Cultura Commestibile 156

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N° 1 223 56 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Un dibattito internazionale 5 anni di Cuco “Il tema dei figli adottivi: quello che in inglese si chiama Stepchild association” Domenico Scilipoti, senatore della Repubblica ULTURA OMMESTIBILE La cultura non si mangia c Giulio Tremonti G razie Giulio! La tua battuta sulla cultura che non si mangia ci ha spin- to a realizzare queste pagine Kulturkampf. Noi sappiamo benissimo che tu non credi a quello che hai detto. Il dileggio del culturame lo fai per far piacere ai sodali della Lega. Nate e cresciute al di sotto della Linea Gotica, non ce ne volere, ma noi siamo più sensibili all'otium latino che alla sua negazione (che a voi tanto piace) del negotium. In tanti dicono che hai il merito di tenere in ordine i conti italiani, cioè mantenendone il loro disordine storico e che potresti rappresentare il dopo Berlusconi. Siamo quindi combattute fra il diventare delle trhee mountains girls o mettere dei sacchetti di sabbia alla finestra come canta Lucio Dalla in “Caro amico ti scrivo”. LE SORELLE MARX Cinque anni fa, esatta- mente sabato 5 febbraio 2011, usciva il primo numero di Cultura Commestibile, in formato cartaceo, otto pagine allegate al Nuo- vo Corriere di Firenze. Ogni settimana, per 67 numeri in carta e 156 online, abbiamo cercato di proporre riflessioni e cronache di cultura: un’impresa, di questi tempi. Certamente non ci abbiamo mangiato, ma non siamo nep- pure morti d’inedia. Siamo sempre in piedi e continuiamo a svolgere un piccolo servizio, in totale libertà, alla cultura. Da allora le Sorelle Marx (cui si sono affiancati poi altri parenti rivoluziona- ri) ci hanno sempre accompagnato con el- zeviri ironici e ficcanti. Ripubblichiamo qui il loro primo intervento, che è un po’ il nostro “manifesto”. Ancora abbiamo tanta strada da fare insieme. La redazione

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N° 122356

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Un dibattito internazionale

5 annidi Cuco

“Il tema dei figli adottivi: quello che in inglese si chiama Stepchild association” Domenico Scilipoti, senatore della Repubblica

C ULTURAOMMESTIBILE

La culturanon si mangiacIL NUOVO

corriere

“ Giulio Tremonti

ALDO FRANGIONIROSACLELIA GANZERLISIMONE SILIANIMICHELE MORROCCHIa

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di

CUO

N.0 Grazie Giulio! La tua battuta sulla cultura che non si mangia ci ha spin-to a realizzare queste pagine Kulturkampf. Noi sappiamo benissimo

che tu non credi a quello che hai detto. Il dileggio del culturame lofai per far piacere ai sodali della Lega. Nate e cresciute al di sottodella Linea Gotica, non ce ne volere, ma noi siamo più sensibili

all'otium latino che alla sua negazione (che a voi tanto piace) delnegotium. In tanti dicono che hai il merito di tenere in ordine i conti italiani,cioè mantenendone il loro disordine storico e che potresti rappresentare ildopo Berlusconi. Siamo quindi combattute fra il diventare delle trheemountains girls o mettere dei sacchetti di sabbia alla finestra come cantaLucio Dalla in “Caro amico ti scrivo”.

LE SORELLEMARX

Vconubium santet matriAdlaudabilis rures agnascor ossi-

fragi, utcunque Aquae Sulis optimusinfeliciter imputat matrimonii, iamoratori divinus vocificat incredibiliterverecundus catelli. Oratori senesceretadfabilis ossifragi. Gulosus fiducias

comiter insectat syrtes. Fragilis catelliimputat apparatus bellis, semperAugustus miscere ossifragi, utcunquesaetosus suis suffragarit aegre quin-quennalis rures. Zothecas spinosuspraemuniet plane bellus rures, etAquae Sulis lucide iocari aegre tremu-

lus fiducias. Agricolae praemunietsaburre, iam matrimonii pessimusinfeliciter adquireret optimus lasciviusfiducias, semper concubine senesceretsyrtes, ut utilitas fiducias circumgre-diet tremulus saburre. Syrtes incredibi-liter divinus amputat fiducias.Concubine satis infeliciter corrumperetplane lascivius quadrupei. Octavius

adquireret Medusa, iam oratori prae-muniet perspicax ossifragi, etiamapparatus bellis corrumperet rures.Satis pretosius apparatus bellis iocariparsimonia agricolae, quod saburredeciperet Caesar, et zothecas vocificatsuis. Aegre adlaudabilis matrimoniiinsectat satis saetosus suis.Parsimonia chirographi pessimus spi

Il Palazzo di Giustizia diFirenze l’ho vissuto sullamia pelle. Avevo circa 10

anni ed il permesso di par-tecipare in disparte agliincontri sul Piano diRecupero dell’Ex Area Fiat,che si tenevano nello studiodi Leonardo Ricci. Un lungotavolo basso e tanti grandiuomini intorno con i pen-narelli colorati in mano eraquello che vedevo, ma per-cepivo che in quella stanzastava succedendo qualcosadi grande che avrebbe potu-to cambiare la mia città.Dopo vent’anni catalogan-do l’archivio di mio nonno,m’imbattei in un rotolo dicarta lucida, all’apparenzauguale a tutti gli altri.Aprendolo e guardandolocon più attenzione vidiquello che da bambina nonavevo inteso: la possibilitàper Firenze di essere teatrodi una grande ed unica spe-rimentazione artistica,intellettuale ed architetto-nica. Il grande progetto par-lava da solo ed ogni archi-tetto aveva ideato il suocontributo contempora-neamente agli altri anno-tando a lato i pensieri persviluppare ulteriormente lapropria idea in relazione dalprogetto principale. Il lavoro di progettazione diRicci è caratterizzato dallatensione verso la riqualifi-cazione dell’uomo nella pro-pria comunità, permetten-do la nascita di aggregatiurbani in cui non si sentissepiù solo. Il Palazzo diGiustizia di Firenze è uncontributo alla vita per“creare un ambiente nelquale valga la pena di vive-re”, un luogo teatrale dovefar nascere e crescere ildramma della giustizia,dove far evolvere il rapportotra il singolo e la comunitàdel quale sono tutti respon-sabili. Ricci non amava laseparazione degli spazi edella vita; la consideravauna perdita di denaro (per lacostruzione di muri) e ditempo (tolto alla vita incomune). Il progetto, infat-ti, si sviluppa attraverso undoppio e complementareconcetto: la necessità prati-ca di spazi isolati per lavora-re ed il bisogno filosofico diintendere la giustizia comeun processo condiviso dallacomunità. Questo è quello

di cui abbiamo bisogno: disignificato. Della comuni-cazione di questo significa-to. E’ necessaria la promo-zione di progetti architetto-nici di senso che non sianosolamente teche, ma chesiano l’espressione artisticadel sogno dell’architetto inrelazione alla collettività. Lapolitica ha nel tempo bloc-cato questo grande contri-buto inserendolo in unnuovo piano guida (Krier),criticato come anti-moder-no. La lentezza ingiustifica-ta ha contribuito a compli-care ulteriormente, ed oltreogni immaginario, lacostruzione, creando vacuispazi di critica. Le istituzio-ni hanno, come sempre,evitato di promuovere l’i-deale di un proprio cittadi-no, che come molti è fuggi-to altrove e Firenze ha persol’occasione di rispecchiareuna contemporaneità privadi retorica. Tuttavia, ilPalazzo di Giustizia ci ricor-da che la città ha ancora unfuturo e che, nonostante ledifficoltà, esiste la possibi-lità di poter creare unarealtà che rispecchi il nostropensiero.

I

Primo: non separare

Vuoti &PieniLa ricerca di un significato nel Palazzo di Giustizia di Novolinei progetti originari di Ricci

Il palazzo di Giustizia In basso e a destra l’installazione lumi-nosa di Giancarlo Cauteruccio (Foto Scirea), sopra unoschizzo originale di Leonardo Ricci

di Clementina Ricci

titolo per 1000 battute circa xxxxxxLARGA LA FOGLIA

Cinque anni fa, esatta-mente sabato 5 febbraio 2011, usciva il primo numero di Cultura Commestibile, in formato cartaceo, otto pagine allegate al Nuo-vo Corriere di Firenze. Ogni settimana, per 67 numeri in carta e 156 online, abbiamo cercato di proporre riflessioni e cronache di cultura: un’impresa, di questi tempi. Certamente non ci abbiamo mangiato, ma non siamo nep-pure morti d’inedia. Siamo sempre in piedi e continuiamo a svolgere un piccolo servizio, in totale libertà, alla cultura. Da allora le Sorelle Marx (cui si sono affiancati poi altri parenti rivoluziona-ri) ci hanno sempre accompagnato con el-zeviri ironici e ficcanti. Ripubblichiamo qui il loro primo intervento, che è un po’ il nostro “manifesto”. Ancora abbiamo tanta strada da fare insieme.

La redazione

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Da nonsaltare

André Benaim è architetto e scenografo. La sua attività di scenografo precede quella di

architetto. La sua prima scenografia fu quella per “Il Pellicano” di August Strindberg realizzata quasi come il modello che conserva ancora nel suo studio. Da allora ha prodotto scene e costumi per innumerovoli rappre-sentazioni teatrali nei maggiori teatri italiani. Oggi però parliamo della sua architettura.Siliani Partiamo dal racconto di que-sto tuo sogno realizzato. La tua tesi di Laurea che diventa un’opera compiuta di restauro.Tutto nasce negli anni ‘80 quando stavo lavorando con Carlo Cecchi alla scenografia per  “Il ritorno a casa” di Harold Pinter al teatro Niccolini. In quella occasione ho conosciuto questo luogo meraviglio-so di cui mi innamorai. Successiva-mente il teatro aveva anche bisogno di interventi di adeguamento sia perche era bruciata la canna fumaria sia perchè in quel periodo furono emanate norme molto severe per i luoghi di spettacolo dopo l’incendio del cinema Statuto a Torino. Per fare questi interventi mi misi quasi a frugare nel teatro. Il teatro era  un grande spazio ovattato ricoperto in ogni parte da moquette. Sotto questi rivestimenti c’erano pavimenti in marmo (quelli che si vedono oggi), anche nei corridoi. In quella fase restaurammo alcune parti e feci il rilievo completo del tea-tro (che mi servi poi come lavoro per l’esame di Restauro dei monumenti) ed infine  anche per la tesi di laurea.Frangioni Chi era il relatore alla tua tesi di Restauro?Fu il prof. Giorgi del corso del prof. Rocchi, in commissione c’era il prof. Francesco Gurrieri che era molto interessato. L’ho rivisto all’inaugu-razione del teatro qualche settimana fa e gli ho detto “professore siamo davvero alla conclusione di quel per-corso iniziato molti anni fa.” Il teatro Niccolini l’ho sempre considerato bello. Anche più del teatro della Per-gola. Sui due teatri c’è una storia che vale la pena di essere raccontata. Il Niccolini nasce nel 1652 come “luogo teatrale” e quindi nasce prima della Pergola. L’accademia dei Con-cordi (che aveva dato vita al luogo) divenne subito quella dei  “discordi” e l’Accademia si divise dando origini alle accademie degli Immobili e degli Infuocati. Gli Infuocati rimasero nel salone creato nel palazzo di via del

