Cultura Commestibile 170

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N° 1 237 70 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Manuel Agnelli- Afterhours Ritorno a casa Manuel, devi ancora pagare il mutuo? “È solo una stupida villetta con uno sputo di giardino, ma sarà la prima cosa che comprerò, quando sarò ricco”

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N° 123770

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello,

aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Manuel Agnelli- AfterhoursRitorno a casa

Manuel, devi ancora pagare il mutuo?

“È solo una stupida villetta con uno sputo di giardino,ma sarà la prima cosa che comprerò, quando sarò ricco”

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biente, Italia Nostra, WWF, CAI, FAI – e la Rete dei Comitati a difesa del Territorio, coi suoi vivaci nodi Social di Salviamo le Apuane e Salviamo le Alpi Apuane).Per questo, infine, sei mesi fa, quando abbiamo capito che avrem-mo dovuto presidiare e difendere costantemente gli esiti dell’appro-vazione del “Piano Marson”, attra-verso la sua effettiva messa in opera e attuazione sui territori, abbiamo indetto gli Stati Generali delle Alpi Apuane, per il prossimo quattordici maggio. Un appuntamento in cui invitare, senza remore né timidez-ze, tutti gli attori sociali e tutti gli osservatori della vicenda apuana. La battaglia che stiamo condu-cendo non può più essere, infatti, confinata nell’angusto spazio delle vertenze locali. Questa è e non po-trà che essere, d’ora in avanti, una grande questione nazionale.I sintomi della distruzioneTutto, sulle Apuane, ci parla di marmo. Dal Carrione all’Altissimo, dal basamento divorato del Sagro, fino alle tristi lapidi che ci ricorda-no le stragi nazifasciste dell’estate 1944. Quello che non è pacifico ammettere, anche a noi stessi, è come sia stata possibile un’accelera-zione tanto distruttiva del prelievo dell’oro bianco. Un prelievo che ha sostentato placidamente le popola-zioni locali sin dall’epoca romana, e che ha trovato, potremmo dire per inerzia, un equilibrio suo proprio fino almeno agli anni Sessanta del secolo scorso. Poi, la rivoluzione dei trasporti su gomma e l’av-vento del filo diamantato e delle tagliatrici a catena nell’estrazione, hanno decuplicato la pressione sui già fragili habitat apuani. Le cifre sono impressionanti. Sul compar-to insiste, infatti, una cava ogni

tre chilometri quadrati e questa densità cresce a sette cave per kmq nella sola area di Carrara. Sono quasi 600 in tutto, di cui 150 attive, un centinaio delle quali nel solo bacino carrarese. Se all’epoca dei Malaspina (1750) si cavavano circa 5 mila tonnellate/anno di materiale, oggi le quantità annue prelevate assommano a circa 5 mi-lioni (!) di tonnellate. Negli ultimi cinquant’anni, in altri termini, si è cavato quanto non si era riusciti a fare nei precedenti duemila!E i segni della devastazione non sono solo quantitativi. I dati ufficiali di Assindustria ci parlano, infatti, di percentuali di prelie-vo per blocchi che si attestano stabilmente sul 25%. Il resto è detrito, scaglie, polveri di marmo e terre di cava. A Carrara peraltro il dato scende al 21% di blocchi, con cave che nell’ultimo decennio non hanno prodotto che detriti. In parole povere, un modello neocolo-niale, a dir poco predatorio, che ha alimentato il business internaziona-le del carbonato di calcio, impiega-to come sbiancante nell’industria dei materiali edili e della cosmesi (dentifrici in primis). Come si comprende bene dalla crudezza di questi dati, nulla che possa evocare gli scenari emotivamente rassicu-ranti del distretto dello “Statuario Michelangelo” né, tanto meno, quelli della filiera corta.Elia Pegollo, uno dei padri dell’am-bientalismo apuano, qualche tempo fa, ebbe a dire giustamente: “qui da noi, muoiono e scompaio-no prima i luoghi dei ricordi …” Come dargli torto se si guarda, ad esempio, al destino della vetta delle Cervaiole, letteralmente capitozzata dall’omonima attività di cava. Le ferite al paesaggio apuano non

si limitano tuttavia alla skyline dei crinali; si estendono, invece, a macchia d’olio in ogni area sottostante i fronti di cava. Sono i cosiddetti ravaneti, vere e proprie discariche a cielo aperto, costituite dalle terre e dai detriti tracimati dal piano di escavazione. In passato, quando non era ancora arrivato il filo diamantato a tagliare come il burro il marmo, i ravaneti erano fatti essenzialmente di scaglie e col tempo si stabilizzavano. Quasi ri-naturalizzandosi come petraie, permeabili all’acqua e, quindi, spu-gne utili ad una ricarica efficiente e fluida delle falde idriche. Oggi, invece, le sofisticatissime tecniche di taglio creano come scarto prima-rio una micidiale miscela di polveri fini: la marmettola. Vere e proprie nuvole di pulviscolo bianco che, assieme alle terre di cava, s’insinua-no ovunque. In ogni interstizio, in ogni anfratto, impermeabilizzando i ravaneti, rendendoli suscettibili a frane, creando torbide lattiginose nei torrenti, aggravando il rischio idrogeologico nei centri abitati e, con la penetrazione nel sistema car-sico, inquinando le sorgenti. Infine, peggiorando la qualità dell’aria, già compromessa dall’intenso viavai di mezzi pesanti che portano il mate-riale dalla montagna alla costa, solo in parte attutito dall’apertura della nuova Strada dei Marmi.Un’eredità naturale e culturale unica al mondoNon dobbiamo dimenticare, tut-tavia, l’unicità di questo territorio. Uno scrigno prezioso, capace di contenere da solo oltre il 50% della biodiversità regionale. Una stazione meteo/climatica singolare, con dati pluviometrici imponenti e uno sviluppo di habitat che vanno dalla macchia mediterranea alla

Oggi, sabato 14 maggio 2016 a Pietrasanta si svolgono gli Stati Generali delle Alpi

Apuane, evento nazionale in cui tutte le associazioni ambientaliste del nostro Paese e tutti i comitati locali sorti a tutela dello straordinario pa-trimonio ambientale e paesaggistico apuano, si sono chiamati a raccol-ta. Obiettivo dichiarato quello di proporre (attraverso la sottoscrizione di un Manifesto) un futuro diverso e più sostenibile per questo territorio così fragile e, a suo modo, unico al mondo. Pubblichiamo il Manifesto per le Alpi Apuane che costituisce la base dell’iniziativa di Pietrasanta.Siamo in uno dei comprensori più fragili e, al tempo stesso, più belli del nostro Paese. Le Apuane, dette Alpi per il loro aspetto aspro e accidentato, che le fa assomigliare così tanto alla catena montuosa più importante del nostro continen-te, si sviluppano parallelamente al Tirreno per una sessantina di chilometri, da nord/ovest a sud/est, tra i bacini del Magra e del Serchio. Guglie ripidissime, antri, circhi glaciali, grotte, solchi ruvidamente incisi dalla potenza dell’acqua; e ancora, toponimi che ci parlano di un’antropologia locale profonda-mente segnata dall’attività estrattiva e, in particolare, dalla monocoltura del marmo. Un luogo di frontiera, impervio, eppure straordinaria-mente ricco di valori, di tradizioni, di identità, di cultura.Per questo, quando al culmine del-la lotta in difesa del Piano Paesaggi-stico della Toscana, tra il 2014 e il 2015, le associazioni ambientaliste, i comitati, i cittadini, hanno com-preso che sulla tutela delle Apuane si sarebbe consumata una delle battaglie decisive e paradigmatiche della tenuta del Piano, tutti assieme abbiamo deciso di costruire una nuova, grande alleanza. L’unità è sempre superiore al conflitto – ci ricorda in modo convincente Papa Francesco nella sua enciclica Lau-dato Si’. Per questo, ciascuno di noi ha deciso di rinunciare a qualcosa della propria storia e della propria identità associativa, per rafforzare la causa comune. Per questo, è nata ormai un anno fa l’eccezionale esperienza che va sotto il nome di Coordinamento Apuano (luogo d’incontro, di condivisione e di elaborazione politica in cui con-vergono le maggiori associazioni ambientaliste nazionali – Legam-

Coordinamento apuano

Un Manifesto per le Alpi Apuane

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faggeta di alta montagna, fino a praterie primarie e secondarie di eccezionale rilievo ecologico, ricche di endemismi botanici al centro di studi e pubblicazioni dei più autorevoli ricercatori del mondo. Ancora, un’area carsica tra le più importanti d’Europa. Grotte, antri, doline, solchi, inghiottitoi, abissi, per un sistema che conta oltre mille siti d’interesse geologico. L’Antro del Corchia, tra questi, vanta dei veri e propri primati planetari: 70 km di sviluppo complessivo, 1200 metri di dislivello altimetrico, 1800 metri di estensione longitudinale, per una profondità massima di 805 metri. Su queste vette vivono, tra le altre specie, l’aquila reale, il falco pellegrino, il biancone e il gracchio corallino, che col suo inconfon-dibile becco rosso è diventato il simbolo del Parco.Già, perché tutta questa ricchezza naturalistica, dal 1985 sarebbe sotto la speciale giurisdizione del Parco Regionale delle Alpi Apuane, recentemente insignito del titolo di Geoparco Globale della rete Unesco (2011-2015) e riconosciu-to dalla Rete europea Natura 2000 come un eccezionale insieme di habitat tutelati da svariati SIC e da una ZPS addirittura più estesa dei confini del Parco. Usiamo il condizionale in questo caso, non solo e non tanto perché l’Ente Parco in 15 anni è riuscito a fatica ad approvare un Piano, concepito nel ‘98 e già superato, tanto che dovrà subito adeguarsi alla nuova LR 30/2015, quanto per l’enor-me criticità rappresentata dalle sue “aree contigue di cava”. Un unicum giuridico, nel suo genere. Un ossimoro, per altri versi, che permette alle aziende di cavare in aree intercluse nel Parco, come se il Parco e quell’esteso sistema di SIC/ZPS non esistessero. Ebbene, il Coordinamento Apuano si pone oggi l’obiettivo politico di cassare l’incongruenza statutaria, andan-do alla progressiva chiusura di queste 70 cave e alla conseguente inevitabile sostituzione dei vertici dirigenziali del Parco. Vertici che, in questi anni, ci sia concessa questa franchezza, si sono distinti più per la progettazione pilota di frantoi industriali nel cuore della montagna, che per la solerzia nella conservazione della natura. Parafrasando l’ottimo Maurizio Maggiani, il tempo del cavatore dalle braccia forti, col volto arso dal sole, che sognava mentre lavorava,

