Cultura Commestibile 167

18
N° 1 234 67 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia “Some said it was a symbol of the part-Kenyan president’s ancestral dislike of the British empire” Boris Johnson, sindaco di Londra, parlando di Barak Obama Frequentano lo stesso parrucchiere

description

 

Transcript of Cultura Commestibile 167

Page 1: Cultura Commestibile 167

N° 123467

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello,

aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

“Some said it was a symbol of the part-Kenyan president’s ancestral dislike of the British empire”Boris Johnson, sindaco di Londra, parlando di Barak Obama

Frequentanolo stesso parrucchiere

Page 2: Cultura Commestibile 167

23APRILE

2016pag. 2

Da nonsaltare

La Loggia della Signoria è un unicum museale inscindibile dal contesto

urbano e dall’architettura che lo realizza: questo assunto è universalmente condiviso, un postulato sul quale non pos-sono sussistere dubbi di alcun tipo. La Loggia è un lascito che appartiene alla città tutta, ai suoi abitanti e al mondo intero: uno spazio che, di giorno e di notte, d‘estate e d’inverno, per-mette a chiunque di godere dei capolavori, che qui si conser-vano da secoli, in piena e non condizionata libertà. L’emo-zione di trovarsi di fronte agli originali usciti dalle officine artistiche dei maestri del passa-to, dalle mani stesse di grandi artisti è pari solo alla bellezza che suscitano le opere, specie se tutte insieme congiunte in un proscenio meraviglioso, dove il primo, il secondo e il terzo piano prospettico esaltano una scena osservata a 360° che via via si anima con lo sguardo che corre ora sull’una ora sull’altra monumentale composizione, nessuna esclusa. Dal Cinquecento in avanti la loggia è stata la ribalta d’ecce-zione dello splendore artistico fiorentino (questo fatto non va mai dimenticato!). Da quando il Perseo (1545-1554) di Benvenuto Cellini, veniva qui magistralmente collocato seguendo l’esempio dell’ante-signana “Giuditta e Oloferne” (1455-1460) di Donatello (ora in Palazzo Vecchio), è stato un susseguirsi di arricchimen-ti, taluni spregiudicati, fino all’Ottocento, rappresentando sempre ai massimi livelli la qualità della produzione sculto-rea del tempo.Pensare oggi di spostare il “Ratto delle Sabine” (1581-1583) del Giambologna, per sostituirlo con una copia, non può che essere una boutade, una provocazione per segnalare una criticità ambientale che ormai da decenni accompagna i rischi indotti dal turismo di massa. Non credo che possa trattarsi di un’idea speculativa al fine di dotare ancor più di adesso la Galleria degli Uffizi, già strabordante di eccellenze. Un modo, forse, per il diret-

di Giuseppe [email protected]

Siamo tuttilanzichenecchitore della Galleria di marcare un punto nell’attenzione dei maggiorenti che tutta-via suscita inquietudine nel pronunciamento stesso che, di questi tempi, suona come una minaccia imminente che può trasformarsi in una “miccia corta” accesa in faccia all’opi-nione pubblica per la risonanza stessa che viene a manifestarsi con quell’annuncio autorevole. È come dire, apertis verbis, che la Loggia della Signoria, non è più un luogo difendile e sicuro quale che siano i provvedimenti che si possa pensare di prende-re per la sua protezione, così da rendere giustificata e plausibile la rimozione dell’originale, magari a favore dell’istallazione di una copia. L’idea stessa che si reputi di essere giunti a tale limite estremo di pericolosità ci fa riflettere non poco sul danno incalcolabile che questo genere di pensiero può recare in sé. In realtà non ci sono drammatiche condizioni ambientali da scon-

giurare, l’opera è al coperto e la situazione dell’inquinamento atmosferico è persino migliore di qualche anno fa. Lo stesso rischio dell’atto vandalico o terroristico può e deve essere gestito con altri mezzi ed è, in ogni caso, statisticamente non così allarmante.Partiamo dal fatto inconfuta-bile per chi ama l’Arte che l’es-senza di Firenze, il genio stesso che alberga nel suo centro sto-rico, patrimonio dell’Umanità, vive nella speciale unicità che proprio la Loggia della Signoria esprime ai massimi livelli, tanto da apparire come un diritto costituzionale godere della città attraverso la libera fruizione delle opere d’arte, rese a tutti visibili. Si tratta per altro di un diritto acquisito da secoli che la storia ha conferito alla città del Giglio, che per questo ha speso denari e dato il proprio sangue, un diritto sancito dunque senza condizioni che si è consolidato ben oltre le intenzioni della

famiglia de’ Medici che, pur promotori, si erano arrogati per sé il piacere e gli onori derivan-ti dalla magnificenza dell’e-sposizione. Firenze in realtà ha riscattato da tempo questo privilegio per sé e a vantaggio di tutta l’Umanità. Dovrem-mo semmai sentirci debitori e partecipi di una custodia vigile e attenta, di amorevoli cure da sostenere per il mantenimento migliore di quello spazio, reso sacro da tutto ciò che vi si contiene. A scanso di equivoci è bene ribadire a chiare note il concetto che un’eventuale de-contestualizzazione delle opere d’arte che sono qui collocate, nessuna esclusa (compreso il loro sacrosanto diritto di un naturale invecchiamento in quello spazio), equivarrebbe ad una resa incondizionata nei confronti di un degrado resosi ormai non più arginabile, di una tale gravità da sovrastare gli eventi bellici più cruenti, i terremoti più devastanti, il ter-

Page 3: Cultura Commestibile 167

23APRILE

2016pag. 3

Da nonsaltare

rorismo più bieco e criminale.La paura di vedere infranto questo muro di libertà deve es-sere combattuta in tutti i modi possibili, ogni uomo, ogni donna che ha a cuore la cultura dovrebbe ergersi a paladino di questa straordinaria dimensio-ne architettonica ed artistica. Come fecero i lanzichenecchi chiamati dai Medici a difende-re il loro patrimonio da furti e depredazioni, dovremo altret-tanto fare noi nei confronti di ogni tentativo di sottrazione, di allontanamento, di rinuncia alla tutela attiva.Ricordo ancora bene il primo sfregio dei tempi recenti che si fece al basamento del “Ratto delle Sabine”, quando, nel febbraio del 1976, s’imbrattò con vernice rossa l’alto piedi-stallo. Lo ricordo bene perché, oltre al clamore che suscitò quel primo atto vandalico all’interno della loggia, fu parte, solo due mesi più tardi, della mia discussione di tesi di restauro. Da allora, all’interno della Loggia dei Lanzi ci sono stati altri sette o otto episodi di danneggiamento e vandalismo, numeri certamente significa-tivi, di certo non trascurabili, ma pur sempre limitati e contenuti in ragione del gran flusso di persone. Nel 1998, dopo l’ennesimo caso di sfregio vandalico capitato ai due leoni posti all’ingresso della loggia, divenuti sedili per souvenir fotografici, durante l’esecu-zione di indagini diagnostiche condotte per valutare i danni procurati i marmi d’epoca clas-sica del grande Leone di destra, ebbi occasione di sostare a lun-go accanto a quei monumenti e quindi di osservare il com-portamento della gente, il loro grado di educazione nell’avvi-cinarsi a quell’impareggiabile “museo all’aperto”. Più della stupidità di qualcuno, mi colpì vedere lo stupore nei volti della maggioranza dei visitatori, di ogni età, di ogni estrazione sociale e provenienza, di misu-rare l’effetto evocativo suscitato dal vedere tutte insieme quelle statue, dal sapere che si trattava di testimonianze autentiche, vecchie di secoli. In partico-

lare quella vista suscitava in molti quella sorta d’affezione psicosomatica, da capogiro, conosciuta come “sindrome di Stendhal”, specialmente la simbiosi che si realizzava tra la piazza della Signoria con i grandi palazzi di pietra e il suo grandioso arredo urbano visto dall’interno dello spazio voltato della loggia con tutte quelle figure del mito plasmate nei marmi e nel bronzo: da quelle aggiunte nell’Ottocento come “l’Ercole in lotta col Centauro Nesso”, “Menelao che regge il corpo di Patroclo”, “Pirro che rapisce Polissena”, fino a quelle di più antica presenza quali il “Ratto delle Sabine” e il “Perseo”. Adesso non posso in alcun modo pensare che la presenza delle copie al posto degli originali possa produrre un pathos così altrettanto forte. Se pensassimo di sostituire la forza intrinseca della comuni-cazione artistica di un originale affidandosi ad un multiplo, ad un clone, come ormai si fa di routine coi telefonini, con le immagini digitali anche dentro i musei per promuovere un’informazione didascalica e fare divulgazione, perderemmo l’afflato sensoriali, al tempo stesso emotivo e razionale, che solo la visione diretta dell’opera d’arte può suscitare.Stoppiamo dunque ogni tenta-tivo di rimozione, di sostituzio-ne e sosteniamo piuttosto, con lucido realismo, tutti gli accor-gimenti utili per scongiurare o ridurre al minimo gli effetti negativi dell’impatto eccessivo prodotto sul patrimonio dalla gran massa di visitatori, e allo stesso tempo salvaguardiamo anche il diritto di fruire della bellezza dell’arte ovunque essa si trovi o si rappresenti, pro-teggendola così com’è nel suo originario contesto che, al pari dell’opera, merita rispetto. Fac-ciamo tutto questo consapevoli che il contatto con l’autenticità e l’espressività della materia artistica non è cosa surrogabile; ma piuttosto adoperiamoci una volta di più nella prevenzione, nella manutenzione, del resto è questa l’ardua missione del restauro per la conservazione.