Cocomero. Gli Immobili fondarono un nuovo teatro, La Pergola appun-to. L’architetto Ferdinando Tacca (figlio dell’artista Pietro Tacca) fu incaricato della progettazione e il te-atro, i cui lavori iniziarono nel 1652, furono terminati nel 1661, mentre l’inaugurazione fu fatta durante il Carnevale del 1658, in tutti e due i teatri (la Pergola non terminato), con la rappresentazione del “Il Podestà” di Jacopo Melani. Quindi come teatro all’italiana è sicuramente più antico la  Pergola, ma come “luogo teatrale” il Niccolini esisteva prima.Ritornando al Niccolini  la pro-prietaria era la famiglia Ghezzi dal 1934 al 2005 quando il teatro è stato venduto a Mauro Pagliai. Negli anni la famiglia Ghezzi mi ha fatto incon-trare molti probabili acquirenti ma chi per un motivo chi per un altro si sono tutti persi. Ci fu un interessamento anche del comune di Firenze da parte dell’as-sessore alla Cultura Guido Clemente della giunta Primicerio, che giunse fino ad una deliberazione che ipo-tizzava l’acquisto, con un supporto economico della Regione Toscana. In quel momento vidi una possibile conclusione del lungo percorso per il recupero del teatro, anche perchè non avrei mai pensato che un soggetto privato potesse essere veramente interessato ad acquistare il teatro. Ho sempre pensato che il Niccolini non avrebbe potuto vivere solo con un uso serale o poco più. Occorreva molto altro per poter sopravvivere da un punto di vista commerciale. Occorreva trovare un uso che lo tenesse aperto tutto il giorno. Un luogo che potesse guidare la lettura delle città sia per i turisti sia per i cittadini. Il centro di Firenze è così raccolto e “piccolo” che per sua

fortuna ha già insito in sé il concetto di “museo moderno”. Un luogo cioè dove vedi una mostra, mangi qual-cosa, hai un posto dove fare acquisti ecc. Un museo diffuso. Ma non è sufficiente avere le idee se esse non sono supportate da persone in grado di influire sulla realtà. Rimangono appunto idee. Ora vedo che queste idee sono maturate e sono diventate in qualche caso realtà. Un luogo che potesse mettere insieme e raccontare i diversi percorsi che sono possibili nella città. Il percorso della scultura, dell’architettura, della pittura, dello shopping ecc. per una città che ha bisogno di progetti. Alla fine arrivò  Mauro Pagliai.Stammer Quindi anche prima del 2005 ci furono ipotesi progettuali per il recupero del teatro?Sì prima del 2005 elaborai alcune idee progettuali per conto della signora Rusconi che aveva comprato i locali della libreria Marzocco in via Martelli e voleva aprire quei locali sulla corte interna dell’edificio dove è collocato il teatro e collegarsi con il teatro stesso. Per questa possibilità è stato pre-sentato un progetto ed ottenuto il nulla osta dalla sovrintendenza. Ma all’improvviso questa persona scomparve. E la vicenda fini in mano agli avvocati. Era all’incirca il 2003-2004.Siliani Infatti mi ricordo che poco dopo venne da me (allora assessore alla Cultura del comune di Firenze) Mauro Pagliai che mi disse: “Compro il Niccolini. Te lo dico per informazio-ne e non chiedo niente al Comune”. Ma prima avevo avuto altri colloqui con altre persone.Il progetto che feci per la Rusconi  non ebbe seguito, anche se  avrebbe risolto alcuni dei problemi del teatro. Infatti per ragioni strettamente

economiche, a partire dal 1934, i proprietari del teatro hanno via via ceduto parti dell’originale complesso. Prima i negozi sul fronte di piazza Duomo, poi i negozi sul lato di via Ricasoli adiacenti al teatro. Il pro-getto che è stato realizzato ripercorre l’idea della tesi di laurea e ha fra i suoi aspetti più importanti  il recu-pero del foyer che era stato realizzato nel 1914 quando fu fatto il nuovo ingresso che tagliava trasversalmente i vecchi accessi, utilizzando la sala da ballo dell’accademia. Foyer che poi si è perso a causa delle cessioni di locali del piano terra, a favore di negozi come la Galleria il Faro. Un pezzo del foyer era poi diventato l’ingres-so per i piani superiori e l’alloggio del custode, alcune parti erano state trasformate in bagni, e altre utilizzate come  retro di  un negozio di cartoline. Ora questo negozio di cartoline è diventato l’accesso per i portatori di handicap. Quindi con questo intervento si è invertita la ten-denza alla cessione di parti dell’ori-ginario complesso, e si sono invece recuperati spazi che erano apparte-nuti al teatro. Una parte maggiore che è stata persa è quella relativa ai camerini che erano stati ceduti alla pellicceria Cioni.Un inizio di diminuzione degli spazi si era avuto all’inizio del settecento perchè i pompieri avevano fatto chiudere l’arco che esisteva sul retro del palcoscenico. Questo arco molto profondo non forniva maggiore profondità al palcoscenico stesso ma costituiva un locale di servizio importante, considerando che uno dei problemi del teatro è proprio la mancanza di spazi di servizio al palcoscenico. Il  teatro è un teatro all’italiana, con platea e palchi, realizzato all’interno di un palazzo e quindi ha tutte le costrizioni che derivano da questa condizione iniziale, a cominciare dal perimetro del palazzo stesso e dai suoi confini. Frangioni Si potrebbe dire che è un teatro “scavato” all’interno di un palazzo.Sì. All’inizio sostanzialmente era una grande stanza  di forma vagamente trapezoidale con il lato maggiore parallelo a via del Cocomero, oggi Ricasoli, con il lato posteriore dove è ora la grande scala in pietra di accesso alla platea, dal lato opposto un palcoscenico lunghissimo. Poi nell’arco di circa 100 anni furono realizzati quattro ordini di palchi, in considerazione dell’aumento degli affiliati all’Accademia degli Infuocati,

di Aldo FrAngioni, Simone SiliAni e Jonh StAmmer

Il nuovo Niccolini

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Da nonsaltare

fino a quando si rese necessario au-mentare il numero possibile di palchi e di spettatori. Da qui la volontà di demolire tutto e creare un nuovo te-atro all’italiana comunque all’interno dello stesso palazzo.Nel 1763 iniziano i lavori di tra-sformazione del teatro come teatro all’italiana, con l’acquisizione di case laterali che permettevano di svilup-pare la platea con la forma desidera-ta. Il teatro è stato completamente demolito e ricostruito con quattro ordini di palchi con un palcoscenico più corto del precedente ma comun-que adeguato e dotato di un prosce-nio che inglobava le “barcacce”. Un recinto per l’orchestra riduceva la dimensione della platea. Nel corso dell’800 si sono avuti interventi che hanno modificato non sostanzial-mente il teatro fino al 1914 quando con la realizzazione del loggione, la demolizione del proscenio, la de-molizione della parte superiore delle pareti di separazione tra i palchetti, la creazione del lucernario, si cercava di rendere più popolare il luogo teatrale. Dal 1764 oltre ad accogliere il maggior numero di accademici si ha uno sbigliettamento, il Cocome-ro diviene il secondo teatro aperto al pubblico. Fino ad allora l’unico teatro aperto al pubblico, il teatro di Baldracca, si trovava dove ora ha sede la biblioteca Magliabechiana. Tutti gli altri erano riservati ai nobili e agli “accademici”. Nel 1766 il granduca fa la sua prima apparizione al teatro del cocomero dove il palco reale ave-va dietro una sorta di appartamento che si sviluppava fino alla attuale “sala del cocomero”. Frangioni Quale era il programma a quei tempi?Sostanzialmente opere e prosa e nel 1800 rappresentazioni in gran parte di Gian Battista Niccolini, tragedista livornese, da cui poi il teatro ha preso il nome (1853).Stammer Quindi nel 2005 il teatro viene comprato da Pagliai e si inzia a studiare il recupero. All’inizio e fino a circa quattro anni fa è una fase di studio e di attesa direi. Poi si iniziano i progetti. Nel 2010 si rifanno le facciate e dician-nove mesi fa si parte davvero.Stammer Ma il progetto era prece-dente?Sì il progetto risale al 2006 ma poi la situazione ha subito un rallenta-mento. L’avvio dei lavori è di poco meno di due anni fa. Le condizioni operative sono state trovate poco tempo fa.Stammer È possibile che lo sbloc-

co della situazione sia coinciso con l’accordo con l’Opera del Duomo che ha garantito appunto quello che tu dicevi in precedenza e cioè un’apertura del teatro non solo per gli spettacoli e le attività serali.Penso che questo accordo abbia contribuito in modo significativo al consolidamento del progetto.Siliani E da un punto di vista del restauro vero e proprio quali sono stati gli elementi di maggiore difficoltà?Come in gran parte di importanti restauri su edifici destinati ad uso pubblico e collettivo, ed in particola-re nei teatri, il problema del posizio-namento degli impianti è cruciale. E come era stato fatto nel 1984-1985 per il primo intervento di messa a norma, non volevo che gli impianti fossero visibili.Stammer E quale è stata la soluzione? In questi casi per le grandi macchine degli impianti o si usa il sottotetto o il sottosuolo.Gli impianti sono nel sottotetto ma il problema più grande è stato por-tare le bocchette di aerazione in ogni luogo del teatro. È vero che abbiamo fatto un restauro totale e quindi avevamo qualche grado maggiore di libertà, ma non potevano “distrug-gere”. Ad esempio nella volta della sala mi sono dovuto accontentare di una soluzione che non mi soddisfa completamente. Nella parte centrale della copertura della sala sono stati installati degli anemostati, che sono stati verniciati cercando di mimetiz-zarsi il più possibile, con la parte re-stante del lucernario centrale coperto da specchi. Quelli che si vedono non sono specchi veri e propri, ma specchi da scena di PVC di 1 mm di spessore. Naturalmente alcuni registi e attori non sono contenti dello specchio perchè sostengono che in alcune circostanze riflette la sala e “disturba” gli attori in scena. Ma in quel luogo c’era un lucernario e in questo modo abbiamo cercato di restituire l’idea della luce che filtrava dal vetro. Il lucernario fu realizzato negli ultimi interventi dei primi del novecento quando la volta della sala fu ribassata e fu tolto il grande can-delabro. Ora questa volta è racchiusa, al di sopra di essa e quindi invisibile al pubblico, da un grande “tamburo” antincendio che isola tutta la sala dal sottotetto vero e proprio dove sono collocati gli impianti. Gli anemostati sono le aperture di “mandata” dell’a-ria condizionata mentre i “richiami” sono collocati sotto la platea.Stammer La copertura del teatro è a capriate classiche?

