Cultura Commestibile 126

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N° 1 26 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Una biblioteca inesistente per cose inesistenti

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N° 126

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Una bibliotecainesistenteper cose inesistenti

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esercizio che mi interessa. Ed è un esercizio fatto con una certa velo-cità, quasi come un intuizione.Frangioni Come le esercitazioni del pianista che tutti i giorni deve suonare.satto. Quando esco per fare un disegno, posso fare sia un disegno preciso o un astrazione di quello che vedo, come un pittore, oppure ridisegnare quello che vedo come architetto. Ma deve essere una cosa immediata, veloce. E questo metodo funziona bene con gli studenti. In primo luogo perchè percepiscono immediatamente che non c’è uno iato fra la storia e il presente, e che la città storica, sia essa etrusca, romana, rinasci-mentale può essere di ispirazione per il presente. Anzi è proprio la commistione della storia che pro-duce la bellezza urbana. E che ti fa stare bene in piazza della Signoria.Frangioni Lo stare bene è una contemporaneità in continuo.

Si ri-

esce a comprendere in questo modo perchè sono spazi che ci dicono ancora qualcosa.Frangioni Il disegno quindi è un linguaggio. Ma con quale strumento disegni? Oggi si può disegnare con una molteplicità di strumenti. Ma il rapporto fra la mano e il cervello con quale strumento è mediato? Ho iniziato a disegnare al liceo, e poi negli studi di architettura, con la mina con diverse gradazioni di durezza (F, 2H,ecc.), ho sempre tenuto il lapis come strumento, come la penna per lo scrittore. Ma il passaggio dalla penna alla tastie-ra, o al mouse, è più facile per lo scrittore che per il disegnatore. Io continuo a pensare che il lapis è lo strumento che consente più velo-cemente, e con maggiore efficacia, il trasferimento del pensiero alla mano per la rappresentazione.Frangioni Può essere che ci sia in questo pensiero anche una caratte-rizzazione generazionale, e che fra

venti anni questa discussione sia da ritenere obsoleta.Certamente, anche se penso che se avessi la capacità di una ragazzo di maneggiare i nuovi strumen-ti mi piacerebbe e ci proverei gusto e soddisfazione. Una volta si parlava di educazione visiva (Bruno Munari ad esempio), e se hai educazione visiva puoi usare qualsiasi strumento per esprimere le tue idee. Certo però il computer permette altre valutazioni e con-sente altre elaborazioni, che con il semplice lapis sarebbe difficile ot-tenere. Anche se ormai si disegna direttamente sullo schermo e forse anche questa differenza nel futuro sarà eliminata. Certo sarà difficile che il computer “senta” la diversità di una particolare inquadratura, di uno specifico rapporto fra altezza e materiali, ecc.Stammer Tu insegni alle facoltà di architettura americane in America e in Italia. Ci parli di questa espe-rienza e delle tue architetture.Ho insegnato e insegno in diverse facoltà. Ho insegnato a Berkeley, e all’Università di Toronto a Firenze. A marzo sono stato a fare lezione alla California State University. E questo mi ha consentito anche di realizzare opere di architettura negli Stati Uniti. A Firenze ho re-alizzato pochi interventi, qualche interno importante, come una casa editrice in via dei Pepi.Stammer Architetture raffinate, che riprendono elementi classici della scuola fiorentina degli anni passati. Quale è stata la tua esperienza di studente all’università di Firenze?La mia esperienza in facoltà è frutto di un periodo, quello della sperimentazione, che veniva dopo la contestazione, molto caotico e pieno di contraddizioni ma anche di potenzialità. Ho avuto un rap-porto molto proficuo con Dusan Vasic,con il quale ho imparato a governare le forme. Frequentavo i “radicals”. Ma il rapporto più intenso è stato con Leonardo Sa-violi. In quel periodo, anche grazie ad un mio amico che studiava Fi-sica, avevo iniziato ad interessarmi all’architettura eco-compatibile, al risparmio energetico. Mi presentai a Savioli dicendo che volevo fare una tesi su “una casa autonoma dal punto di vista energetico”, e lui mi disse che andava bene e

Andrea Ponsi Architetto, do-cente, disegnatore. Partiamo da quest’ultimo aspetto della

vita artistica e professionale. Il disegno. Andrea è un grandissimo disegnatore. Alcuni disegni sono stati raccolti in un libro dal titolo significativo “Cambi di vista.” Stammer Ci vuoi spiegare il senso di questo lavoro.Il disegno è un vero e proprio linguaggio. Si può parlare inglese, spagnolo, e si può parlare disegno. Il disegno è un modo di guardare e osservare la realtà. Si possono avere disegni “tradizionali” e disegni intimi, dove l’osserva-zione diventa memoria, e nella memoria si possono rivisitare i luoghi con una traslazione del pensiero. E come il pensiero può saltare dal tutto al dettaglio, dal grande al piccolo, così può fare il disegno. Questo titolo “Cambi di vista” è stato il modo di spiega-re la possibilità del pensiero di trasformare la realtà. Nel disegno si possono trovare piante, sezioni e prospetti di oggetti reali ma anche trasparenze che nella realtà non esistono, particolari, come la pianta di una casa che conosco, che non sono visibili passeggiando la città. Si può uscire dalla casa e vedere Firenze dall’alto. Questo è usare il disegno come un linguag-gio. E come le lingue, deve essere esercitato continuamente nella realtà. E’ per questo che disegno molto, e mi esercito anche in altri disegni, astratti, basati su segni. C’è sempre questa doppia valenza del guardare e di riportare la realtà. Il libro racconta paesaggi, itinerari, mappe soggettive nella città rappresentata con questo punto di vista. Sto inoltre preparando un altro libro che è un manuale didattico sul disegno, basato su quattro elementi: osservazione, analisi, astrazione e analogia. L’analogia è quella che mi inte-ressa perché permette di collegare il disegno al progetto (anche se eventuale). Utilizzando le volu-metrie, le scansioni volumetriche, i rapporti esistenti,ad esempio fra il ponte Santa Trinita, il palazzo Spini Ferroni e gli altri edifici della zona, è possibile disegnare un’altra città e altre architetture, cambian-do forme e materiali e mante-nendo alcuni degli elementi della realtà come i volumi. E’ questo

senza copiare

di John Stammer e aldo Frangioni Imparare da Palladio

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trovato molti linguaggi comuni che vengono dalla nostra storia. Neppu-re l’architettura radicale, che fu una cesura, interruppe questo percorso. Che è il percorso di Michelucci, Ricci, Savioli. Ora gli architetti che abbiamo intervistato parlano questo linguaggio anche se ognuno con una propria fisionomia. Tu pensi vi sia un percorso comune fra tutti voi?Savioli nelle sue lezioni faceva vedere le pitture di Piero della Francesca e di Andrea del Sarto. Non solo architetture, ma arte, e arte fiorentina e toscana. Il ma-

estro non deve fornire all’allievo l’elenco delle cose da fare ma deve coinvolgerlo, aprire la sua mente, anche solo con gli sguardi. Mi ri-cordo la vista della Certosa dal suo studio. E capivi che la Certosa era “tua” in quel momento. Partecipa-vi della vista come di un qualcosa che ti “apparteneva”, che anzi ti appartiene. E questa era una lezio-ne di architettura. L’insegnamento avveniva quindi, direi in gran parte, fuori dalle sedi ufficiali della didattica. Dal pranzo con Eco, alle visite allo studio di Savioli, alle

visite a casa di Leonardo Ricci in compagnia del suo figlio Andrea. Un grande campus universitario aperto. Da questa esperienza nasce un comune linguaggio.Stammer Vuoi raccontarci una tua opera di architettura?Una casa che ho realizzato a San Francisco qualche anno fa. Conobbi questo cliente durante un “Architectour”, un giro fra le architetture della Toscana che organizzai alcuni anni fa. Aveva acquistato alcuni mobili e lampa-de disegnate da me. Mi chiama un giorno dicendo: “abbiamo comprato un terreno e vogliamo che tu sia l’architetto”. Così senza averne mai parlato prima. Molto americano come modo di fare. Il terreno era, anche nella conforma-zione, molto simile a quello del concorso che avevo vinto, anni prima, a Los Angeles, e che non si è realizzato (anche in Usa accade).Ho progettato una casa che sente il terreno, che degrada con tre piccole terrazze verso il mare della baia, con un giardino chiuso all’interno, come un patio roma-no, per marcare che il vuoto è il centro della casa, con intorno al vuoto una galleria di distribuzione dei tre padiglioni (uno per gli ospiti, uno per i servizi, e uno per la vita familiare del cliente) dove esporre le molte opere d’arte del proprietario. Una casa che richia-ma motivi giapponesi e orientali, e la California è il luogo di incontro ideale fra il classicismo occidentale e l’organicismo dell’architettura giapponese. Un progetto leggero, al quale ho applicato i princi-pi dell’architettura sostenibile, anche sei il costo la colloca fuori dalla sostenibilità. Ventilazione naturale senza aria condizionata ad esempio. E ho progettato anche gli arredi. Eravamo stati a visitare, insieme ai committenti, la Robie House di Frank Llyod Wright a Chicago e gli spiegai che quell’edificio ha quella particolare aura, quella particolare atmosfera, perchè tutto è stato progettato da Wright. La Casa di San Franci-sco si chiama la casa dei quattro orizzonti.Stammer Un linguaggio classico tradotto in un architettura contem-poranea. Usare la lezione del passato ma declinarla in un linguaggio contemporaneo.E’ questa l’idea base. Imparare dal Palladio senza riproporre un timpano post-moderno.

