Cultura Commestibile 117

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N° 1 17 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia Qui comincia il declino del Poletti ministrino “Parliamo di un milione di contratti nuovi o convertiti, quindi credo che sarebbe un grandissimo successo se si ottenesse questo obiettivo”

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N° 117

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

Qui comincia il declinodel Poletti ministrino

“Parliamo di un milione di contratti nuovi o convertiti, quindi credo che sarebbe un grandissimo successo se si ottenesse questo obiettivo”

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Da nonsaltare

Claudio Nardi, architet-to fiorentino, diplomato all’Istituto d’Arte di Porta

Romana, si laurea in architettura a Firenze, dopo aver lavorato con Puccio Duni (Compasso d’Oro alla carriera 2014) all’International design e aver collaborato per molti anni con Carlo Scarpa. Questa la seconda parte dell’intervista iniziata nello scorso numero di Cultura Commestibile. Stammer Tu parli spesso della tua formazione. C’è un continuo intrec-cio fra le tue opere e il tuo percorso di crescita professionale. E’ fondamenta-le il tuo rapporto con il committente e con il mondo esterno. Un racconto della tua vita che si intreccia con le tue opere. Non hai mai parlato della tua formazione universitaria. Come ha inciso l’università nella tua formazione professionale?Se dovessimo collocare in una scala di valori da 0 a 10 la mia formazio-ne universitaria confrontata con la mia formazione sul campo, dove in questa scala si misura la capacità del contesto formativo di mettere in movimento le competenze che sono latenti in ognuno di noi, o comunque in particolare le mie competenze e le mie capacità, devo dire che 10 è l’esperienza di lavoro diretto, di confronto con i commi-tenti, con le persone che credevano in me come Puccio Duni e come altri e con gli artigiani. In partico-lare nel settore dell’interior design il rapporto con gli artigiani è stato fondamentale e mi ha permesso di stabilire un rapporto fecondo che ha spesso portato a che loro facesse-ro un parte del progetto.Vorrei sviluppare questo aspetto perchè ha avuto delle conseguenze con il mio modo di progettare. Il mio rapporto con la produzione artigianale degli oggetti dell’inte-rior design mi ha portato a capire la differenza fra fare bene le cose, prendendo la strada maestra anche se più lunga, e farle male. Mi ha costretto a vedere gli oggetti come sono fatti e non solo come appaiono alla fine del processo di lavorazione, a vedere cosa c’è sotto il tavolo e non solo come appare sopra. E ancora oggi quando mi propongo di partecipare ad un con-corso internazionale, dove talvolta sei quasi costretto a forzare il pro-getto con il “gesto architettonico” per poter magari essere competiti-vo, io sono sempre “frenato” (ma

non è detto che sia un male anzi) da questa mia necessità di vedere come si potranno fare le cose che si disegnano, come funziona l’oggetto che stai progettando.Stammer Una elegante polemica sui “gesti architettonici” che poi in cantiere si rilevano diversi da come sono stati presentati e disegnati, e costringono ad infinite e complesse modifiche progettuali.Io sono contrario ai gesti archi-tettonici fini a se stessi. Anzi devo dire che non riesco a pensare un edificio senza sapere fino in fondo, fino nei minimi dettagli, come fare per costruirlo con quelle specifi-che carateristiche con le quali l’ho pensato.Frangioni E’ questa forse una sorta di “tradizione” della scuola fiorentina. Giovanni Michelucci aveva anch’egli un rapporto molto significativo con la “costruzione”, con il cantiere, con i materiali, con gli artigiani che dovevano realizzare le sue opere. La costruzione della chiesa di San Giovanni Battista (la chiesa dell’Autostrada) sta li a dimostrarlo. Ma in questo contesto quanto ha valso la formazione universitaria?Nella scala da 0 a 10, a cui mi riferivo prima, ampiamente al di sotto della sufficienza. Anche perché, come ho spiegato all’inizio, la mia formazione universitaria è

coincisa con l’inizio della mia colla-borazione con Puccio Duni, con la produzione della Poltronova, con i miei incontri con Scarpa, e capisci che non c’era confronto fra quanto fosse attraente il mondo esterno in rapporto a quello universitario.Frangioni Mi interessa anche capire un altro aspetto riguardo alla tua formazione. In quel periodo, alla fine degli anni ‘70, si era affermato il mo-vimento dell’architettura radicale che poi ha prodotto, a sua insaputa direi, una sorta di post-avanguardia che ha teso ad esaltare il gesto architettonico. Che rapporto hai, e hai avuto, con questo mondo?L’incrocio del mio percorso con il movimento “radical” è stato un incrocio di vita vissuta. All’inizio della mia attività ho conosciuto tutti i componenti del Superstudio e per me erano naturalmente dei “miti”. Mi ricordo, per esempio, una piccola intervista che mi fece Maria Luisa Frisa, dopo che avevo fatto Luisa Via Roma, per l’house organ di Luisa Via Roma che era “West Staff”, dove mi chiedeva dei miei maestri e io che parlavo di Adolfo Natalini. Io in realtà non ho un maestro riconosciuto, ma lui per me era “una mente da seguire”, più che un progettista di architetture. Queste erano le sensazioni e le emozioni, ecco emozioni è forse la

parola giusta, che producevano in me queste avanguardie. Ma segni leggibili nel mio modo di progetta-re direi che non ce ne sono.Stammer C’è un “fil rouge” però che lega i tuoi progetti. E’ quello che tu chiami “riarchitettura”. Il progetto modifica l’edificio facendolo diventare un altro edificio, anche con pochi, ma significativi interventi, come per l’intervento di ristrutturazione delle sede della BP Studio. L’architettura deve introdurre elementi di novità per costruire una nuova identità agli edifici sui quali opera. E’ questo in sostanza quello che cerchi di fare con i tuoi progetti?Effettivamente l’intervento del BP Studio è stata l’occasione (anche se non era il mio primo progetto per-ché nel passato avevo anche cercato di seguire una strada per una archi-tettura più “esibita” più disegnata, strada che poi ho abbandonato) per sperimentare questa idea della riarchitettura. Per capire quanti in-credibili, enormi risorse ci potevano essere nell’elaborare un progetto che avesse come obbiettivo quello di “manipolare”, e conseguente-mente trasformare, un edificio esistente. E in quell’occasione ho capito quale era la mia strada, una strada che percorre uno dei terreni più fertili che ci possano essere in Italia, ma anche in Europa, forse meno in altre parti del mondo.Il mio impegno da allora è stato quello di sperimentare, e di cercare di maneggiare nel migliore dei modi questo nuovo linguaggio, questo approccio con il contesto esistente che chiamo “riarchitettu-ra”. E per farlo era necessario met-tere insieme tutti gli strumenti per lavorare su un organismo esistente. Quindi non solo sulla “pelle”, sulle facciate, ma anche su “pezzi di organi” da sottrarre, sostituire, ricostruire. L’obiettivo è costruire, far nascere nuovi “individui”, nuovi organismi che si portano dentro, in modo visibile, il DNA del vecchio organismo. E questo approccio è in Italia particolarmente coerente poiché il nostro paese è costituito da edifici, quartieri, città che si portano dentro stratificazioni, storie, trasformazioni. Questo vale in particolare per i grandi edifici dismessi. In questi casi la pratica della demolizione e ricostruzione, estesa a tutto e senza attenzione, è un errore grandissimo. Al riguar-do sono molto curioso di vedere come sarà valutato il concorso per l’intervento nell’area Flaminio a

Versoriarchittettura

Foto di Savorelli

ladi John Stammer e aldo Frangioni

Foto di Adam Kozak

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Da nonsaltare

Roma (di fronte al MAXXI di Zaha Hadid ndr) dove ci sono tutte le condizioni possibili. Ci sono edifici che hanno ancora da raccontare, anche se in parte, la loro storia, ci sono funzioni da insediare che richiedono la realizzazione di nuovi organismi. Sarà una sorta di cartina di tornasole per verificare il grado di attenzione che esiste in Italia sul tema della “riarchitettura”.Frangioni Credo che il tema in Italia, ma anche in Europa, sia molto pertinente. In Italia, dove il territorio è stato occupato fino all’inoccupabile, dove esiste un patrimonio di edifici non più utilizzati vastissimo, il tema è centrale. E mi sembra che questa consapevolezza, almeno in una parte degli addetti ai lavori, vi sia. Si tratta di capire quanto questo sia compreso anche dalla politica.Stammer Io credo che si debbano fare ancora molti passi in questa dire-zione, soprattutto da parte della classe imprenditoriale. Ormai le parole ci sono tutte, anche gli slogan “volumi zero” o, come qualcuno ha detto, migliorando lo slogan, “occupazione di suolo zero e volumi quanto basta per la riarchitettura”. Ma ancora credo che buona parte degli impren-ditori pensi che sia meglio demolire e ricostruire, più facile e più economico. Questo è in effetti un tema da svi-luppare per far crescere la consape-volezza che non bisogna perdere la ricchezza che è insita in un edificio dismesso, che è conveniente anche per gli imprenditori non perdere quel poco di storia che gli edifici sanno raccontare. Io ho uno studio a Cracovia, che è una città dove vi sono molti edifici che sono inuti-lizzati, a cominciare dai semplici e banali edifici dell’era comunista, che potrebbero essere oggetto di semi-trasformazioni fertilissime. Certo per un imprenditore la sem-plice demolizione e ricostruzione presenta minori problemi. Ma io cerco di fare riflettere coloro che si rivolgono a me sul fatto che in que-sto modo, nella stragrande maggio-ranza dei casi, si mette sul mercato un prodotto edilizio banale, senza un reale mercato, perché il mercato per questo tipo di prodotti è saturo. E anche nel caso di demolizione e ricostruzione non credo ai progetti “griffati”, all’oggetto edilizio come un grande soprammobile. Il pro-getto non deve essere riconosciuto dal gesto ma dall’intelligenza che si porta dietro. Nel progetto si deve percepire che il progettista si è posto dei problemi che il progetto ha voluto, e saputo, risolvere. E

l’importante è che alla fine in quel luogo progettato si stia bene. Che le persone che lo usano ci stiano bene. Io ho progettato a Cracovia il Mu-seo d’Arte Contemporanea nella ex fabbrica di Schindler e i commenti più belli sono stati di quelle perso-ne che entrando nel grande edificio si sono sentiti, hanno vissuto quel luogo, come se quel luogo, quasi inaspettatamente, non potesse che essere così come era stato progetta-to. E tu però sai che quel risultato è frutto di pensieri, confronti, sensi-bilità per qualche particolare, passi avanti, passi indietro, istinto ma anche ragionamento. E sapere che le persone si sentono bene è il rag-giungimento di un risultato. Una sensazione bellissima. L’intervento sulla ex fabbrica di Schindler è un intervento che nasce sul principio della trasformazione dell’esistente e che fa delle difficoltà i suoi punti di forza. L’area destinata al museo era come nascosta alla città. Un edificio circondato da altri edifici, e con una piccola “bretella” che permetteva di raggiungere la strada principale. I temi principali del progetto sono sostanzialmente tre. Il primo è, come detto, la trasformazione, la metamorfosi del vecchio edificio (architettura come inclusione e trasformazio-ne), il secondo la creazione di un elemento di raccordo fra l’edificio e la strada che assicurasse la visibilità, e quindi anche la comunicazione (architettura come comunicazio-ne), il terzo è la creazione non di un solo edificio ma di un sistema, di un’area, che fosse percorribile, attraversabile, che mettesse insieme vari elementi (architettura come