consapevole del fatto che col suo lavoro ben fatto avrebbe dato vita e sostanza alla sua stessa utopia, quel tempo, dicevamo, è finito. Oggi, sulla montagna apuana, l’occupa-zione giovanile è in caduta libera, le statistiche sulle ludopatie delle fasce sociali più esposte alla crisi sono tra le più alte d’Italia. La progressiva perdita d’identità di questi luoghi, che si associa a un’imperdonabile perdita di umanità nelle relazioni, ha creato spaesamento. Che poi, a ben vedere, è esattamente l’antipo-de etico del paesaggio. Negazione inconscia e profonda del valore identitario del proprio patrimonio territoriale. I tesori geo/naturali-stici, culturali, antropologici che abbiamo poc’anzi descritto non possono perciò essere dissociati da un grande progetto di rinascita civile delle Apuane.Per questo, per la sua unicità plane-taria, occorre tutelare il paesaggio apuano. Per questo va finalmente regolata l’attività estrattiva, indiriz-zandola sui marmi di eccellenza, che sono la vera “materia prima” per una effettiva filiera corta nelle lavorazioni. Per questo, ancora, oc-corre bonificare e riqualificare i siti estrattivi abbandonati e i ravaneti, stabilizzando i versanti e dando finalmente corpo ad un’azione di effettiva prevenzione del rischio idrogeologico, così severo a queste latitudini da aver determinato 15 eventi calamitosi in cinquant’anni. Per questo, infine, vanno contrasta-ti con ogni mezzo lo spopolamento dei borghi montani e i progressivi processi di abbandono delle attività agrosilvopastorali, attraverso l’in-centivazione di un’ospitalità diffusa e la promozione di relazioni più solide tra le aree interne (lunigia-nesi e garfagnine) e la città lineare costiera.Per una “rinascita” delle Alpi ApuaneUn altro effetto indotto dalla monocoltura del marmo è la desertificazione economica e l’impedimento di ogni altra forma di sviluppo locale (dall’agricoltura alla pastorizia, dall’artigianato al turismo). D’altra parte, dati della Camera del Lavoro provinciale di Massa Carrara del 2014 c’indicano in 2.000 gli addetti attuali (tra

diretto e indotto) del settore estrat-tivo. Mentre erano oltre 10.000 solo quaranta anni fa. Un inces-sante e irreversibile calo occupazio-nale, assolutamente disaccoppiato con quella crescente rapacità del prelievo, che abbiamo già descritto. Per questo, è venuto il momento d’invertire la rotta. Per questo, è venuto il momento di dire basta. La nostra è e vuole essere anche una rivendicazione sindacale, che guarda alla dignità e alla sicurezza dei lavoratori, che hanno pagato fin qui un tributo di sangue troppo alto sull’altare dei profitti delle multinazionali del marmo.Per questo, occorre ripartire dalla centralità dei valori umani e dalle enormi potenzialità che ci suggeri-sce l’eredità culturale del territorio apuano. Dalle sue competenze, dai suoi saperi, dalle sue vocazioni più intime. Non vogliamo qui postu-lare improbabili ritorni all’Arcadia. Si tratta, invece, di “liberare” ogni possibile traccia di energia creativa che è latente nel tessuto socio/economico locale. Cercando di riconoscere, rivitalizzare, gestire le relazioni della comunità apuana, mobilitandone le migliori risorse ( individuali e collettive ) in vista di un effettivo sviluppo locale. Non mancano certo dei documenti di riferimento in questa fase, pur convulsa, della storia del nostro Paese: la Convenzione Europea del Paesaggio (2000), la Conven-zione di Faro (2005), il Manifesto Strategico degli Ecomusei Italiani (2015).Pertanto, nella piena consapevolez-za che nel distretto apuano vadano oggi preliminarmente riaffermate quelle elementari condizioni di legalità e sostenibilità dell’attività estrattiva, che dovranno sostanziar-si nella progressiva chiusura delle cave intercluse nel Parco e in un “contingentamento” ragionevole e complessivo del prelievo della risor-sa lapidea, suggeriamo di seguito un pacchetto di possibili azioni per una effettiva rinascita delle Alpi Apuane:1. Riconoscere i territori e i pae-saggi delle Alpi Apuane come beni comuni, sulla scorta delle direttive correlate ai tre ambiti apuani del Piano Paesaggistico della Regione

Toscana, di cui condividiamo filo-sofia e impianto prescrittivo.2. Promuovere in modo capillare e organizzato la conoscenza dei valori identitari del territorio apuano, anche sulla base delle attività del nascente Ecomuseo delle Alpi Apuane, che ha anche funzioni di Osservatorio locale del paesaggio.3. Incentivare il ritorno alla mon-tagna, e, quindi, la promozione di tutte quelle attività agrosilvopasto-rali che alimentano la filiera eno-gastronomica, oltre alle produzioni locali biologiche e di alta qualità.4. Restituire centralità ad un Parco Regionale completamente “rinno-vato” nella dirigenza, riaffermando limpidamente le sue funzioni statu-tarie di conservazione della natura e di promozione dello sviluppo sostenibile locale.5. Sviluppare il turismo sostenibile e la fruizione dei territori apuani, in stretta sinergia col distretto costiero, decongestionando e destagionalizzando i flussi dalla conurbazione balneare a vantaggio dell’ospitalità diffusa in quota.6. Porre le basi conoscitive e procedurali, di concerto con le amministrazioni locali, per favorire l’autoproduzione energetica da fonti rinnovabili (geotermia a bassa entalpia, biomasse, microeolico, fotovoltaico, etc.).7. Favorire la ricerca e l’innovazio-ne, attraverso il rafforzamento delle relazioni con tutti i poli universi-tari della Toscana (Università di Firenze, di Siena e di Pisa, Scuola Normale Superiore e Scuola Supe-riore Sant’Anna).8. Creare un tavolo di crisi con tut-ti gli attori del comparto estrattivo, Sindacati in testa, per condividere e ottimizzare gli effetti sociali di una diversa e più sostenibile modalità di prelievo della risorsa lapidea.9. Creare i presupposti giuridici e socio/economici per una economia circolare, che sappia intercettare l’e-norme mole di materiale di scarto del distretto marmifero, ai fini di un suo virtuoso riciclo nell’indu-stria edile e del restauro.Il Coordinamento Apuano, nel presentare queste linee comuni di azione, fa sua la filosofia di quell’antico proverbio cinese, che recita: “Quando gli indico il cielo con un dito, lo sciocco guarda il dito” e su questa suggestione, che è innanzitutto morale, chiama tutti a guardare il cielo e a immaginare le Alpi Apuane finalmente libere dalla distruzione e dall’umiliazione.

9 punti per far rinascerele montagne di marmo

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“Guardi, a me quello che si scrive con il suo fidanzato non interessa: devo fare il mio lavoro e controllare il biglietto. Per favore...”.“Va bene, che noia! Guardi, ho mandato l’sms per ricevere il bigliet-to online... ecco, aspetti un attimo che lo cerco sull’iphone...”.“Veramente l’sms dovrebbe essere mandato prima di salire a bordo e controllare se è arrivato, sennò si fa troppo i furbetti qui”.“No, ma come? Non vorrà mica du-bitare di me, vero? Ho anche scritto un post sul mio facebook. Guardi qui: Oggi, incredibilmente, come tutti gli esseri umani normali, sono

sulla tramvia. #vadointram”.“Senta signorina, a me de’ su’ post, facebook tweet ‘un me ne può frega-re di meno: se c’ha ‘i biglietto bene, sennò le fo’ la multa. Senza tanti discorsi”.“Ma che insolente. Guardi io devo andare a Bruxelles...”.“Signorina, qui su ‘i tramme si va al massimo a Villa Costanza. Via Bruxelles a Firenze ‘un c’è: che mi vole prendere in giro? Favorisca ‘i biglietto!”.“No, non ha capito: io devo andare a Bruxelles, la capitale del Belgio, dove hanno sede le istituzioni euro-pee... non so se mi spiego”.

“Signorina, lei si spiega benissimo: non ha il biglietto, sicché la mi dà un documento, io le fo’ ‘i verbale e festa finita”.“Ma io il biglietto volevo farlo, poi ho dovuto fare urgentemente un tweet su #matteoricordatidime, e mi è passato di mente. Ma ho annunciato su facebook che andavo in tramvia quindi vuol dire che lo avevo fatto!”.“Oh signorina, qui ‘un siamo mica nel governo Renzi: ‘un basta annun-ciarle su facebook le cose, bisogna farle! Via, la mi dia un documento: ma davvero, non me lo annunci!”.“Ecco qua: Simona Bonafè, nata a Varese il 12 luglio 1973, residente a Scandicci...”.