La copertura è costituita da capriate settecentesche meravigliose che sono le antisegnane del “lamellare”. Sono costituite da “mezzoni di legno” in-chiavardati, con tiranti, e fra capriata e capriata ci sono le centine, degli  arconi in legno che si appoggiano sulle colonnine di ghisa. Una vista bellissima. Una sorta di selva di legno che è stata completamente restaurata, introducendo strutture collaboranti in fibra di carbonio, per rinforzo strutturale. Abbiamo di fatto mantenuto, salvo che in alcuni elementi della graticcia del palcoscenico, le strutture origina-rie. L’intervento è stato di fatto un grande riordino e una “ripulitura”, con il recupero di volumi che erano perduti all’uso teatrale, spostamenti di porte ecc.  Dal palco reale, ad esempio, abbiamo tolto la porta che era stata realizzata a ridosso della pic-cola gradinata centrale e l’abbiamo riposizionata in una collocazione idonea. Ma l’idea di base era togliere quella cupezza che pervadeva il teatro e farlo sorridere un poco. Abbiamo cercato e trovato alcune coloriture settecentesche originarie sia all’interno sia nell’esterno. Le abbiamo verificate con l’architetto Vincenzo Vaccaro della Soprinten-denza che è stato molto attento e disponibile, che ha condiviso questo ritorno del colore più gentile, anche attraverso semplici operazioni di ripulitura. Nell’arcone del palcosce-nico ad esempio il colore era quasi completamente oscurato dal fumo. I colori della balconata e delle lesene erano ad esempio un color tabacco chiaro, quasi nocciola. Il primo obbiettivo del progetto è stato quello di non tradire la originaria “sempli-cità” del teatro. Tutto il complesso è sempre stato un luogo “poco ricco”, anche se era nato come teatro degli aristocratici. E questa sua caratteristi-ca doveva rimanere.  Anche perchè si sposava con una riduzione dei costi dell’intervento che non poteva non piacere alla proprietà. Stammer Questo è un tema classico del restauro quando si interviene su un edificio che ha subito molte trasfor-mazioni nel tempo. Quale edificio restauro? Quello settecentesco, quello ottocentesco ecc.? Si può dire che in questo caso si è intervenuto prevalente-mente restaurando l’ottocento?In realtà l’intervento di restauro è un insieme di interventi. Le coloriture, ad esempio il verde ed alcune finiture sono del settecento, ma la configu-razione architettonica generale del teatro è quella derivante dalla ristrut-

turazione del 1914, con la creazione del loggione. Anche se in questo caso con le finiture in ghisa, quasi un “frangia” che costituisce la balaustra del loggione, l’intervento del primo novecento è stato meno invasivo che in altri casi. Penso ad esempio a quello della Pergola. In questo caso il loggione rimane all’interno di quello che è “lo strumento musicale” cioè lo spazio contenuto dalla scatola palco/sala. Siliani Possiamo dire quindi che di ogni epoca si è recuperato quello che era funzionale all’idea di teatro, garanten-do comunque la funzionalità ottimale del teatro stesso?Sì in parte, perchè ad esempio la ricerca del “settecento” con i colori e alcune finiture è un “ritorno all’o-rigine”. Frangioni A eccezione degli interventi non ricomponibili, o non citati, che sono stati oggetto di pesanti inter-venti di trasformazione nel passato naturalmente. La lettura storica, molto raffinata devo dire, si compone della riscopritura dei colori originari inseriti in un contesto prevalentemente ottocen-tesco ma con un impianto architettoni-co dei primi del novecento.Direi però che la pianta rimane quella settecentesca. Quindi un impianto ottocentesco ma inserito in una pianta classicamente settecen-tesca. È un progetto che si è mosso in equilibrio fra questi contesti storici cercando di non squilibrare il risultato finale. Un progetto che in alcuni casi ha una sorta di “understa-tement” come quando prevede i nu-meri dei palchi disegnati sui muri, o nel mantenimento dei semplici ganci in ferro, come attaccapanni, come quando riprende i colori scuri per i corridoi dei palchi per segnare quasi visivamente il perimetro del teatro incastonato nel vecchio edificio. Il progetto è stato un gioco di equilibri  per evitare di tenere troppo elevato un particolare settore o materiale e così rendere meno omogeneo e leggibile il tutto. E questo nonostante la grande invasività degli impianti. Cercando di “inventarsi” soluzioni, come la ca-nalizzazione degli impianti in alcuni corridoi, che possono sembrare una decorazione. O come il riutilizzo degli spazi di canalizzazione realizzati nel 1984 che sono stati riutilizzati sotto la platea. Il  teatro oggi può ospitare 408 posti. Compresi i palchi nei quali sono stati abbattutti i divisori laterali che hanno limitato la privacy dei presenti, ma molto migliorato la visibilità.

Intervista all’architetto André Benaimche ha restaurato il teatro fiorentino

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ne e pisserine, fate una noticina a modo, su...”.I violini sono sempre più striduli e stonati. “Guardate ragazzi che se non imparate almeno un motivetto per luglio, io vi affido alle amo-revoli cure di Marco Agnoletti e poi vi passa la voglia di fare gli scansafatiche. Sentite, via, vi

faccio ascoltare io come si fa”... e imbraccia il suo violino e suona per mezz’ora.“Ragazzi, avete sentito come si fa? Bene, allora prendete i violini e andate ad esercitarvi in ufficio; la Giunta è finita”“Ma come finita Dario... Ci sono da fare le delibere...”“Manuele, non c’è da perdere

tempo con queste quisquillie e pinzillacchere. Bisogna fare la Florence Government String Orchestra! Chiamami Tommasino Sacchi piuttosto che dobbiamo preparare l’evento”“Ma vate a caté ‘n casul [lett. Vai a comperarti un mestolo, cioè vai a quel paese]... Qui c’è da désse d’ardriss [darsi una regolata]

riunione

difamiglia

lo Zio di trotZky

le Sorelle mArx

String city

Riso amaro

Palazzo Vecchio, in una radiosa mattina d’inverno. Il sindaco a colloquio con il suo capo di gabinetto.“Manuele, ma che ragazzo bravo, vispo e intelligente che è questo Tommaso Sacchi, eh?! Capisce tutto al volo ed è creativo! Pensa che idea coraggiosa e originale ha avuto per l’Estate Fiorentina: String City! 100 concerti per violino in 100 musei in 48 ore! Fantastico! Sarà la mia apoteosi! Che intuizione!”.“Eh sì, bravo e furbo, non c’è che dire! … sai che palle!”“Ma senti qui cosa ha dichiara-to... che linguaggio immaginifico: abbiamo cento musei: li vogliamo svegliare tutti insieme! Un esercito di archi! Ma è proprio un genio. Via, ora mettiamoci al lavoro che dobbiamo far funzionare al meglio questa cosa”.“Ascolta Dario, io qui ho da fare: bisogna far funzionare il Comu-ne, i servizi, gli uffici. Non star qui a taché tacà ai dij” [espres-sione dialettale piemontese: non starmi appiccicato alle dita].Nel pomeriggio riunione di Giunta in Sala degli Otto. Di-rige l’orchestra, il sindaco Dario Nardella.“Allora ragazzi, oggi si inizia con la prima lezione di violino, ché vi voglio tutti pronti per la String City d’estate. Via, Vannuc-ci inizia te, visto che fai tanto lo spiritoso... ti ho visto sai che ri-dacchiavi con quell’altro suonato del Bettarini”.“No, dai Dario... io non so suo-nare nemmeno il piffero”“Ragazzi, non mi fate inquietare: chi non suona, lo caccio dalla Giunta. Su, Cristina [Giachi, vicesindaca] fai un bel do”“Sì Dario, ma per String City posso mettermi il vestito lungo giallo ocra da concerto?”“Oh Cristina, mettiti quello che vuoi, anche un saio, basta che fai questa nota. Perra, Giorgetti e Gianassi, non vi nascondete là in fondo: venite avanti, imbracciate il vostro violino e fatemi all’uni-sono un la”.I violini emettono degli orribili rumori. Il sindaco salta sulla sedia con la bacchetta e dà in escandescenze: “No, no e poi no! Fate schifo! Alessia [Bettini], Sara [Funaro] e Nicoletta [Mantova-ni], almeno voi che siete così cari-

le Avventure di nArdelik

Il tempo volgeva al meglio. Una pioggia vista da tutti come una liberazione dopo mesi di un inverno siccitoso era in arrivo.C’era infatti una promessa di pioggia per la seconda settimana di feb-braio. Ma il Servitor Cortese era infuriato. Non era possibile che anche il buon Dio si fosse messo a cospirare contro di lui. “Ma come è possibile che proprio per San Valentino mi piova sul Piazzale dei Baci”. Aveva infatti deciso, cercando di copiare il Leader Mininum, che anche il Piazzale Michelangelo, come piazza del Duomo, era da dedicare solo a chi voleva “rimirare a piedi la città felice nella valle”, togliendo le auto in sosta. E per festeggiare aveva invitato tutti a baciarsi proprio lì, in piedi, stretti stretti. Ma se pioveva sarebbe stato un disastro. Ci voleva Nardellik. E Nardellik ebbe l’idea geniale. Mettiamo un GRANDE DEHOR cosi staranno tutti al coperto. Alla parola Dehor il Servitor Cortese ebbe un orgasmo bellissimo. E la sua idea fu salva. Prepariamoci al meglio nella città di Sottofaesulum. Viva il bacio all’asciutto.