relazione). Creare non un museo ma un’area urbana in un contesto urbano in crescita e in sviluppo. Per questo il progetto prevede percorsi, piazze, spazi urbani e naturalmente il museo ben visibile e fruibile. Ma il progetto è più ampio del museo vero e proprio, perchè vuole creare un pezzo di città.E’ in qualche modo l’opposto di quello che è stato fatto a Bilbao con il museo di Frank Gehry. In quel caso il museo accentra l’attenzione, è un monumento che attira l’atten-zione su di sé. In questo caso invece si è costituita una rete, una trama, che accoglie e ricostituisce rapporti fra il museo e il resto della città. Il potere di attrazione non è dato dal monumento ma dal sistema di rela-zioni che si sono costruite. Il lavoro dell’architetto è questo, cercare l’adeguatezza del gesto e sapere fare sia un passo avanti come a Bilbao, o un passo indietro come a Cracovia. In sostanza sapere cogliere le diver-sità dei contesti. A Bilbao il “gesto” di Gehry è stato “necessitato” dal contesto. A Cracovia l’importante era recuperare una rete di relazioni per portare il nuovo museo in rapporto con la città.Stammer Il progetto è stato il vincitore di un concorso di architet-tura bandito nel 2006 dalla città di Cracovia.Sì, l’edificio da riutilizzare era un edificio abbastanza semplice, anonimo, ma con un grande potere evocativo. Quel concorso è stato vinto perchè nel progetto ho potu-to trasfondere quelle esperienze di riarchitettura, di maneggiamento di edifici esistenti che avevo potuto fare negli anni passati. Mi sono

trovato un progetto, un concor-so che aspettava me. E mi sono trovato in competizione con altri colleghi che invece hanno pensato al grande gesto. E c’era un commit-tente che, forse anche non del tutto consapevolmente, cercava esatta-mente quello che io ho progettato. E’ così che ho vinto.Stammer Tu a Firenze hai recente-mente realizzato un grande edificio per residenze a Novoli. Un progetto che ha vissuto molte versioni. Il progetto realizzato è un edificio “tran-quillo”. Un approccio “anticlassico” rispetto alla classicità degli edifici contermini progettati da Aimaro Oreglia D’Isola.L’area dove è stato realizzato l’intervento era un’area particolare. Un’area fortemente caratterizza-ta dagli edifici preesistenti, che presentavano una varietà, a volte agli antipodi, di linguaggi architet-tonici, di materiali, di proporzioni. E’ partita da questa consapevolezza l’idea del progetto. In un contesto diverso avrei agito diversamente. In questo contesto serviva un progetto “semplice” perchè da un lato si trova l’edificio multifunzionale di Isola, dall’altra la biblioteca di Na-talini, dall’altro ancora le residenze, sempre di Isola. Cromatismi e for-me dissimili. Ho sentito la necessità di fare un paio di passi indietro, sia da un punto vista cromatico – ho voluto fare un edifico assolutamen-te neutro e bianco- sia dal punto di vista della forma, facendo rientrare quel progetto, che è completamen-te diverso dagli altri, nelle norme del piano di Leon Krier.Volevo un edificio che non avesse la sequenza ritmata delle fine-stre, come si prevede negli edifici residenziali, ma che fosse una “scatola astratta”. E per questo motivo, per avere un unico edificio “astratto”, ho collegato con una grande fascia, un grande portale, i due edifici previsti dal piano Krier in modo che, almeno dal viale Forlanini, si percepissero come un unico edificio, con l’obbiettivo di avere la “massima astrazione”. Un progetto che si è evoluto in questa direzione perché il primo progetto era molto più “nervoso” e articolato e devo dire che sono contento che le circostanze mi abbiano permesso di ripensarlo, di rimetterci le mani. Ho lavorato come se avessi davanti un foglio bianco e ho cominciato a scavarlo, a sottrarre dei pezzi, cercando la tranquillità, la calma. Questo serviva in quel contesto a Novoli a mio parere.

Foto di Claudio Nardi architects

Intervista all’architetto Claudio Nardiseconda parte

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Povera Valeria Marini, l’hanno turlupinata, di fronte a Dio e agli uomini! Aveva organizzato un matrimonio, tutto intimo e mori-gerato, con il suo principe azzurro, Giovanni Cottone, con pochi invita-ti, giusto gli amici più intimi, ma poi le hanno rovinato tutto. Passi la diretta TV a “Domenica In”: la sposa arriva in chiesa e ci trova le telecamere del servizio pubblico; è stato un brutto scherzo, ma lei, si sa, è una signora e ci è passata sopra. Poi si è trovata davanti un muro di giornalisti, paparazzi e “imbucati” dell’ultim’ora (dall’Alba Parietti a Pippo Franco, dalla Marina Ripa Di Meana a Vladimir Luxuria), e lì si era un po’ inquietata (soprattutto pensando al conto del ristorante). Il bodyguard aveva inveito all’Altissi-mo in diretta TV contro un papa-razzo e lì lei era proprio trasalita, lei così devota e pia. La Valeria voleva

un abitino semplice, quasi povero; ma quel mattacchione di Scervino le aveva fatto trovare un abito “in delicato pizzo bianco avorio con ramage che sfumano nell’oro leggero, scintillante di ricami, accollatissimo e corredato da un velo regale lungo otto metri”... insomma non passava inosservato. Ma il colmo è successo due anni dopo quando ha scoperto che il Cottone era già sposato… a sua insaputa. Beh, a quel punto non ci ha visto più. Siccome è donna pia e timorata di Dio, si è rivolta alla Sacra Rota, ottenendo l’annulla-mento. Ora si attende una indagine sul funzionario pubblico che aveva attestato nel 2013 che il Cottone era libero da legami matrimoniali. Ma alla nostra amica Valeria Marini chi la ripaga: “sono stata ferita nel profondo dei miei valori di donna credente cattolica. La fede, nella mia vita è sempre stata un punto fondamentale. Ora finalmente ho avuto giustizia e sono serena, sono pronta a ricominciare. Dopo tante ingiustizie e falsità ho ritrovato la serenità e la gioia di vivere con il sorriso”.

riunione

difamiglia

Non più pane e cicoria per Fran-cesco Rutelli “er piacione”! Mo’ bbasta! E allora dispensa consigli a destra e a manca (meglio se a manca); impartisce bacchettate ai successori; scrive ponderosi piani di sviluppo. Il nuovo iperattivismo di Rutelli prelude a qualcosa? Ad un suo ritorno in pista? Non ce lo au-guriamo, in verità. Ma, intanto, dalla pista cerca di far deragliare Marino. Eccolo, dunque, a presen-tare un libro al Cineland di Ostia e ad assestare un colpo mancino al sindaco Marino: “Il sindaco deve girare, constatare, guardare e diffi-cilmente lo si può fare in bicicletta, mi concedo solo questa battuta; lo devi fare in macchina perché vedi più cose, fai più chilometri. Il rac-cordo anulare di Roma è di 100 km, e io lo facevo per intero 5-6 volte a settimana, e non lo puoi fare in bicicletta”. E lui la ricetta per Roma ce l’ha: “Roma però non potrà rimanere barzotta a vita. Non possiamo usare il viagra, dobbiamo quindi applicarci per capire come Roma possa tornare ad essere una città con un futuro.Debarzottiamò la nostra città”. Un intellettuale europeo, di grande levatura linguistica e filosofica, non c’è che dire!E d’altra parte, proprio per queste sue qualità intellettuali è stato chiamato dalla Fondazio-ne Sicilia a redigere il Piano di sviluppo turistico del comprensorio Aidone-Piazza Armerina. Trenta pagine di pane e cicoria, appunto, con una ciliegina finale: per lo svi-luppo del comprensorio “visite not-turne, che tra l’altro favorirebbero i pernottamenti nelle vicinanze del sito”. Anvedi forte, ‘sto Rutelli?!

La virilità è un cruccio dell’uomo. La potenza si rappresenta con qual-cosa che svetta, che esce dal quadro, che si innalza: un simbolo fallico. E più grosso è, più potere rappresenta. Con queste chiavi bisogna leggere le critiche che il sindaco di Pisa Filippeschi ha mosso sul logo che rap-presenta la Toscana all’Expo: “Con quella trombetta lì, al massimo si

può essere un Abruzzo, un Molise. Noi toscani siamo di più, ci vuole più ‘ciccia’. La torre pendente è la dimensione giusta”. La difesa del designer-architetto Mendini seduto

sulla sua poltrona di Proust è un grande classico della collezione Pon-zio Pilato in voga dall’anno 33 (cir-ca): “Me l’hanno chiesto così”. E in fondo il committente, la Regione, ha sede a Firenze e si sa quel che si dice sui fiorentini e le loro inclinazioni sessuali da parte degli altri tosca-ni… Bisognerebbe imparare invece dalla laboriosa Lombardia che non sta tanto a perdersi sulle culle del Rinascimento, estetica e bellezza. C’è da fare un logo per i lavori pubblici? Presto fatto. Ecco gli occhiali (serietà e precisione), la cazzuola (manualità e forza fisica), il progetto (visione e futuro), gli stivali (voglia di sporcar-si e velocità - dice niente il gatto con

gli stivali?). Completa il quadro un sorriso e un’aria cartonesca, perché lo Stato deve essere bonario e non vessante. Fine, niente falli o simboli appuntiti. Qui si lavora, mica seghe.

