Cultura commestibile 123

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N° 123

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Cultura umanista?No. Umanistica!

d’incoraggiamento4+

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Da nonsaltare

Ho avuto la fortuna (avrebbe detto Giuffré, con la F maiusco-la) di incrociare sulla mia strada il “Piccolo” di Milano. Sono entrato al “Piccolo” per la prima volta 15 anni fa come assisten-te ospite, volontario, di Luca Ronconi. Devo dire che è stata una grande fortuna perché fra tutte le strutture che producono teatro in Italia il “Piccolo” è sicuramente la principale; è un po’ il tempio della prosa, non soltanto per l’importanza di risultati. Ma anche perché è la sede in cui si fa veramente un teatro d’Europa, per cui riceve in ospitalità spettacoli da tutti i paesi europei, produce spetta-coli che poi vanno in scena in Europa ed è un luogo in cui si respira un’aria davvero europea. Ho avuto la fortuna di entrare in contatto con questa struttu-ra 15 anni fa; dopo di che per molto tempo la nostra è rimasta una relazione a distanza; e poi si è sviluppata una relazione molto stretta nell’ultimo anno e mezzo con l’operazione che Luca Ronconi ha deciso di fare con “Lehman” che ha consolidato il rapporto fra me e Ronconi e fra me e il “Piccolo”. Che è sfociata ora in questa nomina per me del

tutto inaspettata. Io pensavo di essere completamente fuori dai giochi e sono rimasto davvero stupito quando mi è arrivata la proposta.Il Piccolo è diventato negli anni un’istituzione culturale, col rischio di ingessarsi, di perpetuare un mito di un teatro che fu. La scelta lungimirante di scegliere un quarantenne dimostra invece di voler imporre un cambiamento, un rinnovamento, come affronte-rai la direzione di un colosso del teatro italiano?Permettetemi di dirvi però che è indubbio che chiamare una persona di 39 anni a fare il consulente artistico del primo teatro italiano e uno dei primi in tutta Europa, è una cosa che dà molto nell’occhio e quindi diventa inevitabilmente una nomina che assume un va-lore sistemico. Per usare una espressione più semplice, fa ovviamente precedente e mi auguro che così avvenga. Perché all’estero è la normalità che le grandi strutture pubbliche siano dirette da persone che sono in sintonia con il tempo. Non si tratta di fare dello stupido gio-vanilismo, che è retorico come tutte le forme di conformismo

dialettico. Il punto è che se tu vuoi che il teatro sia veramente un luogo in cui, come diceva Ronconi, si assumono nuove forme per l’analisi della realtà; se tu vuoi che il teatro torni ad essere il tempio laico nel quale ci si interroga e ci si confronta sulla realtà che sta fuori della porta, e non dove si perpetua soltanto un repertorio fine a se stesso perché ci piace andare a vedere “La locandiera”; allora chi coordina il teatro deve essere in sintonia, anche linguistica, con quelli che tu presumi e ti auguri essere i frequentatori del teatro. Se tu vuoi che il teatro sia un luogo frequentato dai ragazzi e da persone che sono quelle che frequentano i social network, che vanno a scuola, che si confrontano con l’Uni-versità, con i nuovi metodi di comunicazione, allora chi dirige il teatro deve essere linguisti-camente dentro una struttura sociale come questa. Non è un caso che spesso vengono scelte delle persone che hanno 30-40 anni. Detto questo bisogna fare una precisazione. Fra tanti teatri che ci sono in Italia che veramente hanno in modo pigro preferito adagiarsi sul vecchio pubblico degli abbonati ultra settantenni che vogliono vedere in scena gli attori che facevano gli sceneggiati nell’Italia degli anni ‘60, il “Piccolo” non è certo fra questi. Ovviamente niente da contestare a Goldoni e a Pirandello: io faccio Piran-dello nella stagione prossima, ma una cosa è prendere un testo di Pirandello e darlo in mano al vecchio attore che lo presenta con il divanetto e le attrici con il vecchio costume tirato fuori dalla vecchia sartoria teatrale e altra cosa è interpretare e far fare Pirandello a qualcuno che abbia un guizzo fra Pirandello e la contemporaneità. Ecco fra tutti questi teatri, il “Piccolo” di Milano è stato l’unico a fare una scelta completamente diversa, che non ha puntato sui vecchi carrozzoni del capocomicato italiano; ma su una cosa che ha fatto dell’Italia un paese che ha

Di Stefano Massini si conosce la professionalità, la cura, l’attenzione al lavoro,

al dettaglio. Zero mondanità, mai apparire. Lavoro, impegno, riflessione. Chi lo ha conosciuto da tanto tempo, sa che non sono vezzi e atteggiamenti ma un ca-rattere solido, una buona e salda educazione. Tratti meneghini verrebbe da dire alla luce della recentissima nomina di Direttore del Piccolo. Partiamo proprio da questa nomina: un onore e una grossa responsabilità indub-biamente. Soprattutto dopo la scomparsa di Ronconi. Cosa hai provato alla notizia?Occorre precisare che la mia nomina è di “consulente arti-stico” del “Piccolo” di Milano. La carica di “direttore artistico” non esiste più. Anche Lavia a Firenze è consulente artistico. Vengo alla domanda. Il teatro nel corso del tempo, a causa del-la mancanza di risorse sempre più cronica a sostenerlo, è di-ventato un tipo di lavoro spesso molto distratto, superficiale. Se pensate che la carenza di risorse a disposizione è andata sempre di più ad incidere sulla lun-ghezza delle prove, vi rendete conto quanto oggi sia sempre più faticoso avere uno spetta-colo provato e preparato con attenzione ai dettagli. Il tempo a disposizione è sempre meno, di conseguenza è già molto se gli attori riescono ad andare in scena con la memoria. Vi è un aspetto del lavoro teatrale che invece è completamente scisso dal problema delle risorse ed è la drammaturgia. Il lavoro di un autore non è assolutamente assoggettato alla lunghezza del periodo di prove o ai finanzia-menti. Quello è un lavoro che si fa in proprio e che si è auto-rizzati a fare con la ricerca del dettaglio. Anche per questo io ho puntato sempre di più sulla scrittura, perché questo è un ambito totalmente personale e come tale tu puoi dedicargli tut-to il tempo che vuoi senza essere condizionato dalle poche risorse che ti vincolano ad avere tecnici ed attori solo per un limitato arco di tempo. Quindi molta della mia attenzione si deve al fatto che ormai per gran parte del mio lavoro faccio l’autore.

Il Piccolo Massinidi Michele Morrocchi e SiMone Silianitwitter @michemorr [email protected]

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del teatro di prosa è una città che, senza dubbio, rispetto al periodo in cui c’era la Botte-ga di Gassman o le lezioni di Eduardo De Filippo o Kantor o i grandi spettacoli al Giardino di Boboli di Luca Ronconi o di Max Reinhardt, oggi dovrebbe tentare di rimontare alcune posizioni. Mi sembra un dato di fatto oggettivo. Il teatro della Pergola ha cominciato da trop-po poco tempo la sua storia di teatro di produzione per poterla valutare: ha fatto delle scelte, puntando su un certo tipo di teatro piuttosto che su un altro, scelta legittima, ma personal-mente credo che l’obiettivo che ci si dovrebbe porre è quello di riportare Firenze a quel livello che aveva un tempo e mi augu-ro che ci riesca.Uno dei tuoi tratti caratteristi-ci come autore e come regista è sempre stato l’impegno. Temi etici, sociali. Economia, terrorismo, pena di morte, la Shoah. Eppure sei il regista meno politico che conosciamo. Nel senso che non hai mai frequentato la politica per la tua carriera. Quanto è difficile stare lontano da questa commi-stione tra cultura e potere politico in questo Paese?Oggi è abbastanza frequente e remunerativo dal punto di vista del consenso, generalizzare; ma se vogliamo essere precisi, dob-biamo dire che in un periodo di profonda antipolitica come quello che stiamo vivendo, non è più comodo come lo era un tempo essere amico dei politici. Negli anni ‘70-’80 era un ele-mento di distinguo molto ambi-

to il poter vantare una amicizia politica; ospitare il Ministro, il sindaco o l’assessore di turno nel proprio salotto per gli auguri di Natale era un elemento di distinguo molto forte perché era un momento in cui la politica a livello sociale aveva un ruolo di alto riconoscimento. Oggi non è più così: se hai un amico politico, quasi lo nascondi. Ed è molto comune che oggi, dovunque si venga nominati a qualsiasi carica, ci si affretti a dire che si è fuori dai giri e che non ci si arriva per intermedia-zione politica. Sarà che io sono sempre stato un po’ fuori dal coro, però dico che paradossal-mente di questa antipolitica ne ho fin sopra i capelli e continuo a ritenere che la politica sia una delle cose più alte create dall’essere umano, soprattutto in Occidente dove la politica rimane – al di là dei Fiorito e dei malversatori – ciò che è stato oggetto di riflessione di un Platone, di un Aristotele, di un Sant’Agostino; rimane un’atti-vità altissima e generosa perché si tratta dell’arte di concepire la vita della polis, ciò che distin-gue l’animale-essere umano dall’animale-bestia. E’ vero che io non ho amici che si occupa-no di politica; anzi sono sempre stato attento a non far la parte di colui che andava ad inseguire il politico di turno per chiedere sostegno. L’ho fatto soprattutto per orgoglio, convinto però che questo orgoglio mi abbia tolto la possibilità di frequentare e di approfondire conoscenze umane con dei politici che si sarebbero

sicuramente rivelate delle perso-ne straordinarie e culturalmente importanti. Trovo, però, che il teatro sia una delle manifesta-zioni più altamente politiche dell’uomo. E non intendo che debba essere un luogo dove si fa politica militante. Intendo dire che oggi, in un momento in cui tutti dialoghiamo attraverso i social network senza guardarci in faccia dalla poltrona di casa, il fatto che ci siano dei luoghi dove alle ore 20 della sera, 100, 200 o come avviene nei grandi teatri 700, 800 persone si riuniscono fisicamente con l’obiettivo di sedersi in una sala uno accanto all’altro per assi-stere a qualcuno che, vivo come loro e non proiettato su uno schermo, davanti a loro svolge un discorso: questo è qualcosa di politico nel senso più alto e sacro del termine. Trovo che sia una occasione mancata se la si dedica soltanto alla perpetuazio-ne di un passato che sta in una teca, come in un museo, e non lo si renda invece un luogo in cui, con tutto ciò che di perico-loso e di doloroso ci può essere, cercare delle nuove forme di analisi della realtà. E, infatti, tu torni in scena al Piccolo con la “Trilogia Leh-man” che certamente affronta un tema veramente e altamente politico. La prima ripresa dopo la scomparsa di Ronconi, di cui il tuo testo è stata l’ultima regia. Uno spettacolo impegnativo, in due parti, rigoroso, importante. Pensi che anche i non milanesi lo riusciranno a vedere? Hai in programma una tournée di questo spettacolo?Ora facciamo questa ripresa di tre settimane a Milano, an-che perché la città è coinvolta dall’Expo e di conseguenza un testo come questo si presta mol-to a questo contesto. E’ molto richiesto da altri teatri italiani e stranieri: stiamo analizzando la possibilità di mettere insieme queste richieste con la comples-sità di una macchina così com-plessa per uno spettacolo di ol-tre quattro ore e mezza. Si tratta in qualche modo di cercarne le possibilità di esportazione. Vorremmo dare a “Lehman”, nella stagione 2016-2017, la possibilità di avere anche una circuitazione se non altro nelle principali città italiane.