BoBo

Il presidentissimo Giani è inar-restabile. Durante il suo Never Ending Tour per i Comuni della Toscana, è arrivato a Massaro-sa e in men che non si dica ha trasformato il sistema produttivo della zona, restituendolo a vita nuova e prosperosa.Così, si è tirato su i calzoni fin sopra le caviglie, si è denudato i piedoni e, col cappello di paglia, è sceso in risaia a trapiantare le nuove piantine di “riso ros-so”. Mentre dirigeva i lavori, sprezzante delle zanzare tigre e delle bisce d’acqua, cantava a pieni polmoni le canzoni delle mondine: « Saluteremo il signor padronecon la so’ risera netapochi soldi in la cassettae i debit da pagar... »A tarda sera, stanco ma feli-ce, ci delizia con un bel post: “Massarosa (Lucca). Il centro “La Brilla” ove si può vedere come la coltivazione del riso si trasformava in prodotto per la tavola. Ai margini del lago di Massaciuccoli il “riso rosso” di Massarosa era preziosa produ-zione che ci stiamo organizzan-do per ripristinare! #vivatoscana #toscana”

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di abitanti del Cairo. Le im-magini di Jean Luc raccontano in maniera drammatica questa sorta di lotta impari fra le figure minuscole dei bambini, impe-gnati in queste operazioni di selezione, raccolta e smistamen-to degli oggetti, imballaggi e bottiglie in plastica, e gli enormi sacchi che vengono trasportati sulle spalle, da un capo all’al-tro della discarica. Anche se si tratta di materiali leggeri, come è facile immaginare, l’impatto visivo dovuto alla sproporzione fra i piccoli lavoratori, simbolo della umanità stessa, fragile e sottomessa, ed i carichi traspor-tati, simbolo di ogni avversità e di ogni dolore, ma anche di una sciagurata scelta di politica economica ed industriale com-piuta a monte, l’effetto delle immagini è notevole e sembra voler riecheggiare il mito di Sisifo, condannato a trasporta-re sulle sue spalle un peso che quotidianamente si rinnova, per l’eternità. Ma le immagini di Jean Luc ripropongono anche il vecchio e mai risolto dilemma su quanto sia “fotogenica” la miseria degli altri, su quanto sia lecito indulgere sull’estetica del “miserabilismo” e della “linke-melancholie”, nella consapevo-lezza che nessuna immagine, per quanto forte, ha mai cambiato il mondo. Del resto neppure l’arte o la letteratura hanno mai cam-biato granché del mondo. Ma la fotografia, e quella di reportage in particolare, a differenza delle altre arti, un merito almeno ce l’ha. Nessuno può giustificarsi dicendo “non lo avevo visto”.

Jean Luc Gelin, fotoreporter free lance, nasce nel 1961 nella provincia francese

del Poitou e comincia fino da giovanissimo ad interessarsi alla fotografia di reportage, collabo-rando con alcuni giornali locali, per convincersi a metà degli anni Ottanta, che per potere esprimere se stesso in comple-ta libertà, deve cominciare a lavorare in maniera del tutto indipendente dalle committen-ze. Comincia così a viaggiare, a proprie spese ed a proprio rischio, soprattutto fra il Nord Africa e l’Africa Equatoriale, realizzando un paio di progetti importanti, fra cui un fotolibro, ed inseguendo altri progetti che invece non riescono ad essere sviluppati, e rinnovando così l’eterno dilemma tra l’essere dei servi ben pasciuti o degli artisti liberi ed affamati. Ma nonostan-te le difficoltà Jean Luc persegue il suo proposito, ben conscio del fatto che “la fotografia è una forma di espressione personale, necessaria al mio equilibrio di vita così come alla mia memo-ria, io la pratico ogni giorno e non la considero completata se non quando viene condivisa”. I viaggi e la fotografia diventano per lui due elementi inscindibili “un viaggio senza foto non è che una frustrazione, mentre una foto è essa stessa da sola un viaggio, e per chiudere il cerchio bisogna cominciare a raccontare delle storie, delle storie di viag-gio, in bianco e nero o a colori, poco importa, purché ci portino verso la bellezza dell’essenza delle cose”. Fra i reportages più riusciti di Jean Luc ve ne è uno, realizzato all’inizio degli anni 2000 al Cairo, che gli è valso per la seconda volta il premio francese “Coup de coeur” della “Borsa del Talento” (un tram-polino per la professione) nella categoria “reportages” nel 2009. A una dozzina di minuti da piazza Thair, ai piedi del Jebel El Mokkatam, nel quartiere Manchiyet Nasser, sorge una sorta di discarica all’aria aperta, in cui dei bambini, affiancati dai fratelli maggiori, si rompono la schiena per combattere la dit-tatura della plastica, sotto forma dei rifiuti prodotti in maniera incessante dai diciotto milioni

di dAnilo [email protected]

Jean Luc GelinLa rivoluzione di plastica

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Creazionedi lAurA [email protected]

“Non sono solo interessato all’arte ma alla società della quale l’arte è un aspetto. Sono interessato al mondo come a un tutto, un tutto del quale la società è una parte.

Sono interessato all’universo del quale il mondo è un frammento. Sono anzitutto interessato alla Creazione costante della quale l’universo è soltanto un prodotto”

È tipico dell’Arte contem-poranea tendere verso gli infiniti slanci dello

sconfinamento e della parteci-pazione collettiva. Non a caso la ricerca estetica si insinua nei meandri più profondi e intimi della poetica personale, per poi aprirsi al mondo con una forza comunicativa inegua-gliabile. L’espressione dettata dalla propria intenzionalità si muove alla base dei linguaggi contemporanei, rivoluzionan-doli e reinventandoli attraverso processi originali, capaci di destabilizzare il normale sentire comune, favorendo la crescita e il progresso culturale in un continuum storico-temporale inesorabile e inarrestabile. Con la consapevolezza che la creazio-ne non può essere vincolata a nessuna condizione di privile-gio artistico, Robert Filliou ha operato lavorando con ironia alla mescolanza di generi e alla casualità aleatoria dell’effime-ro e del vago, per svincolare l’opera d’arte dall’individualità dell’artista: ogni individuo possiede in sé la capacità di creare e di comunicare in senso estetico, per cui l’opera d’arte altro non è che un’istituzione di infinite possibilità operanti. All’uomo non resta altro che sperimentare la propria vena espressiva, gettandosi nel mare della complessità e dell’innova-zione, imparando a conoscere se stesso e il mondo circostante. Robert Filliou pose l’accento sulla necessità di rifiutare le categorie estetiche, annientando le barriere dell’Arte, unendo più media e facendo della scrittura un cardine performativo, in grado di disarticolare i canoni e di rendere incontrollabili le possibilità semantiche. Nella sue opere azione e riflessione si uniscono in una sintesi parados-sale e innovativa: una tensione poetica, ideale, consapevole e definita che concepisce l’Arte in una dimensione di compar-tecipazione e coinvolgimento. In tal modo i principi estetici si assolutizzano in una rete di connessioni che operano contro lo scetticismo comune e omolo-gato, partendo dal fondamento sociale che l’atto creativo porta in sé e con sé nel processo di

Dall’altoOptimistic Box n.1Editions Vice-ver-

sand. Scatola in legno

cm 10,7x10,9x10,5

Optimistic Box n. 3, 1968

Scatola in legno cm 6x12x3

Recherche sur l’origine, 1974

Scatola di cartone con rullo contenen-te carta millimetri-ca con testo e grafici

cm. 10x32x9

Tutte le immagini Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

Robert Filliou

realizzazione dell’opera finale. Robert Filliou ha messo in pratica una vera e propria rina-scita dell’Arte contemporanea, insegnando che ogni individuo ha una responsabilità etica nei confronti dei fondamenti esteti-ci che da sempre hanno animato il mondo umano e, proprio da quelli, è necessario ripartire e crescere.

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nastas (La Cupa/Warner, 2012).Nell’area d’origine, intanto, il rebetiko è rimasto una fonte d’ispirazione per numerosi artisti, come Çiğdem Aslan (vedi numero 78) e la suddetta Maria Simoglou. Profonda conoscitrice di un patri-monio tradizionale che spazia dalla Macedonia alla Turchia, Maria ha fatto parte di Oneira, un gruppo a geometria variabile col quale ha realizzato due album, Si La Mar (2010) e Tâle Yâd (2012). La

formazione comprende musicisti provenienti da varie parti del Me-diterraneo e del Medio Oriente: Francia, Grecia, Iran, Sardegna, etc. Uno di questi, il suonatore di ney Harris Lambrakis, compare anche nel recente Minóre Manés (Buda Musique, 2015), che segna l’esordio solista della cantante greca. Il sottotitolo, Rebétika songs of Smyrna, sottolinea il legame col mondo turco (o per meglio dire, ottomano).

Se i casi Montesi, Ghiani-Fenaroli, Bebawi e altri suscitarono grande clamore e discussioni nel secondo dopoguerra, Firenze può senz’al-tro vantare la primogenitura di un crimine che, grazie alla carta stampata, ebbe vasta eco in Italia: fu l’affare Fuscati, che accadde nel 1905 e che sembra quasi anticipare sinistramente quanto accaduto po-chi giorni fa in Via Santa Monaca.La mattina del 14 febbraio di quell’anno la signora Linari bussa a lungo alla porta di un apparta-mento in Via Vittorio Emanuele n. 3, dove da alcuni mesi si è trasferita la figlia diciannoven-ne Argene, dopo aver sposato Adolfo Fuscati, un impiegato delle Ferrovie. Non ottenendo risposta, la donna chiede aiuto ai vicini che sfondano la porta e trovano Argene morta strangolata con una cordicella legata a un arpione infis-so nel muro di un salottino messo sottosopra in modo tale da far pensare subito a una messinscena.I carabinieri piombano nel Pa-

lazzo del Sonno in Viale Regina Margherita (oggi Viale Lavagni-ni) e trovano Adolfo, noto per un’intensa attività extra-coniugale, intento a mangiare tranquillamen-te pane, salame e fichi (suppongo secchi altrimenti, a febbraio, la vedo dura). Adolfo viene arrestato e poco dopo lo raggiunge in caser-ma Isolina Grassi (di professione non si sa bene se sigaraia o sarta) che la vox populi indica come amante ufficiale del Fuscati.Rinviati a giudizio per omicidio, mentre Adolfo protesta a gran voce la sua innocenza, Isolina ammette, sì, di aver progettato il delitto, ma che a strangolare Argene, lei pre-sente, era stato Adolfo. I fiorentini si dividono in due partiti pro e contro Adolfo e il trasferimento degli imputati dalle carceri al

tribunale si trasforma in un gior-naliero scontro fra le due fazioni contrapposte, a stento contenute da un cordone di polizia.Il tribunale, comunque, crede a Isolina, che viene condannata a trent’anni di carcere mentre ad Adolfo viene comminato l’erga-stolo. Tutto sarebbe finito lì se nel 1921 “La Nazione Sera” non avesse pubblicato una rievocazione a puntate dell’“affare Fuscati”. Fra l’altro tornò fuori la deposizione (rilasciata in istruttoria ma poi ritrattata in dibattimento) del signor Cipriani che aveva la bot-tega di fabbro nello stesso edificio

del delitto: sosteneva di aver incrociato Adolfo in Piaz-za della Libertà mentre andava a bottega dove, una volta arrivato, aveva distintamente sentito rumori e grida, ai quali al momento

non aveva dato peso, provenire dalla casa di Fuscati.Al giornale si presentò allora il signor Loni, amico di vecchia data di Cipriani, che riferì come spesso il fabbro gli avesse confidato il suo rimorso per aver sostanzialmente mandato all’ergastolo un innocen-te. I giudici non ritennero però di riaprire il processo su queste basi. Isolina, scontata la pena, finì i suoi giorni in un monastero del Ve-neto, Adolfo morì in carcere e, al sacerdote che lo confessò in punto di morte, continuò a dichiararsi innocente.