Oggi ogni politico per esser tale deve aver un rapporto col proprio popolo, ancor di più se fa il sinda-co e, complice l’elezione diretta, si sente investito del proprio potere proprio da quel popolo. Un’inve-stitura che legittima lo scavalcare i cosiddetti corpi intermedi e a tenere con il proprio elettorato un rapporto diretto. Aggiungeteci i social e quello che otterrete sono primi cittadini (e interi staff) che passano ore sulla tastiera. Si badi bene la cosa ha aspetti assolu-tamente positivi, salvo qualche rischio. Come è accaduto per esempio al sindaco di Scandicci Fallani che ha pensato di cogliere l’occasione della busta arancione dell’INPS per dimostrare (sa-crosantamente) che la sua lunga attività politica non gli frutterà alcuna pensione d’oro ma anzi. Peccato però che nella ricostru-zione contributiva della vita lavo-rativa fatta dallo stesso sindaco si scopra, per sua stessa ammissione, che il suo attuale incarico di lavoro in uno studio professionale sia iniziato pochi giorni prima della sua messa in aspettativa per funzioni istituzionali come asses-sore nella scorsa giunta comunale. Uno stratagemma utilizzato an-che dal premier Renzi, promosso dirigente dell’azienda di famiglia, pochi giorni dopo la candida-tura blindatissima a Presidente della Provincia. In questo modo, una volta posti in aspettativa, i contributi figurativi degli eletti

Scene di ordinario controllo sulla tramvia Firenze-Scandicci.“Buongiorno signorina, biglietto prego”.“Sì, ho fatto quello elettronico; mi scusi, finisco di mandare questo mes-saggino. Caro Matteo, perché non mi consideri più? Mi hai mandato su nel Benelux e ti ringrazio, ma poi mi hai dimenticato: cosa ho fatto di male? Posso ancora dare molto alla nostra rivoluz...”.“Scusi signorina, ma io dovrei fare il controllo. Ho anche altre cose da fare. Il biglietto me lo fa vedere o no?”.“Uffa, ma scusi sto scrivendo a Mat-teo, un momento di pazienza!”.

“Guarda non c’è compenso ma la tua visibilità, da una cosa come questa, ne trarrà un gran beneficio”. Chissà quante volte al giorno, promoter, organizzatori di sagre e feste di partito, gestori di locali con angolo palco, presidenti di associazioni culturali, ma anche impresari e imprenditori vari usano questa frase con artisti, musicisti, grafici e creativi in genere. Una forma di economia dove il baratto si fa immate-riale e il cambio merce impalpabile. Una piaga ben nota che mortifica fior di professionisti (gli artisti) e da’ la misura dello stato dell’economia della cultura del nostro paese. Un mercato anch’esso molto immateriale. Fin qui una triste realtà quotidiana, fino a quando a proporre, seppure ad artisti affermati, di lavorare gratis è il Ministro Franceschini, per la festa della musica. Insomma da oggi ogni organizzatore della sagra dell’anguilla si sentirà legittimato a proporre alla cover band di turno: “Suonate da noi, ci son migliaia di gente (sic) e vi fate una pubblicità che non immaginate nemmeno, ne guadagnerete di sicuro, fan così anche al Ministero”.

riunione

difamiglia

i Cugini engels

i nipotini di Bakunin

le sorelle marx

La pensione del sindaco Giani al Giro d’Italia

Pagare in visibilità

Ultima fermata: Bruxelles

lo Zio di trotZky

sono a carico della collettività e non del datore di lavoro. Un meccanismo che ha garantito, garantisce e garantirà almeno una pensione (quasi mai d’oro) a tanti cittadini che si sono impegnati per la cosa pubblica, ma che rappresenta un’evidente stortura normativa, come i vitalizi. In tempi di moralismo da tastiera la cosa non è passata inosservata e anzi sta creando qualche polemica al sindaco e qualche imbarazzo al suo partito: capita se si pensa che le riforme da fare siano sempre quelle degli altri.

Come già Totò, anche il Nostro Eugenio Giani non si è fatto mancare l’emozione di partecipare al Giro d’Italia. Si ricorderà il film di Mario Mattioli del 1948 in cui Totò, nei panni del professor Casamandrei, innamoratosi di Doriana, partecipa al Giro perché solo vincendolo la sua amata gli si concederà in sposa. Pur di ottenere l’agognata meta Totò vende l’anima al diavolo (Filippo Cosmedin) e, tappa dopo tappa, l’outsider Totò si aggiudica la maglia rosa, ma la vittoria del Giro porterà, per il contratto firmato col sangue, a morte e dannazione. Tutto finisce bene: il professore si fidanza con Doriana e al demonio Cosmedin, pentito, viene data l’occasione di redimersi lavorando come domestico in casa della signora Casamandrei.Giani, si sa, ha ceduto l’anima al demone Matteo Renzin in cambio della sala di Clemente VII in Palazzo Vecchio, ma la condizione è che dovrà vincere il Giro d’Italia; salvo poi venir rottamato il giorno dopo. Ecco perché Eugenio teme di vincere il Giro, ma non può non metterci la faccia. Così al Palazzo Enel sul Lungarno Colombo a Firenze, alla mostra su Emilio Ciolli (ciclista fiorentino degli anni ‘60), si è fatto immortalare nel pannello del ciclista in maglia rosa. “Viva il ciclismo, pri-mo grande sport popolare in Italia!! #vivatoscana”. Ma poi, pare abbia precisato al demone Renzin: “si fa per scherzare Matteo, eh: mica lo voglio fare davvero il sindaco di Firenze”. Pregevole iniziativa.

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Ma, mi pare che la risposta sia abbastanza ovvia. Si tratta di una location - mi si passi il termine, ma nel caso specifico mi pare idoneo – e la piazza è il luogo di spettacolarizzazione, di messa in scena, così che “di permanente c’è ben poco…” come affermava Sergio Risaliti nella sua intervi-sta.Passate un po’ di tempo di fron-te alla Tartaruga d’oro (opera che a me, confesso, piace…). Luogo di richiamo per i turisti, che concentrano su di essa, come è naturale, la loro atten-zione, facendocisi fotografare di fronte. Avete mai visto qualcu-no (mi pare neanche le guide turistiche…) che si soffermi, a pochi metri dall’opera di Fabre, ad osservare quel capolavoro del Giambologna che è la statua equestre di Cosimo dei Medici, su un piedistallo con magnifici bassorilievi, “ripresa” – a riprova della sua fama - nella analoga statua per Filippo III di Spagna in piazza Mayor a Madrid. Quindi la risposta è semplice: “si fanno operazioni che lasciano molto poco a Firenze rispetto

a quanto ne traggono gli artisti e i loro galleristi” (Le sorelle Marx, Cultura Commestibile, 16 aprile). Ed è naturale che sia così, perché anche la politica si è avviata, a livello mondiale ad es-sere “money”, e così – ricordava Guido Rossi sul Sole 24 Ore di domenica scorsa - segue il detto di Andy Warhol: “art is money”.Poi vi è l’attore principale – e spesso unico - delle scelte citta-dine: il turista. Lo si fa per lui!Vengo all’altro tema: il trasferi-mento di opere d’arte, realizzate per essere pubblicamente viste, in un museo. Iniziativa che sottrae qualche cosa ai cittadini di quel luogo, che tuttavia deve essere – in molti casi – attuata per proteggerle e renderle quindi fruibili (ma non sfruttabili, il che è diverso) per il futuro. Si tratta di un equilibrio – fra fruizione dell’originale nel suo contesto all’esterno e protezio-ne/restauro – su cui non ho le competenze di entrare e che va ricercato caso per caso. Io sono ben felice che statue e formelle del Duomo, del campanile di Giotto, del Bat-

tistero, siano state restaurate e superbamente esposte, insieme alle porte, nel nuovo Museo dell’Opera. Capolavori che da studente ginnasiale “scoprivo” in piazza del Duomo con i miei compagni di classe, settimana dopo settimana, sotto la guida di un giovane supplente - allora queste erano le gite scolastiche - Mario Bucci, studioso delle si-nopie delle Cimitero di Pisa, che aveva fortunatamente sostituito il titolare.Ora tutto ciò è accessibile ai turisti, per un tour di 48 ore di una serie di monumenti e mo-stra in Palazzo Strozzi, ma non a mio nipote, che avendo 13 anni deve pagare il biglietto intero, 15 € - come peraltro (credo uni-co museo al mondo!) residenti, studenti, insegnanti, anziani. Ma, in primo luogo, che non può – e non deve – transitare

per enormi spazi e trangugiare un insieme di capolavori e mo-numenti tutti di seguito, come può fare un turista (un invito però al mordi e fuggi turistico che si dice di voler contenere!), ma tornarci 5 – 10 volte in un anno! “Il successo di un museo – scriveva Georges-Henri Rivière - non si valuta in base al numero di visitatori che vi affluiscono, ma in base al numero di visitato-ri ai quali hai insegnato qualco-sa. Non in base alla sua super-ficie, ma alla quantità di spazio che il pubblico avrà percorso traendone un vero beneficio”.Ho partecipato alla campagna per il restauro del mio Battiste-ro: contributo, tramite Coop, sia mio che di altri familiari; cena, piacevole e dispendiosa, di sotto-scrizione etc. Poi qualche mese fa sono andato per affacciarmi al Battistero e far vedere alla nipo-tina i mosaici… Non mi hanno fatto entrare.La campagna di restauro si tito-lava: “Ho abbracciato il Battiste-ro”. Ma… il Battistero non ha abbracciato me!