mi sostenne, con un rapporto di fiducia e di condivisione. Savioli era una persona aperta. Il correla-tore era Gianni Pettena. Presi 110 senza la lode perchè in commissio-ne c’era anche Romano Viviani, che era più rigoroso, e che mi disse che era una tesi da “hippies”. In effetti in quel periodo questi temi erano molto all’avanguar-dia. La mia frequentazione con Savioli era diretta, ero spesso al suo studio, andavo a vedere le sue opere. Era un rapporto di “corpo” e di “pelle”. Era sempli-ce incontrare i professori, con i quali potevi pranzare da Nello, come con Umberto Eco. Dalla tesi nacque un libro sull’energia solare nel 1977, poi una borsa di studio negli Stati Uniti, e poi il lavoro in studi a San Francisco che si occupavano di “sostenibilità”. La parola sostenibilità l’ho sentita per la prima volta a San Francisco nel 1978. Ma la questione era affrontata molto dal punto di vista tecnologico e non influenzava an-cora l’architettura. Iniziai quindi a ripensare le opere di Savioli, di Carlo Scarpa, di Louis Khan. In questi progetti, nelle idee di questi architetti, trovavo anche qualcosa di “filosofico”. Un linguaggio che non si ferma solo alla funzione e alla forma ma, come con Scarpa, rappresenta un qualcosa di impal-pabile, dove trovi reminescenze dei rapporti con l’oriente, con una assenza di ideologia e di sicurezze, e dove il dettaglio può rappre-sentare un intero universo. E’ da queste considerazioni che nasce la base della mia architettura.Stammer Le tue opere si rifanno a mio parere anche alla scuola fioren-tina. I temi della scomposizione dei piani, le colonne esili che segnano un luogo, grandi spazi aperti e la ricerca della prospettiva come stru-mento di progetto.Nell’architettura fiorentina ci sono anche elementi storici, come il chiostro ad esempio, come la sequenze delle colonne di una chiesa (penso a Santo Spirito del Brunellechi ad esempio). C’è un’idea di armonia vitale e non semplicemente grafica. E se vogliamo parlare di città riemerge il concetto di città ideale, che anche Savioli riprende. C’è quindi questo idealismo compenetrato con elementi organici.Frangioni In questa serie di interviste con architetti formatisi a Firenze negli anni ‘70, abbiamo

Intervista a Andrea Ponsi

Tiburon House

Tiburon House

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Dopo il Festival del Gelato (renziana invenzione di gran successo), a Firenze sembra partito il Festival della Banalità. Infatti, dopo l’ennesimo atto vandalico al Ratto di Polissena nella Loggia dei Lanzi è partita la ridda di dichiarazioni, con la gara a chi la spara più insulsa. Parte ovviamente Nardella che, altrettanto ovviamente, tuona dall’alto del seggiolone di Palazzo vecchio: mi farò “promotore presso il Parlamento perché le pene sui reati contro il patrimonio artisti-co siano più severe, come avviene per gli ecoreati con reclusione fino

a 15 anni e raddoppio tempi di prescrizione. Sfregiare l’arte è uno dei gesti più orribili e vigliacchi che si possano compiere. Mi augu-ro che il vandalo che ha danneg-giato il Ratto di Polissena nella Loggia dei Lanzi sia assicurato presto alla giustizia. Chi colpisce la cultura colpisce al cuore la sto-ria e l’identità di una comunità”. E fin qui, banale ovvietà. Gli fa eco la senatrice PD Rosa Maria Di Giorgi: “Oltre all’ina-sprimento delle pene dobbiamo educare a un maggiore rispetto delle opere d’arte”. Ma va, chi

l’avrebbe mai detto?!Ma nessuno sembra prendere in considerazione la meno roboante ma più sensata proposta di Anto-nio Natali, direttore degli Uffizi, di rimettere la catena già esistente per dissuadere i malintenzio-nati, auspicando “una serena e realistica riflessione”. Nardella e Di Giorgi, riflettono serenamente all’unisono: “Non sia mai!” E giù Dario con un’altra banale bordata: “Io sono per ingabbiare i vandali, non le opere”.Il bello è che questo festival dura ormai da diversi anni. Stessa

Loggia, 29 marzo 2013, una turista tedesca stacca il dito sem-pre al Ratto di Polissena. Eccoti Giani, Presidente del Consiglio comunale, che non ha potuto fare a meno di chiedere a viva voce ‘’uno sforzo da parte di tutte le istituzioni affinché svolgano opera di sensibilizzazione sulla tutela dei monumenti, specie in periodi come questo di turismo di massa, in cui un’opera di controllo pun-tuale risulta impossibile’’. L’elenco degli attentati alle dita di Polissena è lungo: 10 ottobre 2012, 8 settembre 2009, 18 apri-le 1987, giugno 1982, 5 settem-bre 1971, 28 giugno 1971. Un festival infinito.

riunione

difamiglia

Che bello è, quando c’è tanta gente e la musica, la musica ci fa star bene. In fondo Jovanotti l’ha sempre detto, basta diver-tirsi a ballare e star bene. La proposta del prossimo ministro del lavoro del governo Renzi, costretto al rimpasto dopo la non sconfitta alle regionali, Loren-zo Cherubini, è chiara: basta con cose noiose come job act, contratti, pensioni e simili: da oggi si deve pensare in termi-ni d’esperienza. Il quadro di riferimento è preciso: Dungeons and Dragons. Nel popolare gioco di ruolo accumulare punti esperienza è fondamentale per salire di livello, così sarà anche in Italia: per esempio uno stage di sei mesi all’Expo ti permet-terà di accedere ad un anno di lavoro a chiamata per la Regione Lombardia che a sua volta vale nove mesi di collabo-razione esterna con la Fca e così via. Grande valore avranno i punti esperienza presi all’estero che permettono di iniziare le conversazioni alla macchinetta del caffè nei corridoi del comune con la frase “Sai, a Berlino mi davano 1000 euro per fare uno stage, qui forse un buono pasto…”. Attenzione però non scegliere la via del contratto con ferie e malattie pagate: il perso-naggio verrà punito dal master del gioco con la perdita di una vita per mancanza di flessibilità e costretto a ripartire da capo.

Non sappiamo se esiste un analogo fuori dalla nostra cittadina, ma per certo Giani trapiantato, che so, a Geno-va sarebbe come un Ussaro a Nairobi, tanta è l’osmosi con Firenze. Come uno Zelig ruspante, non c’è angolo di Firenze che non suggerisca a Giani una data storica, una memoria del bel tempo che fu, un adattamento mimetico nei più piccoli fatterelli della città.E, dunque, eccolo qui – ap-pena trascorsi i bagordi per la

pregevole affermazione eletto-rale alle regionali – nei panni del borghese tardo ottocentesco fiorentino, con i cappelli belle epoque che usavano nelle passeggiate dei parchi di Firenze alla fine del 1800. La foto lo ritrae con Maria Federica Giuliani, consigliera comunale e presidente della Commissione Cultura eviden-temente sulle orme del Nostro. “Era con questo cappello – ci rende edotti il Nostro - che la borghesia e l’aristocrazia fiorentina partecipava ai primi eventi sportivi al parco delle Cascine che iniziavano la stagione dello #sport moderno alla fine dell’800. Data di riferimento 28 aprile 1898. In quel giorno, la mattina si giocò la partita di calcio storico ed il pomeriggio una di football americano”. Non è dato sapere quale fu il risultato di queste due partite, che certamente avrebbe reso indimenticabile questa notizia.E soprattutto manca l’indica-zione della colonna sonora che non poteva che essere affidata a Odoardo Spadaro: “Come è de-lizioso andar sulla carrozzella, e sulla carrozzella sotto braccio alla tua bella. A cassetta stà il cocchier, né ci perde d’occhio, guarda dentro il cocchio poi sorride e chiude un occhio.Il cavallo sa come deve andar se c’è una coppietta. Correre non va, bella è la città e poi non c’è fretta.”Pregevole iniziativa.