“La via che porta al tavolo del rinfresco è lastricata di lodevoli iniziative”. E’ secondo questa antica massima che pare muoversi il nostro amato Eugenio Giani che già in corsa per le prossime regionali qui a Firenze ha superato a Roma un primo scoglio verso la Presidenza del Credito Sportivo; la famosa con-tropartita che Renzi ebbe a offrirgli per non candidarsi alla primarie contro il delfino designato Nardella. Naturalmente le due cariche sono incompatibili (parola da sussurrare piano a Giani che se gliela dite troppo forte sviene) e quindi prima o poi (meglio poi fa sapere Eugenio) dovrà scegliere da che parte stare. Però la tempistica di queste due operazioni pare fatta apposta per il nostro. Nel percorso romano Eugenio dovrà ancora superare due passaggi dopo il sì della commissione finanze del Senato: la registrazione in Corte di Conti e la firma del decreto di nomina da parte del Presidente del Consiglio. Due o tre mesi, all’incir-ca, che consentiranno a Giani di candidarsi al consiglio Regionale, presenziare a decine (forse centina-ia) di lodevoli iniziative, spuntare magari la presidenza del Consiglio regionale e poi decidere se restare qui o trasferirsi nella capitale. Anche se, in cuor suo, alberga la speranza che Matteo possa sempre limare quel comma sull’incompatibilità e fargli gustare il tavolo del rinfresco anche a bordo del freccia rossa Firenze Roma.

le Sorelle marx le nipotini di Bakunin

lo Zio di trotZky

i Cugini engelS

SantaValeria

La gara a chi ce l’hapiù grosso

Eugenio e il dover scegliere

Roma barzottaby Rutelli

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Vincenzo Agnetti

Il grado zerodellacomunicazione

la concettualità artistica è una categoria ambigua e difficilmente descrivibile,

la cui realizzazione formale è in grado di operare coniugando le molteplici logiche di signifi-cazione alle libere associazioni del pensiero, secondo stilemi originali che variano da autore ad autore. È proprio nel vasto campo estetico che il concet-to si tramuta in segno grafico esaltando le proprie antinomie e mettendo in luce l’aporie del linguaggio contemporaneo, do-tato di una complessità impre-vedibile. Fra forme antitetiche, ossimori, metafore, paradossi e metonimie Vincenzo Agnetti ha operato in nome di una precisa avversione alla produzione og-gettuale, tendendo a realizzare il grado zero della comunica-zione semiotica. Rinunciare agli schemi prestabiliti, vanificare le coppie combinatorie, imporre un nuovo ethos e una nuova concezione del linguaggio per un’estetica ambigua e tecnolo-gica - caratterizzata dall’identifi-cazione e dalla contrapposizione della molteplicità degli elementi che compongono il mondo - sono state le linee guida della sperimentazione di un artista teorico e portavoce di una netta rottura con la tradizione, po-nendo le basi per l’affermazione di un nuovo canone e di un nuovo atteggiamento in quanto recupero critico della storia e delle convezioni linguistiche dei vari campi di espressione: una riflessione – spesso in chiave pa-rodica - sulle forme e sui codici ereditati dal passato, attraverso cui sperimentare, verificando e ricostruendo in modo critico le effettive funzioni del linguag-

In alto Progetto per un Amleto politico, 1973, Trittico - serigrafia su lastra metallicacm 29,5x118,5Sopra Il principio è solo e solo un centro spostato verso il centro, 1970Bachelite incisa a mano trattata con colore alla nitro bianca, cm 70x70Tutte courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

di laura [email protected] gio artistico all’interno della

civiltà contemporanea. La prassi artistica di Vincenzo Agnetti è divenuta lo stile attraverso cui la cultura stessa si stava esprimen-do, unita a uno sforzo di consa-pevolezza teso a comprendere e a manifestare il nuovo rapporto instauratosi fra arte e realtà: un rapporto di interpretazione e non più di rappresentazione. L’Arte è fabbrica e prodotto del reale, da qui la presa di coscien-za dell’artista dell’illeggibilità, nel senso tradizionale, dell’opera d’arte moderna, che ora come ora non offre più la possibilità di infiniti discorsi sul mondo, ma semplici esempi di realtà, elaborati allo stato neutro. La mostra, a cura di Andrea Alibrandi e Giangaleazzo Vi-sconti di Modrone, con testi di Bruno Corà e Ilaria Bernardi, alla Galleria Il Ponte di Firenze (visibile fino al 10 maggio, in collaborazione con lo Studio Visconti di Milano e con il pa-trocinio dell’Archivio Vincenzo Agnetti di Milano), offre uno spaccato della produzione arti-stica dell’intellettuale, coprendo l’arco cronologico che va dal 1967 al 1981, date significative che corrispondono alla prima e all’ultima esposizione personale di Vincenzo Agnetti. Il percorso espositivo coglie perfettamente l’essenza di una personalissima ricerca estetica, con l’intento di individuare i fili conduttori delle analogie e degli sviluppi formali di un artista che ha fatto della proposizione linguistica e dell’ “Arte no” un diktat di sperimentalismo e analisi dal denso sapore concettuale e ne-oavanguardista. Dal 19 maggio l’esposizione sarà visibile anche presso lo Studio Visconti di Mi-lano fino al 28 ottobre 2015.

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repubblica sudafricana, anni 1990-1994. Nel periodo di transizione fra l’apartheid

e le prime votazioni generali multirazziali, il paese è dominato da una tensione altissima, non tanto fra bianchi e neri, quan-to fra il partito ANC (African National Congress) di Mandela e lo IFC (Inkatha Freedom Party) a dominante zulù. La tensione viene subdolamente alimentata dal governo in carica, nel tenta-tivo di indebolire e neutralizzare lo ANC, e sfocia in numerosi episodi di violenza, tanto da essere considerata da molti come una vera e propria “guerra nascosta”. Gli scontri, spesso estremamente crudi e caratterizzati da veri e propri massacri, compiuti sotto lo sguardo indifferente e complice di polizia ed esercito, vengono do-cumentati da quattro fotoreporter free-lance non ancora trentenni, diversi per formazione ed interes-si, uniti dalla comune volontà di registrare, documentare e diffon-dere le immagini di un conflitto che rischia di rimanere nascosto agli occhi del mondo. I quattro fotoreporter sono Kevin Carter (1960-1994), Ken Oosterbroeck (1963-1994), Greg Marinovitch (1962 - ) e Joao Silva (1966 - ), un gruppo di coraggiosi fotografi che, per essere sempre presenti di fronte ai numerosi conflitti a fuo-co fra le diverse fazioni, passa alla storia come il “Bang Bang Club”. Le immagini scattate da questi uomini, spesso rifiutate dalla stampa sudafricana a causa della loro contenuto crudo e diretto, ma anche per motivi di oppor-tunità politica, fanno il giro del mondo e vengono diffuse da numerose testate internazionali. A causa delle sue immagini Mari-novitch è costretto ad allontanarsi temporaneamente dal Sudafrica, per non incorrere nelle ire della giustizia, ed anche Carter si rifu-gia in Sudan per un certo periodo di tempo. Una delle immagini scattate da Marinovitch, una presunta spia zulù massacrata ed arsa viva dagli avversari, riceve nel 1991 un premio Pulitzer e porta il “Bang Bang Club” alla notorietà. I quattro fotografi hanno in comune un principio etico fondamentale, quello di documentare i fatti senza lasciarsi coinvolgere né politicamente né sentimentalmente, senza interfe-

non è priva di falle, ed anche se continuano a scattare le loro foto, apparentemente incuranti di tut-to, essi rimangono profondamen-te scossi e feriti dall’orrore a cui assistono quasi quotidianamente. Oosterbroeck, l’unico dei quattro che lavora per la rivista “The Star” di Johannesburg, viene colpito a morte nel 1994 durante uno degli ultimi scontri che precedo-no le elezioni generali, scontro in cui viene gravemente ferito anche Marinovitch. Nel 1994 Carter, il più emotivo del gruppo, non riuscendo più a sopportare l’angoscia di quanto ha visto ed ha fotografato, e non riuscendo a convivere con i propri ricordi e rimorsi, si uccide tre mesi dopo avere ricevuto un Pulitzer per una foto scattata l’anno precedente durante la carestia in Sudan, in cui un avvoltoio attacca un bambino stremato dalla fame. Il “Bang Bang Club” si scioglie così, all’alba delle elezioni che cambieranno il volto del Suda-frica, mentre Marinovitch e Silva continuano nel loro lavoro anche al di fuori del Sudafrica, pubbli-cando insieme numerosi fotolibri. Silva nel 2010 perde una gamba a causa di una mina durante un suo servizio in Afghanistan. Dalla vicenda del “Club Bang Bang” viene tratto un film che riceve un premio a Toronto nel 2010 e che solo di recente è stato reso disponibile con il doppiaggio in lingua italiana.“I’m really, really sorry. The pain of life overrides the joy to the point that joy does not exist. Depressed, without phone, money for rent, money for child support, money for debts, money! I am haunted by the vivid memories of killings & corpses & anger & pain, of star-ving or wounded children, of trig-ger-happy madmen, often police, of killer executioners… I have gone to join Ken if I am that lucky”.“Sono davvero, davvero dispiaciu-to. Il dolore della vita prevale sulla gioia, al punto che la gioia non esiste. Sono depresso, senza telefono, i soldi per l’affitto, i soldi per il sostentamento dei figli, i soldi per i debiti, i soldi! Sono ossessionato dai ricordi vividi di omicidi e cadaveri e rabbia e dolore, di bambini affa-mati o feriti, di pazzi dal grilletto facile, spesso la polizia, di carnefici assassini. Sono andato ad unirmi a Ken se sono così fortunato”.Dalla lettera di addio di Kevin Carter

Bang Bang Club di danilo [email protected]

rire o intervenire neppure davanti alle tragedie più spaventose, facendosi forza per essere presenti ed oggettivi, di fronte alla morte,

alle violenze, alla crudeltà, alla sofferenza ed al dolore. Ma la corazza che questi uomini costruiscono fra sé ed il mondo

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Sorbettiera per il trasporto dei ge-lati, in legno, rivestita di lamiera zincata, si apre dall’alto, ai lati ha le piccole maniglie da cui passava una robusta tracolla. La ditta che l’ha prodotta si chiamava Asteria e la marca di gelati che l’ha adottata Eldorado. Molti ricorderanno un tipo con una cassetta del gene-re sul groppone che passava in spiaggia o sugli spalti gridando Gelati! Molte le cose collegate a questa cassetta proveniente dagli anni 30/40, epoca di massimo fulgore della Asteria, “produzio-ne di ghiaccio secco, trasporto e conservazione gelati e derrate alimentari”. “Il ghiaccio secco è purissimo acido carbonico solidi-ficato.....raffredda senza bagnare nè lasciare residui. Gassificandosi forma una atmosfera speciale cui sono attribuite eminenti pro-prietà battericide, preziosissime per la conservazione di derrate deperibili.” Così si legge nel suo catalogo del 1933 scovato da Rossano. Eldorado era una ditta di gelati, italiana, di solida fama, inglobata nel 1967 dalla Uniliver, multinazionale anglo-olandese potentissima che possiede miriadi di marchi alimentari in tutto il mondo, accusata spesso di crimini contro l’ecologia, tipo deforesta-zione, scarico di residui tossici...

