Cultura Commestibile 115

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N° 1 15 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Giulio Burchi: “Tu sai che Perotti e il ministro sono non intimi, di più... No,

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N° 115

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Giulio Burchi: “Tu sai che Perotti e il ministro sono non intimi, di più...

No,

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Da nonsaltare

Il Jordan Museum, nato dalla volontà della casa regnante hashemita di

dar vita a un Museo nazionale della Giordania, cerca di offrire un panorama il più possibile completo della evoluzione preistorica e storica di tutto il territorio del regno haschemita. È stato realizzato attraverso una collaborazione fra il Ministero giordano del Turismo e delle Antichità e quello dei Lavori pubblici, la Grande Munici-palità di Amman e il governo giapponese con JICA (l’agenzia di cooperazione internazionale). Progettato dall’architetto gior-dano Ja’far Toukan il museo è costruito in pietra bianca locale e vetro. La prima pietra del museo fu posata nel 2005 e il percorso museale è stato aperto in sordina a gennaio 2013, senza un biglietto di ingresso e con giorni e orari di aper-tura abbastanza aleatori. Una apertura ufficiale vera e propria si è avuta solo nel 2014, con l’i-stituzione da parte delle autorità di un biglietto di ingresso e con la definizione di regolari orari di apertura. Il percorso museale si articola su due piani per quasi diecimila metri quadri ed espone reper-ti che vanno dalla preistoria all’età della pietra a quella del bronzo, e dal periodo classico fino all’epoca islamica e all’era moderna, a cui è dedicato il piano superiore. Nell’intento dei fondatori e dell’istituzione che lo gestisce il Jordan Mu-seum si configura come luogo di studio, conservazione, restauro e divulgazione del patrimonio ar-cheologico e artistico nazionale: vi sono ospitati una biblioteca e un centro di documentazione, un laboratorio di conservazione e restauro, un centro di atti-vità educative per bambini e famiglie (Makany, in arabo “il mio posto”). Il museo dispo-ne anche di spazi per mostre temporanee e di un’ampia area esterna per eventi e spettacoli. La segnaletica, le didascalie e gli apparati didattici del museo sono in arabo e in inglese. La visita del museo segue un percorso cronologico a partire da un milione e mezzo di anni fa, con sale tematiche come

quella dedicata alla nascita della scrittura, a Petra e ai nabatei, alla simbiosi culturale ellenistica, ai rotoli del mar Morto. Accanto a oggetti di uso quotidiano, a ricostruzioni di insediamenti umani e di siti che si trovano in varie zone della Giordania, a sepolture e corredi funerari, a esemplifica-zioni di tecniche di costruzione e decorazione, la visita consente di ammirare una serie di opere e reperti di grande valore artistico e documentale e dal notevole impatto emotivo. Tra questi le stele neolitiche di Ayn Ghazal, risalenti al VIII secolo a.C. e ritrovate nel sito

preistorico omonimo nella zona nord orientale di Amman, probabilmente le più antiche rappresentazioni antropomorfe conosciute: realizzate in argilla, queste statue rappresentano individui di entrambi i sessi e hanno occhi dallo sguardo penetrante, quasi inquietante. Suggestiva anche l’esposizione dei papiri di Petra, documenti scritti in greco risalenti al VI secolo d.C. e facenti parte di un corpus di circa 140 papiri rinvenuti a Petra: rinvenuti nella chiesa bizantina di Petra nel 1993, i papiri si sono conservati perché sono stati carbonizzati in un incendio, e per questo

sono decifrabili solo in parte. I papiri sono esposti in una serie di teche che li proteggono dalla luce diretta e ne consentono la visione per brevi intervalli di tempo. Anche il testo di Balaam è un documento emozionante: scritto in aramaico, cananeo e ammo-nita, tutte lingue della famiglia semitica nordoccidentale tra cui l’aramaico era dominante, è con ogni probabilità il responso di un oracolo, e fa riferimento al profeta Balaam, citato nel Libro dei Numeri nell’Antico Testa-mento. Il testo è stato rinvenuto nel 1967, dove era dipinto sulla parete di un tempio dell’era del bronzo nella località giordana di Deir AllaUna visita al Jordan Museum è fonte di ispirazione per parti-re alla scoperta del territorio meno noto della Giordania: per esempio nella sala che espone i rilievi di Nabonidus, l’ultimo re caldeo babilonese (VI secolo a.C.), rinvenuti sulla rupe di As-Selah a sud di Tafilah ed esposti, oltre che ad Amman, al British Museum. I rilievi sono la testimonianza dei consistenti scambi culturali fra Mesopota-mia e Giordania, e la zona di Tafilah è senz’altro una delle più suggestive di tutta la Giordania dal punto di vista naturalistico. Oppure la sala dedicata alla simbiosi culturale del periodo ellenistico, con varie testimo-nianze del sito di Qasr al-Abd, edificio la cui destinazione (fortezza, residenza) è incerta e fu eretto probabilmente dal notabile Ircano della famiglia dei Tobiadi, all’epoca del regno giordano ammonita nel II secolo d.C. L’edificio, un raro esempio di architettura elleni-stica in Giordania, si trova nella località di Iraq al-Amir, poco distante da Amman.Al termine del percorso museale del Jordan Museum si trova la sala dedicata ai manoscritti (o rotoli) del mar Morto, una rac-colta di testi dal grande valore storico e religioso rinvenuti fra il 1947 e il 1956 nelle grotte di Qumran, sulla riva nord occi-dentale del mar Morto. I rotoli e i contenitori di terracotta che li contenevano furono trovati da un pastore palestinese e, dopo alterne vicende in cui furono venduti a mercanti d’arte e recu-

La storiaGiordania

di Lara [email protected]

della

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Da nonsaltare

perati, sono esposti fra Gerusa-lemme, Parigi e Amman. I testi dei rotoli sono scritti in ebraico, aramaico e greco su pergamena e papiro e, fatto molto raro, due di essi sono incisi su lamine di bronzo. Al Jordan Museum di Amman sono visibili, fra gli altri, proprio i due testi incisi su bronzo, esposti in un ambiente di notevole suggestione.Il Jordan Museum è aperto dalle 10 alle 14. I giorni di chiusura sono il venerdì e il martedì.http://jordanmuseum.jo/enPS: Scrivere un articolo su un museo di una capitale araba non è impresa facile dopo quanto accaduto mercoledì 18 marzo al Museo del Bardo di Tunisi. I musei sono luoghi di pace e con-divisione, e la violenza dell’estre-mismo e il terrore non dovrebbero trovarvi posto, come non dovreb-bero far parte della vita degli esseri umani. La Giordania al momento è un paese stabile e sicuro, che subi-

sce l’influenza delle turbolenta situazione mediorientale con un crollo dei visitatori che colpisce gravemente operatori e residenti: il turismo in Giordania nel 2012 era la seconda voce di entrata nel bilancio dello Stato dopo gli aiuti internazionali. Un viaggio in Giordania oggi è il modo migliore per contribuire a sostenere un popolo la cui vocazione all’acco-glienza e alla convivenza pacifica sono confermate dal sorriso aperto con cui vengono salutati i vi-sitatori e, da non dimenticare, dal numero di profughi che da decenni il paese accoglie dalle aree più critiche della regione.

Un mese fa, eravamo a Firen-ze. Una bellissima riunione, per il progetto europeo

NOSTOI - Storie di ritorni e di esodi, un laboratorio tra archeo-logia e performing arts che vede coinvolta la Toscana e la Tunisia, con il Teatro Nazionale di Tunisi e l’Agenzia per la Valorizzazione del Patrimonio Tunisino. 15 ragazzi italiani e tunisino stavano per iniziare la fase finale del pro-getto, lavorando insieme, prima in Italia nella necropoli di San Cerbone a Populonia, quindi a Cartagine, a Tunisi.C’erano il direttore artistico del cantiere italiano, il regista Michail Marmarinos, greco; il direttore del Teatro Nazionale di Tunisi, Fadhel Jaibi; il direttore artisti-co del cantiere tunisino, Kays Rostom, turco; i rappresentanti dell’Agenzia per la valorizzazione del patrimonio, tunisini e mau-ritano. E poi noi italiani, di Co-operativa Archeologia e Fabbrica Europa. E un francese, Pierre Drap, del CNRS di Marsiglia.Il Mediterraneo, insomma, che si confrontava sul significato, il senso, la percezione del sito archeologico qui in Italia, lì, anzi qui, in Tunisia.C’era forte il dramma di gennaio di Parigi. L’indignazione di un intellettuale

laico come Fadhel Jaibi e, insie-me, la speranza in una Europa più solidale di un intellettuale greco, Michael Marmarinos. E le riflessioni di noi tecnici, addetti ai lavori.Il versante nordafricano che ci parlava dei siti archeologici percepiti come qualcosa di altro da parte dei tunisini; come se loro non venissero, anche, dai fenici, da Didone/Elissa, dalla stirpe dei Barca. Come se fossero, nelle

parole di Jaibi, siti da depredare, oppure da vendere ai turisti. In quel senso, sì, petrolio.E io che pensavo alle nostre rico-struzioni virtuali, ai selfie vietati al Louvre, ai numeri dei rapporti del Ministero che ci dicono che i giovani italiani fino ai 18 anni sono “assidui” visitatori dei siti ar-cheologici, ma ci vanno una volta e basta, perché deportati nelle gite di classe, tutto sbadigli e pomicia-te. Un passato che ci annoia, che

non sappiamo cosa inventarci per renderlo attraente.Poi, una settimana fa, eravamo a Tunisi. Al teatro Nazionale, nel cuore della città vecchia, insieme agli amici dell’Agenzia per la valorizzazione del patrimonio. Le stragi di Boko Haram di pochi giorni prima, le devasta-zioni dell’IS a Mosul. Sembrava tutto più vicino, meno filtrato, più contingente. Nonostante il cosmopolitismo di Tunisi, le belle ragazze a capo scoperto, l’avenue Bourghiba come un boulevard europeo; il filo spinato vicino al nostro albergo quasi come un esotismo, un eccesso di zelo il metal detector all’ingresso dell’Hotel Africa e il passag-gio vietato ai veicoli, di notte, davanti.Poi oggi, mercoledì 18 marzo. Ancora notizie confuse, non è chiaro se l’attacco al meraviglioso museo del Bardo sia stato voluto, oppure un ripiego di un fallito attacco al parlamento.E mentre mia figlia mi parlava dell’orazion picciola del XVI can-to dell’Inferno dantesco ripensavo all’Ulisse legato al pennone della nave per sfuggire al canto delle si-rene, nello splendido mosaico del Bardo. “Fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”; questa volta, ho trovato le parole, per spiegarlo a mia figlia.