Salviamo la Loggia della Signoria

Page 4: Cultura Commestibile 167

23APRILE

2016pag. 4

Via del Collegio Romano, sede del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Il Ministro Franceschini misura a grandi passi l’immenso salone-studio, arrovel-landosi su un’ANSA: “Ma guarda questi stronzi di tedeschi! Dicono che ISIS starebbe pianificando attentati sulle nostre spiagge con kamikaze vestiti da ambulanti? Proprio oggi che ho fissato la pen-sioncina a Riccione! Ora li sistemo io questi mangia crauti!”.Vengono convocati subito i tre sot-tosegretari: Ilaria Borletti Buitoni, Dorina Bianchi e Antimo Cesaro. Mai avvenuto prima durante il dicastero Franceschini... infatti lui si stupisce un po’ di vederli. La Buitoni con i capelli mezzi cotonati e mezzi no (ha dovuto interrompere la seduta quotidiana dal parruc-chiere); la Dorina ancora in maglia rosso-blu (i colori del suo Crotone Calcio); Cesaro irritato perché stava scrivendo un saggio sull’er-meneutica del linguaggio renziano. Franceschini vuole concordare con loro un duro comunicato:“Quello che giù fu l’alleato germanico, ha deciso di volgere contro di noi i suoi turgidi strali e

intende sollevare il terrore nei lidi nostri con illazioni e seminando il panico fra i bagnanti, indigeni e stranieri. Ma si sappia, nelle terre del Reno, che noi non arretreremo: difenderemo la nostra italica terra fermando l’invasore arabo-tedesco

sul bagnasciuga! Nessun terrorista, da venditore ambulante africano, si è mostrato finora. I nostri Servizi Segreti si sono infiltrati nelle fila nemiche e sono ora impegnati a smerciare asciugamani e occhiali da sole sulle nostre spiagge per con-

trollare in situ. La Bild, foglietto scandalistico germanico, intende gettare discredito sulla nostra bella Italia e danneggiare il nostro turismo: respingiamo fermamente queste ingiurie!”.Franceschini è orgoglioso del testo che ha personalmente computato, ma Cesaro (docente di ermeneutica del linguaggio politico) e Bianchi (esperta di linguaggio ultrà) solle-vano qualche dubbio, vorrebbero un testo più sintetico, più gggiovane (la Buitoni è invece impegnata a rassettarsi la fulgida chioma).Il Nostro ci pensa un po’ e gli torna alla mente il corso di comunicazio-ne politica che ha di recente seguito alla scuola di formazione del PD, di cui era docente Ernesto Carbone, e verga di propria mano un letale tweet: “Ciaone a Bild...Vi accoglie questo #Azzurro che gli italiani stanno fotografando. #Willkomme-nInItalien @ENIT_Italia”.“Tiè [gesto dell’ombrello] tedeschen di Scheiße!”, chiosa Franceschini. Applausi dai tre sottosegretari e tutti e quattro, intonando “Azzur-ro” e “Il cielo è sempre più blu” , registrano un video promozionale per il sito del turismo italiano www.italia.it.

A Palazzo vecchio si preparano grandi festeggiamenti per l’80° compleanno del Maestro Zubin Metha. Il sindaco Nardella non sta più nella pelle e ha convocato una Giunta straordinaria.“Allora, ragazzi, mi raccomando sabato si fa la festa per Zubin, qui nel Salone dei Cinquecen-to, quindi venite vestiti tutti a modino e non fatemi fare brutta figura. Soprattutto tu, Cristina: cerca di metterti qualcosa di sobrio o non troppo estroso”.La vicesindaca Giachi, un po’ risentita per l’osservazione del sindaco, dichiara che per l’oc-casione andrà a farsi acconciare la chioma da Hairforce, nella top list dei migliori parrucchieri fiorentini. Invece si diffonde il panico fra gli assessori maschi: spaesamento di Bettarini (il mu-gellano) e Vannucci (lo sportivo): “Ma chi è ‘sto Zubin?”. Gianassi fa il primo della classe: “Oh ragazzi, gl’è ‘i maestro dell’orche-stra; quello indiano!”. Giorgetti si defila: “Io non posso ho da controllare i cantieri. Ciaone!”.

riunione

difamiglia

i CuGini enGels

le sorelle Marx

Il cielo sopra Berlino

BoBo

Tanti auguri Maestro Lo riprende subito Nardella: “Ciaone una mazza, Stefano: te ti levi subito quel casco e la giac-chetta catarifrangente, ti metti finalmente una giacca e una cravatta e ti presenti sabato alle 19 nel Salone, sennò ti mando a dirigere il traffico a Porta al Pra-to, capito? E poi, ragazzi, ho una sorpresona per voi, per il pubblico e soprattutto per il Maestro: dopo Accardo, mi pregerò di far ascol-tare una musica sul mio violino anche al Maestro Metha! Ganzo eh? Non ve l’aspettavate, dite la verità. E poi accompagnerò sullo strumento un corale Tanti auguri a te. Quindi, incominciate a prepararvi e non stonate, sennò vi licenzio tutti!”. Gianassi e Perra cercano di guadagnare il bagno assaliti da conati di vo-mito; Vannucci e Bettarini sono presi da riso convulsivo; a sinistra invece grande sbattere di ciglia dalla componente charmant della Giunta, Mantovani-Bettini-Fu-naro. Mentre il capo di Gabi-netto Braghero, disperato, sfonda una porta a testate.Tanti auguri Maestro!

Page 5: Cultura Commestibile 167

23APRILE

2016pag. 5

è originale, quasi mai scontata, il racconto è ampio e piace-vole, quasi mai drammatico o eccessivo, i suoi personaggi sono autentici, inseriti in ambienti e paesaggi altrettanto autentici, raffigurati mentre compiono i gesti di sempre. Il passaggio dal bianco e nero al colore all’inizio degli anni Settanta comporta un graduale mutamento del suo linguaggio, che da essenziale e sintetico si fa descrittivo e accattivante, a tratti sovrabbon-dante, ed al racconto puntuale subentra una ricerca formale di natura diversa, più morbida e meno incisiva. Dalla metà degli anni Settanta in poi, con poche eccezioni come “Viva Mexico” e “Africa” del 1981, il suo interesse torna a concentrarsi sull’Italia, con la pubblicazione di oltre una trentina di fotolibri dedicati a singole zone o città, uno per tut-ti “Pianeta Italia” del 1987, ed in maniera quasi ossessiva, su Vene-zia, con fotolibri come “Venezia viva” nel 1973, “Essere Venezia” nel 1977, “Laguna” nel 1978, “Carnevale a Venezia” nel 1981, “L’Oriente di Venezia” nel 1982, “La mia Venezia” del 1994, a cui si aggiungono le riedizioni e le diverse edizioni bilingue. La pubblicazione dei fotolibri non si esaurisce con le opere temati-che, nel 1981 viene pubblicato “Fulvio Roiter fotografo” con testi di Alberto Moravia, nel 2012 Roberto Mutti pubblica la biografia “Fulvio Roiter”. Da autore di libri, Roiter diventa quasi il personaggio di una lunga storia che si articola nello spazio e nel tempo. Il ciclo dei fotolibri veneziani si conclude con “Una vita per Venezia” del 2006, quasi un testamento, quasi un modo di farsi perdonare per i lunghi viaggi e le lunghe assenze, per i vagabondaggi che lo portano in ogni angolo del pianeta, ma che lo riportano fatalmente sem-pre lì, nella sua città, nella sua Venezia, la Venezia che ha visto il suo primo successo editoriale, ed in cui Roiter si spegne, alla soglia dei novant’anni. Una Venezia che è ancora, come nelle sue immagini di allora, “à fleur d’eau”.

Fra i giovani fotografi che fra gli anni Cinquanta e Settanta rinnovano il

panorama italiano, portandolo allo stesso livello del resto della fotografia europea, Fulvio Roiter (1926-2016) è senza dubbio uno dei più attivi, prolifici e signi-ficativi. Nell’immediato dopo-guerra frequenta il circolo vene-ziano “La Gondola”, assorbendo la lezione dei maestri dell’epoca, ma emancipandosi quasi subito dall’attività amatoriale, passando con decisione al professioni-smo. Nel 1954 pubblica alcune immagini sulla prestigiosa rivista internazionale “Camera” ed espone alla seconda mostra della “Subjektive Fotografie”. Nello stesso anno pubblica con l’editore svizzero “Guilde du Livre” il fotolibro “Venise à fleur d’eau”, con immagini in bianco e nero che mostrano una Venezia lontana da quella raccontata dai fotografi nel corso di un secolo, una Venezia vista con gli occhi disincantati di un veneziano, fatta di persone più che di monumenti, di vita quotidiana più che di facciate, palazzi, chiese e canali. “Venise à fleur d’eau” è forse il primo fotolibro pubblicato all’estero da un fotografo italiano, ed è per Fulvio Roiter l’inizio di una carriera lunga ed intensa. L’anno successivo pubblica con lo stesso editore “Ombrie, terre de Saint François” a cui viene assegnato nel 1956 il prestigioso premio Nadar, l’equivalente in fotografia del premio Goncourt in lettera-tura. La strada di Fulvio Roiter sembra tracciata, dopo i primi leggendari viaggi in Italia, fra Umbria, Toscana e Sicilia, allarga i suoi orizzonti, continuando a pubblicare con editori stranieri, soprattutto svizzeri, una serie di fotolibri dedicati a diversi paesi, regioni o città: “Andalousie” nel 1957, “Bruges” nel 1960, “Per-sia” nel 1961, “Naquane” (parco rupestre) nel 1966, “Liban” nel 1967, “Mexico” nel 1968, “Brasil”, “Turquie” e “Algarve” nel 1971, “Espagne” e “Tunisie” nel 1973, “Irlande” nel 1974. La quantità non sembra danneg-giare la qualità, le sue immagini sono sempre equilibrate, medita-te, composte con gusto ed armo-nia, la ricerca del punto di vista

di danilo [email protected]