le Sorelle marx

lo Zio di trotZkyi Cugini engelS

La cultura in catena

Lui sì, che sa come portare il cappello

Curriculumcontemporanei

BoBo

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PTotale

oesia

Hans Clavin

nel mondo della pratica verbo-visiva Hans Clavin ricopre il ruolo dell’artista

consapevole del proprio presen-te e conscio che la realizzazione finale dell’opera d’arte non si cela dietro una questione di stile, ma alla base di un vero e proprio atteggiamento criti-co nei confronti del mondo circostante e dei suoi linguaggi. Qualsiasi tipo di oggetto rappre-sentato o di tecnica può essere utile – secondo la sua persona-lissima poetica – a creare una Poesia Totale che abbia in sé la capacità di esprimere, comuni-care e meravigliare, nello stesso istante e con la stessa energia: un figuratismo concettuale che decostruisce, manipola e ruota attorno a una visualità ancorata al territorio estetico dei fumetti, delle pellicole, dei giornali e della pubblicità. In tal senso il collage permette all’artista di far convivere parole e immagi-ni in ambiti diversi dalla loro originaria destinazione: oggetti, citazioni e frammenti di lettere si associano in vari contesti, al fine di mettere in evidenza mes-saggi dal denso sapore critico, grottesco e umoristico. Le sue opere si collocano in un terreno a metà strada tra le coeve ricer-che internazionali sulle poten-zialità figurative della parola e quelle più interessate all’aspetto comunicativo, dato dalla riela-borazione di testi e immagini, che mirano alla realizzazione formale del concetto, della messa in pratica del criticismo contemporaneo e della fantasia, in quanto unico motore creativo della modernità, ormai troppo caotica per essere sviscerata nel profondo e nell’intimo dei propri perché. Tuttavia il lavoro di Hans Clavin si contraddi-stingue per la matrice dadaista e intuitiva che dona alle sue opere: la componente iconica spesso sovrasta quella verbale abbracciando l’immaginario collettivo e il consumismo di massa. Ne emerge un’opera d’arte di facile lettura solo in apparenza, mentre in realtà dietro poche ed essenziali linee formali, nasconde il senso pri-mo della comunicazione estetica e dell’operato artistico: l’inter-pretazione sottile e spontanea di

Senza titoloCollage su carta

Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

di laura [email protected]

un artista attento alle dinamiche del proprio presente; quell’au-dace interpretazione che nasce a priori e precede l’ispirazione, donando al fruitore l’idea di tro-varsi davanti a una trattazione saggistica, la cui resa non può far altro che stupire alla luce della sua originalità.

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A Giverny, nella regione dell’Alta Normandia, a soli quarantacinque

minuti di treno da Parigi, il musée des Impressionnismes, propone fino al 19 luglio una bella mostra su Degas con oltre 60 tra dipinti, pastelli, disegni e sculture. Molte delle opere ritraggono interni illuminati dalla luce artificiale in contra-sto con il canone caratteristico dell’Impressionismo, la lumi-nosità naturale della pittura “en plain air, che ha portato molti artisti a vivere e lavorare nella luce vibrante della Costa Azzurra o in zone rurali come Giverny. Il paesino è soprat-tutto famoso per aver ospitato per oltre quarant’anni, dal 1883 fino al 1926, anno della sua morte, Claude Monet. Il pittore che al tempo aveva 42 anni, vi si trasferì con la seconda moglie, Alice Hoschedè, dopo aver comprato una casa colo-nica con del terreno intorno che presto si trasformerà in un giardino d’ispirazione orienta-le, progettato e coltivato dallo stesso artista, diventando il suo piccolo paradiso privato e il soggetto preferito di tanti suoi quadri. Il giardino si riempì del colore dei tantissimi fiori, iris, tulipani, rose, peonie, azalee, glicine.., del fruscio delle foglie degli alberi e dell’acqua dello stagno con un ponticello in stile giapponese e ricoperto di ninfee galleggianti. Monet fece addirittura deviare il corso del fiume Epte per irrigare la terra e alimentare lo stagno. Restaura-to da Gerard e Florence Vander con l’ausilio di alcuni mecenati americani, questo incanto per gli occhi ha conservato il suo fascino originario. Intatta anche negli arredi e nei colori la casa del pittore, rosa con le imposte verdi seminascosta dagli alberi. Visitarla è come entrare nella vita privata di Monet con il suo fascinoso atelier pieno di quadri (purtroppo solo co-pie), la sala da pranzo gialla, la cucina rivestita di azulejos, i mobili originali, la bellissima collezione personale di stampe giapponesi. Una visita piena di suggestioni come quella al pae-sino di Giverny che, ricoperto di fiori soprattutto in primavera

Claude e Alicea Giverny

di Simonetta [email protected] sempre differenti nello scor-

rere delle stagioni. Capolavori realizzati nel silenzio tra i fiori in attesa della luce giusta o su una barchetta nello stagno per catturare il cangiare dei riflessi sull’acqua nelle diverse ore del giorno. Nascono così dal 1899 fino al 1926 circa 250 dipinti che hanno come protagoniste uniche le ninfee dello stagno. Nei primi quadri di questo ci-clo sono ritratti i fiori fluttanti nell’acqua e i riflessi capovolti degli alberi sul bordo in un’at-mosfera di malinconica inten-sità. Poi nel corso degli anni il punto di vista diviene sempre più ravvicinato, spariscono dalla scena il ponticello giap-ponese, le sponde, gli alberi, lo sguardo si immerge nel soggetto fino a divenire solo l’intuizione di un vibrante gioco di colo-re tra i fiori e il cielo riflesso nell’acqua, macchie caleidosco-piche di pure sensazioni visive astratte. Scrive Proust “il colore che creava il sottofondo ai fiori era più prezioso, più commo-vente di quello stesso dei fiori...nel pomeriggio era il colore di una felicità attenta, mobile e silenziosa....verso sera, come in certi porti lontani, il rosa sognante del tramonto, cam-biava di continuo per rimanere sempre in accordo intorno alle corolle con quello che c’è di più profondo, di più fuggevole, di più misterioso”.

Scavezzacollodi maSSimo [email protected]

o all’inizio dell’estate, è uno dei pochi esempi al mondo di natura che imita l’arte, avendo molti scorci ispirati ai quadri del padre dell’impressionismo.

Monet nell’ultima decade della sua vita dipinse quasi esclusiva-mente il suo giardino tornando spesso sui medesimi scorci che offrivano prospettive uniche e

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il 25 maggio scorso ha ces-sato di vivere a Manhattan, dopo una lunga lotta con la

sua malattia, Mary Ellen Mark (1940-2015), una fra le più importanti fotografe americane. Nativa della periferia di Philadel-phia, inizia a fotografare all’età di nove anni, si laurea in storia dell’arte, si specializza in foto-giornalismo nel 1964, e nel 1965 grazie ad una borsa di studio inizia a viaggiare, per un anno intero, in Turchia ed in Europa, per stabilirsi a New York al suo ritorno nel 1966. I suoi interessi fotografici ed umani la portano a fotografare le manifestazioni contro la guerra del Vietnam, le battaglie civili di femministe ed omosessuali, ed i disagi di una civiltà basata sull’ingiustizia e la discriminazione. Da que-sti temi passa ad esaminare le contraddizioni e le incongruenze della società americana, ma non trascura di effettuare lunghi viaggi e soggiorni all’estero, rimanendo particolarmente af-fascinata dall’India. Socialmente impegnata, è curiosa degli strati della popolazione più sfavoriti, di coloro che non hanno trovato una collocazione nella società “opulenta”, come i senzatetto, gli emarginati, i tossicodipendenti, le prostitute, ma anche i bambi-ni, che ama considerare niente affatto “bambini” ma piccoli individui. Sono tutte persone a cui si avvicina, che frequenta e che fotografa, in maniera diretta, privilegiando l’impiego del grandangolare e di un impecca-bile bianco e nero. Mary Ellen Mark lavora prevalentemente in esterni, quasi sempre per strada, ma non è una “street photographer” qualunque, che si accontenta di rubare le imma-gini dei passanti. Il suo metodo di lavoro si basa sull’esperienza diretta, passa giorni e settimane in compagnia delle persone a cui si interessa, per imparare a conoscerle, a capirle, quasi identificandosi in esse. Nel 1974 pubblica il suo primo fotolibro “Passport” con una selezione di immagini raccolte nel decennio 1963-1973. Per realizzare il suo secondo fotolibro “Ward 81” del 1979 trascorre sei settimane insieme alle pazienti del repar-to di sicurezza di un ospedale

di danilo [email protected] psichiatrico, poi passa tre mesi

in compagnia delle prostitute del quartiere a luci rosse di Mumbay per realizzare il libro “Falkland Road” del 1981, una delle poche opere realizzate con pellicole a colori. In seguito, fra il 1988 ed il 2008 realizza un’altra quindici-na di libri, fra cui “Streetwise”del 1988 sulla vita dei ragazzi di strada di Seattle (che diventerà anche un film), “Indian circus” del 1993 sulla vita di un circo itinerante in India, “American Odissey” del 1999 e “Twins” del 2005, sulla vita di coppia dei ge-melli. Nel 1977 diventa membro della agenzia Magnum, da cui esce nel 1982 per continuare a lavorare in piena libertà. La vita reale è il tema che più la affascina e la coinvolge, le persone con la loro esistenza e le loro proble-matiche, spesso estreme, sono al centro delle sue immagini. Nel corso dei suoi viaggi e dei suoi spostamenti Mary Ellen Mark ha conosciuto numerose persone, storie ed avventure, ma non ne ha mai parlato volentieri, lasciando unicamente alle sue immagini il compito di raccon-tare, in una sola inquadratura ed in un solo scatto, una storia, una vita, un’esperienza. L’immagine non ha importanza per sé, ma è il punto culminante di un incon-tro, di una relazione, la sintesi di una conoscenza. Nonostante questo impegno, durato oltre quarant’anni, Mary Ellen Mark trova il modo di lavorare anche come fotografa di scena, durante la lavorazione di oltre un centi-naio di film, a partire da “Alice’s Restaurant” del 1969, entrando in contatto con numerosi attori, di cui ha lasciato splendidi ri-tratti, spesso non convenzionali. Dalle esperienze maturate nel mondo del cinema nasce il fo-tolibro “Seen behind the scene” del 2008. La misura del successo è data anche dalle sue numerose mostre itineranti, e dai numerosi premi, quasi una trentina, che le vengono assegnati, fra il 1980 ed i primi anni 2000.