Lettera da Tunisi

La nascitadel Jordan Museumdi Amman

di BarBara Settitwitter @Barbara_Setti

30 giovani artisti italiani e tunisini lavoreranno insieme al regista Michael Marmarinos in due cantieri di residenza artistica. Le ‘nuove esperienze di visita’ si terranno sabato 28 e domenica 29 marzo nella Necropoli di San Cerbone, Parco Archeologico di Baratti e Populonia; il 16 e 17 maggio a Cartagine Byrsa, in Tunisia. Nostoi è un progetto di ricerca e di cooperazione internazionale Italia, Tunisia e Francia sul dialogo possibile tra archeologia e performing art (arti performative) che ha l’intento di promuovere i siti archeologici attraverso i linguaggi delle arti contemporanee.In lingua greca, Nostoi vuol dire “ritorni”: il nome prende spunto dal ciclo epico che racconta il ritorno in patria dei Greci dopo la distruzione di Troia, di cui fa parte l’Odissea e il peregrinaggio di Ulisse verso Itaca. L’i-niziativa, un progetto che coniuga scienza e arti performative, si sviluppa in due cantieri di residenza artistica, durante i quali 30 giovani artisti italiani e tunisini, selezionati tra centinaia di candidati, lavoreranno insieme per la prima volta, guidati in Italia dal regista greco Michael Marmarinos e a Cartagine Byrsa dall’artista tunisino Kais Rostom, sceno-grafo, pittore e musicista.

Cos’è Nostoi

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Il rapporto tra Firenze e l’Egitto è solido e straordinario e l’arrivo di Salah conferma questa rela-zione. Parola di Eugenio Giani, che su facebook, declina i punti di contatto tra la terra delle piramidi e la città del cupolone. Un esperto in materia Giani che presenziava alle inaugurazioni delle Piramidi, ai vernissage alla Sfinge e sedeva già in una decina di poltrone ai tempi di Ram-sete III, tanto che pare infatti, che tra gli antichi geroglifici ve ne fosse uno rappresentante un simpatico signore visto di profilo con in mano una tartina e un bicchiere e che il suo significato fosse:”lodevole iniziativa!”

riunione

difamiglia

Nel 1851 i visitatori arrivarono a Hyde Park e rimasero stupiti dal Crystal Palace di Paxton. Qualche anno dopo, nel 1876, a Philadelphia, lo stupore fu per un paio di oggetti, ben più piccoli, che cambiarono il mondo come il telefono di Bell e la macchina da scrivere Remington. Senza pensare a che effetto potrebbe aver fatto la torre Eiffel che iniziò a svettare su Parigi nel 1889. Saltando al secolo successivo nel 1929 Mies van der Rohe progettò un padi-glione che è diventato il simbolo

dell’architettura moderna, mentre nel 1962 a Seattle si poteva cenare in cima allo Space Needle in un ristorante girevole a 360 gradi. Nel 2015 all’Expo Milano, “strepitosa occasione culturale” i lavori fervono per consegnare al mondo qualcosa di altrettanto stupefacente, “non un’immagine su una slide, ma una realtà”. È l’ultima sfida di Renzi: un bando per la costruzione delle più grandi quinte di camouflage del globo, non per nascondere i cantieri non ancora terminati al momento dell’inaugurazione (come dicono i gufi), ma per un progetto ancora più ambizioso. A Rho sorgerà il più grande teatro per burattini del mondo, in fondo non siamo forse il paese di Pinocchio?

In Palazzo Vecchio devono essere appassionati di “Karate Kid”. Vi ricordate la scena di quel famoso film di arti marziali dove il saggio Maestro Miyagi insegna al giovane Daniel San il kara-te, e inizia con la famosa frase “dai la cera, togli la cera, dai la cera, togli la cera”, facendo-gli lucidare tutte le macchine dell’officina? Ebbene è a questa storica scena che sono ispirate le “mosse politiche” del sindaco Mastro Nardella in materia di

Dehor. Qualche anno fa la parola d’ordine era infatti “fai il dehor”. Furono fatti convegni, dibattiti e anche un concorso per giovani architetti che come sempre non è servito a niente perchè poi i dehor ognuno li ha fatti come meglio ha creduto. Anzi in piazza della Repubblica si sono un poco “al-largati” costruendo anche qualche edificio pluripiano. In piazza di san Giovanni, dove, per mante-nere il decoro pubblico non si è fatto passare il tram, i dehor sono a portata di mano del Battistero che infatti, indignato, si è tutto coperto per non farsi vedere e toccare. Da qualche giorno la parola d’ordine è però “togli il dehor”. Qualcuno si deve essere accorto che proprio proprio belli questi dehor non sono. C’è voluto l’assessore Bettarini da Borgo San Lorenzo (Medici docet) per dire al Dario nazionale che forse forse

era meglio toglierli, ma per ri-metterli però. Più piccoli. Quindi “rimetti il dehor”. La decisione di Palazzo Vecchio è stata accolta dalla voglia di “applaudire sul viso gli amministratori” da parte di coloro che li avevano

messi questi dehor e che ora li devono cambiare. Ma il Mastro Nardella ha replicato che “fare e disfare l’è tutto un lavorare” e queste decisioni daranno un “forte impulso alla crescita economica della città”.

Le SoreLLe Marx

Lo Zio di trotZky

i Cugini engeLS

nardeLLa Che ride

Il faraonedel buffet

Il paesedei burattini

Togli il dehors,mettiil dehors

Ottobre, si avvicina Natale...

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L’ironiadella Banana

L’ironia dell’Arte contempo-ranea risiede nell’atto stesso di dissimulare pensieri e

riflessioni, di procedere per anti-frasi attraverso un procedimento speculativo che interroga la realtà quotidiana nel suo intimo relazio-narsi al presente e alla cultura generalizzata, muovendo in senso contrario al canone e ai “massimi sistemi” che dominano le società attuali. All’ironia corrisponde necessariamente l’assurdo, in quando momento fondamentale dell’esistenza che spinge l’uomo a essere consapevole dell’insosteni-bilità di ciò che simula di sostene-re o la validità di ciò che finge di disapprovare. L’ironia è quindi ca-tartica e autosufficiente, priva di limitazioni e tesa a manifestare la vena espressiva di colui – o colei – che possiede il dono intellettivo della creatività e dell’originalità. Si tratta di un atteggiamento psi-cologico appassionato e vigoroso che non si arresta né si vanifica nella sperimentazione, ma perdu-ra instancabilmente nella presa di coscienza che l’Arte è un luogo intellettuale di espressione e comunicazione, dualità dialettica del reale che non si lascia sconfig-gere dalla noia, anzi continua a crescere, a migliorarsi e a evolversi in un continuo scambio di inter-relazioni reciproche dal carattere costruttivo. Nella Mail Art di Anna Banana l’ironia è un gioco di rimandi di significati, è un ludos che fa del significante un surplus di pos-sibilità, attraverso cui muoversi sperimentando e rinnovando co-stantemente la propria prassi. La “banana” diventa il fulcro di una personale e originalissima ricerca estetica, capace di condividere culture intercontinentali e porsi agli occhi del fruitore come un simbolo universalmente ricono-sciuto. In tal senso la comunicati-vità del linguaggio si amplia total-mente, mettendo in evidenza una prassi artistica planetaria in grado di relazionarsi alla molteplicità delle prospettive contemporanee, utilizzando un semplice – ma non banale – punto di partenza. Anna Banana ha fatto del suo pseudonimo un centro gravita-zionale che archivia, documenta e promuove una formatività fuori dagli schemi e dai canoni. Le stes-se performances dell’artista, inte-ragendo con il pubblico, mettono

A destra Dear Leonardo. Letter n.5, introduction to Ray Johnson, 1999, Collage su cartone, cm 71,5x56; a sinistra Dear Leo-nardo. Letter n.3, introduction to G. A. Cavellini, 1999, Collage su cartone, cm 71,5x56Tutte courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

Dear Leonardo - Letter n.10 -Introduction to Mona Banana, Smile Test, 1999, Collage su cartone, cm 56x71,5

di Laura [email protected]

in luce l’esigenza dell’intellettuale moderno di trovare costantemen-te nuove strade e nuove direzio-ni per operare e sperimentare all’insegna di un’ideologia estetica che necessita di una forte presa di posizione e di una interattività tesa al rinnovamento.

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Si chiamavano ambedue Charles, hanno vissuto a Parigi nello stesso periodo,

nella seconda metà dell’Otto-cento, ed hanno e fotografato ambedue la città di Parigi, molto prima di Atget, ma lo hanno fatto in maniera diversa, con spi-rito diverso, e da punti di vista diversi. Un poco più anziano, Charles Marville (1813-1879) ha fotografato sistematicamente strade, piazze, facciate e mo-numenti. Appena più giovane, Charles Négre (1820-1880) ha fotografato le stesse strade e le stesse piazze, ma anche e soprattutto le persone che in tali strade ed in tali piazze passavano e sostavano.Charles-François Bossu (alias Marville) inizia come disegna-tore, incisore ed illustratore, per diventare fotografo calotipista dopo il 1850. Gli viene attribu-ita la qualifica di “fotografo del Museo Imperiale del Louvre”, ma non entra nella Societé Héliographique, di cui fanno parte invece Le Secq, Bayard, Baldus ed altri noti fotografi dell’epoca. Per il Louvre fotogra-fa quadri e statue, e viene inviato nei musei di Torino e Milano. La tecnica calotipica gli permette di trarre dai negativi su carta delle copie positive di ottima qualità, che vengono messe in vendita come opere singole o sotto forma di album completi. Per conto dell’editore Blanquart-E-vrard inizia inoltre un lavoro di catalogazione e documentazione dei monumenti, chiese, statue e ponti di Parigi per le raccol-te “Paris Photographique” e “Mélanges Photographiques”. Dopo la fine dell’esperienza con Blanquart-Evrard ed il passaggio dal calotipo alla fotografia su vetro apre un proprio studio ed inizia anche una collaborazione con Viollet-le-Duc. Durante le grandi trasformazioni urbani-stiche di Haussmann diventa “Photographe de la Ville de Pa-ris” e fotografa su commissione pubblica i quartieri che saranno demoliti per fare posto ai grandi boulevards, così come fotografa i cantieri e le nuove costruzioni, compresi gli elementi di arredo urbano come chioschi, vespa-siani e lampioni. Oltre quat-trocento immagini di strade ed edifici destinati alla distruzione

vista non convenzionali, spesso fuori asse o con la fotocamera posta al livello del suolo. (continua la prossima settimana)

I due Charles di ParigiParte 1 Le foto di Marville

di daniLo [email protected]

vengono raccolte in un “Album du vieux Paris”, vero e proprio repertorio della Parigi scom-parsa. Nonostante gli incarichi