À fleur d’eauAddioFulvio Roiter

Page 6: Cultura Commestibile 167

23APRILE

2016pag. 6

diverso: i Cavallini, i Paesaggi e i Motivi riscoprirono una gioio-sità infantile inedita e originale. Il dato naturale venne sganciato dalla concretezza del reale attra-verso lo slancio lirico e l’essen-zialità stilistica e iconografica oltre il tempo. Dalla fine degli anni Quaranta in poi l’opera dell’artista si mosse nella dire-

zione della precarietà umana, nel superamento dell’elemento presente, invocando luoghi senza tempo, in una visione fiabesca e incantata che spinge l’anima nell’eterno fluire del pensiero e pongono l’osserva-tore nel cammino trascendente dell’Io pittorico, perso in un mondo idilliaco che vaga nelle

tonalità calde e morbide dei gialli e degli ocra e nell’impasto tenue dell’azzurro. Un cromati-smo polveroso che rivendica la semplicità naturale e primigenia di un uomo, il cui spirito è stato portato agli estremi e che nell’Arte ha saputo trovare un riparo sicuro di sopravvivenza e rivelazione.

MušiĉLa musica

di laura [email protected]

Il Novecento è stato un secolo drammatico e complesso, denso di av-

venimenti e colmo di trasfor-mazioni: un contesto storico e culturale che ha segnato profondamente l’uomo moder-no e che ha permesso la nascita di nuove forme e tendenze artistiche, capaci di superare gli scarti generazionali e di rinno-vare un passato che non poteva più soddisfare le nuove esigenze ontologiche. Lo stato di crisi fu avvertito soprattutto dalla generazione prebellica che visse i drammi della seconda guerra mondiale e che aveva assaporato da vicino le esperienze delle avanguardie storiche, a tratti anche partecipandone. Il loro interesse fu rivolto all’esigenza di reperire una nuova identità, scrutando se stessi e la cultura figurativa europea per metterne in luce gli elementi primari. Paradigmatica fu la prassi di Zoran Mušic che nei primi disegni immortalò l’orrore della prigionia nei lager nazisti. Il campo di concentramento venne vissuto come un’espe-rienza personale, un’occasione intima di analisi e di introspe-zione e nelle carte affidò, con pochi tratti essenziali, il senso di abbandono e di sfinitezza che lo avvolgeva. Il disegno raggiunse una connotazione estrema e inimmaginabile, in cui la prospettiva della morte predominava sulla realtà quoti-diana. Per l’artista rappresentare il dramma umano del genocidio manifestò un’esigenza espressi-va e comunicativa che solo un pittore può possedere. Non si trattò infatti di testimoniare un avvenimento o una realtà, quanto piuttosto la scoperta di un rifugio patetico all’atrocità e alla crudeltà del mondo: in una tale atmosfera irreale non c’è più posto per la logica né per la pietà, ma una coabitazione sdrammatizzata fattasi quotidia-nità. Dall’esperienza di Dachau Zoran Mušic trasse la capacità di ripulire il segno dall’inessen-ziale, di sviluppare una pittura pure e priva di retoriche visive, capace di comunicare l’indi-cibile. La poeticità dell’artista venne filtrata da un modo di vedere le cose completamente

Page 7: Cultura Commestibile 167

23APRILE

2016pag. 7

dalla critica.Tromba, fisarmonica e piano esprimono le rispettive diversità e al tempo stesso le utilizza-

no per costruire una simbiosi perfetta. “Giselle”, composta da Gallia-no, lambisce i territori della chanson, mentre Lundgren spazia con disinvoltura dal bo-ogie (“Leklåt”) al tango (“Blue Silence”). Fresu tocca vertici notevoli in “Le livre d’un père sarde”. Come il precedente Mare No-strum, che comprendeva brani

Avviato nel 2014, il Senato ha finalmente approvato il ddl n. 1870, recante delega al Go-verno per la riforma del terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale.Per terzo settore si intende il complesso di enti privati costi-tuiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, che promuovono e realizzano, in attuazione del principio di sussidiarietà, attività di interes-se generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi. Il terzo settore potrà operare solo in alcuni comparti di interesse generale e potrà essere previsto che in alcuni campi operino solo alcuni soggetti del terzo settore da cui sono escluse le formazio-ni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni pro-fessionali e di rappresentanza di categorie economiche.Entro un anno potranno essere adottati appositi decreti per so-stenere l’autonoma iniziativa dei cittadini che concorrono, anche

in forma associata, a perseguire il bene comune.Avremo un Testo unico, il Codice del terzo terzo settore ove pur con caratteristiche comuni riconosciute per legge, i singoli soggetti mantengono le loro specificità e diversità organiz-zative. Saranno valorizzate reti associative di secondo livello, sia in funzione di rappresentanza, sia per lo svolgimento di attività di controllo nei confronti delle realtà loro associate. Un Registro unico suddiviso per sezioni sarà tenuto presso il Ministero del Lavoro anche se articolato su base regionale. In sintesi:Impresa sociale. La qualifica potrà essere assunta non solo dalle co-operative sociali (di diritto), ma anche da associazioni, fondazioni e da varie forme di società. Si possono realizzare imprese sociali

anche con presenza minoritaria di enti pubblici e privati. Obbli-ghi di rendicontazione e traspa-renza saranno identici a quelli previsti per le imprese, con spe-cifici vincoli sulla remunerazione del capitale e del lavoro. Qualora si svolgano attività economiche o d’impresa, non potranno essere distribuiti utili, che vanno a una riserva indivisibile. Solo le im-prese sociali potranno distribuire parte minoritaria degli utili, ma con vincoli chiaramente definiti. Associazioni e fondazioni. Mag-giore trasparenza e informazioni statutarie, per garantire i terzi e in particolare i creditori; favorite le trasformazioni e le fusioni; pre-viste regole di rendicontazione. Volontariato. Per i Centri di servizio, nati per promuovere e sostenere il settore, è riaffermato il ruolo di erogatori di servizi e potranno essere costituiti solo da soggetti del Libro I del c.c.. Vie-ne introdotto il “principio della porta aperta”, tipico del settore cooperativo, che garantisce una maggiore democraticità. Promos-si programmi per sensibilizzare i

giovani nelle scuole.Compensi organi. Specifiche soglie per amministratori, revisori e dirigenti. Consiglio nazionale del terzo setto-re. Costituito quale organismo di consultazione degli enti del terzo settore a livello nazionale. Vengo-no eliminati gli Osservatori. Controlli potenziati. Faranno capo al Ministero del Lavoro e saranno svolti, oltre che attraver-so le reti associative di secondo livello, anche con i Centri di servizio per il volontariato. Fisco e contabilità. Si prevede una revisione complessiva del sistema da realizzare nei decreti legislativi, al fine di una drastica semplifica-zione amministrativa e l’utilizzo della contabilità separata. Finanza. Istituiti due distinti fon-di per sostenere gli investimenti: uno per le imprese sociali, l’altro per le associazioni di volontaria-to, di promozione sociale e per le fondazioni. Stimolati nuovi strumenti di finanza: ad esempio, raccolta di capitale di rischio tramite portali telematici e titoli di solidarietà.Immobili pubblici. Saranno sem-plificate e incentivate le conces-sioni agli enti del terzo settore.

I dischi ispirati al Mediterra-neo sono ormai moltissimi, forse anche troppi, ma

Mare Nostrum II (ACT, 2016) si differenzia nettamente dagli altri per due motivi. Anzitutto perché non è legato alla musica tradizionale o alla world music, ma nasce in ambito squisita-mente jazzistico. Inoltre perché a due artisti mediterranei – il sardo Paolo Fresu e l’italo-fran-cese Richard Galliano – se ne affianca uno svedese, Jan Lundgren, che viene da un altro contesto geografico e perciò inserisce una nota diversa. I tre solisti hanno collaborato con jazzisti di tutto il mondo – da Baker a Garbarek, da Gaslini a Rava – ma anche con artisti di tanti altri ambienti, come la musica leggera o quella tradizio-nale. Esponenti prestigiosi del jazz europeo, con questo nuovo lavoro proseguono il progetto che avevano iniziato con Mare Nostrum (ACT, 2007), all’epoca accolto molto favorevolmente

di Jobim/De Moraes, Ravel e Trenet, anche questo contiene alcuni omaggi ad altri autori. Galliano riarrangia con gusto “Gnossienne 1” di Erik Satie, mentre Fresu chiude il disco con una rilettura del montever-diano “Si dolce è il momento”.I due pezzi confermano che i tre musicisti sanno esprimere la sostanza del jazz europeo anche attingendo a contesti completa-mente diversi.Il disco possiede una varietà espressiva, una ricchezza timbri-ca e una sensibilità che vanno ben oltre i confini del genere. Per lungo tempo, almeno fino agli anni Ottanta, il jazz era sta-to un fenomeno prevalentemen-te americano. Poi, grazie anche a etichette come ECM, ACT e la nostra Egea, l’Europa si è affermata con una voce autono-ma, tanto che oggi le proposte più stimolanti non vengono da-gli Stati Uniti, ma dal Vecchio Continente. Non è l’opinione di chi scrive, ma quella ben più autorevole di un esperto come Franco Fayenz.

