Cultura Commestibile 122

17
N° 1 22 direttore simone siliani redazione gianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli, michele morrocchi, barbara setti progetto grafico emiliano bacci [email protected] [email protected] www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012 Con la cultura non si mangia La comparsa

description

 

Transcript of Cultura Commestibile 122

Page 1: Cultura Commestibile 122

N° 122

direttoresimone siliani

redazionegianni biagi, sara chiarello, aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,

michele morrocchi, barbara setti

progetto graficoemiliano bacci

[email protected] [email protected] www.facebook.com/cultura.commestibile

editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 FirenzeRegistrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Con la cultura non si mangia

La comparsa

Page 2: Cultura Commestibile 122

9maggio

2015pag. 2

Da nonsaltare

danza, la coreografia per questa performance nasce da questo progetto perché con la prosa sarebbe stato molto più difficile perché il testo avrebbe creato una specie di muro; qui, invece, con il movimento, con la danza, abbiamo questo senso di miste-ro che emerge.Lei ha infarcito la performance di simboli che richiamano le quattro tragedie. Anche dei simboli, appa-rentemente, meno centrali; quelli più marginali. Sì, mi piace molto lavorare con i simboli nelle mie opere. Credo anche che il linguaggio del teatro è per sua natura molto simbolico. Per questo, anche in questa performance, ho scelto alcuni simboli importanti che in qualche modo collegano le diverse storie. Per esempio la gabbia dell’uccellino per Desdemona con il fazzoletto all’interno; le scarpe, fiori, ecc. per ogni scena ho cerca-to di trovare dei simboli che richiamassero il legame fra le tragedie. Come le tre streghe:

è interessante notare come i tre dottori del Re Lear in qualche modo, in qualche momento, si trasformano nelle tre streghe. Se leggiamo il Re Lear ci rendiamo conto che, in alcune scene, non sono affatto persone normali. Regan e Goneril sono veramen-te streghe; e Cordelia anche fra di loro. E’ stato interessante per me viaggiare fra queste storie e sono certo che questo viaggio ha fatto emergere molte idee che troveranno realizzazione in altri lavori prossimi, per andare più nel profondo di questo universo shakesperiano.L’idea dell’intreccio fra queste tragedie, in realtà, nasce dal la-voro che avevamo iniziato a fare sui Sonetti di Shakespeare. E poi, iniziamo questa performan-ce con gli attori che si prepara-no per lo spettacolo e alla fine escono da questo sogno che è il teatro. C’è dunque anche questa idea dell’essere attori: entrare e uscire da un personaggio e trasferirsi in un altro.Gli attori si preparano per lo spet-

tacolo all’inizio della performance e questa inizia con una dichiara-zione programmatica: “Tutto il mondo è un palcoscenico”. Come sappiamo questo è il pensiero di Shakespeare e forse lui stesso si trovava sul palcoscenico mentre scriveva le sue tragedie.Certamente. Due settimane fa, prima dello spettacolo, ero a Londra e sono stato al Glo-be Teathre dove puoi sentire l’atmosfera shakesperiana e lì si capisce anche come lo stesso personaggio Shakespeare sia molto affascinante, intrigante; geniale, in molti modi, e che si presta ad essere indagato senza fine.Forse tutta questa interazione fra i protagonisti delle quattro trage-die, porta all’unico protagonista, Shakesperare?In qualche modo sì, perché in-fine tutto si concentra nel perso-naggio “uomo”: chi è l’uomo? In questo caso la domanda è anche “chi è Shakespeare?”. All’inizio della performance, quando gli attori si truccano per lo spetta-

“Tutto il mondo è un palcosce-nico,E tutti gli uomini e le donne semplicemente attori.Hanno le loro uscite e le loro entrate,E un uomo nel suo tempo gioca molte parti,essendo i suoi atti le sue sette età”Inizia così, con le parole dell’immortale bardo di Stra-tford-upon-Avon in “Come vi piace”, la performance “SDD Shakespeare Dead Dreams”, an-data in scena in prima nazionale al Teatro Cantiere Florida il 29 aprile scorso, ideato e diretto da Vahan Badalyan, giovane regista armeno. L’opera è frutto di una collaborazione, ormai datata diversi anni, fra la fiorentina Versiliadanza e l’armeno Small Theatre/National Centre of Aesthetics e si colloca all’interno delle iniziative che meritoria-mente e in solitudine a Firenze, Versiliadanza ha organizzato in occasione del centenario del Genocidio del Popolo Armeno (1915-2015).L’intervista con Vahan Badalyan si muove fra questi due poli: la contemporanea creazione arti-stica e la memoria del genocidio armeno.“Shakesperare Dead Dreams” è una performance molto visio-naria: una grande ricostruzione dell’universo shakesperiano, costruita attraverso un rincorrersi di simboli e richiami alle opere di Shakespeare. Qual è l’idea fonda-mentale di questo lavoro?La performance si basa sulle sue quattro tragedie maggiori: Amleto, Otello, Macbeth e Re Lear. E’ ispirata da queste trage-die. La mia idea era di trovare i collegamenti fra i protagonisti. Trovare il punto in cui Amleto di trasforma in Macbeth; dove lady Macbeth si trasfonde in Ophelia; dove Ophelia, quando è presa dall’emozione per suo padre, si trasferisce in Re Lear. L’idea è di riflettere e mostrare questa transizione fra i perso-naggi e soprattutto scoprire chi sei tu, l’attore; chi sono loro; chi siamo noi. Abbiamo chiamato la performance “Dead Dreams” perché solo nei sogni è possibile questa trasformazione di un personaggio nell’altro. E, inoltre, l’idea di usare la

I sogni armeni di Shakespeare

di Simone [email protected]

Page 3: Cultura Commestibile 122

9maggio

2015pag. 3

Da nonsaltare

di costruire ponti fra armeni e turchi per risolvere questa situazione perché cento anni sono troppi per continuare una ostilità. Non so perché rifiutano di ammettere ciò che è accaduto un secolo fa. So che nelle scuole in Turchia non c’è consapevo-lezza di questa parte della storia, ma forse è da queste generazioni che si deve iniziare a lavorare; e forse qualcuno lo sta facendo. Questi bambini non hanno alcuna idea di ciò che i loro nonni o bisnonni hanno fatto. Il tempo non aiuta a risolvere la situazione e anche questo è per me molto strano. Ma, come armeno, spero che prima o poi i turchi riconosceranno ciò che è successo e che piano piano cambieranno la loro opinione sulla loro vita. I tedeschi oggi sono un buon esempio di come questi cambiamenti possono cambiare la vita dei paesi: loro hanno riconosciuto che tutti hanno fatto enormi sbagli nel passato, ma proprio questo rico-noscimento è la base per andare avanti.

Cosa fanno gli artisti, gli intel-lettuali che dovrebbero essere più consapevoli di questo problema e più interessati a costruire ponti invece che odio?Conosco molti intellettuali tur-chi – soprattutto scrittori – che parlano apertamente di questo tema. Alcuni di loro sono ve-nuti in occasione del centenario il 24 aprile in Armenia. Gli intellettuali armeni più aperti, hanno rapporti con loro, discu-tono di questo tema. L’Europa e altri paesi stanno tentando di sviluppare progetti intercultu-rali per iniziare questo dialogo. Ci sono molti giovani artisti armeni che vanno a lavorare in Istambul e turchi che vengono a Yerevan a lavorare insieme. Ci sono progetti di collaborazio-ne fra ballerini dei due paesi, realizzati con l’intermediazione dell’Ambasciata degli Stati Uni-ti. Ci sono molti eventi culturali che cercano di costruire questi ponti. Io stesso ho collegamenti con artisti turchi che non hanno una visione radicale di questo problema: parliamo e lavoriamo