“ufficiali” sotto i quali lavora, Marville riesce ad imporre alle proprie immagini uno stile per-sonale, con la scelta di punti di

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Ho lasciato trascorrere un po’ di tempo, occorreva far decantare questo evento. Scarpe da tennis, jeans, riccioli e occhiali. Eccolo sul palcoscenico del Teatro Ari-ston a impers(u)onare la tiran-nia del significante. Allevi è la voragine semantica che legittima il fantasma, il terrore del vuoto colmato dalla traversata dello spettro. Pura densità effimera, Egli è calamita/calamità attrat-tiva dei significanti nel misco-noscimento macroscopico del Significato. Allevi suona di certo poi anche il piano. Ma nessuno ascolta. Il godimento (la jouis-sance,) dello spettatore vive nella danza del ricciolo, nell’anomalia degli occhiali da vista, nella scarpa da ginnastica, insomma nell’arre-do feticistico, giacché il materiale musicale è viceversa dominio

della pulsione di morte, del soffio mefitico della Fine di Tutte Le Cose. Il vestito pseudo-colto che avvolge come un sudario l’oggetto estetico “Musica”, ha dunque una valenza tautologica, quella del richiamo cimiteriale allo Zombie delle Musiche al fine d’agghinda-re il cadaverino del feto morto. Dante condannerebbe di certo nel limbo il ragazzo, o meglio la sua creaturina mai nata, neghe-rebbe insomma a questo insieme di suoni necessità espressiva, legittimazione all’esistenza. Cigola da qualche parte nell’Oltremon-do la ruota karmica con tutti i suoi ingranaggi, e non è dato noi sapere del perché di questa Manifestazione Oscena. Di certo sappiamo alcune cose: 1) che la pulsione di morte altro non è che la maschera dell’ordine simbolico

e che dunque Allevi è il nocchiero del Lete 2) che il suo compito è quello di traghettare (assieme ad altri demoni) lo spettatore medio verso l’eutanasia sinestetica 3) che il sintomo sociale è personi-ficato dalla montatura dei suoi occhiali da vista. Dietro Allevi insomma non c’è che il Nulla, ovvero l’Immane Lacuna pregna di densità effimera, pulsante. Egli “riempie” la nostra angoscia e ha il compito sadico di riportarci alle Leggi di Natura; è un Officiante del Rito, uno ierofante del nostro contemporaneo deprivato del/dal Mito. Il suo ruolo parassitario è dunque materiale attinente al Sa-cro. In qualità di moderno Cristo, Egli si fa carico di tutto ciò che è mancante, incarna e sussume in pochi gesti, in piccole lanci-nanti frasi, ed infine al piano la quintessanza della Cosa, ovvero di quell’agglomerato irriducibile che - ancora, - giustifica(giustifiche-rebbe) le nostre esistenze. Allevi è un candidato al sacrificio: mostra noi la Via riempiendo un vuoto semantico di Sé, delinea il nostro Nuovo Viaggio nel contrasto, nell’alterità. Ascoltiamolo dunque.

contrito, del rasgueo (il rapi-do movimento delle dita sulle corde della chitarra) alternato al golpeador (la piastra trasparente della chitarra flamenca cui sui si ottiene l’effetto percussivo). Un concerto, in questo senso, classico quello di Vicente Ami-go, ma lo avverti chiaramente in molti passaggi che la sua musica è viva perché affonda le sue radici in una storia che è ancora

in corso: non c’è una ammi-razione estatica di un passato immobile, ma la consapevolezza che il flamenco è movimento, rinnovamento continuo (tanto da rendere quasi impossibile una classificazione dei palos che non contempli la loro continua ridiscussione) e senti le ultime aflamencados che contaminano il jazz, il pop, il rap e sai che è il flamenco che domina, forte di

Vicente Amigo, in concer-to all’Obihall di Firenze lo scorso 10 marzo, sale

sul palco, timido, ombroso, forse solo concentrato. Mette in chiaro subito una cosa. Ecco, la chitarra. E io la suono bene. Da Dio. E dopo il primo pezzo, solo,la falseta, la chitarra e le sue mani, tu ti dici: beh, questo è un grande virtuoso del flamen-co. Forse il maggiore della sua generazione, oggi, nel mondo. Sarà un bel concerto. Ma poi succede qualcos’altro: Vincente Amigo ci dice: “ecco, ora vi rac-conto la Spagna”. Ma non quel-la stereotipata, toreri, banderillas e paella. No, quella profonda, l’impluvio secolare di culture, popoli, religioni, stermini e vette artistiche inimmaginabili. Ed ecco che Vicente Amigo e il suo quartetto (chitarra, per-cussioni, cantaor e bailador) ti fanno guadare il Guadalquivir in una notte calda di Siviglia, indietro nei secoli, attorno ai fuochi dei gitani, braccati ed espulsi, tenuti ai margini come da sempre e per sempre spetta a questo popolo: lì si mescolano, naturalmente e non per sfizio contaminante, la voce di antichi muezzin moreschi e le melodie ebraiche. Le chitarre andaluse si esaltano e segnano il ritmo di danze folli, violente, ubriache di battiti ed eccitazioni. Nascono lì i primi palos del flamenco: stili, modelli ritmici che si diffondono in tutta la Spagna, attraverso i secoli e gli infiniti e inclassificabili incontri con altri generi musicali, che vengono appunto aflamencados per produrre il fandango, la farruca, la sevillana. Sono i palos l’anima profonda della Spagna, la Com-media continua, sempre diversa, che narra la tragedia (il cante hondo) o l’allegria (il cante chico). Attorno a questi si sono avviluppate la poesia, le letras, in una fiume impetuoso che dai potenti palo seco (senza chitar-ra) accompagnati dalle palmas (il solo battito delle mani) arrivano fino alla modernità di Federico Garcia Lorca. Vicente Amigo e il suo gruppo non ti lasciano respiro: è un turbinio attraverso una storia impossibile da raccontare se non attraverso l’incedere, ora rutilante, ora

questa radici profonde, le musi-che del nuovo mondo. Ciudad de las Ideas, Tierra, Vivencias Imaginadas, Paseo De Gracia... dai suoi album sgorgano gli impetuosi torrenti e le sierre brulle del Guadalquivir, il fiume grande (così lo battezzarono gli arabi, wadi al-Kabir) dove la civiltà romana e quella araba si incontrarono, che ancora cam-bia la musica del mondo.

L’Amigo della chitarra

di SiMone [email protected]

Cattivisimoallevia Sanremo

di FranCeSCo [email protected]

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Sul futuro del grande com-plesso monumentale della Manifattura Tabacchi

di Firenze era già scattato un preoccupante segnale d’allarme tre anni fa, quando era stato promosso da alcuni gruppi politici e movimenti culturali un tempestivo e vivace incontro sul posto (al Teatro Puccini) sul suo temuto destino “tra memoria e abbandono”. Era il 2 febbraio 2012 e, almeno per questi ultimi anni, l’occasione è stata propizia per scongiurare temporaneamente il pericolo che questo secondo grande capolavoro assoluto autografo di architettura industriale di Pierluigi Nervi dopo lo Stadio Comunale, costituito da un efficiente sistema di edifici a esemplare sistema tra loro per l’ospitalità e la lavorazione del tabacco non fosse dra-sticamente azzerato per una miope prospettiva decisamente speculativa (che naturalmente avrebbe dovuto essere avvallata proprio dalle stesse Istituzioni - Comune e Soprintendenze - che hanno il dovere priorita-rio di tutelare e valorizare un patrimonio costiuito unico - e,

di MarCo deZZi [email protected] città metropolitana).

Ora l’attivo Comitato per la Tutela dell’ex Manifattura Tabacchi, nato da quella prima occasione di incontro e dibat-tito pubblico e impegnato in prima linea sulla sua salvaguar-di e valorizzazione promuove un nuovo incontro pubblico il prossimo 25 marzo, chiamando a testimoniare esperti, stu-diosi e concittadini sul valore irrepetibile di questo tuttora integro e davvero prestigioso sistema architettonico, che per la sua singolarità e autentici-tà costituisce una preziosa e imperdibile eredità materiale in copia unica da rivendicare all’uso collettivo della città come imprescindibile bene comune (le precedenti distru-

zioni dei complessi della FIAT di Novoli e di viale Belfiore o la colpevole archeologizzazione in atto delle Officine Galileo siano l’esempio, putroppo parlante, della inammissibile distrazione delle istituzioni e della stessa comunità culturale e civile).

con i suoi solai ad alto carico d’esecizio, oltre mille Kg/mq!, in perfette condizioni di possi-bile immediato utilizzo per la città - si è parlato, ad esempio, della necessaria espansione per le impellenti esigenze delle strutture culturali fiorentine -

come la Biblioteca Nazionale o l’Archivio Storico Comunale - e come nuovo polo clturale integrato a sistema con i prin-cipali complessi monumentali pubblici che indubbiamente costituiscono un ben ricono-sciuto Bene comune della nostra

Il futuro in fumo

Annalena Aranguren giunge alla sua quarta silloge poetica con que-sto suo “Poesie nell’ordine giusto” (Manni editore, 2014). Il titolo è rivelatore di un primo elemento identificativo della raccolta: è un tempo della sua vita (e, forse, non solo di quella) in cui Annalena sente la necessità di ricomporre un ordine. Ma non si tratta di un “ritorno all’ordine” nel senso di una ricomposizione formale e formalistica di stilemi estetici della tradizione, di una celebrazione aulica della fedeltà figurativa, bensì di un ordine interiore che l’autrice sente sia venuto il tempo di ricostruire. Il tempo, appun-to, protagonista di questa silloge dai colori tenui, sfumati, leggeri. Certo, il tempo che ci attraversa, inesorabile come il trascorrere delle stagioni, e sul quale Aran-guren depone il suo sguardo forte (anche nel tempo della stanchez-za), spavaldo (proprio quando questo tempo si fa minaccioso),