“Sento una certa affinità con le persone che non hanno sfondato

nella società. Quello che voglio fare più di ogni altra cosa è riconoscere

la loro esistenza.” “Ho sempre cercato con le mie

immagini di dare voce alle persone che avevano meno opportunità di

parlare per sé”

Ciao Mary

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che queste sono le chiavi nel mio furgone rosso, se non per metterlo in moto? Certo che sono legato sentimentalmente al furgone rosso, ma l’importante

è che mi è utile per venire qua e fare lo spettacolo”. Insomma, fare memoria è importante per attivare il cervello nel presente per plasmare il nostro futuro. Ed è importante tentare di capire che cosa significhi quella vicenda del passato e attraverso quale linea rossa si conduce fino a noi oggi e ci parla di qualcosa che ci riguarda, qui ed ora.E l’eccidio di Niccioleta ci parla dell’importanza del lavoro, allora

come oggi. Ernesto Balducci ne ha parlato spesso (e Celestini lo cita nella sua piéce) rievocan-do la storia dei suoi compagni di scuola che finirono fra i minatori fucilati in quel giugno del 1944: “sono morti perché hanno fatto, nel luogo di lavoro, quello che dovevano fare... sono i testimoni di una libertà vissuta come amore per il lavoro, come difesa del lavoro, che pure era un lavoro di sfruttamento, ma era l’unica loro possibilità di vita” (da “Il sogno di una cosa. Dal villaggio all’età planetaria”, Edizioni Cultura della Pace, Fie-sole, 1993). Una religione laica del lavoro. Che Celestini rievoca con precisione documentaria, ma soprattutto cogliendone l’essenza, il nucleo incandescen-te. E che ritrova lungo quel filo rosso che ci riconduce all’oggi. Dalla tragedia di Niccioleta a quella di Ribolla nel 1954: lo sfruttamento “di rapina”, inten-siva, della miniera di carbone provoca l’accumulo di gas nei vuoti lasciati nell’escavazione e lo scoppio, con 43 morti fra i minatori, che invece ben avevano intuito il rischio perché amavano e, dunque, conosceva-no quel loro infernale lavoro. Il funerale fu un atto pubblico, di testimonianza civica, con oltre 50.000 persone. Le famiglie, che dovettero costituirsi parte civile accettarono le offerte in denaro della Montecatini e il processo si concluse con l’as-soluzione di tutti gli imputati e il disastro fu archiviato come “mera fatalità”. E, terzo passag-gio di questo lavoro, mera coin-cidenza è il fatto che a Taranto vi sia una così alta incidenza di morti per tumore, in particolare nel quartiere rosso, che allude a coloriture ideologiche né a particolari pratiche sessuali bensì alla polvere rossa che si deposita su ogni cosa, compresi i polmo-ni. Ecco a cosa serve ri-evocare quella religione laica del lavoro che portò al sacrificio degli 83 minatori di Niccioleta: ancora oggi si muore di lavoro, per il lavoro, ma ancora oggi è fon-damentale affermare la dignità del lavoro, diremmo non la sua funzionalità ad altri fini ma il suo significato in sé. Dovrebbe essere il primo nei nostri pensie-ri. “Lavoravano tutti, lavoravano sempre, lavoravano tanto”.

Lavoravano tutti, lavoravano sempre, lavoravano tanto. Mangiavano e bevevano.

Ad alcuni piaceva bere molto. Nei loro letti ci dormivano, quando potevano ci facevano anche l’amore. Ma il primo dei loro pensieri era il lavoro. Tanto che pretesero di difenderlo anche nel vortice tragico degli ultimi scampoli della guerra dalla violenza cieca di nazisti e fascisti.Ascanio Celestini racconta così, nel piazzale antistante la minie-ra, degli 83 minatori di Niccio-leta fucilati nel giugno 1944 per-ché avevano osato presidiare il loro luogo di lavoro. “Niccioleta, una storia poco nota” nasce da una richiesta di Andrea Camil-leri a Celestini e rappresentarla qui, a Niccioleta, all’interno del Festival “I luoghi del tempo” ha un valore aggiunto straordinario.Mentre Celestini snoda il suo racconto, si svolge un doppio spettacolo: quello dell’attore e quello fra il pubblico. Sono seduto accanto ad un gruppo di niccioletani, donne nate fra il 1928 e il 1934, che rievocano le condizioni dure eppure non infelici della loro giovinezza: la fame “che se ci penso, mi vengo-no ancora i morsi allo stomaco”, il cibo “che mi fanno ridere oggi queste donne che fanno le diete: noi si mangiava un po’ di pane sfregato (insaporito) con la sugna”, i fascisti come “il Calabrò (la spia che consegnò ai tedeschi la lista dei turni degli operai che difesero la miniera), bono quello! Maledetto!”. Tengo un occhio su Celestini che recita e l’altro su queste donne che an-nuiscono, commentano a voce alta, chiudono gli occhi e si reg-gono il capo. E anche Celestini, mi sembra, guarda verso di loro per capire se coglie nel segno. E’ questo il vero spettacolo, questo dialogo fra i testimoni di quella vicenda tragica ancora in vita e l’artista che compie questa operazione di emersione della memoria.Ma Celestini ha chiarito, ponendo ad esergo di questa piéce teatrale, cosa vuol dire fare memoria, perché è importante farla. Non si tratta di un eserci-zio documentario, diaristico e neutrale: “che mi serve ricordare

di Simone [email protected]

La stragelavoratoridei

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88r), rappresentati con cruenta efficacia.Ma non dobbiamo dimenticare che esistono, nella collezione magliabechiana, documenti importantissimi per la loro rarità, aldilà della bellezza delle decorazioni che li possono or-nare: per fare un esempio, poco conosciuto ma di eccezionale rilevanza per la cultura orienta-le, è da segnalare il più antico esemplare finora conosciuto al mondo dello Šāhnāma (Libro dei re), composto dal poeta persia-no Firdawsī tra il 384 e il 400 dell’Egira, massimo documento della poesia epica persiana, che registra la storia mitico-eroica dell’Iran antico lungo l’arco di

cinquanta re. Se ne conoscono circa 500 esemplari conservati in varie biblioteche del mondo ma questo di Firenze (Magl. III. 24) è il più antico in assoluto, datato al 614 dell’Egira (1217 della nostra era), costituendo per la Biblioteca un cimelio di parti-colare importanza. Basti pensare che al momento della sua identi-ficazione nel 1978 ad opera dello studioso Angelo Michele Pie-montese (fino ad allora era stato interpretato come uno dei tanti commenti al Corano), ne venne data notizia anche sul quotidiano Repubblica ( 27 dicembre 1978, p. 28). Per capire l’importanza del suo ritrovamento basterebbe immaginare, per analogia, la

scoperta del più antico codice della Divina Commedia in una biblioteca di… Samarcanda. Sorge spontanea la domanda: come è arrivato questo codice nelle mani di Antonio Maglia-bechi? Ripercorrere il viaggio che certi libri fanno nel corso dei secoli, superando distanze e barriere non solo geografiche ma anche linguistiche e cultu-rali, a volte è avvincente come dipanare la matassa di misteriose vicende umane; nel nostro caso la ricostruzione si fa complessa e in certa misura solo ipotizza-bile, ma è il codice stesso che ci viene in aiuto, dicendo qualcosa di sé: sulle prime carte infatti, una mano occidentale e relativa-mente recente (sei-settecentesca) ha scritto: Portato da Girolamo Vecchietti di Cairo. E chi fosse questo Vecchietti è ben noto: si tratta di un viaggiatore che as-sieme al fratello Giovan Battista compì varie missioni in Egitto in cerca di manoscritti in lingue orientali da portare a Roma, per essere stampati ad opera della Tipografia orientale medicea, fondata nel 1584 dal cardinale, poi granduca, Ferdinando de’ Medici , su suggerimento del papa Gregorio XIII. Gli scopi dell’impresa erano sia di evange-lizzazione sia commerciali poiché i libri, una volta stampati, dove-vano essere smerciati in Oriente, dove la stampa non era ancora molto diffusa. La tipografia venne così in possesso di un gran numero di codici, alcuni molto rari e preziosi, che dopo la chiu-sura della stamperia rimasero di proprietà dei Medici e trasferiti a Firenze. Come sia poi arrivato questo al Magliabechi non è difficile immaginarlo: il bibliote-cario frequentava la corte, gestiva le biblioteche dei principi, da cui ricevette in dono o acquistò (o prelevò…) molto materiale; non è infrequente infatti imbatter-ci in libri del Magliabechi un tempo appartenuti ai Medici. Tra questi, l’antichissimo Šāhnāma. Chissà se il bibliotecario ne capì l’importanza: di certo non conosceva le lingue orientali ma frequentava studiosi che le leggevano e che restavano abba-gliati di fronte ai tesori custoditi nella biblioteca medicea; ed in più il nostro erudito possedeva quel “fiuto” che fa grandi certi collezionisti.