Eldorado si giovava di mitiche ed efficacissime pubblicità. Famoso il Carosello interpretato da un cowboy sui generis, Cocco Bill con l’inseparabile cavallo Trot-talemme, l’eterna innamorata

respinta Oisusanna Ailoviù e l’inevitabile camomilla quale poco virile drink. Il personaggio fu ideato da Jacovitti, geniale disegnatore degli anni 60/70. Un altro delizioso tormentone televisivo, precedente però, vede protagonista un sereno Giorgio Gaber-Chitarra Joe, mini storie di sconfitte di pericolosi furfanti...magari bambini, filatrocche in musica, rimate e divertenti. “...La sua vita ora non vale mezzo dollaro bucato, Joe Chitarra ha sistemato il feroce Little Cod...” “uomini del West che vivevano nel pericolo e percorrevano miglia e miglia per raggiungere un sogno favoloso, l’Eldorado.”El (Nino)Dorado era l’Eden che nel ‘500 gli spagnoli, conquistatori delle Americhe, vagheggiavano; Nino sarebbe stato un Re il cui corpo era coperto dalla polvere d’oro che scorreva con l’acqua del fiu-me dove faceva il bagno. Il fascino dei nomi e dei miti mi accalappia, Asteria (stella) era una Ninfa che per sfuggire alle molestie di Zeus diventa una quaglia, poi, precipi-tata in mare, venne trasformata da lui pentito in un’ isola “Ortigia” (delle quaglie). Sua sorella Leto vi partorì Artemide ed Apollo, Dio del Sole, che inondandola della sua luce la rese Luminosa, Delo.

Volendo tracciare un bre-ve percorso della camelia in letteratura, potremmo

partire da due immagini di Marcel Proust: la prima è una fotografia, scattata nel 1905 a casa di Reynaldo Hahn; la se-conda è invece il celebre dipinto di Émile Blanche. In entrambi i casi, lo scrittore ha sempre quella corolla bianca appuntata all’occhiello: il fiore inodore per antonomasia, prediletto da Mar-cel che, in quando asmatico, mal tollerava i profumi. Per certi aspetti, la camelia è un hapax nel variopinto regno dei petali, quasi alla stregua di un ‘lapis crepuscolare’: è forse l’emblema dell’afasia floreale, di un’ano-smia pronta a tradursi anche a livello della scrittura. Si pensi a Marguerite Gautier – protago-nista del romanzo di Alexandre Dumas figlio – che porta una camelia bianca per venticinque giorni al mese e una rossa in quelli restanti (unico fiore, que-sto, a non farla tossire). E se, sul versante italiano, un autore come Enrico Nencioni – nel suo “Inno ai fiori” – aveva deprecato quei bianchi petali proprio per via del loro essere inodori (“Te sola./ Sol te, priva d’ odor, fredda bellezza,/ mar-morea, preziosa, e alle superbe/ figlie del lusso prediletta, io tac-cio./ Insipida Camelia, e quasi escludo/ dei Fior dall’ adorabile famiglia), nelle “Riviere” di Eu-genio Montale “bastano pochi stocchi d’erbaspada/ penduli da un ciglione/ sul delirio del mare;/ o due camelie palli-de/ nei giardini deserti,/ e un eucalipto biondo che si tuffi/ tra sfrusci e pazzi voli/ nella luce”. Un fiore, quindi, che ben rappresenta la condizione del regno vegetale o – per dirlo con le parole di Luigi Meneghello – “inframondo verdastro”: le pian-te, in fondo, non sono degne di soffrire, in quanto estranee alle proiezioni empatiche che, al contrario, investono il rapporto tra l’uomo e il regno animale. Ed è perciò in ambito letterario che i fiori mirano al proprio riscatto, in un tragitto che – in senso biblico – conduce dall’E-den a Giosafat, dal supero all’in-fero. Basteranno due esempi a illustrare questo lungo viaggio

(recentemente preso in esame da Gino Tellini in “Natura e arte nella letteratura italiana”, uscito per i tipi di Le Monnier) : la “candida rosa” del Paradiso dantesco, in cui il fiore si fa immagine di verecondia celeste; e, quasi in violento contrasto, “I fiori” di Aldo Palazzeschi, dove le creature vegetali non solo si macchiano degli stessi peccati dell’uomo ma, quasi a voler reclamare il loro posto nel mondo, parlano e scoprono il proprio linguaggio (“-Ma tu chi sei? Che fai?/ -Bella, sono una rosa,/ non m’hai ancora veduta?/ Sono una rosa e faccio la prostituta”). La camelia, tuttavia, pare esulare da questo corteggio, forse per il suo essere simbolo di vita stroncata, che ben si addiceva all’eroina di Dumas. Nello sfio-rire immediato, la sua è un’im-magine di forza e al contempo di debolezza: un canto a solo, forse intonato per pochi.

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a Cura di CriStina [email protected]

Dalla collezione di RossanoBizzarriadegli oggetti

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Nel buio lo spazio vitale ci è sottratto e siamo costretti quasi a abbandonare la sala

che è piena di una grande camera d’aria di tessuto sintetico che, fuo-riuscendo da una piccola scatola (contenitore - corpo individuale), si espande gonfiandosi e sottraen-doci aria e spazio. E’ EGO opera del giovane artista pratese Simone Gori ospite alla Galleria La Corte di Firenze fino al 13 aprile 2015. L’installazione è composta da una camera d’aria in fibra poliammide poggiata su bancali ai quali sono incollate alcune fotografie di grande formato. Le foto ritraggo-no l’artista di schiena nell’atto di sorreggere il grande peso del suo stesso EGO che si gonfia sempre più nella forte concentrazione su se stesso, tipica di chi fa arte e, in generale, dell’autopromozione che oggi con i media sembra alla portata di tutti per esprimere e pubblicizzare la propria creatività. L’EGO artistico si gonfia e prende spazio, forse troppo, fino a far uscire gli altri dalla propria vita creando solitudine e peso, il peso che Gori sostiene sulle sue spalle. Fare arte è anche prendersi carico di questo EGO artistico che vuole farsi notare attraverso la creatività rischiando che quasi tutta la vita dell’individuo ruoti intorno a lui, tutto ciò può diventare molto pesante perché spesso le scelte

di angela [email protected]

sono fatte in solitudine e alcune volte senza essere capiti. In galleria a fatica possiamo camminare intorno all’opera perché EGO ci spinge verso la parete e ci schiaccia

costringendoci quasi ad annullarci per far posto a lui, non abbiamo la possibilità di interagire con l’opera ma possiamo solo constatare che è talmente gonfio di se che non si accorge di noi, del nostro corpo e ancor meno dei nostri pensieri. Eppure è un EGO non rigido, quasi giocoso, ricorda una mon-golfiera ma non vola e sicuramente si gonfia anche per difesa per farsi forza di fronte alla critica e al pubblico, perché l’artista è pur sempre la persona che attraverso la sua opera si mette a nudo con il coraggio di far vedere debolezze, paure, dolori convertendo tutto in oggetto artistico. Dentro o dietro questo enorme EGO forse c’è anche tanta fragilità e paura di non riuscire, di non essere capito, di essere rifiutato, di non essere all’altezza di... L’artista è Atlante dalla mitologia greca, il Titano condannato a reggere sulle sue spalle la volta celeste, esso è colui che sopporta/porta il peso mondo, Atlante è anche la prima vertebra cervicale che regge il peso statico e dinamico della nostra testa cioè sostiene anche i nostri pensieri e le nostre idee creative. L’artista è co-lui che si fa carico del mondo inte-so come umanità come se portasse su di se la possibilità di esplorare la creatività umana e di renderla manifesta con un EGO smisurato perché l’opera di Simone Gori non è solo l’EGO dell’artista ma anche la rappresentazione dell’arte stessa.

L’Ego artisticosi gonfia

“Dio ci diede il tempo ma della fretta non ha parlato” recita il motto degli habitués dei caffè di Vienna 117 . Parole che sintetiz-zano bene la passione dei viennesi per la bevanda scura che nel corso del tempo divenne oggetto di un vero e proprio culto.Tutto ebbe origine nel 1683 quando i Turchi sconfitti abban-donarono alle porte della città molti sacchi contenenti grani scuri il cui impiego era sconosciu-to ai viennesi.Si narra che a svelare il mistero sia stato un uomo di origine polacca chiamato Kolschitzky che, cono-scendo lingua e usanze turche, spiegò come con la polvere ricavata dai chicchi si preparasse una bevanda che gli ottomani gustavano più volte al giorno. Al polacco la città offrì uno spazio dietro la cattedrale di S. Stefano

dove nel 1685 aprì la prima Kaf-feehaus (Bottega del caffè) seguita nel corso degli anni da numerosi altri locali dove ci si recava per bere caffè, leggere i giornali o commentare i fatti del giorno.Il Café Central divenne uno dei templi di questo particolare rito.Venne aperto nel 1876 dai fra-telli Pach nei locali dello storico Palazzo della Borsa austriaca oggi chiamato Palais Ferstel, nome dell’architetto che lo progettò in stile neorinascimentale toscano.Fino al 1938 il Café era chiamato anche Die Schachhochschule (“l’università degli scacchi”) a causa dei molti giocatori che lo frequentavano.

Chiuso alla fine della II Guerra mondiale il Central venne ria-perto nel 1975 in occasione della ristrutturazione di Palazzo Ferstel non più nella corte interna, ma in quello che era stato il salone di una banca. Il locale divenne uno dei punti di riferimento della vita intellettuale viennese e fra i suoi frequentatori assidui si trovano illustri perso-naggi: Arthur Schnitzler, Franz Werfel, Stefan Zweig, Robert Musil, Theodor Herzl, Alfred Adler, Hugo Von Hoffmansthal, Adolf Loos.

Ancora oggi una statua di cera rappresenta il poeta Peter Alten-berg seduto ad uno dei tavolini. Nel solo gennaio 1913 Josip Broz (Tito), Sigmund Freud, Adolf Hitler, Vladimir Lenin e Leone Trotsky si sedettero ai suoi tavolini.Un famoso episodio legato al Cafè Central ha come prota-gonisti Victor Adler, politico austriaco, e il conte Leopold von Berchtold, Ministro degli Esteri dell’Austria-Ungheria dal 1912 al 1915.Adler sosteneva che la guerra avrebbe provocato la rivoluzione in Russia ed il ministro rispose: “E chi la farebbe la rivoluzione? Forse il signor Bronstein che siede al Café Central?” riferen-dosi col suo vero nome a Leone Trotsky esule dal 1917 a Vienna e giocatore abituale di scacchi al Café.

di SteFano [email protected]