Poesie nell’ordine giustocompassionevole (quando il tempo ghermisce la sua vita). “...Così di te scrivendo passo il tempo/e il tempo ruba tempo alla mia vita”. Ancora; “...Incespichiamo tra racconti ammezzati/e silenzi che dicono di più/dicono che il tempo non permette/di essere ignorato e ride di noi/lui che sa uccidere il dolore/e l’amore senza un grido”. E’ ovviamente anche il tempo meteorologico quello di cui parla Aranguren e non mi sembra che lei ami le stagioni nette, forti. C’è piuttosto una sintonia con le stagioni di passaggio, quelle dell’incertezza, quando l’inverno ancora non si decide e l’estate sfu-ma accorciando i giorni (“Hanno acceso le case laggiù/sulla costa orientale/come ogni anno, ogni sera/a estate finita”). Che coincide metaforicamente con il tempo presente della sua vita.Ma è il tempo interiore il vero principe di questa raccolta. E’

un tempo raccolto, in alcuni casi avvolto su se stesso. Soprattutto un tempo di silenzio, l’altro grande protagonista del libro: “Silenzi ovunque, più grandi dentro./Si muovono in cerchi concentrici/come i suoni...”. Aranguren ha bisogno del silenzio attorno, non necessariamente misurabile in de-cibel ma quello del turbinio delle immagini e dei ritmi ordinaria-mente assurdi della vita quotidiana (“Il silenzio delle parole usate/dei gesti ripetuti è più silenzio/del silenzio vero”), per ascoltare la sua vita, per mettere in ordine il suo caos interiore. Ed è una ricerca di conoscenza profonda: “Io cerco di conoscere il silenzio/ … Io cerco di capire che nasconde/quel niente di voci e musica/che sembra vuoto/e mi riempie di angoscia/poiché non si sconfigge/e se si rompe/fa un rumore fittizio di vittoria”. Ecco, dunque, una delle possibili chiavi di lettura di questo intenso libro,

discendere nel silenzio interiore verso l’essenza stessa della vita: “Fate silenzio, fate il vuoto/del silenzio, il buio del silenzio/che resti solo il respiro di quest’aria/calda/appena smossa./La vita sola, l’essenziale”. E’ questo l’ordine che Aranguren cerca di ricomporre e non è un ordine volto indietro al passato; tenta invece di riconnet-tere tutta la vita trascorsa, il tempo alle spalle, con il presente e con il tempo da venire: “...E noi/siamo seduti al tavolo in cucina/dipanan-do in silenzio/matasse sul nostro futuro”.

di SiMone [email protected]

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Piazza S. Maria Novella, sterrata, con due obelischi che servivano da mete per le

corse dei cocchi, è stata oggetto di più allestimenti nel corso del ‘900: con una piantagione di 12 cipressi in memoria dei caduti fascisti nel 1923; con una sistemazione a giardino all’italiana tra il 1927 e il 1928, arricchita nel 1933, da una fontana centrale. Il giardino comunque, quasi un labirinto che intralciava l’attraversamento, non piaceva ai fiorentini e nel febbraio del 1936 si decide di modificarlo e di abbellire quella piazza conside-rata la porta d’ingresso di Firenze, posta com’è a ridosso della stazione ferroviaria centrale. Il podestà di allora, Venerosi Pesciolini, invita Pietro Porcinai, che più volte è stato critico sullo stato del verde cittadino, a proporre qualche suggerimento: il giovane architetto di giardini presenta un bozzetto giudicato “razionale e pratico perché sistema l’insieme generale, lo regolarizza e lo rende più libero rispetto al transito, dati gli attraver-samenti diagonali in pietra necessa-ri per i congiungimenti stradali. Gli obelischi rimangono liberi in mezzo ai due piazzali lastricati ed il resto viene spartito in prati verdi con piante basse agli angoli”. Dopo discussioni e ritardi, con il precipitare degli eventi bellici, di Piazza S. Maria Novella non si

La vicenda della progettazio-ne della Piazza di Santa Maria Novelle è una storia tortuosa con molti pareri, per questo ci per-mettiamo di aggiungere al gradito e interessante articolo di Gabriella Carapelli, un brano tratto da una pubblicazione di Luigi Zangheri “Una diversa redazione del giardi-no fu proposta da Pietro Porcinai nel 1935. Porcinai aveva criti-cato lo stato dei giardini pubblici di Firenze, e era stato invitato dal sindaco a dare spiegazioni e suggerimenti concreti. Durante un incontro col sindaco, Porcinai con-segnò un progetto di massima per la sistemazione del giardino di Piazza Santa Maria Novella. Il sindaco lo ringraziò e gli assicurò che in av-venire sarebbe stato consultato “per la realizzazione almeno parziale delle sue varie proposte”. Seguirono gli anni della guerra e dell’occu-pazione della città da parte delle

truppe alleate. Il giardino era stato danneggiato e il comando alleato che aveva sede in uno degli alberghi della piazza chiese al Comune di Firenze di provvedere al suo re-stauro. Intervenne anche Lodovico Ragghianti, presidente del Comita-to Toscano di Liberazione Naziona-le, che suggerì: “una pelouse verde molto unita per non spezzare la superficie della piazza e la visuale di Santa Maria Novella”. Venne allora deliberato dal Comune di adottare il progetto di Porcinai con il giardino semplificato da un semplice prato con un doppio ordine

di vialetti ortogonali, che portavano agli obelischi allargandosi in piccoli piazzali allungati. Porcinai non era stato informato dell’adozione del suo progetto, e quando vide i primi lavori per la sua esecuzione protestò e chiese di essere consultato “finché ancora siamo in tempo, dato lo stato iniziale dei lavori, perché io possa suggerire alcune modifiche al mio progetto, le quali a mio avviso ne renderebbero migliore la realizzazione” (lettera del 14 agosto 1945). A questa lettera e ad altre che non ebbero risposta, fece seguito una raccomandata dell’avvocato di

Porcinai che minacciava il ricorso alle vie giudiziarie per il ricono-scimento dei diritti dell’architetto, ovvero il pagamento di una notula per l’opera professionale svolta, an-che se questa non era stata richiesta formalmente dall’amministrazione comunale. La piazza venne quindi dotata di un giardino progettato dieci anni avanti da Porcinai, e non sappiamo se mai gli sia stata riconosciuta un’indennità per il suo lavoro. Nelle piazzole prospi-cienti gli obelischi furono poste delle panchine in pietra nonostante le proteste degli albergatori che avevano chiesto di non collocarle perché sarebbero state “di richia-mo a nottambuli - spesso persone di malavita - i quali vi trascorre rebbero molte ore delle notti estive a disturbare con canti più o meno scordati, grida sguaiate e assordan-ti, frizzi, motteggi e berci sconci quasi animaleschi, parolacce oscene, ecc. la quiete degli ospiti”.

Giardini: fra questi viene prescelto uno analogo a quello ideato da Porcinai. Il bozzetto allegato è an-cora quello del 1935 ma, guarda caso, la firma di Pietro Porcinai è stata cancellata. I quotidiani locali registrano non poche polemiche sul nuovo allestimento della piazza e sull’autore apparentemente sco-nosciuto. Porcinai, appena iniziati i lavori dei quali non è stato infor-mato, ricorda al sindaco Pieraccini quanto era accaduto dieci anni prima, reclamando un compenso e mettendosi a disposizione per alcune modifiche che avrebbero migliorato il progetto. L’ammi-nistrazione trova più comodo igno-rare le polemiche e le istanze del professionista e alla fine attribuisce ogni responsabilità al Comando Alleato che avrebbe ordinato una rapida sistemazione a causa dello stato di degrado della zona dove si esercitava la prostituzione.Una vicenda senz’altro ingarbu-gliata, che rimane tale da quanto si legge nell’articolo La piazza spezzata pubblicato nel n. 107 di questa stessa rivista. Motivo per cui si crede utile rimandare al volume sui giardini progettati a Firenze da Pietro Porcinai (G. Carapelli M. Donati, Pietro Porcinai (1910-1986). Paesaggi moderni a Firenze, Pisa, Pacini Editore, 2013) distri-buito gratuitamente dalla Regione Toscana, nel quale si documenta la storia novecentesca di questa piazza.

Una piazza equivocata

Santa Maria Novelladi gaBrieLLa CarapeLLi

di John StaMMer

Il bozzetto per la sistemazione di Piazza Santa Maria Novella, presentato da soprintendente ai Pubblici Giardini nel 1945 dove in basso a destra è stata cancellata la firma di Pietro Porcinai (Archivio Storico Comunale di Firenze, CF 8860).anni del ‘900

parla più. Alla fine della guerra, il soprintendente ai Pubblici Giardi-ni Bardo Bardi chiede a Porcinai il

bozzetto preparato a suo tempo e il 28 marzo del 1945 presenta tre di-versi progetti a nome dell’Ufficio

La piazza nel 1932 (Firenze. Rassegna del Comune, I, n. 9-10, p. 96

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frequenta i corsi musicali di Daly e impara a suonare la lira cretese. L’irlandese è ormai un punto di riferimento: a lui fa capo un ambiente dove la musica viene curata e coltivata con un amo-re profondo, come se fosse un bambino. Tanto è vero che molti di loro non si limitano a suonare, ma costruiscono strumenti per sé e per gli altri.Tutto questo accade a Houdetsi, un paese nei pressi di Iraklion (Candia), il capoluogo cretese. È impossibile non cogliere l’affinità

con un altro paese che vive di musica, Pigna, situato in Corsica (ne abbiamo parlato nel n. 72 e nel n. 81).La musica che Daly suona e in-segna si basa sul sistema modale: una nota di base, detta centro tonale, fa da punto di riferimento per tutte le altre. In Europa que-sto sistema viene utilizzato fino al Seicento, quando matura l’ar-monia tonale. In ogni caso non scompare: oggi lo troviamo in

molte musiche dell’area mitteleu-ropea, balcanica e mediterranea. Ma in realtà si trova praticamente in ogni parte del mondo, anche se con sfumature diverse: pensiamo al raga indiano, ai griot del Mali, al blues. Trattandosi in genere di musiche a trasmissione orale, l’improvvisazione ha un ruolo determinante.Ma torniamo a Kelly, che nel frattempo è diventata parte inte-grante di una comunità musicale nella quale convergono influenze

amore e musica: un binomio affascinante che si manifesta nei periodi e nei luoghi

più diversi. Pensiamo a France-sca Caccini, che nel 1607 sposa Giovanni Battista Signori, e dopo la sua morte un altro musicista, Tommaso Raffaelli. O a Gustav Mahler, che trascorre gli ultimi anni della sua vita accanto ad Alma Schindler. O ancora Lucia-no Berio, che sposa una grande cantante (Cathy Berberian) e successivamente una musicologa (Talia Pecker).È soltanto nell’ultimo mezzo secolo, però, che si manifestano due fenomeni. Anzitutto le don-ne acquistano un rilievo autono-mo, mentre prima un radicato maschilismo le ha confinate a un ruolo secondario. Forti di questa visibilità, collaborano spesso col proprio partner senza che questo le releghi in secondo piano. Un caso esemplare è quello di Kelly Thoma, una giovane mu-sicista greca, e di Ross Daly, un musicista irlandese che si trasfe-risce su Creta alla fine degli anni Settanta. All’epoca Kelly non è ancora nata. I due si incontrano soltanto nel 1995, quando lei

Una musica che nasce dal mare

arabe, balcaniche, celtiche, in-diane, mediorientali. Parliamo di musicisti prestigiosi come Pedram Khavar Zamini, percussionista iraniano, il polistrumentista spagnolo Efrén López, Stelios Pe-trakis, che suona la lira e il liuto oltre a costruirli.Ross Daly, che poi diventerà il marito di Kelly, esercita sempre un ruolo di guida, ma lei non rimane una sempice comparsa. Nel 2009 esce quindi il primo lavoro a suo nome, Anamkhara. Il titolo, tratto dal gaelico irlandese, significa “amico dell’anima”: un evidente omaggio a Ross, maestro e compagno di vita. Un disco fatto col cuore.Il CD successivo, 7fish (2014), conferma il valore dell’artista greca.Qui Kelly, autrice di tutti i brani, è affiancata da Daly, López e altri musicisti. Come anticipa il titolo, sette compossizioni sono dedicate ad altrettanti pesci: dall’acciuga (“Hamsi”) alla razza (“Salahi”), dal delfino (“Dolphins”) al pesce lucerna (“Lychnos”). Il lungo brano finale, intitolato semplice-mente “S”, allude al tipico movi-mento sinuoso dei pesci. Il disco è stato realizzato col contributo dell’Acquario di Creta.