avuto un primato anche all’e-stero, cioè il grande teatro di regia. Il “Piccolo” ha avuto una doppia stagione nella sua vita: la prima di Giorgio Strehler. Teniamo conto che “Arlecchino servitore di due padroni” diretto da Strehler continua ad essere ripreso dal “Piccolo” e ad essere richiesto in tutto il mondo. La seconda parte della vita del “Piccolo” è stata quella di Ron-coni e quindi del grande regista italiano acclamato all’estero, che veniva chiamato a festeggiare teatralmente parlando appun-tamenti internazionali come l’anniversario della Rivoluzione Francese, piuttosto che le Co-lombiadi; l’unico regista che era in grado di dialogare con altri grandi nomi della regia inter-nazionale come Peter Brook o Bob Wilson. Quindi non sono molto d’accordo sull’idea che il “Piccolo” ha rischiato di inges-sarsi. Detto questo è pure vero che quella fatta è certamente una rivoluzione. Ma anche su questo vorrei ricordare che ben prima di nominare Massini con-sulente artistico, il “Piccolo” ha fatto un anno fa la scelta di fare un mese e mezzo di repliche, che potevano essere una Capo-retto, con Ronconi su un testo che non è “La locandiera” o “La tempesta” o “Sei personaggi in cerca d’autore”, bensì un pezzo che si intitola “Lehman Trilogy” scritto da un autore fiorentino di 38 anni. Quindi l’investi-mento coraggioso il “Piccolo” lo ha fatto già un anno fa e ancora prima puntanto su autori come Rafael Spregelburd. E questo non è stato fatto in altre parti d’Italia. Dunque la mia nomina si inserisce in un percorso che era già avviato.Cosa porti di Firenze, della tua formazione teatrale fiorentina, nella realtà milanese? C’è rivalsa, riconoscenza o semplice indiffe-renza?Porto la gratitudine nei con-fronti delle 2 o 3 strutture che mi hanno permesso di crescere e alle quali anche io credo di aver dato qualcosa. Porto una fiducia, nel senso che la città di Firenze comunque ha un livello culturale molto alto. E’ una città dovela gente discute, dove si va a vedere molto volentieri le mostre, dove si dialoga sulle opere liriche. Dal punto di vista

Fino al 17 maggio al Teatro Manzoni di Calenzano Shenzhen significa Inferno, l’ultima produzione di Stefano Massini per i 13 anni di residenza del Teatro delle Donne a Calenzano.Ore 21,15, ingresso 13 euro (10-5 ridotto)

Intervista al drammaturgo successore di Ronconi alla guida del teatro milanese

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Lei, la Santa Maria Elena Boschi, lo aveva detto ai ragazzi, nell’ormai lontano settembre 2014 quando era andata ad inaugurare l’anno scolastico nella sua Laterina in quel d’Arezzo: “Stay pain, stay curios”, che detto nella nostra lingua madre significa “Siate rompisca-tole, siate curiosi”. E loro l’hanno presa in parola. Anche perché la Ministra aveva anche detto “non fate arrabbiare troppo i maestri e le maestre”, mica aveva specificato

il Presidente! La Ministra ignara, forse, di ciò che la collega Giannini stava cuocendo in pentola, si era spinta parecchio in là, per esempio, dicendo che per risolvere il problema dei precari “il concorso resta l’unico metodo meritocratico a stabilire l’accesso all’insegnamento”, e altre varie amenità. Poi è scoppiata la bomba “Buona Scuola”, e anche la candida Maria Elena ha mostrato

il suo lato “hard”: ha rampognato i sindacati, con un inappellabile “giù le mani dalla scuola”. Poi però, all’incontro con i sindacati di mar-tedì 12 maggio è tornata la solita madonnina di sempre e, con gran sbattere di ciglia, ha detto sorpresa (al volo, gentil farfalletta): “Come fate a non fidarvi dei presidi? io li conosco bene visto che anche mia madre lo è”. E per il noto principio

del sillogismo aristotelico (che presto diventerà del sillogismo renziano), se la mamma della Boschi è preside e la Boschi è bella, brava e buona, ergo anche tutti i presidi devono essere bello, bravi e buoni. Da cui “tutto il potere ai presidi” e “a morte i reazionari menscevichi sindacali”. Ma per fortuna che c’era Renzi alla riunione che ha subito twittato «Il dialogo su La buona scuola è utile. Nei prossimi giorni faremo su questo un #matteorisponde». E con l’oracolo renziano tutto andrà al suo giusto posto. Amen

riunione

difamiglia

“Renzi ha ancora da impara-re. Ha aspettato anni prima che Civati defezionasse. Lui è simbolo di occidente decadente”. Pare che siano state queste le parole pronciate da Kim Jong Un al telefono con il suo amico Antonio Razzi dopo che questo l’aveva chiamato per sapere come mai il generale Hong Yong Chol, capo dell’esercito, non rispondesse più al telefono da giorni. Il motivo era semplice il rubicondo dittatore lo aveva fatto eliminare perché il generale aveva osato appisolarsi durante una delle interminabili cerimo-nie di regime. Ma al generale Yong non era stato riservato un comune plotone di esecuzione ma un colpo di mortaio. Una fine piuttosto brutale non c’è dubbio. Razzi però non si è per-so d’animo. Ha salutato l’amico dittatore e appena riattaccato ha chiamato Salvini, che con Razzi divide la passione per il regime nordcoreano. “Matteo, sono An-tonio, volevo dirti, la prossima volta che andiamo a Pyongyang portiamoci il caffè da casa. E pure tanto”.

La nostra potente organizzazione ha intercettato questa comunica-zione arrivata a molti iscritti del PD fiorentino da parte del candi-dato Eugenio Giani. Una lodevole iniziativa.Cara amica / caro amico,il prossimo 31 maggio si svolge-ranno le elezioni per il rinnovo del Consiglio Regionale, e mi presenterò come candidato per la circoscrizio-ne di Firenze nella lista del PD al quale sei iscritto. Ti chiedo solo pochi minuti del tuo tempo per condivide-re la tua opinione su come vorresti che Firenze fosse rappresentata in Regione Toscana e presentarti i punti principali del mio programma, gra-zie del tempo che vorrai dedicarmi.Eugenio GianiQuale pensi possa essere la priorità culturale di Firenze in Regione?•Il 767° anniversario della cam-minata di Pistolozzo Bustolorti da Gavinana a Brozzi da festeggiarsi tramite un apposito comitato orga-nizzativo da me presieduto.•Istituire il premio “Eugenio Giani” per il miglior rinfresco all’inaugura-zione di una mostra•Mettere a referendum il nome di ogni cartello della Fi-Pi-Li e inau-gurarli tutti, con apposita cerimonia da me presieduta, nel corso di una sola giornata.Quali pensi siano le priorità sportive di Firenze in Regione?•Rendere specialità olimpica il tuffo nell’Arno del primo gennaio•Istituire la “Guarda Giani”, corsa non competitiva di innumerevoli Km a corrermi dietro mentre passo da una lodevole iniziativa all’altra•Proporre Firenze per le olimpiadi del Rifresco

Si rimane attratti, non c’è che dire, dal titolo “Magnificent”; ma già il sottotitolo doveva far sorgere un sospetto “l’incredibile storia della bellezza che ha rivoluziona-to il mondo”.Impressione che la visione ha confermato in certezza.Incredibile lo è davvero: la farcitura di luoghi comuni sui Medici con una sceneggiatura mediocre, le innumerevoli sevizie alle quali sono stati sottoposti alcuni dei capolavori dell’arte rinascimentale con madonne che strizzano occhi e muovono braccia e mani come pupazzetti, il David di Michelangelo che si ricompone da frammenti sparsi con tanto di aureola stellare: ma secondo Michelangelo il Gigante non era “nascosto” dentro il blocco di marmo? Insomma tutto pare affrontato con una faciloneria imbarazzante.Peccato la Sala d’Arme e le potenzialità della visione digitale meritavano altra sorte; forse meno magnifica ma più brillante e coe-rente. C’è ancora tanta strada da fare verso la rivoluzione…fatelo dire da uno che se ne intende…

A sua insaputa Vincenzo De Luca, candidato per il centrosinistra alla carica di presidente della Regione Campania, si è trovato nelle lista “Campania in rete” che lo sostiene personaggi davvero originali: An-tonio Amente e Arturo Iannaccone, berlusconiani della prim’ora, Carlo Aveta esponente de La Destra, altri noti omofobi, fascisti conclamati e orgogliosi. Alcuni indagati per camorra e per legami con l’area più legata alla malavita organizzata di Casal di Principe. Del resto De Luca ha incassato anche l’endor-sment, niente meno che di Adriano Tilgher, fondatore insieme a Ste-fano Delle Chiaie di Avanguardia Nazionale che ha spiegato la sua sintonia con Renzi perché, come loro, il premier vuole “spaccare gli schemi... infrangere, ribellarci, lottare insieme e con De Luca è un gioco che si può fare”. Ma che volete che sia, ha commen-tato ‘o Maradona della politica campana, “c’è stata qualche sba-vatura nella presentazione di una lista apparentata marginale”. A chi gli chiedeva conto di questa “sba-vatura”, ha risposto “ci sono degli impresentabili? E voi non votateli”, denunciando qualche problema con la lingua: “impresentabili” vuol dire che non dovevano essere presen-tati, il votarli viene dopo e d’altra parte se tu presenti dei candidati, ti immagini di farlo perché qualcuno li voti, o no?La prossima volta, per completare la lista, verranno reclutati Jack lo squartatore, quella gialla dei Tele-tubbies e Remo il Cazzaro.