Caffè LetterarioElogiodella lentezza

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Premetto che non sapevo granché dell’autore se non, vagamente, che passava per

uno scrittore di destra, né avevo letto altri suoi libri; confesso di aver comprato questo sull’onda del coinvolgimento emotivo le-gato alla sfortunata (o fortunata, quanto a pubblicità imprevista) coincidenza dell’uscita del libro, che, come si sapeva, trattava dell’avanzata dell’Islam in Euro-pa, e la strage di Charlie Hebdo. Comunque, contrariamente a quanto mi aspettavo, l’ho divora-to. Un po’ perché lo stile è scor-revole, facilissimo, senza fronzoli né lunghe descrizioni, con in più quel tocco di cinico decadente realismo che a me piace; e molto perché l’ho trovato subito parec-chio interessante, e strano, nel senso che non si capisce che tipo di libro sia: pamphlet fantapoliti-co (e in questo caso, pro o contro l’Islam?), romanzo visionario e apocalittico, paradosso politica-mente scorretto. Questa difficoltà di interpretazione ci accompagna fino alla fine, e chiudiamo il libro con ancora questo interrogativo: cosa vuole dirci l’autore, aldilà delle vicende umane e professio-nali del protagonista e io narran-te, un professore di letteratura francese alla Sorbona (specialista di Huysmans, di cui tenta di seguire il percorso intellettuale alla ricerca di una salvezza dalla propria depressione), personaggio di squallida normalità, emblema-tico della società agonizzante e disperata (nel senso che non ha speranze né passioni né ideali) in cui vive l’uomo occidentale nel prossimo 2022. E’ una Francia, anzi è un’Europa sempre più isla-mizzata (fanno parte dell’UE Tur-chia, Marocco, Tunisia, stanno per entrarci Egitto e Libano…), in cui musulmani sono del tutto integrati, occupano posti di po-tere, e anche la cultura e la civiltà magrebina (a partire dai ristoran-ti, al cibo, alla musica…) è dif-fusa ed apprezzata. E’ una Parigi plumbea, sconvolta da scontri precedenti le elezioni politiche, che consegneranno la Francia al Partito islamico moderato dei Fratelli musulmani, guidato da un capo carismatico e abilissimo, Mohammed Ben Abbes.Intendiamoci, sono libere e democratiche elezioni, in cui i contendenti risultano Il Fronte

La Sottomissionedi Houellebecq

di maria mannelli goggioli in quanto essere pensante, non può fare a meno di porsi, quanto possiamo dirci protetti e rassicu-rati, in una parola, felici? In fondo, le perplessità del nostro protagonista ad abbracciare l’I-slam durano poco: la sua vita era talmente vuota di affetti, di pas-sioni, di scopo, tante le domande senza risposta, che il cambiamen-to può sembrare addirittura allet-tante; e la decisione è facilmente presa, la sua come quella di tanti altri. Per ragioni utilitaristiche, ma non soltanto, egli si ven-de, aderisce, si sottomette (del resto, anche Huysmans si era convertito da ultimo al cattolice-simo). Solo nella sottomissione, nell’abbandonarsi dolcemente ad una guida superiore che ci dice cosa fare, in cosa credere, può trovare la pacificazione l’uomo occidentale, che ha sperimentato sulla sua pelle quanto l’individua-lismo liberale abbia fallito, ci dice Michel Houellebecq. Ma l’interrogativo iniziale rima-ne, e rende il libro complesso: è una esaltazione dei valori della spiritualità (in questo caso l’Isla-mismo è solo un pretesto, è solo un esempio di religione che non ha perso la sua spinta militante) o piuttosto è il prospettarsi di un incubo alla Orwell? E’ l’auspicio di un ritorno alla tradizione, alla religiosità pre-umanistica? Si può discutere. Sicuramente è una condanna, una presa d’atto della sconfitta dell’Occidente; a voler-ne fare una lettura positiva, ci si può leggere anche una sferzata, una incitazione a reagire, a non morire prima della morte, a usci-re dall’abulia, dalla rassegnazione cinica per cui niente ci stupisce o ci indigna, a trovare delle energie che possano confrontarsi ad armi pari con altre forze emergenti e più vitali, in una parola a non sottomettersi senza combat-tere. Questa è la situazione in cui potremo trovarci a breve, sembra dire Houellebecq, se non reagiamo. Un’ultima perplessità: ma le donne, le donne dove sono in questo romanzo, cosa pensano, si sottomettono anch’esse, dopo esserlo state per secoli ed esserne uscite da poco? Certo è un libro declinato al maschile, in cui le donne non sono protagoniste, costituiscono un mondo miste-rioso, desiderato ed indispensabi-le ma tenuto fuori dai giochi dei grandi.

Nazionale e i Fratelli musulmani, poiché i partiti storici di governo, il socialista e la destra, sono or-mai esauriti, catatonici, superati dai vitali opposti estremismi. Per non far prevalere Marine Le Pen, il Partito socialista si allea al ballottaggio con Ben Abbes, in cambio di qualche ministe-ro, facendolo così prevalere. La Francia rimane certo stupefatta, basita, ma l’accettazione dello stato di fatto avviene rapidamen-te e senza troppe scosse, grazie all’abilità di rassicurare e blandire l’opinione pubblica del leader della Fratellanza e grazie al suo ben chiaro progetto politico, frutto di una visione mancante ai suoi avversari: convertire gli infe-deli e creare il sempre agognato impero islamico conquistando l’Occidente, senza violenze ma anzi proteggendolo da esse. In pratica, le cose sembrano migliorare in Francia: i disordini cessano, la legalità è ripristinata, i fanatici della Jihad tenuti a bada, la disoccupazione frenata perché le donne lasciano il lavoro per rientrare ad occuparsi della famiglia, dei figli e degli anziani, di conseguenza le spese per l’as-sistenza e i sussidi a carico dello Stato diminuiscono sostanzial-mente, gli stipendi e le pensioni aumentano in maniera cospicua, grazie anche ai petrodollari generosamente versati dai sauditi; contro il salariato industriale è incoraggiata la piccola impresa familiare, che garantisce il mante-nersi e il rafforzarsi dei legami tra

consanguinei, la solidarietà fami-liare risolve la solitudine affettiva che era una delle cause dell’in-felicità dell’uomo occidentale; si assiste al ritorno del patriarcato, è consentita la poligamia; in fondo, cosa può chiedere di più un uomo (un maschio)? Del sano cibo domestico, casa e figli ac-cuditi, del buon sesso con spose eterne bambine che vivono velate durante il giorno per trasformarsi la sera in uccelli del Paradiso per l’esclusivo piacere del loro signore e padrone, mentre le donne occidentali sgambettano tutto il giorno in tacchi e tailleurs rincorrendo la loro affermazione sociale per crollare esauste la sera in tuta e ciabatte di fronte al par-tner (questa pagina, come altre, è fulminante). Anche la burocra-zia assume volto più umano, le pratiche amministrative (imman-cabili e frustanti seccature sempre e ovunque presenti nei paesi civilizzati) si sbrigano facilmente! Certo i cambiamenti si avverto-no, c’è la piccola questione della perdita della libertà intellettuale, c’è l’adesione alla religione islami-ca (non imposta, ma necessaria se si vuole accedere ad un impiego nell’amministrazione statale, soprattutto nell’insegnamento), ma, a ben vedere, tutta questa libertà non ha forse caricato l’uo-mo di maggiori responsabilità, non lo ha messo di fronte a scelte che non sa prendere, non lo ha reso più chiuso nel suo egoi-smo? Senza un Dio che fornisca risposte a domande che l’uomo,

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clavicembalo, oboe e percussioni. L’amore per certe culture asiatiche -soprattutto quella indiana- viene sottolineato dall’uso del sitar e delle tabla. Le parti vocali ven-gono affidate a Djong Yun, figlia di Isang Yun (1917-1995), un importante compositore coreano emigrato nella Germania Ovest. Dotato di una solida formazio-ne classica, Fricke opta per toni contemplativi, proponendo una sintesi originale fra la musica sacra cristiana e il misticismo della

tradizione induista.Questi interessi erano già presenti allo stato embrionale nel nome del gruppo, tratto dalla più grande opera letteraria dell’America precolombiana. Scritto attorno alla metà del sedicesimo secolo, il Popol Vuh è uno dei testi centrali della cultura maya.Attenzione però: la musica di Florian Fricke non è un pastiche speziato che anticipa la New Age, ma possiede un nerbo e una per-sonalità che stimolano emozioni profonde. Il 33 giri che inaugura questo nuovo corso è Hosianna Mantra (Pilz, 1972). Nello stesso anno la colonna sonora del film Aguirre, il furore di Dio segna l’ini-zio della collaborazione fra i Popol Vuh e il regista Werner Herzog. Per quasi vent’anni il gruppo prosegue su questi due binari: da una parte i dischi propri, dall’altra le colonne sonore.Si tratta di due percorsi autonomi: la musica che Fricke scrive per il cinema non è una parafrasi di quella composta per il gruppo, ma recupera certi accenti elettro-nici fondendoli con le influenze classiche. Queste ultime rimango-no sempre presenti, tanto è vero che alcuni anni dopo il pianista

la musica dei gruppi più stimolanti che si affermano nella Germania Ovest fra la

fine degli anni Sessanta e la metà del decennio successivo viene etichettata krautrock o Kosmische Musik. Si intitola appunto Krau-trocksampler. Guida personale alla Grande Musica Cosmica dal 1968 in poi (Lain, 2006) il libro dove Julian Cope ricostruisce questo fenomeno musicale. Ciascun gruppo sviluppa una propria fisionomia coniugando le influenze anglosassoni con quelle dell’elettronica tedesca. In questo panorama affollato spiccano nomi come Amon Düül, Can, Popol Vuh e Tangerine Dream.Col passare degli anni ogni grup-po perfeziona la propria ricerca musicale, ma soltanto uno sente il bisogno di accantonare i sinte-tizzatori e le chitarre elettriche per adottare una strumentazione prevalentemente acustica: i Popol Vuh guidati dal tastierista Florian Fricke (1944-2001). Questa scelta segna un mutamento radicale, perché le sonorità fredde e geo-metriche del Moog vengono so-stituite da strumenti come piano,

registra Florian Fricke spielt Mo-zart (Bell, 1991), dove interpreta vari brani del grande compositore austriaco.Morto d’infarto nel 2001, Fricke torna in primo piano oggi grazie a Kailash (Soul Jazz Records, 2015), una bella confezione che comprende due CD e un DVD. Situato nel Tibet, il monte Kai-lash è un luogo sacro per quattro religioni, due delle quali diffuse in India (induismo e gianismo) e due nel Tibet (bön e buddhismo). Secondo molte religioni, la salita verso la vetta di una montagna è la strada che conduce alla perfezione e alla pace. La musica di Kailash è impregnata di questa tensione mistica. Il primo CD contiene brani per piano -cinque dei quali inediti- composti fra l’inizio degli anni Settanta e la fine degli Ottanta. Nel DVD troviamo il docu-mentario Kailash: PIlgrimage to the Throne of Gods, realizzato da Frank Fiedler e dallo stesso Fricke, mentre il secondo CD contiene la sua colonna sonora. Kailash è il migliore omaggio che si potesse fare al compositore tedesco, per-ché coglie appieno l’essenza della sua parabola artistica.