Quando si parla di grandi navigatori fiorentini, il pensie-ro corre, come è naturale, ad Amerigo Vespucci e a Giovanni da Verrazzano; l’uno, Vespucci, è rimasto indelebilmente scolpito nel nome del Nuovo Mondo, l’altro, da Verrazzano, cercò di lasciare in America un’ulteriore impronta di fiorentinità; nel 1524, durante il suo primo viaggio, mentre risaliva la costa americana da Cape Fear fino alla baia dell’Hudson, battezzava ogni insenatura, ogni isola, con nomi che ricordavano Firenze: Careggi, l’Impruneta, San Gallo, Monte Morello. Purtroppo, nei secoli successivi, ottusi funzionari cancellarono quei toponimi.Ma Firenze non ha dimentica-to i suoi due grandi marinai: a Vespucci sono stati dedicati un Lungarno e un Ponte, a Giovan-ni da Verrazzano una strada in zona Santa Croce e, anche a lui, un Ponte.Tutto ciò premesso c’è da chiedersi perché per trovare un

ricordo di Francesco Carletti occorra proprio un navigatore, ma di ultima generazione, essen-do necessario rintracciare una stradetta che collega Via Pistoiese con, appunto, Via dei Vespucci: eppure Carletti, quanto a viaggi per mare, non scherzava certo e, inoltre, gli si deve una scoperta fondamentale. Carletti fu un grande ma poco conosciuto esploratore e mercan-te fiorentino. Vissuto a cavallo fra il ‘500 e il ‘600, nel 1594 partì da Siviglia per un vero e proprio giro del mondo; dopo aver tocca-to l’America Latina, si spostò in Cina e Giappone e finalmente in India, a Goa, dove rimase alcuni anni ospite del vicerè portoghese. Nel 1601 caricò su un galeone portoghese, diretto a Lisbona, tutte le preziose mercanzie rac-

colte durante il viaggio. Giunto all’isola di Sant’Elena, la sua nave fu depredata e affondata dai pirati olandesi e Carletti riuscì a tornare a Firenze solo nel 1606, privo di tutte le sue ricchezze. Qualche anno dopo affidò i suoi ricordi di viaggio a un libro nel quale, parlando di una curiosa pianta trovata nel Guatema-la, scriveva: “Il suo principale consumo è in una certa bevanda

(…) la quale si fa mescolando delle frutte, che sono grosse come ghiande, con acqua calda e zucchero; ma prima secche molto bene e abbrustolite al fuoco si disfanno sopra certe pietre (sicco-me noi vediamo i pittori quando macinano i colori) fregando il pestello, che è anch’esso di pietra, per lo lungo sopra la pietra piana e liscia; e così si viene a ridurre in una pasta, che disfatta nell’acqua serve da bevanda”.Nel 1865, quando la capitale d’Italia fu trasferita a Firenze, al seguito dei Savoia arrivò nella nostra città una moltitudine di funzionari piemontesi. Fra gli altri, giunse a Firenze anche il si-gnor Enrico Rivoire, cioccolataio ufficiale di casa Savoia, che mise radici a Firenze dove, nel 1872, aprì in Piazza Signoria un ne-gozio dove i fiorentini potevano gustare il cioccolato preparato, recita il sito ufficiale di “Rivoi-re”, “secondo un’antica e segreta ricetta di famiglia”. Ma quella ricetta il buon Carletti l’aveva già diffusa 250 anni prima.

di FaBriZio [email protected] Via F. Carletti

Cioccolatoin tazza

di aLeSSandro [email protected]

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Nel “Dialogo della natura e di un islandese” di Gia-como Leopardi, la natura

appare quale “forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il go-mito a una montagna”; il “volto mezzo tra bello e terribile”; gli occhi e i capelli “nerissimi” e uno sguardo fisso, quasi pietrificante. Un ritratto, questo, pronto a far luce sul legame tra il femminile e il mondo naturale, un tensione che – sin dalle pagine bibliche – si è sempre risolta in un’ottica negativa, in un susseguirsi di ac-costamenti e ibridazioni pertur-banti, ferali, maligne: si pensi alle arpie delle pagine omeriche; alla testa anguicrinita della Gorgone; al corpo ‘bifido’ della Sfinge. Si tratta di un vero e proprio sdoppiamento, uno scambio di ruoli dove la vittima (l’uomo, il maschile) è minacciata dalla sua nemesi: quella natura che – sempre nelle parole di Leopardi – è indifferente alla felicità del genere umano. Ma potremmo fare riferimento anche al pen-siero platonico e, in particolare, alle pagine del “Timeo”, dove le donne e gli animali vanno a occupare l’ultimo anello delle prossime reincarnazioni: corpi destinati a ospitare le anime vili, sciocche, irragionevoli. Alla luce di quanto affermato, siamo dinanzi a un sovrapporsi di narrazioni e metafore, pronte a svelare una logica del domi-nio, dove i due elementi passivi (la natura e il femminile) sono schiacciati da un Homo Sapiens virile, virilizzato e virilizzante la terra da lui coltivata. Una para-bola millenaria, dove il rapporto donna-ambiente – in nome di un’intima rispondenza tra il femminile e la biosfera, dettata dal condiviso potere di ‘generare’ la vita – si è spesso risolto in ac-cezioni denigranti e fallaci (dalla menade alla strega). Eppure, non sarà un caso se pro-prio una donna, Rachel Carson, nel 1962 pubblicherà quel libro (“Silent Spring) destinato poi a divenire il manifesto del movi-mento ambientalista, sulla scia del quale prenderanno forma l’e-cocritica e l’ecofemminismo; un termine, quest’ultimo, comparso per la prima volta nel 1974, in “Le féminisme ou la morte”,

Trans/gender Earth

dell’autrice francese Françoise d’Eaubonne. La natura, in fondo, non ha alcun genere di appartenenza e rifugge, nel mutamento costan-te, le maglie di una tassonomia compulsiva, che si fa spia di fallocentrismo imperante: di una logica patriarcale, dove lo sfruttamento delle donne e della terra sono sempre andati di pari passo. Nel ripensare la biosfera ‘oltre il genere’ (trans/gender, quindi, ma anche multi/gender), l’ecofemminismo – e con esso l’ecologia letteraria – mira a individuare narrazioni ulteriori, pronte a mettere in discussione i paradigmi che hanno portato a un vero e proprio biocidio. Si tratta, in fondo, di riscrivere il mito, dove Perseo non salverà solo Andromeda ma anche, e soprattutto, la Medusa: in quella testa decapitata ci sono storie ancora da raccontare.

di diego [email protected]

ecoletteratura

Statuina in ferro colorato rappre-sentante il Marzocco in veste di giocatore della Fiorentina, calzon corti e maglia viola con giglio rosso sul cuore, i colori sono purtroppo stinti, la variante del braccio, alzato nell’inequivoca-bile saluto fascista, ci permette di datarlo nel bel mezzo del Ventennio. Rossano assicura che trattasi di un gadget molto raro, trovato, come a volte gli capita, in un conto vendita e comprato per un nulla, molti anni fa. Ag-giungo di rassicurante bizzar-ria. Il Marzocco, da Marte cui anche Dante dice Firenze fosse dedicata, è simbolo della città, la sua rappresentazione più famosa è la statua in pietra serena che si trova davanti a Palazzo Vecchio, copia di quella commissionata dalla Repubblica Fiorentina, in occasione della visita di papa Martino V, a Donatello. Doveva decorare lo scalone degli appar-tamenti papali in Santa Maria Novella, ma venne spostata nella principale piazza cittadina, come simbolo della Repubblica stessa. La vera statua, che vede un leone araldico reggere con una zampa lo scudo con il Giglio di Firenze, si trova al Museo del Bargello.

Nel Medio Evo era tradizione forte avere un animale totemi-co, possedere ed esibire questi animali, se esistenti in natura, era segno di ricchezza e potenza. A Firenze, a lato del Palazzo della Signoria, nell’attuale via della Ninna, allora dei Leoni, c’era un vero e proprio Serraglio con una trentina di esemplari, sposta-to in altre parti della città, fu smantellato alla fine del ‘700 dal Granduca Leopoldo. Nel 1896 fu fondata una Rivista letteraria, che divenne famosissima, il cui nome si ispirò a questo simbolo cittadino e della quale furono redattori personaggi del calibro di D’Annunzio e Pascoli. Nota conclusiva, Marzocco , oltre che una Casa editrice, è stata, a Firenze, una splendida Libreria, grandissima, strapiena di libri che vi si stratificavano e si accu-mulavano negli anni, odorosa di carta, inchiostro ed umidità, con dei commessi che sapevano sempre dove fosse ogni libro, fondata nel 1840, fu meta di in-

tellettuali di ogni dove, Pirandel-lo, Palazzeschi, Carmelo Bene, Fallaci, Spadolini... Frequentavo il Liceo Galileo, lì di fronte, e da allora amavo perdermici, frugare, sfogliare, cercare, chiedere. Al suo posto Eataly, modernissimo ed impersonale bottegone i cui scaffali espongono cibi, dice di qualità, e ai cui tavoli si può mangiare. Sdegnata, mai ci met-terò piede.

a Cura di CriStina [email protected]

