato in precedenza e il prezzemolo tritato grossolana-mente. Aggiungere poi le vongole per farle aprire. Nella stessa pento-la aggiungere la carne e proseguire la cottura tutta insieme. A parte, in abbondante olio d’oliva bollente friggere le patate, asciu-garle su della carta assorbente. A questo punto si può comporre il “porco à Alentejana”: disporre la carne e le patate in un piatto e le vongole che devono essere state insaporite con del succo di limone e del prezzemolo tritato. Il “porco à Alentejana” deve essere servito molto caldo e gustato con un buon bicchiere di vino.

di MiChele [email protected]

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08/09/2014Caro Diario,mi trovo qui, da sola, ad indossare un abito che prevede spazio abi-tativo e relazionale al suo interno, per più persone contemporanea-mente.Mi manca la presenza, il contatto, la relazione con l’Altro, seppur temporanea..Chi vuole indossare un abito relazionale con me?Ne ho tanti, per più tipologie relazionali, per lo stretto contatto, per l’abbraccio obbligato, per la condivisione a distanza, per movi-menti e sedute, per uno, due, tre, quattro persone, sono i Temporary Moving e i Temporary Seating ma ci sono anche i pul-lovers dal sotto-titolo “nonpuoinonamarmi”.Ecco, stanno arrivando, cari amici e sconosciuti, pronti a mettersi in relazione, ad indossare un abito in comune...Così, per un mese dall’8 settembre al 3 ottobre, si sono succeduti continui incontri e relazioni temporanee allo spazio della SACI Gallery in Via Sant’Antonino 11 a Firenze.Ho trasformato lo spazio e il tempo a mia disposizione per un evento personale in un progetto relazionale in progress.Artisti, danzatori, performers, scrittori sono stati coinvolti sia nel relazionarsi indossando gli abiti collettivi, sia presenziando con

progetti relazionali propri, ma an-che il pubblico è stato “investito”.Ho incontrato, giorno dopo giorno: Lara Carbonara, Pietro Gaglianò, Claudio e Claudia Cosma, Emanuele Baciocchi, Gwynneth Alldis e gli studenti SACI, Fiorella Nicosia e Davide De Lillo, Costanza Berti, Luca De Silva, Guido Riccitelli, Festina Lente e Franca Gori, Anna Rose, Martin Leon-Guaizine, Caterina e Giulia di Bolli Sartoria Creativa,

Diario ritrovatodi relazionitemporanee

Emanuela Baldi-Love Difference e Simona Allegranti, Tatiana Villani e Manuel Perna con Valentina Filice e Andrea Caridi, Edoardo Malagigi e Angela Nocentini con Rocco Musolino, Federica Attorre, Julia Galliez, Serenella Pini e Giulia Meoni, Alessandro Grego, Sabrina Mazzuoli, Valentina Sorgi, Alessio Doveri, Elisa Prati, Lucre-zia Benatti con Noemie Grottini e Stefano Benatti, Mongobì Bibiana Mele, Stefania Maffei, Laura Mo-

di Manuela [email protected]

di davide [email protected]

Processo di eu-trofizzazione in un bacino

artificiale

naldi, Sabrina Sguanci, Alessandra Palma Di Cesnola e Martina Belloni, Gianni Barelli e Marco Tattini con Eleonora Boscolo, An-gela Rosi e Simonetta Fratini con Eliana Sevillano, Fabrizio e Maya Lucchesi, Mega+Mega, Gabriele Giuseppe Mauro, Stefania Punta-roli, Rino Cavasino, Elena Salvini Pierallini con Aldo Frangioni, Nadija Chekoufi, Alessandro Fac-chini, Andrea Marini, Carlo Sain, Caterina Trombetti, Elda Torres, Fausto De Landro, Giovanna Giu-sti, Ines Romitti, Margherita Ver-di, Marlène Mangold, Pierangelo Pierallini, Pietro Messina, Resmi Al Kafaji, Susanna Pellegrini, Wal-ter Romani, Beatrice Pierallini con Palmira Leonella Virdis e Sibilla Pierallini con Franco e Nicola Ancillotti, Lori Lako con Albien Alushaj e Arbër Elezi, Pablo Fer-min e Alida Figueroa, Paolo Lauri e Noemi Besterceisz, Elisa Biagini, Beatrice Pieroni Lubè e Luis Al-gado, Maho Sato, Stefano Tondo e Inge Iacoviello, Erica Petrucci, Renato Floris… il 27 settembre alla GAMC di Viareggio alla presentazione di BAU A3D, Carlo Palli, Alessandra Borsetti Venier, Elisabetta Salvadori, Tommaso Vassalle e tanti altri.04/10/2014Sono qui, di nuovo da sola, ad indossare un maglione a più ma-niche, ma con il cuore trepidante di emozioni, in attesa di nuova condivisione, di nuove Temporary Relationships...