Narrano le istorie che nell’anno del Signore 1099, addì 15 di lu-glio, il nobile fiorentino Pazzino de’ Pazzi fu il primo cavaliere crociato a scavalcare le mura della Città Santa e, come scrive Giuseppe Conti in “Firenze Vec-chia” (senza però citare la fonte) “con generoso ardire piantò a viva forza et a dispetto de’ Sara-cini lo stendardo della fede sulle mura di Jerusalem”.Ora, indipendentemente dal fatto che altre fonti revisioniste attribuiscono a due cavalieri fiamminghi, Lethalde ed En-gelbert, la primogenitura dello scavalcamento delle mura, non è che il buon Pazzino facesse un grande affare: infatti, scrive sempre Conti, il comandante su-premo dei Crociati Goffredo di Buglione, a titolo di ricompensa per la gloriosa impresa, gli con-cesse di modificare lo stemma di famiglia sormontandolo con la “corona murale”, fregio riservato ai primi scalatori delle mura.Soprattutto il capo-Crociato lo autorizzò “a togliere alcuni

pezzi di pietra viva, che toccava il sepolcro di Gesù Cristo”: queste tre schegge del Santo Sepolcro (divenute poi quattro per la rot-tura di una delle pietre) furono l’onore e l’onere di Pazzino e dei suoi discendenti per molti secoli a venire.Il prode crociato tornò a Firenze giusto due anni dopo l’impresa, il 16 luglio 1101, accolto da tutta la città in festa e, in un pri-mo tempo, ricoverò le preziose schegge nel palazzo di famiglia per trasferirle poi nell’antichissi-ma chiesa di Santa Maria sopra a porta che, agli inizi del ‘500, fu dedicata a San Biagio. Nel 1785 la chiesa di San Biagio, scon-sacrata, diventò la caserma dei Vigili del Fuoco e le pietre sacre furono trasferite nella chiesa dei Santissimi Apostoli, in Piazza del Limbo, dove tuttora si trovano.

Fin dai tempi nei quali le pietre dimoravano a casa Pazzi, era uso, il Sabato Santo, utilizzarle come pietre focaie per accendere un fuoco al quale attingevano i fiorentini per alimentare delle lucerne che poi portavano a casa: il pellegrinaggio a casa Pazzi divenne in breve di tali dimen-sioni che i Pazzi, come detto,

furono costretti a spostare altrove le pietre.Una volta che le schegge furono in Santa Maria sopra a porta, spettò comunque ai Pazzi di averle in custodia e di essere incaricati di accendere, la vigilia di Pasqua, il fuoco santo con il quale venivano accese migliaia di “facelline” (fiaccole). Nella seconda metà del ‘300, per so-lennizzare ancor più la cerimo-nia, i Pazzi, una volta acceso il fuoco, lo portavano in proces-sione in Santa Maria del Fiore; finalmente, a loro spese, i Pazzi fecero costruire una “macchina” che veniva incendiata davanti al Duomo durante la messa del Sabato Santo.I Pazzi (nonostante la caduta in disgrazia seguita alla sciagu-rata congiura) continuarono a finanziare la cerimonia fino alla scomparsa, nel 1858, dell’ultimo erede maschio della famiglia, quando l’onere passò al Comune di Firenze che trasferì il “Brindel-lone” dalla vecchia “abitazione” di Borgo Allegri nell’attuale dimora al n.c. 48 del Prato.

di FaBriZio [email protected] Piazza del Limbo

Lo scoppiodi’ carro

Armoniaceleste

di aleSSandro [email protected]

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monti e Luigi Alemanni, tentano di assassinare il futuro papa Clemente VII, ossia Giuliano de’ Medici: e di Niccolò si sospettò. Le congiure, ormai, sembrano a noi uno spettro del passato, un residuo di un’altra epoca, mentre l’oggi è minacciato da nuovi pericoli: il terrorismo, la crisi economica, i disastri ambien-tali, ecc. Sebbene gli uomini di potere non temano più i pugnali di Bruto e Cassio, le congiure appaiono però esistere ancora, sotto nuove forme: al posto dei coltelli la denigrazione, invece del veleno il ritiro della fiducia promessa in parlamento. Dun-que un’analisi dei fenomeni di antagonismo segreto e improvviso che da ogni parte in politica si verificano s’impone. La lezione di Machiavelli appare attualissima nello spiegarci il mondo come è, non come dovrebbe essere: senza vani moralismi. Il rigore, la consequenzialità dei pensieri di Niccolò in tema –pur non senza alcune oscillazioni e proposizioni contraddittorie- di-mostra come al Segretario fioren-tino non interessi giustificare o condannare le cospirazioni da un punto di vista morale. É il mecca-nismo del fatto che si vuole capire e spiegare. Stringersi in un patto e attentare al capo di uno stato significa per Machiavelli, talvolta turbato per la drammaticità di episodi e problemi considerati, mettere a rischio l’integrità e l’esistenza stessa di un regno, o di una repubblica: questo soprat-

tutto ritiene contrario a ogni umana dignità e convenienza. A parte lo sdegno di chi giudica una congiura come un vero e proprio sacrilegio (Dante pone Bruto e Cassio – i congiurati per eccellenza - nel fondo dell’In-ferno), nulla è più pernicioso, secondo il modo di guardare di Niccolò, per la convivenza tra gli uomini organizzata in ordini e armi. Ma questo mezzo di lotta politica esiste, inutile nasconder-selo, e allora occorre conoscerne logiche e modi realizzativi. Se

ne concluderà che le congiure, troppo concedendo al caso, non funzionano. Non si dovrebbe cospirare perché è peccato, ma perché è inutile, anzi contropro-ducente, e in quanto tale svilisce le modalità del conflitto politi-co. La cospirazione assomiglia a un’arma a doppio taglio: lo statista è il bersaglio designato, ma questo, se dotato di abilità politica e di una buona dose di fortuna, può volgere l’attentato alla sua vita a proprio vantag-gio. Come la storia ci insegna spesso il potere si è servito di false minacce e nemici immaginari per difendersi e rigenerarsi; e questo Machiavelli lo aveva capito: nel Tradimento del duca Valentino (rievocazione in data indefinita di eventi del 1503) si mostra come a una congiura scoperta la vittima designata può opporsi, con un misto di ingegnosa prudenza e fortunata arditezza: deve ordire una contro-congiura. L’eroe della doppiezza, non a caso, è Cesare Borgia, maestro di simulazione quando non di spietata crudeltà: oltre che abilissimo nel non susci-tare odio e disprezzo nel popolo più minuto, come raccomanda il cap. XIX del Principe. Saper leggere le congiure significa però, per un pensatore che è anche un grande scrittore, saperle narrare in modo avvincente: come vediamo in quel piccolo capolavoro di novella storico-tra-gica che è il Tradimento del duca Valentino e in generale nell’opera machiavelliana più imponente:

le Istorie fiorentine. Naturalmente la costante attenzione per i fatti del mondo non allontana mai dal narratore il teorico: in questi episodi letteratura e politologia si sovrappongo. La storia di Firenze (e di tutta la penisola italiana) è ricostruita da Machiavelli non solo con un intento conoscitivo ma con interesse pratico e peda-gogico. Tuttavia i casi storici più interessanti tendono a diventare novelle (non diciamo forse oggi “narrazioni”?), in esse i congiu-rati e la loro vittima mostrano il loro lato più umano e segreto: come il tirannico Galeazzo Maria Sforza, signore di Milano, il quale mentre cade sotto i colpi dei suoi attentatori invoca pietosamente il cielo in aiuto; oppure il famige-rato Jacopo de’ Pazzi, ritratto da Machiavelli tra luci e ombre.Il patetismo non appartiene, comunque, a un politologo consapevole che un’aggressione violenta e coordinata suscita la ripulsa dei cittadini più sensibili, ma anche che è quasi sempre inefficace: troppi sono i pericoli e le insicurezze affinché la congiura possa essere considerata un mezzo davvero efficace nella lotta poli-tica. Questa, invece, va praticata contando su forze solide. Ecco il succo di un’antologia che mentre ricostruisce con attenzione il passato, porta gli echi di fatti a noi familiari. Campi, del resto, si è mosso per anni tra studi e azione nel mondo, fungendo da consigliere personale di Gianfran-co Fini. Oggi, si accennava, la congiura è poco riconoscibile, evoluta come è nel moderno complotto, ossia l’iniziativa di una forza oscura e nebulosa (un “potere forte”) che controlla il mondo da dietro le quinte. Sono tenebre diverse, ma non più paurose di quelle classiche. Rileggendo Machiavelli possiamo comunque avere meno paura del lato oscuro della lotta politica. Quello che nasconde i come e i perché di Cesare e Giu-liano de’ Medici, di Kennedy e Moro. Quello che, insieme, c’in-terroga sul senso ultimo dell’eli-minazione di un potente, quando non si tratta più di riforme, d’economia o di welfare state. Un atto spregevole di assassini, o una necessità estrema avvertita da san-ti laici della libertà? Dipende dai punti di vista: ma non chiedete a Niccolò il suo.

Ci siamo chiesti tre anni fa se non era stata un’azione combinata (la Merkel,

Napolitano, la Banca Centrale Europea) a provocare la fuoriusci-ta di Berlusconi da Palazzo Chigi. Di nuovo, nel febbraio del 2014, si è pensato che dietro il velo di quel tweet per Letta, “Enrico stai sereno”, si celasse una macchi-nazione per liquidare il premier pisano e sostituirlo con quello fiorentino. Vero o no che sia (ma pochi ne dubitano), la congiura, l’operazione segreta e collettiva mirante a sostituire un’autorità con un’altra, per esempio Matteo Renzi, si conferma nei tempi mo-derni una situazione ricorrente della politica. Fresco fresco arriva dal sud, dove il calabrese Rubbet-tino riesce a fare editoria umani-stica di qualità, una raccolta di scritti di Machiavelli (chi se non lui, quando si pensa in termini politici?) centrati sul tema della cospirazione, nello spazio e nel tempo. Il libro,Sulle congiure, è introdotto e commentato, con dottrina ma senza annoiare, da Alessandro Campi, storico del pensiero politico, esperto del segretario fiorentino, bibliofilo e collezionista, tra l’altro già curato-re della mostra sui cinquecento anni del Principe, che ha portato messer Niccolò al Vittoriano, e dell’altra più recente esposizione perugina Machiavelli e il mestiere delle armi. I testi raccolti sono tratti dalle opere maggiori del segretario: il Principe, i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, le Istorie e altre. A capo di questa raccolta sta il singolare capitolo sesto del terzo libro dei Discorsi, ovvero Delle congiure: un capitolo esteso (quasi un trattato-nel-trat-tato) nel quale Machiavelli analizza, con una lucidità impres-sionante, le cause, i pericoli, le conseguenze e i possibili rimedi delle azioni cospirative. L’argo-mento è delicato per l’autore, anche in termini personali: nel travagliato corso della sua vita egli si trovò due volte a fronteggiare le conseguenze di operazioni di gruppo proibite. Nel 1513 fu arrestato e torturato, sebbene estraneo ai fatti, dopo la scoperta di una congiura antimedicea (se tale davvero essa fu, come Campi si chiede); poi nel 1522 i suoi più stretti amici, Zanobi Buondel-

Un Segretario per le congiure

di diego [email protected]