Dalla collezione di RossanoBizzarriadegli oggetti

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S’inaugura oggi, sabato 21 marzo, al teatro Obihall di Firenze (Lungarno Aldo Moro,3) il nuovo sipario, disegnato e realizzato da Nicola De Maria. Uno dei cinque artisti della Transavanguardia Italiana che, a differenza degli altri esponenti del gruppo, come Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi e Mimmo Paladino, si è principalmente concentrato sull’astrattismo e su un approccio pittorico nel quale i limiti della tela venivano superati per entrare in relazione con lo spazio circo-stante.Ecco perché un “semplice” sipario può trasformarsi in un’opera d’ar-te. Non solo perché a realizzarlo è un maestro riconosciuto di una delle corresti artistiche più celebra-te della nostra contemporaneità, ma perché dimostra la vitalità dell’arte oggi, ancora capace di dialogare con i luoghi e la vita quotidiana delle persone. Meno “eversiva” della street art (che pure in certe sue recenti propaggini

Vecchio e malato, Antonio Ma-gliabechi dispone solo in punto di morte il futuro dell’eccezionale rac-colta libraria che possedeva. Senza eredi, sollecitato da tutti a lasciarla a vantaggio della città di Firenze, in cui mancava una biblioteca pubblica, il bibliotecario si decide a questo passo con la desolazione tipica del collezionista che deve separarsi dai suoi beni più preziosi, stante l’ineluttabile fine della vita terrena. Diffidente e sospettoso, gelosissimo dei suoi libri, senza di lui li vede perduti, rovinati, sottrat-ti; per questo, pur decidendosi col testamento a lasciarli “a benefizio universale della città e specialmente per li poveri […] che non anno il modo di comprar libri e potere studiare” , prescrive in maniera scrupolosa e dettagliata come dovrà essere costruita e gestita la libreria pubblica, con quali fondi, chi saranno i bibliotecari e quali i loro compiti, nomina una serie di autorevoli personaggi come garanti della perfetta esecuzione delle sue volontà. Alleggeritosi la coscienza con questa decisione, pochi giorni dopo , il 4 luglio 1714, Antonio Magliabechi muore nell’infermeria del convento di S. Maria Novella

dov’era da tempo ricoverato e nella basilica domenicana sarà sepolto; una lapide, collocata qualche mese fa in occasione del tricentenario della morte, ricorda il luogo della sua inumazione. Ma per la realizzazione della biblioteca a lui intitolata occorreranno ben 33 anni, poiché solo nel 1747 la Magliabechiana aprirà le porte ai fiorentini, nella freddissima gior-nata del 3 gennaio. Tutto questo tempo era occorso perché dal mitico disordine della casa dell’e-rudito si passasse all’allestimento di un “vaso” librario adeguato, che fu scelto nell’ex Teatro da commedia dell’arte, detto Teatro di Baldracca dall’ubicazione in un quartiere malfamato, nell’edificio, ancor oggi esistente che si affaccia sull’attuale piazza Castellani, alle spalle degli Uffizi; il vasto salone fu restaurato, affrescato da Rinaldo Botti, trasfor-mato in un consono luogo di stu-dio su progetto di Giovan Battista Foggini che disegnò il finestrone e le belle scaffalature. I locali, dopo il recente restauro che ha riportato alla luce l’aspetto originario del luogo, ospitano adesso la Biblioteca degli Uffizi. Essenziale e laboriosa

fu inoltre la realizzazione di un ordinamento librario che prevede-va cataloghi e classificazione, con un criterio innovativo e scientifico dovuto al medico ed antiquario Antonio Cocchi chiamato dal granduca Gian Gastone de’ Medici a sovrintendere ai lavori , e che si avvalse della collaborazione del gio-vane discepolo, anch’esso medico, Giovanni Targioni Tozzetti, che poi rimase alla guida dell’istituto per 45 anni. Determinante fu l’impulso che la nuova dinastia al potere, i Lorena, seppe dare alla realizzazione di un’istituzione che si emancipò dalle caratteristiche as-sistenziali, di beneficenza espresse dal testamento del fondatore, per tendere piuttosto al soddisfacimen-to di esigenze di pubblica lettura e di aggiornamento, specie scientifi-co, che sempre più si avvertivano

nel Paese; da segnalare le leggi sulla consegna alla Magliabechiana di un esemplare di ciò che veniva stampato a Firenze, voluta da Gian Gastone nel 1736, ampliata nel 1743 da Francesco Stefano di Lore-na con l’estensione dell’obbligo agli stampatori di tutto il Granducato; questo dette vita all’incremento del posseduto della biblioteca e il suo sviluppo come deposito della me-moria culturale. Con l’aiuto eco-nomico e normativo dello Stato, la raccolta libraria del Magliabechi si avviò a divenire una delle biblio-teche pubbliche più importanti d’I-talia, attirando nel suo alveo molte altre raccolte donate o acquistate. Tra questi “affluenti”, è d’obbligo ricordare la Biblioteca palatina, che per ben due volte si riversò nella Magliabechiana, la prima nel 1771 per la volontà di Pietro Leopoldo che volle donare i libri un tempo appartenuti ai Medici alla Biblio-teca pubblica; la seconda nel 1861 quando la biblioteca dei Lorena fu incamerata, questa volta senza il loro consenso, dal neonato Regno d’Italia e unita alla Magliabechiana, dando vita alla Biblioteca Naziona-le di Firenze

Su il siparioall’Obihall

Da Magliabechi alla Biblioteca Pubblica

“artisti” e quello degli “spettatori”. Non so se è giusta l’interpreta-zione, ma forse ambisce anche a far entrare in osmosi questi due mondi che un sipario, di solito, da un lato separa e dall’altro consente

l’ingresso. Funzione ambigua, ma ordinariamente anonima quella del sipario: chiude e cela alla vista, scompare e permette di vedere; ma quando è chiuso non è osservato (paradossalmente), è solo un osta-colo. Oggi De Maria propone un rovesciamento di questa funzione: sipario chiuso, opera d’arte in vista; sipario aperto che scompare, rivela un’altra opera agli spettatori (ma forse anche agli artisti, la cui vera opera è la meraviglia di quel pubblico seduto di fronte). Qui alcune foto del maestro al lavoro sul sipario, realizzato anche con la cura tecnica di Daniele Spisa, che da stasera potrete ammirare al teatro Obihall. Motivo in più per arrivare per tempo in teatro.

di SiMone [email protected]

di Maria ManneLLi [email protected] 

tende ad istituzionalizzarsi e, forse, a perdere di forza), il lavoro di De Maria qui cerca di aprire (è il caso di dirlo!) su un fronte nuovo; tende a farsi medium, luogo di passaggio fra il mondo degli

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Percorso affascinante e allo stesso tempo impegnativo, quello della seconda tappa

dell’Anello, dall’Antella all’Im-pruneta, che la sezione toscana di TrekkingItalia ha organizzato la prima domenica del mese di mar-zo. Abbiamo previsto la partenza dall’Antella: la domenica è servita da un regolare collegamento, con la linea 32 in partenza da via La Pira. La tappa è di circa 22 km, 7-8 ore di cammino comprese le soste; il dislivello in salita è di circa 800 m. Per il ritorno, la domenica, si può contare dall’Impruneta su una corsa della Cap alle ore 17,40. Dall’Antella si prende la dire-zione del cimitero e poi via della Rimaggina. La strada, fra ville e case coloniche restaurate, è in forte salita fino ai boschi di Fonte Santa. Salendo abbiamo sulla sinistra la veduta, prima di Osteria Nuova e di Montisoni, poi l’arco delle colline da Madonna del Sasso ai monti dell’Abetone, mentre al cen-tro della valle risalta la mole della Cupola del Brunelleschi. In questo tratto siamo stati distratti dalla fatica della salita, dalla compagnia di un cagnolino shitsu, Tobia, che, uscito da una villa si è unito a noi e ha accompagnato per un lungo tratto finché non abbiamo chiama-to i proprietari. Giunti al parco di Fonte Santa si segue il cartello “Tizzano”, poi si passa dal Sasso Scritto – su una rupe un’iscrizione etrusca segnala il tracciato fra Fiesole e Volterra - Montemasso, Collina, Castel Ruggero, Molino di Petigliolo. All’incontro con la Chiantigiana si procede in direzione di Firenze per circa un chilometro, fino a via della Montagnola, sulla sinistra. Si scende in forte dislivello nel bosco fino al torrente Grassina per risalire nella zona detta delle Terre Bianche. Preziosa anche in questo caso, la descrizione della Carta che fornisce, come abbiamo segnalato nell’ultimo numero di Cultura Commestibile, l’Apt. Si raggiunge infine la splendida piazza Buondel-monti dell’Impruneta. Fra i diversi interessi che presenta il percorso, la vegetazione del parco di Fonte Santa, il Rifugio costruito prima della guerra da cittadini dell’Antella e i ricordi del-la lotta partigiana, evocati da una lapide nella loggia del Rifugio. Da qui poi passavano la via del sale e l’antica via Maremmana che riper-

Un giro sull’Anellodel Rinascimento

I macchiaiolii pittori ribelli

Seconda tappa: dall’Antella all’Impruneta

Ancora fino al prossimo 6 aprile presso il Lucca Center of Contemporary Art sarà possi-bile visitare la mostra dal titolo “Signorini, Fattori, Lega e i Macchiaioli del Caffè Miche-langiolo. Ribelli si nasce”, il cui obiettivo – si apprende - era ed è “rivedere il movimento dei macchiaioli alla luce della loro modernità, del loro essere ribelli alle regole accademiche e a ogni convenzione”. La ribellione è chiave di lettura quasi scontata per chi si interessi o semplicemente si accosti alla pittura della c.d. ‘macchia’, trattandosi peraltro di motivo già (più o meno contemporane-amente) ricorrente nella seconda metà del secolo XIX, che vede accomunata questa corrente pittorica tutta italiana e, par-ticolarmente, toscana all’altro movimento – dal respiro più internazionale – conosciuto con il nome di “Impressionismo”. Dunque nulla di nuovo sotto il sole - si dovrebbe dire. Senon-ché resta pur sempre gradita e

appetibile l’opportunità di am-mirare tutte assieme 50 tele di artisti come Telemaco Signorini, Giovanni Fattori, Silvestro Lega, Giuseppe Abbati, Odoardo Bor-rani, Adriano Cecioni, Giovan-ni Boldini, Adolfo Tommasi. In Toscana pare impossibile

di paoLo [email protected]

dei vasti orizzonti che si aprono sul tracciato della via Maremmana verso Strada in Chianti, il Passo dei Pecorai, Greve mentre sullo sfondo s’intravede la cima del Monte Amiata. In altra direzione, “vigila” sul nostro cammino il paese dell’Impruneta, incrocio da sempre delle vie della transumanza e dei commerci. Tornano in mente i versi di Mario Luzi: “Vanno ai monti i monti/ da soli o con le nubi/ sulla cresta o ai fianchi, / si uniscono, si salgono sulla groppa,/ si celano l’un l’altro,/ si confondo-no/ terra in cielo/ … “(da “Sotto specie umana”). Vicino all’Impru-neta le Terre Bianche e i Sassi Neri, dove cresce una vegetazione stenta per il terreno ricco di minerali e dove sono riconoscibili i segni delle antiche miniere del rame. Nella terra del cotto e del buon vino, non è mancata nel nostro caso – grazie all’iniziativa del vice sindaco del Comune – la visita alla storica fornace Agresti, recente-mente restaurata, e un brindisi con un bicchiere di Chianti a conclu-sione di un percorso faticoso ma di grande interesse. Pronti per la prossima tappa, il 26 aprile, dalla Certosa del Galluzzo a Lastra a Signa.