La cantante greca Maria Símoglou è nata a Salonic-co. Oggi questa è una città

ellenica, ma fino al 1913 ha fatto parte dell’impero ottomano. Lo stesso Atatürk, fondatore della Turchia, era nato in questa città. Gli stretti legami storici e culturali fra il mondo ellenico e quello tur-co sono tuttora vivi nella musica, e in particolare nel rebetiko. Questa forma espressiva si è sviluppata in Grecia e in Turchia, nel triangolo che include i porti di Salonicco, Istanbul e del Pireo, fra gli anni Venti e gli anni Quaranta del se-colo scorso. I suoi eroi sono ladri, marinai e prostitute che frequenta-no le taverne del porto, fra alcool e hashish.Dati i contrasti fra Grecia e Turchia, il regime autoritario di Metaxas (1936-1941) bandì il rebetiko per occultare questo lega-me culturale col paese confinante. Nel dopoguerra è cominciata la riscoperta. In tempi più recenti l’interesse per questa musica ha su-perato ampiamente i confini locali, come dimostrano Rembetika: Songs of the Greek Underground 1925-1947 (Trikont, 2005), Mortika (Arko Records, 2005) e il CD di Vinicio Capossela Rebetiko Gym-

I tredici brani sono tutti composti da autori dell’epoca, fra i quali Giannis Dragatsis, Kóstas Skarvélis e Panagiótis Toúndas.La ricca strumentazione com-prende fra l’altro cetra, kanonaki (dulcimer), lafta (liuto), lira, percussioni e saz. In molte canzoni prevale una certa tristezza, ma la gamma espressi-va è varia, perché si passa da un brano ballabile come “Apefásisa polí mou” ai toni introspettivi di “Gínoum’ ‘andras”.In “Tserkéza” la musica si fa più nervosa e ritmata, con le percussio-ni in evidenza. Alla voce versatile della protagonista si alterna talvol-ta quella di Periklis Papapetropou-los, come in “To glykó filí”, tratta dal repertorio di Roza Eskenazi (1895-1980). Presente nel disco anche come autrice, la cantante greca di religione ebraica è una figura centrale del rebetiko. A chi vuole conoscerla consigliamo il bel documentario My Sweet Canary (2011), diretto da Roy Sher. I musicisti che accompagnano le scene sono greci, turchi e israelia-ni, a conferma ulteriore dell’anima multiculturale del rebetiko.

Profumo di hashishdi AleSSAndro [email protected]

di FABriZio [email protected] Via Vittorio Emanuele

L’affareFuscati

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che vi si usano, è un’opera grandissima, anzi sublime, non necessita di essere interpretata,

animata, ironizzata, urlacchia-ta. Controindicate gestualità pacchianotte, smorfie, boccacce, occhi sgranati, ululati, strilli, gridolini, storpiature ironiche dei nomi et similia. Ascoltare il racconto della riabilitazione di Chopin, musicista prediletto di Debussy, fatta dal Narratore alla terribile nuora della signora Cambremer e la impareggiabile descrizione della gioia, spumeg-giante saliva, di quest’ultima,

interpretata con voce altissima, strascicata, qua-si in falsetto ed assistere al contorno del “tirarsi su le poppe” più volte relativamente alle parole “i suoi seni si sollevaro-no e battè l’aria con le

braccia” fa davvero un effetto sgradevole. La prosa proustiana evoca ed illumina ciò che narra, non le serve affatto una messa in scena, tanto meno se questa è esasperata per sottolineare le attitudini caricaturali dell’in-terprete. Sia pure quest’ultimo, l’interprete, bravo o bravissimo non potrà mai emergere se non, e soltanto, tenendo basso il suo smisurato egocentrismo per mettersi, invisibile, al servizio di tale granduer. Così per esemplificare meglio vi pare necessiti di interpretazione creativa quanto segue? “... le frasi dal lungo collo sinuoso e smisurato di Chopin, così libe-re, così flessibili, così tattili, che s’iniziano cercando e trovando il loro posto fuori e ben lungi dalla direzione di partenza, ben lontano dal punto cui si credeva giungesse il loro tocco, e che si librano in quella lontananza fantastica solo per tornare più deliberatamente, - in un ritorno più premeditato, con precisione più grande, come su un cristallo che risuoni fino a strappare un grido, - a colpirci nel profondo del cuore....”

La sonata di Vinteuil da cui Swann e Odette estrapo-lano la “petite phrase” che

accompagna e sottolinea il loro amore, ne diviene l’inno e ne fa riemergere il ricordo quando fi-nisce è “personaggio” importan-te del monumento Recherche, un mistero totale per me non esperta di musica, malgrado la curiosità di conoscere ed ascol-tare i brani riferiti come suoi principali modelli mai ne sono venuta a capo. Sapere che c’è uno spettacolo in cui si suonano i pezzi da cui si pensa Proust abbia tratto i frammenti per co-struire e il musicista Vinteuil e le sonate da cui il magico refrain mi stimola moltissimo. L’idea, davvero notevole, l’ha avuta il pianista Andrea Lucchesini, che suona con il violinista Marco Rizzi ed il noto violoncellista Mario Brunello, si aggiunge a ciò, che già non sarebbe poco, la voce recitante di Maria Cassi che legge brani della Recher-che sul tema. In una lettera ad Antoine Bibesco Proust scrive “la Sonata di Vinteuil non è quella di Franck. Se la cosa ti interessa, ma non penso, ti dirò con il testo alla mano tutte le opere che hanno “posato” per la mia Sonata. La “piccola frase” è una frase della Sonata per piano e violino di Saint-Saëns che ti canterò (trema!). I sovrastanti tremoli sono di un Preludio di Wagner, gli alti e bassi lamentosi dell’inizio sono della Sonata di Franck, i movi-menti spaziati della Ballata di Fauré e via dicendo. E la gente crede che queste cose si scrivano per caso, per facilità di vena.” Ai pezzi surriferiti si aggiungono, nel nostro concerto, Debussy e Chopin, di cui spesso Proust parla, il primo per la modernità e il secondo per l’amore che gli porta, al di là del suo essere caduto in disuso. Non può certo mancare un omaggio all’amato Reynaldo Hahn. Musica bella, musicisti bravissimi, ma ...ma ...Maria Cassi sarà simpatica, brava, un clown impagabile, ma a me è apparsa proprio del tutto inadatta a leggere La Recherche. La prosa proustiana è sfolgorante, ricca, sofistica-ta, mai banale il senso delle parole, sempre non ordinarie,

di CriStinA [email protected]

Per rendere la società civile più civile dal 1 febbraio è in vigore una nuova legge: è la green economy. Così si chiama. Prevede il divieto di fumare in auto in presenza di bambini e donne incinta a bordo. Prevede il divieto di fumare nei pressi di ospedali, scuole e università. E per i trasgressori c’è una multa da 50 a 500 euro. Prevede una multa da 150 a 300 euro per chi getta a terra i mozziconi delle sigarette. Prevede una multa da 500 a 3mila euro per chi vende sigarette ai minori. Per i recidivi la multa può arrivare fino a 8mila

euro con revoca di licenza.Per gli amanti della nicotina, reticenti a cambiare le proprie abitudini, si preannunciano tempi duri. Per me che non sono un fumatore sarà come vivere in paradiso: tutto pulito, dalle piazze ai giardini fino all’aria che si respira. D’ora in vanti non vedremo più quel tappeto arancione sui nostri marciapiedi. Non ci saranno più fumatori in azione vicino agli ingressi di ospedali, scuole e università. E la guerra alle cicche selvagge avrà finalmente partorito cittadini vir-tuosi. Era l’ora che si facesse una legge come questa, che porterà l’Italia ai livelli della Svizzera. Mi domando: perché si è aspettato così tanto tempo!Esco di casa e vado alla fermata della tramvia. Ahimé il tappeto di cicche c’è ancora. Arrivo alla

stazione di Santa Maria Novella idem. Cicche ovunque. Faccio un giro in centro, tutto come prima. Qualcuno dirà: se non vo-gliamo le cicche per terra servono dei posacenere accanto ad ogni cestino dei rifiuti. Qualcuno ha fatto due conti: a Firenze di bi-doni spegni-cicca ce né uno ogni 600 abitanti, mentre a Parigi uno ogni 74 residenti. Lo sappiamo tutti: non basta fare una legge per far cambiare comportamenti e abitudini. Né si risolvono i problemi con multe e divieti. Tanto più se nessuno è in grado di farli rispettare. Manca chi vigila, manca chi controlla, manca chi fa le multe. Dice che spetterebbe ai Comuni, a cui è destinato il 50% delle sanzioni. Di sicuro c’è la società civile. C’è, ma non ci si può fidare: si dimo-stra spesso sempre più incivile.

di remo FAttorini

Segnalidi fumo

Sconsigliamo ai clown di leggere Proust

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che ringraziamo per la disponibili-tà. (Barbara Setti)

“Vorrei proporre qualche rifles-sione che consenta di guardare con consapevolezza al presente e con qualche intenzione strategica al futuro. Sento anche il bisogno personale di spiegare perché non mi trovo in accordo con la scelta di muoversi in questo momen-to con l’obbiettivo individuale della difesa delle Soprintendenze Archeologiche in quanto tali. Sono infatti convinto che ad oggi, nell’ambito di una riforma del Ministero che ha preso le mosse con la commissione Bray e che è già passata attraverso il Decreto dell’agosto 2014 di riorganizza-zione del MIBACT, appigliarsi al mantenimento delle Soprin-tendenze Archeologiche sia non solo debole, ma incoerente con il quadro generale.Oggi purtroppo il problema non può essere ravvisato soltanto nell’ennesimo accorpamento (solo l’ultimo in ordine di tempo), ma deve essere imputato a una deroga complessiva al principio della competenza tecnica in capo a chi deve assumersi la responsabilità delle scelte di tutela; principio che ha caratterizzato complessi-vamente la riforma. Il principio andava difeso all’inizio per tutti, e sostenuto da tutti; oggi accorpare l’archeologia è conseguenza natu-rale di quello che ha avuto inizio allora. Deroga che possiamo vede-re non solo nelle forme organiz-zative che ha assunto il Ministero, ma nei numeri complessivi, che sono estremamente rivelatori.Se infatti, in assoluto, il tema fosse effettivamente quello di un tentativo di tutela integrata del patrimonio, allora di certo gli aspetti organizzativi potrebbero essere discussi senza preconcetti e senza chiusure settoriali.La visione integrata del patrimo-nio non costituisce infatti né una novità per il Ministero né un’idea

peregrina e distante dal sentire di molti; la necessità di un approccio integrato tra le diverse discipline è sentito da molti di noi e prati-cato peraltro in numerosi settori della nostra attività. E già dalla creazione delle Direzioni Regio-nali il Ministero ha adottato un orientamento verso un indirizzo procedurale che tende a unificare i diversi contenuti tecnico-scien-tifici nei pareri emanati dal Ministero. Tanto che nella pratica ciò avviene, e da anni, in tutte le conferenze dei servizi a carattere intersettoriale; avviene in alcuni procedimenti essenziali come i pareri in fase di autorizzazione paesaggistica.Il dato strutturale che invece colpisce e deve essere oggetto di attenzione è quello della rarefazio-ne strutturale dei presidi di tutela che questa serie di riforme ha progressivamente prodotto. Nel 2009 le Soprintendenze diffuse sul territorio nazionale, per il settore oggi accorpato all’interno del sistema archeologia belle arti e paesaggio, erano 78, di cui 6 a ca-rattere speciale. Domani saranno 41, di cui due a carattere speciale.Il dato va oltre ogni doveroso rispetto delle norme sulla con-trazione della spesa: la riduzione complessiva si avvicina al 50% (47,43 per gli amanti della preci-sione).A questo dato penso debba essere sommato un altro elemento altrettanto evidente. La capa-cità complessiva di direzione e indirizzo dell’azione degli uffici è stata analogamente rivoluzionata da questi percorsi di riforma. Nel 2009 il MIBAC contava su 9 uf-fici di direzione generale collocati a Roma, compreso il Segretariato generale e ben 17 Direzioni regio-nali di livello generale, con tutta la capacità di coordinamento e indirizzo che una visione integrata del patrimonio per l’appunto richiede, dislocate sul territorio nazionale.