Trisdi assi

di alessandro [email protected]

di roBerto [email protected] Senza fini di lucro

Page 8: Cultura Commestibile 167

23APRILE

2016pag. 8

com’è noto. La sensazione che si riceve percorrendo la via colonnata è quella d’immettersi in un passato così presente che per un momento si può avere una sorta di transfert psicologi-

co esaltante, una specie di sin-drome di Stendhal, ma ‘attiva’, da cui scuote appena la la vista del castello arabo di Qalaat in cima alla collina. Certo anche la suggestione storica di

Zenobia - divenuta leggenda - può avere la sua parte; ma personalmente ho la capacità di immedesimarmi nell’emozione del momento senza orpelli. In questi giorni alcuni noti-ziari, ottimistici e ignari di che cosa significa ‘archeologia’, di-cono soltanto “semidistrutta”. Mai e poi mai riuscirò a pensa-re che tutto questo non esista più o sia stato violato al punto da rompere ogni incanto.

Bosra era una città con imponenti resti di epoca romana: grande teatro,

cittadella, archi, porte, e una basilica paleocristiana. Ma quello che colpiva di più era il fatto che fosse abitatissima con case sulle strutture roma-ne: una specie di Matera, ma appoggiata e sostenuta da resti archeologici monumentali: galline e altri animali domesti-ci giravano intorno alle case, alcune tenute con cura, altre quasi capanne per rimesse; e tanti ragazzini che giocavano liberamente. Dalle ultime no-tizie sembra che sia una delle città più colpite, centro di scontri feroci. Altrettanto può dirsi di Sueida, animato vil-laggio del sudovest, dove vere e proprie case che risalivano al periodo imperiale romano, erano abitate da Drusi. Qanawat, a sud ovest, aveva un grandioso parco archeologico di epoca romana, di cui non è possibile non ricordare lo spet-tacolare acquedotto, rimasto attivo per secoli e fonte vita per la popolazione. Un gran-dioso tempio pagano del II-III sec., divenne basilica paleocri-stiana del IV sec. e ancor oggi impressiona per la grandiosità tutta imperiale della costruzio-ne (Qanawat all’epoca fece va parte della Decapoli ed ebbe un grado particolare di auto-nomia). Lasciando le “Città vive”, oggi morte, o colpite a morte.PalmiraUna traversata in un deserto rosato del primo mattino. Una luce azzurrina del cielo e poi… la comparsa di una città, o qualcosa di simile, di un colore della stessa tonalità della sabbia del deserto, ma più forte, più luminoso. Quanto la città di pietra stupisce L’Oasi di Palmira (Tadmor ): vedere, dopo la traversata del deserto, tutto quell’ondeggiare di palme e tutte quelle coltivazioni, orti, frutti ecc. sembra veramente un miraggio. Lì vivevano fami-glie da tempo immemorabile, grazie al dono di una fonte perenne. Vi è qualche asino e dromedario in riposo, senza contrasto. A Palmira, i resti archeologici sono spettacolosi,

di annaMaria Manetti [email protected]

Voto o non voto: questo è il problema! Un dubbio amle-tico che sempre più spesso, soprattutto nelle regioni “rosse”, si trasforma nel non-voto, nello stare a casa, nel rinunciare. La conferma ci arriva dalla vertiginosa crescita dell’astensione.2014. In Emilia Romagna si vota per rinnovare il consiglio regionale: ma il 67% degli elettori non vanno alle urne.2015. Il 31 maggio si vota in 9 Regioni, tra cui la Toscana. In questa occasione vanno alle urne il 52%. Ma in Toscana l’affluenza si ferma al 48, il 4% in meno rispetto alla media.2016. Domenica scorsa si è

svolto per il referendum sulle trivelle. Media nazionale dei votanti 32%. Ma in Toscana vota solo il 30,8%. Ancora una volta sotto la media.Nel giro di pochi anni si sta consolidando una tendenza che inverte una tradizione: quella di un affluenza al voto media-alta. E le cosiddette “regioni rosse” sono quelle più colpite. Tanto che anche qui il non-voto è ormai il pri-mo partito: il Pd continua a vincere contro gli altri partiti, ma perde di brutto contro l’astensione.Dal Pd mi sarei aspettato ricerche e seminari, studi e convegni per capire e inter-pretare questo fenomeno, per dare voce al non-voto e cercare rimedi a questa “malattia” che colpisce la partecipazione. In-vece dopo le elezioni regionali in Emilia e Calabria del 2014 il premier su twitter scrive “2-0 per noi”. Anche nel 2015

commenti limitati alle poche ore successive alla chiusura dei seggi. Si è trasformato il non-voto al referendum del 17 giugno in un’espressione di consenso nei confronti del go-verno. Scioglie così il dubbio amletico: l’astensione non è un problema, ma una risorsa. Non la penso così. E avverto due rischi. 1. Non si tratta di indifferenza o disinteresse ma, al contrario, di elettori insoddisfatti verso questa politica carente di one-stà pubblica. E nelle regioni “rosse” di elettori delusi dal Pd, per come opera, per quello che propone o non-propone. 2. Il rischio, serio, è che se questa insoddisfazione verso l’attuale offerta politica si pro-lungherà nel tempo gli elettori che hanno scelto il non-voto diventino, allora si, del tutto indifferenti e disinteressati. Trasformando l’Italia in un democrazia zoppa.

di reMo Fattorini

Segnalidi fumo

Siria: alla ricerca di paesaggiperduti Parte 2

Da sinistra due scatti di Bosra e Qa-nawat - basilica IV sec. poi moschea.Foto di Annamaria Manetti Piccinini.

Page 9: Cultura Commestibile 167

23APRILE

2016pag. 9

montagne. Folate di nuvole o nebbia attraversano il centro cittadino, togliendo visibilità all’improvviso, folate di vento ripuliscono altrettanto rapida-mente e riaprono la scena: poco a poco la piazza e le due vie principali si riempiono di gente, gli stretti e precari marciapiedi

vengono occupati da tappeti e da mercanzia sciorinata sopra, per lo più piccolo artigianato per turisti. Accanto, accoccolate su minuscoli sgabelli di plastica o direttamente per terra, donne e bambini di queste genti di montagna; colpisce l’assenza quasi totale degli uomini, im-

maginiamo intenti al lavoro dei campi – risaie dappertutto, in terrazzamenti più grandi e più piccoli, che degradano verso il fondo delle vallate in un effetto spettacolare che l’assenza di sole non riesce a spegnere del tutto – lavoro che scopriremo ancora duro ed arcaico, con il bufalo che tira vecchi aratri primitivi, su pendenze che non potrebbero ospitare nessun trattore. Si sta preparando il grande mercato notturno, che animerà la cittadi-na fino alle ore serali, offrendo ai turisti l’occasione fugace di un contatto con culture tanto diverse, qui purtroppo colte in un contrasto di immagini tra povertà arcaica e modernità sfacciata. Alle donne, colora-tissime con i loro vestiti, scialli e cappelli secondo la foggia del gruppo etnico di apparte-nenza, si affiancano i bambini, come sempre numerosi, questa volta sporchi e stropicciati, ma sorridenti e pazienti, affettuosa-mente responsabili dei fratellini, che le madri impegnate nel mercato hanno affidato alla loro attenzione: se li portano per mano, li tengono nel gruppo o se li caricano sulle spalle, negli scialli colorati usati come porta bebè, come tanti piccoli genitori responsabili. Immagini che non sai quanto fresche e vivaci di uno stile di vita semplice, ma affetti-vamente carico, e quanto invece tristi, di una miseria irreparabile, che costringe bambinetti di cinque, sei anni nel freddo della sera, a piedi scalzi nelle ciabatte di plastica che tutti qui usano, a fermare i turisti per chiedere di poter partecipare appena un poco al disinvolto benessere che viene per lo spettacolo del mer-cato e dà spettacolo esso stesso.Vedremo il giorno successi-vo un vero mercato, non per turisti, la stessa miseria, ma contestualizzata in un vissuto di socialità articolate, un’occa-sione di incontro e di scambio, dove il valore economico della vendita vale quanto il ritrovarsi e raccontarsi in un mondo antico, ma poi non così distante dalle occasioni sociali delle nostre fiere di campagna, ancora nella metà del secolo scorso.