insieme. L’importante è respin-gere ogni radicalismo.A parte la cultura, come sono le relazioni oggi fra Turchia e Arme-nia? Sappiamo che la Turchia ha sospeso o abbandonato il processo di avvicinamento e integrazione nell’Unione Europea e si rivol-ge piuttosto verso l’Asia: questo che effetti ha nelle relazioni con l’Armenia?Ufficialmente i nostri confini sono chiusi, ma molte perso-ne viaggiano per lavoro o per piacere fra i due paesi; quindi in qualche modo vi sono delle relazioni perché la vita spinge in questa direzione. Qual-che anno fa i due presidenti, dell’Armenia e della Turchia, tentarono un avvicinamento, ma non ha funzionato perché il Parlamento turco ha respinto questo progetto come poi ha fatto anche, lo scorso anno, il nostro Parlamento. E’ diventato anche un problema di psicolo-gia diplomatica.Cosa pensa della discussione avviatasi a seguito delle parole di Papa Francesco? Le sue parole aiutano il dialogo o lo congelano?Certamente aiutano, perché erano impostate in modo molto umano. Non credo che conge-lino la situazione più di quanto già non lo sia. Anzi, fa sì che molte altre persone parlino di questo problema. So che la rea-zione è stata molto controversa. Ma credo che siano passi e gesti molto importanti quelli di Papa Francesco. Sulla sua scia molte persone e molti paesi hanno preso il coraggio per parlare e assumere consapevolezza di questo problema. Ma come ar-meno penso che sia importante che il mondo inizi a conoscere gli armeni non solo per questo problema, ma che ci riconosca per la nostra cultura, la nostra storia, la nostra arte, la nostra architettura, la nostra musica e anche il nostro teatro. Spero che la nuova generazione di armeni tenterà di guardare al futuro con uno sguardo limpido senza doversi sempre portare questo pesante fardello sulle spalle. Io sono uno di loro e ho questa speranza.Chissà, forse sarà invitato prima o poi a portare il suo “Shakespeare Dead Dreams” in un teatro di Istambul: glielo auguriamo di cuore.

colo, si trovano come nel centro di un enorme teschio con naso e occhi costituiti dagli specchi e con una enorme mascella che, poi, diventa una grande corona che sovrasta sempre la scena. La domanda è: “cosa sta succeden-do nella testa degli uomini?”. E’ la frase di Shakespeare che mi assilla: “l’uomo è il re della natura”. Ci sono delle radici armene nel modo in cui lei ha interpretato queste tragedie shakesperiane?Ho messo in scena il Macbeth nel Teatro Nazionale dell’Ar-menia. L’Armenia ha più volte rappresentato nei suoi teatri Shakespeare; vi sono attori im-portanti che l’hanno interpreta-to, anche con una certa notorietà internazionale (penso a Vahram Papazian). Inoltre le traduzioni in lingua armena delle opere di Shakespeare sono fra le migliori del mondo perché la nostra lin-gua pare che afferri molto bene i dettagli della lingua di Shakespe-rare. Quindi, sì, vi sono tradizio-ni shakesperiane in Armenia.Parlando dell’Armenia in questo centenario della strage ad opera del governo turco, si è discusso molto circa l’uso di questa parola, “genocidio”. Penso che tutti possiamo concordare sul fatto che abbiamo un genocidio quando un intero gruppo umano viene distrutto in modo premeditato, per ragioni politiche e/o razziali. E questo è certamente il caso degli armeni, la cui popolazione fu scientificamente eliminata per 2/3 nel corso del 1915-1916. Ma vorrei discutere con lei dell’ap-proccio attuale della Turchia a questo problema: perché hanno così tanta difficoltà ad ammettere questo crimine a 100 anni di distanza? Se parliamo con un qualsiasi tedesco oggi, lui non avrà nessuna remora a riconoscere che il Nazismo compì un geno-cidio contro gli ebrei alla metà del Novecento. Perché i turchi oggi non riescono ad esprimere lo stesso giudizio di condanna per un governo turco, peraltro laico e ormai lontano un secolo?E’ una buona domanda: perché? Certamente ha a che fare con la politica oggi. Io so che vi sono molti turchi che parlano aperta-mente di questo problema, che riconoscono questa responsa-bilità e che vogliono aprire un dialogo con gli armeni; cercano

Intervista al registaVahan Badalyan

Page 4: Cultura Commestibile 122

9maggio

2015pag. 4

C’è maretta fra i giganti della politica fiorentina. La notizia della partecipazione del sinda-co Nardella come comparsa nel film “Inferno” di Ron Howard ha mandato su tutte le furie il Nostro Eugenio Giani. Voi penserete che causa dell’ar-rabbiatura di Eugenio derivi dalla minaccia del sindaco al primato del ridicolo detenu-to stabilmente dal Nostro. E invece no. Quello che Eugenio

non può proprio tollerare è che Nardella nel film di Ricky Cunningham farà la parte di una guida turistica, impegnata nella spiegazione delle bellezze del palazzo ai visitatori. Come ben sappiamo questa è una prerogativa di Eugenio, che

nei lunghi anni di servizio a Palazzo Vecchio aveva fatto di questa funzione turistica una ragione di vita. Ma lo sgarro sindacale non resterà impuni-to: Eugenio ha già fissato un siparietto in Sala d’Arme con Potsie.

riunione

difamiglia

Se la candidata si chiama Marta, si occupa da sempre di ricerca e innovazione, aggiun-gere una S davanti al nome e giocare su smart che in inglese significa intelligente, furbo, diventa semplice ed efficace. Ed è quello che ha fatto Marta Rapallini, candidata per il PD a queste regionali. Se la scelta comunicativa può piacere o meno, quello che un po’ fa riflet-tere è la tecnica con la quale la candidata ha deciso di veicolare il suo “messaggio”. Una tecnica di guerrilla marketing fatta di adesivi appiccicati a semafori, pali della luce, cartelli stradali. Insomma il messaggio smart del-la candidata è imbrattiamo la città. Mica tanto furbo secondo noi.

A Firenze, in politica, erano abi-tuati a tutto. A votare Vittorio Cecchi Gori come senatore della Repubblica. A vedere siedere in consiglio comunale i rappresen-tanti del partito delle biciclette e quelli del partito dei motorini. Ma due ammini-stratori che erano passati dalle stanze televisive di Mike Bongior-no non li avevano mai avuti. Ma con il Sindaco d’Italia tutto è possibile e allora ecco il Vincitore della Ruota della Fortuna e la campionessa del Rischiatutto siedere insieme nella Sala degli Otto di Guardia e di Balia, proprio confinante con il salone de’Dugento.Ora la campionessa del Rischia-tutto fa la candidata al consiglio regionale. Mike porta fortuna e poi la Titta è anche brava. Parola di Mike che ebbe a dire all’epoca: “Lei è proprio brava per essere una donna”. E se lo disse il presentatore più presen-tatore d’Italia non possiamo che credergli. Una brava donna la Titta.

le Sorelle marx lo Zio di TroTZky

i Cugini engelS

Il grande smaccoa nostro Eugenio Pari

opportunitàin politica

Smarta but dirty

BoBo

Page 5: Cultura Commestibile 122

9maggio

2015pag. 5

La crisi del segno

Fernando Aguiar

Fin dai tempi aulici e militan-ti delle neoavanguardie lo sperimentalismo è stato con-

siderato come un dato onnicom-prensivo in grado di risolvere la problematica culturale, in quanto luogo privilegiato in cui porre una maggiore attenzione ai temi ideologici e alla lettura della realtà sociale. L’avvento della cultura de-mocratica ha posto le basi per uno sperimentalismo ‘endoletterario’ ed ‘esoletterario’, affermando un nuovo canone e un nuovo atteg-giamento di recupero critico della storia e delle convezioni linguisti-che dei vari campi di espressione: in sostanza, una riflessione – spes-so in chiave parodica e/o analitica – sulle forme e sui codici ereditati dal passato, ma anche una verifica