le Sorelle Marx

i GeMelli di Berja il Fratello di Malevič lo Zio di trotZkyi cuGini enGelS

Santa Maria Boschi

Candidatoa sua insaputa

Il lodevole sondaggio

La magnificabellezza

Democraziadormiente

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L’artedeinumeri

Demosthene Agrafiotis

Verso la seconda metà degli anni Sessanta, nel momento in cui le ten-

denze estetiche contemporanee stavano giungendo al culmine delle proprie prospettive, la prassi verbo-visuale proseguì il proprio cammino, superando i confini nazionali e omolo-gandosi alla crescente necessità di una visione cosmopolita e internazionale della cultura. Le espressioni che ne derivarono rispecchiarono il clima del disa-gio e approfondirono la propria ricerca, attraverso la presa di coscienza dell’esistenza di nuovi rapporti tra il modo di concepi-re il mondo, la storia, la realtà e l’opera d’arte. Il gesto estetico venne inteso come una sintesi di ideologie in divenire, riflessio-ni estetiche, azione creativa e segno linguistico-iconografico, la cui precarietà andava riletta, riscritta e riordinata in una nuova struttura ermeneutica e formale. L’orizzonte intellettuale si affollò di parole, espressioni e combinazioni linguistiche che descrivevano il caos contingente della situazione sociale e racco-glievano il proliferare di progetti e gruppi operativi underground, riuniti tutti sotto il comune denominatore del rinnovamen-to. La vitalità delle proposte assimilarono le varie forme di innovazione per operare - non solo in senso moderno ma an-che contemporaneo - mediante lo scambio internazionale di idee e proposte per una pratica artistica al di là dei generi, dei canoni, della tradizione e dei limiti imposti alla creatività. L’arte che ne derivò mise in luce che la contaminazione di parola e immagini aveva la missione di mettere alla prova uno degli elementi fondamentali della vita collettiva: la comunicazione, lo scambio di segni linguistici, la lettura della società e dell’uomo moderno nella loro interezza. In questo clima di ripensamenti critici, estetici, epistemologici e filosofici entra in gioco De-mosthene Agrafiotis che, dalla Grecia, ha avuto il coraggio e la passione necessaria per affac-ciarsi su un orizzonte più vasto, scrutando i limiti culturali, penetrando nelle trame del-la modernità e del progresso

Al centro Alphabet, 2003Cibachromecm. 29,8x21Sopra e sotto Projet “L.D.V.”, 1998Matite colorate su cartacm. 22,5x28Tutte courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

di laura [email protected] scientifico. Nelle sue opere si

rigenera l’anima dell’uomo teso a un costante miglioramento delle proprie possibilità, volto a sconfinare i limiti delle pro-prie concezioni. Nella poetica dell’artista l’Arte plastica – fo-tografia e pittura – e la scrittura divengono gli strumenti per sondare l’applicazione delle scienze, in una sorta di circolari-tà fra il momento conoscitivo e quello tecnico sperimentale. La forma dell’espressione prende spunto e ispirazione dall’ansia del progresso e dello sviluppo, poiché nulla deve rimanere immanente né cadere nell’oblio delle coscienze collettive, ma il tutto deve pragmaticamente realizzarsi nell’ottica e nelle

modalità di ciò che è tecnica-mente possibile. Per Demo-sthene Agrafiotis l’intermedia è una delle possibilità esistenti per l’Arte di creare un prodotto umanistico ancora fruibile este-ticamente senza alcuna perdita di valore con la consapevolezza che i linguaggi non si sono esauriti e che l’uomo ha ancora molto da comunicare.

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Quando nella Primavera dell’87 morì Primo Levi la cultura italiana perdeva

uno degli intellettuali più im-portanti, oserei dire più “utili” del ‘900. La sua riflessione sulla Shoah in realtà coincideva con quella sul mondo e sulla con-dizione umana. Veniva meno per me l’unica persona per la quale ho nutrito una ammira-zione senza limiti e, non sembri strano, ho provato un affetto del tutto particolare. Primo Levi aveva scandito i tempi e i modi della mia formazione cultura-le, della mia maturità. L’avevo conosciuto a Torino, dove ho vissuto diversi anni, in casa di Arrigo Vita, primo traduttore del Diario di Anna Frank, dove abitava Leonardo Debenedetti, l’amico medico che ritrovia-mo ne “La Tregua”. Avevano entrambi la volontà di testimo-niare, volevano mantenere una promessa, un impegno preso nel campo di sterminio. Primo scriveva, Leonardo si rivolge-va direttamente agli increduli attirandoli a casa per mostrare loro le prove dello sterminio. Ed io, giovanissimo, li guardavo parlare fitto fitto, con curiosità e ammirazione. Era davvero lui lo scrittore che mi aveva così entusiasmato, mi chiedevo. Ma non ebbi il coraggio di parlar-gli. Sarebbero poi passati una quindicina d’anni per iniziare un rapporto con lui. L’occasione venne nel 1978 quando curai un numero speciale de Il Ponte in occasione del 40° anniversa-rio della promulgazione delle Leggi Razziali. Fra i testimoni di quella tragedia e anche sulle sue conseguenze (l’Italia non fu fuori dal “cono d’ombra dell’O-locausto”) non poteva mancare Primo Levi. Lui ci riconsegnò quanto aveva già scritto ne “Il Sistema Periodico” dicendo che non aveva nulla da aggiungere. Non fu pigrizia ma conferma dell’impegno che Levi metteva negli scritti sulla sua esperienza. Ma la cosa non finì lì. Infatti quando la Rivista andò in stam-pa, andammo insieme ad Enri-ques Agnoletti e lui a consegna-re la prima copia al Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Guardo e faccio vedere la foto di quell’evento con orgoglio.

Primo Levi e iodi uGo [email protected] da tanti anni: un convegno

internazionale sul fenomeno dell’antisemitismo, che avrebbe poi avuto il titolo “Ebraismo e antiebraismo, immagine e pre-giudizio”. Naturalmente scrissi subito a Primo il quale mi invitò a Torino per parlarne. Ancora una volta ero emozionatissimo. Mi accolse nel suo studio, quello stesso studio dove aveva scritto, libero dal lavoro di chimico in fabbrica, tutti i suoi libri, in Corso Re Umberto. Subito mi chiese se mi era piaciuto la sua ultima fatica “I sommersi e i salvati”. Sorpreso dalla domanda balbettai che quello “schema” descriveva bene il mondo di allora. E dico ora, ahimè, anche quello di oggi. Poi parlammo d’altro. Mi mostrò il suo com-puter e mi disse delle difficoltà incontrate all’inizio per usarlo, salvo poi non poterne più farne a meno.Arrivammo però alla risposta negativa circa la sua partecipa-zione al Convegno di Firenze. Mi descrisse la sua situazione familiare. La madre e la suocera erano inferme a letto, bisognose di assistenza continua sua e della moglie da diversi mesi. Aveva dovuto rinunciare anche ad un invito in America a cui tene-va tanto. Immaginatevi come avrebbe gioito oggi alla notizia della traduzione in inglese dell’intera opera. In una parola era depresso. Successivamente mi scrisse ribadendo quanto già detto a voce. E anche dalla lettera, siamo alla fine del 1986, traspariva la depressione. Ma in realtà oltre alla famiglia c’era dell’altro che lo angustiava senza confessarlo. Erano i tempi del negazionismo di Faurisson. Ciò che gli aguzzini dicevano ai de-portati, cioè, se salvati avessero raccontato la loro storia non sarebbero stati creduti, si stava avverando. Milioni di morti, uo-mini, donne, bambini, le camere a gas, i forni crematori venivano giudicati una pura invenzione. Ma di questo la lettera non parlava o almeno non ricordo e purtroppo il foglio andò smar-rito. E pochi mesi dopo cadde dalle scale di casa. Non desidero entrare nel dibattito se si sia trattato di una disgrazia o di un suicidio. La sua riservatezza e la sua umanità non meritano alcuna violazione.

Scavezzacollo

di MaSSiMo [email protected]

Quattro anni dopo, nel 1982, organizzai, per la Provincia di Firenze, un viaggio di studen-ti e insegnanti ad Auschwitz. Telefonai a Primo per chiedergli di accompagnarci. Non nutri-vo molte speranze. Lui invece accettò con entusiasmo anche perché, disse, voleva finalmente vedere il Memoriale italiano che, insieme ad altri reduci e artisti, aveva progettato, non avendo potuto partecipare alla inaugu-

razione due anni prima. Si tratta di quello stesso Memoriale che il Governo polacco voleva distrug-gere e che grazie al Comune di Firenze e alla Regione Toscana troverà asilo e valorizzazione nel quartiere di Gavinana. Chissà come Levi avrebbe commentato questa incredibile vicenda. E siamo al 1986. In occasione di Firenze capitale europea della cultura, il Comune finanziò un progetto che avevo in mente

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Valérie Jardin nasce in Francia, cresce in Normandia e si tra-

sferisce negli USA dove vive attualmente a Minneapolis. La fotografia gioca un ruolo determinante nella sua vita, tanto da avergliela cambiata. Dal primo momento in cui prende in mano una fotoca-mera, diventa una narratrice. La fotografia diventa la sua passione, la sua ossessione, la sua dipendenza. Fotografare è ciò che fa per vivere, ma è anche ciò che fa per trarne piacere e nei suoi momenti di riposo. Di se stessa dice che vive e respira in pixels. Come fotografa professionista matura molteplici esperienze, dal ritratto all’architettura di interni, dopo di che decide di dedicarsi all’insegnamento, non solo all’insegnamento delle diverse tecniche o dei diversi metodi di ripresa, ma soprattutto all’insegnamento della fotografia vissuta, quella che in mancanza di altre defi-nizioni, viene chiamata “street photography”, termine con cui non si intende la professione di “fotografo ambulante” o “fotografo di strada” così come veniva svolta un tempo anche da noi, e fino a non troppi anni fa nei paesi meno svi-luppati industrialmente. Per “street photography” si intende oggi quel genere di fotografia realizzato per strada, o comun-que all’aperto, generalmente in città o in luoghi abitati, e che ha come tema principale la gente, ma anche il contesto in cui la gente vive, lavora, agisce, si incontra e si confronta, alla luce del sole o nella penombra, di giorno o di notte. Chi prati-ca la “street photography” deve essere per metà un “flaneur” e per metà un “voyeur”, e può contare nel numero dei suoi ispiratori e predecessori nomi di grandissimo rilievo, fotogra-fi che hanno scritto la storia della fotografia. La poetica di Valérie Jardin è relativamente semplice, ma richiede una profonda maturazione ed una rigorosa educazione. “Quando mi guardo attorno, cerco sempre di “vedere”, per trovare dappertutto delle belle

di danilo [email protected] storie. La mia passione per

l’umanità mi ha portato verso la street photography. Adoro cercare ed aspettare il momen-to giusto per raccontare una storia in un solo scatto, in una sola immagine. Trovo dello straordinario nell’ordinario, nel quotidiano, soprattutto nei dettagli. Quando guardo le cose ho imparato a “vede-re” ed a trovare la bellezza in tutte le cose. Anche se mi piace passeggiare nelle strade delle grandi città, il mondo della natura attorno a me mi meraviglia sempre. Percepisco il privilegio di vedere tutto ciò attraverso il mio obiettivo.”Per trasmettere ai giovani fo-tografi queste sue convinzioni Valérie organizza dei corsi, o workshop, dedicati a diverse città, negli USA (Minneapolis, Chicago, Los Angeles, New York) ed in Europa, soprat-tutto Parigi e la Normandia, ma anche Londra e Roma. Attraverso la fotografia cerca di far conoscere non solo la gente, ma anche la storia e la cultura dei luoghi visitati. La sua attrezzatura è ridotta al minimo, una compatta digitale con un obiettivo luminoso con lunghezza focale fissa, scelta un po’ per moda e per imitazione dei fotografi “à la Cartier-Bresson”, un po’ per dimostrare che la semplicità è la prima dote del fotografo che sa osservare, ed un po’ perché la reflex digitale le era diventata troppo ingombran-te e pesante. Il suo portfolio visitabile su Internet offre una ampia gamma di proposte, con numerose immagini a colori, ma soprattutto con un grande numero di immagini in bianco e nero. Fra i suoi lavori in bianco e nero “Pa-ris”, “New York”, “Streets of the world”, “January Nights - Paris”. Alle immagini nitide affianca immagini notturne meno definite, un poco mosse, fuori fuoco, piene di riflessi, simili ai ritmi della vita che viene raffigurata, calde come le emozioni che sa catturare. In “The importance to remaining invisible” confessa lo stesso punto di vista di Cartier-Bres-son. Chi pratica la street pho-tography deve saper osservare, senza interferire

Valérie Jardin

La regina della strada

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giochi per bici con tutti mon-ticini.Ed è proprio qui che, nel 1700 e nel 1800 vissero i Manescalchi.