Raggiungiamo Lao Cai da Hanoi, con un treno notturno in “cabine Vip”

a due letti, lussuose per gli standard locali, ma piuttosto sacrificate per dei viaggiatori dall’opulento occidente, tuttavia suggestive di comodità riservate a pochi. Le fermate notturne, in stazioni perse nel buio, si ani-mano di silenziose figure cariche di pacchi e pacchetti, che cer-cano lungo i binari gli accessi a carrozze che immaginiamo ben più spartane delle nostre, con l’aiuto della fioca luce di qual-che torcia elettrica. Da Lao Cai ci muoviamo in auto, dopo una veloce colazione, diretti a Sa Pa, a 1600 metri tra le montagne a nord ovest di Hanoi, lungo una strada di montagna ben tenuta, frequentata da un rado traffico locale, prevalentemente motoci-cli, pochi camion, e pulmini di turisti. Ci arrampichiamo con l’auto per visitare queste zone abitate da minoranze etniche, coinvolte dal governo in uno sforzo di integrazione che sem-bra aver stemperato differenze e conflitti anche sanguinosi della guerra, durante la quale queste tribù erano spesso schierate con gli Americani, in una convi-venza che oggi appare al turista del tutto pacifica e rispettosa dei costumi e delle tradizioni di queste popolazioni. La cittadina, costruita dai Francesi nei primi decenni del Novecento come stazione climatica per le élite del tempo, è cresciuta intorno alla strada che l’attraversa, intasata da un traffico lento, l’aria di montagna sconfitta dagli scari-chi fumosi dei mille motori ac-cesi. L’aria è grigia sotto un cielo ancora più grigio che promette pioggia, ma l’animazione per le strade e nella grande piazza – una specie di arena aperta – è grandissima; al via vai indaffa-rato delle merci, si aggiunge la passeggiata curiosa dei turisti e il radunarsi, sin dalla mattina e per tutto il pomeriggio, degli abitanti locali, affluiti dai loro sperduti e poverissimi villaggi dispersi sui monti e nelle vallate circostanti, nei loro caratteri-stici, coloratissimi costumi, che ne denunciano l’appartenenza all’una o all’altra delle diver-se tribù insediate in queste

Good morning VietnamParte 3

di andrea [email protected] Sa Pa Un paese fra le nuvole

Page 10: Cultura Commestibile 167

23APRILE

2016pag. 10

Bizzariadeglioggetti

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

Il migliore dei Lidi possibili

Toproletari di tutto il mondo unitevi

di lido [email protected]

to, Marilyn e chi se no? Nano stesso ha raccontato “Era il 1957, l’avevo disegnata per Il principe e la ballerina. La Warner m’invitò a conoscerla di persona. Non avevo mai viaggiato in aereo e in prima classe: rimasi impressionato dal fatto che lo champagne non ondeggiasse nella coppa. Nello studio di Holywood la Monroe, ritardataria cronica, non arrivava mai. A un tratto, la visione. ‘Maestro, do I need to get undressed?’, cinguettò. Maestro, devo spogliarmi? Furono le sue prime parole” E lui sono venuto fin qui apposta... Le case produttrici gli inviavano le pizze con i film, li vedeva in anteprima e cercava di condensarne senso e bellezza in una immagine. Ritrattista di molti divi e non solo. Mostre su mostre negli ultimi decenni, un autoritrat-to agli Uffizi e gloria imperi-tura fra cinefili e non solo. Ha smesso di fumare a 80 anni... forse nel ‘48, quando dipinse il manifesto per l’Atabagico, sperava di convincere se stesso ad usarlo...

Si intende per atabagico un prodotto che più che curare la dipendenza dal

fumo di sigaretta, elimina gli effetti intossicanti della nicoti-na che si assorbe fumando. La sostanza così denominata è estratta dal crescione (nastur-tium officinale), pianta che cresce lungo i corsi d’acqua e che pare abbia il potere di sciogliere e far sparire la nicotina negli esperimenti in vitro. Per disintossicarsi oc-correrebbe mangiare un piatto colmo delle sue foglie, condite con olio e limone, a digiuno, per almeno venti giorni...In alternativa chiunque si può preparare un ottimo sciroppo mettendo in infusione crescio-ne, timo, e fumaria, acqua e zucchero, con un paio di bicchieri al giorno per molto tempo si può continuare ad asfaltarsi e sfondarsi i polmoni con profonde aspirazioni di fumo di sigaretta! Consigli di erboristeria forse recen-ti, un po’ prima degli anni ‘50 esistevano compresse e sciroppi, venduti in farmacia penso, e reclamizzati come disintossicanti dal fumo, ma con anche il fine di scorag-giarlo direi, almeno osservan-do i manifesti pubblicitari scovati chissà dove dal solito Rossano. In uno un polpo con sigaretta in bocca avvi-luppa un ignaro ed armato di coltello fumatore, nell’altro un cervello viene circondato da volute di fumo infestanti. In un altro, dal minaccioso colore rosso, cervello laringe e polmoni vengono colpiti da sigarette-pugnali. Per il quarto servono parole speciali, è ope-ra di Silvano Campeggi, che sempre si è detto e firmato Nano, nomignolo affibbiatogli dalla madre. Trattasi di artista fiorentino,oggi 93enne, famo-sissimo creatore di una serie infinita, dicesi più di 3000, di manifesti cinematografici di film hollywoodiani e non solo, fra essi che so Casablan-ca, Via col vento, West Side Story, A qualcuno piace caldo, La gatta sul tetto che scotta, Bambi...Sua passione assolu-ta, molte volte ritratta, fra le tante attrici che ha conosciu-

a Cura di Cristina [email protected]

AtabagicoDalla collezione di Rossano

Page 11: Cultura Commestibile 167

23APRILE

2016pag. 11

di paolo [email protected]

Uscì nel ‘46 e nei decenni successivi è stato quasi dimenticato. Per questo è

importante la nuova, pregevole edizione del “Diario Fiorentino” di Gaetano Casoni (Polistampa, pp. 320, € 18,00), dal piccolo formato che allude all’intimità del cuore, della sofferenza e dell’impegno che hanno ispirato le sue pagine. È la ‘piccolezza’ di un protagoni-smo quasi inevitabile ma umile, tenace. Gaetano Casoni - avvocato e uomo sensibile all’espressione delle arti, collezionista di quadri, in contatto con artisti del calibro di Lewellyn Lloyd - non ne aveva certamente bisogno; aveva una famiglia, la propria attività e non pochi interessi.Un’attenzione continua ai proble-mi, alle emergenze individuali e collettive della comunità fiorenti-na, una sollecitudine per gli altri salgono sommessamente da queste pagine. Fu uomo di parte, pruden-te ma senza equivoci e soprattutto senza mai scadere nella faziosità, mettendosi in condizione di stabi-lire ponti tra le parti confliggenti ed essere così utile, incisivo. In gioco era tutto: la vita, la dignità umana. Di quel contegno incline a mantenere al centro l’uomo, il singolo al di sopra di ogni casacca, troviamo il segno lungo lo svilup-po dell’intera narrazione ma qui si può rammentare, per esempio, che dopo l’assassinio di Giovanni Gentile egli versò una somma in sua memoria a favore dei profughi e dei sinistrati, gesto che gli avreb-be procurato qualche infondata e gratuita insinuazione. Il problema, in quell’estate del ‘44, era la gestione del trapasso dei poteri e il disarmo delle forma-zioni fasciste. Dalla sua posizione di persona stimata, ferma ed autorevole, gestì un ruolo di intermediario di fatto tra C.T.L.N. ed ultimi rappresentanti della Re-pubblica di Salò. Proficue furono anche le relazioni con il console tedesco Wolf, al quale riconosce di essersi “addirittura prodigato per evitare i peggiori soprusi ed errori”, a dimostrazione che non tutti i tedeschi erano (almeno intimamente e, in qualche caso, anche formalmente) nazisti e che molti tra loro, pur operando sotto un’insegna intollerabile - non di rado lancinati da profondi conflitti interiori -, non avevano smarrito il

cattolica e liberale fiorentina che ha lasciato una qualche traccia - si spera non proprio effimera - nella storia della comunità. Va anche ricordato, con Giulio Conticelli (Istituto Storico della Resistenza) come il “Diario” ci permetta di osservare “l’ampia costellazione di esponenti del ceto forense che a Fi-renze furono attivi nella Resistenza e che vennero poi a costituire nell’immediato Dopoguerra i gruppi dirigenti sia delle istituzioni cittadine sia degli organi politici dello Stato repubblicano”. Compa-iono, qua e là, uomini di varia estrazione e fede politica – cito tra tutti Eugenio Artom, Adone Zoli, Giuseppe Poggi. Infine il “Diario” è una testimo-nianza importante, oltre al resto, della vita quotidiana a Firenze - prima e durante i giorni terribili (tra fine luglio e la prima metà di agosto): Casoni vi si inserisce come una sorta di Cincinnato, che si occupa della ‘res publica’ (nel senso più sostanziale) e si dà anima e corpo per essa, mettendo a repentaglio la propria incolumità. Ma un attimo dopo che non sarà più necessario, tornerà alla vita di sempre e alla professione. Il “Dia-rio” corre di pari passo con questa parentesi, che si apre e si chiude senza strascichi, né pretese. La resistenza di cui, a distanza di oltre 70 anni, ci parla quest’opera non è solo quella contro un regime totalitario; vi leggo, sotto traccia, anche quella contro l’idea che la politica sia un servizio permanente effettivo, prestato da gente che non ha molto da dare e tutto da prendere.