di roBerto [email protected]

non concepire di tanto in tanto, se non ricorrentemente, simili omaggi ad artisti che celebraro-no in modo così inedito e forte la loro terra ed il loro tempo. Semmai può essere che difetti – o magari sono io che non ne sono a conoscenza – una aperta, ampia e diffusa riflessione a illustrare e a motivare le ragioni del loro ‘lascito’: un patrimonio costituito non solo dalle loro opere ma in un certo senso anche dalla cultura e dall’arte che ad esse si sarebbero dipoi ispirate, lungo tutto il corso del XX secolo - qualcosa che appare immenso, capillare, duraturo. Mi riferisco segnatamente ad una produzione pittorica anche minore o comunque ignorata dalla fama e dal successo, che sovente capita di incontrare, del tutto casualmente, in mostre, gallerie d’arte e in non poche private dimore.

corre il tracciato della transumanza sul quale transitavano uomini e greggi provenienti dalla Val di Sieve, dal Mugello e dal Casenti-no. Ogni anno, nel Cinquecento, passavano cinquecentomila ovini diretti verso le terre di Siena (e le

gabelle del “Monte dei Paschi”) e della Maremma. Nella seconda parte del percorso l’imponente bellezza delle Ville di Tizzano e di Castel Ruggero, il “mistero” del vicino lago abitato da fantasmi nelle notti di luna, la “sorpresa”

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Dopo tre anni dal pluripre-miato Cesare deve morire i fratelli Taviani tornano al

cinema con Maraviglioso Boccaccio, personale interpretazione di una delle opere fondamentali della letteratura europea, il Decameron. In una ricostruzione cinematografi-ca della Firenze appestata del 1348, dieci giovani (sette donne e tre uomini), interpretati da attori quasi o del tutto sconosciuti al grande pubblico, si incontrano nella chiesa di Santa Trinita (la chiesa di Santa Maria Novella nell’opera boccac-ciana) e decidono di allontanarsi temporaneamente dalla città, ormai regno di degradazione e laidezza, per tentare di sopravvivere al contagio. Al disordine indotto dalla pestilenza il Boccaccio e i Taviani contrappongono l’ordine che la brigata si impone durante il soggiorno fuori città in una villa (nella pellicola la villa fiorentina La Sfacciata funge da degno set). Raccontare a turno una novella, partecipare in letizia alla vita comu-nitaria quotidiana e astenersi dall’e-ros (i tre uomini amano infatti tre delle sette donne): sono queste le regole per una onesta e pacifica convivenza. I due registi hanno scelto cinque tra le cento novelle della raccolta, modificandone in certa misura la trama. Partendo da quell’imponente enciclopedia del vivere che è il Decameron, i Taviani hanno seguito una personale strada verso la salvezza, una strada che ha permesso loro di rendere più vicine alla contemporaneità vicende che toccano, comunque, corde universali.Nell’iniziale racconto della peste, assente nelle precedenti trasposizio-ni cinematografiche del capolavoro boccacciano, i due registi riman-gono in sostanza fedeli all’opera narrativa. La paura del contagio che cancella anche i rapporti di parentela, scioglie i vincoli di soli-darietà amicale, rompe ogni freno morale, i porci che contraggono il morbo contaminandosi con la veste di un appestato, sono i tratti più sa-lienti dell’“orrido cominciamento” del Decameron. Una significativa aggiunta tavianea è rappresentata dal giovane appestato che apre il film gettandosi dal campanile di Giotto; l’eloquente scena sembra richiamare alla mente i salti nel vuoto, consapevoli (o meno) sui-cidi, compiuti durante l’attentato

Contro la peste,donne maravigliose

ascoltatori a richiamare il narratore di turno a una conclusione più lieta.La storia di una ribellione per amore ha per protagonisti la valorosa Ghismunda e Guiscardo. La gelosia morbosa di Tancredi, principe di Salerno, che non vuole concedere nuovamente la figlia vedova in sposa, si trasforma alla fine in crudeltà; dalla voce della stessa Ghismunda, sostituitasi per un attimo alla narratrice di turno, le restanti sei donne della brigata ascoltano commosse il racconto dell’ultimo atto della tragedia: Guiscardo, scoperto amante della principessa, è fatto strangolare da Tancredi, e la giovane si avvelena. Un’esplicita affermazione della libertà sessuale della donna e della sana naturalità dell’erotismo si trova, infine, nella novella di Usim-balda. Nella fretta di punire suor Isabetta, colta in flagrante mentre nella sua cella si dà ai piaceri della carne, la badessa si copre il capo non con il tradizionale velo, bensì con le brache dell’amante con cui si sta a sua volta intrattenendo; così il suo rimprovero perde di credibilità e le monache imparano a darsi buon tempo. Se a metà del film troviamo un padre che impedisce alla figlia di risposarsi, nella novella conclusiva i fratelli di monna Giovanna, la donna amata senza speranza dal nobile decaduto Federigo degli Alberighi, spingono in ogni modo la sorella vedova a contrarre un nuovo matrimonio. Non riuscendo a evitare le nozze, la gentildonna si arroga però il diritto di decidere come secondo marito l’uomo che per lei ha sacrificato anche la sua ultima fonte di so-stentamento: un falcone, cacciatore prezioso.Con un espediente già utilizzato nel finale de La notte di San Lo-renzo, i Taviani concludono il film versando una pioggia purificatrice sui dieci giovani fiorentini, affinché rientrino in città, come gli spetta-tori alle loro case. Pur con alcune concessioni a modi banalizzanti di racconto audiovisivo, gli autori di Maraviglioso Boccaccio ribadiscono l’amore di una vita per la grande letteratura, la loro fedeltà affettuosa alla Toscana e la loro risoluta vo-lontà di contrapporre al degrado e al dolore del mondo un progetto di vita secondo ragione, dignità, ricer-ca di felicità: in forma di donna. A 85 anni, Paolo e Vittorio guardano al futuro, il loro e il nostro.

di Maria Benedetta [email protected] alle Torri Gemelle l’11 settembre

2001. Del resto, se la peste, come affermano i Taviani, esiste ancora, seppure in forme differenti (guerre, Isis, crisi economica), i giovani di oggi, così come i dieci giovani della cornice decameroniana, devono cercare di opporsi alle ingiustizie sociali e di creare un futuro miglio-re per se stessi e per la società tutta, ricorrendo alla fantasia.Comicità, passione, sacrificio, tra-dimento, vendetta, ma soprattutto amore. Il motivo unificatore delle cinque novelle scelte dai Taviani sembra essere l’amore, nelle sue va-rie forme: amori impossibili, amori malati, amori all’insegna della mas-sima libertà, amori oltre la morte. Un cast d’eccezione, composto da

alcuni dei più famosi attori italiani del momento (Riccardo Scamarcio, Vittoria Puccini…) dà corpo ai personaggi delle novelle. Se i dieci giovani della cornice possono essere sconosciuti, i protagonisti delle storie interne non devono esserlo, sia perché frutto della fantasia creatrice dei novellatori, sia perché i racconti narrati vengono presen-tati come conosciuti già da molto tempo. L’intuizione dei registi trasferisce brillantemente il codice letterario in quello cinematografi-co. Come il Decameron è un’opera dedicata alle donne innamorate, Maraviglioso Boccaccio vuole porre l’attenzione del pubblico sul genere femminile, sulla donna non passiva ma dotata di capacità decisionali. È la giovane Pampinea a suggerire la fuga da Firenze e a proporre come passatempo l’esercizio del novellare, e sei figure femminili dotate di una forte personalità sono le protagoniste delle novelle scelte. Se Ghismunda, monna Giovanna, suor Isabetta e la badessa Usimbal-da (queste ultime coprotagoniste di una medesima storia) sono già

nel Decameron donne che con decisione si impongono in una società trecentesca maschilista, rivendicando la propria libertà di scegliere, di amare e perfino di fare sesso, i personaggi di Catalina e Tessa acquistano solo nel film un maggiore e diverso spessore. Cata-lina, malata di peste, così debole da sembrare morta, rinasce a nuova vita grazie alle cure dell’innamorato cavaliere Gentile de’ Carisendi. Scacciata di casa dalla suocera per paura del contagio, la donna trova invece nella madre del suo salvatore amorevolezza. All’ignavia e alla codardia del marito che non sa opporsi a una madre egoista e gelosa, la Catalina dei Taviani, non più muta e ridotta a mera cosa,

bensì parlante, preferisce l’auten-tico amore di Gentile; infatti, nel momento in cui ci si aspetterebbe il ritorno della donna tra le braccia del marito (così si conclude la novella decameroniana), Catalina restituisce a Niccoluccio il gesto ostile di alcuni mesi prima, quando era stata privata dalla suocera di una carezza. Monna Tessa è, invece, la moglie di Calandrino, il credulo-ne protagonista della novella sulla magica elitropia. Dopo una prima parte costruita su un’accentuata comicità, secondo gli stilemi di un linguaggio televisivo che qui appare un poco riduttivo, l’episo-dio assume le tinte grottesche di una lite familiare, sfiorando poi la tragicità delle tante stragi familiari note alle cronache contemporanee. Nella raccolta trecentesca le botte di Calandrino date alla moglie concludono, ma non guastano, una novella dilettevole; in Maraviglioso Boccaccio il maltrattamento viene enfatizzato, e monna Tessa cerca alla fine la sua vendetta, tentando di colpire il marito con la pietra da lui tanto desiderata. Saranno i nove