La Tartaruga di Jan Fabre in piazza della Signoria? Ratto delle Sabine in un

museo? Vi è un nesso fra i due quesiti? Forse si, almeno agli occhi di un cittadino, sprovveduto, come il sottoscritto, su tali problemati-che…Mi pare che la questione che si pone, a ponte fra i due inter-rogativi, è: Perché si fa? Per chi si fa? Cioè per quale motivo un’opera viene collocata in uno spazio pubblico e cosa si intende offrire, lasciare, tra-smettere alla città. Abbellire una piazza? Tributare un omaggio a personaggi illustri e che hanno reso un servizio alla città, come il Gattamelata di Donatello a Padova, o il più “modesto” Mo-numento equestre a Giovanni Acuto di Paolo Uccello. “Mo-desto” perché, malgrado voluto a Cosimo dei Medici, si dovette eseguire non in forma scultorea, ma dipinta, a riprova del valore, della forza simbolica delle opere, così che i cittadini di Firenze non avrebbero accettato una statua equestre, poiché allusiva a un Impero, una Signoria, e non a una Res publica!Oppure un’opera intende dare un diverso significato, una nuova identità ad un luogo? Ovvero ricordare i propri concit-tadini morti per la Patria, con i tanti – talora bellissimi, sempre commoventi - monumenti che identificano anche luoghi ormai quasi disabitati? Forse suggerire un confronto fra epoche e artisti, richiamare l’in-fluenza dell’antico sul contem-poraneo, farci comprendere le radici di un’opera che ci sorpren-de, o la cultura di un artista che innova in modo dirompente? Per questo si espone nello stesso contesto la Madonna della Mise-ricordia di Piero della Francesca con la Silvana Cenni di Caso-rati, una scultura Africana con un’opera di Picasso, il ritratto di Innocenzo X di Diego Velasquez con l’urlante cardinale, dal volto straziante e deforme, di Francis Bacon.Veniamo quindi alla tartaruga o alle opere di Jeff Koons recen-temente collocante, a turno, in piazza Signoria. Perché si fa? Perché in quel luogo?

Ho abbracciato il battistero,il battistero non ha abbracciato

di marCo geddes

ma…me

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non disdegna di usufruire delle sale di posa degli studi fioren-tini, come quello degli Alinari, con cui ha un ottimo rapporto, fino a diventare nel 1899 il loro direttore amministrativo, oppure affittando la terrazza della Società Fotografica Italiana, di cui è socio ed in cui ricopre per un certo periodo la carica di sindaco. Mol-to più tardi, a partire dal 1924, si-stema per proprio conto una sala nella mansarda della sua nuova abitazione in un palazzo di Borgo Albizi. Farsi fotografare da Mario Nunes Vais diventa ben presto una moda, a cui il fotografo non si sottrae, ed oltre ai fiorentini, non vi è personaggio illustre che, passando da Firenze, non si fermi per farsi fare il ritratto da questo fotografo-artista che non ama neppure stampare le foto, figuriamoci se si dedica al ritocco. Davanti al suo obiettivo sfilano tutti, militari e politici, religiosi e scienziati, nobili ed intellettuali, ministri e principi regnanti, attori ed attrici, cantanti e musicisti, poeti e scrittori, pittori e scultori, giudici ed avvocati. L’elenco dei personaggi che si fanno ritrar-re da Mario Nunes Vais e che hanno per lui parole di lode e di riconoscenza è sterminato, da Gabriele D’Annunzio ad Emma Gramatica, da Benedetto Croce a Lyda Borelli, da Leopoldo Fregoli ad Eleonora Duse. Praticamente non esiste personaggio pubblico che rinunci a farsi fare uno o più ritratti, come Filippo Turati ed Anna Kuliscioff in occasione del congresso socialista del 1908, o come il gruppo dei futuristi (Palazzeschi, Papini, Marinetti, Carrà e Boccioni) in occasione della mostra del 1913. La sua grande capacità di comunicazio-ne gli permette di tessere rapporti di amicizia con tutti, ognuno si sente a proprio agio e si mette in mostra davanti a lui, in pose più o meno studiate o più o meno spontanee, sempre in sintonia con la personalità di ciascuno, senza costrizioni da parte del fotografo, che ama effettuare per ogni persona più di uno scat-to, variando il punto di vista e l’inquadratura. Nel suo archivio sono moltissime le immagini degli stessi attori ed attrici, in abiti borghesi ma più spesso in differenti abiti di scena, quasi a mostrare i diversi volti della stessa multiforme personalità.

Ci sono fotografi che passano alla storia per l’eccezionalità delle loro testimonianze,

altri per l’impegno civile e sociale dimostrato, altri ancora per l’ori-ginalità delle loro scelte lingui-stiche. Poi ci sono i fotografi che svolgono il loro lavoro in maniera del tutto normale, costante e ripetitiva, ma non anonima, ac-cumulando immagini su imma-gini e traendo da questa attività professionale di che sfamare la propria famiglia, concedendosi anche qualche piccolo lusso e pas-sando alla storia grazie all’entità dei loro archivi. Il fiorentino Ma-rio Nunes Vais (1856-1932) non appartiene a nessuna di queste categorie, e pur avendo scattato nel corso della sua vita decine di migliaia di fotografie (stimate fra le sessanta e le settantamila), non ne ha mai sviluppate o stampate nessuna, lasciando queste opera-zioni ai laboratori della sua città, come Alvino, Bencini e Sansoni, o Salvini. Pur avendo realizzato migliaia di notevoli ritratti di tutti i principali protagonisti della vita politica, economica, artistica e culturale dell’epoca, egli non ha mai accettato una lira in cambio delle sue prestazioni, di livello più che professionale. Mario Nunes Vais, agente di cambio come il padre, svolge una attività lavora-tiva che gli permette di coltivare agevolmente la passione per la fotografia, in maniera del tutto distaccata, ma non per questo disimpegnata. Inizia ad occuparsi di fotografia attorno al 1885, quando le lastre alla gelatina secca preparate industrialmente liberano i fotografi dall’ingrato compito della preparazione delle lastre e permettono loro di agire in maniera molto più concentrata e priva di preoccupazioni di tipo tecnico. Dopo una prima fase in cui si dedica, come la maggior parte dei fotografi dilettanti, ai paesaggi ed alle scene di strada, specialmente in occasione di feste o manifestazioni pubbliche, passa con sempre maggiore decisione al ritratto, che diventa dall’inizio del nuovo secolo il tema dominante delle sue immagini. Non dispo-nendo, per scelta, di una vera e propria sala di posa, accoglie gli amici ed i conoscenti in una stan-za posta al piano terreno in Borgo Ognissanti, ma per comodità

di danilo [email protected]

Fotografo aristocraticoMario Nunes Vais

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polemizzò e si confrontò con la pittura figurativa del primo Novecento. L’artista sperimentò la resa formale di vari materiali per definire l’Arte non come un fine, ma come un mezzo per fissare concretamente nuovi postulati universali e porsi contro la parola ormai in dissol-venza e incomunicabile. Nelle opere dell’artista v’è un’energia originaria che pulsa e prende vita nello spessore indicibile del mondo e del vissuto. Non a caso Fernando Melani conciliò le proprie istanze artistiche con una personale filosofia di vita, non solo abbracciando le cor-renti materialiste, ma anticipan-do il sentire comune di un’Arte diversa, in grado di abbracciare più linguaggi da quelli “poveri” a quelli “concettuali”, da quelli

“minimali” a quelli marcata-mente “pop”, vertendo nella direzione di un fare artistico teorico e intenzionale fuori dagli schemi precostituiti. Di fatto il comune denominatore degli ar-tisti della generazione prebellica fu la presa di coscienza dell’in-dicibilità del vecchio linguag-gio pittorico e la conseguente messa in luce di un’esigenza sperimentale affine e dissimile dalle avanguardie storiche: una rottura e uno scarto dalla norma più ponderato e più intellet-

tuale, più conscio e adeguato a una società in trasformazione. La pittura divenne supporto artistico là dove l’esistente si an-nullava in virtù dell’astrazione e della riflessione sulla materia, la quale prese vita e divenne un mezzo di comunicazione con-creto e tangibile. Il Teatrino di Fernando Melani unisce il gesto artistico alla volontà di ‘mettere in scena’ un nuovo linguaggio e una nuova forma d’espressione più autentica, contro l’indicibi-lità del contemporaneo.

Fernando MelaniContro la paroladi laura monaldi

[email protected]

Se è vero che l’esperienza estetica si modifica in conseguenza degli eventi

storici, molti estetologhi posero la questione dell’impensabilità dell’Arte dopo “Auschwitz”. Lo stesso Theodor Adorno, in Prismi sostenne che l’arte della nuova modernità doveva nascere dalla negazione del passato, addentrarsi nell’ignoto e doveva essere autonoma e avere lo sforzo etico di automotivarsi, attuando una nuova missione universale. Di conseguenza l’Arte del secondo dopoguerra non doveva configurarsi come mimesis, bensì manifestarsi negli aspetti plurimi e legittimi del linguaggio e dell’attività comunicativa: in tal senso l’Arte si fece politica, alterità e fenomenologia, negando e procedendo oltre l’esistente. Fernando Melani seppe coniu-gare la scoperta del linguaggio astratto alla riflessione teorica sulla materia, creando un’e-sperienza artistica singolare e chiusa in un individualismo che

Sopra Agesto, 1958, Tecnica mista su pannello, cm. 73,5x52A sinistra Teatrino, 1976, Ferro zincato, colore solidificato cm. 60x56x56

Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

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Union, 1954-1988 (Oxford Uni-versity Press, 1990) e il più recente Es brennt der Wald... Die Rocks-zene im Ostblock (Neues Leben, 2008), curato da Gerd Dehnel e Christian Hentschel. Da noi il tema non ha mai ricevuto grande attenzione, se si eccettuano articoli sporadici su giornali specializzati come Ciao 2001 e Gong.