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Nomade liquido a cura di Raul Dominguez è la mostra perso-nale di Antonia Fontana allo Spazio d’arte A. Moretti / Sche-ma Polis – Carmignano, fino al 22 febbraio 2015. Sulle carte il pigmento liquido viaggia e scor-re sul foglio creando percorsi e infinite possibilità, definisce forme che sembrano valige, otri o comunque architetture che possono contenere questa immensa energia senza disper-derla. L’artista ha “fotografato” l’attimo della colata del colore e la sua sedimentazione coglien-done le tracce più o meno scure e il loro insinuarsi nella tessitura della superficie cartacea fino a formare paesaggi incantati. Ci sono rigore e languore nel lasciare che il colore scivoli sulla carta, una sensualità velata e contenuta nel disegnare forme e abbozzare una natura in bianco e nero con capillari che irrorano di vita il supporto cartaceo. Il pigmento è Nomade liquido libero di andare ovunque gui-dato dalle mani dell’artista che muovono e ondulano il foglio dando un preciso significato al gesto. Il colore acquista così una sua dinamica e una sua vita, scaturiscono opere rispettose del rapporto di proporzione che la

di angela [email protected]

aldo Frangioni presentaL’arte del riciclo di Paolo della bella

ScottexIl ritorno dei lupi nei nostri appennini e loro avvicinarsi ai luoghi abitati è, forse, l’inconscia origine di questo Scottex 8. Come in altre occasioni della Bella non sarà d’accordo. Ma la reazione degli artisti alle critiche delle loro opere sono spesso il segno della loro pochezza personale e con-temporaneamente della grandezza del la-voro realizzato: più profondo è l’abisso fra la volontà espressa dal produttore e il suo prodotto e più sublime è l’opera. L’artista, quando è tale, è solo lo strumento di forze che gli sono estranee, egli è, poveraccio, un umile sfornatore di materia prima. Ad altri spetta di giudicare se questa scultu-ra ha valore o è un foglio sudicio, detto questo pensiamo che l’ululare di questo lavoro sia da annoverare fra le opere più interessanti del XXI secolo.

Sculturaleggera

Viaggi veloci di liquidi su carta8

di piccoli rettangoli in cera rosa, porta il disordine nell’ordine con la scomposizione e il mo-mentaneo scompiglio, il tappeto è calpestato e poi ricomposto, è una pelle che si lacera e poi si ricrea. La materia di cui è composto, la cera, è malleabile, morbida, liscia e il suo colore roseo la fa assomigliare alla pelle di un neonato, puro, tenero, indifeso, nuovo, come nuove sono le infinite opportunità di smontarsi e ricostruirsi. C’era è simile alla natura che si sconvol-ge, ma che poi riesce sempre a ritrovare l’equilibrio e l’armonia. Nel video che Antonia Fontana presenta in galleria e che ha generato l’idea di questo proget-to, si percepiscono fluidità ed equilibrio, l’acqua scorre su una piccola spiaggia spagnola vicino a Bilbao essa crea un ininterrot-to ricambio, una trasformazione continua del ricamo che disegna sulla sabbia dandoci il senso di continuità e di mutamento che è la vita stessa. Lasciarsi traspor-tare da Nomade liquido ci per-mette di entrare nel movimento della natura e della vita dove in apparenza tutto è sempre uguale a se stesso, ma, invece, ha in se un continuo divenire.