Sonnet for Leonardo, 1997Collage su cartoncinocm. 70x50

Tutte courtesy Collezione Carlo Palli, Prato

di laura [email protected]

e una ricostruzione critica delle effettive funzioni del linguaggio artistico all’interno della civiltà, in quanto stile della cultura presente nella sua totalità. Proprio in questa dimensione di ricerca e innovazione sperimentale s’inserisce l’opera di Fernando Aguiar, tesa a rivalutare la capacità della scrittura poetica, grazie alla capacità dell’artista di far poesia e operare artisticamente con l’ausilio di più mezzi espressivi, da quelli canonici a quelli più marcatamen-te tecnologici e multimediali. In tal senso il gesto artistico genera stupore e meraviglia, non solo perché si muove oltre i confini della tradizione estetica, ma anche

perché nelle opere di Fernan-do Aguiar si nota l’attenzione particolare al fonema inteso come un’unità indissolubile di segno e significante, come persuasione e necessità di un ritorno alla pura ‘innocenza’ della comunicazione. Con la tendenza a porre l’accento sui vari livelli della lingua poeti-ca, dal fonema alla sintassi e alla metrica, si afferma quella specifica espressività data dall’artista alla sua opera, la quale costituisce una particolare forma di significazione, esigendo che l’interpretazione deb-ba partire dalla struttura dell’opera prima che dal contenuto ogget-tuale. Si tratta certamente di una realizzazione estetica fra visualità

e fonematicità, infatti i poemi vi-suali dell’artista possono essere letti e quindi recepiti dal lettore anche in un ottica sonora, suggerendo una dimensione teatrale della poesia. Quello di Fernando Aguiar è un linguaggio che si complica in qualità di nozione del reale che sottolinea la crisi della rappresen-tazione e la parola, per sottrazione di senso, diviene autoreferenziale, matericità e parola-oggetto. Nella stagione dell’espansione della comunicazione, segno linguistico e segno visivo si contaminavano in operazioni osmotiche di eversione letteraria e artistica, dando luogo a un modo di fare arte e di far poesia totalmente nuovo e inedito.

Page 6: Cultura Commestibile 122

9maggio

2015pag. 6

Percorso affascinante, lungo ma non impegnativo, quello della terza tappa

– Certosa, Colleramole, Grotta di San Zanobi, Pian dei Cerri (Scandicci), Lastra a Signa - che la sezione toscana di Trekkin-gItalia ha organizzato la terza domenica del mese di aprile. La partenza dai Bottai, località servita regolarmente dalla linea 37, in partenza dalla Stazione. La tappa è di circa 23 km, 8 ore di cammino comprese le soste; tenue il dislivello in salita, di circa 200 m. Per il ritorno da Lastra a Signa si può contare sul treno della linea Pisa-Firenze, che passa ogni ora, la domenica, dalla stazione. Alla partenza dal fondovalle dei Bottai, superato il fiume Greve, si sale rapidamente e si guada-gnano i paesaggi collinari. Il percorso s’immerge nei boschi di pino tipici della collina fioren-tina che guarda il Chianti e si snoda tra i boschi della Roveta, intervallati dagli uliveti della campagna che guarda l’Arno e le Signe. Passiamo vicino alla Certosa del Galluzzo cinta da alte mura che le danno l’aspetto d’inaccessibile fortezza. La vista dall’alto sulla Certosa, per la strada che sale, è veramente insolita. Raggiun-to il bivio con la frazione di Colleramole scendiamo alla via Volterrana che segue il tracciato dell’antica strada etrusca. Davan-ti a noi, sul culmine di un colle svetta la villa La Sfacciata, visibi-le da ogni angolo del paesaggio collinare. Passiamo accanto alla villa i Collazzi, un maestoso edificio situato su una terrazza rettangolare sulla sommità di un colle, il cui progetto è attribuito a Michelangelo Buonarroti. Poco dopo prendiamo una strada bianca a destra, con tratti di selciato antico, forse di origine romana, che si mantengono a mezza costa, con il bosco a monte, uliveti in basso e, lonta-no, il centro di Firenze raccolto intorno alla Cupola del Brunel-leschi. Sono incredibili i lunghi tratti di bosco che attraversiamo in questa tappa dell’Anello, cosa forse non molto conosciuta dai fiorentini.Raggiungiamo, nel mezzo di un’alta vegetazione, la suggestiva

Dalla Certosaa casa di Campana

di roBerTo [email protected] Grotta di San Zanobi, vescovo

di Firenze nel IV secolo, che si ritirò in questi boschi a vita ere-mitica. Il luogo è raggiunto ogni anno da una processione per il giorno di San Zanobi, patrono di Scandicci.Si sale al valico della Catena e si entra nel parco di Poggio di Valicaia, realizzato di recente dal Comune di Scandicci, arricchi-to con interventi sorprendenti d’arte contemporanea. Non c’è altro che da complimentarsi con il Comune di Scandicci per lo sviluppo di questo progetto di arte ambientale. Giungiamo a Pian dei Cerri. Prendiamo a sinistra una strada bianca, poi un piccolo sentiero, che ci porta all’albergo di Roveta e poi nelle vicinanze dell’antico stabilimento, oggi abbandonato, per l’imbottigliamento dell’ac-qua minerale. Si passa da boschi con fitta vegetazione a zone coltivate a viti e ulivi. Si supera la superstrada Firenze–Livorno e si raggiunge il piccolo borgo di Naiale. Dalla via sterrata di Pog-gio Vittorio si entra nel bosco per uscire lungo una strada in discesa fra orti e uliveti che porta all’abitato di Lastra a Signa. Giungiamo nel centro storico, al Portone di Baccio, una delle porte della cinta muraria, in gran parte ancora intatta. Vi sono edifici storici interessanti, fra questi l’ospedale di Sant’Anto-nio, costruito dall’Arte della Seta di Firenze nel 1441, opera giova-nile del Brunelleschi. Finalmente troviamo un bar, una gelateria. Ne sentivamo la mancanza … Su una casa scopriamo la lapide che ricorda la casa dove abitò Dino Campana nel 1916 con la famiglia. Poco dopo ci sarebbe stato il suo trasferimento – e la morte – presso il vicino ospedale di Castelpulci: “Il tempo miserabile consumi / Me, la mia gioia e tutta la speranza./ Venga la morte pallida e mi dica / Pàrtiti figlio”. (Dino Campana)A circa 500 metri dal Centro vi è la Stazione, dove ferma il treno per Firenze. La prossima tappa sull’Anello del Rinascimento, sarà domenica 24 maggio, da Signa al Castello di Calenzano, lungo gli argini del Bisenzio. Nello zaino il libro “Magma” (Presso il Bisenzio) di Mario Luzi.

Scavezzacollo

di maSSimo [email protected]

Page 7: Cultura Commestibile 122

9maggio

2015pag. 7

a riprova, se mai ce ne fosse bisogno, di quel fecondo rapporto instauratosi fino

dagli metà dell’Ottocento fra pittori e fotografi, rapporto che Baudelaire avrebbe voluto di puro vassallaggio (fotografia ancella delle arti), ma che si è invece svi-luppato in maniera estremamente varia ed imprevista, caratterizzan-do fortemente il periodo impres-sionista e post impressionista, e condizionando in seguito tutta l’arte moderna, fino agli usi ed abusi dell’arte contemporanea, sarebbe sufficiente ricordare la figura di Anton Josef Trcka (1893-1940).Nato a Vienna da una famiglia proveniente dalla Moravia, Trcka studia alla scuola professionale di fotografia di Vienna in cui insegna Karel Novak, e si avvicina al movi-mento del modernismo viennese, dove ha modo di conoscere e di ritrarre molti dei suoi principali animatori, da Gustav Klimt (con o senza il gatto) fino al poeta Josef Machar. Dotato di una personalità poliedrica, oltre che alla fotografia, Trcka si dedica alla pittura, al di-segno, alla scultura, alla creazione di arazzi e gioielli, alla poesia, ed infine alla filosofia. Determinante per il giovane fotografo è l’incon-tro con il quasi coetaneo Egon Schiele (1890-1918).Inutile ricordare come Egon Schiele fosse ossessionato, e forse sedotto, dalla propria immagine, tanto da produrre nell’arco di meno di dodici anni un centi-naio di autoritratti, fra quadri e disegni, senza contare quelli giovanili eseguiti in precedenza. Tanta attenzione verso il proprio io, il proprio volto ed il pro-prio corpo, richiedeva al pittore qualcosa in più dello specchio, e perfino qualcosa in più rispetto alle fotografie tradizionali scattate in occasioni diverse da amici o conoscenti. L’incontro fra Schiele e Trcka è qualcosa in più rispetto ad una amicizia o una collabora-zione, è un connubio artistico in cui il pittore posa da modello in atteggiamenti che lui stesso studia e propone, in vista dell’utilizzo pittorico delle immagini, e che il fotografo esegue, non senza assu-mersi l’onere dello studio dell’in-quadratura e dell’illuminazione, e con la coscienza di realizzare egli stesso un’opera. Tanto profonda