Si era nel 1697, quando Fran-cesco Manescalchi si trasferì da Santa Maria a Vigesimo, Barberino di Mugello, a Firenze, a Monticelli, in questa cascina, e qui dette vita a una dinastia che si è articolata fino ai nostri giorni, passando anche agli altri poderi dei Tolomei, quello detto Grande o della Fornace e quello della Querce..Qui Francesco iniziò questa nuova avventura e i Tolomei, oltre alla conduzione del podere, gli affidarono compiti di com-

pravendita tipici di un terzuo-mo, che nella scala gerarchica della fattoria veniva dopo il fattore e il sottofattore.Così lo troviamo nei documenti di fattoria, depositati all’Archi-vio dell’Impruneta., in questa attività sussidiaria alla fiera di Prato, e al Galluzzo a comprare e vendere buoi e vitelli per la fattoria.Nel 1722 Francesco Manescalchi appare per una vendita di un manzo al Galluzzo1727 rimborso di sc. 15 per una vitella comprata a Prato da Fran-cesco ManescalchiOltre a questo continuò la sua attività di maniscalco come risulta da questo documento:1718 pagati a FM sc4.2.6 per 34 ferri nuovi, 38 rimessi e 5 cavature di sangue.Francesco ebbe una lunga vita, nato nel 1649 in Mugello morì a Monticelli nel 1729 lasciando i figli Pietro e Giuliano in un re-lativo benessere. Ebbe numerosi discendenti che popolarono il piccolo mondo dei Manescalchi mezzadri, ortolani, giardinieri di Monticelli fino alla fine del 1800.Per questo motivo l’Isolotto, che copre per intero l’area del Podere Nuovo dall’Arno a Via del Palaz-zo dei Diavoli (già, anche questo palazzo, ridotto a colonica, abi-tato dai Manescalchi) è un po’ per me una seconda patria.

L’Isolotto fu edificato nell’a-rea agricola del Podere detto Nuovo o Podere della

Casa al Bosco d’Arno, o, infine, del Palagio, perché si trovava di fronte a Villa Tolomei, che è ancora sita in via Palazzo dei Diavoli, in direzione dell’Arno.Venne chiamato Nuovo perché fu l’ultimo acquisto dei Tolomei che già possedevano il Podere Grande, oltre via dei Mortuli, dove era la Fornace, e il Podere della Querce che si trovava a sud della Villa, a confine dei beni della Chiesa di Sant’Angelo a Legnaia.Tale podere era allora confinato fra via dei Mortuli,lo Stradone d’Arno e i beni degli Alberti, dei Susini e dei Baldesi.La casa colonica del Podere che subì, nel 1732, un incendio e in seguito fu restaurata, aveva un bel pozzo circolare sovra-stato dall’arco di ferro per la catena. Un portico ad arcate. L’edificio era ad un piano dalla parte dell’ingresso e a due piani dall’altra, forse per le camere, Tale casa colonica, ora demolita, si trovava accanto la colonica dei Silvestri (le case erano ubicate tra gli attuali viale dei Bambini e via dei Melograni), ma era ancora in piedi quando negli Anni Cinquanta si sviluppò il quartiere dell’Isolotto. Devo il recupero della sua foto al signor Enzo Venuti che così dialoga su facebook con altri iscritti al gruppo dell’Isolototto.Stefano Bigazzi -E la vecchia bottega del Puliti vicino a via del Biancospino? Bisogna avere diversi anni è?Pilú Lore - Franco e Marta la moglie, ortolano mitico e il Cencetti alimentari. Che tempi! Enzo Venuti - Certo che mi ri-cordo la bottega del Puliti in Via dei Bambini. Poi il babbo Puliti ha aperto una macelleria accanto alla Latteria Cirillo e il figlio Romano rilevò la pizzicheria accanto all’ortolano Franco di via Mortuli (ora, dal 1968 circa, è il vecchio Ringo di Borgo San Jacopo). Che tempi! Ma si risale a prima dell’alluvione. Sergio Banchi - Esatto dove ora c’è un prato che era stato destinato area cani più in basso della sede stradale, poi riempito con terra,era diventato parco

di Franco [email protected] L’Isolotto edificato

sul “podere nuovo”dei Manescalchi

Il migliore dei Lidipossibili

Il vulcano che erutta non si pone

interrogativi

Disegnodi Lido Contemori

Didascalia di Aldo Frangioni

di lido [email protected]

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perfino  la manifestazione del potere, sono costretti a cedere nella loro sintomatologia; è come se nel suo “farsi” ogni atto venisse a disperdersi e a torna-re allo scheletro dell’animale mitologico. Nessuna società può fare una simile esperienza con la morte. La comunità raccon-tata da Andrei Zvyagintsev è una comunità distante proprio perché troppo contigua alla monumentalità disumana di certa Natura, di certo a qualcosa di non addomesticabile che ci colma di una inquietudine senza oggetto.Un film di assoluta e rara po-tenza.

“Leviathan” di  Andrei Zvya-gintsev è un film gigantesco che descrive la microstoria

politica di un continente del pensiero con lo scopo manifesto di mostrare il mito in tutta la sua immanenza. E’ un film a tesi: la cornice delle immagini del paesaggio ad aprire e chiude-re il teatro delle vicende dell’uo-mo è una cesura netta, priva di dialettica. Particolari e peculiari vicende, certo, quelle di una area remota del nord della Russia, dell’ex-militare Kolia e della sua famiglia alle prese con un caso tipico, un fatto “dostojevskiano”, un pretesto, il quale a macchia d’olio si spanderà ad avvolgere i personaggi in una prospettiva sempre più assoluta. La sottra-zione di ogni scavo psicologico si palesa nella immanenza (rela-tiva) del potere kafkiano di Stato e Chiesa, del Monarca e del Cristo, del sindaco e del prete ortodosso; gli esseri sono mera pulsazione vivida di vita, e ribel-larsi significa sprofondare nelle viscere del Leviatano, accostarsi all’assurdo, lottare coi fantasmi del Soggetto, o meglio con la sostanza informe che diventa Soggetto. Era Laclau a far notare che “il linguaggio è un fenome-no stalinista” e che il rituale di stato, la deferenza-adulazione che tiene legata una comunità, la voce neutra e priva di ogni frammento psicologico, rappre-senta una dimensione priva di soggetto, una neutralità afferente al linguaggio medesimo.Nel film tutto ciò è rappresen-tato dall’enorme scheletro del leviatano, Cosa inerte ma “viva” nella sua ineluttabilità. Essa gia-ce sulla spiaggia della comunità quale Significato che sfugge alla simbolizzazione, alla fluttuazio-ne dei significanti che vengono gravitazionalmente espulsi dal Centro. Zvyagintsev sottrae il futuro alla sua storia tramite l’ancoraggio al Leviatano, relega i personaggi in una pantomima in cui perfino la morte è priva di dialettica con la vita (la moglie tradisce e si uccide gettando-si da una scogliera mentre il capodoglio mostra il suo corpo fra le onde). I fatti della vita, il tradimento dell’amico con la moglie, il figlio abbandonato, la vana lotta per la giustizia,

Un fattodostojevskiano

di FranceSco [email protected]

Adoro polemizzare un pochino, mi sento stimolata a dire cose che ho pensato e provato nel vedere il film di Moretti dal titolo della re-censione, curata dal caro amico, da me chiosato come cattivissi-mo, Francesco Cusa, “la Madre di Moretti tiene fuori lo spettato-re”. Moretti parla, come sempre, di sé, e con se stesso anche di molti, se non di tutti, del tempo in cui viviamo, di politica, di ci-nema e della vita, della vita quasi

qualunque, di ciò che in essa ine-vitabilmente accade. Questa volta la morte è prevedibile, normale e “giusta”, colpisce una anziana madre, non inaccettabile e stra-niante come nell’altro film in cui muore un vigoroso e splendente figlio. Verso la fine del film un pensiero acuto mi ha quasi colto di sorpresa “ma davvero un film vale tutto questo lavoro? Tutte queste attrezzature, tutte queste spese? Un film è una cosa inutile poi in fondo, di qualunque cosa esso tenti di parlare... “Ed è’ an-che qui forse che Moretti mi ha condotto... Ancora, nella scena iniziale mi sono sentita come colpita in faccia da uno schiaffo, quelle grida “la-vo-ro per tut-ti” scandite da improbabili mani-festanti mazzolati da probabili poliziotti antisommossa... Il dito nella piaga. Chi non ha un ragaz-zo disoccupato o male occupato in famiglia? A chi non è capitato di riflettere se si sta con i mani-festanti o con i poliziotti? Nel corso di un viaggio nella attuale Russia ci raccontarono che la passata organizzazione Comuni-sta garantiva un lavoro a tutti e che la perdita di questa possibi-lità era stata la più immediata e drammatica differenza alla caduta del vecchio mondo. Un ricordo lontano evocato da quegli slogan fittizi e verissimi ad un tempo, che esprimono un bisogno qui, ora. La pacifica donna di età che sta, obbediente, nel suo letto di ospedale accettando cure un po’ inutili mi ha fatto in lei identifi-care... La sua grande e vuota casa di altri tempi, con le ordinate vestigia di una vita, la bella libre-

ria strapiena, mi hanno evocato la mia di case ed i miei di libri, e gli oggetti della mia vita, troppi ed inutili ed incomprensibili per chiunque altro, ingombranti dopo la mia inevitabile futura di-partita. Intorno al momento del morire di un genitore che si può mettere in scena se non emozio-ni tristi ed inquiete, memorie involontarie, dolci o rabbiose, dolore e, se va bene, come in questo caso, silenzio e partecipe vicinanza? Giulia Lazzarini, la Cosetta dei Miserabili televisivi, fornisce una interpretazione che non appare “falsa” in nessun momento, mentre Turturro, nella sua falsità di Divo della Vera Celluloide, angosciato da un irrisolvibile dilemma sull’essere e l’apparire, sul vero ed il falso, ci rivela infine di soffrire di agnosia: non riconosce le facce di nessuno né le cose che lo circondano. Chi fa cinema non ri-conosce né sé né gli altri? E gli operai licenziati e la fabbrica chiusa gliene frega qualcosa a qualcuno? Da set cine-matografico. Un film pacato e meditativo, vite belle e fortunate che scorrono, il vero regista, serio e un po’ intristito esprime e mo-stra il suo vero dolore, la sua di-spiaciuta emozione e sta vicino al personaggio che mette in scena, la sorella regista. Occorrono due persone però per realizzare questo bislacco convivere, persona e personaggio, che la Regista-Buy raccomanda o più riprese ai suoi attori. Scorrono le immagini e il tempo e la vita di ognuno e di tutti, scorrono pensieri e ricordi ed emozioni in me ed io immagi-no anche in molti altri.