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fetido carico fuori città. I nobili usavano la carrozza che li isolava dallo sporco, ma non dal puzzo; per questo serviva un fazzolet-tino profumato da pressare sul naso. Artigiani e commercianti preferivano svolgere i propri la-vori all’aperto piuttosto che nella penombra di anguste botteghe. Le loro enormi e pesanti insegne di legno pendevano pericolo-samente sul traffico di carrette piene di mercanzie trainate da enormi cavalli di campagna, di

carrozze di tutte le dimensio-ni, da quelle più prestigiose a doppio fondo e a sei cavalli a quelle piccole, per dame, a due ruote tirate da un uomo e a volte da un bambino. C’erano pozzi nei cortili dei palazzi gentilizi e fontane pubbliche nelle strade per la gente comune. La mag-gior parte dell’acqua, arrivata dall’acquedotto della collina di Belleville, era destinata alle comunità religiose. Il popolo mi-nuto dovevano accontentarsi di

quella che rimaneva. Davanti alle fontane c’era sempre una grande ressa e si era creato il mestiere di portatore d’acqua che riforniva chi si arrendeva . E poi c’erano gli animali. Dal 1667 la legge vietava ai parigini di allevare in casa maiali, polli e conigli, ma le famiglie che abitavano al piano terra spesso disattendevano questa regola trovando comodo far razzolare le loro bestie tra i rifiuti della strada. Passavano poi buoi e pecore condotti ad abbeverarsi nella Senna o al mattatoio. Nelle strade vicino al mercato di Les Halles il traffico e il rumore durava quasi tutta la notte. Così Suskind descrive il luogo prima che fosse edifi-cato: Per ottocento anni si erano portati qui i morti dell’ospedale Hotel-Dieu...ogni giorno dozzine di cadaveri portati con i carri e rovesciati in lunghe fosse...quando alcune di queste smottarono peri-colosamente e il puzzo del cimitero straripante indusse i vicini a vere e proprie insurrezioni, il cimitero fu definitivamente chiuso e milioni di ossa furono gettate a palate nelle catacombe di Montmartre, e al suo posto sorse una piazza con un mercato alimentare...Il raggio di sole che scaldava il mio tavolino si è allontanato, chiudo il libro, pago il conto e con un certo sollievo mi immer-go nel fiume umano che scorre, tumultuoso ma pulito, davanti a me.

Parigi, nel Marais. Seduta al tavolino di un bistrot in un pomeriggio solatio di

inizio aprile leggo il profumo di Suskind e ogni tanto, infastidita, mi guardo intorno. Un fiume di persone, parigini affrettati, turisti spensierati, euforiche comitive studentesche, lambisce i bei pa-lazzi e le mille vetrine disperden-dosi in rivoli nelle stradine late-rali. Ogni tanto un intoppo, poi la corrente riprende la sua corsa per andarsi a gettare e disper-dersi tra i prati e le arcate della bellissima piazza des Vosges. Suggestionata dalla mia lettura ho cercato di immaginare di tro-varmi nello stesso posto agli inizi del 1700 quando Illuminismo e Rivoluzione non avevano ancora cambiato il mondo occidentale. La caratteristica della città era innanzitutto il puzzo. Scrive Su-skind: un puzzo a stento immagi-nabile per noi moderni. Le strade puzzavano di letame, i cortili interni di orina, le trombe delle scale di legno marcio e di sterco di ratti...dai camini veniva puzzo di zolfo, dalle concerie veniva puzzo di solventi, dai macelli puzzo di sangue rappreso. La gente puzzava di sudore e di vestiti non lavati...Nelle strade si accumulavano i rifiuti. Solo quelle principali erano pavimentate. Avevano un canale di scolo al centro nel quale confluiva l’acqua sporca di tutte le case appestando l’aria. Le persone erano obbligate a cam-minare il più possibile rasente i muri. Il giovane Rousseau in visita alla città scriveva: il fango di Parigi che invade le strade è una complessa mistura di sabbia, di nauseabonde immondizie, di acqua stagnante di sterco. Le ruote dei veicoli spruzzano le lordure sui muri e sui passanti. Le case non avevano latrine e, al mattino, il contenuto dei vasi si gettava dalle case popolari, alte anche sette piani e affollatissime (ogni fami-glia viveva in una, due stanze), per strada gridando garde l’eau (attenti all’acqua). Dai maestosi portoni dei palazzi usciva la servetta portando, in equilibrio precario, i vasi dei padroni che svuotava nel canale di scolo. In seguito fu organizzato un servi-zio di carretti, i tombarelli, che si fermavano ogni mattina davanti alle case per poi scaricare il

Paris, la Ville malodorantdi Simonetta [email protected]

Il migliore dei Lidipossibili

Amore mediatico

Disegno di Lido Contemori Didascalia di Aldo Frangioni

di lido [email protected]

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dalla percezione quasi irriflessa di almeno tre contraddizioni o stonature: 1) perché l’autore di un (preteso) buon libro deve sentire il bisogno di farlo introdurre da un leader politico? Per vendere qualche copia in più? Quanta fiducia o considerazione ha dunque, l’autore, del proprio stesso lavoro e perché un potenziale lettore dovrebbe averne più di lui? 2) Se il libro in questione ha l’ambizione di avere un qualche carattere ‘scientifico’, l’introduzione del politico non rischia di vanificare lo sfor-zo conferendogli una patina micidiale di ‘antiscientificità’? 3) In fine che c’entra Salvini con una trattazione che pare preludere ad un ragionamento alternativo alla dominante (e talora insostenibile) retorica filo-risorgimentale? Non ha il suo partito ormai sposato una logica ‘nazionalista’, definitiva-mente abiurando dal proprio (già ampiamente tradìto) codice politico originario che vantava vessilli/idee-guida (liberamente discutibili ma di per sé certamente nobili) quali il federalismo e la secessio-ne-indipendenza?

Giovedì mattina faccio un salto in libreria per acquistare la dose

periodica, nella quale stavolta rientra - poiché faccio sempre quel po’ di programmazione di titoli – anche “Nordici e Sudici” di Riccardo Scarpa (Diana Edizioni, pp. 268, € 15,00). Di questa recen-te pubblicazione ho letto la recensione sul Domenicale del “Sole 24Ore” dell’11 gennaio scorso e ne ho tratto curiosità. L’argomento ha a che fare con le cause del ritardo storico del Mezzogiorno, dunque non è davvero nuovo; senonché - dichiarava il recensore, tal Brusadelli – il lavoro di Scarpa “si segnala per l’ampiezza di documentazione e per la net-tezza con la quale, scartando senza esitazione ogni banale interpretazione culturale o peggio ancora antropologica, si individua la causa della penalizzazione in una precisa scelta di politica economica compiuta dai savoiardi all’in-domani dell’impresa di Gari-baldi”. Quando il commesso mi porge il libro, la copertina mi dà come un cazzotto: “Prefazione Stefano Folli / Introduzione Matteo Salvini”. Ho letto bene? Salvini intro-duce il libro? La curiosità ha immediatamente ceduto il passo allo sconforto. Il quale, per essere esatti, è sbocciato

Nordici, sudiciUna non recensione

di paolo [email protected]

di davide [email protected] Rimboschimento frangivento con popolazio-

ne di Pinus Pinea esposta al maestrale.

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roberta Barsotti, quando si innamorò della professione di Counselor?

La prima volta che sentii parlare del counseling me ne innamorai subito, apprezzai enormemente i principi etici che stanno alla base di questa professione e soprattutto il fatto che questo approccio è fondato su un concetto di salute invece che sulla malattia, sull’empowerment piuttosto che sul curare. Carl Rogers, padre e fonda-tore del counseling, sosteneva che nell’essere umano ci sono tutte le condizioni necessarie e sufficienti affinché la persona possa guarire dalla sofferenza psichica e sviluppare in pieno il proprio potenziale, attraverso un processo di autorealizza-zione, che è molto di più di un adattamento alla realtà, ma è l’esplicazione della propria es-senza che spinge sempre verso l’autorealizzazione. La relazione di aiuto che si instaura tra counselor e cliente assume così una particolare connotazione: un rapporto tra professionista e colui che chiede aiuto, caratterizzato da un approccio paritario dove la dignità della persona e i suoi poteri decisionali sono rispettati e sostenuti. Al fine di sottolineare questa eguaglianza Rogers si rifiuta di utilizzare il termine paziente sostituendolo con cliente con lo scopo di evi-denziare ancora di più questo bilanciamento di potere. Solo da queste semplici parole possiamo subito comprendere come il lavoro del counselor escluda ogni possibile processo di manipolazione, in quanto si lavora in una condizione di parità, non c’è un up e down nella relazione. Infatti - aspetto importante - non si lavora sul cliente ma con il cliente.Cosa significa “tendenza attua-lizzante”?“Quando ero piccolo – raccon-ta Rogers – le patate venivano conservate in cantina. L’am-biente non era favorevole, al contrario. Vedevo però che le patate germogliavano ed i ger-mogli tendevano verso la luce. Se esiste nel mondo vegetale, anche nell’essere umano deve

esistere la tendenza attualizzan-te, cioè la tendenza a favorire la crescita delle parti positive di sé”. Tutti gli esseri umani han-no innate queste capacità che si esplicano in quella che Rogers chiama tendenza attualizzante.Roberta, chi avrebbe avuto volentieri come cliente fra i “grandi” del passato?Marco Aurelio diceva “E’ difficile per l’uomo sopportare se stesso”. Probabilmente dopo un percorso di counseling avrebbe avuto una diversa

visione di se stesso.Un’opera d’arte che rappresenta al meglio il counseling?Penso a “La Danza” di Matisse. Mentre il counselor è con il cliente, in forza della relazione che si instaura, l’immagine può corrispondere a quella di una danza dove, affinché il ballo sia fluido e armonico, è impor-tante avere lo stesso tempo, una forte alleanza ed essere in sintonia. Il famoso aforisma di Proust

“Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”?Questo aforisma si lega be-nissimo al counseling: infatti quando un cliente inizia un

percorso solitamente i suoi occhi sono offuscati,

appannati e non permettono una visione chiara della situazione. Per con-tinuare in metafora mi viene in mente

una vecchia canzone che diceva: “ti darei gli

occhi miei per vedere ciò che non vedi…” [Renato Zero] e questo è a parer mio una delle peculiarità del lavoro in counseling: permettere al clien-te di vedere le sue potenzialità al di là delle difficoltà che sta attraversando nello specifico momento, permettere ai suoi occhi di essere nuovamente lungimiranti per arrivare a cogliere le parti positive di sé.

di loretta [email protected] Il Counseling e Renato Zero

Intervistaa RobertaBarsotti

Scavezzacollo di maSSimo [email protected]