di danilo [email protected] è l’intesa fra i due, che Trcka sigla

le proprie lastre incidendovi una firma che presenta molte analogie con la firma che Schiele appone nello stesso periodo sulle sue tele e sui suoi disegni. In ambedue i casi un rettangolo include il nome in caratteri maiuscoli e l’anno, ma mentre Schiele si firma per intero, il nome sopra ed il cognome sotto, con l’anno ancora più in basso, Trcka utilizza uno pseu-donimo, ANT-IOS o ANT-JOS, derivato dalle prime tre lettere del proprio nome Anton Josef, completandolo in basso con l’in-dicazione dell’anno di esecuzione, rendendo agevole agli storici la ricostruzione di un percorso artistico comune, per quanto for-zatamente breve. Lo stesso Schiele interviene sulle stampe di Trcka, con matite o acquarello, arrivando ad aggiungere la sua firma a quella del fotografo.Se l’espressione del volto, l’illumi-nazione prevalentemente laterale, e lo sguardo intenso delle immagi-ni fotografiche sono importanti, e si ritrovano quasi invariati in mol-te delle tele di Schiele, altrettanta importanza riveste la posizione delle mani, poste spesso in primo piano, e con le dita allargate a for-mare una V, come in molte delle opere pittoriche di Schiele.La Grande Guerra divide i due amici, e dopo la morte di Schiele lo stesso Trcka dipinge un quadro in cui raffigura l’abbandono dell’amico, mentre un ritratto di Trcka eseguito da Schiele sembra essere andato perduto. Negli anni Venti Trcka lascia Vienna per Pra-ga, dove spera invano di insegnare insieme a Karel Novak. Segue un periodo movimentato in cui si avvicina alla filosofia antroposofi-ca di Rudolf Steiner, influenzato dal filosofo Jakub Deml e dalla poetessa Anna Pammrova, ed espone le proprie opere a Praga, Vienna e Brno. Alla fine degli anni Venti Trcka apre un proprio studio fotografico, incontrando fi-nalmente il successo, e negli anni Trenta torna a Vienna con un nuovo studio in Alserstrasse, che diventa ben presto un punto di ritrovo per artisti, poeti, fotografi e filosofi. Dopo l’Anschluss, mal sopportando il dominio tedesco, ha delle noie con le SS. Muore accidentalmente nel 1940 in un banale incidente domestico, e la sua opera, caduta nell’oblio, viene riscoperta solo recentemente.

Anton Josef (Antios) Trcka

Il fotografo di Egon Schiele

Page 8: Cultura Commestibile 122

9maggio

2015pag. 8

prossimità dell’ingresso principale della sala. L’aula, con un soffitto a capriate che riprende l’originaria copertura, dispone di 248 posti a

sedere e serve come aula poliva-lente per le discipline universitarie che ancora hanno sede nel centro storico.L’intervento di restauro, redatto nel 2009, è stato curato da An-drea Vignoli e Enzo Giusti e da Spira srl, una società di progetta-zione per il restauro, su commis-sione dell’Università di Firenze che ebbe la disponibilità del bene nel 2005. L’accordo con il comu-ne di Firenze prevedeva infatti che l’edificio fosse restaurato a

cura e spese dell’Università stessa con le finalità indicate dall’atto di comodato. I progettisti hanno sostanzial-mente realizzato un intervento di semplice restauro dove l’unico elemento di innovazione, invisi-bile dall’esterno, è l’inserimento del vano scale che è ricavato nello spazio interstiziale fra l’edificio che prospetta sulla via e la facciata interna della ex chiesa. Una scala in vetro e ferro che ben si inseri-sce nel complesso edilizio.

La ex chiesa non si vede dalla strada. Ma dietro la cortina di edifici che si fronteggiano

lungo la via Santa Reparata è na-scosta l’ex chiesa dei Battilani. La chiesa era uno degli edifici che fu-rono realizzati in quest’area dalla Compagnia di Santa Maria dei Battilani, insieme ad un ospedale e alcune abitazioni. I battilani erano chiamati anche “ciompi” ed eseguivano le operazioni iniziali di battittura e cardatura della lana prima degli altri processi di lavorazione. I ciompi , famosi per la rivolta del 24 giugno del 1378 capitanata da Michele di Lando, erano i salariati ad uno dei gradini più bassi della scala sociale della Firenze del XIV secolo, e per molti anni avevano avuto questa chiesa come punto di ritrovo. L’ingresso principale del comples-so si trova in via delle Ruote dove sul timpano della porta si trovano ancora i simboli di questa arte minore: il pettine e il graticcio.Ora davanti all’ingresso del numero civico 27 r di via Santa Reparata si ritrovano gli studen-ti dell’università di Firenze: la chiesa è stata trasformata nell’aula Battilani. La storia inizia nel 2002 quando fu siglato un Protocol-lo di Intesa fra il Comune di Firenze e l’Università di Firenze per la concessione, da parte del Comune, di un comodato gra-tuito su alcuni beni di proprietà comunale non utilizzati. Fra questi vi era il complesso dell’ex chiesa dei Battilani e gli edifici prospicenti la via Santa Reparata. Lo scopo dichiarato dall’Uni-versità era di collocare in quella sede la presidenza della Facoltà di Architettura e l’aula magna della stessa Facoltà. Le cose sono poi andate diversamente, poichè Architettura ha trovato posto nei complessi degli ex carceri dismessi di Santa Verdiana e Santa Teresa nel quartiere di Santa Croce, e ora il complesso edilizio ospita i sindacati interni dell’Università e una grande aula ricavata dalla ex chiesa.Un’aula che ha mantenuto l’im-pianto a navata unica della chiesa, della quale sono visibili anche i pochi residui affreschi nelle pareti laterali, e che si presenta con un allestimento quasi teatrale con una platea e una piccola galleria e con il “palcoscenico” posto in

di John STammer L’ex chiesa nascosta

Page 9: Cultura Commestibile 122

9maggio

2015pag. 9

nate qualità; non basta essere in-trospettivi, occorre anche avere un buona dose di incoscienza, di disprezzo per l’agiografia, come nel Michel Leiris de “L’A-ge d’homme”. Avremmo gradito in “Mia Madre” almeno il bar-lume della furia terribile e cinica dei pensionati de “L’amour” di Haneke. Diciamolo, un film consolatorio che poco aggiunge alla pregevole filmografia del regista romano.

Il migliore dei Lidipossibili

Ultimo tentativo di riparazione

di un cervello prima della rottamazione

Disegnodi Lido Contemori

Didascalia di Aldo Frangioni

di lido [email protected]

“Mia Madre” di Nanni Mo-retti è un film molesto. Poco importa sia o meno sincero.