di criStina [email protected]

Mia Madreda vedereper riflettere

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L’onore e l’onere del Mugnone è stato quello di essere, da sem-pre, il principale alimentatore del fosso che correva a difesa delle mura cittadine e quindi, una volta entrato in città, ha avuto, col passare dei secoli, il suo bel daffare ad adeguare il suo corso all’andamento della cinta muraria.In origine il Mugnone, arrivan-do dalla valle Faentina, scorreva lungo Borgo Pinti, svoltava in Via degli Alfani, da Via dei Servi attraversava Piazza del Duomo e andava a gettarsi in Arno vicino al Ponte Vecchio.Ai tempi dei romani da Via Por Santa Maria il corso del Mugnone fu spostato lungo Via Tornabuoni e la foce in Arno all’altezza del Ponte a Santa Tri-nita. Nel 1078 il Mugnone ebbe un altro colpo e, da Piazza del Duomo, fu deviato lungo Via Cerretani e Via Rondinelli per riprendere poi Via Tornabuoni.Nuova significativa deviazione nel 1172: il Mugnone venne incanalato lungo la direttrice Via San Gallo-Via dei Gino-ri per entrare, da Piazza San Lorenzo, in Canto dei Nelli e poi, lungo Via del Giglio e Via dei Fossi, gettarsi in Arno all’altezza di Piazza Goldoni.

Di questo percorso resta una curiosa testimonianza all’angolo fra Via de’ Ginori e Via Guelfa, dove il “Canto alla Macine” ri-corda probabilmente un antico mulino.Nel 1284 il Mugnone assunse un corso ancora diverso: da Piazza della Libertà proseguiva lungo il Viale Lavagnini, costeg-giava la Porta a Faenza, prose-guiva a diritto lungo il Viale Belfiore per gettarsi in Arno vicino a Piazza Vittorio Veneto.Nel 1553, con la costruzione della Fortezza da Basso, il Mu-gnone venne deviato a monte della Fortezza stessa e pratica-mente sul percorso attuale fino a Piazza Puccini, da dove pro-seguiva lungo Via delle Cascine per gettarsi in Arno all’altezza del Piazzale Kennedy. Un’ulti-ma deviazione, della quale non sono in grado di precisare la data, lo portò infine alla foce attuale.I galloni di fiume il torrente Mugnone se li conquistò sul campo. Correva l’anno 1870

e il giovane principe indiano Raiaram Chuttraputti, in visita a Firenze, vi morì il 30 novem-bre. I dignitari indiani si mo-bilitarono immediatamente e richiesero al Comune di Firenze di concedere un luogo “alla confluenza di due fiumi” dove

cremare il principe, secondo la tradizio-ne indiana; dopo un po’ di tergiversazio-ni, e pare con il non secondario aiuto di cospicue bustarelle indiane, il Comune cedette: l’unico po-sto ad hoc sembrò la confluenza fra Arno e Mugnone (che appunto in quell’oc-casione fu promosso da torrente a fiume) dove fu eretto il rogo e dove poco dopo, sempre a spe-se degli indiani, fu costruito il cenotafio dell’Indiano.Naturalmente non tutti, a Firenze, approvarono l’in-consueta cerimonia; portavoce dell’ala contestatrice si fece Renato Fucini, che, nel sonetto “La bruciatura der

principe indiano”, diceva fra l’altro: “Hann’ a anda’ ‘n de’ su’ posti a fa’ ‘r padrone. - Qui l’omo mòrto ‘un s’è bruciato mai, - Nemmen’ a’ tempi della ‘Nquisizione. - E ‘un si vòr più la piena?... Lo vedrai!”

boratori si fa più consistente, mettendo in luce una varietà stilistica che riflette la sensibilità multiforme della protagonista.Ecco quindi Ernst Stolz, noto interprete di musica antica, che suona la viola da gamba; Saskia Laroo, trombettista jazz attiva in varie formazioni; un altro ja-zzista, Bob Van Luijt, che suona vari strumenti; Thijis de Melker, bassista rock; il già citato Arthur

Bont. Fin dal titolo (“Io sono quercia” in afrikaans) il disco esprime un amore profondo per gli alberi: ecco infatti il salice (“And the willow tree smiled”), l’olmo (“Here one stood elms”) e “When we trees”. Inoltre, la foto interna ritrae la musicista che abbraccia gioiosamente un albero.Questo amore per la natura è il riflesso di un approccio passiona-le e ricco di fantasia.Nell’iniziale “Where’s Mo?” arpa e tromba duettano egregiamente: il risultato è una musica ipnoti-ca, elegante, ricca di pathos ma al tempo stesso priva di orpelli. La meditativa “Wandering”, per arpa sola, richiama certi brani del CD Metamorphosis - The Hours (Channel Classics, 2012), dove l’arpista coreana Lavinia Meijer ha raccolto grani di Philip Glass

Anne Vanschothorst, nata ad Emmen nel 1974, è una delle più interessanti arpiste olandesi. Contrariamente alla maggior parte delle sue colleghe, come Petra van der Heide e Anouk Platenkamp, è anche una com-positrice.Il suo primo CD, Aarden (2007), contiene composizioni originali per arpa; lo stesso vale per quello successivo, I Am a Dreamer (2008). In Then it Became Clear (2011) Anne non è più sola: accanto a lei troviamo Arthur Bont, un valido percussionista olandese che vanta esperienze di vario tipo. Il disco propone brani originali con vaghe influenze di Erik Satie.Questi tre lavori escono per l’e-tichetta Harp and Soul, fondata dalla musicista olandese.Nel nuovo CD, Ek is eik (Big Round Records, distribuzione Naxos, 2014) la lista dei colla-

riarrangiati per arpa.L’amore per la natura viene ulteriormente rimarcato dai titoli che alludono agli uccelli: “Stran-ge Bird”, per arpa sola; “Raven’s Departure”, dove Anne duetta con Stolz; “The Caged Owl”, anche questo per arpa, ispirato al romanzo di Harry Crews The Hawk is Dying.In “I Know My Way” e “Here Once Stood Trees” le morbide sonorità dell’arpa si intrecciano felicemente con gli effetti elettro-nici di Van Luijt, autore dei due brani insieme alla protagonista. Maturo, intenso, contemplativo ma lontano dai toni zuccherosi della New Age, Ek is Eik nasce da un solido retroterra classico ma ne supera ampiamente i limiti, proponendoci una musica che non può essere etichettata, ma ascoltata e riascoltata con la massima attenzione.

di FaBriZio [email protected] Via Lungo il Mugnone

La storiadi un fiume

L’arpista che abbraccia gli alberidi aleSSandro [email protected]

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poraneità, tra il sempre e l’oggi. Che il disegno, contatto imme-diato e trasparente tra immagina-zione e concretezza del gesto, tra idea e tatto appunto, tra quel che non c’è e quel che invece appare, esalta, restituendo per un attimo

alla pittura – a questa pittura reinventata che parla della pittura stessa – il barlume della sua anti-ca e misteriosa fascinazione.

Disegni, disegni, fino al 7 giugno allo Spazio delle Arti La Soffitta di

piazza Rapisardi a Colonnata

a una prima occhiata il mondo che Carlo Bertocci dispiega per carte e tele può

sembrare – lo è sembrato a chi scrive - un sorta di capriccio: un succedersi di figure tutte ugual-mente assorte, impegnate in gio-chi di sguardi, in gesti enigmatici muti e allusivi, tra architetture che impongono la loro presenza e paesaggi che si scorgono spesso da una finestra o dall’alto di una terrazza …Si tratta in realtà di un complesso ragionamento sulla pratica e sulla storia della pittura che lui, pro-veniente da situazioni di ricerca extrapittorica anni ’70, cominciò presto a proporre, appunto nel corpo stesso della pittura, di questa vecchia cosa, per dirla con Barthes. Come a vivificare questa con quello: a dimostrare che la linea analitica dell’arte moderna, di Filiberto Menna, tanto per citare un testo celebre giusto di quegli anni ’70, passava da qui. Anche da qui. Una ventina di disegni, dagli anni ’80 a oggi, costituiscono ora una mostra che sembra porsi, in questi spazi, in dialogo ideale, anche, con autori coinvolti, in anni passati, in ricerche analoghe (e anche qui un nome per tutti, quello di Piero Nincheri). Ecco scorrere allora una serie di grandi carte con su le An-nunciate, i Suonatori di luce, la Statua,ma anche le composizioni con l’alloro, l’olivo e la quercia e i tanti altri soggetti, tutti allegorici e tutti riferiti alle origini stesse della pratica pittorica. E se le figure del Timpano, due giovani dall’aria classicheggiante,stanno a rappresentare l’ascoltare e il vedere, le due ragazze di Tra ascolto e silenzio nascono invece dal pensiero di Cage e della sua musica del silenzio. Alloro, olivo e quercia, che sembrano una di-vagazione agreste, stanno invece per le tre arti dell’Accademia, pittura, scultura e architettura, e l’annunciazione è l’annuncio dell’arte stessa, tra apollineo e dionisiaco … Diventa, per effetto allora di im-magini simboliche che tornano l’una dentro l’altra, l’uno a citare l’altra, e di una pittura sapiente, dai modi calmi e misurati, un gioco di specchi vertiginoso e in-trigante fra tradizione e contem-

Sulla praticae sulla storia della pitturadi Carlo Bertocci

di Gianni [email protected]

BoBo

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immensi finestroni che dovevano garantire maggior luce possibile ai vari ateliers. Varcato l’androne, la destinazione d’uso degli ambienti interni appare già insolitamente annunciata dai nomi degli artisti che vi tenevano studio e che fi-gurano lungo le pareti dell’ampia scalinata, incorniciati con effetto trompe l’oeil,: citiamo tra gli altri Bernard De Palissy, Bernardino Poccetti e Jean Cousin Il Palaz-zo dei Pittori riveste quindi un ruolo di notevole interesse per il numero degli artisti che vi si sono avvicendati, primo fra tutti il pittore svizzero Arnold Böklin

che, ospite dell’amico e pittore russo Wladimir Swertschkoff, vi concepì la famosa Isola dei Morti. Tra i “domiciliati” in que-sto palazzo si annoverano anche lo scultore Domenico Trenta-coste, il pittore Egisto Ferroni, Giovanni e Romeo Costetti e lo scultore Giuseppe Graziosi. E’ curioso ricordare che gli scritti di Giovanni Papini ci informano del suo primo incontro con Gabriele D’Annunzio proprio nello studio di Trentacoste. In questi ambienti ebbe sede anche la prestigiosa “Scuola Fiorentina di Pittura” diretta dai professori Giuseppe Rossi ed Alberto Zardo, mentre in tempi più recenti vi hanno operato Gianni Vagnetti e Arrigo Dreoni fino a giungere agli anni del G.A.VI.M (Gruppo Artisti Viale Milton), nato nel 1983 per arginare un tentativo speculativo conclusosi, grazie all’intervento di Giovanni Spadolini, con il vincolo dell’edificio architettoni-co che imponeva la destinazione degli spazi interni ad uso di studi per artisti.