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Un’amica poetessa una volta mi disse che i poeti donna rappresentano la

vera rivoluzione nel panorama contemporaneo. Reduci da un’oppressione durata millenni e combattuta cantando la natura della propria femminilità, prose-guiva, le poetesse affidano alla manifestazione stessa del loro essere una dichiarazione di guer-ra nei confronti del già detto, del codificato, dell’inutile. Una guerra che, indipendentemente da ciò che decreterà un certo accademismo tradizionalista (e maschilista), sono destinate a vincere.Tanto più, aggiungerei, se la voce femminile arriva da quella parte di mondo rimasta indietro nella corsa verso l’avvenire, che ancora soffre dell’imposizione di metodi arcaici refrattari a qualsiasi idea minimamente emancipatrice. O da quei paesi che solo da qualche anno hanno ripreso a correre e, sacrificando diritti e democrazia, bruciano tappa su tappa perché possano un giorno avere i cassonetti pieni, come i nostri, di tutti i nuovi oggetti nati vecchi. Paesi immensi, da perdersi, grandi

come continenti, come l’India, che arriva ai nostri orecchi come esotica colonna sonora, o im-menso brusio, come clangore di enormi macchinari che stanno arrivando a pieno regime, dove si urla per l’orrore che resta là dove si ritrae umanità, dove una voce di donna che sussurra può arrivare in alto se riesce a sfondare le distanze.Sussurra Arundhathi Subrama-nian, lasciando urlare l’uomo, bisbiglia all’orecchio usando le parole della poesia pescate da

un altro vocabolario, racconta sommessa-mente le storie degli emarginati, degli esuli, di tutti quelli lasciati indietro nel procedere pachider-mico della macchina, e starla ad ascoltare è atto voluto e non riflesso, regalo di tempo che concedi a te stesso.E che lei regala a noi qui, in Italia, nel viaggio che in questi

giorni ha intrapreso chiamata a ricevere il 59° Premio Ceppo Internazionale Piero Bigongiari 2015 dal Consiglio Regionale della Toscana, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, da Semicerchio – Rivista di poesia comparata, dal Centro studi Jorge Eielson e dall’Ac-cademia pistoiese del Ceppo stessa, presieduta dall’amico poeta paolo Fabrizio Iacuzzi.E’ una settimana intensa questa di Arundhathi qua in Toscana, scandita da letture a

Sesto Fiorentino insieme al suo traduttore Andrea Sirotti, Lectio Magistralis presso il palazzo Bastogi sede del Consiglio regionale e la vera e propria ce-rimonia di premiazione questa sera a Pistoia, per la Giornata mondiale UNESCO della Po-esia, un viaggio che si chiuderà il prossimo mercoledì 25 marzo quando verrà a prepararsi per il ritorno rigenerandosi tra le familiari atmosfere del Risto-rante India nell’ambito della rassegna fiesolana de Lo Stato della Poesia – L’evoluzione che con questo grande evento entra nel vivo!Leggerà le sue poesie nell’intima saletta, introdotta da me, Paolo Fabrizio Iacuzzi ed Andrea Sirotti e la serata finirà, per chi vorrà, con una piacevolissima cena vegetariana. Arundhathi Subramanian scri-ve: “Dammi una casa/che non sia mia,/dove possa entrare e uscire dalle stanze/senza lasciare traccia,” anche se queste tracce restano comunque, in invisibili scie, da Bombay a Fiesole.

di Matteo [email protected] Lo stato indiano della poesia

Scav

ezza

collo

di MaSSiMo [email protected]

Il migliore dei Lidi possibili

Quantitative easing: impiccare e stampare moneta

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

di Lido [email protected]

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Come in quasi tutte le città inglesi ex industriali, anche di non grandi dimensioni come Newcastle (circa 300.000 abitan-ti), non mancano un museo di arte contemporanea e un centro per concerti. A Newcastle , im-portantissimo porto e centro in-dustriale fino agli sconvolgimenti thatcheriani, un grande silos per grano e mulino annesso sono stati trasformati, fra il 1998 e il 2002, in “spazio d’arte”, secondo una tendenza assai diffusa in U.K. in quegli anni: basti pen-sare alla Tate Modern di Londra. L’edificio del Baltic , in mattoni rossi, conserva la scritta, in alto, “Baltic flour mills”. Esso costi-tuisce, insieme al “Millennium bridge”- due grandi paraboliche d’acciaio disegnate da W. Eyre Architectes; e al “Sage music centre” di Forster e Patners, l’im-portante quartiere della cultura della regione del Tyne. Nel Centro d’arte contempo-ranea del Baltic .-.sei piani con studi ,sale per cinema e teatro , caffè-ristorante, oltre agli spazi espositivi.-. non ci sono collezio-ni permanenti, ma solo mostre temporanee che durano diversi mesi. Due piani della galleria sono attualmente dedicati alle gi-gantesche installazioni di Jason

Rhoades (1965-2006),uno dei più noti e controversi artisti pop americani , dalla vita segnata tragicamente dalla droga. Spazi così ampi sono necessari per permettere alle sue installazio-ni di distendersi ed “abitare”. Questa volta non si tratta delle sue più note elaborazioni con luci e cascate di materiali vari , ma insomma luminose, bensì di raccolte di oggetti di officina af-fastellati ossessivamente, racchiu-si in un luogo compresso .La più ampia, indubbiamente spiaz-zante per la variètà di attrezzi e strumenti usati, s’intitola “My brain”, dove, come nella sala macchine di un acquedotto sot-terraneo , passa di tutto:, schiu-me, visioni porno e quant’altro. U n enorme tubo di plastica ros-so si gonfia e si sgonfia in mezzo a meccanismi i più improbabili, fatti di catene ,trenini e stantuffi che emettono vapore. Insomma un’orgia di narrazione della più spericolata pop art, con memorie che vanno da quelle storiche di Duchamp, Rauschemberg o Dalì, ai fumetti di Robert Crumb, a Barney, a Hirst, e al

suo mentore Paul MacCarty. Altre sale mostrano installazioni di tutto quello che può essere residuale, dal significativo titolo “Lost”. Opere di dimensioni più raccolte e più classiche, nel loro genere, sono quelle prestate dall’ Hamburger Bahnhof di Berlino, costruite con i materiali tipici della pop art: da manubri di biciclette a corna di toro, a pezzi idraulici. Ovviamente , il forte senso della forma aggrega tutto e ci pone davanti ad opere di gran-de compattezza e suggestione.Di tutt’altro segno, diciamo pure liberatorio, è l’opera del giovane Jesse Wine (1983), straordinario artista ceramista, che espone ce-ramiche coloratissime,“Puppets”, un po’ ispirate ad azioni teatrali,

un po’ alla Alexander Calder, sospese per aria. Sono pezzi di vestiario di ragazzi- fantocci : da una parte il berretto, dall’altra le scarpe, dall’altra ancora un organetto , dai colori vivissimi, d’impasto raffinato, leggermen-te pastellati: rosso ,cilestrino ,giallo ,marrone. Ma quello che sorprende in un così giovane artista è la sapienza e accura-tezza del lavoro : ceramiche.-.si direbbe.-. cotte all’antica e poi dipinte, con ricco spessore , a formare un palcoscenico di pupi disintegrati e ironici.La varietà è evidentemente il pregio che si può permettere un centro d’arte così ampio; e aper-to, per mentalità e tradizione, alle più disparate esperienze.

aldo Frangioni presentaL’arte del riciclo di Paolo della Bella

ScottexTirata da mani nascoste nel fondo nero appare per un attimo, prima che venga ridotta in brandelli, la scultura Scottex 13. Un centesimo di secondo magico che ci fa apparire il profilo di un caprone incappucciato posto su una solida base di marmo di carta.

Sculturaleggera

Newcastle upon Tyne

13di annaMaria Manetti [email protected]

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Alla luce nasce da un’idea del drammaturgo Michele Santeramo e del regista Roberto Bacci e vede in scena Sebastian Barbalan, Michele Cipriani , Silvia Pasello, Francesco Puleo, Tazio Torrini .Si gioca una partita a carte tra quattro ciechi, al confine della nostra notte. Due coppie di ciechi raggiungono il luogo in cui si gioca la partita per poter vedere. Un croupier gestisce il gioco le

cui regole si trovano in un libro dal titolo: Alla luce. Una coppia è formata da marito e moglie il cui drammatico conflitto verrà svelato dal gioco; l’altra coppia è composta da due fratelli, il più anziano dei quali trascina con sé il più giovane, come possibile vittima, per poter riacquistare la vista. Le prove da su-perare durante la partita potranno rendere la vista ai giocatori, ma per ciascuno di essi, il possibile ritorno alla luce, indicherà un diverso destino.Sabato 21 marzo alle ore 21.00 al Teatro Studio Mila Pieralli

Un mondo tutto al femminile fatto di colore, passione e vita. Sono donne che si mettono in gioco quelle di Anna Cecchetti, che espri-mono quella sensua-lità e gioia di vivere che sono anche il riflesso dell’artista stessa, e che com-battono per i propri ideali. È di questo che l’artista fiorenti-na ci parlerà attra-verso le opere che compongono la sua personale “Donna. Vita è amore”, che sarà aperta al pub-blico nel Lu.C.C.A. Lounge&Underground dal 17 marzo al 6 aprile 2015, con ingresso libero. Argomento che sarà poi ripreso durante l’incontro con l’artista, condotto da Maurizio Vanni, giovedì 2 aprile alle ore 17,30.

In occasione del primo giorno di primavera e della Giornata Mondiale della Poesia indetta dall’UNESCO, Aguaplano organizza un evento speciale presso la Tenuta Castelbuono, nello scrigno del Carapace di Arnaldo Pomodoro. Cornice d’ecce-zione per presentare Lapsus Calami, una nuova collana di poesia contemporanea, un laboratorio in fieri per autori di diversa estrazione e background nato come eccezione del catalogo Aguaplano e come sfida all’omologazione del linguaggio e del panorama editoriale. Sabato 21 marzo 2015 ore 17

Donna. Vita è amore Lapsus Calami

Alla luce

in

giro

SAVE THE DATE

La Svizzera Pesciatina, la Carta, le Castella: un territorio fra passato e futuro

Sabato 28 marzo 2015 ore 15.00Hotel Villaggio Albergo Santa Caterinavia San Lorenzo, 15|24 Pescia

Sulla natura complessa del progettare

GIORNATA DI STUDIO

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horror

vacuiDisegni di Pam

Testi di aldo Frangioni

Le donne-bambine e gli uomini-bambini ascoltarono Siddharta estasiati per un giorno intero. Ma solo per coloro che non divennero adulti la luce, che era loro penetrata nel cuore, rimase nei loro occhi fino a quando le tenebre inghiottirono nel gorgo le loro anime.

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L

Siamo sempre nello stesso luogo della settimana scorsa e queste sono le tribune per il pubblico, quelle a pagamento. L’mpressione che si aveva di questa struttura vista dal basso, era quella di una certa precarietà, almeno agll occhi di uno come me abituato da sempre a situazioni apparentemente meno instabili. Probabilmente era solo un’illusione ottica e senza dubbio anche gli spettatori di questi

eventi non correvano alcun rischio. Il rombo di questi motori era proprio insopportabile ma evidentemente anche questo faceva parte dello spettacolo ed aveva una grande forza di attrazione per tutti questi aficionados del sabato pomeriggio.

San Jose, California 1973

Dall’archiviodi maurizio Berlincioni

[email protected]

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