natura racchiude in sé e che è espressione di bellezza e segreto delle forme visibili. Anche l’uso di carte quadrate o rettangolari rispetta tali proporzioni, si potrebbe dire che An-tonia Fontana “svela” il segreto del creato e l’essenza del suo incanto attraverso l’ar-monia delle sue opere e di esse con l’am-biente circostante. L’installazione C’era è un tappeto composto

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Leggo che per il disobbe-diente Francesco Ca-ruso, uno che è sempre

piuttosto incazzato e che se lo senti parlare capisci che non poteva che essere finito (anche se per poco) nel Parlamento italiano, le rapine sono un metodo violento che i pove-ri hanno a disposizione per recuperare la ricchezza loro estorta. Così il disobbedien-te-già deputato-oggi professore universitario (poi non si dica che i miracoli non esistono) condanna Graziano Stacchio, il benzinaio di Nanto, per aver osato fermare, ferendolo mortalmente, uno di quei derelitti che aveva commes-so l’ingenuità di presentarsi davanti ad una gioielleria per compiere una sorta di prelievo proletario. Mi capita quindi di ascoltare altri politici che, all’opposto, non esitano un secondo a definire il signor Stacchio un “eroe”, utilizzando un vocabolo che a furia di essere abusato rischia di smarrire, alla stregua di molti altri, l’autentico signi-ficato; e chiamando l’anziano benzinaio ad un ruolo che il medesimo ha subito chiarito essergli estraneo - come accade a chi è abituato ogni giorno ad adempiere al proprio dovere e non può dunque concepire che un fatto pur eccezionale come quello di dover salvare una gio-vane donna da un grave ed im-minente pericolo sia qualcosa di troppo diverso dal naturale prolungamento del quotidiano esercizio del proprio ‘ufficio’.La politica si appropria di atti e di gesti della gente comune - quando assumono quel tanto di carica simbolica che serve alla propria causa -, quasi mai interessata com’è alle gioie e ai dolori dei poveri mortali, bensì a cogliere cinicamente qua-lunque opportunità per rifarsi quel po’ di trucco che le serve a drenare l’agognato consenso.Allora, in mezzo alla con-sueta illuvie di affermazioni perlomeno inutili, mi sembra giusto il caso di portare sulla vicenda una parola di verità, o perlomeno di peso. Una parola che naturalmente non è la mia e che volentieri prendo in

Amerai peril prossimo tuo ciò che ami per te

prestito e propongo da “Il tac-chino pensante”, breve e denso saggio di uno studioso della Torah e del Talmud - oltre che grande affabulatore: Haim Baharier. Scrive Baharier, parlando del super-coman-damento “amerai il prossimo

di Paolo [email protected] tuo come te stesso”, in ebraico

Veahavtà le-reakhà kamòkha, che il prefisso ‘le’ attaccato al sostantivo sta ad indicare ‘per’, ‘in direzione di’ e pertanto il comandamento suonerebbe meglio, o più esattamente, così: “amerai per il prossimo tuo ciò che ami per te”. Spiega il saggio, concludendo: “Non un generico appello all’amore per l’altro, che nessuno ti può ordinare, ma il vincolo ad assumere su di te la respon-sabilità di agire per gli altri come agiresti per te. A comin-ciare dalla legittima difesa, che sei tenuto ad estendere agli inermi, a chi difendersi da solo non può. Accollan-doti, quando le circostanze lo impongono, anche quella parte di ingiustizia necessaria e inevitabile all’espletamento della giustizia”.