Da dove cominciare? All’interno della collezione libraria che fu di Antonio

Magliabechi adesso conservata alla Biblioteca Nazionale di Firenze abbondano talmente stampati e manoscritti preziosi e importanti che è difficile operare una scelta, quando lo spazio per parlarne è limitato. Ho pensa-to di segnalarvi dei codici che la Biblioteca ha digitalizzato e che quindi potete ammirare integralmente con un semplice link. Sono due manoscritti che uniscono la bellezza dei disegni all’importanza del testo trasmes-so. Per primo, ecco il cosiddetto Zibaldone (Banco Rari 228), un taccuino pieno di disegni ed appunti di Bonaccorso Ghiberti, nipote del più famoso Lorenzo, da cui aveva ereditato la bottega; fabbro ed ingegnere, anche se non si conoscono sue opere arti-stiche, ha lasciato nel quaderno testimonianza dei suoi svariati interessi, dalla ricostruzione di monumenti dell’arte antica, al disegno di sculture di altri artisti fiorentini, o torri d’assal-to, macchine e congegni vari. Appaiono anche annotazioni originali di Bonaccorso relative a lavori di oreficeria o di carpen-teria: la c. 74v mostra il disegno di campane, allusive forse al lavoro di riparazione che i Ghi-berti operarono nel 1484 sulle campane di S. Maria Nuova. Di particolare importanza i disegni di macchine ideate da Filippo Brunelleschi per il cantiere della cupola di S. Maria del Fiore, che costituiscono uno delle poche testimonianze che si hanno su questa colossale impresa. Per secondo, possiamo ammirare al link il Libro de la vida que los Yndios hazian (Banco Rari 232), suggestivo manoscritto del XVI secolo, copia di un codice pre-colombiano illustrato da disegni a penna ed acquerello, che rappresentano con semplicità naive i costumi, le usanze, le fe-ste, in sintesi la vita degli abitanti dell’antico Messico. Di partico-lare interesse disegni riguardanti i riti funebri ed altre cerimonie religiose e civili, i sacrifici umani al tempio e durante un banchet-to (c. 70r e c. 73r), le penitenze offerte alle divinità (c. 79r e c.

Capolavori magliabechiani

di maria mannelli [email protected]

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Nell’impossibilità materiale di partecipare all’inaugurazione della mostra di Frangioni e della Bella, spero di farmi perdonare rendendo omaggio alla strada che la ospita presso la galleria “La Corte”.Una volta Via dei Coverelli, tutto sommato di breve lunghezza, poteva vantare, lungo il suo sviluppo, diverse denominazioni: oltre a quella “istituzionale” deri-vante dalla famiglia che possedeva il palazzo in angolo al Lungarno Guicciardini, c’era Via dei Vettori (dedicata a un’altra famiglia che aveva palazzi in zona e che poi si accontentò di una modesta per quanto oggi supertrafficata Piazza semiperiferica, rinunciando alla nobiltà dei Lungarni, sia pure in rive gauche) e, alla confluenza con Via del Presto di San Marti-no, il Chiasso Perduto, nome che evocava strade ignote, oscure e pericolose, come ben le descrive Jarro (Giulio Piccini) in “Firenze

sotterranea”; se non conoscete questo libro merita leggerlo (con un po’ di pazienza ne trovate una copia di libera consultazione in rete): fu uno dei testi che anticipò e in qualche modo giustificò l’opera di “risanamento” dell’ar-chitetto Poggi.Popolarmente la Via era poi conosciuta, per tutto il suo svi-luppo, come “Via dei Pizzicotti”. Ora questa storia dei “pizzicotti” doveva essere una specie di sport

molto popolare nella Firenze lorenese. Per antonomasia, il luogo ad esso precipuamente dedicato si trovava, rispetto a Via dei Coverelli, giusto di là d’Arno: era il celeberrimo “Arco dei Pizzicotti”, l’arcata che collegava Palazzo Spini-Feroni (quello del negozio Ferragamo) con la spal-letta del Ponte a Santa Trinita. La curiosa denominazione derivava dall’usanza dei giovani fiorentini di appostarsi la domenica sotto l’arco per attendere le ragazze che uscivano dalla messa in Santa Trinita e “concretizzare” il perché del soprannome.Quando nel 1823 l’arcata fu demolita per consentire l’allarga-mento del Lungarno Acciaioli, i giovinastri dell’epoca, in massa, migrarono evidentemente in riva sinistra dove, fra l’altro, potevano far conto su una riserva di caccia più ampia rispetto a quella in riva destra: sulla Via dei Pizzicotti convergeva infatti l’uscita delle chiese di Santo Spirito, San Fre-

diano e San Felice (Santa Felicita e San Iacopo si salvavano attra-verso il Ponte Vecchio), con larga possibilità di esame preventivo e accurata scelta degli obiettivi.Per rimanere in tema di pizzicotti, e sperando di non scadere nel tri-viale, è assodata verità storica che quando il Granduca Ferdinando III andò ad assistere all’inaugu-razione del Lungarno allargato, fu dato incarico di rimuovere gli assiti che nascondevano l’opera finita a un maestro falegname soprannominato, per ignote ma forse comprensibili ragioni “il Cinci”. Pare che il Cinci, emozio-nato per la presenza del sovrano, schiodando un’asse perdesse l’equilibrio e cadesse all’indietro e che il Granduca in persona lo so-stenesse per il didietro impedendo che finisse a terra: l’ultimo regale pizzicotto dell’antico Arco.Oso solo sperare che Aldo non abbia approfittato della confusio-ne del vernissage per rinverdire i fasti della “Via dei Pizzicotti”

world music ante litteram. Il primo disco è Dai primitivi all’elettroni-ca (1980, ristampa Black Sweat Recotds, 2014), nato dall’impegno congiunto di Gabin Dabiré, Walter Maioli e Riccardo Sinigaglia. Per l’occasione i tre avevano costituito

il gruppo Futuro antico. Maioli era stato il fondatore degli Aktuala, ma quando uscì il disco suddetto il gruppo si era già sciolto. Il suo titolo è molto suggestivo, ma non del tutto appropriato, dato che la struttura portante è una continua interazione fra suoni naturali (i fiati di Maioli), etnici (le percussioni di Dabiré) ed elettronici (le tastiere di Sinigaglia). Nella lunga “Piano Synt” domina il piano di Sinigaglia, con gli effetti dei sintetizzatori in sottofondo. “Oa oa”, minimalista e ipnotica, ha un tappeto sonoro ricco di variazioni timbriche e armoniche. In “Sinikorò Kumà” giocano un ruolo decisivo le per-cussioni di Dabiré. Anche il secondo CD, Antico ada-gio (1978, ristampa Die Schachtel, 2014), è legato all’esperienza degli Aktuala. L’autore, il percussionista Lino Capra Vaccina, aveva lasciato il gruppo dopo il primo LP omo-nimo (Bla Bla, 1973). Nel fascicolo che accompagna il CD Vaccina sottolinea l’importanza del lavoro svolto precedentemente col gruppo di Maioli, esploratore di “mondi musicali che poi avrebbero chiama-to World Music”. La ristampa con-tiene i sei brani del disco originale e una sezione denominata “Fram-menti da Antico Adagio”, con quattro brani inediti che vennero scartati all’epoca per mancanza di

negli anni Settanta il pano-rama della musica rock era egemonizzato da gruppi

progressive: Banco del Mutuo Soccorso, Gentle Giant, Premiata Forneria Marconi, Yes, etc. Era un fenomeno di dimensione europea, che spaziava dall’Italia ai paesi scandinavi. Nella seconda metà del decennio, con l’avvento del punk, buona parte di questo panorama cominciò una parabola discenden-te. In pochi anni le grida gioiose che avevano accolto dischi come Collage, Tarkus e Close to the Edge vennero sostituite da infiammate scomuniche. Le lunghe suite a base di mellotron e sintetizzatori lasciarono il posto a brani brevi ed essenziali che rivendicavano l’ori-ginaria rozzezza del rock (Clash, Police, Sex Pistols, etc.).In questo modo, però, vennero frettolosamente archiviati anche dischi e artisti che erano stati eti-chettati progressive soltantoper una coincidenza temporale. Negli ultimi anni, fortunatamente, varie etichette hanno ristampato alcuni lavori dimenticati di questi artisti. Fra questi ne abbiamo scelti due. Entrambi sono legati, seppur in modo diverso, all’esperienza de-gli Aktuala, un valido gruppo che possiamo definire esponente di una

spazio (il LP fu autoprodotto in tiratura limitata). Impegnato con una notevole varietà di percussioni - campane, gong, marimba, tablas, etc. - Vac-cina è affiancato da un gruppo di artisti nel quale spicca Juri Camisa-sca. Il percussionista aveva già colla-borato al primo LP del cantautore, La finestra dentro (Bla Bla, 1974). La voce di Camisasca compare in “Elegia”, dove si intreccia con una materia sonora viva e palpitante. Il predominio delle percussioni non scade comunque in monotonia, dato che altri strumenti - cetra, oboe e violino - garantiscono una notevole varietà timbrica. Il lungo brano che intitola il disco, dominato da percussioni e oboe, riecheggia certi temi cari alla Third Ear Band, il gruppo inglese che viene spesso avvicinato agli Aktuala. Nel disco emergono chiare influenze minimaliste, non soltanto legate a un contesto specificamente musicale, ma anche mistico e spiri-tuale, tanto è vero che Vaccina cita Terry Riley e La Monte Young nelle note che accompagnano il CD. Questa ristampa eccellente con-ferma la validità dell’etichetta Die Schachtel, impegnata da molti anni nella ricostruzione di una memoria storico-musicale che spesso rischia di essere dimenticata a vantaggio delle mode.