La madre di Moretti non è un personaggio universale (lo era nella sua incestuosa oscenità la Grande Madre di Bataille), è semmai un soggetto neutro, che commuove in funzione del contorno familiare che la rende “leggibile”, “connotabile”. E’ una storia privata che “tiene fuori lo spettatore”, relegandolo al capzioso e pervertito ruolo dell’Altro, nella tipica e imba-razzante locazione dell’intruso che origlia sulle disgrazie altrui.Insomma, siamo, nostro mal-grado, invitati “in casa d’altri” ad assistere al declino di una nobile donna, vissuto attraverso la vicenda umana dei suoi due figli. Si ha come la sensazione che la Buy, ad es., possa essere soggetto relativo di finzione scenica, talmente “verista” è l’aderenza con il nostro Im-maginario che si finisce con il pensarla fuori dalle scene così-com’è: ovvero una sorella reale di Moretti. Ebbene questa adiacenza non è più sostenibile in tempi di cervello all’ammas-so, e da Moretti ci aspettiamo almeno un’allegoria sotto la crosta. Per le ragioni opposte, Sorrentino rappresenta - che si mettano il cuore in pace in mol-ti - l’unica frontiera visionaria del nostro cinema. La Roma di Moretti è la Roma dei tg. Una città stanca, borghese, molesta, la cornice triste di un uomo ma-linconico, privo di ardore, che celebra la dipartita della madre nel calvario della realtà domici-liare ed ospedaliera.Il film fa leva su un pietismo che raramente riesce a sublimar-si dalla pastoie della commise-razione (tranne che nella scena finale, quella dei libri sulla tavola a celebrare la nobiltà della memoria), insistendo sulla mo-dulazione costante di un unico refrain: il silenzio della relazio-ne. Da questa nebulosa, dalle tonalità basse, opprimenti, non se ne esce con qualche sprazzo di Turturro. Non stiamo qui necessariamente evocando un cinema catartico o sensaziona-listico. Stiamo dicendo che per realizzare un film “domestico”, privato, occorre avere determi-

La Madredi Morettitiene fuorilo spettatore

di FranCeSCo [email protected]

Page 10: Cultura Commestibile 122

9maggio

2015pag. 10

Alla fine della guerra, quando la villeggiatura era per gran parte dei fiorentini un irraggiungibile miraggio, molti sostenevano di essere in partenza per “i’mma-re”; ma la risposta era invaria-bilmente la stessa: “Sì, tu’vvai a i’mmare porveroso”, intendendo con questa efficace espressione le sponde e le pescaie dell’Ar-no dove la gente trascorreva le vacanze prendendo il sole e tuffandosi in cerca di refrigerio.Bisogna dire che quella dei bagni d’Arno era una tradizione che risaliva almeno ai tempi lorenesi. Allora chi poteva permetterselo poteva scegliere fra le terme di Porretta e i bagni di mare a Livorno (opzione quest’ultima che consentiva an-che, grazie al portofranco, uno shopping a prezzi contenuti); tutti gli altri il bagno andava-no a farlo in Arno, che offriva un’ampia gamma di possibilità, adatte a tutte le tasche.Lo stabilimento balneare più popolare e più frequentato era quello della Vagaloggia al quale si accedeva dall’attuale Lungar-no Vespucci, all’altezza di Villa Favard: una crazia dava diritto all’uso dello spogliatoio e a un asciugamano di lino. Il bagno era diviso da una cancellata me-

tallica che separava gli uomini dalle donne, ma naturalmente i nuotatori più abili, passando sotto la cancellata, erano in gra-do di invadere la zona off limits.Risalendo l’Arno in riva sinistra si incontravano in prossimità del Ponte alle Grazie i due stabilimenti di proprietà di Giovan Battista Bianchi, detto “il Rosso” che dalla sua casetta sul Ponte sorvegliava i bagnanti della “Buca dei Cento” e del “Fischiaio”: bagni popolari dove si spendeva un quattrino per entrare e un soldo per l’asciu-gamano. Ma, scrive Giuseppe Conti in “Firenze Vecchia”, “Molti spendevano quel quattri-no soltanto per divertirsi a stare sul greto a sentir le questioni che tutti i giorni nascevano fra le ciane di San Niccolò”.Poco più a monte c’era il bagno delle Mulina dei Renai, frequen-tato da clientela più abbiente, grazie alla straordinaria novità introdotta dal proprietario, tale Pons: il bagno disponeva di cabine singole all’interno delle

quali si trovava una tinozza pie-na di acqua d’Arno riscaldata, che si riteneva avesse poprietà terapeutiche.In riva destra c’erano i bagni dei Cavalleggeri, alla Biblioteca Nazionale, e quelli dei Mat-ton Rossi a Piazza Piave. Alle Mulina della Piagentina c’era un altro stabilimento balneare con annessa un’osteria specializzata nella frittura di pesci d’Arno: il proprietario era noto come il “Dottore” perché, pare, curava clandestinamente alcune poco

piacevoli malattie.Sotto la Casaccia di Varlun-go, che prendeva il nome da un’antica villa quattrocentesca semidistrutta dalle piene del fiume, l’Arno creava gorghi e mulinelli ed era il punto preferi-to dai nuotatori più spericolati, fra i quali tale “Mondo”, che andava famoso per aver salvato decine di persone sul punto di affogare. Dato però che per ogni salvataggio il premio era di dieci scudi, sembra che di “affogandi” veri ce ne fossero ben pochi.

Eppure ne esistono diversi: uno di loro è Connor Chee, pianista navajo, autore del recente CD The Navajo Piano (autoprodot-to, 2014).Il legame fra le due culture viene apertamente evocato sul sito dell’artista, che si autodefinisce “Navajo classical pianist”. Nato a Page (Arizona) nel 1987, Chee ha cominciato a studiare

il piano all’età di sei anni. Nel 1999 ha vinto la meda-glia d’oro alla World Piano Competition di Cincinnati, grazie alla quale ha potuto suonare alla prestigiosa Carnegie Hall di New York. Dopo aver conseguito il diploma alla Eastman School of Music si è perfezionato al Conservatorio di Cincinnati sotto la guida di Elizabeth Pridonoff. The Navajo Piano è il secondo

CD del pianista, che nel 2013 aveva già realizzato un disco dal vivo con brani di Bach, Beetho-ven, Chopin, Debussy, Haydn e Schubert. Preciso e attento ai dettagli, manifesta nel nuovo di-sco la stessa perizia, ma stavolta si presenta anche come autore. Il CD ospita quindici compo-sizioni divise in due gruppi. I “Twelve Navajo Vocables for

Esiste un legame consolidato, anche se poco noto, fra la ricerca musicale “colta” e le culture indigene nordamericane. Lo attestano autori come Frederick Delius (“Hiawatha”, 1888), Ferruccio Busoni (“Diario indiano”, 1912), Gloria Coates (“Indian Sounds”, 1991) e Curt Cacioppo (“Laws of the Pipe”, 2012), tanto per per fare qual-che esempio.Senza dimenticare i cosiddetti “indianisti” (Farwell, Mac-Dowell, Skilton, etc.) attivi fra la fine dell’Ottocento e la metà del secolo successivo.Questo legame è stato esplora-to dal pianista svizzero Dario Müller in Voci e tamburi lontani. La musica ispirata agli indiani d’America (Zecchini, 2007).Molto meno consueto, invece, è vedere un musicista indiano che coltivi un serio interesse per la tradizione classica europea.

Piano” traggono ispirazione da canti tradizionali, mentre i “Three Navajo Preludes” si basano sulle melodie di alcune danze. Nel complesso si tratta di un lavoro molto gradevole, con vaghe reminiscenze di Satie che affiorano ogni tanto.Chee è un musicista che merita di essere seguito con attenzione. Non solo, ma ci invita a accan-tonare lo stereotipo secondo il quale gli indigeni del Nordame-rica suonebbero soltanto musica a base di percussioni o canzoni rock. Il giovane pianista non è il solo indiano ad aver scelto una strada diversa. Basti pensare alla violoncellista mohawk Dawn Avery, che ha studiato con John Cage, o al navajo Raven Cha-con, allievo di Morton Subot-nick. Si tratta di un panorama stimolante che riserverà molte sorprese a chi vorrà esplorarlo.

di FaBriZio [email protected] Lungarno Vespucci

Fiorentiniai bagni

Un pianista nella prateriadi aleSSandro [email protected]