Resistenzaliberale

Scavezzacollo

di MassiMo [email protected]

senso di umanità. Le trattative fu-rono interrotte nel mese di giugno, al diffondersi della voce che Ales-sandro Pavolini stava organizzando squadre di franchi tiratori. Ma la fattiva preoccupazione di rispar-miare a Firenze dolori, sacrifici e

perdite umane avrebbe proseguito, convergendo con l’incessante ope-ra del Cardinale Elia Dalla Costa e del suo Segretario Monsignor Giacomo Meneghello.Si può dire che Casoni sia stato espressione di quella tradizione

Page 12: Cultura Commestibile 167

23APRILE

2016pag. 12

Eddy Merckx era il canniba-le. Un corridore così forte da addentare ogni trofeo, annichi-lire ogni concorrente, piegare la giustizia sportiva. Un ciclista così forte da ergersi su un intero periodo storico, talmente alto da coprire con la sua ombra chiunque altro. E “L’ombra del cannibale” è il titolo dello spettacolo, tratto dall’omoni-mo libro edito da Instar, di Marco Ballestracci al Te-atro Dante Carlo Monni di Campi Bisenzio nell’am-bito di Campi in gioco, rassegna di teatro dedicata allo sport; quest’anno dedicata al ciclismo visto che la citta-dina della piana è tappa anche del giro di Italia. Lo

spettacolo, in tempi di narratori improvvisati su un palco, è un vero e proprio spettacolo, con tempi giusti, le emozioni e le musiche di Claudio Cecchetto alla fisarmonica. Una storia che

vale la pena di essere raccon-tata, quella del cannibale e dei corridori alla cui ombra vinsero e (soprattutto) persero, che Ballestracci tratta con l’amore del bambino tifoso che lui era quando Merckx macinava chilo-metri e avversari. L’emozione di fughe eroiche, di tragedie spor-tive e umane, la tensione del bambino inginocchiato davanti

al televisore, sono rese identiche e trasmesse con forza allo spet-tatore, che si gode l’epica di un ciclismo che forse non era già più “pulito”, ma era ancora abbastanza epico, sicuramente irrecuperabile. Uno spettacolo che apre una serie di appunta-menti sul ciclismo, lo sport probabilmente più teatrale che ci sia.

regola sociale; era indifferente alle regole e ostile alla definizio-ne e all’adeguarsi ai confini del gusto letterario; il successo che le sue opere riscuotevano era, in qualche modo, sovversivo. Non a caso la prima edizione delle sue opere (commedie e tragedie) che attestò l’altezza della sua cultura, arriva sette anni dopo la sua morte ad opera degli amici J.Hemings e H.Condell. E solo allora, Ben Jonson per la prima volta dimostrò e dichiarò il significato più generale della sua produzione artistica, “sdoga-nandolo” dalla nicchia popolare

per elevarlo - “nonostante abbia poco latino e ancor meno greco” - a poeta “non di un’epoca ma per tutti i tempi”, un artista globale.Ma la grandezza e il crescente e persistente successo dell’opera di Shakespeare, prosegue Gre-enblatt, sono dovuti anche alla sua volontà di distaccarsi dalle sue opere, di lasciarle andare. Così, per secoli, abbiamo amato la sua arte a prescindere dalla sua vicenda biografica, finan-che dalla sua identità e dubbia esistenza. I suoi personaggi hanno preso vita autonoma e

hanno, per secoli, agito libera-mente e interagito con tempi e società diverse da quelle del loro creatore; hanno agito per conto di Shakespeare, ma non in suo nome e comunque senza vincolo di mandato. Lui, Shakespeare, è stato un grande “distributore di personalità”, ma anche il loro liberatore, affidando ai suoi personaggi un solo messaggio, una sola regola: “rompete ogni schema, infran-gete le regole, devastate i recinti che pretendono di costringervi in gabbie stilistiche o morali: siete e siate liberi!”

Si celebra ovunque nel mondo il quattrocente-simo anniversario della

morte del bardo dell’Avon, William Shakespeare, avvenuta il 23 aprile 1616. Scomparsa che, nonostante la fama ormai affermata, non fu celebrata – se non da pochi – nel 1616. Certo fu sepolto nel coro della Holy Trinity Church, la chiesa parrocchiale di Stratford, ma non per la sua fama bensì per il pagamento della decima di 440 sterline. Altri suoi contempo-ranei, come il commediografo Francis Beaumont morto nello stesso anno o come Ben Jonson, ebbero l’onore post mortem di essere sepolti nella cattedrale di Westminster. Non risulta che gli fosse pagato un tributo pubbli-co per il suo genio artistico. La sua morte fu un evento locale.Stephen Greenblatt, in un arti-colo sulla New York Review of Books dal titolo “How Shake-speare Lives Now”, ci fornisce una bella interpretazione di questa scomparsa in sordina, partendo dalla scomparsa nel 1619 del famoso attore Richard Burbage cui, a differenza di Shakespeare, fu riconosciuto un pubblico tributo e una sorta di lutto nazionale. Una elegia anonima così motivava questo dolore nazionale per la perdita di Burbage: “...e con lui, quale mondo è morto, che lui ha fatto rivivere, che non potrà mai più risorgere: il giovane Amleto, il vecchio Hieronimo, re Lear, il Moro afflitto, e altri che hanno vissuto in lui sono adesso morti per sempre”. Che cosa suggeri-sce questa elegia? Che per molti suoi contemporanei, la vera vita dei suoi personaggi non era nei testi shakespeariani, ma nella rappresentazione teatrale di quei testi. Questa, sostiene Gre-enblatt, era anche la dimensione sociale del suo tempo. Sebbene l’arte teatrale di Shakespeare producesse piacere, non era un tipo di piacere che determinava una distinzione culturale a chi lo gustava. Shakespeare era il maestro dell’intrattenimento di massa, tanto accessibile agli illetterati quanto alle èlite. Le sue opere teatrali mescolavano l’alto e il basso in una sorta di carnevalesca violazione di ogni

Il cannibaleciclista

di siliani [email protected] 400 Shakespeare

di MiChele MorroCChitwitter @michemorr

Page 13: Cultura Commestibile 167

23APRILE

2016pag. 13

Idomeni domenica 17 aprile 2016 A.C. Tutti i diritti umani in tempo di pace e

soprattutto in tempo di guerra sono sistematicamente violati ogni giorno da molte settimane a Idomeni. La foto di gruppo come sempre l’ho guardata dopo averla scattata e mi sembra in-credibile. Questo gruppo aveva raggiunto legalmente la Fyrom e il confine con la Serbia distante 200 km circa a nord. Fermato dal blocco con altri 800 circa, invisibili, in un centro statale in tendoni giganti. Sabato 9 aprile alle 4 del mattino sono stati svegliati in malo modo e scaraventati stipati in una camionetta militare che li ha riportati per le 6 di sabato mat-tina alla famosa rete di confine fatta dagli stessi militari Fyrom, dove sono stati infilati e cioè ributtati non distante da Ido-meni. Hanno prove cartacee e video. La seconda foto dimostra che agli scalmanati che hanno provocato i militari Fyrom non è stata risparmiata una risposta esagerata. La terza foto è di un bimbo che stamani è ripartito per un centro legale governativo greco con la promessa che la fa-miglia avrebbe avuto una stanza e non un posto in un capannone con altre centinaia. Cosa che non credo proprio abbiano poi trovato. Stamani poi abbiamo visto persino un bus di visitatori turistici che ha attraversato tutto il campo indisturbato sfruttando l’effetto sorpresa. Se ne arriverà un secondo non so come andrà. Qui stanno perdendo ogni spe-ranza e non hanno più niente da perdere. L’inedia, il tempo che scorre senza significato. Migliaia di bambini a rischio. Non si è detto ma fra i primi riportati in Turchia dalla Grecia ci sono stati suicidi. Verifichia-mo assieme questa notizia se la troviamo.Domattina riparto e mi fermo all’ambasciata italiana a Skopje a raccontare qualcosina al vice ambasciatore. Lacrime amare nel lasciare il mio ormai fraterno amico Mohammad e questo osceno ZOO dell’orrore che rimarrà come macchia letale per l’Unio-ne Europea.Buona giornata

Andarsene in lacrime dalla valle di lacrime

di Claudio [email protected]

Page 14: Cultura Commestibile 167

23APRILE

2016pag. 14

state determinanti per la sua vocazione artistica e per la sua “cifra” espressiva: ritengo infatti che il tondo degli Uffizi di Giovanni Mannozzi da Sangiovanni – Apollo e Fetonte – sia da considerare il paradigma dell’intera sua ispirazione. La geometria compositiva, la delicatezza cromatica, la postura delle figure fanno di quest’opera quasi l’apparato generativo della vasta e pur sempre meditata pittura (intellettuale) del nostro Artista.Ma cosa fa del linguaggio di Giovannelli una continua affascinante vibrazione poetica, distinguendola, ad esempio, da compagni di viaggio a lui non lontani come Roberto Barni o Andrea Granchi? La

risposta la troviamo in un passo autobiografico di una lettera scritta a Pier Carlo Santini nel 1976: “Tra le maniere di esprimersi il disegno e la pittura, le tecniche più antiche della rappresentazione, sorelle della luce e delle ombre (generate dalla mente e dal cuore della giovane di Corinto), sono quelle che formano la sostanza più autentica della mia capacità di comprendere e di comunicare; sono l’anima della mia intuitiva percezione del mondo e i mezzi istintivi del mio linguaggio. La consapevolezza del rapporto reciproco esistente fra tutte le arti, della loro possibilità di combinarsi nelle maniere più diverse, la cognizione che – ars una, species mille – la pittura nelle traiettorie della vita

contemporanea non è la sola maniera di fare arte visiva, suscita in me una determinazione ancora più forte nel seguire la strada della pittura, un fascino grande e dichiarato nei confronti della suprema povertà di questa silente (volubile e naturalmente infedele) ‘Arte Bella’”.Mutuo da Carlo Sisi (Ecfrasi) il richiamo all’eleganza della scrittura pittorica di Giovannelli: “la quieta astrazione dei dipinti di Bugiani ha dunque accompagnato la formazione di Giovannelli, che in alcuni suoi disegni di umili oggetti recupera infatti la nitida definizione del segno di tradizione antica, ma soprattutto sembra far propria l’attitudine spirituale a coltivare l’immaginazione lirica che gli fa eleggere l’atelier domestico a ‘cantuccio’ pascoliano o a scontroso osservatorio del mondo oltre la siepe. I giovani estatici in ammirazione del firmamento, protagonisti di alcuni suoi quadri, come pure l’esile uomo che traguarda dall’edificio in bilico nello spazio immisurabile e silente evadono da quel recinto rassicurante e introverso, ma pur sempre ancorando l’infinito desiderato ai canoni di un’esperienza terrena fatta di conoscenza e di misurazioni, di analisi logica e di meditate ecfrasi, di seste e di matite colorate. Un vento primaverile scompiglia le forme e i colori di risorgente ansia di imbrigliare l’attimo, di trattenere un lembo della veste di Artemisia, di cogliere l’inesprimibile essenza d’una ‘lucciola errante’”.Così si torna alla poesia in Valdinievole e a quell’“attraversare e interrogare la contemporaneità con una visione colta e raffinata, che è attenta a un ideale classico di bellezza che l’artista declina con ironia e leggerezza” (Vezzosi). Si torna ad un angolo di mondo ancora quasi incantato, quasi incontaminato, testimone ultimo di un’Arcadia perduta, che avremmo voluto frequentare e che Giovannelli, appunto, ci ripropone con la discrezione, la leggerezza, l’eleganza della sua “scrittura pittorica”. E di ciò dobbiamo ringraziarlo.