di FaBriZio [email protected] Via dei Coverelli

Pizzicotti perduti

Ecologie sonore

di aleSSandro [email protected]

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alle poesie di autori affermati: come detto, non fosse altro per carpirne i segreti, per rubarli.L’esperienza del Laboratorio Artigiano di Fantastica dello scorso anno è stata molto

positiva. Vi hanno aderito tre classi del biennio ITI per un totale di 72 studenti coordina-ti da me, dalla collega Ales-sandra Pelli e dagli scrittori Valerio Aiolli, Enzo Fileno Carabba, Emiliano Gucci e

Vanni Santoni. Gli incontri, tenuti in orario curricolare, prevedevano la partecipazione di piccoli gruppi di studenti che si sono alternati nella creazione di un unico raccon-to. Un gruppo ha iniziato la storia che poi è stata offerta a un altro gruppo che poi l’ha ceduta a un altro ancora, in una sorta di gioco di squadra a staffetta. E così è stato anche per gli scrittori. Poi, in un incontro conclusivo tenuto in Aula Magna, una festa finale di musica danza e poesie che ha visto la partecipazione di Alessandro di Puccio e Franco Pinzauti dei Les Italiens, e Vanni Santoni, è stato letto a tutte e tre le classi il racconto Le stagioni della moda, con la sorpresa degli studenti di scoprire da dove fosse comin-ciato il loro testo o quale fosse la sua conclusione. Gli incontri del presente anno scolastico stanno volgendo al termine. La partecipazione degli studenti di 1A, 1B, 2A è luminosa, così come quella dei capicantiere chiamati a guidarli: Valerio Aiolli, Elisa Biagini, Emiliano Gucci, Alessandro Raveggi. Non più un unico racconto, al termine di quest’anno, ma tante pic-cole storie che disegneranno i destini incrociati dei ragazzi del gruppo e degli scrittori di turno.

Da qualche tempo, presso l’ISIS “Da Vinci” di Firenze, sperimento un

modo non so se nuovo per promuovere la lettura: un laboratorio di scrittura con scrittori che guidano i gruppi di studenti a dare libero sfogo alla loro fantasia per poi con-durli passo passo a rileggere in senso critico quanto scritto e a indicare loro le strutture sot-tese al testo: metodo dunque induttivo, che dalla esperienza pratica arriva gradualmente a definirne i contorni teorici! Ma che cosa c’entra allora la lettura con la scrittura?, si po-trebbe dire. C’entra assai, se-condo me, poiché la felicità di creare testi autonomi e averne gratificazione da scrittori af-fermati è una bella spinta per appassionarsi alla scrittura, e se uno studente scrive di certo un po’ alla volta  non può che cominciare autonomamente a leggere, magari solo per copia-re, per carpire i segreti di chi ha già pubblicato.Il progetto è articolato in una serie di incontri durante i qua-li ciascuno dei docenti e degli esperti sarà per i ragazzi un ca-pocantiere, guiderà il gruppo e lo orienterà verso il progetto comune – la costruzione di una storia. E all’interno di questo cantiere tutti lavoreran-no secondo le proprie capacità e inclinazioni (Integrazione): un piccolo spazio dedicato alla voglia di osservare, descrivere, immaginare. Gli obiettivi sono quelli di suscitare la curiosi-tà, di stimolare la creatività e non misurarla (Autostima dell’alunno), di condurre gli studenti lungo i binari dell’immaginazione e del divertimento (Educazione alla fantasia e al divertimento); ma anche quello di far riflettere sulla lingua, sulle strutture dei testi narrativi e poetici, sulle esperienze del mondo (Valen-za didattica). Ultimo atteso e sperato obiettivo: attraverso il divertimento della propria scrittura, della produzione e della soddisfazione delle storie create, per gli studenti sarà forse più naturale accostarsi alla lettura di testi già pub-blicati, ai romanzi ai racconti

La buona scuola che c’è già

LaboratorioArtigiano

di Fantastica

di rino [email protected]

Il migliore dei Lidipossibili

Continuate ad astenervi

dal voto: una valanga

di percentuali vi seppellirà.

Disegnodi Lido Contemori

Didascalia di Aldo Frangioni

di lido [email protected]

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lazzi di pietra e la fragilità dei templi di legno, tra i pesan-tissimi kimono indossati con grazia e leggerezza e le giovani turiste in jeans e maglietta,tra i bianchi ciliegi del parco di Marayuma e i glicini odorosi del giardino di Villa Bardini , tra i muri intonacati d’ocra delle viuzze d’Oltrarno che

I libri delle banche? Quelli che vengono donati prima di Natale ai clienti/correntisti solidi e/o affezionati e che diventano oggetto del desiderio - a fini per lo più di mero accaparramento - posto che, una volta acquisiti, spesso vanno diritti ad ornare gli scaffali delle librerie per dare lustro a chi li possiede? C’è da domandarsi: qualcuno, poi, li legge questi libri? Perché spesso si tratta - a dispetto di certi ‘col-lezionisti’ distratti - di autentici capolavori. Dallo scorso mese di febbraio i quasi 10.000 volumi editi dalle banche italiane dal 1861 ad oggi, facenti parte della biblio-teca dell’Associazione Bancaria Italiana, ubicata nelle antiche scuderie del Palazzo Altieri di Roma, sono a disposizione del pubblico: un gesto di sensibilità ed attenzione alla cultura da parte di un mondo che con la cultura ha un intreccio storica-mente importante (si pensi al mecenatismo rinascimentale, sostenuto in Italia da importanti famiglie principesche che erano anche famiglie di banchieri). Occupano la biblioteca nume-rose edizioni rare, circa 1.500 volumi introvabili nelle altre biblioteche italiane. I 10.000

volumi si cimentano peraltro su temi diversi ma la parte del le-one la fanno arte e architettura, pur essendo numerosi quelli che si occupano di storia econo-mica e del pensiero, territorio, cinema, archeologia, musica; le pubblicazioni trattano altresì esperienze culturali a torto considerate minori, hanno dato vita a cataloghi di musei, biografie di musicisti, studi sulle arti applicate, ritratti di terri-torio, collezioni archeologiche, storie di città. Impreziosiscono la raccolta (raggiungibile on line

all’indirizzo http://biblioteca.abi.it/) vere e proprie edizioni di pregio, come il “Corpus dei disegni di Michelangelo” in 4 volumi di grande formato o le magnifiche anastatiche come la “Bibbia di Borso d’Este”, capo-lavoro della miniatura italiana del Rinascimento, o come an-cora “Les Déjeuners”, edizione fedele dei disegni, acquerelli e pitture che Picasso eseguì pren-dendo spunto dal “Déjeuner sur l’herbe” di Manet; libri che non sarebbero mai venuti alla luce se avessero dovuto produrre un

Banche, un occhio alla culturadi Paolo [email protected]

Sono esposte oltre cento fotografie che fissano con molta sensibilità e intuizio-ne aspetti della vita sociale, della cultura e del paesaggio di Firenze e Kyoto, le due città d’arte per eccellenza di cui ricorre quest’anno il 50° anniversario del gemellaggio .Massimo Pacifico, bella faccia di abruzzese antico,innamo-rato del Giappone e sensibile alla lezione del nipponista, antropologo e fotografo Fosco Maraini , confessa di aver vagabondato a lungo per le strade di Firenze e di Kyoto convinto che le fotografie si facciano allineando, come di-ceva Cartier Bresson ,l’occhio e il cuore .Ne risulta una mostra sin-golare che coglie il dialettico dialogo tra la solidità dei pa-

di rita alBera [email protected]