Page 11: Cultura Commestibile 122

9maggio

2015pag. 11

panoramica che propone alcu-ni nodi fondamentali del fare scultura oggi. E se non mancano i riferimenti, anche diretti, alle ope-re in mostra su, al primo piano, per Poter e Pathos (un esempio per tutti, le singolari riproduzioni tridimensionali e fotografiche che ne fa l’austriaco Oliver Laric), particolarmente interessanti sono, riguardo proprio a questo rapporto, le recenti dichiarazioni del nuovo direttore generale della fondazione Palazzo Strozzi, Arturo Galansino. Che ha segnalato l’opportunità di superare (final-mente) la divisione - che dura dal 2007 - tra grandi mostre storiche al piano nobile e arte contempo-ranea invece nel sottosuolo. Una distinzione schematica e ridicola, senza senso da un punto di vista culturale, poiché ha condannato per sette anni la contemporaneità a un ruolo marginale o di appen-dice, senza comprenderne il ruolo né l’importanza assolutamente vi-tale. Ma anche senza senso da un punto di vista gestionale poiché proprio la contemporaneità – se correttamente interpretata - può rivelarsi evento catalizzante, al pari e anche più di ogni aspettativa. E poi, che proprio la Fondazione Palazzo Strozzi discriminasse la contemporaneità, in una città dove l’altro punto di forza (anche questo in un sotterraneo, una cripta al caso) è ormai solo Il Museo Marini, appariva franca-mente delittuoso. Il Marini, dove adesso è in corso la bella mostra di un altro giovane scultore, lo statunitense Gavin Kenyon, per il quale il curatore, Alberto Salvadori, richiama l’idea di in-forme di Bataille, ha fatto invece della contemporaneità il proprio punto di forza: e le collaborazio-ni, come in questo caso, con il Pecci di Prato e la galleria Zero di Milano, indicano quella necessità di “fare sistema” che dovrebbe essere un imperativo per tutte le nostre strutture culturali, spesso vivaci ma troppo poco perce-pibili. Un imperativo perché il rischio, fuori da ogni sistema è quello di Palazzo Medici Riccardi (e siamo in fondo al baratro), ridotto ahimè, troppo spesso, a imbarazzante dopolavoro di artisti dilettanti. Un dopolavoro dove annega anche quel poco che si dovrebbe invece salvare, gestito con uno zelo degno senz’altro di cause migliori.

Diciamo che questa delle sculture che muoiono non è probabilmente la mostra

che ricorderemo di più: rispetto ai temi di grande impatto affron-tati nella precedente gestione di Franziska Nori – emozionalità e ragione, famiglia, arte e denaro, territori instabili e altro ancora - l’argomento scultura & tempo non è di presa immediata. Eppure non si può che essere felici per questa riapertura del CCCS la Strozzina dopo sei mesi di chiu-sura (i timori che anche questo spazio dell’arte contemporanea chiudesse come EX3, serpeggia-vano infatti assai forti). Dallo scorso 17 aprile invece queste sale sotterranee di Palazzo Strozzi si sono riaperte. Senza un direttore specifico ma con curatori ingag-giati di volta in volta, come è per questa rassegna affidata a Lorenzo Benedetti direttore del Centro de Appel di Amsterdam. L’idea di partenza è quella di un celebre stu-dioso statunitense (erede però del formalismo francese di Focillon), George Kubler autore negli anni ‘70 di un celebre saggio, La forma del tempo, dove prospettava una storia dell’arte come “storia delle cose”che fissano il tempo: una sto-ria di “prestiti” tra arti e cose e di “sequenze” formali in rapporto ai problemi del momento, pratici o ideali che siano. Ecco, sulla scorta di questa idea e applicandola alla scultura, che tra le arti è quella che ha mantenuto con l’idea di tempo il legame più forte memento/ monumento), Benedetti riunisce tredici giovani autori tra Europa e USA (F. Arena, N. Beier, K. Bock, G. Andreotta Calò, D. D’Aronco, N. Dash, M. Dean, O. Laric, M. Manders, M. E. Smith, F. Sanchez Castillo, F. Tropa e O. Tuazon), e indaga questa idea di morte e resurrezione della scultura. Le ma-terie di questa scultura sono tante, alle volte nuove (video, foto), ma anche tradizionali (bronzo, pietra, ceramica), alle volte inedite (gior-nali o zucchero), altre volte frutto di reinterpretazioni (i bronzi ottocenteschi della Galleria d’Arte Moderna di Pitti che Nina Beier riallestisce fra tappeti persiani e banconote). E forse il taglio è un po’ riepilogativo per fare il punto di una situazione o fissarsi nella memoria del visitatore; si tratta in ogni caso di una stimolante

Anchele sculturemuoiono

di gianni [email protected]

CCCS - Oliver Laric

Museo M.Marini Gavin Kenyon

Page 12: Cultura Commestibile 122

9maggio

2015pag. 12

tematica si presta felicemente ad una definizione figurativa e artistica dal momento che pos-sono essere elaborate tutte le fasi dell’esistenza umana, segnata da innumerevoli difficoltà psicologi-che e sociali. Le rappresentazioni iconografiche della Porta del Battistero, che si rifanno ai temi del Nuovo Testa-mento, la natività, il battesimo di Cristo, la flagellazione, la crocifis-sione, la resurrezione, etc., sono argomenti che possono essere riportati metaforicamente anche alle problematiche contempora-nee avendo come soggetto l’uomo nella sua complessità, con tutti i suoi limiti, le sue fragilità, ma anche la sua capacità di rinascita e rinnovamento.

Gli studenti seguiti dai loro rispetti docenti di competenza, Frans Van bladel per gli studenti della Richmond University e i professori Loparco e Spina per gli studenti del Liceo Artistico di Porta Romana, hanno seguito un percorso insieme dove hanno lavorato al soggetto prescelto.Ad ogni studente è stata asse-gnata una formella con le stesse caratteristiche e dimensioni dell’o-riginale, che ciascuno ha decorato usando il medium preferito per raffigurare un momento signifi-cativo della vita. Infine tutte le formelle sono state montate sul portale in una grande istallazione che riproduce la porta Nord del Battistero del Ghiberti con le sue 28 formelle e nella sua monu-mentale grandezza che è stata presentata il con grande successo nella galleria d’arte della Rich-mond University, in via Maggio 11 a Firenze, in occasione della mostra finale e la conclusione dei corsi artistici per gli studenti ame-ricani. Durante l’evento sono stati premiati i migliori lavori degli studenti delle entrambe le scuole, selezionati da un’apposita giuria.

Nelle scorse settimane è uscito nelle sale cinemato-grafiche “Suite francese”,

tratto dall’omonimo romanzo di Irene Nemirovsky. L’esigenza che il cinema ha, un po’ naturalmen-te, di rimettere a proprio agio gli sviluppi di una narrazione per rendere una storia ‘edibile’ dal pubblico, mi aveva dissuaso dall’andarlo a vedere - interessato com’ero, anzitutto, a leggere le pagine della scrittrice ucraina, il cui libro mi ero procurato con inconsapevole tempismo. Dopo averlo letto non mi sono pentito della scelta fatta e non sono co-munque andato a vedere il film. Magari sarà (stato) tutt’altro che un pessimo film senonché, dopo aver letto il romanzo, anche la presentazione cinematografica del “racconto dell’amore bru-ciante di un uomo e una donna travolti dalla Storia” suonava un po’ troppo ammiccante - oltre ad essere tipicamente infedele. Intanto, “Suite francese” è il titolo di un libro ma in realtà è come se ne contenesse due: il primo è “Temporale (o tempe-sta) di giugno” e i suoi personag-gi sono uomini e donne di varia estrazione e fortuna ‘còlti’ e ‘se-guìti’ mentre fuggono da Parigi, che in quei giorni del 1940 sta per cadere in mano ai tedeschi. La narrazione restituisce assai presto il senso dello sbando in cui è ridotta la Francia, dove molti cittadini sono repentina-mente trasformatii in profughi all’interno del loro stesso Paese. Il legame, non immediato, tra il primo e il secondo libro (intito-lato “Dolce”) è costituito da al-cuni di quei personaggi parigini che hanno trovato momentaneo rifugio in un villaggio di provin-cia. Dove vive Lucile Angellier e dove, in un delicato crescendo, prende forma la vicenda intima e tutt’altro che ‘spettacolare’ che lega questa giovane donna al raf-finato Bruno von Falk, ufficiale dell’esercito di occupazione. Il primo libro è di movimen-to, letteralmente centrifugo, al contrario la scena del secondo è per lo più ferma, situaziona-le. Ma in entrambi si esprime invariabilmente, con uno stile elegante e leggero, lo sguardo sensibile - talora acuto e pene-trante - della scrittrice. E quando si ha a disposizione una scrittura