In Italia il primo libro dedicato a questo tema è uscito soltanto da poco: si tratta di Rock oltre cortina: Beat, Prog e Psichedelia nei paesi del Blocco Comunista 1963-1978 (Tsunami, 2016).L’autore è Alessandro Pomponi, un giornalista e collezionista romano che da molti anni dedica un’attenzione meritoria al rock dell’Europa centrale e orientale. Questo libro è l’approdo coeren-te del suo impegno prezioso in questo campo. Il limite temporale ha un motivo preciso: l’autore analizza l’influenza che il rock anglossassone ebbe nell’Europa comunista ormai consolidata ma già segnata dal dissenso. In questo ambiente che aspirava alla libertà molti gruppi ungheresi, cechi e polacchi svolsero un ruolo di primo piano. Per questo furono osteggiati o perseguitati dal potere. Si trattava di fermenti importanti ma trascurati in Italia, dove molti

Giovedì 14 aprile, Alessandro Vezzosi, direttore del Museo Ideale Leonardo Da Vinci e Agnese Saba-to, storica, presidente dell’Associa-zione Internazionale Leonardo Da Vinci, hanno presentato i risultati di uno studio multidisciplinare per ricostruire la genealogia di Leonardo con l’identificazione dei discendenti viventi. Questa ricerca, ancora in corso, è iniziata teoricamente nel 1969 e concretamente nel 1973, con un metodo d’indagine globale e d’intreccio di dati eterogenei. Alle fonti bibliotecarie, archivisti-che e catastali, sono state affiancate quelle relative ad abitazioni, chiese e cimiteri, ricorrendo, quando possibile, anche alle tradizioni e memorie personali.È stata verificata la continuità della discendenza diretta per linea ma-schile di un fratello di Leonardo, Domenico Matteo, fino ai giorni nostri.Sono state trovate molte famiglie omonime ed essenziale è stata la distinzione tra i “Da Vinci”, i “da Vinci” e poi i “Vinci” e la considerazione della discendenza femminile, prima esclusa.Nel 2008 i precedenti alberi genealogici erano stati aggiornati fino alla metà del Cinquecento,

in base alle ricerche di Elisabetta Ulivi. Ora Sabato e Vezzosi hanno aggiunto oltre centocinquanta avi e discendenti ai circa centotrenta noti: dagli antenati in Spagna ai ben quarantuno oggi in vita. Per questi, le ricerche sul XX e XXI secolo sono state facilitate anche dalla collaborazione di uno dei discendenti viventi di Ser Piero, Giovanni Calosi, figlio di Dina Vinci, che le ha tenute segrete con Sabato e Vezzosi per nove anni.I due studiosi hanno precisato come, da un ramo parallelo ai Vinci, sia apparso anche il nome di Gianfranco Corsi, il Maestro Fran-co Zeffirelli: non per parentela, bensì per affinità, per un matrimo-nio nel 1794. L’individuazione di alcuni discen-denti in linea diretta maschile consentirà di acquisire il DNA per un possibile e rigoroso confronto scientifico con reperti biologici di

antiche sepolture.Dal Museo Astronave al Museo IdealeDurante una delle prime iniziative del Museo Ideale a Vinci, lanciai come provocazione un divertisse-ment dal titolo Museo Astronave, partendo da due acrostici: Metafo-ra-Utopica-Solare-Emozione-Orche-strale oppure Mummia-Usata-Sen-za-Entusiasmo-Orchestrale?Essere fresco come una rosa o essere un pezzo da museo?Insomma museificare è mum-mificare, oppure museificare è reinventare? È sacralizzare, oppure o anche dissacrare?Ho sempre concepito un museo ideale, come luogo di conoscenza e di emozione predisposta, sorta di astronave, che dal passato al presente sia capace di proiettare nel futuro, ritenendo il mito di Gradi-va sviluppato da Freud, ancor più attuale.L’impatto con un’opera d’arte è tensione dialogica e polemica, è liberarsi da un’idea dogmatica di verità e bellezza, stimolo alla produzione di pensieri attivi.E il pensiero attivo è leonarde-sco, perché come Leonardo sogna

di volare.I pensieri attivi sono idea-azioni, piste di ricerca, avanzate con deter-minazione, come questa protrattasi per ben quarantatré anni.Durante la serata per la prima presentazione dei suoi risultati con i cittadini di Vinci e una larga rap-presentanza della stampa interna-zionale, ci siamo domandati quale significato può assumere vivere in luoghi come questi, così ricchi di nobili tracce, dove il paesaggio non è solo fisicità, ma arte e cultura. Paesaggio di “poesia vivente”, lo avrebbe definito Andrea Zanzotto.Infatti Vezzosi e Sabato lo hanno assunto come documento per i loro studi, cercando quella verità che sta dentro: negli edifici, nelle strade e nelle tracce che lo costel-lano.Una rilevante importanza hanno avuto anche le testimonianze orali raccolte.Il ricordo è capace di trasformare la parola ricordata, in parola pensata, la parola pensata in parola agita, il passato in presente, pronto a diventare futuro.Così lo spazio dell’io diventa spazio del noi e la ricerca di due studiosi si fa pensiero attivo per un’intera cittadinanza e base per ulteriori ricerche nel mondo intero.

Fra la metà degli anni Sessanta e la fine del decennio succes-sivo Settanta si sono avvicen-

dati il beat, la psichedelia e il rock progressivo, ciascuno dei quali ha vissuto la sua stagione d’oro. Non soltanto in Gran Bretagna, ma anche in altri paesi europei, come Francia, Germania e Italia. Poi, piano piano, Londra ha perso il monopolio, ma nonostante questo la divisione dell’Europa non ci ha permesso di conoscere i fermenti musicali del blocco sovietico. In altre parole, l’interesse per la cul-tura ungherese, croata o slovacca è stato soffocato nel nome dell’anti-comunismo.Per fortuna non tutti si sono conformati a questa logica. Infatti esistono vari testi sulla mu-sica rock dell’Europa comunista, soprattutto in inglese e in tedesco. Fra i più interessanti, quello di Timothy W. Ryback, Rock Around the Bloc: A History of Rock Music in Eastern Europe and the Soviet

ambienti politici che si dichiarava-no alternativi sostenevano di fatto le dittature in questione.Fra tanti libri che si propongono invano come un’enciclopedia tascabile, eccone finalmente uno che non aspira alla completez-za, ma sceglie un breve periodo storico esplorandolo con passione e competenza. Grazie al corredo fotografico scorrono davanti a noi centinaia di copertine, fotografie e altro materiale dell’epoca. Scavando con pazienza in questo giacimen-to ignoto scopriamo che questi gruppi, pur essendo legati al rock anglosassone, avevano anche in-fluenze folk e classiche. Del resto, stiamo parlando dei paesi che ci hanno dato Bartók, Chopin, Janacek, Liszt, Smetana…Infine, l’autore merita un ringra-ziamento sincero, perché un libro come questo lo aspettavamo in tanti, da tanti anni.

Ribelli dell’altra Europadi alessandro [email protected]

di sandra [email protected] I Leonardi contemporanei

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la pubblicità, molti suoi quadri venivano riprodotti, pensate, sui tubetti del dentifricio Durban’s. Sulla lapide della sua tomba, cimi-tero Acattolico di Roma, si legge il suo amato aforisma “L’unico vero e supremo scopo dell’arte della pittura è stato e sarà sempre quello di ottenere l’illusione della realtà”.La recente mostra che lo ha omag-giato, riscoprendone la grandezza, Firenze, Villa Bardini, ha assunto come titolo “l’illusione della realtà”.

Quadretto pubblicitario, piutto-sto grande (40x50) degli anni’60 che promuove la Durban’s ed offre la riproduzione del quadro, degli anni ‘30 in realtà, “L’an-golo del fumatore” di Gregorio Sciltian. Molti intrecci come si vede. Durban’s era una linea di prodotti per l’igiene orale e non solo, dentifricio, colluttori, spazzolini, ma anche saponette, prodotta dal gruppo Bonomi. Dirò di Anna Bonomi solo che inventò le vendite per posta dopo consultazione dell’apposito, famo-sissimo, catalogo “Postal Market”, meccanismo che può ritenersi l’antenato delle attuali tele-web vendite. Un baffuto e strampalato Carlo Dapporto, in un famoso Carosello, asseriva convinto “se volete avere successo procuratevi un sorriso Durban’s!” Per indicare qualcuno con un certo suasivo fascino divenne abituale dire “ha un sorriso Durban’s“,ovvio che il senso diveniva anche subito di grande ironia. Regista di molti di questi sketch fu Luciano Emmer, l’inventore di Carosello, che aveva, prima, girato vari film fra cui ‘Parigi è sempre Parigi’, ‘Le ragazze di Piazza di Spagna’ e ‘Terza liceo’, piacevoli storielle di gente comune dalla nuance neorealista e prime commedie all’italiana. Ed eccoci infine a Sciltian, pittore di ricca famiglia armena, nato con il secolo scorso, fuggito per la rivoluzione di ottobre, si dedica allo studio dei pittori classici in varie città europee, apre uno studio a Roma e poi si stabilisce a Milano. Famo-sissimo nell’epoca fascista, ritrasse con stile iperrealista gerarchi, attori e personaggi famosi. De Chirico lo definì “un burattinaio orientale e “un creatore di spettacoli dipinti”. La sua pittura recupera la tradi-zione caravaggesca e fiamminga e restituisce con perfezione lentico-lare e fotografica persone, oggetti e situazioni che lo hanno ispirato. A Gardone Riviera possedeva una bella villa il cui acquisto, si narra, fu reso possibile dalla vendita di un solo quadro ”Bacco in oste-ria”(1936) che due gerarchi fascisti si contesero al rialzo fino a fargli raggiungere una cifra da capogiro. La vedova, nel 1988, ha donato 16 tele sue e molte opere della sua collezione privata al Vittoriale de-gli Italiani dove tuttora si trovano. Altre ricchezze gli giunsero con

a Cura di Cristina [email protected]