Il Giappone di Massimo Pacifico

profitto per i rispettivi editori, ‘ché sul mercato sarebbe già stato pretenzioso remunerarne i costi. Il primo volume, per anno di edizione, è “La Cassa di Rispar-mi in Parma. Scene popolari”, del 1861: esempio risalente e si-gnificativo di educazione finan-ziaria. Nell’arco di novant’anni, dal 1861 al 1950, i libri editati sarebbero stati poco più di 200. L’esplosione dei numeri sarebbe andata di pari passo con il boom economico nel secondo dopoguerra (375 pubblicazioni nel decennio 1951-60, 625 nel 1961-70, 1.624 nel 1971-80, 3.356 nel 1981-90, toccando il massimo nel 1985 e nel 1987, quando sarebbero stati realiz-zati rispettivamente 427 e 405 volumi). Quindi, esaurita la stagione degli anni ‘80, sarebbe iniziata la parabola discendente, con 1578 libri prodotti nell’ul-timo decennio del XX° secolo, 903 nel 2001-10 e appena 208 dal 2011 ad oggi. Una ‘debacle’ in cui hanno potuto convergere il processo di concentrazione in atto nel sistema del credito, lo sviluppo dell’editoria digitale e forse la stessa crisi finanziaria dal 2008 ai giorni nostri.

ispirarono Ottone Rosai e le strade del quartiere di Gion, illuminato da labili lampioni rossi di carta di riso. Diffe-renze,simmetrie,convergenze .Voce e controcanto . Due cit-tà,due mondi,accumunati da uno stesso destino di bellezza e vocazione culturale, poiché entrambe hanno esercitato un

mecenatismo senza precedenti e senza epigoni nei palazzi e nei conventi, entrambe si sono riempite di templi e di capolavori, di segni altissimi della creatività, entrambe occupano nell’immaginario collettivo lo stesso simbolo di armonia e potere, di eleganza e ricchezza illuminata.

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emerse anche in “This must be the place”. In buona sostanza, a noi pare che tutto il cinema di Sorrentino “giri meglio” con la maschera confidenziale di Servillo, vero e proprio istrione, officiante della liturgia solen-ne andreottiana, del transfert attore-regista come veicolo di illusione che scimmiotta il

Vero. Un binomio di  pregevole sintesie di “cinema dell’inelutta-bilità” che prende corpo proprio nel processo analitico del rimosso, nello scandaglio della “Storia che viene dal Futuro” e che si fa maschera e macchina attoriale. “Youth” tradisce (in parte) la poetica di Sorrentino, conferendo alla “parabola”, alla

sentenza, all’immagine risoluti-va un potere sovradimensionato, tributo all’insostenibile “cinema del presente”, alla “cronaca della memoria” declinata attraverso trame di vite che si intersecano in virtù della cornice boccac-cesca, di questo Resort-Deca-meron, vero e proprio Limbo Svizzero, striscia di Moebius ove si celebra la neutralità del Divenire. Nel “mondo di fuori”, là, da qualche parte, scorre immutabile la vita, a Venezia, dove le fauci spalancate della moglie catatonica di Michael Cane paiono divorare il tempo, come le maschere del Kirtimuka vedico, prive di mandibola inferiore. Ma il tutto scorre con poca naturalezza, forzatamente, e dunque, ad es., le citazioni felliniane (la stazione termale in 8 1/2) paiono essere troppo ricercate, ad effetto.Insomma, un buon film che paga eccessivamente l’ossessiva ricerca del leitmotiv, della pietra filosofale quintessenziale, aneli-to  che finisce col rendere greve quanto di leggero rimane del campare e frivolo tutto il resto.

Sorrentino rimane un regista visionario, forse l’unico che abbiamo in

Italia e il suo ultimo lavoro, “Youth”, con buona pace delle critiche più esasperate, rimane un buon film; non uno dei suoi migliori, ma neanche il risultato d’una melassa piena di retorica, come sembrano suggerire la maggior parte dei commenti dei critici nostrani. La verità è che Sorrentino è un cantore del falso mito, della precarietà delle relazioni umane, uno di quei re-gisti che riescono a definire una “metafisica del contingente”;  e però in “Youth” egli rimane come prigioniero del suo stesso cinema, della struttura narrativa “à la Malick” che finisce col ren-dere autolesionistico il processo, vana l’operazione, paradossale l’impotenza.Cominciamo a pensare che il taglio “internazionale” (impor-tanti cast, grosse produzioni), non giochi a favore del regista e che “Youth” risenta delle atmosfere stranianti che erano

L’ultimo visionario

di FranCeSCo [email protected]

Quando Wagner, commosso fino alle lacrime dalla bellezza del duomo di Siena, esclamò “vorrei ascoltare il preludio di Parsifal sotto questa cupola”, deve aver ricevuto sicuramente forti suggestioni anche dallo straordinario pavimento. Un tappeto marmoreo istoriato, fra i più vasti e pregiati, la cui realizzazione si è protratta dal Tre all’Ottocento. I cartoni preparatori delle 56 tarsie furono disegnati da importanti artisti fra cui il Sasset-ta, Domenico di Bartolo, Matteo di Giovanni e il Pinturicchio. Ma colui che operò in maniera innovativa rispetto alla tecnica usata in precedenza fu Domenico Beccafumi, presente nel cantiere del pavimento già dal 1519. La tecnica del commesso marmoreo (opus sectile) prevedeva, oltre agli intarsi in marmi di diverso colore ( broccatello giallo, grigio della Montagnola, verde di Crevole), l’uso del graffito mediante trapano o scalpello in modo da creare segni di contorno che riempiti di pece facevano risaltare le figure. L’inter-vento rivoluzionario del Beccafumi consiste nell’uso di marmi con sfumature diverse rispetto alla to-

nalità di base in modo da ottenere, tramite gli accostamenti, risultati di chiaro-scuro che si avvicinano in modo sorprendente alla pittura mo-nocroma. La soluzione innovativa di Beccafumi è particolarmente evidente nel fregio lungo e stretto che si inserisce tra i due pilastri che sorreggono la cupola, verso il presbiterio, e che rappresenta Mosè

mentre fa scaturire l’acqua dalla roccia di Horeb. La figura di Mosè campeggia solenne mentre una folla animata e variegata si avvicina alla roccia per dissetarsi. La composi-zione della scena mostra l’influenza stilistica di Raffaello mentre i

movimenti vigorosi delle figure manifestano le suggestioni ricevute da Michelangelo nella Cappella Sistina. Quando lavora a questa tarsia Beccafumi ha già raggiunto la piena maturità artistica e padroneg-gia la tecnica in maniera magistrale; sfruttando le possibilità cromatiche dei marmi, riesce a caratterizzare i personaggi e a produrre effetti di luce ed ombra che raggiungono un risultato quasi volumetrico che potrebbe dirsi vicino all’espressività plastica dei bassorilievi dei sarco-fagi. Ci troviamo a condividere pienamente l’ammirazione di Vasari verso questo pavimento che “era il più bello et il più grande e magni-fico che mai fusse stato fatto”. Il complesso programma iconografico è stato approfonditamente indagato dagli studiosi che hanno individua-to nelle figurazioni un messaggio

simbolico di costante invito alla sapienza come fonte di salvezza. E l’acqua che, sgorgando nel deserto dalla roccia, disseta il popolo stre-mato di Israele rappresenta appunto la salvezza. Ma San Paolo si spinge oltre la narrazione dell’Esodo fino ad identificare la roccia di Horeb con Cristo: “bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagna-va, e quella roccia era Cristo”, “be-vanda spirituale”, fonte di salvezza. L’acqua diventa quindi fonte di vita, nutrimento spirituale, elemento culminante del percorso iconogra-fico e simbolico del pavimento del Duomo di Siena. Un tema che si collega al messaggio dell’Esposizio-ne universale “Nutrire il pianeta, Energia per la vita”. L’Opera della Metropolitana di Siena ha indivi-duato nel “nutrimento spirituale” l’anello di congiunzione con L’Expo Milano 2015 ed ha programmato per questa occasione la scopertura straordinaria del pavimento. Per tutto il mese di luglio il prezioso tappeto marmoreo, abitualmente coperto per salvaguardarlo dal calpestio dei visitatori, potrà essere ammirato nel suo splendore e il miracolo di Mosè sarà protagonista di Sete di Infinita Bellezza.

di luiSa [email protected]

Sete di infinita bellezza

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Kahlil Gibran E quando addentate una mela,ditele nel vostro cuore:I tuoi semi vivranno nel mio corpoE i tuoi germogli futurisbocceranno nel mio cuore,La loro fragranza sarà il mio respiro,E insieme gioiremo in tutte le stagioni. ...ma sopra tutto nel buon vino ho fede,e credo che sia salvo chi gli crede;e credo nella torta e nel tortello:l’uno è la madre, e l’altro è il figliuolo;il vero paternostro è il fegatello...