di tal livello forse il ‘cinema’ è già lì e quella cosa che tiene incol-lati alla storia (a me è successo, debbo dire, soprattutto leggen-do il secondo libro) è su carta, non abbisogna di essere cercata altrove. Le sequenze, i paesaggi, gli interni che si costruiscono nella mente vanno a comporre una sorta di pellicola invisibile e potrei supporre che, al crescere dell’efficacia del testo scritto, do-vesse correlativamente diminuire la capacità della pellicola vera e propria di sovrapporvi felice-mente le proprie immagini.Il libro reca in appendice il vantaggio aggiuntivo di una suc-cinta biografia della scrittrice e ricostruisce, tra l’altro, le vicende del miracoloso salvataggio del quaderno-manoscritto dell’opera da parte delle figlie Denise ed Elizabeth, ancora bambine e in fuga dai gendarmi francesi

dopo che, entrambi di origine ebraiche, i genitori - la madre prima, il padre poi -, erano stati arrestati, tradotti e internati ad Auschwitz. A otto giorni (e probabilmente a pochi metri) di distanza da Santa Teresa Benedetta della Croce - al secolo Edith Stein - il 17 agosto 1942 anche Irene Nemirovsky avrebbe incontrato la morte: aveva 39 anni. Ad un tratto mi impressiona tenere tra le mani il suo romanzo, frutto di intelligenza di vita, perché rifletto con insorgente commo-zione sul fatto che quella sua, di vita, fu così drasticamente interrotta, inghiottita, come da un mostro. E’ il consueto avvicendarsi, nel mondo, di bellezza e di orrore, che non sapremo mai autentica-mente decifrare, né comprende-re, né tantomeno giustificare.

Suitefrancese

di Paolo [email protected]

Un progetto artistico ha unito gli studenti della Richmond Uni-versity e Liceo Artistico di Porta Romana che hanno reinterpre-tato la porta Nord del Battistero di Firenze.L’eccellenza di due realtà artistiche nella formazione giovanile presenti a Firenze, la Richmond University e il Liceo Artistico di Porta Romana, grazie ad un progetto concepito da Monica Giovannini, direttrice della sede di Firenze dell’universi-tà americana, hanno unito le loro competenze artistiche confron-tandosi e realizzando un lavoro comune relativo a un soggetto artistico fiorentino, in un proficuo scambio di idee e prospettive e approfondendo le loro conoscen-ze culturali e linguistiche.La porta Nord del Battistero di Firenze, mirabile opera di Loren-zo Ghiberti, è stata la scelta che gli studenti hanno deciso di rein-terpretare per affrontare insieme questo progetto. La porta è stata pensata come simbolo di passaggio in ogni suo significato, come elemento di separazione tra la vita e la morte, come un’apertura ad un nuovo mondo sia esso fantastico o reale, come chiusura e rifiuto della violenza o come un continuo varcare soglie, passando da una fase all’altra. Come oggetto di studio di tale

Ripensandola Portadel Battistero

di CeCilia [email protected]

Page 13: Cultura Commestibile 122

9maggio

2015pag. 13

Cocci di vetro, pezzi di pla-stica, frammenti di cose e materiali eterogenei. Il solo

pensare a questi oggetti sembra non evocare alcunché, se non il mutismo e l’inerzia delle cose inanimate, di tutto quello che, a prima vista, ci appare come privo di vita, destinato a sedimentarsi negli spazi reconditi dell’ambien-te: un continua stratificarsi, al pari delle ere geologiche, ognuna delle quali è pronta a restituire una storia. Può, allora, la materia farsi nar-rante? È questo l’interrogativo che l’ecologia letteraria continua a porsi da un po’ di tempo a que-sta parte, sino a sfociare recen-temente in una nuova corrente teorica: il “Material Ecocritici-sm”, o ecocritica della materia, basato sulla concezione che le cose – viventi e non, animate e inanimate – vadano a istituire un insieme di tasselli entro un siste-ma più vasto di forze agenti, tali da essere lette e interpretate quali forme narranti. “Storied matter” o, volendo prendere in prestito un termine dalla miniaturistica medievale, materia ‘istoriata’, non più relegata a uno stato passivo e perciò attivabile solo per tramite di un agente esterno; ma dinamismo generativo, dove

a cadere una visione di una realtà divisa e parcellizzata, imputabile al dualismo cartesiano tra “res cogitans” e “res extensa”. In altri termini, il divisibile non esiste e lo spazio – stanti le teorie della fisica quantistica – è tutt’altro che vuoto: chi scrive, insomma, è già parte dei “collettivi” (per dirlo con le parole del sociologo francese Bruno Latour), calato in un sistema d’intrecci tra umano e non umano; materia e discorso; natura e cultura. Più che di particelle, o atomi, dovremmo allora parlare di flussi, correnti nascoste, un sus-seguirsi incessante di narrazioni e materia, dove quei cocci di vetro vagheggiati all’inizio non restano immobili ai margini di una stra-da, ma iniziano anch’essi il loro racconto: una grafia dove, che ci piaccia o no, è invischiato anche l’essere umano. E, per quanto eccentrico possa apparire, riper-correre questi tragitti è forse uno dei modi per non sprofondare in una letale e supina acquiescenza.

le forme materiali e discorsive s’intrecciano in una rete di segni: una comunità di vere e proprie presenze espressive. Stanti tali considerazioni – canonizzate nel recente volume “Material Ecocriticism”, curato da Serenella Iovino e Serpill Opperman per l’Indiana Uni-versity Press – il testo, ovverosia l’opera letteraria, vede mutare la sua connotazione originaria, per situarsi in una collettività estesa, non più antropocentrica ma bio-centrica, dove le ‘cose’ e l’umano condividono la stessa forza cre-ativa: per quanto la parola (cioè il mezzo espressivo) continui a essere il punto di partenza, viene

Materieistoriateper un’ecocritica delle ‘cose’

di diego [email protected]

“All’Accademia del Savini ci sono due sedute al giorno, quando non tre: all’ora di colazione, al ‘vermouth’ e dopo la chiusura dei teatri”.L’atmosfera descritta da Sabatino Lopez, romanziere e critico tea-trale, si può rintracciare tutt’oggi soffermandosi al Cafè Bistrot Savi-ni, gioiello della restaurata Galleria Vittorio Emanuele II di Milano dove si affaccia l’elegante dehor. Ristorante, bistrot, boutique del cibo: oggi il locale, rilevato nel 2008 dalla famiglia Gatto, è una vera e propria impresa ma le sale ricche di marmi, affreschi, stucchi conservano un fascino senza tempo.Perchè “il Savini è Milano come lo sono la Galleria e la Scala” come ha scritto Carlo Castellaneta.Tutto inizia nel 1867 quando in Galleria viene aperta la Birreria Stocker, locale innovativo che

diviene uno dei punti di riferimen-to della Belle Epoque meneghina. Letterati, giornalisti e altri perso-naggi di rilievo frequentano le sue sale allietati da concerti e spettacoli con orchestra e ballerine.Virgilio Savini acquisisce il locale nel 1881 e lo trasforma con gusto e fantasia. Nel 1884 nasce il Savini, elegante mix di Caffè e Ristorante che, per la vicinanza al teatro Manzoni, diviene ben presto salotto principale dell’arte e della cultura tanto che Emilio Praga e gli “scapigliati” milanesi lo eleggono a loro “Parnaso”.Dagli inizi del ‘900 illustri personaggi del mondo delle Arti frequentano il Savini: Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini, Pietro

Mascagni, Arturo Toscanini, Eleonora Duse a Sacha Guitry. E poi ancora Arrigo Boito, Gabriele D’Annunzio, Giovanni Verga, Mosè Bianchi, Luigi Capuana, Emilio Praga. Tommaso Marinetti confidò a Remo Mannoni a proposito di un banchetto di cucina “futuri-sta” organizzato al Savini: “fu la nostra serata d’Ernani, anche se per l’occasione dovetti rinunciare al mio risotto giallo, indicibile

punta di diamante di un’astuzia gastronomica che lo stesso Montaigne c’invidiava”.Dopo la II guerra mon-diale negli anni ‘50 il Savini torna a splendere e l’elenco dei personag-gi che lo frequentano si allunga ulteriormente: Maria Callas, Luchi-no Visconti, Charlie Chaplin, Ranieri e