Ttip. Non è il nome di un ballo, ma l’acronimo di un ac-cordo transatlantico, tra Europa e Stati Uniti sul commercio e gli investimenti. Un accordo tenuto “segreto”. Fino ad oggi non se ne è parlato. Le tratta-

tive si sono svolte solo a porte chiuse. Un accordo che, pare, piaccia tanto agli americani e ai vertici dell’Unione Europea. Un accordo che però - in base alle indiscrezioni trapelate – non piace affatto ai produttori e con-sumatori europei, italiani com-presi. Tanto che pochi giorni fa, nell’indifferenza dei media, oltre 300 associazioni sono scese in piazza San Giovanni a Roma per dire “Stop al Ttip”. La cosa ci riguarda, eccome. Interessa sia i consumatori che i produttori di alimenti. Con il Ttip - dicono - si apre la via alle produzioni di bassa qualità. Ad esempio, si spalancherebbe le porte all’olio di oliva norda-fricano, di modesta qualità. Per i nostri coltivatori sarebbe una rovina e poi - aggiungono - il Ttip non prevede la reciprocità. E ancora: un mercato unico ab-basserebbe gli standard al livello Usa, mentre qui da noi siamo molto più avanti nella tutela dei consumatori. In Europa è vietata la sperimentazione dei cosmetici sugli animali, mentre

in Usa si può anche clonare. I benefici? Solo per le multinazio-nali, dice Slow Food, a danno dei piccoli produttori e senza il rispetto delle regole per la sicu-rezza alimentare. Insomma, per i coltivatori, allevatori, associa-zioni e sindacati, il Ttip non è un rischio ma una sciagura.Ora Italia ed Europa ci faccia-no sapere cosa prevede questo accordo, come stanno davvero le cose. Tanto per dire: da noi è proibito vendere alimenti fino a quando non viene provato che non sono dannosi per la salute; negli Usa invece accade il contrario: vengono proibiti solo dopo che hanno fatto danni alle persone. Questo accordo non deve cancellare, né ridurre le garanzie per i consumatori e l’Europa deve mantenere intatta la sovranità sulle normative sanitarie e ambientali.Facilitare gli scambi va benissi-mo, ma senza svendere i nostri valori, né la qualità dei nostri prodotti, né i diritti dei consu-matori che vogliono continuare a sapere cosa mettono in tavola.

di remo Fattorini

Segnalidi fumo

L’angoloDurban’sdi

dalla collezione di Rossano

Bizzariadeglioggetti

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Cresce il numero dei francesi vegetariani e vegani

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

Il migliore dei Lidi possibili

Canons des plumages pour nom de plume

di lido [email protected]

Qualche mese fa in un articolo intitolato “La rivoluzione verde è in

corso” apparso su Le Figaro si leggeva che in Francia (patria del foie gras) sono sempre di più i vegetariani e i vegani tanto che in molti dei ristoranti e bistrot più alla moda vengono proposti menù adatti insieme a quelli tradizionali. L’articolo sottolineava che la diffusione di questo regime alimentare è dovuta non solo alla moda ma anche e soprattutto al desiderio di andare verso un’alimenta-zione più etica e dieticamente corretta. Ormai infatti è noto che la zootecnica è responsabile del 14,5% delle emissioni di gas ad effetto serra. Sono poi in aumento le intolleranze ali-mentari e il piacere di ritornare alla stagionalità e all’origini del prodotto. Sembra un dibattito di estrema attualità e invece ho trovato nell’archivio storico dello stesso giornale, fondato nel 1826, alcuni articoli di fine 800 e inizi 900 pro e contro la dieta vegetariana, scritti con la stessa enfasi e gli stessi argomen-ti di quelli contemporanei. Mi è sembrato interessante riportarne alcuni brani. Il termine Vege-tariano compare in un articolo de Le Figaro già nel 1888. Si capisce che l’autore è molto critico e con enfasi ironica scrive che il fine della Société Vég-étarienne de France, fondata per riformare l’alimentazione, “ha in realtà un fine più alto: il suo obbiettivo è infatti la rigenera-zione dell’umanità. Secondo la dottrina di questi fanatici dei legumi un uomo che mangia solo spinaci diventerà presto superiore ai miserabili che cedono alla tentazione davanti ad uno stufato di manzo o a un pasticcio di beccacce”. L’artico-lo continua informandoci che i vegetariani francesi sono in numero molto minore dei loro vicini inglesi, tedeschi e svizzeri forse per i disagi che incontra-no a sposarsi “con chi ha una religione alimentare differente”. Ma il caustico giornalista preve-de che il problema possa essere in futuro facilmente risolto con l’apertura di agenzie matrimo-niali per sole anime vegetariane in cerca. Ma già all’inizio del

di simonetta [email protected] A morte il foie gras

900 l’atteggiamento sul tema di alcuni giornalisti de Le Figaro è più benevolo. Parisiette, specia-lizzato in questioni mondane, scrive come questo movimento, che lui definisce una scelta di vita, cominci rapidamente a dif-fondersi in Francia. Molti me-dici ormai consigliano la dieta vegetariana e “alcuni praticanti si spingono fino al veganesimo e al rimedio più estremo di brevi periodi di digiuno assoluto”. Continua l’articolo del 1906 che questo regime alimentare sta reclutando i suoi seguaci soprattutto nell’altà società e nei circoli intellettuali mentre il popolo è più refrattario. Per loro è più difficile a rinunciare man-giare carne e pesce (raro lusso per l’epoca) per una dieta che considerano fatta solo “di erba e radici”. Ma, continua l’entusia-sta giornalista, il popolo sbaglia a credere che il cibo vegetariano sia austero e privo di gusto per-ché anche chi segue questo tipo di dieta ama coltivare le gioie del palato e cita il famoso libro La cuisine vegétarienne scrit-to da Yvonne Saint-Briac nel 1896 che contiene 850 ricette e una lista di vini (essendo di origine vegetale sono consen-titi) di accompagnamento che non possono non far gola ai veri buongustai dimostrando così come la dieta vegetariana possa essere varia e nutriente. In fondo, scrive Parisiette, “l’eti-mologia della parola è vegetare che in latino vuol dire crescere”. Il giornalista mondano stila una lista di nomi (ormai persi nel tempo) di donne dell’alta società che si sottopongono a questa dieta per conservare la loro bellezza ma anche di artisti come il principe Troubetskoy, soprannominato il Rodin russo, che non “mangia carne per me-glio coltivare lo spirito e il suo ammirevole talento di scultore ne è la dimostrazione” o l’eroe di guerra, il generale Marchand, “che al suo ritorno dal Congo, nonostante appena sfuggito dalle febbri malariche, sorprese i suoi ex compagni d’Africa per il suo vigore e l’incredibile ringiovanimento”.

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di movimento, sentì il suono del respiro. Gli insegnanti erano David Williams e Nancy Gil-goff, i primi a portare l’ashtanga e il suo Guruji negli Stati Uniti. Il primo giorno di lezione, dopo avere fatto i due cicli di saluto al sole (Surya Namaskara) e la sequenza finale “ero stanco, il mio corpo era caldo e quando mi sdraiai in Shavasana ho guardato in alto e ho visto una nuvola di vapore. Fu indimenti-cabile. Mi era accaduto qualcosa di speciale”.Non si tratta di visioni o di strano misticismo. Gli aspetti fondamentali dell’ashtanga yoga sono, tra gli altri, la respirazione (tecnica ujjayi) e il vinyasa, cioè il collegamento dinamico tra una postura (àsana) e l’altra. Per questo l’ashtanga è uno yoga in movimento, di connubio tra re-spirazione e movimento, quella che da Pattabhi Jois definiva una “ghirlanda di àsana”.Per quattro mesi studiò con Pattabhi Joys in California. Per Pattabhi, che arrivò negli USA a 60 anni con suo figlio Manju, 30enne, fu una splendida esperienza, accolto da giovani studenti pieni di energia e di entusiasmo, mentre in India nessuno voleva praticare yoga: “I giovani indiani volevano essere ingegneri, dottori, avvocati, e noi invece soltanto yogi.”Alla partenza di Williams e Gilgoff per Mysore, in India da Pattabhi Jois, Swenson andò a insegnare nella loro scuola alle Hawaii. Viveva delle scarsissime offerte degli studenti, in una palestra con tappeti presi dagli alberghi in ristrutturazione, con pareti costruite in legno o ricavate da zanzariere, il soffitto in plastica trasparente in una cit-

tadina il cui nome, tradotto, era “sole implacabile”. Per soprav-vivere, lavorava in un negozio di cibo naturale, gestito da un tossico. Al ritorno di Williams e Gilgolff dall’India, si fece presta-re dei soldi e partì per Mysore, dove stette per 4 mesi, pratican-do tutti i giorni, insieme ad altri due studenti. Praticavano la 1° e la 2° serie al mattino, la 1°, 3° e la 4° nel pomeriggio.La prima serie dell’ashtanga è la base per tutte le successive. Ogni serie è costituita da una sequenza di àsana codificata, un flusso completo che lo studente memorizza e quindi può prati-care anche per proprio conto. Le successive sono in sequenza di difficoltà, dalla seconda o intermedia, fino alla sesta. Soltanto un allievo di Pattabhi Jois (Sharath Rangaswamy Jois) è stato in grado di praticare tutte e sei le serie, finora.Al ritorno in Texas, Swenson ebbe una sorta di crollo. Non capiva il senso della pratica, cer-cava qualcosa che non riusciva a trovare. Scrisse al suo Guruji, ma non ebbe risposta. Incontrò gli Hare Krishna, si fece monaco e rimase con loro per 5 anni, fino a un’altra, definitiva crisi.Lasciò tutto, ricominciò con l’ashtanga e aprì una galleria d’arte. “Se sei riuscito a vendere il Bhagavad Gita a un cowboy in Texas, puoi vendere qualsiasi cosa a chiunque.”Tornò alle Hawaii nell’isola di Maui e ricominciò a praticare e insegnare con Nancy Gilgoff. Nel 1989 la Gilgoff portò Pat-tabhi Jois alle Hawaii. Swenson rincontrò il suo maestro sul tappetino, che aiutandolo con i piegamenti, “mi toccò e disse ”Ooooh, ecco David Swenson.”