Oggi il quadro è radicalmente mutato. A Roma gli uffici di livello generale sono diventati 12 compreso il Segretariato Generale, cui si affiancano altri 10 istituti di livello dirigenziale, ossia 10 musei autonomi, con tutta la deflagrante contraddizione tra i concetti di Istituto autonomo e Direzione Generale – di fatto dieci istituti che dirigono espressamente se stessi. Tre dei quali ancora accen-trati nella capitale, cui si aggiunge una Soprintendenza speciale di livello generale ancora a Roma.Il totale è di 16 Direzioni Gene-rali romane in un Ministero che rivolge la propria azione all’intero territorio nazionale. Il dato raf-frontato al 2009 anche in questo caso è emblematico: le direzioni romane passano dal 34% al 67% del totale; in pratica raddoppiano. In questo quadro rivolgere lo sguardo all’accorpamento delle Soprintendenze Archeologiche ri-schia di essere strabico e deviante.Per tutto questo ritengo che sia necessario interrogarsi in modo celere e per forza costruttivo (se non vogliamo derogare alla nostra volontà di tutela del patrimonio) su nuovi modelli di funzionamen-to che facciano reale argine nei confronti dei rischi connaturati a questo nuovo assetto organiz-zativo. Una riflessione che parta necessariamente dalla capacità di ritrovare una dimensione colle-giale e coesa tra i dirigenti di tutti i livelli, tutti ugualmente privati della propria sicurezza tecnica. Dalla capacità di rinnovare un patto di collaborazione con le strutture tecniche degli uffici, dove albergano grandi capacità e competenze straordinarie, ma che saranno molto più variegate di oggi e con le quali bisognerà imparare a parlare con rispetto e competenza. Solo così forse troveremo il modo di fare ancora tutela e in definitiva cultura. Altrimenti rischieremo di non fare altro che piangerci ad-dosso, mentre il resto del mondo continuerà a sorridere della nostra divisione, proprio come si sorride dei capponi di Renzo i “quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’un(o) con l’altr(o), come accade troppo sovente tra compagni di sventura”.

Il Ministro Franceschini ha fatto un ulteriore, forte passo nel progetto di riorganizzazione del MIBACT. Si prevede la creazione delle “Soprintendenze Archeologia, Belle Arti e Paesaggio” di fatto unifican-do in un’unica testa i tre ambiti di tutela (archeologico, patrimonio artistico e architettonico). L’obiet-tivo del Ministro è quello, se ho ben capito, di una semplificazione dei rapporti tra amministrazioni e cittadini e imprese. La riorganizzazione territoriale, dice il Ministero, è stata creata te-nendo conto del numero di abitan-ti, consistenza del patrimonio cultu-rale e dimensione dei territori. Ogni Soprintendenza sarà organizzata in sette aree funzionali: organizza-zione e funzionamento; patrimonio archeologico; patrimonio storico e artistico; patrimonio architettonico; patrimonio demoetnoantropologico; paesaggio; educazione e ricerca. Sono inoltre definiti altri 10 istituti autonomi, oltre a quelli già prece-dentemente creati.Facciamo qualche esempio per la Toscana.Saranno istituite 4 Soprintendenze: per la città metropolitana di Firen-ze e le province di Pistoia e Prato, con sede a Firenze; per le province di Siena, Grosseto e Arezzo, con sede a Siena; per le province di Lucca e Massa Carrara, con sede a Lucca; per le province di Pisa e Livorno, con sede a Pisa.Attualmente l’organizzazione della Toscana è la seguente: 1 Soprintendenza archeologica della Toscana3 Soprintendenza Belle Arti e Pa-esaggio: per le province di Firenze, Prato e Pistoia, per le province di Lucca e Massa Carrara; per le province di Pisa e Livorno; per le province di Siena, Grosseto e Arezzo1 Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici per: Comu-ne di Firenze; Province di Firenze, Prato e Pistoia; Siena e Arezzo; Pisa, Livorno, Lucca e Massa Carrara.A seguito di questa nuova riforma, non ancora ben chiara nelle sue modalità organizzative e di distri-buzione di ruoli e incarichi a livello operativo, si è aperto un ampio dibattito.Ospitiamo di seguito l’intervento di Marco Minoja, Soprintendente per i Beni Archeologici della Sardegna,

di mArCo minoJASoprintendente per i Beni Archeologici della Sardegna La riforma del Mibact

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popolata di personaggi della storia tedesca e parole, un auto-ritratto con il corpo allungato per terra sotto immensi girasoli, simbolo di una natura che inghiotte e si riforma sempre di nuovo....Nell’ultima sala con la grande installazione Madame

de Stael, cre-ata nel 2015 in occasione della mostra, il rapporto con il passato sempre essersi momentanea-

mente risolto con un omaggio al romanticismo e un’ambien-tazione, la foresta, che questa volta è luogo di rinascita e non degli orrori della guerra. Alla fine della mostra la sensazione che tutte le opere viste facciano parte di un lungo intimo collo-

quio viene rafforzata dalla gran-de torre a più piani in lamiera che si erge nella hall del Centre Pompidou. All’interno, visita-bile, pendono strisce di piombo con migliaia di foto scattate da Kiefer negli anni. Queste bande opache non vogliono rappresentare, come si potrebbe pensare in un primo momento, delle pellicole fotografiche. La loro funzione non è infatti la proiezione ma l’introspezione di un artista tormentato da un passato che non ha vissuto ma che continua a inseguirlo.

Non è facile scrivere della grande retrospettiva che Parigi dedica fino al 18

aprile a Anselm Kiefer, artista più volte celebrato in questa città come quando nel 2007 ebbe l’onore di inaugurare il ciclo Monumenta al Grand Pa-lais. La mostra, che si sviluppa in 13 sale con 150 opere tra immensi quadri, teche in ferro e vetro e installazioni, ha infatti una sua tragica e lirica “fisici-tà” difficilmente trasmettibile a parole. Tutto il percorso di Anselm Kiefer, nato nel 1945 tra le rovine di una Germania sconfitta, è stato dedicato a scalfire quell’assenza di me-moria, che lui chiama coltre di silenzio, del suo paese sui crimini del periodo nazista, con la convinzione che l’arte deve sempre tentare di rendere la re-altà evidente. L’artista tedesco, fin dalle sue prime provocatorie opere, cerca di rispondere alla domanda posta dal filosofo Theodor W. Adorno su come fare arte in Germania dopo l’Olocausto costruendo un linguaggio composto da una stratificazione di simboli presi dalla mitologia nordica, dalla religione cristiana, dalla mistica ebraica, dalla stessa storia e poesia tedesca e dai suoi ricordi personali. Nelle sue tele monu-mentali di grande bellezza che attraggono lo spettatore quasi con effetto ipnotico i materiali usati si sovrappongono: terra, sabbia, paglia, gesso, carbone, fiori secchi, cenere ma anche libri bruciati dei suoi poeti preferiti, piccoli oggetti rotti e arrugginiti trovati nel suo im-menso atelier a Parigi, pezzi di sue opere distrutte, frammenti di metallo proveniente dal tetto della cattedrale di Colonia smantellato nel 1985....I temi si ripetono sempre diversi: possenti prospettive d’interni e rovine ricche di tensione tra caos e ordine con riferimenti all’architettura neoclassica del terzo Reich, paesaggi brulli at-traversati all’infinito da grandi solchi neri che evocano il filo spinato dei campi di concen-tramento e attraversati dai versi del poeta ebreo rumeno Paul Celan, la foresta tedesca silenziosa e vuota, in attesa, o

Rimuovere la coltre del silenziodi SimonettA [email protected]

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

Il migliore dei Lidi possibiliSuonata per austerità e

conti in ordine

di lido [email protected]

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compagni dell’anno prima”. Chissà se è vero, forse sì. Sta il fatto che quando è il momento di parlare e giocare sul tappe-tone in classe (una cosa tipo “angolo morbido” delle nostre scuole dell’infanzia), si gioca e si parla tra bimbi e con la maestra; quando la maestra dice “stop: si lavora”, tutti si siedono ai tavoli e riprendono da dove avevano lasciato. A proposito, niente cattedra e niente banchi: tavoli da 6 bambini con al centro un portamatite con materiale per tutti; niente astucci o grembiuli, ma attrezzature comuni da con-dividere. Ho visto personalmen-te in quale situazione ordinata

e concentrata lavorano anche i bimbi di seconda elementare, persino nel giorno di Hallowe-en in cui si va a scuola tutti in costume, pronti per la parade a giro per il quartiere. Ci siamo anche trovati a leggere con i bambini, che poi lo hanno dovuto sottoscrivere e firmare, un codice scolastico in cui si richiamano gli studenti di ogni età al rispetto delle regole di convivenza e alla autovalutazio-ne del proprio comportamento.I bambini si muovono in auto-nomia tra gli ambienti e le atti-vità: vengono invitati a recarsi insieme, e senza insegnante, a mensa dove personale apposi-

to si occupa di loro (niente ser-vizio ai tavoli ma vassoi da self service… come nei film!), nel cortile per la ricreazione o, se il tempo è brutto, nell’auditorium dove il coach proporrà loro gio-chi “indoor”, nella palestra dove faranno le attività fisiche… I miei bambini la prima settima-na si sono persi nella scuola, complice la struttura grande e la difficoltà di comunicazione; nel giro di pochi giorni hanno ac-quisito meccanismi e abitudini nuove e si sono orgogliosamente resi indipendenti.Apparentemente il raggiungi-mento dell’autonomia personale sembra non inserirsi nel nostro ragionamento, ma penso di poter dire che invece una sua parte ce l’ha: acquisire piccole autonomie è parte del pro-cesso di crescita e aiuta nella valutazione di se stessi e del proprio potenziale, incidendo in maniera importante e positiva sull’autostima. E mi permetto di aggiungere che, nell’indipen-denza e responsabilizzazione dei bambini, possa anche risiedere il segreto della disciplina in classe.