Si chiama Tea Party Italia ma non è un partito e neppure è (o si rende)

collaterale ad alcun d’essi, per-ché un movimento estraneo a qualsiasi competizione elettora-le, una “piattaforma operativa” (come l’ha definita il suo por-tavoce Giacomo Zucco) aperta a chiunque ne condivida idee e regole, vuole soltanto diffon-dere una cultura che in Italia ha sempre avuto vita grama, essendo Paese dominato da una diffuso sentimento collettivista e solidarista. ‘Nacque’ appena cinque anni fa, in quel di Prato, forse non a caso se è vero che Prato è un po’ realtà anomala nella nostra regione, lo dico in senso buono: perché dinamica un po’ sopra la media (crisi del tessile, ormai risalente, e crisi degli ultimi anni permettendo), cosa che mi ha fatto sempre ritenere che i pratesi siano i ‘lombardi’ della Toscana, ma anche per essere terra di fron-tiera, sulla cui trama econo-mica e sociale ha impattato una imponente immigrazione cinese. Insomma, Prato come luogo di una possibile ed anzi già corrente contaminazione, ha metabolizzato un verbo che giungeva dai lontani Stati Uniti d’America, dai repubblicani libertarians (che si distinguono dai social-conservatori) - e non si sarebbe potuto farlo me-glio in qualunque altra città toscana. Era il 20 maggio del 2010 ed io, da anni ‘senza casa’ politica, accorsi con un amico ad ascoltare quella cosa strana e mi ritrovai tra volti sconosciuti a provare un senso inatteso di consuetudine, di familiarità. Mi pareva di sognare: ascoltare e condividere con sessanta/settanta persone provenienti da varie parti d’Italia, parole che non avevo letto o leggevo se non nei libri (come “L’ingra-naggio della libertà” di David Friedman o il più classico “Anarchia, stato e utopia” di Robert Nozick) e che comun-que non mi capitava di ascolta-re mai. A differenza dei partiti, che dispongono dall’alto di pochi protetti palazzi delle vite degli altri (che siamo noi tutti), che lanciano proclami generici ed asettici da salotti ovattati, il ‘Partito del Tea’ avrebbe orga-

nizzato negli anni a seguire più di trecento incontri/conferenze/convegni in svariate città d’Ita-lia, per lo più nel Centro-Nord, intercettando la curiosità e l’interesse di oltre 15 mila persone. Numeri tutt’altro che eccezionali, certo, che parlano però dell’unica esperienza che conta per spingere una lenta trasformazione della cultura dominante, vuoi che si realizzi ‘fisicamente’, vuoi mediante la rete (dove Tea Party è attivo non solo con il suo website

ufficiale): incontrare, spiegare e confrontare le proprie ragioni (chi lo fa più, oggi?) non a nu-meri-da-trasformare-in-voti ma ad uomini da rispettare nella loro storia e nelle aspirazioni, contro uno Stato invadente e una legge che impone decisioni arbitrarie ed inique: che cosa vuol dire dunque “meno tasse più libertà”? Che senso ha nel XXI° secolo la riscoperta del trinomio vita-libertà-prop-rietà? Perché non possiamo più mestamente tirare le giacca allo Stato ma dobbiamo riprendere il controllo delle nostre vite? E’ solo per il fardello del debito e/o lo spettro del deficit o c’è anche una scintilla etica? E so-prattutto, dov’è la sbandierata vittoria del liberismo, se è vero che dietro i più grandi ed anche recenti disastri sono per lo più decisioni assunte da burocrati nel dispregio delle regole di mercato (che è una delle molte istituzioni sociali, per usare un concetto assai usato dal filoso-fo-giurista Bruno Leoni) e dei diritti di proprietà individuali?

Cinque anni di Teadi Paolo [email protected]

Il “Palazzo dei Pittori” è quell’im-ponente fabbricato rosso, con ampi finestroni, che domina il Mugnone nel tratto di viale Mil-ton; è sempre stato chiamato così poiché ha ospitato artisti italiani e stranieri fin dai tempi della sua costruzione. Grazie ad una inizia-tiva che rientra nei festeggiamenti per i 150 anni di Firenze Capi-tale, i quindici studi degli artisti che ancora vi operano saranno nuovamente visibili al pubblico sabato 16 Maggio dalle 11,00 fino alle 21,00. Un’occasione che si rinnova a distanza di ben 25 anni dall’evento “Studi aperti”. Il palazzo fu fatto costruire dal pittore inglese Lemon con l’in-tento di metterlo a disposizione di tutti gli artisti di varie nazionalità che, come lui, si trovassero ad operare a Firenze in quegli anni. L’edificio, di stampo “umbertino”, si distingue per il forte impatto visivo dovuto al colore rosso pompeiano della facciata e agli

Alla scopertadel Palazzodei Pittori

Il puntodi vistadi una estrema minoranza

di luiSa [email protected]

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È già da qualche anno che, passeggiando tra le bellezze della mia città, mi capita di

ripensare alla scena: l’interlocu-tore di turno che, alla domanda postami “dove vivi?” e alla mia risposta “vivo a Prato”, inizia a sciorinare il proprio immaginario della città, fatto unicamente di fumanti ciminiere di fabbriche tessili in crisi oppure di stanzoni affollati da operai con occhi a mandorla, che lavorano in condi-zioni di sfruttamento.Chi abita a Prato è ormai abi-tuato a questo stereotipo che, sdoganato dalla potenza dei me-dia e ripetuto quotidianamente come una sorta di mantra “che fa notizia”, finisce inesorabilmente per mettere in secondo piano le altre mille sfaccettature di una città – la terza per numero di abitanti del centro Italia – ricca di bellezza, diversità, contempo-raneità, mixate in un connubio dalle spiccate potenzialità. Ripercorrendo il tragitto pedona-le che solca il centro storico, tra il Duomo, il Palazzo Pretorio, la chiesa di S. Francesco e il castello dell’Imperatore, immagino di guardare ciò che mi circonda con gli occhi di chi visita Prato per la prima volta: sono così lontana dallo stereotipo! Allungando poi il mio sguardo fuori dallo spazio urbano, che dire delle colline circostanti, costellate da borghi intatti nel loro fascino, rocche medievali, ville rinascimentali, testimonianze etrusche, oliveti e cantine i cui nomi compaiono sulle tavole più prestigiose del pianeta? E della Val di Bisenzio, intrisa di storie remote e del passato recente, incorniciate dal paesaggio lussureggiante delle riserve naturali appennini-che? Quanti turisti potrebbero beneficiare delle stesse bellezze e soprattutto tornare a casa con un bagaglio carico delle storie che questi luoghi ci raccontano? Come fare ad attirare una fetta dei numerosi visitatori che affol-lano Firenze, stregati dal fascino e dalla ricchezza di proposte della culla del Rinascimento, in un territorio che è tradizionalmente poco presente negli itinerari della Toscana ma che forse, anche per questo, ha molte sorprese da offrire? E come invogliare anche il settore turistico a rappresentare

la provincia di Prato in un modo nuovo, restituendone al pubblico le eccellenze e generando stupore, superando gli stereotipi?Da queste considerazioni nasce l’idea di That’s Prato, frutto della sinergia di diversi attori del territorio: il Progetto Prato della Regione Toscana, la Camera di Commercio di Prato e tutti i comuni dell’area hanno lavorato fianco a fianco per la costruzione di una serie di itinerari inediti che, a partire dal 3 maggio per 25 domeniche, racconteranno questa terra ai turisti in maniera accatti-vante, offendo gratuitamente un servizio di guida italiano/inglese e di collegamento bus a/r dalla stazione di Firenze SMN.Cinque itinerari a tappe, ciascu-no della durata di un giorno, che toccano l’arte, l’archeologia, il paesaggio, l’artigianato e le produzioni tipiche del territo-rio, strizzando l’occhiolino allo storytelling turistico: ecco quindi il racconto dell’“Arte a tavola nel Rinascimento” che si snoderà tra la villa medicea di Poggio a Caiano e gli affreschi pratesi di Filippo Lippi, e poi “Tra arte contemporanea e archeologia industriale”, “Quando c’erano gli Etruschi”, “Il viaggio dei pellegrini”, “Per ville e castelli alla ricerca delle principesse”.Chissà che tutto questo non sia l’inizio di una nuova storia da raccontare per la Prato del futuro...?Per informazioni sugli itinerari e per le prenotazioni www.thatspra-to.com

La Prato che nonti aspetti

Viaggiare è come sognare: la differenza è che non tutti, al risveglio, ricordano qualcosa, mentre ognuno conserva calda la memoria della meta da cui è tornato

E. A. Poe

di iSaBella [email protected]

Così titola “Le Monde” in occa-sione del 50° anniversario della morte del grande architetto (1887 – 1965). Alla generazione dei più anziani (quelli che si sono laureati in questa discipli-na fino agli anni ‘70/’80) può sembrare spiazzante e imbaraz-zante questo dubbio, raccolto e prospettato da François Chaslin (Un Corbusier) e da Xavier de Jarcy (Le Corbusier, un fascisme français), presenti alla retro-spettiva organizzata al Centre Pompidou a Parigi. Le Cor-busier è stato e resta un mito indeclinabile e nessuno si era posto il problema della sua fede politica o delle sue debolezze di regime. Sorprende (ma dob-

biamo quanto meno prenderne atto, se pur da verificare) leggere che Le Corbusier ebbe atten-zione e debolezze per l’action di Mussolini e, più tardi, a quella di Pétain; e che si precipitò a Vichy nell’autunno del 1940, sperando di esser riconosciuto “le grand architecte de l’Etat français”. I due autori, Chaslin e de Jarcy, ripropongono il rap-porto fra architettura e potere, inestinguibile nel tempo.Del resto, il nazismo preferì Albert Speer a Walter Gropius, il fascismo Marcello Piacentini

a Giuseppe Terragni, lo stali-nismo lo stile monumentale al costruttivismo: dunque, perché meravigliarsi ?

di FranceSco Gurrieri

Le Corbusier fut-il fascisteou demiurge?