Testo tratto da “Cadere nel cielo – di Roberto Giovannelli” a cura di

Paola Cassinelli Edizioni Polistampa - 2016

Cadere nel cieloLa Valdinievole è la più

silenziosa, la più dolce, la più incantevole delle valli

toscane. da Coluccio salutati al Giusti, al Fucini e Ferdinando Martini, è riuscita a rimaner fuori dalla virulenta occupazione turistica manifestatasi altrove così che, ancor oggi, affacciandosi da Monsummano Alto o dalla terrazza di Massa Cozzile è ancora possibile godere di un paesaggio che ben ritroviamo negli sfumati di Leonardo. Così, passata serravalle e la Torre di Castruccio, prima di arrivare a quella città di “nuova fondazione” voluta dal Granduca Pietro Leopoldo e progettata da Gaspero Maria Paoletti, oggi nota come Montecatini Terme, si traversa il territorio di Pieve a Nievole. Qui, adagiato a godere del sole “a bacìo”, c’è lo studio di Roberto Giovannelli, di un artista vasarianamente formatosi, fra la pittura, la scultura, le biografie e la letteratura artistica. Ma Giovannelli è, soprattutto, un genius loci, davvero un’entità naturale e soprannaturale oggetto di culto e legata a un luogo: la Valdinievole, appunto! infatti, anche se ha insegnato all’Accademia di Firenze, di Bologna, di Carrara e si è formato alla Rijksakademie di Amsterdam, siccome nullus locus sine Genio, alla fine, è proprio qui, nella silenziosa Valdinievole, che possiamo ancora godere di uno studio d’artista, di una conversazione, di una riflessione filologica quieta e appagante. È ciò che ho provato io, recentemente, in visita in questo atelier dove gli olii, le tempere, i pastelli, le sculture, sono un tutt’uno con le monografie d’arte, con i trattati, con i tanti appunti che accompagnano i suoi studi e i suoi amori, da Giovanni da Sangiovanni al meno noto artista dell’ottocento. Già, Giovanni da Sangiovanni, un artista considerato “secondario” fino ad alcuni decenni or sono (se pur nobilitato dai lontani studi del Giglioli e della Banti), tanto da mandarne quasi in malora le meravigliose lunette del portico della santa Maria della Fontenuova; lunette che, come dimostra l’ultimo omaggio del Giovannelli, devono essere

di FranCesCo Gurrieri Portatore di case e di cieli, 2013, olio su tavola centinata in cor-nice dorata, cm 73x40

Page 15: Cultura Commestibile 167

23APRILE

2016pag. 15

la sua prima compiuta prova poetica, i “Frammenti lirici”, centrata sul dissidio fra natura e storia, fra autenticità e artificio, fra città e campagna che però si riflette nella condizione psicolo-gica dell’Italia dell’epoca (1913), è costruita su schemi lirici, metrici e sintattici complessi e oscuri (pensiamo al Frammento “Dal grosso e scaltro rinunciar superbo...” in cui il soggetto, la vetta, arriva dopo 45 versi). Inoltre, il lungo periodo di silen-zio compositivo dopo il 1930 e

la conversione al cattolicesimo, hanno contributo all’oblio di questo grande poeta. Eppure, Rebora ha interpretato nelle sue prose di guerra quanto e più di Ungaretti il dissidio storico del suo tempo, giacché – come ha concluso Fortini che non poco si è occupato di Rebora - “non è possibile ridurre il dissidio reboriano né a una situazione psicologica né ai termini della scelta religiosa”. Basti ricordare l’incipit di Voce di vedetta mor-ta: “C’è un corpo in poltiglia/

con crepe di faccia, affiorante / sul lezzo dell’aria sbranata. / Frode la terra. / Forsennato non piango: / affar di chi può, e del fango. / Però se ritorni / tu, uomo, di guerra / a chi ignora non dire; / non dire la cosa, ove l’uomo / e la vita s’intendono an-cora...”. Così, in qualche modo, si compie in queste liriche la lacerazione psicologica presente nei “Frammenti”. È vero che poi, dopo la conversione, la sua produzione diventa meno eleva-ta, più controversa, intermitten-te, marchiata da un nichilismo estremo, quasi di preparazione alla morte soprattutto nei suoi “Canti dell’infermità”. Eppure, come ha rilevato Walter Siti, Rebora ha avuto un indubbio influsso su poeti come Montale e Sbarbaro.Il Meridiano reboriano ha il merito indubbio di riproporre poesie, prose e traduzioni di questo poeta ingiustamente di-menticato, con apparati di note, cronologia e documentazione importante, compresi epistolari finora inediti.

di siMone [email protected]

L’uscita di un Meridiano Einaudi è sempre un evento nel mondo letterario, ma la

pubblicazione di questo dedicato a Clemente Rebora (a cura e con un saggio introduttivo di Adele Dei, con la collaborazione di Paolo Maccari, 2015, pp. CXXXIV-1338 € 80) è davve-ro un evento speciale perché restituisce al grande pubblico un grande poeta, sconosciuto ai più, dimenticato anche dagli ad-detti ai lavori, come ha ammesso Walter Siti durante la presenta-zione fiorentina del volume che si è tenuta al Gabinetto Scienti-fico-letterario “G.P. Vieusseux” il 19 aprile scorso. Diversi fattori concorrono all’oblio di questo poeta. Certamente la sua posizio-ne laterale ai movimenti e centri letterari a lui coevi, a partire dall’ambiente della “Voce”, se si esclude in parte Prezzolini e l’amicizia invece profonda con Boine. Le stesse scelte stilistiche e linguistiche contribuiscono a fare di Rebora un isolato: soprattutto

Un Meridiano per Rebora

Alla luce della storia degli ultimi decenni, Alighiero Boetti ci appare non solo come un grande artista, di quelli che segnano la propria epoca con opere destinate a restare ammirate e valide nel tempo, ma anche come un intuitivo, auten-tico profeta, che oggi sarebbe forse un ambasciatore di pace fra i popoli di questo tormentato pianeta. Non per caso, anzi in riconoscimento di tale ruolo, due sue grandi Mappe furono scelte per accogliere, nella Sala dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, il forum internazionale dei sindaci “Unity in diversity” nel novembre 2015. L’ingresso di questo artista del secolo scorso, scomparso nel 1994, nella serie dei professori e maestri che hanno esposto nella sala dell’Accademia delle Arti del Disegno in piazza San Marco rappresenta, per l’Accademia stessa, un motivo di soddisfazione nell’averne confermato il proprio ruolo odierno, in sintonia con i movimenti e le personalità di maggior rilevanza nell’arte del pas-sato recente e del presente. E per questa mostra ringrazio vivamente l’Archivio Alighiero Boetti, il

curatore Luca Tomio e tutti i pro-fessori della nostra Accademia che a vario titolo hanno collaborato, a partire dal Segretario Generale, dal Tesoriere e dalla Segreteria, con l’indispensabile contributo dei sostenitori privati.La selezione di opere presenti nella

mostra propone i temi frequentati da Boetti in un arco di tempo che va dagli anni Settanta – con i primi ricami realizzati in Afgha-nistan fino alla guerra del 1979 – poi ripresi alla metà degli anni Ottanta e proseguiti fino ai primi anni Novanta, grazie alla rinnovata

collaborazione con le donne afgha-ne tra i fuorusciti di Peshawar, in Pakistan.Opere tutte di alta qualità, alcune – le più antiche – assai rare, che bene espongono nella sintesi del medio formato la complessa poetica di Boetti: dal principio semiotico mutuabile da Ferdinand de Saussure, secondo cui il segno (qui, visivo) è l’unione di signi-ficante e significato, all’elemento materico tessile scelto, predisposto e infine affidato a mani sapienti, che ci conduce nella sfera delle abilità tecniche non meno profon-damente intrinseche e necessarie alla creazione artistica. Un’Acca-demia come la nostra non può che riconoscersi in un processo che vede protagonista il Disegno, dallo schema progettuale all’ul-timo punto dato sulla stoffa, in quel profondo riconoscimento del lavoro umano che Alighiero Boetti ha saputo elevare al livello della più alta espressione dell’arte.Testo tratto dal catalogo della mostra all’Accademia delle Arti del Disegno Firenze “Alighiero Boetti – il filo del pensiero” – a cura di Luca Tomìo –