Proseguendo con la nostra ricognizione sul campo, genitoriale e non specia-

listica, intorno al tema della valorizzazione delle diversità e dei talenti nelle scuole italiane e statunitensi, propongo alcune osservazioni sulla didattica americana. Dopo aver infatti rilevato che il Ministero della pubblica Istruzione in Italia con una circolare si trova a dover raccomandare alle scuole di valorizzare gli studenti partico-larmente competenti, stabilia-mo un confronto tra il nostro approccio con l’apprendimento e quello della scuola pubblica newyorkese, basato sulla sem-plice osservazione da utenti di entrambe e senza alcuna pretesa di esaustività. Abbiamo detto come la scuola italiana non si trovi ancora pronta a gestire il tema delle competenze speciali. Vediamo se nella struttura di base della scuola americana ci sono spazi per lo sviluppo auto-nomo e individuale delle abilità, senza parlare naturalmente delle scuole speciali destinate ai co-siddetti “gifted and talented”.Ciò che salta subito agli occhi di noi genitori italiani (e iperpro-tettivi) è il livello di autonomia e di disciplina che viene chiesto ai bambini fin dall’inizio: classi di 30-35 bambini sono gestite da una sola maestra, coadiuvata da insegnanti specifici per le materie particolari, come art, computer, movement, games (…giochi, sì…), clay, music, library… L’impegno educativo è tutto della maestra prevalente che cambia ogni anno, come ogni anno cambia la compo-sizione della classe: i bambini della scuola vengono ricom-binati ogni anno in maniera diversa e ogni anno si trovano un insegnante diverso. Tutto ciò è molto lontano dall’idea della maestra-chioccia che abbiamo in Italia (e a cui per personale e fortunatissima esperienza sono molto affezionata). Ci sembra disorientante e spersonalizzan-te, ma i suoi lati positivi forse ce li ha e i miei bambini ne hanno colto uno importante: “I bambini con la maestra nuova e in una classe nuova faran-no più i bravi che se avessero la stessa maestra e gli stessi

di ChiArA ulivi La scuola e i talentiDa Firenze a New York (parte 2)

Ci sia consentito l’inconsentibi-le ma la traslazione della salma di Padre Pio a Roma per il Giubileo non è un buon segno. Non lo è per tanti motivi. Il pri-mo è che il Vaticano con il Frate ha sempre avuto un rapporto piuttosto controverso. Non amato in vita, così come non lo amava il regime fascista, ne ha tollerato il culto prima perché capace di garantire coesione e consenso popolare poi perché, negli anni della secolarizzazione spinta della società, era rimasta una delle poche figure genui-namente popolari della Chiesa Cattolica. Non è un buon segno, da laico e laicista sia chiaro, perché ritorna centrale ai fini della devozione non l’in-segnamento, l’opera e il mistero del Santo ma il suo corpo, la reliquia, l’oggetto di devozione.

Un ritorno al medioevo dove il rapporto tra clero e popolo era mediato dagli oggetti apotropai-ci e mitici, in una sorta di “sem-plificazione” ad uso delle masse del discorso divino. Padre Pio è paradigmatico di un modo di intendere, da parte della Chiesa

Cattolica, il rapporto con i pro-pri fedeli, più il frate è esaltato e meno è matura la considera-zione che il clero ha dei propri fedeli. Il fatto che sia proprio Papa Francesco a riportare in auge Padre Pio credo qualche dubbio possa porlo.

di miChele morroCChitwitter @michemorr Il corpo del santo

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dove, assurdo e inopportuno, un solo cigno/ galleggia casto come neve, scherno della mente ottenebrata/ che brama strappar giù il bianco riflesso. // L’austero sole scende sulle paludi,/ occhio ciclopico arancione disdegnoso di guardare/ più a lungo un tale

panorama di scontento;/ in un nero piumaggio di pensieri, mi aggiro come un corvo,/ cupa, mentre scende la notte inverna-le”. La narrazione della (e sulla) natura si polarizza verso due estremi: da un lato, il candore del cigno e la sua grazia salvi-

fica; dall’altro, l’oscurità dello stagno e, soprattutto, del corvo. Ecco che la parola diviene crea-tura vivente e l’animale, nel suo esistere sulla pagina, dischiude gli estremi dell’anima umana, in bilico tra dannazione e purezza. Una natura, quella della Plath, vista attraverso una prospettiva allucinatoria, sformante, dove – citiamo sempre dallo stesso componimento – “I giunchi dell’estate sono incisi nel ghiac-cio/ come la tua immagine nel occhio; arido gelo/ invetria la finestra della mia ferita; quale conforto/ può scaturire dalla roccia percossa e rinverdire/ il deserto del cuore? Chi mai ver-rebbe in questo tetro luogo?”. È un sovrapporsi di spazi, confini, prossimità edulcorate; mentre il reale e le sue mappe effettive sono privati della loro carica referenziale, presi in un gioco di tristi sinestesie: il segreto lin-guaggio della biosfera del cuore.

11 febbraio 1963: dopo aver posato del pane e del latte accanto ai letti dei propri

figli, Sylvia Plath si suicida aprendo il rubinetto del gas e infilando la testa nel forno. Un epilogo preannunciato sei giorni prima, in quella poesia dal titolo fin troppo presagico – “Limite” (“Edge”) – dove “La donna ora è perfetta” e “La luna, spetta-trice nel suo cappuccio d’osso,/ non ha motivo di essere triste”. La morte quale soglia e, in un certo qual modo, varco che pone fine, una volta per tutte, alla perfettibilità dell’umano. Financo l’elemento astrale, in quei versi, abbandona la sua mestizia, nel deflagrare di un male interiore, banalizzato con l’etichetta di ‘depressione’. Una poesia, quella di Plath, pronta a intessere un dialogo con la natura e i suoi abitato-ri, in un corteggio saturo di presenze, animali e vegetali. Già da “Conversazione fra le rovine” (“Conversation among the ruins”), del 1956, chi scrive si rivolge a un interlocutore in absentia, invitandolo a “gran passi per il portico della mia casa elegante/ […] disturbando ghirlande di frutti/ e i favolosi liuti e i pavoni, lacerando la rete/ di ogni decoro che imbri-glia l’uragano”. Ormai ridottosi a spettro e topografia slabbrata, il paesaggio è da subito ‘limi-te’, pronto a siglare non solo l’incontro di due entità, quanto piuttosto il riemergere di una natura repressa, imbrigliata e che reclama una sua autonomia: “Ora è crollato il ricco ordine di mura; gracchiano i corvi/ sulle rovine spaventose; alla luce tetra/ del tuo occhio aggrondato la magia fugge/ come strega atterrita dal castello al nascere dei giorni veri”. La rappre-sentazione è da Sabba strego-nesco, laddove i corvi – nel riecheggiare quel “nevermore” dall’eponima poesia di Edgar Allan Poe – presidiano questo ‘rinascere al nero’. Un’oscurità, in fondo, ravvisabile in un altro scritto della poetessa confessio-nal – “Paesaggio invernale, con corvi” (“Winter landscape, with rooks”): “L’acqua della gora da una chiusa di pietra/ si riversa a capofitto in quello stagno nero/

di diego [email protected] Soglie lunari: Sylvia Plath

e la parola alterata

Due donne, il tempo che scorre. Felicità, solitudine, amore (presunto o reale), la malattia. Tutti temi cari a Eric Emmanuel Shmitt raffinato autore belga, che è stato messo in scena da Pupi e Fresedde nella sala da ballo del relais Santa Croce, nuovo spazio della stagione del Teatro Verdi.In scena una magnifica Lucia Poli i cui personaggi delle due donne dei due racconti, inscenati quasi come due atti consequenziali dal regista Angelo Savelli, cadono a pennello come un abito di alta sartoria. Soprattutto ne l’Intrusa l’interpretazione di Lucia Poli è stata magistrale. Il passaggio dal tono tragico all’ironico, la levità nell’affrontare (senza mai svelare) l’intrusa sono stati resi in modo magnifico, trasmettendo tutto il caleidoscopio delle emozioni del racconto. Una interpreta-zione che poteva far pensare ad un testo costruito proprio sulla

Poli e che invece ne dimostra la grandezza attoriale ma anche la capacità registica e intuitiva di Angelo Savelli che ha lavorato sul testo creando una riduzione teatrale a misura sia dell’attri-

ce che dell’ambiente in cui è andata in scena. Una magnifica serata, arricchita dalla presenza, a sorpresa, dell’autore belga che pareva davvero soddisfatto della resa scenica delle sue opere.

di miChele morroCChitwitter @michemorr

Lucia Poli magnifica intrusa

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del corpo putrescente, incan-crenito e rattoppato che trova requie e calore solo nel ventre

squarciato di un cavallo.L’acme del calvario si tocca al momento in cui Glass “rinun-

Inarritu ci tiene incollati alla sedia in questo suo “Revenant”. Fotografia

sensazionale, scenari gelidi e sangue che scorre a irrorare le anime, a ridestarle dal sonno cui sembrano destinate. Già la scena iniziale dell’assalto in-diano ai cacciatori di pelli (che ricorda per analogia quell’altra di “Salvate il soldato Ryan” di Spielberg), per non dire poi di quella dell’orsa che si avventa su Hugh Glass/Di Caprio, merita-no la visione.Il film è avvincente, a tratti crudo come pochi. Su tutto campeggia questa cristica pas-sione di Glass, nell’ingiuria del fisico, nella menomazione, una sorta di martirio del corpo e dello spirito. È un’agonia lun-ghissima che ci accompagna per quasi tutto il film, tramite la sofferenza di un uomo che striscia, che guadagna i metri coi gomiti, fra le asperità, il gelo, e gli squarci malickiani d’una natura suprema, side-rale.La metafora dell’uomo stri-sciante è quella del verme, del soggetto deprivato di tutto che torna alla vita dopo esser morto, in una catarsi (quella del redivivo) che presuppone la fusione uomo/natura (in ogni suo ordine e grado) quale principio iniziatico della rina-scita. Anche qui i riferimenti si sprecano: penso a “Into the wild” di Sean Penn, ma anche (per ciò che riguarda il marti-rio del corpo) a “La passione di Cristo” di Mel Gibson. Sullo sfondo delle storie dell’America dei primi decenni del XIX secolo, fra traffici lo-schi, lotte intestine fra tribù e patti fittizi tra clan di coloniz-zatori, si consuma la tragedia personale di un uomo che è figlio di quell’epoca violen-ta, epoca in cui la brutalità e l’onore sono l’ombra sterile del graffio della natura, codici non scritti ma vibranti che sovrin-tendono le leggi dell’uomo. E così Hugh Glass percorre la strada della propria vendicativa passione, strada lastricata di ogni sorta di orrore, lumino-sa, tenebrosa, sanguinolen-ta, pura, percorso esterno e interno, intimo, fra le piaghe