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altri avevano votato Pasok, Nuova Democrazia, qualcuno anche il KKE, ma in pochi, perché loro non si spostano. Infatti il Pasok è arrivato al 4% e Nuova Democrazia a poco oltre il 27%.Quando Tsipras faceva campagna elettorale e assumeva degli impegni la gente credeva che tutti sarebbero stati attuati oppure c’era già la sensazione che non sarebbe stato possibile onorarli tutti o perlomeno nei tempi promessi?La gente prima di tutto ha voluto cambiare, perché il governo di Nuova Democrazia e del Pasok c’è stato in Grecia per più di 40 anni. C’è stato uno scambio tra famiglie di alta bor-ghesia: prendevano il potere una volta uno, l’altra volta l’altro. La gente si è stufata. Quindi hanno deciso di votare per la sinistra solo per dare l’occasione ad un soggetto politico nuovo di pren-dere il potere. Poi perché Syriza non è coinvolta in scandali, non si è mai sporcata. Poi perché c’era la speranza che un governo nuovo andasse in Europa a negoziare, prima non c’era stato nessun tipo di negoziazione. Terzo perché la sinistra ha annunciato un programma che conteneva misure per il popolo e non contro. Da quan-do sono andati al governo poche cose sono state fatte però è ancora presto per fare una riflessione negativa.Quindi secondo te non c’è una delusioneNo, no. In generale. Le persone di sinistra sono deluse, ma ne parliamo tra di noi. Per il momento bisogna continuare così. Hanno promesso molte cose, dicendo “domani si farà così”: questo “domani” è arrivato ma non è che è stato fatto tutto e subito. Però delle cose le hanno fatte: per esempio hanno depositato in Parlamento la legge per riaprire la televisione pubblica, chiusa in una maniera brutale. Hanno depositato la legge per il ripristino dei contratti di lavoro collettivi, cancellati dal governo precedente. Daranno 200 milioni per la crisi umanitaria: avevano detto mi-liardi, però è già un inizio. Prima non davano niente, la gente non aveva da bere, da mangiare, da pagare l’affitto, per le medicine.C’è stato un cambiamento nel “senti-mento” della gente, nell’intimo?Sono tornati i sorrisi, la voglia di vive-re. Era sopravvenuta una depressione nazionale, c’era stato un aumento spaventoso dei suicidi, 4500 dal 2009. Questo stando ai dati ufficiali, ma non è escluso che anche altre morti siano state dei suicidi. E comunque delle morti sono dovute a malattie insorte, o aggravetesi e non curate, a causa della crisi.E’ vero che sono stati tagliati molti alberi per potersi riscaldare?Non solo alberi, ma oggetti di plastica, sedie, di tutto, con un problema gra-vissimo di inquinamento ambientale. Non potendosi assicurare il riscal-damento centralizzato, la gente o ha utilizzato il camino o ha comprato delle piccole stufe bruciando oggetti che non potevano essere bruciati.

L’inverno ad Atene non si poteva respirare. Qualcuno ha pensato che fosse un fenomeno verificatosi solo nei paesi, ma lo si è visto soprattutto ad Atene.Torniamo ai danni prodotti dalla “cura” della Troika.La gente è stata licenziata. Perdendo il lavoro si perde anche l’assicurazione sanitaria. Lo stato te la garantisce solo per un anno. Dopo devi fare una trafila per avere una specie di “tessera di povertà”, ce l’hanno le persone che vivono in mezzo alla strada. Hanno imposto un ticket di 5 euro per accedere all’ospedale: sembra una sciocchezza, ma per molta gente questi cinque euro sono un problema. Gli ospedali sono stati ridotti malissimo, molte apparecchiature, tra cui quelle per Pet, Tac, risonanze magnetiche sono state disattivate. Hanno licenzia-to molti medici. Bisognava dimostrare alla Troika che si recuperavano soldi.Il governo come si giustificava?Dicevano “dobbiamo fare questo perché ce l’ha imposto la troika”. Ma questa è una grande bugia, perché la troika voleva che si recuperassero soldi ma non diceva in “questa” maniera.Lo Stato poteva recuperare risorse in tanti altri modi, ad esempio au-mentando le tasse sul reddito e sulle proprietà. Ma non lo hanno fatto: gli armatori e i ricchi non hanno mai pagato le tasse e non ce la farà nem-meno Syriza, perché loro altrimenti vanno all’estero. Però spero che ci provino, e che adottino una politica fiscale più giusta. Hanno licenziato le donne delle pulizie del ministero delle finanze. Erano lavoratrici con salari bassissimi, sono state licenziate per appaltare il lavoro a ditte private. Varoufakis aveva annunciato che pochissimi giorni dopo l’insediamento sarebbero state riassunte, ma ancora non è stato fatto. Insieme alla bolletta della luce, per 2 anni hanno imposto la tassa sulla proprietà. Se non pagavi la tassa – anche su piccole case, case che non producevano reddito perché a causa della crisi non riuscivi ad affit-tare – ti tagliavano la luce. Dopo tanti ricorsi la Corte suprema ha stabilito che questo modo di procedere non era legale. Adesso la tassa la paghi al momento della dichiarazione dei red-diti. La paghi anche se si tratta di una stanza sola, e se tu sei disoccupato.. Adducendo altri motivi, hanno però aumentato le tariffe dell’elettricità. Ci sono problemi nelle scuole. Hanno licenziato parecchi insegnanti, gli edifici sono in pessime condizioni e lo Stato non dà soldi per le riparazioni e la manutenzione, i genitori portano tutto quello che occorre: carta per le fotocopie, carta igienica, penne, matite. Un insegnante che dopo 15 anni di lavoro prendeva 1300 euro ora ne prende 850. E “come” le comunicava?In televisione, dai giornali, con annunci vari. Intervenivano o Samaras o i ministri. “Bisogna fare così, poi usciremo da questa crisi”, (ma nel

frattempo “dovete morire”!).Ci sono state molte manifestazioni, la repressione è stata particolarmente violenta..C’è stato un movimento che è durato per mesi, la gente dormiva in piazza Syntagma. Un movimento spontaneo, c’era molta gente che per la prima volta nella sua vita ha partecipato ad una manifestazione. Anziani, bam-bini, signore. La polizia ha picchiato in maniera brutale: nella mia vita ho partecipato a tante manifestazioni ma non avevo mai visto una violenza così.Si trattava di una iniziativa spontanea della polizia o gli è stato ordinato.Gli è stato detto, i poliziotti non prendono spontaneamente queste decisioni. Prendono ordini, e l’ordine è stato chiaro: “ammazzateli”. Perché vedevano che questo movimento cresceva sempre di più. Durante il movimento degli “indignati”, una domenica del 2011 a Atene si sono ritrovate un milione e mezzo di perso-ne, una cosa mai successa prima.Avevi accennato al fatto che in Grecia la polizia vota separatamente: ma vengono poi diffusi i loro risultati?Alba Dorata, il partito neonazista, ha preso una percentuale altissima, tipo il 70%. L’esercito è più democratico, e tra le tre armi, la Marina è quella più democratica. Anche durante la dittatura greca una parte dell’esercito ha cercato di contrastare i dittatori: sono stati arrestati, torturati, uccisi.Qual è la posizione del Partito comuni-sta greco, il KKE?Il KKE dorme e sogna. E’ contro tutti. “Usciamo dall’euro e dall’Euro-pa”, non bisogna negoziare con loro. Il capitalismo è rappresentato dalla Commissione Europea. Il loro 5% che composizione ha?Soprattutto classe operaia e media.Ma hanno anche intellettuali, artisti, personaggi famosi?Certo. Anche se non hanno la capa-cità di influenzare. La loro visione è rimasta ferma al 1917, sono stalinisti puri e duri. A chi gli chiede se, quan-do ci sono state le possibilità di andare al potere (al governo), non lo hanno fatto, loro rispondono “Ma noi non vogliamo il potere. La nostra missione è di organizzare il movimento dal basso”. Hanno un’influenza molto forte nel sindacatoE la Chiesa? E’ vero che ha un tratta-mento privilegiato: ha molte proprietà ma non paga le tasse…E’ verissimo. La metà, se non di più, della Grecia appartiene alla Chiesa. Nemmeno Syriza riuscirà a intaccare questi privilegi?Penso che sulle tasse riusciranno a fare qualcosa. E poi l’Arcivescovo Metropolita di Atene, Geronimo, ha detto che la Chiesa deve contribuire a risolvere i problemi della Grecia. Ma non tutte le gerarchie sono d’accordo con lui. Avrebbero potuto aprire i loro palazzi per ospitare i poveri o gli immigrati, ma non l’hanno fatto. Offrono pranzi, ma con cibi richiesti alla gente!

Qualcuno, tra Bruxelles e la Ger-mania, accusa il nuovo governo greco di stare recitando una

commedia (“Pensano che comunque ar-riveranno nuovi fondi, ma si sbagliano di grosso”) ma quella che si sta ancora consumando in Grecia, o, meglio, ai danni della Grecia, è invece una vera tragedia, aggravata dal fatto che stanno tentando di togliere nuovamente la speranza, appena ritrovata, al popolo greco. A confermarcelo è Natasha Mela, 51 anni, nel buon italiano imparato durante i suoi studi a Firenze e Venezia. Da Atene, dove vive, Natasha è venuta a trascorrere la Pasqua greca in Toscana. Ecco il suo racconto, e le risposte a qual-che domanda che le abbiamo posto.“Lavoravo in una casa editrice spe-cializzata in libri per bambini, avevo uno stipendio abbastanza alto, 1600 euro al mese. Nel 2009 è scoppiata la crisi e il mio datore di lavoro ha abbassato tutti gli stipendi di un 20%. Poi ha chiesto ad alcune persone che lavoravano nel settore della promo-zione e delle pubbliche relazioni di lavorare tre giorni la settimana con la metà dello stipendio, e anch’io ho dovuto lavorare per quasi un anno e mezzo con la metà dello stipendio, 800 euro. Intanto le spese per vivere aumentavano, soprattutto ad Atene. Dopodiché il mio datore di lavoro mi ha licenziata, dicendo che era costretto a fare dei tagli. Sono rimasta senza lavoro per 11 mesi, un periodo molto difficile per me; senza stipendio ho dovuto continuare a provvedere a tutto: affitto, tasse, l’assicurazione privata. Nel frattempo avevano anche ridotto la pensione a mia madre: dal 2009 al 2015 è stata ridotta cinque volte, oggi è quasi il 40% in meno di quella originaria.A livello generale cosa succedeva?Chiudevano tanti piccoli negozi, dalle librerie ai negozi di alimentari, di arredamento, di scarpe; non c’era più domanda. Le tasse venivano triplicate. Delle librerie chiuse ne ricordo in particolare una, Estia, appartenente ad una casa editrice, fondata agli inizi del XX secolo. Ora continuano ad an-dare avanti nell’attività editoriale, ma hanno ridotto molto, specialmente le traduzioni di opere straniere. Si dice che molta della gente che ha votato Syriza lo ha fatto non per una adesione politicaE’ cosi, Si tratta di un ceto medio che aveva anche delle proprietà e che è stato duramente colpito dalla crisi; in più hanno perso il loro lavoro, perché soprattutto nel privato quelli che avevano salari alti sono stati i primi a essere fatti fuori. Loro sono quelli che hanno avuto più problemi: la classe media sta per scomparire. Sono rimasti senza lavoro, hanno dei mutui da pagare, dei figli da mantenere.Questa classe media si è ribellata al fatto che la Grecia avesse accettato la Troika.Il nucleo di sinistra che vota per Syriza arriva al massimo al 4%. Gli