di BarBara settitwitter @Barbara_Setti

La più comune immagine di David Swenson è di lui se-duto, che parla al pubblico,

con una gamba dietro alla testa.Questa immagine non mi è mai piaciuta, perché fa dello yoga una pratica circense e soprattut-to perché banalizza la figura di David Swenson.Swenson rappresenta una delle figure storiche dello yoga occidentale, colui che, insieme a David Williams e Nancy Gil-goff, Chuck e Tim Miller, e Ri-chard Freeman, hanno portato l’ashtanga yoga negli Stati Uniti, facendo conoscere il metodo introdotto da K. Pattabhi Jois (1915 – 2009).È il 1969 e David Swenson vive a Houston, in Texas. Suo fratello maggiore, che viaggiava tra il Texas e la California, scoprì lo yoga mentre faceva surf vicino alla spiaggia sotto l’ashram Self Realization Fellowship di Para-mahamsa Yogananda.Tornò a Houston e cominciò a praticare con David, che aveva 13 anni. Non c’erano palestre, tappetini, abbigliamento per lo yoga. Erano due ragazzi, in costume da bagno Speedo, con i capelli lunghi, che praticavano nei parchi pubblici di Huston. Vedendoli fare il “saluto al sole” la gente cominciò ad additarli come adoratori del diavolo e fu-rono spesso cacciati dai giardini dalla polizia.I capelli lunghi di David, che ora è un 60enne molto stempia-to, dal sorriso dolcissimo e da un fisico longilineo ed elegante, furono fonte di grande problemi col preside del liceo, nonostante una arringa appassionata del padre avvocato, che citò tutti i grandi “capelloni della storia” (da Gesù a Mosè, da Einstein ai Padri Fondatori). Per sfuggire a questo ambiente conservatore e bigotto a 16 anni Swenson partì per la California, dove si iscrisse a una scuola molto più liberal, sotto la custodia di un 22enne messicano, gestore della topaia in cui abitava. È in California il suo incontro con l’ashtanga, in una vecchia chiesa sconsacrata. Per la prima volta nella sua vita vide qual-cosa di nuovo, vide un insieme di persone che si muovevano all’unisono in un flusso costante

Aveva un enorme sorriso, guan-ce rosa e occhi brillanti.”Da lì in poi David Swenson è diventato lo Swenson che cono-sciamo.Un instancabile divulgatore dell’ashtanga, autore di un DVD sulla 1° e 2° serie che è diventato un vero classico. Il cui obiettivo è quello di rendere lo yoga divertente e accessibile per tutti.Rispetto a molti insegnanti di ashtanga yoga non è un narcisista che evidenzia il suo misticismo fino a palesarne tutta l’inautenticità. Non è un purista e consente l’avvicinamento alla pratica attraverso posizioni di preparazione o “forme abbrevia-te”. Non è un sadico che obbliga alle correzioni manuali.L’importante, per Swenson e l’ashtanga, è il respiro. “Tutto quello di cui hai bisogno è un po’ di spazio e il respiro”, dice.Ed ha un’eleganza e una leg-giadria che lo rendono mera-viglioso da vedere, oltre che da ascoltare.L’altra particolarità dell’ashtanga è che, nell’insegnamento tradi-zionale Mysore, è una pratica che si svolge in autonomia. Conoscendo la sequenza della serie, ogni studente pratica da solo. L’insegnante, che conosce ogni singolo studente e la sua pratica, si rivolge direttamente alla singola persona da vicino, a voce bassa, la classe è silenziosa. Questo tipo di pratica consente di concentrarsi, di ascoltare il ritmo del proprio respiro, invece di aspettare le istruzioni dell’in-segnante. Gli studenti possono quindi approfondire un àsana o lavorare più a lungo su una postura che trovano impegna-tiva. Al neofita che guarda una classe Mysore può sembrare che ognuno faccia qualcosa di diverso. E in questo modo si ri-duce anche quella tendenza alla competizione e al confronto che, soprattutto nel mondo occiden-tale, si insinua in qualsiasi forma di esercizio di gruppo.Per rimanere solo con il respiro e la pratica.E, come dice Pattabhi Jois: 99% pratica, 1% teoria. O anche: “pratica e tutto verrà da sé”.David Swenson torna dopo 10 anni a Bologna, dal 13 al 22 maggio, per una settimana di workshop.

Lo yoga occidentale

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corrono: quello della creazione artistica con i suoi specifici passaggi di trasformazione do-vuti alle tecniche usate, il tempo necessario affinché i colori ad olio si secchino o si asciughino parzialmente per poter inter-venire con strati successivi che non cedano reciprocamente parte della loro materia, come le velature dei pittori rinascimen-tali. Ed il secondo è il tempo descritto dalla narrazione e dalla rappresentazione.Quando il tempo è rispettato i materiali molteplici usati si uniscono per fare parte di una unica composizione, simile ad un magna che si solidifichi.

Quando le colle, i cotoni di vario spessore, le iute diverse, gli spaghi, semplici od anno-dati, con parvenza di vecchi rampicanti rappresi i primi e di recinzioni spinate i secondi, si saranno acclimatati, le vernici ad olio diversamente diluite avranno assunto la loro con-sistenza finale, allora dei due tempi, ne rimarrà uno soltanto, quello dell’opera finita, parteci-pe di entrambi.... “E intanto fugge questo reo tempo e van con lui le torme delle cure onde meco egli si strugge”...Questi pochi versi di un sonetto del Foscolo riaffiorano dal mio passato di studente, suggeriti delle opere di Fred Charap, depositi complessi di memoria e sedimenti della storia sia perso-nale sia universale.

Fred Charap, Muri sospesi Installazioni, sculture, disegni

Alla Fondazione Sensus, Firenze, viale Gramsci 42/a.

Visitabile su appuntamento email dal 18 maggio al 30 settembre

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Cadeau di Man Ray è uno dei primi oggetti dadaisti realizzati, un ferro da stiro

al quale sono applicati 14 chiodi che ne modificano la funzione per la quale era stato costruito, facendolo diventare una opera d’arte.Con le dovute differenze, l’operazione che ho compiuto nell’allestire i muri di Charap, è irriverentemente analoga.La pesantezza dei manufatti artistici nella sembianza di pesanti e arcaici muri viene ribaltata con la semplice trovata di staccarli dal suolo, privandoli così della inerzia gravitazionale loro propria.Realmente questi muri si espan-dono in verticale come volessero costruire delle torri di vedetta, come volessero, babilonicamen-te, aspirare all’altezza verso il firmamento.Chi osserva questi muri non si trova impedito nel suo andare in avanti, non trova una barriera che impedisca il valicare una frontiera, di superare un con-fine, ma trova il suggerimento di guardare in alto, di dirigere il suo pensiero verso il cielo e sopratutto verso le stelle che della lontananza amplificano la prospettiva.Nessun orizzonte è precluso, se si desidera non cogliere il sugge-rimento implicito nelle porzioni di muro che costituiscono le snelle superfici di Charap, di meditare sulle altezze, si potrà facilmente aggirarle.Prima di farlo, però, sarà ne-cessario concentrarsi su queste superfici, notare come queste siano posizionate sulle linee architettoniche dello spazio che le ospita, continuandole, modificandone la spazialità o chiudendole ricavandone spazi conclusi o ancora edificandone di nuovi. Quadri scultura usati per edificare nuovi spazi.Le superfici di questi muri che spesso hanno un fronte ed un retro, ma non uno spessore, sono trattate come fossero un conglomerato di materia, parte-cipe di elementi atmosferici che ne segnano, con l’aiuto del tra-scorrere del tempo, le strutture. Si tratta di apporti, sedimenti, concrezioni che rimandano ai due diversi tempi che le per-

di Claudio [email protected]

La sostenibile leggerezzadei muri

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Arance candite: 6 grosse arance biologiche, zucchero, acqua. Preparazione: si comincia con le arance candite. Incidete la buccia con un doppio taglio in-crociato per il lungo e sbucciate. Eliminate le parti in eccesso e lavate bene in acqua corrente. Scaldate una pentola d’acqua abbondante, fate bollire le bucce e scolate. Ripetete l’operazione altre due volte. La terza, lasciate in ammollo per una notte. La mattina successiva scolate le bucce, pesatele e preparate una soluzione con acqua e la stessa quantità di zucchero delle arance. Immergete le bucce e cuocete a fiamma dolce fino a quando il liquido si sarà ritirato. Appoggiate le arance su una gratella per far scolare il liquido in eccesso. Dopo mezz’ora mettetele sulla carta da forno, tagliate a listarelle o a rondelle e spolverizzate con zucchero. Nel frattempo mettete in una bastardella la carne. Aggiungete la pancetta tagliata a pezzetti sottili, poi il parmigiano grattu-

giato, le 2 uova e la mollica di pane messa precedentemente a

inumidire con un po’ di latte. Infine grattugiate nel compo-

sto la buccia delle due arance e aggiungete sale, pepe e noce moscata; in ultimo, l’uva passa strizzata messa prima a bagno in un po’ di acqua. Impastate e fate la forma di un polpettone. Spre-mete il succo delle due arance nella cocotte di ghisa, versate un tocco di burro e poi mettete la carne sigillandola a fuoco vivace. A quel punto aggiungete il brandy (1 bicchiere) e il succo delle arance (metà). Coprite e fate andare per 20 minuti. Di tanto in tanto versate altro succo sulla carne. Quando è pronta, impiattate con le arance candite.Ingredienti: 500 gr di macinato (manzo o vitello) 200 gr pancetta a pezzetti100 gr parmigiano2 uovo4 fette di pane raffermolatte q.b.sale e pepe1 bicchiere di brandy2 arance, buccia e succouna manciata di uva passaolio extra vergine di olivaburro

britannico e fervente europei-sta, per prendere comunque contatto con un leader inglese. L’On. Sibilia, essendo convinto dell’esistenza, ha pensato bene di chiedere a Peppa Pig una consulenza su come approcciare Mr. Corbyn ma non è riuscito a trovare il numero di telefono di Casa PIG. Voi direte: e allora che è successo??? Molto sempli-ce, l’On. Sibilia (sì, quello che

voleva discutere in Parlamento una legge per consentire le nozze fra persone ed animali purchè consenzienti, si quello che non crede allo sbarco dell’uomo sulla luna) gli procura l’incontro con l’ambasciatore a Londra della Transilvania del Sud tal Non-kont Un Kaz, sconosciuto anche ai media, ma pur sempre am-basciatore accreditato a corte di Sua Maestà: l’incontro, svoltosi

di sergio Favilli [email protected]