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Il Coccoi sardo pasquale. Il Coc-coi, com’è chiamato nel Campida-nese o “pane di tricu ruiu” (pane di grano duro) com’è chiamato in Gallura, è un tradizionale pane sardo preparato con semola di grano duro e decorato con tagli di forbici, rotelle e lame affilate. Un tempo era il pane delle feste, oggi si trova facilmente. Riguardo alle caratteristiche, essendo fatto di sola semola, il Coccoi è un pane che non lievita molto, presenta la crosta dura, ma all’interno è molto morbido e dalla mollica compatta e bianca.Ingredienti: 1 kg di semola rimaci-nata, 700 ml d’acqua ½ cucchiaio di sale, 1 cucchiaio di zucchero, 2 bustine di Lievito per torte salate disidratato (16 gr), 5 uova.Preparazione: L’impasto può essere preparato con macchina del pane o con un’impastatrice - in tal caso usare il gancio - oppure, per chi lo preferisse, l’impasto potrà esser preparato anche a mano e in tal caso andrà lavorato a lungo. Nel cestello versare l’acqua, unire prima il lievito, lo zucchero e amalgamare; unire quindi la semo-la rimacinata, il sale e impastare il tutto. Ottenuto un impasto omogeneo, lasciarlo lievitare in ambiente tiepido per circa 1,5 ore. Sgonfiare l’impasto, rilavorarlo un po’ con le mani o con le macchine

e lasciarlo lievitare nuovamente per almeno 1,5 ore. Preparare con l’impasto delle forme, tagliarle e sforbiciarle a gusto personale e tra-sferirle in una teglia foderata con carta forno. Al centro di ciascuna forma, poi, inserire un nuovo cru-do e far lievitare il pane per circa 60-90 minuti, secondo la tempe-ratura. Preriscaldare il forno a 250 gradi, infornare il Coccoi e farlo cuocere per 10 minuti, abbassare quindi la temperatura a 180 gradi e farlo cuocere fin quando non si sentirà un buon profumo di pane (usare il grill per dorare un po’ la superficie). Comunque la cottura dovrebbe durare circa 30-45 mi-nuti, dipende dalla grandezza dei pezzi di pane, e dal tipo di forno.

Leggendo un libro, guardando uno spettacolo teatrale, ascoltando un brano musicale, ogni tanto mi è capitato di pensare quanto crudele possa essere il pubblico.Quanto crudele possa essere anch’io. Con un mi piace, non mi piace, deciderne il destino. Un giu-dizio spesso dato superficialmente, senza pensare quanto enorme sforzo ci sia, singolo o collettivo, nel produrre o almeno tentare di produrre un lavoro artistico.Domenica pomeriggio, tra una pausa e l’altra, osservavo questi ragazzi. Mentre ripreparavano “la loro porzione di sito” per la visita successiva. La cura, l’amore, la passione con cui badavano al det-taglio, il tocco delicato, rispettoso ma anche confidente con cui ma-neggiavano le strutture e i reperti archeologici. Il gesto di protezione e cura del loro allestimento. In quei dettagli era condensato il loro percorso, la loro esperienza fino a oggi.Domenica sera Michael Mar-marinos, a conclusione di questa esperienza italiana, ha passato il testimone a Kays Rostom, il diret-tore artistico del cantiere tunisino. E nel ringraziare i ragazzi dal volto rosso di sole, vento, emozione, commozione e lacrime, ha parlato proprio di questi dettagli, come del loro patrimonio. Non ha usato

esattamente questa parola, ma a questa ho pensato. E ho pensato al pacchetto e alla tazza da barba del nonno che il padre di Philip Roth regala al figlio, il suo patrimonio. Un frammento di scoria di ferro, una barchetta di carta, l’impre-cazione di una ghianda missile, un’ombra proiettata sul fondo della tomba, della carta su un pan-nello, un foglietto in una fessura della pietra, un ombrello azzur-ro, dei numeri scritti per terra, i piedi scoperti di un operaio, il nastro bianco e rosso, un orecchi-no perso, un cappotto rosso. La sintesi del loro patrimonio. Che si porteranno a Cartagine. Insieme ai loro dubbi e alle loro paure. Questo testo è uscito sul sito di nostoi www.nostoi.eu

di miChele [email protected]

di BarBara Settitwitter @Barbara_Setti

aldo Frangioni presental’arte del riciclo di Paolo della Bella

ScottexL’attività plastica del nostro artista, che ci permettiamo di definire “Arte brancicata”, non nasce né casualmente e neppure con velocità, non è un gesto, ma è il frutto di una lunga ricerca e l’opera finale è prece-duta da numerosissimi schizzi preparatori e prove in materiali diversi dalla carta, come il granito o il porfido. Tutti questi lavori vengono però distrutti una volta realizzata l’opera in scottex: il vero punto di arrivo di un lungo, tortuoso e sofferto cammino.

Sculturaleggera

Panesardoper Pasqua

Passaggiodi testimone

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Foto di Marina Arienzale e Serena Gallorini

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Nasce Il buon vivere toscano. Idee e progetti per l’Expo 2015, il nuovo fascicolo della rivista TXT interamente dedicato alle proposte toscane per l’Expo. La rivista verrà presentata in un incontro che avrà luogo al Caffè Letterario Le Murate a Firenze martedì 7 aprile alle 18 in colla-borazione con la Regione Tosca-na e l’Associazione culturale “La Nottola di Minerva”. Il nuovo fascicolo di TXT racconta l’arte del “buon vivere” toscano che si basa da sempre sull’equilibrio dinamico tra l’ambiente naturale e l’uomo che coltiva e produce e sulla peculiare capacità del terri-torio di armonizzare economia e socialità, arte e industria.Con testi in italiano e in inglese,

la rivista, riccamente illustrata, racconta le idee inno-vative, i progetti e le buone pratiche scelte dalla Regione Toscana all’interno di call for ideas e bandi rivolti a enti, istituzioni for-mative, associazioni di produttori, consorzi di tutela e aziende del territorio in vista della partecipazione toscana all’Expo. “Sono soggetti

impegnati nell’innovazione e nel miglioramento della propria competitività per contribuire alla conservazione degli ecosi-stemi naturali e allo sviluppo economico e sociale dei territo-ri”, come sottolinea l’assessore regionale all’agricoltura Gianni Salvadori.La rivista getta uno sguardo an-che sui progetti delle scuole to-scane di ogni ordine e grado che stanno lavorando sulle tematiche dell’Expo attivando processi sostenibili e scambi con le scuole delle nazioni che parteciperanno alla manifestazione milanese. I percorsi attivati dalle scuole riguardano la cittadinanza, il rapporto tra letteratura, arte, musica e cibo e la filiera corta.

Teatro Studio Krypton presenta in prima

nazionale 15/45 Uno studio sulle guerre Tre atti teatrali sul desiderio della libertà con la regia Giancarlo Cauteruccio dal 10 al 18 aprile al Teatro Studio di Scandicci. Caute-ruccio affronta il tema della guerra in una forma che si allontana dalla cronaca ufficiale e mette in evidenza l’assurdità dei conflitti bellici attraverso le esperienze di tre eroi “minori” di quelle vicende, diversi tra loro

ma accomunati da un’unica finalità, quella della ricerca e del desiderio di liberta e di pace. Il progetto si fonda su tre drammatur-gie originali che si inoltrano tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Protagoniste saranno le vite dei tre testimoni e vitti-me: Maria Plozner Mentil, Bruno Neri e Jacopino Vespignani. Il percorso si dipana dal 1916 al 1945. I tre validi interpreti e altrettanto validi autori concorrono a questo particolare progetto che Cauteruccio vuole restituire come un unico lavoro declinato in tre puntate, in cui si dilata nel tempo il processo narrativo.

I fiori sbocciano, i fiori manifesta-no la loro bellezza, i fiori casca-no portati via dal vento, i fiori coprono e colorano le strade, ecco racchiuso in pochi giorni la vita stessa.Hanami 花見 letteralmente “am-mirare i fiori” è una delle tradizio-ni più sentite in Giappone.Chi arriva in vacanza in questo periodo può ammirare la fioritu-ra dei ciliegi, la quale regala dei momenti veramente suggestivi, giardini con alberi di ciliegio inse-riti in un contesto ancora carico di spiritualitità animistica, ma questo per chi vuol vedere. Se dovessi par-lare di una cosa tipica giapponese, direi proprio Hanami; ancora oggi la meraviglia e lo stupore che le persone mostrano davanti alla natura e a questi eventi è potente, le esclamazioni e il silenzio che si vede e si percepisce in questo periodo vale la pena conoscerlo.Se gli alberi di ciliegio sono belli di giorno, la sera diventano mistici, una cosa veramente spettacolare, le piante si svegliano e parlano tra di loro, la luce dei giardini e della luna illumina i fiori rendendoli irreali.Un saluto dal Giappone

Antonio & Yukiko

Il lavoro proposto nello spazio C2 contem-poranea è una riflessione su 30 anni di ricerca - dal 1984 al 2014 - attraverso un percorso che presenta opere di medio e piccolo formato: disegni, progetti e foto, che prevalentemente documentano la rapida trasformazione in atto sul territorio, sia dal punto di vista ambientale sia da quello antropologico. Si tratta di una “visione” strettamente da occidentale - tosca-no, europeo - che osserva, valuta il costante declino cui l’occidente, in particolare un’Eu-

ropa all’apice della maturità, è destinato. Osservare e comprendere, forse, per proteg-gersi dal frenetico immobilismo al quale siamo costretti. Osservatore di un territorio italiano come “discarica”, un luogo dove si sedimen-tano i detriti del nostro consumo. Un nuovo paesaggio, stravolto, contaminato da usi disin-volti del territorio, con i suoi nuovi abitanti

Mostra di Ronaldo Fiesoli da giovedì 9 aprile. Inaugurazione alle ore 18.00 Via Ugo Foscolo

6 - Firenze

Il territorio come discarica

Il primo ciliegio in fiore del Giappone

Uno studio sulle guerre

in

giro

Txt si presenta

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horror

vacuiDisegni di Pam

Testi di aldo Frangioni

Charlie Brown (a Lucy): Sicurezza...ecco di ciò di cui tutti abbiamo bisogno! Bisogna provare un “sentimento” di sicurezza...Toglie a un uomo la sicurezza, e cosa gli rimane? L’insicurezza, ecco cosa gli rimane!Lucy: Sei proprio un filosofo Charlie Brown.

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L

Siamo all’interno di uno Shopping Mall, e la prima cosa che ho deciso di fare è stata quella di prendermi un momento di relax facendo uno stop al “See’s Candies” una catena di pasticceria di gran classe molto famosa in questi luoghi. Questo brand ha ormai acquisito, e a ragione, una buo-na fama a livello mondiale. Per un goloso come me è sempre stato un punto di riferimento fisso durante i miei ripetuti soggiorni californiani e

lo consiglierei a tutti. Se fosse esistito ai tempi dell’Artusi sono certo che anche lui ne avrebbe certamente detto un gran bene. L’altra immagine è stata scattata sempre nello stesso Shopping Mall, ovviamente in un altro dipartimento, e credo che non abbia bisogno di particolari commenti.

San Jose, California 1972

Dall’archiviodi Maurizio Berlincioni

[email protected]

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