Ingredienti:400 g di zucchero semolatoChicchi di melagrana (circa 400 g)200 g di panna fresca12 meringhe4 albumiSaleChicchi d’uva

Preparazione: Le dosi indicate per gli ingredienti sopraelencati sono consigliate per dodici per-sone. Impiegheremo solamente venti minuti a preparare il semi-freddo, ma dovremmo comun-que attendere il tempo necessa-rio al raffreddamento prima di poterlo servire. Cominciamo! Innanzitutto portiamo a bollore 300 grammi di zucchero con il succo di melagrana, che avremo in precedenza ottenuto, pressan-do i chicchi in uno schiacciapa-tate con il disco fine. Dopo tre minuti di bollitura, spegniamo e lasciamo raffreddare lo scirop-po ottenuto. Ora montiamo, utilizzando una frusta elettrica, gli albumi con un pizzico di sale e lo zucchero rimasto (circa 90 grammi). Quando saranno parzialmente montati, incorpo-riamo lo sciroppo di melagrana proseguendo a lavorarli fino a ottenere una neve ben soda, ag-giungiamo, molto delicatamen-te, la panna montata e le merin-ghe sbriciolate. Ricordiamo di fare particolare attenzione a non smontare il composto durante quest’operazione. A questo punto distribuiamo il tutto in dodici stampi concavi, scanalati e rivestiti di pellicola, passiamoli

in frigorifero per almeno sei ore. Visto il tempo necessario al raffreddamento, è bene prepara-re il dessert nel primo pomerig-gio, se vogliamo servirlo come dopocena. Quando saranno passate le sei ore, sformiamo gli stampi nel piatto. Decoriamo il nostro semifreddo usando i chicchi di melagrana. Accom-pagniamo il dessert con dell’uva brinata, in altre parole gli acini pennellati di albume (legger-mente sbattuto) e passati nello zucchero semolato. Serviamo il dolce immediatamente: la frutta brinata, infatti, si conserva deliziosamente croccante per breve tempo perché lo zucchero tende a farne uscire il succo. Portiamo in tavola e godiamoci il semifreddo e i complimenti dei nostri ospiti.

di miChele [email protected]

Aldo Frangioni presentaL’arte del riciclo di Paolo della Bella

ScottexSe l’Urlo di Much ci ha fatto sentire per un secolo l’angoscia esisten-ziale della società contemporanea, speriamo che lo “Sbadiglio” di della Bella, che si intravede in questo gargantuelico personaggio, non alluda ad un futuro di noia.

Sculturaleggera

Semifreddo di melagrana emeringhe

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Torna Maggio Elettrico, la nuova edizione dell’iniziativa ideata da Tempo Reale per il 78° Festival del Maggio Musicale Fiorentino che quest’anno ci regala tante prime esecu-zioni di compositori di spicco nella scena europea.Il 12 e il 13 giugno alla Limonaia di Villa Strozzi Maggio Elettrico vuole essere una finestra aperta sulla nuova musica e propone due concerti tematici dedicati alla produzione contemporanea con elettronica. Il primo è dedicato a Mauro Lanza e Andrea Valle, com-positori italiani che (cosa alquanto inusuale) lavorano in duo, il secondo si concentra su

opere per strumento solo intorno ad uno dei capolavori assoluti della musica di Stockhau-sen.Mauro Lanza e Andrea Valle con l’Ensemble Mosaik saranno insieme nella serata dal tito-lo Teatro Natura (12 giugno): due personalità diverse della musica con una passione in comune: l’elettronica, presentano in prima esecuzione italiana: Regnum Vegetabile (2014), per sei strumenti e dispositivi elettro-meccanici, 30 asciugacapelli (controllati da computer) soffiano in vari strumenti a fiato : ancie, sirene, flauti dolci, armoniche a bocca (2014) . Così come in Regnum Animale (2013), per trio d’archi e dispositivi elettro-meccanici, l’esecuzione è affidata ai musicisti berlinesi dell’Ensemble Mosaik, affiancati da una popolazione eterogenea di oggetti quoti-diani: elettrodomestici e strumenti musicali bizzarri controllati elettronicamente. Mauro Lanza è uno dei compositori più rappresentativi delle nuove generazioni della

musica colta europea, presente in festival internazionali, formatosi al conservatorio e all’IRCAM di Parigi. Il percorso di Andrea Valle è completamente diverso: rock d’avan-guardia, improvvisazione radicale, free jazz, laurea in semiologia, docenza universitaria, ma anche studi di teoria musicale tradizio-nale, ma soprattutto una vita artistica che di tradizionale ha poco, e che si svolge piuttosto negli ambienti della musica cosiddetta speri-mentale. Qual è il punto di contatto? Il più evidente: musica ex machina - Mauro è uno dei più grandi esperti di formalizzazione mu-sicale e composizione assistita da computer; Andrea è un guru della composizione algo-ritmica e probabilmente la massima autorità italiana in materia di Super Collider.La seconda serata – dal titolo In Solo – è un’indagine sull’esperienza solistica, partendo dalla musica di Stockhausen Solo per arrivare a musicisti giovani e affermati, da pietre miliari a nuovissime opere (13 giugno). Le prime esecuzioni saranno di Marco Marinoni, Johan Svensson e Claudio Jose Boncompagni.

Tre Movimenti di Luce. Rumore Tremore Fulgore. Un viaggio scenico sensoriale nella Com-media di Dante Alighieri. Su invito della direzione artistica del Maggio Musicale Fiorentino, per la sua 78a edizione, Giancarlo Cauteruccio è stato chiamato a misurarsi con la Commedia di Dante seguendo le direttrici-gui-da del suo visionario percorso artistico e concettuale: il poema sacro come Epopea del Corpo e della Luce. Il progetto si articola in tre movimenti d’immagini, suoni e luce: Rumore/Inferno, Tremore/Purgatorio, Fulgore/Paradiso. La nuova architettura dell’Opera di Firenze diventa a sua volta protagonista, invitando gli spettatori ad attraversare i luoghi più segreti, gli anditi in ombra della grande costruzione. Da tempo Cauteruccio lavora a un suo percorso che mette a confronto il teatro di prosa con l’opera musicale contemporanea, percorrendo diverse possibilità di relazione tra scene in prosa e strutture sonore di grande “pre-senza”, così realizzando una serie di luminose architetture ideali. Al recente Eneide di Krypton - un nuovo canto non poteva che far seguito l’erede diretto del viaggio virgiliano, il «poema sacro al quale ha posto mano

e cielo e terra» (come lo defi-nisce, senza modestia, lo stesso Dante). Come l’Eneide e come la Commedia (ma anche come i Canti Orfici di Dino Campana, messi in scena lo scorso anno al Teatro Studio di Scandicci, che a loro volta celebravano la «po-esia di movimento» di Dante), anche Tre movimenti di luce è un viaggio: un viaggio senso-riale all’interno della struttura architettonica del nuovo teatro Opera di Firenze. Un viaggio che si svilupperà in tre luoghi diversi e in diverso senso “preliminari”, che deliberatamente escludo-no il palcoscenico: dalla selva oscura dei sotterranei infernali alla spera supprema della cavea paradisiaca, passando per le penombre e i chiaroscuri di un allusivo purgatorio-sala prove. In questi ambienti teatralmente “non giurisdizionali”, il lavoro si presenterà come un’esperienza sensoriale: percezioni, parole e musica infonderanno in ciascu-no spettatore la condizione del Dante personaggio, sino a farlo rispecchiare in quella del Dante poeta. Il quale – come indica Andrea Cortellessa, dramaturg del progetto – alla fine del viag-gio, proprio come il suo Ulisse, non potrà far altro che iniziarlo di nuovo. 10 giugno 2015 ore 23.00; 11 giugno 2015 ore 21.00 e ore 23.00; 12 giugno 2015 ore 23.00Teatro dell’Opera di Firenze

in

giro

Maggio Elettrico

Tre movimentidi Luce

Edizioni ClichyCambia sede con una grande sorpresa per tutta la città... e allora...

Venerdì 19 giugno 2015, dalle ore 17.30 in poiandrà in scena la nostra ultima

Festa d’estate in via Pietrapiana, 32 - 50121 Firenze

Vi aspettiamo insieme a cibo e vino e soprattuttoinsieme ai nostri libri che potrete comprare

con uno sconto molto interessante...

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horror

vacuiDisegni di Pam

Testi di Aldo Frangioni

Gli antichi costruirono Valdrada sulle rive d’un lago con case tutte verande una sopra l’altra e via alte che affacciano sull’acqua parapetti a balaustra. Così il viaggiatore vede arrivando due città: una diritta sopra il lago e una riflessa capovolta.

(Dalle “Città invisibili” di Italo Calvino)

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L

Questa settimana ho deciso di dare un po’ di respiro alla California facendo un piccolo salto indie-

tro nel tempo.Siamo sempre negli Stati Uniti, ma stavolta si tratta del mio primo viaggio a New York nell’estate del ’69. Era la prima volta che attraversavo l’oceano e per me è stata un’esperienza davvero unica. Andavo a trovare degli amici che vivevano nel quartiere di Spanish Harlem e questo mi ha fatto entrare senza troppe difficoltà all’interno di zone non propria-mente “turistiche”. Vorrei iniziare questa piccola carrellata con una immagine scat-tata proprio al centro della Grande Mela. Siamo, come dice la pubblicità, nei pressi di uno degli incroci più famosi al mondo. Questo era l’emblematico testo: “Avete un grande futuro dietro di voi, al n.2 di East 42nd Street” Un guizzo dell’occhio mi ha permesso di scattare l’immagine dell’uomo proprio mentre passava davanti al cartellone.

new York City, 1969

Dall’archiviodi Maurizio Berlincioni

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