Come certamente saprete l’Onorevole Di Maio, leader penta stellato e

Presidente del Consiglio in pectore in caso di vittoria grillina alle prossime elezioni politiche, si è fatto un giretto a Londra per sondare gli umori che circolano nella capitale del Regno Unito, comunque debitamente accom-pagnato dall’On. Carlo Sibilia per il disbrigo delle formalità. Per primo ha fatto richiesta di essere ricevuto al celebre n° 10, ma Mr. Cameron ha fatto rispondere con un emblematico e britannico “sorry” . Date le affinità elettive con Beppe Grillo ha provato quindi a contattare mister Nigel Farage capo del partito destorso antieuropeo dell’UKIP ma anche lui ha declinato l’invito apportando la scusa che stava partendo per una missione diplomatica in Corea del Nord . Poiché l’ottimismo è una delle principali caratteristi-che dell’On. Di Maio, incurante dell’incoerenza, ha chiesto a Sibilia di telefonare a Mr. Jeremy Corbyn, leader laburista

di miChele [email protected] Polpettone con

arance candite

in un pub di Soho e durato 12 minuti, si è svolto in un clima molto disteso, disturbato solo dal fatto che Di Maio parlava in napoletano stretto, Sibilia tra-duceva in avellinese moderno e Sua Eccellenza Nonkont Un Kaz rispondeva in rumeno arcaico. I tabloid popolari londinesi sono andati a nozze nel raccontare l’intera permanenza a Londra del parlamentare italiano e si vocife-ra che anche a corte la novanten-ne Sovrana si sia sbellicata dalle risate: meglio di Mister Bean!!!!! Questo viaggio, però, non è stato inutile, i cittadini di Londra si sono subito interessati su chi fosse questo misterioso Onore-vole Di Maio e saputolo vicino politicamente sia ai conservatori che a mister Farage, dopo circa dieci giorni hanno eletto mister Sadiq Khan, laburista e mussul-mano, nuovo sindaco di Londra. Una volta tanto ci corre l’obbligo di dire: bravo On. Di Maio, seguiti così!!

L’impaziente inglese

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Si ritrovò nell’accecante alba di una strada. Gli occhi non ancora abituati, toccò

all’udito capacitarsi della nuova realtà registrando nella sua spos-sata mente il rombo di auto che si avvicinavano, lo scricchiolio dei pneumatici sul manto strada-le, lo stridere di freni elementari.Lo sblocco della serratura di por-tiere poco oliate liberò i suoni trattenuti fino ad allora negli abitacoli: preghiere biascicate e sommessi pianti sovrastati da ordini di voci che a stento, dietro ad una poco credibile autorità, celavano l’incertezza e - quasi - l’imbarazzo di carcerieri improvvisati.Cominciavano i suoni ad assu-mere forme, sagome scure di uo-mini in piedi con inequivocabili protesi alle estremità delle loro braccia a strattonare fragili figure che si piegavano ai colpi ed alle ingiurie: un ammasso informe di nera umanità che si insinuava nella vegetazione al bordo della strada.Tra quegli schiamazzi dai quali

con fatica distingueva voci di suoi simili, si fece più forte il tono di uomo inequivocabil-mente terrorizzato, stremato, ma che non aveva perso una qualche potenza percepita subito da tutti gli altri, compresi gli aguzzini che caddero in un silenzio denu-dato in un istante di ogni fragile certezza.“Cos’è l’uomo senza libertà?Oh! Mariana dimmi Dimmi come posso amartiSe io non sono libero, dimmiCome posso offrirti il mio cuoreSe lui non è a me?” Anche da così lontano, il ragazzo comprese che quell’ammutolirsi sarebbe potuto aleggiare per sempre, sentiva l’esitazione nel fiato dei carnefici, lo schiocco di labbra formulanti silenziose preghiere ed il vuoto lasciato

dall’anima dell’uomo che, con quelle parole, aveva già preso commiato da tutto quanto.Ma gli assassini si servono di moniti agghiaccianti tanto quanto è infima la loro vigliac-cheria e così spettò al ruggito disumano delle pistole strappare via la scena da un’estasi che non si addiceva alla miseria alla quale stava assistendo ed al sordo tonfo di corpi sull’erba tirare giù il sipario.Hai assistito all’esecuzione del poe-ta Federico Garcìa Lorca avvenuta all’inizio della dittatura franchi-sta. Mai, fino a quel momento, le note intruse nella sua mente gli erano sembrate così salvifiche. Sì, un poeta giustiziato da una dittatura perché ritenuto “sociali-sta, massone e maricòn”! Un poeta ucciso perché le sue parole facevano

paura: questo tocca troppo spesso ai miei indifesi alleati ancora oggi in angoli oscuri del mondo dove la prudente mano della civiltà si guarda bene di allungarsi. Eppure non sanno, questi stolti carnefici senza storia, che proprio così rendi la poesia potentissima, in grado di sopravvivere ad ogni effimera brama di potere.Non poteva che dare ragione all’eco che aveva appena finito di vibrare dentro di sé. Fu spinto, però, dall’irrefrenabile necessità di salutare quel corpo, di onorare quel sangue che stava esaurendo il proprio rossore e che da lì in poi sarebbe restato nero come l’inchiostro. Ma al posto del var-co nella vegetazione dal quale era passato il gruppetto poco prima trovò una bianca porta che gli si aprì lentamente davanti.

Esce in questi giorni il volume stra-ordinario (perché triplo, ma anche perché costituisce una riflessione a 360° sull’evento) di “Testimonian-ze” dedicato, nel 50° anniversario degli eventi del 1966 a Firenze e in Toscana, a La grande alluvione. Verrà presentato il prossimo 19 Maggio, alle 16,30, nel luogo-sim-bolo della Biblioteca Nazionale.L’incontro sarà aperto dai saluti del direttore della Biblioteca Naziona-le, Luca Bellingeri, del vicesindaco Cristina Giachi, dell’assessore regionale all’ambiente, Federica Fratoni e di Mauro Perini (presi-dente di Water Right Foundation); interverranno poi i direttori dei quotidiani fiorentini: Sandro Bertuccelli (“La Repubblica”), Pierfrancesco de Robertis (“La Nazione”) e Paolo Ermini (“Cor-riere Fiorentino”) insieme a Luca Nannipieri (scrittore, animatore di S.O.S. Patrimonio artistico su Rai 1), coordinati da Piero Meucci (direttore di stamptoscana.it). Le conclusioni sono affidate a Giorgio

Federici (coordinatore di Toscana 2016) ed a Severino Saccardi (di-rettore di “Testimonianze”).Massimo Salvianti (di Arca Azzurra Teatro) leggerà brani del volume. Saranno anche proiettate le numerose immagini, usate per il volume, dell’alluvione del 1966 a Firenze e in Toscana.

di matteo [email protected] Narrazione a puntate

con finale a sorpresa

Capitolo 7Vigliaccheria

Testimonianze sull’alluvione del ‘66Scavezzacollodi massimo [email protected]

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lectura

dantisDisegni di PamTesti di Aldo Frangioni

Ed egli a me, con fare disperato,ma col il pasto tutto nella bocca:quello che mordo gliè uno sciagurato,

intra denti tenendo una sua ciocca,.vescovo è, il traditor che vedi colui che ci rinchiuse nella rocca,

un infame di falso leccapiediA me non solo me fe’ l’orrendo atto tutto dirò, se tu me lo concedi.

In Pisa fiducioso venni trattoe mi legò coi giovini parenti,loro nulla di mal aveano fatto

erano poco più che adolescenti.Tutti ci carcerò dentro la torreal pari dei comuni delinquenti

quel che lui fe’ io non poteo supporre,Ci trovammo senza nulla avereacqua o pane da poter disporre.

Canto XXXIII IX girone

Ugolino della Gherardesca narra

della sua prigionia inchiavardato con i

suoi cinque figli nella “ orribile torre” e

della morte atroce per fame... ...poscia,

più che ‘l dolor poté ‘l digiuno”.  Con questa

enigmatica chiusa, Dante lascia aperte

le più macabre interpretazioni.

Molti son quei che mutano bandiere,cambiano ruolo dentro la partita,mutan color per farsi benvolere

questi vorrei con testa brostolitaper vendicare questi miei bambiniin eterno mangiar anco le dita

voltagabbana per salir gradiniun dì votan te l’altro i nemicisiano guelfi oppure ghibellini

attento pure te a quel che diciinfami urlan che, per il digiuno,sfamato mi son degli infelici.

Bugiardi senza amor alcunohanno fatto girare questa vocema confermarla non potè nessuno.

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L

Tre sguardi che sono tutto un programma. Siamo all’interno di un Barber Shop tipicamente italiano al centro di Little Italy e lo si capi-sce subito dal clima che vi si respira. In primo piano a sinistra vediamo Ciro, il fondatore del negozio. Il suo aspetto e la sua posa mi fanno subito sentire a casa mia. il giovanissimo cliente sulla destra guarda Ciro con ammirazione ed affetto mentre il comandante in

seconda, suo figlio ed erede, fissa il fotografo con l’aria serena e sicura di uno che sa il fatto suo ed è orgoglioso del proprio lavoro.

NY City, agosto 1969

Dall’archiviodi Maurizio Berlincioni

[email protected]

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