Tragedia grecadi dino [email protected]

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Nei giorni scorsi Firenze è stata il teatro di Momen-ting the Memmento., 5

giorni dedicati a moda, cultura e design organizzati da Polimo-da per il congresso internazio-nale di IFFTI (international Foundation of Fashion Tecno-logy Institute) che per la prima volta si è tenuto nel nostro Paese. Polimoda e la sua direttri-ce, Linda Loppa, ha deciso però di andare oltre le semplici conferenze per addetti ai lavori, proponendo una pluralità di siti e di eventi per dimostrare cosa significhi oggi la creatività del mondo della moda anche in rapporto al patrimonio artistico e culturale. Una scelta inevitabile per un istituto che sorge e opera a Firenze, e che del legame con la città e le sue bellezze fa un elemento com-petitivo e determinante per la formazione dei suoi allievi. A partire dalla sede di Polimoda a villa Favard si sono dunque moltiplicati eventi, installazio-

Ilfuturo che sicostruiscecolpassato

dove su un kimono, reso scher-mo annullandone la tridimen-sionalità, venivano proiettate immagini di computer graphic ispirate agli anime giappone-si. Un incrocio di tradizioni, dimensionalità, culture occiden-tali e orientali, in una rappre-sentazione dell’attuale creatività giapponese. Oppure i teli di Andrea Cammarosano, fashion designer operante a Firenze, che nel chiostro intrecciavano pittu-re di abiti e lacerti archeologici, tra equilibrio e distruzione. Rimarchevole anche David Lea-thlean che mischia la tradizione della pittura rinascimentale con l’eccentricità della moda inglese. Insomma per 5 giorni Firen-ze ha mostrato una delle sue migliori eccellenze creative al mondo, dimostrandosi in grado di parlare alla contemporaneità e al futuro, in sintonia col suo passato, senza però doverne per forza dare un’immagine da car-tolina. Un messaggio incorag-giante, soprattutto perché viene da una scuola.

di Michele Morrocchtwitter @michemorr

ni e performace tra il cinema Odeon, la Biblioteca Nazionale e il complesso di Santa Croce. Ed è in quest’ultima realtà che si è maggiormente espresso il potenziale dell’evento. Dalle cappelle sotterranee ai chiostri

esterni, in una contaminazione, non sempre allo stesso livello, tra oggetti al confine tra design, arte contemporanea e moda e le opere d’arte presenti nel sito. Eccellente per esempio il lavoro Bridging Flat and Stereoscopic

di ilaria [email protected]

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Circondato dai suoi mari in bur-rasca, dal suo cobalto abbagliante, Johnny mi racconta degli amici, compagni di strada e di vacan-ze, Raffaele (Bueno) e Giuseppe Gattuso con i quali ha condiviso molti anni di percorso ideale e spi-rituale. Artisti fuori dai movimenti momentanei, anticipatori, senza ri-vendicarne il titolo, del “ritorno alla pittura” e alla figura, rinato in Italia nei prima anni ottanta, dopo lunghi anni di arte concettuale. “Avevamo rotto - mi dice- tutti i ponti con le gallerie, tenendoci fuori dal circuito mercantile, con spirito sereno e con divertimento senza sentirci delle avanguardie artistiche. Dipingeva-mo e costruivamo oggetti che pos-sono anche essere chiamati sculture. L’intenso azzurro che caratterizza le mie opere è il frutto della scoperta e dell’acquisto di polveri di colori che ho trovato in Olanda. Ora, dopo aver finito l’acquisto olandese, vado da Rigacci e, insieme alle mie tele, prendo nuove polveri che impasto a mio piacimento”. La piacevolezza di parlare con Ragusa deriva anche dal fatto che non esprime il senso, il messaggio del suo lavoro, ma parla della tecnica, delle difficoltà dell’esistenza, della storia della sua vita. Sono una mescolanza etnica - continua - sono nato a Shangai, da un babbo siculo- pugliese e da una mamma olandese-inglese che mio padre, mercante di arte orientale, incontrò a Giava, allora colonia dell’Olanda. Anche quando eravamo a Firenze babbo e mamma hanno continuato a parlare tra loro in olandese, per me e per i miei 6 fratelli era la lingua dei genitori, un pianeta dove noi non potevamo accedere. All’età di 5 anni sono arri-vato a Firenze, città dalla quale non so staccarmi, malgrado i suoi abi-tanti, anche se spesso sono scappato da altre parti. Il racconto prosegue parlando di Carmelo Bene e di Nostra Signora dei Turchi e di tanti altre storie che solo indirettamente hanno un raccordo con l’arte, con la pittura. Mi guardo intorno e vedo i Johnny-bastimenti che affondano (o forse no?), pesci, molluschi giganti e oggetti semplici. Pare inevitabile scivolare nel sogno o nell’inconscio esotico che l’Europa ha nei confron-ti dell’Oriente. Un luogo dell’anima non un’area geografica. Appaiono così Salgari, Corto Maltese, la Bangkok della Linea d’ombra di

Conrad Mi piace vedere Johnny nell’Oriente conradiano affrontare quei mari senza nessuna volontà di essere adulto per il semplice motivo che subito dopo si diventa vecchi. “Questo è uno dei miei quadri più vecchi, del 1957 - mi fa vedere il ca-talogo della grande mostra del 2007 allestita al Museo Marini, presentata dall’eterno amico Philippe Dave-rio” Si tratta di un cartone dove è raffigurata una strada di Firenze, un olio con gli edifici contornati di nero fra Rouault e gli impressionisti tedeschi.”Guarda questo bronzetto di Pinocchio – continua Johnny - gli ho dato qualche pennellata di cobalto, mi pare proprio che ci volesse. Spesso viene da me Raffa-ele (Bueno), Giuseppe (Gattuso) pur essendo scomparso nell’86 continua a stare con noi, ci legava un amore inscindibile, un rappor-to di vita, l’arte era conseguenza quasi secondaria, poi ognuno di noi faceva quello che voleva, i rapporti le influenze reciproche, se c’erano, risiedevano negli strati più profondi della psiche”. E’ il percorso che conta - scrive su di lui Daverio - non certo l’approdo. Anzi l’approdo sembra scontato e per un poco spaventa. Mentre il percorso preoccupa, occupa la mente prima dell’approdo. E la coscienza del viaggio, anzi dell’essere in viaggio, diventa presupposto della coscien-za dell’esistere.. Il nostro Ragusa continua ad andare avanti non si preoccupa della destinazione: auguri Johnny, buona navigazione.Il brano è tratto da un articolo-inter-vista pubblicato sul Nuovo Corriere di Firenze nella rubrica “Gallerie & Platee” il 29 gennario 2011

Ragusa a Quadro 0,96 a Fiesole nella più piccola galleria del mondo

di aldo [email protected]

aldo Frangioni presentaL’arte del riciclo di Paolo della Bella

ScottexNon guardate l’abisso – scriveva Flaubert – perché vi si trova un’attra-zione inesprimibile che ci attrae. Osservando quest’opera mi sovviene un analogo sentimento di quando guardo nel profondo il cestino dei panni sporchi.

Sculturaleggera

Johnny Ragusaa Fiesole

Topolini e navi a Quadro0,96

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in

giro

Il Nepal di AndreaBernesco

Cut the Jam

L’esperienza del viaggio alla scoperta della bellezza del creato, ma anche di noi stessi e degli altri popoli che si incontrano lungo il cammino. Il richiamo di una terra come il Nepal dove in una valle quasi sconosciuta ai confini col Tibet, il Nar Phu, vive un’etnia antichissima, quella del po-polo Bon, è stato così forte da con-durre il fotografo fiorentino Andrea Bernesco sulle sue tracce. Il risultato sono i 25 scatti di un reportage più intimista che geografico, che saranno esposti nella sua mostra personale dal titolo “Dehrai Ramro Chha”, che sarà aperta al pubblico nel Lu.C.C.A. Lounge&Under-ground dal 19 maggio al 14 giugno 2015, con ingresso libero.

Martedi 19 maggio si terrà nella Sala Puccini del Conservatorio di musica “Giuseppe Verdi” di Milano la presentazione del videoDaniele Lombardi, Sinfonia n.2, un’edizione in DVD della casa editrice Sonavolant di Fi-renze. Con:Daniele Lombardi ,  Angelo Foletto, Carlo Prevosti, Roberto MasottiDalla metà degli anni ottanta Daniele Lombardi ha sviluppato l’idea di espandere le possibilità del pianoforte mediante un uso sinfonico, sovrapponendo più strumenti fino a formare una orchestra: un ensemble a coda.

ME VANNUCCI Via della Provvidenza 6 Pistoia +39 057320066 da martedi al sabato 9,00-12,30 e 16,00-19,30 w w w. v a n n u c c i a r t e c o n t e m p o r a n e a . c o m i n f o @ v a n n u c c i a r t e c o n t e m p o r a n e a . c o m

opening sabato 16 maggio 2015 ore 18,00

la mostra resterà aperta fino al 6 giugno 2015

all’inaugurazione Alice condurrà gli ospiti tra le scatole delle meraviglie

Colombara- De Poli

M

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horror

vacuiDisegni di Pam

Testi di aldo Frangioni

Dietro di me il tutto mi guarda, davanti a me non vedo nulla.Resterò, per un tempo imprevedibile, immobile,

con l’acqua alle ginocchia.

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L

il “Memorial Day parade” è una grande festa federale. E’ il giorno della memoria, il giorno in cui, in tutti gli stati dell’Unione si ricordano tutti coloro, uomini e donne, che sono caduti mentre prestavano il loro servizio militare nell’esercito, nella marina e nell’aviazione. E’ un grande rito che si celebra ogni anno per rendere omaggio alla memoria di tutti i caduti dei molteplici conflitti in cui gli Stati Uniti sono da sempre

perennemente coinvolti. Questo era un breve momento di pausa del corteo lungo First Street, la strada principale del vecchio centro storico. La bella e giovane fanciulla vestita da indiana è una specie di “Majorette” e dietro di lei si vedono due giovani reclute impettite, e con bandiere, alla testa del corteo dei veterani di tutte le guerre. In quel periodo il centro storico della città stava attraversando una fase di grandi modifiche sul piano urbanisti-co e molti degli edifici e dei front stores tradizionali stavano per essere demoliti per far posto ad una serie di nuovi e più moderni grattacieli.

San Jose, California, 1972

Dall’archiviodi maurizio Berlincioni

[email protected]

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