Revenantdi FrAnCeSCo [email protected]

In Italia, da quando fu im-portata dall’America, divenne molto apprezzata, addirittura si guadagnò l’appellativo di “maiale dei poveri”, perché meno costosa della carne ma indubbiamente ricca di nutrimento: vitamine A e C, betacarotene, fosforo, potassio, calcio; la zucca è un mix nutritivo per adulti e bambini. Della zucca non si butta via niente: fiori, polpa e semi sono le parti da mangiare, mentre la buccia può essere utilizzata per addobbi e ornamenti. Nien-temeno per i Romani la zucca svuotata ed essiccata diventava un prezioso contenitore leggero per trasportare sale e cereali, vino e latte. La zucca in cucina è un vero jolly, la utilizziamo per pre-parare diverse portate e cucinare saporite pietanze: dai primi piatti ai risotti, dai dolci ai ravioli, fino ai contorni. La zucca dona colore in ogni piatto e si sposa con gusti diversi per creare sapidità uniche.La zucca gratinata si presenta come un soufflé internamente tenero e la parte superiore croc-cante. Può essere gustata accom-pagnata ad arrosti e bistecche con pane fresco croccante, meglio se baguette francese.Ingredienti per 4 persone:500g di zucca150g di burro

½ l di latte100g di parmigiano grattugiato2 cucchiai di fecola3 uovaPreparazione: Priva la zucca di semi e buccia. Tagliala a cubetti. Fondi 50 g di burro in una casse-ruola e aggiungi la zucca lascian-dola insaporire. Aggiungi 4 cuc-chiai di acqua e del sale. Quando la zucca si sarà ammorbidita, passala al setaccio raccogliendo il ricavato in una casseruola. A esso aggiungi il latte, 70 g di burro,

60 g di parmigiano e la fecola di patate sciolta in un po’ di latte. Metti la casseruola sul fuoco e lascia cuocere per 20 minuti mescolando continuamente. Togli dal fuoco e lascia raffred-dare. Monta gli albumi a neve densissima e insieme ai tuorli aggiungili al composto. Imburra i bordi di una teglia e versa il composto. Aggiungi in superficie il formaggio rimasto e fai cuocere in forno a calore medio finché sarà ben gratinato.

di miChele [email protected]

cia” alla vendetta terminale, al sacrificio necessario che viene delegato alla legge dei nativi, per quello che si rivelerà essere vano ma sublime gesto da con-segnare all’Indicibile, all’equi-librio silente delle cose. Ogni cadavere - quello dell’empio e quello del santo - trova dignità e viene riconsegnato al ciclo delle permutazioni che non conosce limiti, etiche, o mo-rali di sorta, partecipe com’è delle sottili trame ordite dalle Moire. Il difetto di “Revenant” si palesa tutto in questo iato tra la forza straripante delle immagini, delle maschere stra-volte del volto di Di Caprio e la sua simbologia scarna e di prammatica che accompagna didascalicamente le vicende di un’epopea.   Stiamo comunque parlando di un film da vedere assoluta-mente, senza tergiversazioni di sorta.

Il maiale dei poveri

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lectura

dantisDisegni di PamTesti di Aldo Frangioni

Allievi di Simone, senza sbaglio,eran ficcati in vasche con la testané il loro agitar togliea l’abbaglio.

Di credenza terren fecero festanel commerciar quant’era di più sacrocoi piedi in alto al par d’una foresta

sacerdoti di ogni simulacro sopra loro, di diavola sembiante,la statua stava dimensionata macro.

Ad occhio mi sembrò rassomigliantesplendente, ma vestita d’auro fintodonna scrivana, sui dannati stante,

dei segreti narrò del labirinto Catemosse ell’era nominata.L’autore del metallo ridipinto

avea la piazza grande sbeffeggiatacon un accrocchio di cattivo gusto,dal signorin del fior più che omaggiata.

Canto XIX8° cerchio 3a bolgiaSimoniaci. Una moltitudine di papi, cardinali, ayatollah, califfi, rabbini, conficcati a testa in giù in pozzi a forma di fonte battesimale sgambetta inutilmente per spegnere i fuochi che ardono sulla pianta dei piedi.Una diavolessa dorata dalle sembianze di Kate Moss osserva dall’alto. Un’altra trovata dell’imprevedibile Jeff Koons

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‘80. Lavora prima negli studi di Carrara, poi di Viggiù. Tra le sue opere monumentali il monumento in marmo a Virgilio di Brindisi, il bronzo a Paolo VI del Sacro Mon-te di Varese, l’altare maggiore del Duomo di Varese, il monumento al Cardinal Ferrari per il Duomo di Parma, il complesso dell’altare maggiore del santuario della Santa Casa di Loreto, il monumento in marmo ai Caduti sul lavoro della città di Carrara, l’altare maggiore del Santuario di Rho, l’altare delle Grotte Vaticane a S.Pietro a Roma, il volo di colombe in bronzo per la sede Agip di S.Donato Milanese, il monumento a Stradivari a Cre-mona, il complesso bronzeo dei Sette di Gottinga per la piazza del Parlamento di Hannover (Germa-nia), la Porta Santa per la Basi-lica di S.Giovanni in Laterano a Roma, l’altare dell’Eucarestia a San Giovanni Rotondo nel complesso architettonico di Renzo Piano e il Monumento a Paolo VI nell’Aula Nervi in Vaticano. Nel 1999, a Gemonio, è stato inaugurato il Museo Civico “Floriano Bodini”, con una donazione di opere sue e di suoi contemporanei e un’ingen-te collezione di libri.

“Bodini. Sculture, disegni, incisioni 1958/2000“ è la prima esposizione che si organizza a 10 anni dalla scomparsa del grande sculture di Gemonio, che ha caratterizzato il ‘900. Bodini con Guerreschi, Vaglieri, Romagno-ni, Ceretti, Ferroni e Banchieri, fa parte del gruppo milanese di giovani artisti definito Realismo Esistenziale. Le sue opere espri-mono il disagio e l’inquietudine dell’esistenza, in particolar modo nei ritratti, di grande forza espres-siva e drammaticità.La mostra, a cura di Flavio Arensi e Nicola Loi realizzata insieme a Maria Stuarda Varetti, coordina-trice del Comitato gestione eventi della Fondazione Banca del Monte di Lucca, raccoglie una importante rappresentativa della produzione dell’artista italiano nel palazzo delle esposizione della Fondazione della Banca del Monte di Lucca (piazza San Martino, 7 – Lucca) ed è realizzata in collaborazione con il Museo Civico Floriano Bo-dini (Gemonio) con la Fondazione Materima (Casalbeltrame), con

Tessere colorate di un mosaico in eterno divenire, incastri e geometrie che si pongono come “arte assoluta”. I dipinti-istallazio-ni di Marcello Bartalini presentati nella mostra personale dal titolo “Colore assoluto”, che sarà ospi-tata dal 12 gennaio al 14 febbraio 2016 negli spazi del Lu.C.C.A. Lounge&Underground, sono il risultato della sua ricerca pitto-rica di oltre trentacinque anni. L’esposizione, che si compone di circa 15 opere, presenterà una panoramica della produzione dell’artista empolese a partire dal ciclo dell’Astrattismo informale realizzato dalla metà degli anni ’70 fino al 1998, includendo quello Materico floreale degli anni 1999-2012 fino ad arrivare a quello più recente che segue il filone dell’Astrattismo geometrico e delle estroflessioni. Per molti dei suoi lavori Bartalini utilizza come palinsesto tela e legno, un suppor-to misto che gli permette infiniti giochi di inserzioni e cromie.Come scrive il critico d’arte Maurizio Vanni nella brochure di presentazione della mostra: “Bar-talini punta ad eccitare la fantasia

di ogni spettatore, come in un sogno vigile, per sorprenderlo ed allontanarlo da pregiudizi e convenzioni: per lui l’arte visiva non corrisponde alla capacità di creare una costruzione basata sul gusto estetico, ma piuttosto sulla

base del peso, del tempo, dello spazio e della velocità”. L’artista gioca col ritmo e con il movi-mento prendendo spunto per la simmetria delle sue composizioni dalla gestualità della danza, della ginnastica ritmica e delle arti

Bodini. Sculture, disegni, incisioni

Bartalini, colore assoluto

lo Studio Copernico (Milano) e con l’Archivio Bodini (Milano), con il patrocinio del Comune di Gemonio. Floriano Bodini nasce a Gemonio, in provincia di Varese, nel 1933, frequenta l’Accademia di Brera, sotto la guida di Francesco Mes-sina. Ha insegnato all’Accademia di Carrara, di cui è stato direttore fino al 1987 e presidente dal ‘91 al ‘94; e al Politecnico di Architet-tura di Darmstadt dal 1987 fino

al 1998. Nel 1962 è invitato alla XXXI° Biennale d’Arte di Venezia, dove espone sette opere. Nel ‘68 espone la scultura “Ritratto di un Papa”, in legno di cirmolo, che suscita enorme interesse, ed è poi colloca-ta nei Musei Vaticani.A partire dal 1970, dopo il legno e il bronzo, la sua ricerca si allarga all’uso del marmo, materiale essen-ziale per il ciclo delle grandi opere pubbliche, che inizierà negli anni

marziali, ma nella costruzione dei suoi lavori inserisce anche richiami alla geometria e alla matematica.Quello di Bartalini è anche un recupero della manualità, del pia-cere fisico di creare dando voce ai materiali e ai colori decisi. “Barta-lini – prosegue Vanni – lavora sul colore, sulla sua essenza, sul su-peramento della sua materialità, sui contrasti simultanei provocati dall’occhio che esercitano una funzione tanto estraniante quanto ‘riappacificante’; infatti è proprio la percezione visiva che proietta lo spettatore in un mondo sogget-tivo, che lancia le cromie in una dimensione dove risultano essere qualcosa di differente da quello che crediamo, sollecitando la psiche in modo inedito”. La mostra vuole essere anche un omaggio ai grandi artisti italiani innovatori dell’arte astratta del Novecento come Bonalumi, Fon-tana, Manzoni e Castellani, e una celebrazione della creatività come arte gestuale.

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L

Gruppo di giovani manifestanti contro la guerra del Viet Nam che si reca verso l’area del Central Park dove si stava raccogliendo il popolo di coloro che si aggregavano contro l’impegno degli Stati Uniti in quella parte del mondo. I giovani erano decisamente i più presenti a questo tipo di manifestazione, ma per me che ero abituato alle recenti vicende del ’68 in Italia, restava sempre il dubbio che

si potesse fare decisamente molto di più. Col passare del tempo mi sono poi reso conto che fasce sempre più ampie della popolazione giova-nile stavano entrando a far parte di coloro che si opponevano con più energia a questa orribile avventura.

NY City, agosto 1969

Dall’archiviodi Maurizio Berlincioni

[email protected]

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