Sergio Givone e Fabio Cavalluccipresentano il libro di Gianni Pozziedito dalla Pisa University Press

Gianni Pozzi

FIGURE DEL DONODispendio, reciprocità eimpegno nella pratica artisticacontemporanea

Accademia di Belle Arti di FirenzeAula del Cenacolo

Giovedì 19 febbraio | ore 15.00

Interviene Eugenio Cecioni,Direttore dell’Accademia

Modera Franco Speroni

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ancora che emerga allo sguardo la figura è costituita dal movi-mento ritmato della mano che imprime il segno.Questo emergere,questo costi-tuirsi del significato dal ritmo imposto al molteplice da un fascino particolare alle opere di Antonio, il sentimento di essere insolitamente vicini al cuore delle cose.Queste opere recenti di Antonio Sedoni possono essere lette come la prosecuzione, lucida nella con-sapevolezza e raffinata nell’esecu-zione, del suo particolare viaggio nel tempo.Viaggio nelle espressioni arti-stiche del passato nelle quali trovare segni e percezioni che evochino ricordi ed emozioni. I ricordi e le emozioni si concretiz-zano in immagini in cui il colore partisce lo spazio e offre un or-dine sentimentale e conoscitivo agli aggetti.Al nomadismo estetico del nostro tempo  Antonio contrap-pone la   profondità simbolica dell’arte del  passato, liberata da ogni residuo realistico e svin-colata da evidenti riferimenti formali. Questo il “Viaggio nel tempo” che affascina lo sguardo e guida la percezione estetica del presente.

Emozioni e figure fra intellettoed immaginazione

Le opere di Danilo Cecchi sono costruita da una compatta linea di materia

colorata distribuita senza pen-nello. La rinuncia allo strumento fondamentale e simbolico della pittura risponde all’esigenza di superare l’idea della pittura come raffigurazione più o meno mimetica di una realtà essenziale immutabile.La materia colorata trasferisce nello spazio bidimensionale della superficie la tensione verso le forme. Le forme sono soprat-tutto quelle degli oggetti della natura suggeriti appena nella loro consistenza e nel loro profi-lo, ma comunque riconoscibili. Colori e materia mantengono il fascino del paesaggio dell’insieme emozionante del mondo esterno che ci avvolge e del quale siamo parte. Un’empatia, un’emozione che Danilo  Cecchi concretizza nel gesto che dispone il colore e dà spazio alla materia dove abita l’immaginazione.Per Gabriella Sedoni sentirsi artista e fare arte è ogni volta un modo per tradurre in espansio-ni di luce e colore la relazione Io-Mondo. Nelle cromie, nelle campiture, che si sviluppano nella bidimensionalità della tela, Gabriella realizza un’astrazione che non rinuncia mai all’armo-nia.Nelle opere recenti è ancor più evidente come il colore confi-guri un’atmosfera, uno spazio che non condivide nulla con il quotidiano e negli sviluppi tonali riesce a dare visibilità al sogno. Il quadro non mostra, non rap-presenta, è una realtà fisica la cui visione è un modo privilegiato di superare l’opacità dell’esperienza reale. Come osservare un paesag-gio dello spirito dove l’esperienza estetica guida l’immaginazione. Le opere di Antonio Cecchi sono un racconto. Il racconto del costituirsi delle immagini attraverso l’addensarsi progressi-vo del segno.Antonio ha un’attenzione par-ticolare agli oggetti, colti nella loro singolarità e definiti in uno spazio razionale con i ritmi e i tratti della geometria.Un’arte della riflessione, della mediatezza razionale che svilup-pa la sua immagine di mondo nel piano bidimensionale. Prima

di lorenzo Poggi

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horror

vacuiDisegni di Pam

Testi di aldo Frangioni

TranquilloCharlie, non avere timore, ti difendo io, nessuno ti farà del male, al massimo, se mi offendi la mamma, ti do un pugno.

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L

Questa è una vecchia conoscenza, è l’autobus che avevamo già visto di scorcio la scorsa settimana. Ce ne sono anche molti altri come questo. Siamo all’inizio della giornata di raccolta della frutta, in questo caso albicocche, e i braccianti scendono lungo la strada che costeggia il ranch dove dovranno lavorare. Madre e figlia, con i capelli rossi e le lentiggini, quasi sicuramente di origini irlandesi, fan-

no la spola dagli alberi ai punti di raccolta dove si trovano le cassette della “Sun Garden Packing.Co.” una nota azienda di inscatolamento. Il lavoro è ovviamente stagionale e precario ed è molto faticoso, decisamente poco adatto per i bambini.

Patterson, San Joaquin Valley, 1972

Dall’archiviodi Maurizio berlincioni

[email protected]

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