Edizioni Polistampa - 2016

di Cristina [email protected] Il filo del pensiero di Boetti

Page 16: Cultura Commestibile 167

23APRILE

2016pag. 16

lectura

dantisDisegni di PamTesti di Aldo Frangioni

Il suon d’un corno si fece cantantevenendo a noi da una grande alturanon fu, quello d’Orlando, sì aberrante,

torri vidi apparir pien di pauraVate, chiesi: ma in che posto siamo?Quel che tu hai l’è un’accecatura

se nel profondo buco noi guardiamo,più chiaro ti sarà andando avanti,non son grandi palagi che crediamo

ma i figli di Gea, gli alti giganti,in terra troverai credenti tali girati intorno, ‘e ce ne son tanti

Voglion volare alto senza l’alisoverchiatori delle altrui ragioniuom di potere senza gli d’ideali

almeno questi quì son de’ vagonie impression ti fan davanti agli occhichi le tue terre tien son de’ cialtroni

XXXI Canto verso il IX cerchioNell’immenso pozzo i giganti ribelli sono incatenati. Soltanto Anteo gigante eroe che da solo avrebbe potuto sconfiggere gli dei, non è in vincoli. Virgilio si rivolge a lui e chiede aiuto per discendere in fondo al pozzo. Anteo ormai vecchio ma ancora vigoroso li fa salire nel cavo della sua mano e li depone ai bordi del lago ghiacciato

quei che conosci te son de’ pidocchi,ma andiamo verso ste’ montagne d’omoquel che tu vedi è anima da sciocchi

malvagio e gretto Nembrot fa di nomoinutile parlar nulla lo muove.Questo a sinistra di catene domo

volle lottare con il sommo GioveFialte si chiama, stretto per l’eterno.E Briareo, dimandai, ove si trove?,Lungi da noi egl’è verso l’esternoimo trovar un libero di questi,disse la guida col suo far paterno

e Anteo ci porterà come dei cestigiuso al pozzo già strapien di ghiaccio.Al loco senza dir giungemmo lesti

Page 17: Cultura Commestibile 167

23APRILE

2016pag. 17

È stato presentato di recente al Museo del Novecento di Firenze l’ultimo libro

di Milo De Angelis “Incon-tri e agguati”, della collana “Lo Specchio” di Mondadori (2015). Si è trattato di un’ini-ziativa d’indubbio interesse per l’insolita cornice museale e per la presenza di questo famoso poeta italiano. Milo De Angelis è nato a Milano 65 anni fa ma è legato a Firenze, amico di Piero Bigongiari e altri illustri personaggi fiorentini. L’incontro è stato promosso dalla Scuola di scrittura creativa della rivista “Semicerchio”, fondata a Firenze da Francesco Stella nel 1989, che ha ospitato lezioni e incontri con alcuni degli autori più im-portanti della letteratura italiana e internazionale. All’inizio un gruppo di allievi del Laborato-rio di poesia “Semicerchio” ha letto alcune poesie di “Incontri e agguati” e in seguito sono intervenuti alcuni degli inter-preti più accreditati della poesia di quest’autore, Luigi Tassoni (Università di Pecs, Ungheria), Luigi Prete (Università di Siena), la poetessa fiorentina Elisa Biagi-ni. Luigi Tassoni ha illustrato le parti che compongono il libro: la prima sezione, Guerra di Trincea, introduce al tema della “conversazione con la morte”, che si configura come una

sorta di leitmov nella poetica di De Angelis, introdotta da un invito al lettore: Questa morte è un’officina/ ci lavoro da anni e anni/ … / Vieni, amico mio, ti faccio vedere,/ ti racconto. La seconda parte del volume è quella che dà il titolo al libro e si apre con una lirica di notevole bellezza: Questa sera ruota la vena/ dell’universo e io esco, come vedi,/ dalla mia pietra per parlarti ancora/ della vita, di me e di te, della tua vita/ … La te-matica è quella degli “incontri” e degli “agguati” che cadenza-no le nostre giornate, e delle espressioni proprie di un’umani-

tà degradata, emarginata, la cui fisionomia emerge nelle nebbie delle periferie milanesi o sotto il neon di una stazione ferroviaria: Ti ritrovo alla stazione di Greco/ magro e ulcerato da un chiodo/ … La terza e conclusiva parte, Alta sorveglianza, accoglie un poemetto ispirato a un efferato fatto di cronaca e al tema diffi-cile della reclusione: l’attenzione è rivolta a un fatto reale, a un “omicida”. De Angelis – che nel recente incontro al Museo del Novecento ha declamato per intero questa parte dedicata al carcere – insegna peraltro da molti anni a Opera, un carcere di massima sicurezza. Antonio Prete si è soffermato sulla “grazia del pensare-in-ver-si”, sul “tu” che emerge con una modulazione dolce e amara, allo stesso tempo. Si coglie nei versi una tonalità sommessa, quasi confidenziale che porta a porre domande estreme, una sorta d’incantamento, uno stupore che emerge di continuo. L’aspet-to che risalta è la costante pre-senza della morte non espressa per simboli ma corporea, fisica che ci porta a immergerci nella dimensione tragica della nostra epoca. Alla poesia è affidato il compito, ancora una volta, di porre domande estreme, di in-trecciare il dialogo fra le ombre e

la luce. Elisa Biagini ha rilevato come la poesia di De Angelis parla del silenzio, un compi-to oggi faticoso in un’epoca assediata dal rumore e ammira la capacità del poeta all’ascolto, a cogliere momenti belli, fugge-voli, della vita di altri tempi, immersi nella dimensione della passione, dell’attività agonistica, di tracce della vita della scuola.Leggendo Incontri e agguati l’ul-timo libro di Milo De Angelis, tornano dunque in mente, per concludere, le famosissime scene de Il Settimo sigillo di Ingmar Bergman – come rileva in una nota di lettura Francesco Filia - in cui il cavaliere Antonius Block, di ritorno dalle crociate, gioca a scacchi con la Morte che è venuta a prenderlo. Incontri e agguati si presenta come una vera e propria partita a scac-chi con la morte, gli scacchi non sono altro che una guerra simulata e, non a caso, la prima sezione del libro è intitolata Guerra di trincea, la guerra di trincea è quella che il poeta, appunto, conduce con la morte. Morte che in parte sembra ritrarsi, in altri momenti incalza, altre volte sembra prendersi gioco dell’io lirico in maniera crudele, altre volte si manifesta come elemento chiarificatore dell’esistenza.

Incontri e agguatidi roBerto [email protected]

È uno dei piatti nazionali argen-tini e significa “uccidi-fame”. Da notare che in Argentina viene considerato come un piccolo assaggio di carne prima di altri ben più sostanziosi piatti Ingredienti per 6 persone: 1 kg di controfiletto di manzo 1 dl aceto di vino rosso 1 cucchiaino di aglio in polvere 2 cucchiaini di timoPer il ripieno: 250 g spinaci freschi e ben lavati 4 carote pulite e tagliate per il lungo 4 uova dure tagliate in 4 per il lungo 1 cipolla tagliata ad anelli 3 cucchiai di prezzemolo tritato 1 cucchiaio di sale grosso 750 ml brodo di carne

500-750 ml acquaPreparazione: fatevi preparare dal vostro macellaio la carne: deve essere una fetta alta circa 1/2 cm, larga circa 30 cm e lunga circa 40-50 cm. Una volta a casa, posa-tela completamente aperta in una pirofila di vetro o ceramica, ba-gnatela con l’aceto e spolverizzate con metà dell’aglio e del timo.

Ripiegatela poi a metà e di nuovo bagnate con l’aceto e aggiungete gli aromi rimasti. Ricoprite con la pellicola trasparente e lasciate a marinare per tutta la notte a temperatura ambiente. Riscaldate il forno a 200 gradi, togliete dalla marinata la fetta di carne, scolate-la bene e adagiatevi sopra le foglie di spinaci, le carote a fette di circa

1 cm, le uova disposte nello spa-zio lasciato libero fra una carota e l’altra, gli anelli di cipolla e per ultimo spolverizzate col prez-zemolo e il sale. Arrotolate con delicatezza la fetta in modo da ottenere un cilindro, legatela con uno spago, deponete il matambre in una pirofila con coperchio, bagnatelo con il brodo caldo e aggiungete l’acqua in modo che la carne ne sia completamente coperta. Mettete il coperchio alla pirofila, infornate e fate cuocere per circa un’ora. Appoggiate poi l’arrosto su di un tagliere di legno e, dopo averlo fatto riposare per circa 10 minuti, togliete lo spago e tagliatelo a fette abbastanza spesse bagnandole con il succo di cottura rimasto. Si può mangiare anche freddo.

di MiChele [email protected] L’uccidi fame argentino

Page 18: Cultura Commestibile 167

23APRILE

2016pag. 18

L

East Harlem, lo dice l’insegna all’ingresso di une dei molti uffici che si occupavano della gestione dei cosidetti “projects”, programmi di edilizia pubblica destinati a famiglie con basso reddito che costituìvano, almeno all’epoca, la maggioranza degli abitanti di questa parte della città. Gli appartamenti non erano ovviamente molto grandi ma lo stato di conservazione dei locali, pur non essendo al massimo,

era comunque accettabile rispetto agli standards della città. Gli affitti erano decisamente sostenibili rispetto alle cifre del libero mercato e il clima che si respirava nella zona era, almeno apparentemente, piuttosto tranquillo. Non saprei dire con certezza se questa fosse veramente la realtà dei fatti, ma questa fu la mia percezione al momento.

NY City, agosto 1969

Dall’archiviodi Maurizio Berlincioni

[email protected]

ultimaimmagine