Grace di Monaco, Erich Maria Remarque, Lana Turner, Jean Ga-bin, Frank Sinatra, Ava Gardner, Carla Fracci, Henry Ford, Totò e Peppino de Filippo. Eugenio Montale ha così descritto la “magia” del Savini: “La passione per la perfezione arriva sempre troppo tardi, a volte, per certe im-prese non bastano cento anni, ma si manifesta sempre come passione per la poesia. In questo locale ho incontrato quella della cucina”.

di STeFano [email protected]

ecoletteratura

Caffè LetterarioLa Scaladel caffè

Page 14: Cultura Commestibile 122

9maggio

2015pag. 14

In occasione della 56. Espo-sizione Internazionale d’Ar-te – La Biennale di Venezia l’opera dell’eclettica artista Fatima Messana sarà esposta ne La Grande Bouffe, una collet-tiva all’interno della mostra Sweet Death curata dal critico e storico dell’arte Daniele Radini Tedeschi, nonché commissa-rio del Padiglione Nazionale Guatemala.Le sculture di Fatima Messana nascono dall’esigenza profonda di comunicare il disagio sociale e offrono spunti singolari di ri-flessione sulla nostra società. Le sue opere o creature, come lei ama definirle, di forte impatto visivo costruite in materiali di-versi che spaziano dai sintetici ai tessili, dai lignei agli organici di provenienza umana, espri-mono lo stupore che si trova ai limiti della denuncia comporta-mentale. L’iperrealismo delle sculture permette all’artista di stabilire un contatto diretto tra l’opera e il pubblico, ponendo così il suo messaggio, fortemente concet-tuale, quasi in conflitto con la forma. Questo destabilizza lo spettatore, obbligandolo di riflettere sul tema del malcostu-me e dell’ipocrisia del nostro tempo. Nonostante la diretta, a volte spietata, critica sociale, l’artista riesce a mantenere l’ironia, rendendo universale l’inter-pretazione del messaggio, che diventa più facilmente digeri-bile e accettabile. “È cosi che la storia umana diventa memoria che (si) rivela, e vivificandosi e trasfigurandosi crea un turbine in cui passato e futuro coesisto-no nel presente”.Alla Biennale Messana pre-senterà la scultura Testiculos qui non habet, Papa Esse non posset, 2014 una figura femmi-nile in abito papale. “Il titolo, tratto da ‘Prova di virilità’ di Francesco Sorrentino, riguar-da la vicenda legata al mito o alla leggenda della Papessa Giovanna che alla metà del IX secolo salì, tramite inganni e travestimenti, al soglio ponti-ficio con il nome di Giovanni VIII, ma rimasta incinta, venne smascherata e lapidata a morte.

L’opera raffigura la donna a capo della Chiesa, in forma statica e austera, priva di volto e quindi di identità. L’opera rappresenta una riflessione critica dell’artista toccando l’argomento molto attuale sulla posizione della donna nella società e la difficoltà che questa incontra all’accesso di incarichi del potere ancora oggi esclusivi per il genere maschile”. Fatima Messana è un’artista italiana di origine russa, nasce a Severodvinsk (Arkhangelsk Oblast – Russia) nel 1986. Si forma come scultrice all’Acca-demia di Belle Arti di Firenze. Nel 2013 è la vincitrice del X Premio Nazionale delle Arti – sezione Scultura. Espone a livello nazionale ed internazio-nale. Attualmente vive e lavora a Firenze.

di SPela [email protected]

aldo Frangioni presentaL’arte del riciclo di Paolo della Bella

ScottexL’Elogio della Wisteria floribunda è un’opera neo-liberty che il della Bella ci propone in questo suo lavoro gradevole e distensivo, realiz-zato in un mese di maggio, periodo della fioritura della pianta, in un periodo a noi ignoto, ma un’annata sicurante felice del nostro artista, il quale sa sfruttare al meglio le rare possibilità cromatiche concesse dai rotoli di carta da cucina.

Sculturaleggera

il mito dellaPapessa giovanna

19

Page 15: Cultura Commestibile 122

9maggio

2015pag. 15

in

giro

Peter ZadekTema con variazioniPeter Zadek, grande regista tedesco di teatro e cinema (Berlino 1926 – Amburgo 2009) aveva scelto di vivere a Lucca. La mostra a lui dedicata inaugura sabato 9 maggio alle ore 17, porta il titolo: “Sogno un teatro che dia coraggio: Peter Zadek a Lucca” prendendo spunto dall’epitaffio che si può leggere proprio sulla tomba del grande artista nel cimitero di Vecoli. Nell’occasione si terrà un concerto dell’Associazione Musicale Lucchese che ha voluto così omaggiare l’ar-tista. Il 15 maggio alle 15 al Teatro San Girolamo, si terrà inoltre una tavola ro-tonda nel corso della quale sarà anche presentato un volume edito dalla Maria Pacini Fazzi Editore di Lucca che contiene la traduzione in italiano di un’opera realizzata dall’Akademie der Künste di Berlino che raccoglie testimonianze sulla vita del regista. Ingresso libero fino al 2 giugno, sono: dal lunedì al venerdì ore 15,30-19,30; sabato, do-menica e festivi ore 10-12,30 e 15,30-19,30

In occasione della Giornata Aperta del 9 maggio alle ore 10, a Villa Salviati, sede degli Archivi Storici dell’Unione Europea, ospita le opere dei professori della Accademia delle Arti del Disegno. La splendida cornice della Villa, ricca di storia, cultura e bellezze paesaggisti-che, accoglie l’arte di maestri riconosciuti, che espongono opere scultoree e pittoriche nelle sale della Grotta e del giardino antistante la Villa. La mostra, che si terrà fino al 15 giugno, si svolge nell’ambito del concorso d’arte “Sorveglianza e De-mocrazia in Europa” rivolto agli studenti della Accademie di Belle Arti di Firenze e Carrara e organiz-zato dagli Archivi Storici dell’Unione Europea in partenariato con l’Accademia delle Arti del Disegno, che prevede l’installazione di una opera artistica nei giardini della Villa. Gli artisti che esporrano sono: Carlo Bertocci, Gianni Cacciarini, Rodolfo Ceccotti, Raul E. Domin-guez, Luigi Doni, Andrea Granchi, Daniele Lombardi, Valentino Moradei Gabbrielli, Carlo Pizzichini, Gianna Scoino, Vittorio Tolu

Page 16: Cultura Commestibile 122

9maggio

2015pag. 16

horror

vacuiDisegni di Pam

Testi di aldo Frangioni

Per Spinoza esiste una sola sostanza, Dio, di cui tutti gli esseri, compreso l’uomo, ne fanno parte.

Più o meno la pensa-va così anche Eistein,

Come si fa a spiegare un pensiero come questo a

Salvini all’Isis?

Page 17: Cultura Commestibile 122

9maggio

2015pag. 17

L

gabbie di ferro e gabbie di legno. Nei miei primi soggiorni californiani ho avuto qualche difficoltà per abituarmi alle strutture abitative in legno. Mi davano sempre l’impressione della fragilità e della poca durevolezza. Poi mi sono reso contro che l’alto rischio sismico della zona e la mobilità delle persone erano elementi da tenere in grande considerazione nel valutare questo tipo di scelte urbanistiche. Qui siamo

in una zona centrale della città, anche se ai nostri occhi abituati ai centri storici italiani potrebbe non sembrare così. Siamo di fronte ad una de-molizione su vasta scala per creare spazio per un nuovo Shopping Mall come se non fosse bastata la pletora di quelli già esistenti da un pezzo in questo grande territorio del West. L’altra immagine invece mi ha colpito per le sue geometrie e per quel senso di disagio che ho sempre provato di fronte a questa brutta abitudine degli umani di voler trasformare a tutti i costi gli animali in oggetti del proprio piacere quotidiano.

San Jose, California, 1973

Dall’archiviodi maurizio Berlincioni

[email protected]

ultimaimmagine